Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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Bologna:
Una Strage
Partigiana
Di Antonio Giangrande
INDICE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Credibilità.
L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.
Introduzione.
La strage di Bologna.
Le vittime.
Il Depistaggio Ideologico ed il Processo Mediatico.
Il Depistaggio Istituzionale.
Quale verità?
Una Strage Massonica?
Una Strage Fascista?
I Misteri irrisolti.
Ipotesi alternative sulla Strage di Bologna.
La pista palestinese.
La pista Libica.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La contemporaneità italiana raccontata ai posteri ed agli stranieri.
Se la Storia la scrivono i vincitori, ora tocca ai vinti raccontare quello che non si riporta dalla Cultura del pensiero unico ed imperante e dai Media ideologizzati asserviti al potere politico ed economico.
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.
Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.
Sono un guerriero e non ho paura di morire.
Non ho alcun potere. Ho provato a difendere gli indifesi quando praticavo nei Tribunali. Non guardavo in faccia nessuno per l’amor di verità e giustizia. Il risultato è che sono stato cacciato e perseguitato. Inoltre, coloro che difendevo mi hanno voltato le spalle. I politici a cui segnalavo le anomalie mi prendevano per pazzo o mitomane.
Purtroppo le controversie sono risolte dai magistrati nei processi con l’ausilio degli avvocati difensori.
I quesiti a cui dare risposta sono:
Ci sono magistrati degni di stima e rispetto, che applichino la legge secondo legalità ed equità?
Ci sono avvocati che spingono i magistrati a prendere le decisioni secondo giustizia?
Ci sono governanti e legislatori che ascoltano le preghiere dei cittadini, avendo potere d’intervento sui magistrati?
Cosa fa il “popolo” per cambiare le cose?
La risposta è che ognuno guarda i “cazzi” suoi”.
Allora la mia considerazione naturale è:
Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
«Il popolo è una puttana e va col maschio che vince» (Mussolini a proposito del sentimento filotedesco in Italia dopo i primi successi della Wermacht) (Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori)
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Cos’è la natura umana, lo stimolante confronto tra Chomsky e Foucault. Filippo La Porta su Il Riformista il 10 Luglio 2020. Ma esiste la “natura umana”, o qualcosa definibile in quanto tale sul quale basare la nostra azione politica? Ad esempio i valori della giustizia, dell’integrità, dell’amore per gli altri. Faccio un passo indietro. Come ognuno sa il repertorio illimitato che offre la Rete ha modificato la nostra insonnia, ci ha reso possibile, entro certi limiti, “usarla” (come occasione preziosa di conoscenza e apprendimento). Colpito da insonnia stagionale (calura estiva) nelle ultime notti ho navigato in Rete alla ricerca di argomenti sfiziosi, curiosità e lontane remininescenze. Non si pensi solo alla “cultura alta”: ad esempio ho rivisto i deliziosi monologhi televisivi di Walter Chiari, poi a un certo però mi sono imbattuto nel confronto, alla tv olandese, tra Noam Chomsky del Mit e Michel Foucault del Collège de France (1971) proprio sulla “natura umana” (ho successivamente scoperto che ne sono usciti due libretti, uno Derive/Approdi, l’altro Castelvecchi, infarciti di postfazioni). Ritengo che questo confronto sia straordinario, formativo, e un raro esempio di altissima drammaturgia filosofica. Cosa dicono i due grandi intellettuali?
Chomsky teorizza coerentemente la esistenza di una natura umana, che secondo lui consiste fondamentalmente – e in ciò risale a Cartesio (che definisce la mente come qualcosa che si contrappone al mondo fisico) – in una capacità creativa: si tratta di una facoltà che ogni bambino dimostra quando alle prese con una nuova situazione reagisce ad essa, la descrive, la pensa in modo nuovo, e che gli permette di apprendere la propria lingua madre rapidamente e senza impararne le regole. Una facoltà naturale, metastorica, che fonda il nostro agire politico contro ogni potere coercitivo (ed ad esempio le varie forme di disobbedienza civile): se questo bisogno di ricerca creativa (a partire dal linguaggio), di libera creazione, è un elemento della natura umana, un invariante biologico, allora una società più giusta dovrebbe permetterci di massimare la possibilità di realizzare tale caratteristica umana.
Foucault replica che invece tutto è prodotto della Storia, che nella nozione di natura umana c’è sempre qualcosa di regolativo, che quando la definiamo prendiamo in prestito elementi della nostra cultura e civiltà. Onestamente dà l’impressione di essere più sottile, più sofisticato del suo interlocutore, almeno fino a quando non cita come massima fonte autorevole Mao-Tse -Tung, che parlava di natura umana borghese e di natura umana proletaria. E aggiunge che il proletariato combatte la classe dirigente non perché lo ritiene giusto ma perché vuole prendere il potere (rivelando una antropologia alla Hobbes!). Non si mostra interessato a definire cos’è l’uomo (la sua “essenza”, definibile solo in termini metafisici) ma a capire cosa si può e si deve fare dell’uomo (in ciò singolarmente vicino a Sartre, con cui pure era spesso in polemica).
Cosa ricavarne? Non pretendo di trovare una soluzione e anzi lascio al lettore la libertà di trarne le sue conclusioni. Mi limito a osservare che in genere il buon senso (americano ed ebraico) di Chomsky me lo rende più simpatico: dice ad esempio che se il proletariato vincendo la sua battaglia creasse uno stato di polizia fondato sul Terrore allora lui vi si opporrebbe, appunto in nome di valori umani fondamentali, radicati nella nostra natura. Anche se vedo la problematicità della sua posizione: in fondo anche Hitler avrebbe potuto appellarsi alla “natura umana”, magari assumendo come sua prerogativa principale il bisogno di sicurezza! Inoltre: è anche vero che quel bisogno di creatività è un prodotto storico, nato dalla interazione sociale (tralascio la questione se davvero donne e uomini abbiano la “stessa” natura…). Provo allora a suggerire una terza posizione. A me sembra che la negazione integrale – foucaultiana – della natura umana abbia portato (si pensi all’oltranzismo di certe posizioni sul gender) alla insofferenza verso qualsiasi “limite”, alla cancellazione di ogni vincolo naturale, e dunque alla irrealtà. Per Proudhon la giustizia nasceva – in società – dal riconoscimento della dignità di ogni essere umano: «è il rispetto, spontaneamente provato e reciprocamente garantito, della dignità umana, in qualsiasi persona». Certo, questo riconoscimento è emerso a un certo punto della Storia umana, non prima, ma diventerà un punto di non ritorno. E può fondare qualsiasi tipo di resistenza al potere. In tal senso allora una azione politica potrebbe fondarsi non tanto sulla natura umana quanto su ciò che intendiamo valorizzare della natura umana (sempre contraddittoria, un poco “lunatica”, come osservò Orwell), però senza poterne prescindere.
Liberale=amante della libertà propria e rispetto di quella altrui. Secondo diritto naturale, non economico. Per esempio: i poveri non si sostengono economicamente, per farli rimanere tali, ma si aiutano a diventare ricchi, eliminando ogni ostacolo posto sulla loro strada da caste e lobbies.
In parole povere. Spiegazione con intercalare efficace: Fare i cazzi propri, senza rompere il cazzo agli altri.
Attenzione, pero, a nominare il termine “liberale” invano, perché i liberali non esistono.
Si spacciano come tali quelli come Berlusconi, ma sono solo lobbisti capitalisti. E molto hanno in comune con i comunisti, leghisti e fascisti e gli inconsistenti 5 stelle. Tutti fanno solo i cazzi loro, rompendo il cazzo agli altri.
Non c'è nessun però o nessun ma. Il diritto di aiutare è un gesto solidale. Ma l'aiuto non è per tutti. Cassa integrazione, indennità di disoccupazione, reddito di cittadinanza sono sostegni economici non per tutti. Quindi l'aiuto è tale solo se ricambiato. Il dovere di abbattere caste è lobbies per affermare l'equità è doveroso. Io voglio, se valgo, il posto degli incapaci che mi dicono cosa fare. Invece l'assuefazione al chiedere e l'abitudine a ricevere ha reso le masse proletarie parassitarie. I Poveri, anzichè battersi per i diritti, ora sono pronti a vendersi per gli oboli, diventando schiavi dei potentati gattopardiani.
Qual è la differenza tra equità e uguaglianza?
L’uguaglianza comporta che chi non si vuole sbattere, ottenga lo stesso di chi invece si fa il mazzo.
Equità significa che se uno per esempio fa carriera (e i soldi) e l’altro no, pur avendo frequentato entrambi la stessa scuola nelle stesse condizioni, quello rimasto al palo, dovrebbe biasimare solo sè stesso, perchè hanno avuto entrambi la stessa opportunità.
Mattia Biella, System Integrator, Tecnico di automazione(1995 -oggi) su it.quora.com. Ha Risposto il 12 dicembre 2018.
Eccone un’immagine interessante. Uguaglianza è quando tutti sono trattati allo stesso modo (figura a sinistra).
Da qph.fs.quoracdn.net
Non è detto che cambi qualcosa: a chi già poteva non cambia nulla, per chi non poteva non è detto che adesso possa. A destra invece l’equità: non è detto che tutti ricevano lo stesso, ma ciascuno riceve quello che gli serve. Uguaglianza significa avere tutti la stesa cosa, equità significa avere tutti le stesse opportunità. Mentre l’uguaglianza è facile da ottenere, l’equità comporta scelte da parte di chi deve fornire gli strumenti. Oltretutto, chi beneficia di eventuali aiuti vede una differenza magari marcata tra ciò che egli riceve e quello che riceve invece il suo vicino/amico/compagno, e scatta il tormentone perchè lui ne ha avuto di più? Equità però significa anche che se uno per esempio fa carriera (e i soldi) e l’altro no pur avendo frequentato entrambi la stessa scuola nelle stesse condizioni, quello rimasto al palo dovrebbe biasimare solo sè stesso perchè hanno avuto entrambi la stessa opportunità. L’uguaglianza comporta che chi non si vuole sbattere ottenga lo stesso di chi invece si fa il mazzo. Quindi chi non vuole sbattersi pensa chi me lo fa fare dato che poi comunque ho lo stesso ciò che mi serve? mentre quello che si sbatte pensa chi me lo fa fare se poi comunque non mi resta in mano nulla più di quelli che non si sbattono?. In realtà l’immagine completa comprenderebbe un terzo pannello, in cui la staccionata non c’è più ed è stata sostituita da una rete, e quella situazione rappresenta la situazione in cui gli ostacoli sono stati rimossi e tutti possono godere fin da subito delle stesse opportunità, ma va oltre la domanda posta.
Questa immagine rende meglio l’idea, credo. In questo caso è lampante come l’uguaglianza sia di fatto discriminante, anche se a molti sembra un paradosso.
Da qph.fs.quoracdn.net
Anche in questa immagine direi che la differenza è chiara.
Da qph.fs.quoracdn.net
Che governi l'uno, o che governi l'altro, nessuno di loro ti ha mai cambiato la vita e mai lo farà. Perchè? Sono tutti Comunisti e Statalisti. Sono sempre contro qualcuno. Li differenzia il motto: Dio, Patria e Famiglia...e i soldi.
Gli uni sono per il cristianesimo come culto di Stato. Gli altri sono senza Dio e senza Fede, avendo come unico credo l'ideologia, sono per l'ateismo partigiano: contro i simboli e le tradizioni cristiane e parteggiando per l'Islam.
Gli uni sono per la Patria e la difesa dei suoi confini. Gli altri sono senza Patria e, ritenendosi nullatenenti, sono senza terra e senza confini e, per gli effetti, favorevoli all'invasione delle terre altrui.
Gli uni sono per la famiglia naturale. Gli altri sono senza famiglia e contro le famiglie naturali, essendo loro stessi LGBTI. E per i Figli? Si tolgono alle famiglie naturali.
Gli uni sono ricchi o presunti tali e non vogliono dare soldi agli altri tutto ciò che sia frutto del proprio lavoro. Gli altri non hanno voglia di lavorare e vogliono vivere sulle spalle di chi lavora, facendosi mantenere, usando lo Stato e le sue leggi per sfruttare il lavoro altrui. Arrivando a considerare la pensione frutto di lavoro e quindi da derubare.
Alla fine, però, entrambi aborrano la Libertà altrui, difendendo a spada tratta solo l'uso e l'abuso della propria.
Per questo si sono inventati "Una Repubblica fondata sul Lavoro". Un nulla. Per valorizzazione un'utopia e una demagogia e legittimare l'esproprio della ricchezza altrui.
Ecco perchè nessuno si batterà mai per una Costituzione repubblicana fondata sulla "Libertà" di Essere e di Avere. Ed i coglioni Millennials, figli di una decennale disinformazione e propaganda ideologica e di perenne oscurantismo mediatico-culturale, sono il frutto di una involuzione sociale e culturale i cui effetti si manifestano con il reddito di cittadinanza, o altre forme di sussidi. I Millennials non si battono affinchè diventino ricchi con le loro capacità, ma gli basta sopravvivere da poveri.
La sinistra ha il buonismo ed il Politicamente Corretto su immigrazione ed LGBTI, la destra il proibizionismo ed il punizionismo moralista sul sesso e la droga. Il Giustizialismo per entrambi è per gli altri, il garantismo per se stessi.
Avvolti nella loro coltre di arroganza e presunzione, i Millennials, non si sono accorti che non sono più le Classi sociali o i Ceti ad affermare i loro diritti, ma sono le lobbies e le caste a gestire i propri interessi.
Nord e Sud ed i ladri e razzisti dentro. "Sbagliato dare gli stessi stipendi a Milano e Reggio Calabria" dice il sinistro Beppe Sala, sindaco di Milano. Dovrebbe sapere, lui, se fosse solo ignorante e non in malafede, che a parità di stipendio il maggiore costo della vita elevato al Nord va a pareggiare i maggiori costi dei diritti negati al Sud, a causa del ladrocinio padano dei Fondi nazionali e comunitari destinati al meridione. Da buoni comunisti (Padani) per loro vale il detto: “quello che è mio è mio; quello che è tuo è pure mio”.
La verità è che al Sud la vita costa di più. Angelo Bruscino, Imprenditore impegnato nella Green Economy, giornalista e scrittore, su Huffingtonpost.it il 13/07/2020. Caro sindaco di Milano, la verità è che al Sud la vita costa di più. Costa di più, perché abbiamo una pressione fiscale maggiore in cambio di servizi inesistenti. Costa di più, perché il tempo per aprire una impresa è il triplo che a Milano. Costa di più, perché la burocrazia è un costo occulto per cittadini e imprese. Costa di più, perché la nostra aspettativa di vita media è più bassa, ci ammaliamo di più e dobbiamo andare al Nord a farci curare, di tasca nostra. Costa di più, perché i processi sono infiniti. Costa di più, perché non abbiamo l’Alta velocità ma l’altra velocità. Costa di più, perché non abbiamo metrò, ma strade fatiscenti: andiamo al lavoro in auto, mica in Tav, con tutti i costi ambientali che ciò comporta. Costa di più, perché le scuole crollano, mancano gli asili e chi può manda i figli a studiare alla Bocconi a spese proprie. Costa di più, perché da Palermo a Messina o da Salerno a Reggio Calabria è una odissea. Costa di più, perché i prodotti che consumiamo vengono dal Nord, a eccezione di frutta, verdura e pesce, le uniche cose che costano di meno perché le produciamo! Dimenticando che i redditi degli impiegati pubblici servono proprio ad acquistare i beni del Nord, così che Lei possa dire: “Milano non si ferma”.
Patrimoni sconosciuti del Sud. La maggioranza dei comuni meridionali ignora i beni pubblici che amministra. Perché non censire le nostre risorse? La proposta per dare nuova vitalità al territorio e lavoro ai giovani. Piero Bevilacqua il 5 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Questi brevi suggerimenti nascono dalla necessità di fornire, in tempi il più possibile brevi, delle opportunità di lavoro ai tanti giovani, in gran parte laureati, spesso di ritorno nel Sud a causa della pandemia, perché trovino per lo meno ragioni di permanenza temporanea, suscettibile di sviluppi futuri. Io credo che la grandissima maggioranza dei comuni meridionali ignorino i patrimoni pubblici che pure amministrano (terreni, edifici e vari beni immobili, monumenti artistici, acque interne, risorse naturali, dotazioni ambientali e di biodiversità) per i quali i giovani laureati in scienze agrarie, in economia, in architettura, in giurisprudenza, in ingegneria, materie umanistiche, ecc potrebbero in breve tempo essere chiamati a compiere una ampia operazione di ricognizione e di censimento di comprensibile utilità. Pensiamo al lavoro per rendere noti i terreni potenzialmente disponibili ad uso agricolo. Naturalmente non tutti i comuni sono nelle stesse condizioni, ma assai spesso si tratta di fare emergere, soprattutto nelle campagne interne, tanto i fondi e i beni comunali, che quelli demaniali, gli usi civici, ma anche le terre private abbandonate. Ricordo che tale lavoro risulterebbe utile non solo ai fini propriamente agricoli, ma anche per individuare i siti, poco vocati all’agricoltura, o ad altro uso produttivo, in cui installare veri e propri centri di generazione di energia solare. Il territorio improduttivo ma che gode di prolungato irraggiamento, può essere utile anche a questo. Una operazione simile andrebbe condotta inoltre, per conto dei comuni e in collaborazione con gli istituti competenti, nei tanti paesi, borghi, cittadine in vie di spopolamento per avere un quadro del patrimonio abitativo in abbandono, dei beni artistici e monumentali spesso dimenticati, del loro stato di conservazione, dei tanti lasciti spesso preziosi di conventi, palazzi padronali, fontane, cisterne, canali, ponti, briglie idrauliche, e non solo. Moltissimi comuni del Sud avrebbero bisogno di conoscere lo stato dei loro suoli e corsi d’acqua di cui ci si ricorda quando esondano per qualche alluvione. Un tempo i grandi geografi italiani facevano il censimento delle frane dell’Appennino, oggi, con i tecnici comunali e provinciali che teoricamente dovrebbero sovraintendere alla loro sorveglianza, i giovani potrebbero offrire un di più di conoscenza diretta, per potere intervenire con piani preventivi di contenimento. È con le piccole opere diffuse e capillari che si evitano i grandi disastri. Si parla sempre e con asfissiante monotonia di ambiente, ma pochi sanno di che cosa realmente parlano. Eppure l’ambiente meridionale presenta grandi problemi e straordinarie potenzialità. Qualche esempio per atterrare dalla nuvola “ambiente” alla realtà. I nostri boschi sono spesso in condizioni di grave degrado. In tanti casi la macchia selvatica li rende impraticabili e talora arriva ad ucciderli. Io ho visto personalmente Monte Reventino, in Sila, migliaia di alberi soffocati dalla vitalba, un elegante parassita infestante, che si estende in alte liane per via aerea e con radici sotterranee. In Aspromonte si possono scorgere vaste pinete con le chiome degli alberi letteralmente coperte da nidi di processionarie che li stanno uccidendo o li hanno già uccisi. Solo alcuni esempi per indicare un immenso patrimonio naturalistico in pericolo che potrebbe peraltro conoscere forme di valorizzazione economiche incredibilmente trascurate. Noi importiamo legname pregiato da opera (castagni, noci e ciliegi) e non riusciamo a coltivarne le essenze neanche in habitat vantaggiosi. Senza dire che in queste terre d’altura non si fanno allevamenti di volatili e di piccoli animali, realizzabili con poca spesa. Mentre le acque interne (torrenti, piccoli laghi, stagni) raramente danno luogo ad attività di acquacoltura. Si parla spesso di biodiversità da tutelare. Sarebbe molto utile conoscerla e tanti giovani agronomi e laureati in scienze naturali potrebbero, ad esempio, essere impiegati, in cooperazione con gli esperti dei luoghi, a censire nei vari siti le erbe officinali di cui è ricca la flora meridionale. Erbe, oggi anche coltivate, che trovano impiego nella produzione di articoli di largo commercio, nell’alimentazione macrobiotica e nella cosmetica. Analogo censimento meriterebbe tanto il patrimonio della biodiversità che della varietà agricola (alberi e piante da orto), ignorato, possiamo dire, dall’intera popolazione meridionale, mai educata a conoscere la propria straordinaria eredità, storica e naturale. Esistono in alcune regioni, come la Calabria, dei tesori di varietà delle piante da frutto, e anche di vitigni antichi, sopravvissuti alla fillossera, che sono custoditi nei vivai o dispersi nei fondi privati, e che non conoscono da oltre mezzo secolo alcuna valorizzazione agricola. Naturalmente ci sarebbe anche altro da censire, nel loro stato attuale e nei loro bisogni di riparazione: dalle chiese rupestri, ai siti archeologici in abbandono, ai lidi marittimi colpiti da fenomeni di erosione, o gravemente inquinati da corsi d’acqua di cui si ignora l’origine. Ma di straordinario rilievo sarebbe anche indagare sui luoghi e presso le famiglie l’evasione scolastica dei ragazzi, talora il lavoro minorile dei nuovi poveri del Sud. Per il potenziamento della cultura al Sud, attraverso la costituzione di biblioteche popolari, e altri centri di formazione che cooperino con le scuole, occorrerebbe ovviamente una riflessione a parte. Qui si son voluti fare solo degli esempi e spetterebbe ai comuni, ai sindacati, agli stessi giovani, elaborare con impegno e creatività progetti capaci di soddisfare queste esigenze. Stimolare una nuova intelligenza pubblica dei beni comuni, naturali e storici, può aiutare molto, non solo a fornire nuova vitalità economica e sociale alle nostre aree interne, ma offrirebbe occupazione qualificata alle nuove generazioni. Tenendo sempre presente che di queste fanno parte, a pieno titolo, i migranti che fuggono da guerre, miseria e catastrofi climatiche.
No, i ricchi non diventano ricchi a spese dei poveri. La mentalità della "somma zero" che è alla base delle teorie socialiste è stata smentita dai fatti. Rainer Zitelmann, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Sono in molti a credere che i ricchi possano fare soldi solamente a spese di qualcun altro. Questa concezione del mondo viene anche detta mentalità «a somma zero», dal momento che i suoi seguaci sono convinti che nella vita economica, come in una partita di tennis, affinché un giocatore possa vincere è necessario che un altro debba perdere. Come scrisse Bertolt Brecht nella sua poesia Alfabeto, «Disse il povero, bianco in volto/ Se io non fossi un miserabile, tu non saresti ricco». Sebbene questo modo di pensare sia molto diffuso, è fondamentalmente sbagliato, come dimostrano gli incredibili avvenimenti in Cina negli ultimi quarant'anni. Nella storia, non è mai accaduto che un numero così grande di persone uscisse dalla più abietta povertà con la velocità che si è verificata in Cina. Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 1981 la percentuale dei cittadini cinesi che viveva in condizioni di estrema povertà era pari all'88,3% della popolazione. Di lì al 1990, questa percentuale si era ridotta al 66,2%, mentre nel 2015 solo lo 0,7% dei cinesi viveva nella miseria. In questo stesso periodo, il numero di cinesi poveri è calato da 878 milioni e meno di 10.
«LASCIATE CHE ALCUNI DIVENTINO RICCHI PRIMA DEGLI ALTRI». Il miracolo economico cinese è iniziato con le riforme di Deng Xiaoping. Fu Deng ad affermare «Lasciate che alcuni diventino ricchi prima degli altri». Nei decenni successivi, lo Stato cinese ha autorizzato la proprietà privata dei mezzi di produzione e ha permesso che il mercato esercitasse una maggiore influenza. A dispetto del fatto che altre libertà (la libertà politica, ad esempio) non sono rispettate e che la presa dello Stato sull'economia cinese è ancora ferrea, dai tempi di Mao Zedong il suo ruolo si è sostanzialmente ridotto. Inoltre, sotto Deng sono state create in tutta la Cina delle «Zone economiche speciali» a regime capitalista. Quando regnava Mao, in Cina non esisteva nessun miliardario: nel 2010, grazie alle riforme di Deng, i miliardari cinesi erano diventati 64. Oggi, in Cina vi sono 324 miliardari, per non parlare dei 71 che vivono a Hong Kong. Nessun paese al mondo, con l'eccezione degli Stati Uniti, ha altrettanti miliardari della Cina. Se la concezione della somma zero fosse corretta, questo sarebbe impossibile. Ma la mentalità a somma zero è sbagliata: l'impressionante riduzione della povertà e l'altrettanto impressionante aumento del numero di miliardari che si è prodotto contestualmente sono due facce della stessa medaglia. In generale, i ricchi non diventano tali perché prendono ai poveri, ma perché creano grandi benefici per gli altri. Jack Ma è l'uomo più ricco della Cina, con una fortuna di 38,8 miliardi di dollari. È diventato così ricco perché ha fondato Alibaba e altre aziende di successo, che soddisfano i bisogni di centinaia di milioni di suoi concittadini.
I RICCHI CREANO BENEFICI PER LA SOCIETÀ NEL SUO COMPLESSO. Una rapida occhiata alla classifica dei miliardari di tutto il mondo stilata da Forbes permette di constatare che quasi tutti sono diventati ricchi come imprenditori, oppure perché hanno fatto crescere e migliorare le aziende fondate dai loro genitori. La gran parte dei dieci uomini più ricchi del mondo è rappresentata da imprenditori che si sono fatti da sé. Jeff Bezos, il primo della lista, con un patrimonio stimato di 113 miliardi di dollari, è diventato ricco in modo simile a quello di Jack Ma, ossia tramite l'e-commerce. Bill Gates, al secondo posto in ordine di ricchezza (dopo avere occupato per lungo tempo il vertice della classifica), non ha accumulato i suoi miliardi sottraendoli ai poveri, ma offrendo qualcosa al mondo. E con questo non intendo alludere ai miliardi donati dalla Fondazione di Bill Gates alle più svariate cause filantropiche, bensì al software, come i programmi inclusi in Microsoft Office, utilizzati ogni giorno da innumerevoli utenti. Larry Ellison, al quinto posto nella lista di Forbes, ha costruito la propria ricchezza sul suo software per i database per la gestione delle relazioni delle aziende con i clienti. Al settimo posto c'è invece Mark Zuckerberg, che ha sviluppato l'idea alla base di Facebook, che oggi ha 2,5 miliardi di utenti in tutto il modo. Larry Page e Sergey Brin, rispettivamente al tredicesimo e al quattordicesimo posto della classifica, sono diventati ricchi per aver sviluppato il motore di ricerca di maggior successo del pianeta, ossia Google.
LA MENTALITÀ DELLA SOMMA ZERO DANNEGGIA LE PERSONE E LA SOCIETÀ. Il concetto di somma zero non è solo sbagliato, ma ha anche ripercussioni negative su tutti i suoi seguaci e sulla società nel suo complesso. Gli psicologi hanno osservato che l'idea di somma zero rappresenta una delle principali fonti di invidia. Chiunque sia convinto che l'unico modo per arricchirsi sia quello di agire a spese degli altri sarà naturalmente portato a invidiare i ricchi e a provare risentimento per la loro prosperità. La mentalità a somma zero è inoltre alla base di quelle teorie socialiste che hanno prodotto indicibili sofferenze per l'umanità negli ultimi cento anni e passa. Bertolt Brecht, l'autore della poesia che ho citato poc'anzi, non era solo un poeta, era anche un comunista che adorava Iosif Stalin. Chiunque creda che sia possibile arricchirsi solo a spese degli altri ha creato un ostacolo al proprio successo. Persone oneste convinte che i ricchi siano tutti dei mascalzoni non si sforzeranno mai di migliorare il proprio stato. La fede nella somma zero opera come una barriera psicologica inconscia alla creazione di ricchezza e le persone prive di scrupoli morali che pensano in termini di somma zero possono addirittura indirizzarsi alla criminalità. In tutto il mondo, le prigioni sono piene di gente che credeva di potersi arricchire solo a spese degli altri. I fatti, come dimostra l'esempio delle vicende economiche cinesi, ci raccontano una storia completamente diversa. I più grandi successi economici arrivano quando si capisce che, anziché danneggiare la società, tutti traggono vantaggi quando qualcuno si arricchisce - anche enormemente - per le sue attività imprenditoriali.
Qualcuno la notizia la dà, la maggior parte dei giornalisti la fa. Io le notizie le cerco e le raccolgo, senza metter bocca. Sarà poi il lettore a estrapolarne la verità.
Imparare ad imparare. Ci ho messo anni a capire l’importanza del significato di questa frase. L’arroganza e la presunzione giovanile dapprima me lo ha impedito. Condita da una buona dose di conformismo. Poi con il passare del tempo è arrivata la saggezza.
Capire di dover capire significa non muoversi a casaccio, senza una meta, senza un fine, senza un programma. Capire di dover capire significa chiedersi che senso ha ogni passo che ci indicano di compiere e che compiamo, ogni prova che superiamo, ogni giorno che spendiamo insieme a delle persone. Quante volte approcciamo un problema con la reale convinzione di risolverlo con indicazioni di altri, senza chiederci se davvero esiste una strada differente per arrivare ad una conclusione sensata.
Ecco, capire di dover capire. Non muoversi a caso, per sentito dire, parlando con le persone sbagliate, non valutando attentamente ogni passo che si deve compiere. Per fare questo dobbiamo essere pronti ad “imparare ad imparare” ovvero lasciare da parte nozioni acquisite e preconcetti e ad aprirci al nuovo.
Imparare ad imparare significa creare un percorso.
Serve leggere libri? Se la risposta è positiva dobbiamo adottare un metodo per selezionare quali libri leggere perché la mole dei libri in circolazione è tale che non potremmo reggere il passo, ne, tantomeno, compararne logica e verità.
Come era ieri, è oggi e sarà domani.
Libro di Qoelet. Prologo:
Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità.
Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?
Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa.
Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà.
Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna.
Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro mèta, i fiumi riprendono la loro marcia.
Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire.
Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole.
C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità»? Proprio questa è gia stata nei secoli che ci hanno preceduto.
Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito.
Art. 104, comma 1, della Costituzione italiana cattocomunista.
La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. (.)
La magistratura per la destra è un Ordine (come acclarato palesemente), per la sinistra è un Potere (da loro dedotto dalla distinzione "da ogni altro potere").
Autonomia dei Magistrati: autogoverno con selezione e formazione per l’omologazione, nomine per la conformità e controllo interno per l’impunità. Affinchè, cane non mangi cane.
Indipendenza dei Magistrati: decisioni secondo equità e legalità, cioè secondo scienza e coscienza. Ossia: si decide come cazzo pare, tanto il collega conferma.
Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.
Il nuovo comunistambientalismo combatte una battaglia retrograda, coinvolgendo le menti vergini degli studenti che assimilano tutto quanto la scuola di regime gli propini.
L'intento è quello di far regredire una civiltà secolare, sviluppata con conquiste sociali ed economiche.
Il progresso tecnologico ed industriale irrinunciabile è basato sullo sfruttamento delle risorse. Le auto per spostarci, il benessere con gli elettrodomestici e le forme di comunicazione.
Il progresso tecnologico ed industriale ha prodotto benessere, con lavoro e sviluppo sociale, con parificazione dei censi.
Il Benessere ha fatto proliferare l’umanità.
L'uguaglianza sociale ha portato allo sviluppo sociale con svago e divertimento con il turismo e lo sfruttamento dell'ambiente.
Per gli ambiental-qualunquisti o populisti ambientali il progresso va cancellato. La popolazione mondiale ridimensionata.
Si torna alla demografia latente e gli spostamenti a piedi, nemmeno a cavallo, perchè gli animali producono biogas. Oltretutto, per questo motivo, non si possono allevare gli animali. La nuova religione è il veganismo.
Si comunicherà con le nuvole di fumo. E si torna nelle grotte dove fa fresco l'estate e ci si sta caldi e riparati d'inverno.
Inoltre bisogna che la foresta ed i boschi invadano la terra. Pari passo a pale eoliche e campi estesi di pannelli solari. La natura e l’energia alternativa al primo posto, agli animali (all'uomo per ultimo) quel che resta. Vuoi mettere la difesa di un nido di uccello palustre, rispetto alla creazione di posti di lavoro con un villaggio turistico eco-sostenibile sulla costa? E poi il business delle rinnovabili come si farà?
Come sempre i massimalisti dell'ecologia non mediano: o è bianco o è nero. Per loro è inconcepibile l'equilibrio tra progresso e rispetto della natura e degli affari.
Avv. Mirko Giangrande:
Produci? Tasse!
Lavori? Tasse!
Compri? Tasse!
Vendi? Tasse!
Studi? Tasse!
Inventi? Tasse!
Erediti? Tasse!
Muori? Tasse!
Non fai nulla? Sussidio!!!
Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.
L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.
Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.
Noi non siamo poveri. Ci vogliono poveri. Non siamo in democrazia. Siamo in oligarchia politica ed economica.
Perchè i regimi cosiddetti democratici ci vogliono poveri? Per incentivare lo schiavismo psicologico che crea il potere di assoggettamento. Nessun regime capitalistico o socialista agevola il progresso economico delle classi più abbienti e numerose, che nelle cosiddette democrazie rappresentative sono indispensabili alla creazione ed al mantenimento del Potere.
Il Regime capitalista è in mano a caste e lobby che pongono limiti e divieti al libero accesso ed esercizio di professioni ed imprese.
Il regime socialista è in mano all'élite politica che pone limiti alla ricchezza personale.
Tutti i regimi, per la loro sopravvivenza, aborrano la democrazia diretta e l'economia diretta. Infondono il culto della rappresentanza politica e della mediazione economica. Agevolano familismo, nepotismo e raccomandazioni.
Muhammad Yunus, l’economista bengalese settantottenne, Nobel per la pace nel 2006, che con l’invenzione del microcredito in 41 anni ha cambiato l’esistenza di milioni di poveri portandoli a una vita dignitosa, non ha avuto esitazioni, giovedì 17 maggio 2018 all’Auditorium del grattacielo di Intesa San Paolo a Torino, nell’indicare la via possibile verso l’impossibile: eliminare la povertà. E contestualmente la disoccupazione e l’inquinamento. Come riferisce Mauro Fresco su Vocetempo.it il 24 maggio 2018, tutto il sistema economico capitalistico, nell’analisi di Yunus, deve essere riformato. A partire dall’educazione e dall’istruzione, immaginate per plasmare persone che ambiscono a un buon lavoro, a essere appetibili sul mercato; ma l’uomo non deve essere educato per lavorare, per vendere se stesso e i propri servizi, deve essere formato alla vita; l’uomo non deve cercare lavoro, ma creare lavoro, senza danneggiare altri uomini e l’ambiente. Perché ci sono i poveri, si domanda Yunus, perché la gente rimane povera? Non sono gli individui che vogliono essere poveri, è il sistema che genera poveri. Ci stiamo avviando al disastro, sociale e ambientale: oggi, otto persone possiedono la ricchezza di un miliardo di individui, questi scenari porteranno, prima o poi, a uno scenario violento: dobbiamo evitarlo. La civiltà è basata sull’ingordigia. Dobbiamo invece mettere in atto la transizione verso la società dell’empatia.
Yunus ha dimostrato, con il microcredito prima e con la Grameen Bank poi, che quella che a economisti e banchieri sembrava un’utopia irrealizzabile è invece un’alternativa concreta, che dal Bangladesh si è via via allargata a più di 100 Paesi, Stati Uniti ed Europa compresi. Con ironia, considerando la sede che lo ospitava, Yunus ha ricordato che, quando qualcuno gli ribadiva che un progetto non era fattibile, «studiavo come si sarebbe comportata una banca e facevo esattamente il contrario». Fantasia, capacità di rischiare e, soprattutto, conoscenza e fiducia nell’umanità, in particolare nelle donne, sono i segreti che hanno permesso di dar vita a migliaia di attività imprenditoriali, ospedali, centrali fotovoltaiche, sempre partendo dal basso e da progettualità diffuse. L’impresa sociale, che ha come obiettivo coprire i costi e reinvestire tutti profitti senza distribuire dividendi, sostiene Yunus, è l’alternativa possibile e molto concreta per vincere «la sfida dei tre zeri: un futuro senza povertà, disoccupazione e inquinamento», titolo anche del suo ultimo lavoro pubblicato da Feltrinelli. L’impresa sociale può permettersi di produrre a prezzi molto più bassi, non ha bisogno di marketing pervasivo, campagne pubblicitarie continue, packaging attraente per invogliare il consumatore. Così anche le "verdure brutte", quel 30 per cento di produzione agricola che l’Europa butta perché di forma ritenuta non consona per essere proposta al consumatore – «la carota storta, la patata gibbosa, la zucchina biforcuta una volta tagliate non sono più brutte» ha ricordato sorridendo Yunus – possono essere utilizzate da un’impresa sociale e messe in vendita per essere cucinate e mangiate.
«Il reddito di cittadinanza per tutti? È questo che intendiamo per dignità della persona? Ai poveri dobbiamo permettere un lavoro dignitoso, la carità non basta».
Il premio Nobel Yunus: "Il reddito di cittadinanza rende più poveri e nega la dignità umana". Scrive il HuffPost il 13 maggio 2018. L'economista ideatore del microcredito intervistato dalla Stampa: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo e senza creatività". "Il reddito di cittadinanza rende più poveri, non è utile a chi è povero e a nessun altro, è una tipica idea di assistenzialismo occidentale e nega la dignità umana". Parola di Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese che ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2006 per aver ideato e creato la "banca dei poveri". In un'intervista a La Stampa, l'inventore del microcredito boccia tout court il caposaldo del programma M5S: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo, ne cancellano la vitalità e il potere creativo".
Secondo Yunus l'Europa ha un grande limite. "L'Asia avrebbe bisogno di molte cose che in Europa ci sono e ci sono da tanto tempo, ma trovo che da voi ci sia un pensiero unico che limita gli slanci. Mi spiego meglio: le società europee sono ossessionate dal lavoro, tutti devono trovare un lavoro, nessuno deve rimanere senza lavoro, le istituzioni si devono preoccupare che i cittadini lavorino... Invece in Asia la famiglia è il luogo più importante e non c'è questo pensiero fisso del lavoro: esiste una sorta di mercato informale, in cui gli uomini esercitano loro stessi come persone. Penso che la lezione positiva che viene dall'Asia sia quella di ridisegnare il sistema finanziario attuale, privilegiando la dignità delle persone e il valore del loro tempo".
Durissimo il giudizio sul reddito di cittadinanza. "è la negazione dell'essere umano, della sua funzionalità, della vitalità, del potere creativo. L'uomo è chiamato a esplorare, a cercare opportunità, sono queste che vanno create, non i salari sganciati dalla produzione, che per definizione fanno dell'uomo un essere improduttivo, un povero vero".
Noi abbiamo una Costituzione comunista immodificabile con democrazia rappresentativa ad economia capitalista-comunista e non liberale.
I veri liberali adottano l'economia diretta con la libera impresa e professione. Lasciano fare al mercato con la libera creazione del lavoro e la preminenza dei migliori.
I veri democratici adottano la democrazia diretta per il loro rappresentanti esecutivi, legislativi e giudiziari, e non quella mediata, come la democrazia rappresentativa ad elevato astensionismo elettorale, in mano ad un élite politica e mediatica.
Ci vogliono poveri e pure fiscalmente incu…neati.
Quanto pesa il cuneo fiscale sui salari in Italia? E in Europa? Nell'ultimo anno la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà, scrive l'Agi.
Che cos’è il cuneo fiscale e quanto pesa in Italia. Il cuneo fiscale – in inglese Tax wedge – è definito dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) come «il rapporto tra l’ammontare delle tasse pagate da un singolo lavoratore medio (una persona single con guadagni nella media e senza figli) e il corrispondente costo totale del lavoro per il datore».
Nella definizione dell’Ocse sono comprese oltre alle tasse in senso stretto anche i contributi previdenziali. Quindi se per un datore il costo del lavoratore è pari a 100, il cuneo fiscale rappresenta la porzione di quel costo che non va nelle tasche del dipendente ma nelle casse dello Stato. Nel caso dei contributi, i soldi raccolti dallo Stato vengono poi restituiti al lavoratore sotto forma di pensione (ma, come spiega l’Inps, nel nostro sistema “a ripartizione” sono i lavoratori attualmente in attività a pagare le pensioni che vengono oggi erogate: non è che il pensionato incassi quanto lui stesso ha versato nel corso della propria vita, come se avesse un conto personale e separato presso l’Inps).
Secondo il più recente rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 – pubblicato l’11 aprile 2019 – nel 2018 in Italia la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà. Ma come siamo messi in Europa da questo punto di vista?
La situazione in Europa. Il rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 contiene anche una classifica dei suoi Stati membri, in base al peso del cuneo fiscale. Andiamo a vedere come si posizionano l’Italia e il resto degli Stati Ue presenti in classifica. Roma arriva terza, con il 47,9 per cento. Davanti ha il Belgio, primo in classifica con un cuneo fiscale (e contributivo) pari al 52,7 per cento, e la Germania con il 49,5 per cento. Subito sotto al podio si trova la Francia, con il 47,6 per cento, appaiata con l’Austria. Seguono poi Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia, Lettonia e Finlandia. Gli altri Stati comunitari grandi e medio-grandi sono nettamente più in basso in classifica: la Spagna è sedicesima nella Ue con il 39,6 per cento, la Polonia ventesima con il 35,8 per cento, e il Regno Unito ventitreesimo con il 30,9 per cento. Londra è poi, dei Paesi Ue che sono anche membri dell’Ocse, quello con il cuneo fiscale minore.
Altri Paesi Ocse. In fondo alla classifica dell’Ocse non troviamo nessuno Stato dell’Unione europea. La percentuale più bassa è infatti attribuita al Cile, appena il 7 per cento di cuneo fiscale. Davanti, staccati, arrivano poi Nuova Zelanda (18,4) e Messico (19,7). Degli Stati europei, ma non Ue, quello con la percentuale più bassa è la Svizzera, con un cuneo fiscale del 22,2 per cento. Gli Stati Uniti, infine, hanno un cuneo pari al 29,6 per cento. La media Ocse è del 36,1 per cento.
Conclusione. In Italia il cuneo fiscale è pari al 47,9 per cento. Questa è la terza percentuale più alta tra i Paesi dell’Ocse. Davanti a Roma si trovano solamente Berlino e Bruxelles.
E la chiamano Democrazia…
"In fila per tre", dall'album "Burattino senza fili" di Edoardo Bennato. Testo
Presto vieni qui ma su non fare così
ma non li vedi quanti altri bambini
che sono tutti come te
che stanno in fila per tre
che sono bravi e che non piangono mai...
E' il primo giorno però domani ti abituerai
e ti sembrerà una cosa normale
fare la fila per tre, risponder sempre di sì
e comportarti da persona civile...
Vi insegnerò la morale e a recitar le preghiere
e ad amare la patria e la bandiera
noi siamo un popolo di eroi e di grandi inventori
e discendiamo dagli antichi romani...
E questa stufa che c'è basta appena per me
perciò smettetela di protestare
e non fate rumore e quando arriva il direttore
tutti in piedi e battete le mani...
Sei già abbastanza grande
sei già abbastanza forte
ora farò di te un vero uomo
ti insegnerò a sparare, ti insegnerò l'onore
ti insegnerò ad ammazzare i cattivi...
E sempre in fila per tre marciate tutti con me
e ricordatevi i libri di storia
noi siamo i buoni perciò abbiamo sempre ragione
e andiamo dritti verso la gloria...
Ora sei un uomo e devi cooperare
mettiti in fila senza protestare
e se fai il bravo ti faremo avere
un posto fisso e la promozione...
E poi ricordati che devi conservare
l'integrità del nucleo famigliare
firma il contratto non farti pregare
se vuoi far parte delle persone serie...
Ora che sei padrone delle tue azioni
ora che sai prendere le decisioni
ora che sei in grado di fare le tue scelte
ed hai davanti a te tutte le strade aperte...
Prendi la strada giusta e non sgarrare
se no poi te ne facciamo pentire
mettiti in fila e non ti allarmare
perché ognuno avrà la sua giusta razione...
A qualche cosa devi pur rinunciare
in cambio di tutta la libertà che ti abbiamo fatto avere
perciò adesso non recriminare
mettiti in fila e torna a lavorare...
E se proprio non trovi niente da fare
non fare la vittima se ti devi sacrificare
perché in nome del progresso della nazione
in fondo in fondo puoi sempre emigrare...
Scandalo è l’inciampo che capita ma solo quando viene scoperto. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. Prendiamoci un momento di riflessione, allontaniamo l’oggetto che stiamo osservando, per coglierne meglio il profilo e la struttura, facciamo professione di umiltà, evitando di dare per acquisito e scontato il significato di parole che maneggiamo con tanta superficialità e leggerezza. Oggi conviene fermarsi un momento a ragionare su «scandalo». Parola di apparente semplicità, scandalo offre una genealogia chiara, dal padre latino scandălum, al nonno greco skandalon, nel significato di ostacolo, insidia, inciampo. Ai nostri occhi il significato si è affinato, concentrandosi sull’azione immorale o illegale che crea un turbamento, aggravato se i protagonisti sono personaggi noti. La prima considerazione su questa parola è senz’altro legata al turbamento che provoca. Questo infatti è essenziale, ma si manifesta solo quando la malefatta in questione viene conosciuta. Rubare è un reato per la legge, un’azione riprovevole per la morale, un peccato per i credenti. Ma diventa uno scandalo solo se ti scoprono. Comprensibile quindi che questo particolare «inciampo» sia protagonista di innumerevoli modi di dire, a cominciare da «essere la pietra dello scandalo», nel senso di essere il primo a dare cattivo esempio; «dare scandalo», essere protagonisti di atteggiamenti riprovevoli (vedete come torna l’aspetto pubblico); «essere motivo di scandalo», come sopra; «gridare allo scandalo», alzare i commenti additando un comportamento che si condanna. Esiste poi l’uso della parola come espressione di riprovazione e sdegno: per cui quel film o quel libro che si reputano particolarmente brutti o offensivi, ai nostri occhi sono «uno scandalo». L’aspetto pubblico dello scandalo l’ha legato da sempre alla notorietà dei protagonisti (dal pettegolezzo agli aspetti più seri) e a quel mondo di illegalità legato alla politica, alla gestione (o mala gestione) della cosa pubblica che ci riguarda tutti. È il caso delle inchieste sulle tangenti pagate a politici e amministratori infedeli rispetto al loro mandato e ai processi che ne sono scaturiti. Scandali che hanno preso i nomi più diversi: il più noto è Tangentopoli, termine coniato a Milano nel 1992 per descrivere un diffuso sistema di corruzione. Ora se Tangentopoli è una parola arditamente composta col suffissoide -poli per indicare la «città delle tangenti» l’uso giornalistico successivo è tutto da ridere: in parole come sanitopoli o calciopoli il suffissoide -poli non significa più «città» ma semplicemente «corruzione». Abbiamo visto come scandalo si porti dietro, dal momento della sua rivelazione, un condiviso moto di sdegno. Ma i motivi che spingono l’opinione pubblica a sdegnarsi non sono affatto sempre gli stessi. Cambiano i costumi, cambia (per fortuna, in molti casi) la morale, cambiano i motivi che la disturbano. Cambia la percezione stessa dei comportamenti che danno scandalo. Per esempio, il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò all’unanimità che il Presidente Richard Nixon non aveva l’autorità per trattenere i nastri della Casa Bianca sullo scandalo Watergate e gli intimò di consegnarli al procuratore speciale che indagava sul caso. Quei nastri dimostrarono che Richard Nixon aveva mentito, circostanza considerata intollerabile per l’opinione pubblica americana e che portarono il Presidente degli Stati Uniti a dimettersi il 9 agosto successivo.
A discrezione del giudice. Ordine e disordine: una prospettiva "quantistica". Libro di Roberto Bin edizione 2014 pp. 114, Franco Angeli Editore. Ci può essere una teoria dell’interpretazione giuridica che riduca la discrezionalità dei giudici? Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l’inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Questo libro, rivolto agli operatori del diritto e a tutti i lettori colti, suggerisce un’altra strada.
Presentazione del volume. La discrezionalità del giudice nell'applicazione delle leggi è un problema noto a tutti i sistemi moderni, specie ora che i giudici si trovano ogni giorno ad applicare direttamente principi tratti dalla Costituzione e persino da altri ordinamenti. Sempre più spesso le valutazioni del giudice sembrano prive di briglie, libere di svolgersi secondo convinzioni personali, piuttosto che nell'alveo dei criteri fissati dal legislatore. Ogni sistema giuridico ha il suo metodo per scegliere e istituire i giudici, ma in nessun sistema è ammesso che essi operino in piena libertà, liberi di creare diritto a loro piacimento. Il legislatore è l'unica autorità che può vantare una piena legittimazione democratica, per cui ogni esercizio di potere pubblico che non si leghi saldamente alle sue indicazioni appare arbitrario e inaccettabile. Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l'inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Ma la fisica quantistica ci suggerisce di procedere per altra via, di inseguire altri obiettivi e di accettare una visione diversa della verità oggettiva.
Roberto Bin si è formato nell'Università di Trieste e ha insegnato in quella di Macerata. Attualmente è ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. È autore di alcuni fortunati manuali universitari e di diversi libri e saggi scientifici.
Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare li ci sono loro: i sinistri.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Toglierli ai genitori naturali e legittimi è criminale.
Il Civil Law, ossia il nostro Diritto, è l’evoluzione dell’intelletto umano ed ha radici antiche, a differenza del Common Law dei paesi anglosassoni fondato sull’orientamento politico momentaneo.
Il Diritto Romano, e la sua evoluzione, che noi applichiamo nei nostri tribunali contemporanei non è di destra, né di centro, né di sinistra. L’odierno diritto, ancora oggi, non prende come esempio l’ideologia socialfasciocomunista, né l’ideologia liberale. Esso non prende spunto dall’Islam o dal Cristianesimo o qualunque altra confessione religiosa.
Il nostro Diritto è Neutro.
Il nostro Diritto si affida, ove non previsto, al comportamento esemplare del buon padre di famiglia.
E un Buon Padre di Famiglia non vorrebbe mai che si uccidesse un suo figlio: eppure si promuove l’aborto.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe avere dei nipoti, eppure si incoraggia l’omosessualità.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe difendere l’inviolabilità della sua famiglia, della sua casa e delle sue proprietà, eppure si agevola l’invasione dei clandestini.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe che la Legge venisse interpretata ed applicata per soli fini di Giustizia ed Equità e non per vendetta, per interesse privato o per scopi politici.
Mi spiace. Io sono un evoluto Buon Padre di Famiglia.
L'Astensionismo al voto ed i fessi e gli indefessi della sinistra: La Democrazia è cosa mia...
Maledetta ideologia comunista. Con tutti i problemi che attanagliano l'Italia, i sinistri, ben sapendo che nessun italiano più li voterà, pensano bene di farci invadere per raggranellare dai clandestini i voti che, aggiunti a quelle delle altre minoranze LGBTI, gli permettono di mantenere il potere.
I berlusconiani e la cosiddetta Destra, poi, per ammaliare l'altra sponda elettorale, scimmiottano rimedi che nulla cambiano in questa Italia che è tutta da cambiare. Da vent'anni denuncio quelle anomalie del sistema, che in questi giorni escono fuori con gli scandali riportati dalle notizie stampa. Tutte quelle mafie insite nel sistema.
Si fa presto a dire liberali, dove liberali non ce ne sono. Se ci fossero cambierebbero le cose in modo radicale, partendo dalla Costituzione Catto comunista, fondata sul Lavoro e non sulla Libertà. Libertà, appunto, bandiera dei liberali.
Nei momenti emergenziali in tutti gli altri Paesi v'è un intento comune, anche se solo in apparenza. Politica e media accomunati da un interesse supremo. Invece, in Italia, ci sono sempre i distinguo, usati dall'estero contro noi stessi per danneggiarci sull'export, dando un'immagine distorta e denigratoria. Così come fanno i polentoni italiani rispetto al Sud Italia, disinformazione attuata dai media nordisti e dai giornalisti masochisti e rinnegati meridionali. In una famiglia normale si è sempre solidali nei momenti del bisogno e traspare sempre un'apparente unità. Solo in Italia i Caini hanno la loro rilevanza mediatica, facendoci apparire all'estero come macchiette da deridere ed oltraggiare.
Gli italiani voltagabbana. Al tempo del fascismo: tutti fascisti. Dopo la guerra: tutti antifascisti.
Prima di Tangentopoli: tutti democristiani e Socialisti. Dopo Mani Pulite: tutti comunisti.
E il perché lo ha spiegato cinquecentosei anni fa Niccolò Machiavelli in un passaggio del Principe: «El populo, vedendo non poter resistere a' grandi, volta la reputazione ad uno, e lo fa principe, per essere con la sua autorità difeso». Ecco quello che vogliono gli italiani. Vogliono qualcuno che li salvi, che li assista, che li difenda. Ed al contempo il popolo italiano ha l' attitudine a diffidare del Governo, a non parlarne mai bene, e tuttavia ad affidarsene, non avendo la forza di fare da sé, e di aspettarsi che il governo si occupi di ogni cosa e risolva ogni cosa. Si buttano immancabilmente a obbedire - questa è di Giuseppe Prezzolini - al prestigio personale e alle capacità di interessare sentimentalmente o materialmente la folla. E come si erano incapricciati, così si annoiano e poi si imbestialiscono, perché infine nessuno è capace di salvargliela la pelle. Lo diceva il più bravo di tutti: l'adulatore sarà il calunniatore.
In questo momento è bene ricordare la teoria politica di Cicerone (106 a.C.43)
1 il povero lavora
2 il ricco sfrutta il povero
3 il soldato li difende tutti e due
4 il contribuente paga per tutti e tre
5 il vagabondo si riposa per tutti e quattro
6 l’ubriacone beve per tutti e cinque
7 il banchiere li imbroglia tutti e sei
8 l’avvocato li inganna tutti e sette
9 il medico li accoppa tutti e otto
10 il becchino li sotterra tutti e nove
11 il politico campa alle spalle di tutti e dieci.
Il grande filosofo e uomo politico romano con la sua sagacia e ironia ha in poche ma efficaci parole, riassunto l’opinione che molti oggi hanno della politica.
E nel caso la teoria politica non fosse sua, allora la faccio mia.
Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.
Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.
L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao
Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.
«È un paese così diviso l’Italia, così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la torre di Giotto o la torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò, lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo.» — Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio
I fratelli coltelli del Socialismo:
I Comunisti-Stalinisti per l’apologia dello statalismo extraterritoriale (mondialismo);
I Fascisti-Leninisti-Marxisti come classisti-nazionalisti (sovranismo).
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.
Nella sua canzone "La razza in estinzione" (2001), l'artista italiano Giorgio Gaber (Milano, 1939 - Montemagno di Camaiore, 2003) critica tutto e tutti e afferma: "la mia generazione ha perso".
La Razza In Estinzione testo Album: La Mia Generazione Ha Perso.
Non mi piace la finta allegria
non sopporto neanche le cene in compagnia
e coi giovani sono intransigente
di certe mode, canzoni e trasgressioni
non me ne frega niente.
E sono anche un po' annoiato
da chi ci fa la morale
ed esalta come sacra la vita coniugale
e poi ci sono i gay che han tutte le ragioni
ma io non riesco a tollerare
le loro esibizioni.
Non mi piace chi è troppo solidale
e fa il professionista del sociale
ma chi specula su chi è malato
su disabili, tossici e anziani
è un vero criminale.
Ma non vedo più nessuno che s'incazza
fra tutti gli assuefatti della nuova razza
e chi si inventa un bel partito
per il nostro bene
sembra proprio destinato
a diventare un buffone.
Ma forse sono io che faccio parte
di una razza
in estinzione.
La mia generazione ha visto
le strade, le piazze gremite
di gente appassionata
sicura di ridare un senso alla propria vita
ma ormai son tutte cose del secolo scorso
la mia generazione ha perso.
Non mi piace la troppa informazione
odio anche i giornali e la televisione
la cultura per le masse è un'idiozia
la fila coi panini davanti ai musei
mi fa malinconia.
E la tecnologia ci porterà lontano
ma non c'è più nessuno che sappia l'italiano
c'è di buono che la scuola
si aggiorna con urgenza
e con tutti i nuovi quiz
ci garantisce l'ignoranza.
Non mi piace nessuna ideologia
non faccio neanche il tifo per la democrazia
di gente che ha da dire ce n'è tanta
la qualità non è richiesta
è il numero che conta.
E anche il mio paese mi piace sempre meno
non credo più all'ingegno del popolo italiano
dove ogni intellettuale fa opinione
ma se lo guardi bene
è il solito coglione.
Ma forse sono io che faccio parte
di una razza
in estinzione.
La mia generazione ha visto
migliaia di ragazzi pronti a tutto
che stavano cercando
magari con un po' di presunzione
di cambiare il mondo
possiamo raccontarlo ai figli
senza alcun rimorso
ma la mia generazione ha perso.
Non mi piace il mercato globale
che è il paradiso di ogni multinazionale
e un domani state pur tranquilli
ci saranno sempre più poveri e più ricchi
ma tutti più imbecilli.
E immagino un futuro
senza alcun rimedio
una specie di massa
senza più un individuo
e vedo il nostro stato
che è pavido e impotente
è sempre più allo sfascio
e non gliene frega niente
e vedo anche una Chiesa
che incalza più che mai
io vorrei che sprofondasse
con tutti i Papi e i Giubilei.
Ma questa è un'astrazione
è un'idea di chi appartiene
a una razza
in estinzione.
Classifica popoli più ignoranti al mondo, Italia prima in Europa, scrive Alessandro Cipolla sumoney.it il 23 Agosto 2018. Secondo l’annuale classifica di IPSOS Mori sull’ignoranza dei popoli, l’Italia risulta essere la dodicesima al mondo e la prima in Europa. Continuano a non sorridere le classifiche all’Italia. Dopo quella sulla corruzione redatta da Transparency International che ci vede al 54° posto (tra le peggiori in Europa), anche sul tema dell’ignoranza il Bel Paese occupa una posizione poco onorevole. Ma veramente gli italiani sono un popolo di ignoranti? La storia in teoria ci insegnerebbe il contrario, ma ogni anno la classifica stilata da IPSOS Mori ci vede ai primi posti di questa speciale graduatoria che si basa sulla distorta percezione della realtà che ci circonda.
Italia nazione più ignorante d’Europa. Ogni anno IPSOS Mori, importante azienda inglese di analisi e ricerca di mercato, stila puntualmente una classifica su quelli che sarebbero i popoli più ignoranti al mondo chiamata “Perils of Perception”, letteralmente “Pericoli della Percezione”. L’indagine si basa su delle interviste a campione a 11.000 persone per ogni nazione, alle quali vengono sottoposte delle domande su delle statistiche comuni che riguardano il proprio paese. Per esempio nella ricerca del 2017, l’ultima pubblicata, veniva chiesto se gli omicidi nel proprio paese fossero aumentati o diminuiti rispetto al 2000. Oppure se gli attacchi terroristi siano aumentati dopo l’11 Settembre o quanta gente soffra di diabete. In base al grado di errore nel dare le risposte, IPSOS Mori stila la sua classifica che nel 2014 ci vedeva come il popolo più ignorante al mondo. In quella del 2017 invece l’Italia è al dodicesimo posto, prima tra le nazioni europee.
Una percezione distorta della realtà. Leggendo la classifica e guardando i criteri di indagine, si capisce che non si deve confondere il termine “ignorante” con poco istruito o analfabeta, ma invece che ignora la realtà che lo circonda. Il termine “misperceptions” infatti con cui viene presentata la classifica generale significa “percezione erronea”. Gli italiani quindi secondo IPSOS Mori non conoscono a sufficienza quello che realmente accade nel proprio paese. Prendiamo a esempio la domanda sugli omicidi che rispetto al 2000 sono diminuiti in Italia del 39%. Per il 49% degli intervistati invece il numero sarebbe aumentato, per il 35% sarebbe lo stesso mentre solo l’8% ha risposto in maniera giusta. Non è un caso che, stando ai numeri forniti dal Viminale a ferragosto, i reati nel nostro paese sono in diminuzione così come gli sbarchi degli immigrati, ma al contrario la percezione di insicurezza e l’idea della “invasione” prendono sempre più piede tra gli italiani. Nell’epoca delle fake news gli italiani quindi sembrerebbero conoscere sempre meno cosa succede nel proprio paese, una situazione che poco si addice a un popolo che con la sua intelligenza ha avuto un ruolo fondamentale nella storia del mondo. Mala tempora currunt.
Bisogna studiare.
Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.
Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.
Bisogna sapere il vero e non il falso.
Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.
Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.
Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).
Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!
Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.
E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.
Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.
Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.
LE IDEOLOGIE ANTIUOMO.
SOCIALISMO:
Lavoro ed assistenzialismo, ambiente, libertà sessuale e globalizzazione sono i miti dei comunisti. Moralizzatori sempre col ditino puntato
Dio, Patria e Famiglia sono i miti dei fascisti. Oppressori.
Sovranismo e populismo sono i miti dei leghisti.
Assistenzialismo, populismo e complottismo sono i miti dei 5 stelle.
LIBERALISMO (LIBERISMO):
Egoismo e sopraffazione sono i miti dei liberali.
ECCLESISMO:
Il culto di Dio e della sua religione è il mito degli ecclesiastici.
MONARCHISMO:
Il culto del Sovrano.
Nessuna di queste ideologie è fattrice rivoluzionaria con l'ideale della Libertà, dell'Equità e della Giustizia.
Per il Socialismo le norme non bastano mai per renderti infernale la vita, indegna di essere vissuta.
Per il Liberalismo occorrono poche norme anticoncorrenziali per foraggiare e creare l'elìte.
Per Dio bastano 10 regole per essere un buon padre di famiglia.
Per il sovrano basta la sua volontà per regolare la vita dei sottoposti.
Noi, come essere umani, dovremmo essere regolati dal diritto naturale: Libertà, Equità e Giustizia.
Liberi di fare quel che si vuole su se stessi e sulla propria proprietà.
Liberi di realizzare le aspettative secondo i propri meriti e capacità.
Liberi di rispettare e far rispettare leggi chiare che si contano su due mani: i 10 comandamenti o similari. Il deviante viene allontanato.
Il Papa: per eliminare la fame nel mondo non bastano gli slogan. Francesco ha inaugurato il Consiglio dei governatori del Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo a Roma (Ifad) e incontra una delegazione di popolazioni indigene, scrive il 14/02/2019 Iacopo Scaramazzi su La Stampa. Il Papa ha caldeggiato lo «sviluppo rurale» per combattere la fame e la povertà, sottolineando la necessità di «garantire che ogni persona e ogni comunità possano utilizzare le proprie capacità un modo pieno, vivendo così una vita umana degna di tale nome», e facendo appello affinché i popoli e le comunità siano «responsabili della proprio produzione e del proprio progresso» poiché «quando un popolo si abitua alla dipendenza, non si sviluppa».
Questo vale per tutte quelle categorie di lavoratori che protestano per avere aiuti e sostegno anticoncorrenziale che porta al demerito improduttivo. E vale anche per i meridionali d’Italia. Insistere nel pretendere aiuto e non far nulla per migliorarsi.
L’assistenzialismo socialista ha prodotto gli statali, che dalla loro privilegiata posizione improduttiva, impongono stili di vita utopistici e demagogici. Questi dipendenti pubblici, spesso scolastici o sanitari, da capipopolo, fomentano le masse per inibire l’industrializzazione sostenibile e lo sviluppo turistico tollerabile, che portano sviluppo economico e sociale, in nome di un fantomatico ecologismo talebano, per poi costringer le masse ideologizzate, paradossalmente, ad essere costrette ad emigrare in posti altamente inquinati, o a villeggiare in posti meno allettanti.
Papa Francesco: "È il lavoro a dare speranza, non l'assistenzialismo", scrive il 15 giugno 2018 La Repubblica. "La speranza in un futuro migliore passa sempre dalla propria attività e intraprendenza, quindi dal proprio lavoro, e mai solamente dai mezzi materiali di cui si dispone. Non vi è alcuna sicurezza economica, né alcuna forma di assistenzialismo, che possa assicurare pienezza di vita e realizzazione". Lo ha detto papa Francesco nell'udienza con i Maestri del Lavoro. "Non si può essere felici - ha aggiunto Bergoglio - senza la possibilità di offrire il proprio contributo, piccolo o grande, alla costruzione del bene comune". Per questo "una società che non si basi sul lavoro, che non lo promuova, e che poco si interessi a chi ne è escluso, si condannerebbe all'atrofia e al moltiplicarsi delle disuguaglianze". Mentre la società che cerca di mettere a frutto le potenzialità di ciascuno è quella che "respirerà davvero a pieni polmoni, e potrà superare gli ostacoli più grandi, attingendo a un capitale umano pressoché inesauribile, e mettendo ognuno in grado di farsi artefice del proprio destino".
La dittatura dell’ignoranza. «Uno uguale uno» significa annullare la competenza. E si finisce come in Venezuela..., scrive Francesco Alberoni, Domenica 10/02/2019 su Il Giornale. L'altra sera ho assistito ad un dibattito televisivo che mi ha molto impressionato. Non dirò dove l’ho visto, ma sarebbe potuto avvenire su qualunque rete. Erano presenti quattro persone, due grandi giornalisti esperti di economia e due donne (ma potevano essere due uomini) che non ne sapevano niente, assolutamente niente. Il risultato è stato che le persone che non sapevano niente sono riuscite a surclassare, rendere muti, quelli che sapevano. In che modo? Gridando le loro stupidaggini come verità incontrovertibili e scartando tutte le obiezioni serie con un gesto di rifiuto. Poi citavano fatti inesistenti, cifre inventate, con la sicurezza dogmatica che solo l’ignorante fanatico può avere. Ripetevano slogan detti dai loro capi, luoghi comuni che circolano su internet dove ciascuno racconta le frottole che vuole. Ed ho pensato che il popolo da solo non può governarsi perché da solo finisce in balia di demagoghi spregiudicati, di fanatici, talvolta di squilibrati e viene istupidito con menzogne, false notizie. Come è successo col comunismo, col nazismo e col fascismo. Mi viene in mente il fascismo quando il Duce chiedeva: «Volete burro o cannoni?» e la gente rispondeva ottusamente «Cannoni» o, alla domanda «Volete la vita comoda?» rispondeva «No!». Ed è successo lo stesso quando la folla gridava «Barabba» al posto di Gesù Cristo, o quella che applaudiva quando ghigliottinavano Lavoisier, il padre della chimica moderna. Il popolo ha bisogno di gente che sa, di studiosi, di giornalisti, di politici esperti che insegnano a ragionare e garantiscono una informazione corretta. Allora il popolo può decidere liberamente. Ma non può farlo quando viene informato da gente che non sa, che mente. Pericle aveva saggiamente evitato la guerra con Sparta, ma dopo la sua morte, il popolo ateniese seguì gli esaltati che la scatenarono e Atene fu sconfitta. Noi oggi in Italia non siamo in una situazione diversa. Si è diffusa l’idea che «uno è uguale a uno» cioè che abbia lo stesso valore l’idea del più ignorante rispetto a chi sa. E si è prodotta una confusione mentale pericolosa. Sono le situazioni in cui i Paesi prendono strade folli, e vanno in malora come è successo in Venezuela.
Oltretutto in tv o sui giornali non si fa informazione o cultura, ma solo comizi propagandistici ideologici.
Se questi son giornalisti...
Io, senza alcun Potere di intervento, non posso dare aspettative. Tantomeno non posso smuovere le acque con i fari mediatici, che a me mancano.
Io non sono un giornalista, che si deve attenere alla verità, attinenza e continenza ed all’interesse pubblico. Ergo, non posso e non voglio pubblicare inediti, pur potendo pubblicare le stesse denunce penali o altri atti pubblici pubblicabili. Non è la prima volta che il beneficiario, ingrato, si è rivoltato contro ed ha chiesto l’anonimato, o con minacce, il ritiro del pubblicato per paura di ritorsioni a lui rivolte.
Come sociologo, al fine di studio o di discussione, per critica storica o per inchiesta, posso approfondire e comparare un caso ad altri casi già trattati, per elevarli ad anomalia del sistema. Questi casi, con me, hanno una notorietà che ad essi in origine manca e comunque creo un precedente utile a tutti.
In questo caso i soggetti originali non possono impedirne la pubblicazione, né il pubblicato può essere da loro ritirato.
In conclusione posso dire che non vi è alcun legame con le parti e la pubblicazione, credibile, attendibile, affidabile ed incontestabile, avviene per amor di Verità.
E’ una cautela legale e di opportunità al fine di tutelarmi dai mitomani e dai potenti.
In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.
La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.
La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.
A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.
Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti.
Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri.
Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica. Per gli effetti ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza. All’uopo ho scritto decine di libri con centinaia di pagine cadauno, basandomi su testimonianze e documenti credibili ed attendibili, rispettando il diritto al contraddittorio, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di migliaia di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere, pubblicizzati, riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati da terzi in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.
Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
La dottrina e la giurisprudenza interpretano tassativamente, restrittivamente e non analogicamente tale articolo, al pari delle altre fattispecie di libere utilizzazioni. Ciò non toglie che la norma possa essere interpretata estensivamente (in tal senso dottrina e giurisprudenza sono sostanzialmente unanime).
Secondo il parere dell'Avv. Giovanni D'Ammassa, su Dirittodautore.it, limiti individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiane alla facoltà di citazione ex art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sono i seguenti:
la sussistenza della finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica;
l’opera critica deve avere fini del tutto autonomi e distinti da quelli dell’opera citata, e non deve essere succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate. La ricorrenza dello scopo di critica non è pregiudicata dal fatto che la citazione sia fatta nella realizzazione di un’opera immessa sul mercato a pagamento;
l’utilizzazione dell’opera deve essere solo parziale e mai integrale, deve avvenire nell’ambito delle finalità tassativamente indicate e nella misura giustificata da tali finalità;
l’utilizzazione non deve essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti, non deve avere un rilievo economico tale da poter pregiudicare gli interessi patrimoniali dell’autore o dei suoi aventi causa. A questo proposito va ricordato che il concetto di concorrenza espresso dall’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore è ben più ampio e diverso dal concetto di concorrenza sleale espresso dall’art. 2598 cod. civ.: l’assenza dell’elemento della concorrenza è condizione perché possa parlarsi di libera utilizzazione dell’opera. Una recente dottrina sostiene che bisogna avere riguardo esclusivamente alla portata della utilizzazione in relazione alla sua capacità di incidere sulla vita economica dell’opera originale; da ciò la valorizzazione dell’assenza di concorrenza dell’opera citante con i diritti di utilizzazione economica sull’opera citata, in modo da consentire anche citazioni integrali dell’opera dell’ingegno purché non si pongano in concorrenza con i diritti di utilizzazione economica dell’opera;
devono essere effettuate le menzioni d’uso (indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione, del nome dell’autore e dell’editore);
infine si sostiene che l’interpretazione di tale articolo deve tenere conto anche del progresso tecnologico. È indubbio che l’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sia applicabile anche in caso di messa a disposizione online delle opere.
Secondo l'Avv. Alessandro Monteleone, su Altalex.com, tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Potrebbe ad esempio costituire concorrenza alla utilizzazione economica la riproduzione che, ancorché parziale, svii i potenziali acquirenti dall’acquistare l’originale perché avente ad oggetto le parti di maggiore interesse. Interessante è la pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2007 n° 149: Con l’espressione "a fini di lucro" contenuta nella fattispecie criminosa di cui all’art. 171 ter della legge sul diritto d’autore (L. 633/41) deve intendersi "un fine di guadagno economicamente apprezzabile o di incremento patrimoniale da parte dell’autore del fatto, che non può identificarsi con un qualsiasi vantaggio di altro genere; né l’incremento patrimoniale può identificarsi con il mero risparmio di spesa derivante dall’uso di copie non autorizzate di programmi o altre opere dell’ingegno, al di fuori dello svolgimento di un’attività economica da parte dell’autore del fatto, anche se di diversa natura, che connoti l’abuso". Lo ha precisato la Sezione Terza penale della Cassazione, con la sentenza n. 149 del 9 gennaio 2007, estensibile all'art. 70.
Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.
Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.
Giornali online senza licenza: indagato manager di Data Stampa. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Virginia Picollillo. Violazione del diritto d’autore: è l’accusa contestata a Massimo Scambelluri, il presidente del Consiglio di amministrazione di “Data Stampa”, società che vende la rassegna stampa quotidiana per clienti privati e istituzionali. La procura di Roma aveva aperto un’inchiesta dopo la denuncia di alcuni quotidiani che lamentavano di non aver mai dato il consenso e dunque senza aver concesso la licenza di utilizzo, vendita e diffusione dei contenuti protetti da copyright . La Guardia di Finanza ha verificato come la società ogni giorno dia ai propri clienti 21 quotidiani, italiani e internazionali, consentendo l’accesso con l’utilizzo di password rilasciate dalla stessa “Data Stampa” sia alla versione cartacea, sia facendo scaricare le pagine in formato pdf. Sul sito della società è specificato che tra i clienti ci sono la presidenza della Repubblica, il Senato e la Camera, il Csm, la Banca d’Italia, l’Agenzia delle entrate, la Polizia di Stato, il ministero dell’Interno, l’Arma e la Rai. Istituzione che pagano un abbonamento all’azienda ed è proprio questo ad aver convinto alcuni gruppi editoriali e testate - tra cui La Stampa, la Repubblica e il Messaggero - a presentare la denuncia. Data Stampa ha anche un contenzioso civile con la Fieg, la federazione editori di giornali, proprio per le rassegne stampa.
Da Data Stampa: DIRITTO D’AUTORE NON APPLICABILE ALLE RASSEGNE STAMPA. Il 12 giugno 2019, con sentenza n. 3931/2019, la Corte d’Appello di Roma, rigettando l’appello di Fieg e Promopress contro la sentenza n. 816/2017 del 18 gennaio 2017, ha legittimato l’attività svolta da Data Stampa fin dal 1981. La richiesta di Fieg era di inibire l’attività dei rassegnatori, chiedendo loro inoltre un risarcimento danni per l’uso che i rassegnatori fanno dei loro articoli, ritenendo che anche alle rassegne stampa dovesse essere applicato il principio del diritto d’autore. La Corte d’Appello di Roma, pronunciandosi in favore di Data Stampa, ha confermato “con forza” il principio della libera riproducibilità degli articoli di giornale nelle rassegne stampa. Ora le aspettative di Data Stampa sono riposte nel Parlamento, che potrebbe regolare la materia nell’ambito del riordino del settore dell’editoria affidato agli Stati Generali, il termine dei cui lavori è previsto intorno alla metà del prossimo mese di ottobre. Una vittoria che, dopo il successo ottenuto due anni e mezzo fa da Data Stampa nel primo grado di giudizio, ci spinge a guardare al futuro con rinnovata fiducia, nella ferma convinzione che la libertà d’impresa e d’informazione vada difesa sempre, contro ogni azione arbitraria posta in essere al di fuori di un quadro normativo certo. La posizione di Data Stampa al riguardo, giova ricordarlo, è sempre rimasta immutata: Data Stampa auspica che venga approvato un quadro normativo fatto di regole certe e rispettose delle legittime esigenze di tutti gli operatori del settore, e non imposte unilateralmente.
“ Orbene la ratio dell’art 65 è quella di accrescere la circolazione dell’informazione, come si risulta evidente:
Dalla natura degli scritti di cui la norma consente la riproduzione (gli articoli di attualità, appunto che hanno eminente valore informativo)
Dalla natura del mezzo di riproduzione (giornali, riviste o strumenti di radiodiffusione che ancora una volta hanno finalità essenzialmente informative).
Così stando le cose non può essere allora negata la possibilità di riprodurre anche nelle rassegne stampa gli articoli di attualità, giacchè anche alle rassegne stampa deve essere riconosciuta una finalità sicura finalità informativa, anche se diretta a volte e soddisfare interessi di particolari categorie di soggetti, informazione questa tuttavia non per ciò solo meno meritevole di tutela costituzionale. In definitiva, l’art. 65 va interpretato in base al canone di interpretazione estensiva fondato sulla ratio della norma, nel senso che esso al di là delle espresse previsioni letterali, ben può includere, tra gli strumenti informativi su cui si possono liberamente riprodursi gli articoli di giornale, anche la rassegna stampa…”
Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.
Mi vogliono censurare su Google.
Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.
Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.
Ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza.
Io sono un giurista ed un giornalista d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.
Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.
Quando parlo di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.
Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.
Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».
Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.
Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o dipressreader.com.
Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa su su articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news.
Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.
Che cosa significa "Stampa non periodica"?
Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).
Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.
Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.
NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".
Io sono il segnalatore di illeciti (whistleblower) più ignorato ed oltre modo più perseguitato e vittima di ritorsioni del mondo. Ciononostante non mi batto per la mia tutela, in quanto sarebbe inutile dato la coglionaggine o la corruzione imperante, ma lotto affinchè gli altri segnalatori, che imperterriti si battono esclusivamente ed inanemente per la loro bandiera, non siano tacciati di mitomania o pazzia. Dimostro al mondo che le segnalazioni sono tanto fondate, quanto ignorate od impunite, data la diffusa correità o ignoranza o codardia.
Segnalatore di illeciti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il segnalatore o segnalante di illeciti, anche detto segnalatore o segnalante di reati o irregolarità (termine reso a volte anche con la parola anglosassone e specificatamente dell'inglese americano whistleblower) è un individuo che denuncia pubblicamente o riferisce alle autorità attività illecite o fraudolente all'interno del governo, di un'organizzazione pubblica o privata o di un'azienda. Le rivelazioni o denunce possono essere di varia natura: violazione di una legge o regolamento, minaccia di un interesse pubblico come in caso di corruzione e frode, gravi e specifiche situazioni di pericolo per la salute e la sicurezza pubblica. Tali soggetti possono denunciare le condotte illecite o pericoli di cui sono venuti a conoscenza all'interno dell'organizzazione stessa, all'autorità giudiziaria o renderle pubbliche attraverso i media o le associazioni ed enti che si occupano dei problemi in questione. Spesso i segnalatori di illeciti, soprattutto a causa dell'attuale carenza normativa, spinti da elevati valori di moralità e altruismo, si espongono singolarmente a ritorsioni, rivalse, azioni vessatorie, da parte dell'istituzione o azienda destinataria della segnalazione o singoli soggetti ovvero organizzazioni responsabili e oggetto delle accuse, venendo sanzionati disciplinarmente, licenziati o minacciati fisicamente.
La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). In inglese viene invece utilizzata la parola whistleblower, che deriva dalla frase to blow the whistle, letteralmente «soffiare il fischietto», riferita all'azione dell'arbitro nel segnalare un fallo o a quella di un poliziotto che tenta di fermare un'azione illegale. Il termine è in uso almeno dal 1958, quando apparve nel Mansfield News-Journal (Ohio). L'origine dell'espressione whistleblowing è tuttavia ad oggi incerta, sebbene alcuni ritengano che la parola si riferisca alla pratica dei poliziotti inglesi di soffiare nel loro fischietto nel momento in cui avessero notato la commissione di un crimine, in modo da allertare altri poliziotti e, in modo più generico, la collettività. Altri ritengono che si richiami al fallo fischiato dall'arbitro durante una partita sportiva. In entrambi i casi, l'obiettivo è quello di fermare un'azione e richiamare l'attenzione. La locuzione «gola profonda» deriva da quella inglese Deep Throat che indicava l'informatore segreto che con le sue rivelazioni alla stampa diede origine allo scandalo Watergate.
Definizione. Il segnalatore di illeciti è quel soggetto che, solitamente nel corso della propria attività lavorativa, scopre e denuncia fatti che causano o possono in potenza causare danno all'ente pubblico o privato in cui lavora o ai soggetti che con questo si relazionano (tra cui ad esempio consumatori, clienti, azionisti). Spesso è solo grazie all'attività di chi denuncia illeciti che risulta possibile prevenire pericoli, come quelli legati alla salute o alle truffe, e informare così i potenziali soggetti a rischio prima che si verifichi il danno effettivo. Un gesto che, se opportunamente tutelato, è in grado di favorire una libera comunicazione all'interno dell’organizzazione in cui il segnalatore di illeciti lavora e conseguentemente una maggiore partecipazione al suo progresso e un'implementazione del sistema di controllo interno. La maggior parte dei segnalatori di illeciti sono "interni" e rivelano l'illecito a un proprio collega o a un superiore all'interno dell'azienda o organizzazione. È interessante esaminare in quali circostanze generalmente un segnalatore di illeciti decide di agire per porre fine a un comportamento illegale. C'è ragione di credere che gli individui sono più portati ad agire se appoggiati da un sistema che garantisce loro una totale riservatezza.
La tutela giuridica nel mondo. La protezione riservata ai segnalatori di illeciti varia da paese a paese e può dipendere dalle modalità e dai canali utilizzati per le segnalazioni.
Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Nell'introdurre un nuovo art. 54-bis al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si è infatti stabilito che, esclusi i casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile italiano, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria italiana o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Inoltre, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Si è tuttavia precisato che, qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato, con conseguente indebolimento della tutela dell'anonimato. L'eventuale adozione di misure discriminatorie deve essere segnalata al Dipartimento della funzione pubblica per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le discriminazioni stesse sono state poste in essere. Infine, si è stabilito che la denuncia è sottratta all'accesso previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241; tali disposizioni pongono inoltre delicate problematiche con riferimento all'applicazione del codice in materia di protezione dei dati personali. Nel 2014 ulteriori rafforzamenti della posizione del segnalatore di illeciti sono stati discussi con iniziative parlamentari, nella XVII legislatura. In ordine alla possibilità di incentivarne ulteriormente l'emersione con premi, l'ordine del giorno G/1582/83/1 - proposto in commissione referente del Senato - è stato accolto come raccomandazione; invece, è stato dichiarato improponibile l'emendamento che, tra l'altro, puniva con una contravvenzione chi ne rivelasse l'identità. Nel 2016 la Camera dei deputati, nell'approvare la proposta di legge n. 3365-1751-3433-A, «ha scelto, tra l'altro, la tecnica della "novella" del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» per introdurre una disciplina di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro. Il testo pende al Senato come disegno di legge n. 2208 Il decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 90 afferma che - a decorrere dal 4 luglio 2017, data di entrata in vigore del predetto decreto - i soggetti destinatari della disposizioni ivi contenute (tra i quali intermediari finanziari iscritti all'Albo Unico, società di leasing, società di factoring, ma anche dottori commercialisti, notai e avvocati) sono obbligati a dotarsi di un sistema di segnalazione di illeciti, l'istituto di derivazione anglosassone per le segnalazioni interne di violazioni.
Stati Uniti d'America. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.
Non si è colti, nè ignoranti: si è nozionisti, ossia: superficiali.
Nozionista è chi studia o si informa, o, più spesso, chi insegna o informa gli altri in modo nozionistico.
Nozionista è:
chi non approfondisce e rielabora criticamente la massa di informazioni e notizie cercate o ricevute;
chi si ferma alla semplice lettura di un tweet da 280 caratteri su twitter o da un post su Facebook condiviso da pseudoamici;
chi restringe la sua lettura alla sola copertina di un libro;
chi ascolta le opinioni degli invitati nei talk show radio-televisivi partigiani;
chi si limita a guardare il titolo di una notizia riportata su un sito di un organo di informazione.
Quel mondo dell'informazione che si arroga il diritto esclusivo ad informare in virtù di un'annotazione in un albo fascista. Informazione ufficiale che si basa su news partigiane in ossequio alla linea editoriale, screditando le altre fonti avverse accusandole di fake news.
Informazione o Cultura di Regime, foraggiata da Politica e Finanza.
Opinion leaders che divulgano fake news ed omettono le notizie. Ossia praticano: disinformazione, censura ed omertà.
Nozionista è chi si abbevera esclusivamente da mass media ed opinion leaders e da questi viene influenzato e plasmato.
Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere.
"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".
Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.
La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.
Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.
La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”
A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.
A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.
A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.
A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.
A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.
Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.
Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.
Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.
Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.
Il Diritto di Citazione e la Censura dei giornalisti. Il Commento di Antonio Giangrande.
Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri. Su uno di questi “L’Italia dei Misteri” di centinaia di pagine, veniva riportato, con citazione dell’autore e senza manipolazione e commenti, l’articolo del giornalista Francesco Amicone, collaboratore de “Il Giornale” e direttore di Tempi. Articolo di un paio di pagine che parlava del Mostro di Firenze ed inserito in una più ampia discussione in contraddittorio. L’Amicone, pur riconoscendo che non vi era plagio, criticava l’uso del copia incolla dell’opera altrui. Per questo motivo ha chiesto ed ottenuto la sospensione dell’account dello scrittore Antonio Giangrande su Amazon, su Lulu e su Google libri. L’intero account con centinai di libri non interessati alla vicenda. Google ed Amazon, dopo aver verificato la contronotifica hanno ripristinato la pubblicazione dei libri, compreso il libro oggetto di contestazione, del quale era stata l’opera citata e contestata. Lulu, invece, ha confermato la sospensione.
L’autore ed editore Antonio Giangrande si avvale del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
Nei libri di Antonio Giangrande, per il rispetto della pluralità delle fonti in contraddittorio per una corretta discussione, non vi è plagio ma Diritto di Citazione.
Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.
Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.
Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.
Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».
Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.
Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.
Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.
Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”
Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.
E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto.
La vicenda merita un approfondimento del tema del Diritto di Citazione.
Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola.
Alcuni giornalisti contestavano a Saviano l’uso di un copia incolla di alcuni articoli di giornale senza citare la fonte.
Da Wikipedia: Nel 2013 Saviano e la casa editrice Mondadori sono stati condannati in appello per plagio. La Corte d'Appello di Napoli ha riconosciuto che alcuni passaggi dell'opera Gomorra (lo 0.6% dell'intero libro) sono risultate un'illecita riproduzione del contenuto di due articoli dei quotidiani locali Cronache di Napoli e Corriere di Caserta, modificando così parzialmente la sentenza di primo grado, in cui il Tribunale aveva rigettato le accuse dei due quotidiani e li aveva anzi condannati al risarcimento dei danni per aver "abusivamente riprodotto" due articoli di Saviano (condanna, questa, confermata in Appello). Lo scrittore e la Mondadori in Appello sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. Lo scrittore ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza e la Suprema Corte ha confermato in parte l'impianto della sentenza d'Appello e ha invitato alla riqualificazione del danno al ribasso, stimando 60000 euro una somma eccessiva per articoli di giornale con diffusione limitatissima. La condanna per plagio nei confronti di Saviano e della Mondadori è stata confermata nel 2016 dalla Corte di Appello di Napoli, che ha ridimensionato il danno da risarcire da 60.000 a 6.000 euro per l'illecita riproduzione in Gomorra di due articoli di Cronache di Napoli e per l'omessa citazione della fonte nel caso di un articolo del Corriere di Caserta riportato tra virgolette.
Conclusione: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.
Cosa hanno in comune un giurista ed un giornalista d’inchiesta; un sociologo e un segnalatore di illeciti (whistleblower); un ricercatore o un insegnante e un aggregatore di contenuti?
Essi si avvalgono del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".
Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.
Il Diritto di Citazione si svolge su Stampa non periodica. Che cosa significa "Stampa non periodica"?
Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).
Il diritto di cronaca su Stampa non periodica diventa diritto di critica storica.
NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".
L’art. 21 della Costituzione permette di esprimere liberamente il proprio pensiero. Nell’art. 65 della legge l. n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).
A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.
Quando si parla di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.
Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.
Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».
Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.
Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.
Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.
Diritto di citazione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il diritto di citazione (o diritto di corta citazione) è una forma di libera utilizzazione di opere dell'ingegno tutelate da diritto d'autore. Infatti, sebbene l'autore detenga i diritti d'autore sulle proprie creazioni, in un certo numero di circostanze non può opporsi alla pubblicazione di estratti, riassunti, citazioni, proprio per non ledere l'altrui diritto di citarla. Il diritto di citazione assume connotazioni diverse a seconda delle legislazioni nazionali.
La Convenzione di Berna. L'articolo 10 della Convenzione di Berna, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: Articolo 10
1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore.
Le singole discipline.
Stati Uniti. Negli Stati Uniti è il titolo 17 dello United States Code che regola la proprietà intellettuale. Il fair use, istituto di più largo campo applicativo, norma generalmente anche ciò che nei paesi continentali europei è chiamato diritto di citazione.
Italia. L'art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.». Con il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003 è stata introdotta l'espressione di comunicazione al pubblico, per cui il diritto è esercitabile su ogni mezzo di comunicazione di massa, incluso il web. Con la nuova formulazione c'è una più netta distinzione tra le ipotesi in cui “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera" viene effettuata per uso di critica o di discussione e quando avviene per finalità didattiche o scientifiche: se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. L'orientamento giurisprudenziale formatosi in Italia sul vecchio testo dell'art. 70 è stato in genere di restringerne la portata. In seguito a successive modifiche legislative, è stata fornita tuttavia una diversa interpretazione della normativa attualmente vigente, in particolare con la risposta ad un'interrogazione parlamentare nella quale il senatore Mauro Bulgarelli chiedeva al Governo di valutare l'opportunità di estendere anche in Italia il concetto del fair use. Il governo ha risposto che non è necessario intervenire legislativamente in quanto già adesso l'articolo 70 della Legge sul diritto d'autore va interpretato alla stregua del fair use statunitense. A parere del Governo il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003, ha reso l'articolo 70 della legge sul diritto d'autore sostanzialmente equivalente a quanto previsto dalla sezione 107 del copyright act degli Stati Uniti. Sempre secondo il Governo, sono quindi già applicabili i quattro elementi che caratterizzano il fair use:
finalità e caratteristiche dell'uso (natura non commerciale, finalità educative senza fini di lucro);
natura dell'opera tutelata;
ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all'intera opera tutelata;
effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione.
Sempre a parere del governo, la normativa italiana in materia del diritto d'autore risulta già conforme non solo a quella degli altri paesi dell'Europa continentale ma anche a quello dei Paesi nei quali vige il copyright anglosassone.
A rafforzare il diritto di corta citazione è nuovamente intervenuto il legislatore, che all'articolo 70 della legge sul diritto d'autore ha aggiunto il controverso comma 1-bis, secondo il quale «è consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro [...]». La norma, tuttavia, non ha ancora ricevuto attuazione, non essendo stato emanato il previsto decreto ministeriale. Altre restrizioni alla riproduzione libera vigono nella giurisprudenza italiana, come, per esempio, quelle proprie all'assenza di libertà di panorama.
Francia. In Francia la materia è regolata dal Code de la propriété intellectuelle.
Unione europea. L'Unione europea ha emanato la direttiva 2001/29/CE del 22 maggio 2001 che i singoli Paesi hanno applicato alla propria legislazione. Il parlamento europeo nell'approvare la direttiva Ipred2, in tema di armonizzazione delle norme penali in tema di diritto d'autore, ha approvato anche l'emendamento 16, secondo il quale gli Stati membri provvedono a che l'uso equo di un'opera protetta, inclusa la riproduzione in copie o su supporto audio o con qualsiasi altro mezzo, a fini di critica, recensione, informazione, insegnamento (compresa la produzione di copie multiple per l'uso in classe), studio o ricerca, non sia qualificato come reato. Nel vincolare gli stati membri ad escludere la responsabilità penale, l'emendamento si accompagnava alla seguente motivazione: la libertà di stampa deve essere protetta da misure penali. Professionisti quali i giornalisti, gli scienziati e gli insegnanti non sono criminali, così come i giornali, gli istituti di ricerca e le scuole non sono organizzazioni criminali. Questa misura non pregiudica tuttavia la protezione dei diritti, in quanto è possibile il risarcimento per danni civili.
Citazioni di opere letterarie. La regolamentazione giuridica delle opere letterarie ha una lunga tradizione. La citazione deve essere breve, sia in rapporto all'opera da cui è estratta, sia in rapporto al nuovo documento in cui si inserisce. È necessario citare il nome dell'autore, il suo copyright e il nome dell'opera da cui è estratta, per rispettare i diritti morali dell'autore. In caso di citazione di un'opera tradotta occorre menzionare anche il traduttore. Nel caso di citazione da un libro, oltre al titolo, occorre anche menzionare l'editore e la data di pubblicazione. La citazione non deve far concorrenza all'opera originale e deve essere integrata in seno ad un'opera strutturata avendo una finalità. La citazione inoltre deve spingere il lettore a rapportarsi con l'opera originale. Il carattere breve della citazione è lasciato all'interprete (giudice) ed è perciò fonte di discussione. Nell'esperienza francese, quando si sono posti limiti quantitativi, sono stati proposti come criterio i 1.500 caratteri. Le antologie non sono giuridicamente collezioni di citazioni ma delle opere derivate che hanno un loro particolare regime di autorizzazione, regolato in Italia dal secondo comma dell'articolo 70. Le misure della lunghezza dei brani sono fissati dall'art 22 del regolamento e l'equo compenso è fissato secondo le modalità stabilite nell'ultimo comma di detto articolo.
Citare, non copiare! Attenzione ai testi altrui. Scrive il 2 Giugno 2016 Chiara Beretta Mazzotta. Citare è sempre possibile, abbiamo facoltà di discutere i contenuti (libri, articoli, post…) e di utilizzare parte dei testi altrui, ma quando lo facciamo non dobbiamo violare i diritti d’autore. Citare o non citare? Basta farlo nel modo corretto! Si chiama diritto di citazione e permette a ciascuno di noi di utilizzare e divulgare contenuti altrui senza il bisogno di chiedere il permesso all’autore o a chi ne detiene i diritti di commercializzazione. Dobbiamo però rispettare le regole. Ogni testo – articoli, libri e anche i testi dal carattere non specificatamente creativo (ma divulgativo, comunicativo, informativo) come le mail… – beneficia di tutela giuridica. La corrispondenza, per esempio, è sottoposta al divieto di rivelazione, violazione, sottrazione, soppressione previsto dagli articoli 616 e 618 del codice penale. Le opere creative sono tutelate dalla normativa del diritto d’autore e non possono essere copiate o riprodotte (anche in altri formati o su supporti diversi), né è possibile appropriarsi della loro paternità. Possono, però, essere “citate”.
È consentito il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica…L’art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica, di discussione ed anche di insegnamento, sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscono concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera». Vale a dire che – a scopo di studio, discussione, documentazione o insegnamento – la legge (art. 70 l. 633/41) consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o parti di opere letterarie. Lo scopo deve essere divulgativo (e non di lucro o meglio: il testo citato non deve fare concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera stessa).
Dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione. Per rispettare il diritto di citazione dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione. Quindi, se per esempio state facendo la recensione di un testo, il diritto di citazione vi consente di “copiare” una piccola parte di esso (il diritto francese prevede per esempio 1500 caratteri; in assoluto ricordate che la brevità della citazione vi tutela da eventuali noie) purché diciate chi lo ha scritto, chi lo ha pubblicato, chi lo ha tradotto e quando. Nessun limite di legge sussiste, invece, per la riproduzione di testi di autori morti da oltre settant’anni (questo in Italia e in Europa; in Messico i diritti scadono dopo 100 anni, in Colombia dopo 80 anni e in Guatemala e Samoa dopo 75 anni, in Canada dopo 50; in America si parla di 95 anni dalla data della prima pubblicazione). Se volete citare un articolo, avete il diritto di riassumere il suo contenuto e mettere tra virgolette qualche stralcio purché indichiate il link esatto (non basta il link alla home della testata, per dire). Va da sé che no, non potete copia-incollare un intero pezzo mettendo un semplice collegamento ipertestuale! Questo lo potete fare solo se siete stati autorizzati. Tantomeno potete tradurre un articolo uscito sulla stampa estera o su siti stranieri. Per pubblicare un testo tradotto dovete infatti essere stati autorizzati. Quindi, se incappate in rete in un post di vostro interesse che non vi venga in mente di copiarlo integralmente indicando solo un link. Aggregare le notizie, copiandole totalmente, anche indicando la fonte, non è legale: è necessaria l’autorizzazione del titolare del diritto. E poi, oltre a non rispettare le leggi del diritto d’autore, fate uno sgarbo ai motori di ricerca che penalizzano i contenuti duplicati.
Prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. E se scoprite un plagio in rete? Dal 2014 non c’è più bisogno di ricorrere alla magistratura. Cioè non c’è più bisogno di un processo, né di una denuncia alle autorità (leggi qui). C’è infatti una nuova procedura “accelerata”, introdotta con il recente regolamento Agcom, e potete avviare la pratica direttamente in rete facendo una segnalazione e compilando un modulo (per maggior informazioni su come denunciare una violazione leggi la guida: “Come denunciare all’Acgom un sito per violazione del diritto d’autore”).
Volete scoprire se qualcuno rubacchia i vostri contenuti? Basta utilizzare uno tra i tanti motori di ricerca atti allo scopo. Per esempio Plagium. È sufficiente copiare e incollare il testo e analizzare le corrispondenze in rete. Spesso, ahimè, ne saltano fuori delle belle… Mi raccomando, prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. Quando fate una citazione – che si tratti di una grande poetessa o dell’ultimo cantante pop – usate le virgolette e mettete il nome dell’autore e del traduttore. È una questione di rispetto oltre che legale. E se volete essere presi sul serio, fate le cose per bene.
LO SPAURACCHIO DELLA CITAZIONE DI OPERA ALTRUI. Avvocato Marina Lenti Marina Lenti su diritto d'autore. A volte mi capita di rispondere a dei quesiti postati su Linkedin e siccome quello che segue ricorre spesso, colgo l’occasione per trattarlo,in maniera molto elementare (niente legalese! ), anche in questa sede. Si tratta di una delle maggiori preoccupazioni di chi scrive: la citazione. Può trattarsi della citazione di una dichiarazione rilasciata da qualcuno, oppure la citazione di un titolo di un libro o di un film, o similia. Spesso gli autori sono paralizzati perché pensano che ogni volta sia necessaria l’autorizzazione del titolare dei diritti connessi alla dichiarazione o all’opera citata. Ovviamente non è così perché, in tal caso si arriverebbe alla paralisi totale e tutta una serie di generi morirebbe: manualistica, saggistica, biografie… Bisogna ricordare sempre che il diritto d’autore, oltre a proteggere la proprietà intellettuale, deve contemperare anche l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui, a certe condizioni, in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. E’ per questo che si ricorre al concetto di fair use, che nella nostra Legge sul Diritto d’Autore si ritrova al primo comma dell’art. 70: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”.
In aggiunta, il concetto è più chiaramente formulato nella Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, cui l’Italia aderisce, all’art. 10 comma 1: “Sono lecite le citazioni tratte da un’opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo”.
Dunque, non c’è bisogno di autorizzazioni se, per esempio, se in un dialogo, un personaggio riferisce all’altro di aver letto il libro X, o aver visto il film Y, o aver letto l’intervista rilasciata dal personaggio famoso Z. Diverso sarebbe, ovviamente, se ci si appropriasse del personaggio X dell’altrui opera Y per farlo agire nella propria (e se state pensando alle fan fiction, ebbene sì, a stretto rigore le fan fiction sono illegali, solo che alcuni autori, come J.K. Rowling, le tollerano finché restano sul web e sono messe a disposizione gratuitamente; altri, come Anne Rice, le combattono invece in tutti i modi). Lo stesso vale se si riporta la dichiarazione di un’intervista, oppure un brano di un’altrui opera. In questo caso basterà citare in nota la fonte: nome dell’autore, titolo dell’intervista/opera, data, numeri di riferimento (a seconda della pubblicazione), editore, anno. Oltretutto, riportare la fonte dà maggiore autorevolezza alla vostra opera perché dimostra che le citazioni riportate non sono "campate in aria". Ovviamente la citazione deve constare di qualche frase, non di mezza intervista o mezzo libro, altrimenti va da sé l’uso non sarebbe più "fair", cioè "corretto".
Bisogna tuttavia fare attenzione al contenuto di ciò che si cita, per non rischiare di incorrere in altri possibili problemi legali diversi dalle violazioni del diritto d’autore: se, ad esempio, si cita una dichiarazione di terzi che accusa la persona X di essere colpevole di un reato e questa dichiarazione è priva di fondamento (perché, ad esempio, non c’è stata una sentenza di condanna), ovviamente potrà essere ritenuto responsabile della diffamazione alla stregua della fonte usata.
Il concetto di fair use, a differenza che in Italia, è stato oggetto di elaborazione giurisprudenziale molto sofisticata in Paesi come l’America. Magari in un prossimo post esamineremo i quattro parametri di riferimento elaborati dai giudici statunitensi per discernere se, in un dato caso, si verta effettivamente in tema di fair use. Tuttavia, nonostante questa lunga elaborazione, va tenuto presente che si tratta sempre di un terreno molto scivoloso, che ha volte ha dato luogo pronunciamenti contraddittori.
La riproduzione e citazione di articoli giornalistici. Di Alessandro Monteleone.
La normativa.
La materia trova disciplina nei seguenti testi di legge: art. 10, comma 1, Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche (ratificata ed eseguita con la L. 20 giugno 1978, n. 399); artt. 65 e 70, Legge 22 aprile 1941, n. 633 (di seguito anche “Legge sul Diritto d’Autore”).
L’opera giornalistica.
Come noto, l’opera giornalistica che abbia il requisito della creatività è tutelata dall’art. 1 della Legge sul Diritto d’Autore. Il quotidiano (ovvero il periodico) è considerato pacificamente opera “collettiva”, in merito alla quale valgono le seguenti considerazioni. In base al combinato disposto degli artt. 7 e 38, Legge sul Diritto d’Autore l’editore deve essere considerato l’autore dell’opera. L’editore – salvo patto contrario – ha il diritto di utilizzazione economica dell’opera prodotta “in considerazione del fatto che […] è il soggetto che assume su di sé il rischio della pubblicazione e della messa in commercio dell’opera provvedendovi per suo conto ed a sue spese”. L’editore è titolare “dei diritti di cui all’art. 12 l.d.a. (prima pubblicazione dell’opera e sfruttamento economico della stessa). E ciò senza alcun bisogno di accertare […] un diverso modo ovvero una distinta fonte di acquisto del diritto sull’opera componente, rispetto a quello sull’opera collettiva”, inoltre “il diritto dell’editore si estende a tutta l’opera, ma includendone le parti”.
Disciplina normativa in materia di citazione e riproduzione di articoli giornalistici.
Con riferimento alla possibilità di riprodurre articoli giornalistici in altre opere si osserva quanto segue:
La Convenzione di Berna contiene una clausola generale che disciplina la fattispecie della citazione di un’opera già resa accessibile al pubblico. In particolare, in base all’art. 10 della Convenzione di Berna, la libertà di citazione incontra quattro limiti specifici:
1) l’opera deve essere stata resa lecitamente accessibile al pubblico;
2) la citazione deve avere carattere di mero esempio a supporto di una tesi e non deve avere come scopo l’illustrazione dell’opera citata;
3) la citazione non deve presentare dimensioni tali da consentire di supplire all’acquisto dell’opera;
4) la citazione non deve pregiudicare la normale utilizzazione economica dell’opera e arrecare un danno ingiustificato agli interessi legittimi dell’autore. Per essere lecite, altresì, le citazioni devono essere contenute nella misura richiesta dallo scopo che le giustifica e devono essere corredate dalla menzione della fonte e del nome dell’autore.
Art. 10, Convenzione di Berna: “1)Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”.
Con riferimento alla normativa nazionale l’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore recita testualmente: “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato […]”.
L’articolo appena citato è considerato in dottrina una norma eccezionale non suscettibile di applicazione analogica con riguardo al carattere degli articoli, pertanto, l’elencazione sopra proposta ha natura tassativa. (R. Valenti, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza). Si deve comunque evidenziare che una parte della dottrina (R. Valenti, nota a Trib. Milano, 13 luglio 2000, in Aida, 2001, 772, 471) ritiene che una corretta interpretazione dell’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore porti a ritenere lecita solo la riproduzione di articoli di attualità a carattere politico, economico e religioso (con esclusione pertanto degli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico) che avvenga in altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite.
Ulteriore disciplina è dettata nell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore che fa salva la libera riproduzione degli articoli giornalistici, a prescindere dall’argomento trattato, purché sussista una finalità di critica, discussione od insegnamento. Questa norma dà prevalenza alla libera utilizzazione dell’informazione, proteggendo la forma espressiva e lasciando libera la fruibilità dei concetti. Art. 70 LdA: “1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica odi discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. 1-bis. E' consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell'università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all'uso didattico o scientifico di cui al presente comma 2. Nelle antologie ad uso scolastico la riproduzione non può superare la misura determinata dal regolamento, il quale fissa la modalità per la determinazione dell'equo compenso. 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.
In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. (R. Valenti, cit.). Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie anche questa norma ha carattere eccezionale e si deve interpretare restrittivamente. (Da ultime Cass. 2089/1997 e 11143/1996. L’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede inoltre che “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico”, perché siano leciti, “non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera [citata]”. Tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Infine, il terzo comma dell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede che “il riassunto, la citazione o la riproduzione” siano “sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.
In considerazione di ciò, la mancata menzione degli elementi succitati determina una violazione del diritto di paternità dell’opera dell’autore, risarcibile in quanto abbia determinato un danno patrimoniale al titolare del diritto.
Conclusioni. La lettura combinata degli artt. 65 e 70, Legge sul Diritto d’Autore porta a ritenere che, per citare o riprodurre lecitamente un articolo giornalistico in un’altra opera, debbano ricorrere i seguenti presupposti:
1) art. 65, LdA (limite contenutistico): nel caso di riproduzione di articoli di attualità che abbiano carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, tale riproduzione può avvenire liberamente purchè non sia stata espressamente riservata e vi sia l’indicazione della fonte da cui sono tratti, della data e del nome dell’autore, se riportato;
2) art. 70, LdA (limite teleologico e dell’utilizzazione economica): la citazione o riproduzione di brani o parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi qualora siano effettuati per uso di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica entro i limiti giustificati da tali fini e purchè non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera citata o riprodotta. In relazione ai singoli articoli, quindi, l’editore potrà far valere l’inapplicabilità dell’art. 65 LdA tutte le volte in cui “il titolare dei diritti di sfruttamento – dell’articolo riprodotto – se ne sia riservata, appunto, la riproduzione o la utilizzazione” apponendovi un’espressa dichiarazione di riserva.
IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA.
Diritto d'autore e interesse generale. Contemperare l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. Opera letteraria - giornalistica, fonte di informazione e di cronaca. Diritti costituzionalmente garantiti, senza limitazione dall'art 21 della Costituzione italiana: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.»
Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni.
Ad questa libertà è inoltre dedicato l'articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: Art. 19: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
La libertà di espressione è sancita anche dall'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848:
1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.
2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.
Tesi di Laurea di Rosalba Ranieri. Pubblicato da Studio Torta specializzato in proprietà intellettuale.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO” DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA. TESI DI LAUREA IN DIRITTO COMMERCIALE. IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA: IL CASO “GOMORRA” RELATORE: Ch.issima Prof. Emma Sabatelli LAUREANDA Rosalba Ranieri.
La maggior parte delle persone comuni, non giuristi, quando pensano al diritto d’autore hanno un’idea precisa: basandosi sui fatti di cronaca, ritengono che il diritto d’autore tuteli quel cantante o autore famosi ai quali è stata rubata o copiata l’idea della propria canzone o del proprio libro. Tuttavia questa è una visione alquanto semplicistica.
Sfogliando qualsiasi manuale di diritto industriale o un’enciclopedia giuridica veniamo a sapere che: “il diritto d’autore è quel complesso di norme che tutela le opere dell’ingegno di carattere creativo riguardanti le scienze, la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro, la cinematografia, la radiodiffusione e, da ultimo, i programmi per elaboratore e le banche dati, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione, attraverso il riconoscimento all’autore dell’opera di una serie di diritti, sia di carattere morale che patrimoniale”. Dunque, del diritto d’autore non dobbiamo avere una visione riduttiva, come la si aveva in passato, in quanto il diritto d’autore ha un campo d’azione molto più ampio di quanto si possa ad un primo approccio immaginare. Si può ben pensare che in passato, a fronte delle rudimentali scoperte e conoscenze nei diversi settori in cui oggi opera, il diritto d’autore tutelava parzialmente l’autore, poiché solo gli scrittori di opere letterarie potevano esser lesi nel diritto esclusivo di usare economicamente la propria opera con la riproduzione non autorizzata della stessa a mezzo della stampa.
É dunque l’invenzione della stampa che fa sorgere l’esigenza di un diritto d’autore, che nasce prima in Inghilterra con il “Copyright Act”, la legge sul copyright (il diritto alla copia) della regina Anna del 1709; poi negli Stati Uniti, ispirati dalla legge inglese, con la legge federale del 1790 e poi in Francia con le leggi post-rivoluzionarie del 1791-1793, nelle quali si riconoscono per la prima volta i diritti morali dell’autore. Solo successivamente gli altri Stati europei, come l’Italia, adotteranno una legge a tutela del diritto d’autore. Tuttavia, prima di queste leggi, il diritto d’autore inizia a formarsi già nel mondo antico. Infatti nell’Antica Grecia non c’erano specifiche disposizioni legislative, perciò le opere letterarie erano liberamente riproducibili, ma veniva condannata l’appropriazione indebita della paternità. A Roma, invece, si distingueva il diritto di proprietà immateriale dell’autore (corpus mysticum), creatore ed inventore dell’opera, dal diritto di possesso materiale del bene del libraio e dell’editore (corpus mechanicum), essendo questi ultimi che possedevano materialmente i supporti contenenti le opere. Perciò, il diritto romano riconosceva i diritti patrimoniali soltanto ai librai e agli editori, perché una volta che l’opera fosse stata pubblicata (mediante una lettura in pubblico e la diffusione di manoscritti) i diritti venivano traslati sulla cosa materiale, invece agli autori riconosceva altri diritti quali: il diritto di non pubblicare l’opera, il diritto di mantenere l’opera inedita ed altri diritti inerenti la paternità. Con la caduta dell’Impero Romano, la cultura si rifugia presso i monasteri; infatti i monaci amanuensi, avendo a disposizione numerosi volumi, iniziarono a ricopiarne manualmente il contenuto presso vaste sale illuminate: le scriptoria. Poco tempo dopo nacquero le prime Università (a Bologna, Pisa, Parigi…) e di conseguenza la cultura non fu più di esclusivo appannaggio dei religiosi, ma anche dei laici. Molti uomini ricchi del Quattrocento si interessarono alla lettura soprattutto di testi religiosi, giuridici, scientifici, ma anche di romanzi. La diffusione della cultura e l’aumento della domanda di copie di testi letterari portò ad un mercato del libro, che permetteva ottime possibilità di guadagno, allorché fu inventata la tecnica, che avrebbe consentito la riproduzione dell’opera in maniera più rapida, più economica, e meno faticosa su centinaia o migliaia di copie. Nel 1455 nacque la stampa a caratteri mobili ad opera del tedesco Johannes Gutenberg e con essa nasce l’interesse di tutelare i testi e gli autori che li producevano. È con l’avvento della stampa che l’autore è riconosciuto come titolare di privilegi di stampa, che in passato erano concessi solo agli editori. Questo sistema resse fino al XVIII sec., fino alla produzione di leggi più organiche sul diritto d’autore. Dunque, si può affermare che il diritto d’autore in senso moderno nasce con l’invenzione della stampa e dalla necessità di dare tutela alle sole opere letterarie ed artistiche che possono essere prodotte a mezzo della stampa. Successivamente, esso fu esteso anche ad altre tipologie di opere, che possono essere prodotte con mezzi diversi dalla stampa. Il diritto d’autore si sviluppa al progredire della scienza e della tecnologia e questo ha reso ancora più ampio il margine del suo utilizzo; difatti, il diritto d’autore è oggi “un istituto destinato a proteggere opere eterogenee (opere letterarie, artistiche, musicali, banche dati, software e design)”, dunque anche opere digitali e multimediali, create con programmi di computer. Da qui emerge la difficoltà di delineare una nozione di opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore.
Inoltre, il diritto d’autore riconosce una pluralità di diritti (Si tratta del diritto esclusivo di riproduzione dell’opera e del diritto esclusivo degli autori di comunicare l’opera al pubblico “qualunque ne sia il modo o la forma” (con la rappresentazione, l’esecuzione e la diffusione a distanza)) e facoltà agli autori e diverse tecniche di protezione tanto da rendere difficile anche definirne unitariamente il contenuto. Tuttavia, è possibile ravvisare dei caratteri e dei requisiti comuni alle opere eterogenee, facendole rientrare nelle norme che tutelano il diritto d’autore, così come è possibile ravvisare degli interessi ben precisi che la legge del diritto d’autore tutela, come: l’interesse collettivo a favorire ed incentivare la produzione di opere dell’ingegno attraverso la libera circolazione delle idee e delle informazioni e l’interesse individuale, propriamente dell’autore, a godere del diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera per conseguire un profitto dall’utilizzazione di essa e a godere dei diritti morali, mediante i quali si tutela la personalità dell’autore.
LE FONTI NORMATIVE NAZIONALI ED INTERNAZIONALI La capacità dell’opera creativa di suscitare interesse non solo in delimitati ambiti territoriali ha fatto sì che non si potesse prevedere una tutela limitata nello spazio, bensì una tutela universale (L’interesse di conoscere o avere tra le mani un’opera d’ingegno non si limita ai soli cittadini del territorio in cui l’autore abbia inventato la sua creazione), che permettesse la diffusione e l’utilizzo economico dell’opera anche al di là dei confini di uno Stato. Per queste ragioni sono state elaborate Convenzioni internazionali multilaterali in materia di diritto d’autore e dei diritti connessi, le quali hanno portato uno stravolgimento della previgente disciplina (Fino al 1993, anno in cui entrò in vigore il Trattato CE, oggi Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, vigeva il principio di territorialità, in base al quale il nostro ordinamento rinviava alla legge dello Stato nel quale l’opera era utilizzata o era destinata ad essere utilizzata. In tal modo, il diritto italiano accordava protezione soltanto alle opere dei cittadini italiani o alle opere di autori stranieri che fossero state pubblicate o realizzate per la prima volta in territorio italiano. Inoltre, fino al 1993, vigeva il principio di reciprocità, superato dalle Convenzioni internazionali attualmente in vigore, secondo il quale in Italia si sarebbero potute tutelare altre opere di stranieri, solo in quanto lo Stato di appartenenza dello straniero accordasse la stessa protezione concessa ai propri cittadini alle opere dei cittadini italiani), ma hanno garantito ai cittadini di ciascuno Stato contraente la possibilità di godere di una tutela uniforme. La Convenzione più importante in ordine di tempo è la Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, firmata nel 1886 a Berna e modificata nelle successive conferenze diplomatiche, alla quale ha aderito il maggior numero di Stati. Da ricordare è anche: la Convenzione universale sul diritto d’autore, firmata nel 1952 a Ginevra da parte degli Stati che non avevano firmato la Convenzione di Berna, tra questi in primis gli Stati Uniti d’America; la Convenzione internazionale sulla protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione, firmata nel 1961 a Roma; I trattati dell’OMPI sul diritto d’autore e sulle interpretazioni, esecuzioni e fonogrammi, firmati nel 1996 a Ginevra, volti ad integrare le lacune delle precedenti Convenzioni. Queste Convenzioni non solo obbligano gli Stati firmatari a rispettare il principio di assimilazione o del trattamento nazionale, secondo il quale gli Stati devono accordare ai cittadini degli Stati contraenti la stessa protezione riconosciuta ai propri cittadini, ma, in aggiunta, prevedono anche una protezione minima specifica e comune per colmare le tutele insufficienti delle leggi nazionali. Nel nostro Stato il diritto d’autore è regolato tanto dalle Convenzioni appena richiamate, alle quali ha aderito l’Italia, quanto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in tema di non discriminazione, di libera circolazione dei prodotti e dei servizi e di tutela della concorrenza; dalle Direttive comunitarie emanate in materia di diritto d’autore e anche dalla l. 22 aprile 1941, n. 633 (La l. n. 633/1941 è stata novellata ripetutamente dal nostro legislatore per dare attuazione alle direttive comunitarie, in ragione dell’obbligo di adeguamento alla normativa comunitaria, che incombe su tutti gli Stati aderenti all’ UE.) e dagli artt. 2575- 2583 c.c., che hanno recepito la codificazione normativa del Droit d’auteur francese sancita nella legge del 19/24 luglio 1793 (La legge francese sul diritto d’autore del 1793, intitolata “Droit de proprieté des auteurs”, modificata il 3 agosto 2006, è tutt’ora vigente in Francia). Dunque, ci si può domandare per quale ragione una materia così consolidata, come è attualmente la tutela del diritto d’autore, sia oggetto di questa ricerca e, come si è già anticipato, la risposta al quesito risiede nel caso giudiziario “Gomorra”, alquanto recente, che ha suscitato un notevole interesse non solo tra i giuristi ma anche tra i meri lettori del libro. Analizzando il caso concreto è possibile scorgere una serie di questioni e di profili rilevanti sul piano giuridico, che incidono addirittura sull’esito della controversia giudiziaria, mettendo in crisi l’efficacia della tutela, che non sono regolati precisamente dal legislatore e sui quali dottrina e giurisprudenza non hanno raggiunto, ancora oggi, orientamenti pacifici. In altre parole, il caso giudiziario “Gomorra” può essere utilizzato come la cartina tornasole con la quale verificare l’effettiva efficacia degli strumenti posti a tutela del diritto d’autore.
(Il caso concreto applicato al tema trattato della riproduzione di un opera con doverosa citazione dell'autore e dell'editore, al netto nella menzione sul Plagio, ossia mancanza di citazione, nota dell'autore.)
Il Convenuto. Aspetto quantitativo ed incidentale: Dunque, i convenuti respingono le doglianze della parte attrice asserendo in primo luogo che le similitudini tra gli articoli di giornale e il libro sono dovute all’identità delle fonti consultate dai giornalisti e dall’autore (forze dell’ordine e investigatori) e che gli articoli di giornale rappresentano una componente qualitativamente e quantitativamente irrilevante del libro: poche pagine rispetto alle trecentotrenta dell’intero.
La Corte. Creazione di opera letteraria atipica. Accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet, utilizzando fonti di dominio pubblico al di là dello spazio temporale congruo, senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica”.
Tribunale di Napoli – sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale sentenza n. 773, 7 luglio 2010. Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto:
1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro. (L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.)
2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”.
3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941. (L’art. 101 l. n. 633/1941 così recita “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”).
La Corte d'Appello. Distinzione di Articoli di giornale: Cronaca; Opinione; Intervista. La rilevanza dello spazio temporale. Prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato.
Corte d'Appello di Napoli - Sezione specializzata in materia d'impresa. Sentenza 4135/2016 del 26 settembre 2016, pubblicata il 21 novembre 2016 RG 4692/2015 repert n. 4652/2016 del 21/11/2016.
Gli articoli di giornali e le riviste rientrano a pieno titolo tra le opere protette dal diritto d’autore, ai sensi dell’art. 3 l. n. 633/1941. Sull’assunto non può sorgere alcun dubbio, non solo a causa della lettera della norma, ma anche perché bisogna distinguere le tipologie di articoli: l’articolo di cronaca, l’articolo d’opinione e l’intervista.
Il primo dà notizie di un avvenimento di attualità in modo obiettivo; perciò il cronista deve riferire l’accaduto, senza inserire alcun commento sulla vicenda.
Il secondo contiene non solo informazioni e riferimenti all'attualità, ma anche l'opinione del giornalista su una determinata questione di costume, di cronaca, culturale, ecc…
L’intervista, infine, è il resoconto di un dialogo tra l’intervistatore e la persona intervistata. Tuttavia, l’articolo di giornale, oltre ad avere carattere informativo, legato ai fatti di cronaca, può avere anche contenuti descrittivi e narrativi. In esso, infatti, il giornalista può inserire una propria visione ideologica, politica, culturale, sulla notizia in questione. A fronte di tale classificazione si esclude che gli articoli di cronaca possano essere plagiati a differenza di quanto avviene per gli articoli di giornale.
Le norme del diritto d’autore in tema di libere utilizzazioni sono del tutto eccezionali e ciò esclude che gli articoli di giornale tutelati possano essere riprodotti, citati o sunteggiati al di fuori dei rigorosi limiti in esse posti, nonché in assenza delle condizioni da esse previste. (...) É pur vero che, trascorso un certo spazio temporale dall’originaria pubblicazione della notizia, il fatto diventa notorio e non vi è alcuna violazione del diritto d’autore, se si utilizzano informazioni diffuse; tuttavia, rilevano le modalità con le quali le informazioni vengono usate. (...) È assolutamente fondato che nessuno ha il monopolio delle informazioni afferenti a fatti noti ed oggettivamente accaduti e che nessuno può subordinare all’obbligo di citazione la riproduzione o comunicazione di un’informazione, ma è pur vero che l’articolo di giornale può non essere solo informativo, come l’articolo di cronaca, quando non si limita ad esporre i fatti così come sono accaduti nella realtà, ma è connotato da una parte descrittiva e narrativa, che rende l’opera creativa e tutelata dal diritto d’autore. (...)
Gli articoli 657 , 708 e 1019 l. n. 633/1941 prevedono dei limiti ai diritti patrimoniali dell’autore, non anche a quelli morali, in quanto consentono la riproduzione, la comunicazione al pubblico, il riassunto, la citazione ecc… di opere per favorire l’informazione pubblica, la libera discussione delle idee, la diffusione della cultura e di studio, che prevalgono sull’interesse personale dell’autore. (L’art. 65 l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato”. 8L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”).
Corte di Cassazione. Prima sezione civile. Sentenza n. 12314/1015. L'originalità e creatività dell'opera creata con l'ausilio di articoli di giornale.
(...)La violazione del diritto d’autore non si ha solo nell’ipotesi di integrale riproduzione dell’opera altrui ma anche nel caso di mera contraffazione e, dunque, nel caso di riproduzione indebita di alcune parti dell’opera, nelle quali si ravvisano “i tratti essenziali che caratterizzano l’opera anteriore”. "Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47". Su questo punto la Cassazione si è più volte pronunciata (Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47. 12 Cass., 27 ottobre 2005, n. 20925, in Foro it. 2006, p. 2080; conf. Cass., 5 luglio 1990, n. 9139, in Giust. civ., 1991, p. 152), sostenendo che sia opportuno distinguere la riproduzione abusiva in senso stretto dalla contraffazione e dall’elaborazione creativa perché la prima consiste nella “copia integrale e pedissequa dell’opera altrui”; la seconda nella riproduzione non integrale ma sostanziale dell’opera, in quanto ci sono poche differenze e di mero dettaglio; la terza, invece, consiste in un’opera originale, in quanto si connota per l’apporto creativo del suo autore ed è, pertanto, meritevole di tutela, ex art. 4 l. n. 633/1941. (...)
Conclusioni.
Tuttavia, è certo che gli articoli di giornale e “Gomorra” seguono scopi distinti, infatti, con i primi si informa e si danno informazioni contingenti, invece, con il secondo si segue il fine di approfondire e di indurre il lettore alla riflessione sul fenomeno criminale denominato camorra. La forma e la struttura espositiva dell’opera permettono di riflettere su un altro punto nevralgico della vicenda, che vede, ancora una volta, opinioni contrastanti tra la dottrina e la giurisprudenza: l’articolo di giornale rientra tra le opere protette dal diritto d’autore? Risponde al quesito sia l’art. 3 l. n. 633/1941, che annovera tra le opere tutelate dal diritto d’autore anche gli articoli pubblicati su giornali e sulle riviste, sia la distinzione tra l’articolo di cronaca e l’articolo d’opinione. Come si può leggere nel Cap. III, par. 3.1, l’articolo di cronaca non può essere plagiato, in quanto, per definizione, si limita a narrare i fatti così come sono accaduti, nella loro successione cronologica, senza che vi ricorrano i requisiti che un’opera protetta dal diritto d’autore debba avere per legge. Tali requisiti sono elencanti nel Cap III, par. 3.1. L’articolo di opinione, invece, non è una mera elencazione, bensì, un’esposizione di fatti con terminologie e prospettive proprie del giornalista, correlate, in taluni casi, dalle opinioni di chi scrive. In essi, dunque, il giornalista racconta i fatti in modo creativo, suggerendo un’impronta personale, tali da ricondurli direttamente a se stesso, cosicché è possibile che vi siano articoli scritti da giornalisti diversi, che, seppure raccontano gli stessi fatti, non incorrono nel plagio. Gli articoli di opinione possono, dunque, essere oggetto di plagio. In conclusione, l’articolo di giornale, che ricorre nel caso giudiziario in esame, non è assimilabile ad un articolo di cronaca, così come delineato nel Cap. I, par. 1.3, e, colta questa differenza, non si può negare che l’articolo di giornale sia un’opera protetta dal diritto d’autore. Tuttavia, è bene chiarire che riconoscere come meritevoli di tutela gli articoli di giornale, nei limiti appena chiariti, non significa attribuire l’esclusiva dell’informazione al giornalista e alla testata giornalistica presso la quale costui lavora, in quanto il singolo giornalista non può essere l’unico legittimato a dare informazioni. Se così fosse, si riconoscerebbe il monopolio dell’informazione a favore della testata giornalista, che per prima ha dato la notizia, in contrasto con il principio fondamentale di libertà d’espressione, sancito nell’art. 21 della Costituzione. Sul punto si rinvia al Cap. III, par. 3.2.
Non sempre è sufficiente riconoscere fra le opere protette dal diritto d’autore gli articoli di giornale perché essi possano esser tutelati efficacemente dal diritto d’autore. Infatti, come dimostra il caso esaminato, la prospettiva assunta per l’analisi della controversia può indurre il giudice a mettere in secondo piano gli articoli rispetto il libro. Più precisamente, il giudice avrebbe potuto escludere il plagio, se, durante il confronto delle due opere letterarie, ne avesse enfatizzato il suo carattere originale e creativo, rispetto alla conformazione delle notizie di cronaca contenute nell’opera. Assumere questa prospettiva, in cui il libro diventa il termine di paragone prevalente, significa non dare la giusta rilevanza agli articoli di giornale nel giudizio di plagio. Rileverebbe unicamente che gli articoli di giornale occupino un esiguo numero di pagine del libro e, poiché rappresentano una piccola parte, si escluderebbe, a priori, che un’opera alla stregua di “Gomorra” possa essere un’opera plagiaria. Pertanto, la quantità delle pagine del libro, nelle quali sono riportati gli articoli di giornale, non ritengo sia una ragione valida per escludere il plagio. Assumere, invece, la prospettiva opposta, nella quale gli articoli di giornale diventano il primo termine di paragone, consente di rilevare il plagio, se quest’ultimi sono riprodotti nel libro con la stessa forma e la stessa struttura espositiva dei giornalisti e senza che ne venga citata la fonte. In queste disposizioni normative, la legge speciale sul diritto d’autore ammette la libera pubblicazione o comunicazione al pubblico e la libera citazione delle opere protette dal diritto d’autore, affinché, in tal modo, si permetta la diffusione delle informazioni, del sapere e della cultura. Tuttavia, tale interesse generale non deve ledere i diritti d’autore, ma deve realizzarsi nel rispetto delle norme, sancite dal legislatore. Per impedire che si violassero i diritti d’autore, si è attributo alle norme che sanciscono la libera utilizzazione dell’opera protetta il carattere eccezionale. Ciò significa che esse si applicano secondo le modalità e nei casi espressamente previsti dal legislatore e che non sono suscettibili di applicazione analogica; pertanto, non è possibile applicare queste norme a casi diversi da quelli delineati dal legislatore. Dunque, le utilizzazioni devono avvenire mediante la citazione della fonte, della data e dell’autore - le c.d. menzioni d’uso - con le quali si riconosce che “una certa opera o parte di essa è frutto del lavoro di un 91 altro autore, così da evitare di essere accusati di plagio se si attinge da un testo altrui”. Se consideriamo il caso di specie, le menzioni d’uso mancano nel libro “Gomorra”. Invece, l’art. 65 l. n. 633/1941, che ritengo applicabile al caso “Gomorra”, resta, tuttavia, inosservato nell’esecuzione dell’opera. Pertanto, sarebbe bastato riportare la fonte, perché venisse riconosciuta infondata l’accusa rivolta nei confronti di Saviano. In tal modo, l’autore, non solo sarebbe stato scagionato da ogni accusa di plagio, ma avrebbe arricchito il suo lavoro di ricerca sui fatti raccontati, avrebbe permesso ai lettori di approfondire gli avvenimenti e, allo stesso tempo, il suo libro non sarebbe stato meno interessante. Dunque, la Corte non riconosce i presupposti in virtù dei quali è ammessa dal giudice in primo grado la libera riproduzione delle notizie contenute negli articoli, in quanto esclude che le vicende narrate negli articoli di Libra siano divenute di pubblico dominio e ritiene irrilevante che Saviano abbia riprodotto gli articoli nella sua opera a distanza di tempo. L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati. I primi due gradi di giudizio Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto: 1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale 16 combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro. 2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”. 3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941.
IL DIRITTO D’AUTORE NELL’OPERA GIORNALISTICA. I CARATTERI DELL’OPERA PROTETTA DAL DIRITTO D’AUTORE. Sarebbe utopistico credere che qualsiasi opera possa esser protetta dal diritto d’autore; infatti, lo sono solo le opere che hanno una serie di caratteri di fondo ben fissati da parte del legislatore. Pertanto, in presenza di opere nelle quali si ravvisano determinati requisiti si applica la disciplina concernente il diritto d’autore e le tutele previste al suo autore o ad altri soggetti, diversi da quest’ultimo, lesi nei loro diritti patrimoniali e morali. Si potrebbe pensare erroneamente che la ricorrenza delle medesime caratteristiche includa nella tutela del diritto d’autore solo opere omogenee, ma in realtà si tratta di una nozione così di ampio respiro da consentire ad opere diversificate ed eterogenee di rientrare comunque nella tutela del diritto d’autore. In essa rientrano, infatti, le opere letterarie, artistiche e musicali tradizionali, le banche di dati, il software e il design. Analizzare i caratteri dell’opera protetta dal diritto d’autore, dunque, diventa importante per comprendere in quali casi l’autore gode di determinati diritti e quando può agire a tutela di essi.
L’opera dell’ingegno umano. Il primo carattere che deve ricorrere affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore è quello di “opera dell’ingegno umano”. Si tratta di una nozione legislativa che si ricava dagli artt. 1 e 2 della l. n. 633/1941, nei quali rispettivamente si definiscono e si classificano le opere oggetto del diritto d’autore; esse sono il frutto di una “creazione intellettuale”, che si realizza a fronte dell’attività dell’intelletto umano di ideazione ed esecuzione materiale dell’opera. Dunque il concetto di creazione intellettuale é così ampio ed elastico da consentire addirittura di comprendere opere che appartengono a campi e categorie fenomenologiche diverse, come la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro e la cinematografia, le quali, seppure si avvalgono di mezzi espressivi differenti tra loro, allo stesso tempo presentano come primo carattere di fondo l’essere un’opera derivante dall’attività dell’ingegno umano.
Il carattere rappresentativo: la forma interna e la forma esterna Un requisito che ricorre nelle opere oggetto di tutela del diritto d’autore è il carattere rappresentativo, al quale Paolo Auteri attribuisce un significato: l’opera è destinata a “rappresentare, con qualsiasi mezzo di espressione (parola scritta o orale, disegni e immagini, fisse o in movimento, suoni, ma anche il movimento del corpo e qualsiasi altro segno), fatti, conoscenze, idee, opinioni e sentimenti; e ciò essenzialmente allo scopo di comunicare con gli altri”. In parole più semplici, l’opera deve avere una forma “percepibile” e non rimanere a livello di mero pensiero; ovviamente, se così fosse, la semplice idea astratta, che non è idonea a rappresentare con organicità idee e sentimenti, non potrebbe essere oggetto di tutela. Questo carattere è sancito a livello internazionale nell’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs, il quale protegge la forma espositiva con cui l’opera appare, ad es: l’insieme di parole e frasi (c.d. forma esterna); la struttura espositiva, ad es: l’organizzazione del discorso, la scelta e la sequenza degli argomenti, le prospettive adottate, ecc... (c.d. forma interna), e non il contenuto di conoscenze, informazioni, idee, fatti, teorie in quanto tali e a prescindere dal modo in cui sono scelti, esposti e coordinati. (L’Accordo TRIPs, “The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights” (in italiano, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale), è un trattato internazionale promosso dall'Organizzazione mondiale del commercio, al fine di fissare i requisiti e le linee guida che le leggi dei paesi aderenti devono rispettare per tutelare la proprietà intellettuale. L’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs così recita: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici in quanto tali”. 29 La distinzione tra forma esterna, forme interna e contenuto è stata elaborata sin dall’inizio del secolo scorso ad opera di un autorevole giurista tedesco, il Kohler, e viene seguita dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti. Essa è stata fortemente criticata da più parti, tanto dalla dottrina, rappresentata da Piola Caselli in Italia e da Ulmer in Germania, che dalla parte minoritaria della giurisprudenza. Si è contestato, in breve, il fondamento teorico della tesi di Kohler e la difficoltà, se non l’impossibilità, di distinguere tali tre elementi a livello pratico. Inoltre, ci sono state pronunce di merito, come ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano del 11 marzo 2010, dalle quali emerge che non sempre il contenuto è irrilevante ai fini del riconoscimento del plagio. Infatti, è possibile distinguere le idee diffuse nella cultura comune dalle idee innovative, che non appartengono al pensiero comune e che possono essere ricondotte ad un autore in particolare. Secondo tali pronunce giurisprudenziali, l’utilizzo del primo tipo di idee in un’opera dell’ingegno non produrrebbe plagio purché le idee vengano rielaborate in modo originale, invece l’utilizzo del secondo tipo di idee, anche se espresse in forma diversa, difficilmente escluderebbero il plagio).
Il carattere creativo: originalità e novità. Il carattere creativo è un criterio espressamente richiesto dal legislatore, negli artt. 1 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore. In dottrina tale carattere non è definito in termini omogenei. Su questo punto, la dottrina è divisa: una opinione predilige il criterio della c.d. “creatività oggettiva” 30 , secondo il quale è creativa “l’opera dotata di caratteristiche materiali, oggettive appunto, tali da distinguerla da tutti i lavori ad essa preesistenti” 31 ; l’altra, invece, sostiene il criterio della c.d. “creatività soggettiva”32 , secondo il quale è creativa l’opera che riflette la personalità dell’autore e il suo modo personale di rappresentare ed esprimere fatti, idee e sentimenti, tale da renderla “direttamente riconducibile al suo autore” (c.d. individuabilità rappresentativa). In merito alla creatività soggettiva, la dottrina ha individuato due profili del carattere creativo: l’originalità e la novità. L’originalità consiste nel risultato di un’elaborazione intellettuale che riveli la personalità dell’autore, indipendentemente dalle dimensioni e dalla complessità del contenuto dell’opera, il quale può anche essere modesto e semplice o appartenere al patrimonio comune. Dunque sarebbero originali tutte quelle opere che, seppure appaiano molto simili tra loro, hanno un taglio o una prospettiva che le rende “frutto di una elaborazione autonoma del loro autore”. Invece la novità si ha quando sono nuovi o inediti gli “elementi essenziali e caratterizzanti” dell’opera, senza che la novità sia assoluta o diventi creazione. Infatti nuove non sono solo le opere che si basano su un’idea che non ha precedenti, ma anche quelle che rielaborano elementi di opere preesistenti con forme o mezzi di espressione innovativi, tali da distinguerle dalle opere precedenti (c.d. novità in senso oggettivo). L’orientamento che ha riscontrato il maggior successo nelle pronunce giurisprudenziali è quello della “creatività soggettiva”.
La compiutezza espressiva. Un altro requisito posto dalla legge per la tutela dell’opera dell’ingegno è quello della c.d. “compiutezza espressiva”, definita dalla dottrina come “l’idoneità a soddisfare l’esigenza estetica, emotiva o informativa, del fruitore di un determinato evento creativo”. Così come asserito da Kevin de Sabbata, tale nozione è assolutamente opinabile e non vi è ancora una pronuncia giurisprudenziale o uno studio dottrinale, che sia pervenuta ad attribuirle un significato stabile e chiaro. Motivo per il quale si ravvisa una difficoltà di applicazione del principio, seppure risulterebbe rilevante per la risoluzione di casi giudiziari di plagio parziale.
La pubblicazione dell’opera. Diversamente da quanto si possa pensare, il diritto d’autore non protegge solo le opere già pubblicate e già immesse nel mercato ma anche quelle non pubblicate e non note al pubblico, le c.d. opere inedite. Infatti, la Suprema Corte, riprendendo gli artt. 6 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., ha ribadito che il diritto d’autore ha origine nel momento della mera creazione dell’opera, che costituisce un atto giuridico in senso stretto, e non al seguito del conseguimento di formalità, come gli adempimenti di deposito e di registrazione dell’opera . Nel 2012 i giudici di legittimità hanno escluso definitivamente che l’opera debba costituire “una sorgente di utilità” ai fini di tutela, potendo, dunque, essere oggetto di tutela anche prima della pubblicazione.
IL DIRITTO D’AUTORE E IL DIRITTO D’INFORMAZIONE E DI CRONACA. Dato per scontato che il diritto d’autore tuteli, ai sensi dell’art.1 l. n. 644/1941 e dell’art. 2575 c.c., le opere caratterizzate da requisiti di fondo delineati nel paragrafo precedente, possiamo asserire che tali caratteri ricorrono nell’opera giornalistica e che, pertanto, anche gli articoli di giornale sono tutelati dal diritto d’autore. Estendere la disciplina del diritto d’autore all’articolo di giornale comporta, come conseguenza inevitabile, che le norme a tutela dell’autore possano incidere sull’esercizio dell’attività di comunicazione e di informazione sociale, che si promuove con l’opera giornalistica. Il diritto d’autore e il diritto d’informazione e di cronaca possono entrare addirittura in conflitto tra loro, perché, da un lato vi è l’interesse di tutelate i diritti patrimoniali e morali dell’autore con la limitazione della libera divulgazione delle opere protette e, dall’altro lato vi è l’interesse generale alla diffusione di informazioni esatte su fatti rilevanti e di interesse generale. Diventa, dunque, necessario approfondire i profili di rilevo costituzionale sui quali può incidere il diritto d’autore, quali il diritto 61 d’informazione e il diritto di cronaca, per poter comprendere come essi si conciliano tra loro. Il diritto d’informazione è un diritto fondamentale delle persone, che è compreso, assieme al diritto d’opinione e di cronaca, nella libertà di manifestazione del proprio pensiero, sancita a livello nazionale dall’art. 21 della Costituzione e a livello sovranazionale dall’art. 19 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” e dall’art.10 co. 1, della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” , che consiste “nella libertà di esprimere le proprie idee e di divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari”, senza porre limiti in merito ai mezzi di espressione e in merito agli scopi, circostanze, contenuti da esprimere, ecc… Il diritto d’informazione ha una duplice profilo: quello attivo consiste nel diritto di informare e di diffondere notizie; invece, quello passivo consiste nel diritto di essere informati, sempre che l’informazione sia “qualificata e caratterizzata (…) dal pluralismo delle fonti da cui attingere conoscenze e notizie”. In conseguenza del diritto di essere informati è fatto divieto, ai sensi dell’art. 21, co. 2, Cost., di sottoporre la stampa a controlli preventivi. Nel nostro ordinamento è dunque, vietata la possibilità di sottoporre la divulgazione dell’informazione ad autorizzazioni o censure, al fine di evitare manipolazioni della notizia e compromettere il diritto della collettività a ricevere corrette informazioni. Il diritto dei cittadini ad essere informati si esercita mediante il diritto di cronaca, definito dalla giurisprudenza come “il diritto di raccontare, tramite mezzi di comunicazione di massa, accadimenti reali in considerazione dell’interesse che rivestono per la generalità dei consociati”. Dunque, l’informazione viene comunicata e diffusa per mezzo dell’esercizio del diritto di cronaca, il quale incontra una serie di limiti per evitare che l’esercizio di questo diritto possa ledere altri diritti inviolabili. Infatti l’art. 21 co. 3 Cost., sancisce il limite del rispetto del “buon costume”, generalmente inteso come il rispetto del “pudore sessuale”. Si tratta, però, di un concetto sprovvisto di una definizione normativa e, dunque, di un significato stabile, ma a ciò sopperiscono il legislatore e l’interpretazione giurisprudenziale, tenendo conto dell’evoluzione dei costumi. Ad esempio, la legge sulla stampa n. 47 del 1948, ha stabilito che é contrario al “buon costume” la pubblicazione di contenuti impressionanti e raccapriccianti, che provocano turbamento del “comune sentimento della morale o l’ordine familiare”. Tuttavia, tanto la giurisprudenza che il legislatore nelle altre brache del diritto ammettono ulteriori limiti, quando l’esercizio del diritto d’informazione, o più in generale del diritto d’espressione, potrebbe ledere altri diritti della persona costituzionalmente tutelati ed inderogabili, quali, ad esempio il diritto alla privacy o alla riservatezza, al nome, all’immagine, alla dignità della persona e ai diritti dell’autore, riconosciuti dalla legge sul diritto d’autore. A tal proposito, la giurisprudenza, a più riprese, ha individuato una serie di requisiti, che il giornalista deve rispettare per garantire un equo bilanciamento del diritto di cronaca con altri diritti inviolabili, che potenzialmente possono entrarvi in conflitto. Per quanto riguarda il bilanciamento degli interessi dell’autore alla tutela dei suoi diritti patrimoniali e morali con gli interessi della collettività alla diffusione delle informazioni e delle notizie è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 12 aprile 1973, n. 38, nella quale ha affermato che le norme del diritto d’autore, rapportate all’informazione giornalistica, non contrastano con i principi costituzionali perché non limitano in alcun modo la “libera estrinsecazione e manifestazione del pensiero” e non “assoggettano la stampa ad autorizzazioni o censure”, ma, piuttosto, “tutelano l'utilizzazione economica del diritto d'autore e sono dirette ad assicurare la prova e a determinare l'indisponibilità della cosa, sia per preservarla da distruzione o alterazione, sia per assicurare l'attribuzione dell'opera all'avente diritto, sia per impedire ulteriori danni derivanti da violazione del diritto di autore”. Infatti, il legislatore garantisce il diritto d’informazione e il diritto di cronaca, ammettendo la libera utilizzazione dell’opera protetta purché si seguano i fini esplicitamente delineati nell’art. 70 l. n. 633/1941 – per uso di critica o di discussione, insegnamento o ricerca scientifica – e purché tale utilizzazione non costituisca una forma di concorrenza economicamente rilevante. La ratio della norma si rinviene nelle esigenze di progresso e diffusione della cultura e delle scienze. La questione, però, non è pacifica perché, se da un lato la Corte Costituzionale afferma che la tutela del diritto d’autore non può limitare la libera manifestazione del pensiero, dall’altro, alcuni giudici di merito, di fronte al caso concreto, ritengono che il diritto di cronaca non possa incidere sull’estensione del diritto d’autore, in quanto, a tale proposito, nessun limite è previsto espressamente dalla legge. Di conseguenza, nei fatti la delimitazione reciproca dei due diritti è rimessa al prudente apprezzamento dei giudici di merito.
L’OPERA GIORNALISTICA. Sulla base degli argomenti esposti in precedenza si può, dunque affermare che anche l’opera giornalistica è tutelata dal diritto d’autore, essendo una creazione intellettuale, la quale deriva dall’esercizio del diritto d’informazione e di cronaca. Infatti, l’art. 3 l. n. 633/1941 annovera i giornali e le riviste tra le c.d. opere collettive, che sono “costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico, didattico, religioso, politico ed artistico”, ma non informativo. In effetti, l’opera giornalistica é il frutto di una molteplicità di apporti creativi di diversi autori, coordinati e selezionati dal direttore della testata giornalistica. Dunque, in tale opera si possono distinguere due distinti livelli creativi: quello dei singoli giornalisti, che contribuiscono a comporre l’opera, e quello del direttore, che provvede a progettare l’opera complessiva, a scegliere e coordinare i contributi, ad organizzare e dirigere l’attività creativa dei collaboratori. Una volta rilevata questa duplice creatività, sorge spontaneo domandarsi come il legislatore tuteli tali opere. Ciò che potrebbe risultare complesso è stato, invece, risolto con estrema facilità dal legislatore, il quale ha riconosciuto come meritevole di tutela non la creatività dei singoli giornalisti, bensì quella del direttore che, mediante l’attività di scelta, di coordinamento e di organizzazione dei contributi, realizza l’opera complessiva: l’opera giornalistica. È sulla base di questa prospettiva che ben si spiegano gli artt. 7 e 38 l. n. 633/1941. L’art. 7 l. n. 633/1941 riconosce come autore delle opere collettive “chi ha diretto e organizzato la creazione dell’opera stessa”. Pertanto, rivestendo il ruolo di autore dell’opera giornalistica, il direttore del giornale può, ex art. 41 l. n. 633/1941, “introdurre nell’articolo da riprodurre quelle modificazioni di forma che sono richieste dalla natura e dai fini del giornali”, le quali, se sono sostanziali, possono essere apportate solo con il consenso dell’autore, sempre che questi sia reperibile; altrimenti, ex art. 9 dal Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico (FNSI – FIEG 1 aprile 2013 – 31 marzo 2016), “l’articolo non dovrà comparire firmato nel caso in cui le modifiche siano apportate senza l’assenso del giornalista”. Normalmente gli articoli che, a giudizio del direttore, rivestono particolare importanza sono pubblicati con la firma dell’autore, invece quelli meno rilevanti possono essere riprodotti anche senza l’indicazione del nome dell’autore. Solo se non compare la firma dell’autore, il direttore della testata giornalistica non solo può modificare ed integrare l’articolo di giornale ma anche sopprimerlo e non pubblicarlo. L’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce il diritto di utilizzazione economica dell’opera all’editore, salvo patto contrario, senza precludere ai singoli collaboratori di utilizzare la propria opera separatamente, purché si rispettino gli accordi intercorsi fra i collaboratori e l’editore, nei quali sono precisati i limiti e le condizioni dell’utilizzazione separata dei contributi dei singoli, a salvaguardia dello sfruttamento dell’opera collettiva. Sostanzialmente l’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce lo sfruttamento economico dell’opera all’editore, nel rispetto dei principi fondamentali, ai sensi degli artt. 12 e ss. l. n. 633/1941, e allo stesso tempo garantisce il diritto ai giornalisti di utilizzare il proprio articolo separatamente dall’opera complessiva, senza pregiudicare il diritto di sfruttamento economico esclusivo dell’editore sull’opera collettiva. Infatti, il legislatore, nell’art. 42 l. n. 633/1941, assicura all’autore dell’articolo di giornale pubblicato in un’opera collettiva il diritto di riprodurlo in estratti separati o raccolti in volume, in altre riviste o giornali, purché “indichi l’opera collettiva dalla quale è tratto e la data di pubblicazione”. Alla regola dell’art. 38 l. n. 633/1941, il legislatore ammette una sola eccezione, fissata nel successivo art. 39, secondo la quale l’autore può riacquistare il diritto di disporre liberamente dell’opera al ricorrere di due condizioni: 1) quando il giornalista è estraneo alla redazione del giornale, non ha un accordo contrattuale con la testata giornalistica, ma ha invitato l’articolo al giornale perché venisse riprodotto in esso; 2) quando il giornalista non ha ricevuto notizia dell’accettazione entro un mese dall’invio o la riproduzione dell’articolo non è avvenuta entro sei mesi dalla notizia dell’accettazione.
LA RIPRODUZIONE E LA CITAZIONE DELL’ARTICOLO DI GIORNALE NELL’OPERA LETTERARIA. Talvolta un libro nasce dall’esigenza di voler raccontare una storia, frutto della fantasia dell’autore, basata su fatti realmente accaduti. Infatti, molto spesso leggiamo libri con riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti. Per scrivere un libro basato su fatti già accaduti e magari notori, lo scrittore deve informarsi servendosi di giornali, riviste e altro materiale, reperibile in qualsiasi modo. Così l’autore può ricostruire gli accadimenti e assumere informazioni dettagliate, utili per il proprio libro. Questa attività di ricerca e informazione risulta di grande importanza, in quanto, solo di seguito ad essa, lo scrittore inizierà a scrivere il suo libro. Però lo scrittore deve estrarre dalle fonti le informazioni utili e rielaborarle in modo creativo. Se, invece, si limita ad un lavoro di “copia e incolla”, corre il rischio di ledere il diritto d’autore. Una volta chiarito che, gli articoli di giornale e l’opera giornalistica nel suo insieme sono tutelati dal diritto d’autore, cosa succede se ad esser riprodotto senza citazione della fonte e dell’autore in un’opera letteraria, come è accaduto nel caso di specie “Gomorra”, sia un articolo di giornale? Per rispondere al quesito è necessario esaminare il contenuto degli artt. 65, 70 e 101 l. n. 633/1941, in materia di eccezioni e limitazioni del diritto d’autore.
Gli articoli di attualità. Nell’art. 65 della legge 53 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali, quando ricorrono tre requisiti:
1) che si tratti di articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, o altri materie dello stesso genere. Sul punto la dottrina è divisa, perché, da una parte c’è chi sostiene che sia lecita la riproduzione di articoli di attualità specificamente indicati dal legislatore (a carattere politico, economico e religioso), con l’esclusione degli articoli di cronaca a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico, mentre dall’altra parte c’è chi farientrare queste ultime fattispecie di articoli tra “gli altri materiali dello stesso carattere”; (L’art. 65 della l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichi la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato”).
2) che siano pubblicati in riviste o in giornali;
3) che la riproduzione o l’utilizzazione non sia espressamente riservata, ovvero quando manchi l’indicazione, anche in forma abbreviata, delle parole “riproduzione riservata” o di altre espressioni dal significato analogo, all’inizio o alla fine dell’articolo, secondo quanto prevede l’art. 7 del regolamento di esecuzione della legge sul diritto d’autore, approvato con il R.D. 18 maggio 1942, n. 1369. È necessario a questo punto fare una puntualizzazione, perché potrebbe intendersi erroneamente il significato dell’espressione “libera utilizzazione”. La libera utilizzazione consiste nella riproduzione o comunicazione al pubblico dell’opera senza il consenso dell’autore, ma nel rispetto di determinati adempimenti, fissati dalla legge, come l’indicazione della fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato. Tali formalità devono essere adempiute anche nell’ipotesi, delineata dall’art. 65 co. 2 l. n. 633/1941, di riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti, utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità per fini informativi e di cronaca, fatta eccezione del caso di impossibilità di conoscere la fonte e il nome dell’autore. (“La riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità è consentita ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca e nei limiti dello scopo informativo, sempre che si indichi, salvo caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore, se riportato”). La norma in esame è eccezionale e non suscettibile di applicazione analogica, ragione per la quale la libera utilizzazione non si estende alle rassegne-stampa; infatti, la riproduzione di queste ultime deve sempre essere effettuata con il consenso dei titolari dei diritti.
La libertà di citazione. Prima della legge italiana sul diritto d’autore, la libertà di citazione è stata regolata dall’art. 10 della Convenzione d’Unione di Berna, il quale riporta pressoché il contenuto fissato nell’art. 70 l. n. 633/1941. Il legislatore italiano non ha provveduto, come previsto dalla norma internazionale, a chiarire espressamente che l’opera citata debba esser stata pubblicata e che la citazione debba avere un carattere di mero esempio e supporto di una tesi e non lo scopo di illustrare l’opera citata. (L’art. 10 della Convezione di Berna così recita “Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”. 56 La Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche fu firmata nel 1886 a Berna e ratificata ed eseguita in Italia con la legge 20 giugno 1978, n. 399. Sul punto si rinvia al Cap I, par. 1.2.).
Infatti, nell’art. 70 della legge italiana sul diritto d’autore ( L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”) il legislatore italiano si è limitato a sancire il libero riassunto, la citazione o la riproduzione dell’opera e la loro comunicazione al pubblico, purché:
1) vi ricorra una finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica, così da garantire l’informazione e la diffusione della cultura, in quanto si permette la libera fruibilità dei concetti esposti nell’opera. La dottrina precisa che si ha “uso di critica”, quando l’utilizzazione è finalizzata ad esprimere opinioni protette dagli artt. 21 e 33 Cost.;
2) l’opera critica abbia fini autonomi e distinti da quelli dell’opera citata e non sia succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate;
3) l’utilizzazione non sia di dimensioni tali da supplire all’acquisto dell’opera, pertanto l’utilizzazione non debba essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti e idonea a danneggiare gli interessi patrimoniali esclusivi dell’autore o del titolare di diritti; 4) siano rispettate le menzioni d’uso, quali l’indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione o la riproduzione, il nome dell’autore e dell’editore. Dottrina e giurisprudenza concordano che anche questa disposizione normativa sia del tutto eccezionale, cosicché non può essere applicata per analogia, ma deve essere interpretata restrittivamente.
Informazioni e notizie giornalistiche. L’art. 101, infine, tutela le informazioni e le notizie giornalistiche, stabilendo che sono liberamente riproducibili altrove, purché non si ricorra ad “atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e (…) se ne citi la fonte”. In questo primo comma, il legislatore non ha definito gli atti contrari, ma ha fatto rinvio alle regole di correttezza professionale, fissate nel codice deontologico dell’attività giornalistica, lasciando al giudice il compito di decidere, in merito ai casi concreti per i quali è chiamato a giudicare, se quel comportamento è scorretto o meno. (L’art. 101 co. 1 l. n. 633/1941 sancisce che “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”). Tuttavia, il legislatore colma la genericità del primo comma con il secondo, nel quale specifica alcuni comportamenti che, senza alcun dubbio, costituiscono atti di concorrenza sleale: per esempio, la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso a coloro che ne hanno diritto, oppure prima che l’editore autorizzato abbia pubblicato la notizia; il c.d. “parassitismo giornalistico”, che si ha nel caso in cui il giornalista scorretto effettua la riproduzione o la radiodiffusione sistematica di informazioni e notizie, attingendo da altri giornali o fonti, che svolgono un’attività giornalistica a fine di lucro. Tutte queste pratiche scorrette sono sanzionate dalla legge con l’arresto dell’attività di concorrenza, con la rimozione degli effetti dell’illecito, con la condanna al risarcimento dei danni e la pubblicazione della sentenza. (L’art. 101 co. 2 l. n. 633/1941 così recita “Sono considerati atti illeciti: a) la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie giornalistiche o di informazioni, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso e, comunque, prima della loro pubblicazione in un giornale o altro periodico che ne abbia ricevuto la facoltà da parte dell'agenzia. A tal fine, affinché le agenzie abbiano azione contro coloro che li abbiano illecitamente utilizzati, occorre che i bollettini siano muniti dell'esatta indicazione del giorno e dell'ora di diramazione; b) la riproduzione sistematica di informazioni o notizie, pubblicate o radiodiffuse, a fine di lucro, sia da parte di giornali o altri periodici, sia da parte di imprese di radiodiffusione”).
CRONACA, INDAGINE GIORNALISTICA E ANALISI SOCIALE. Quando accade un fatto di rilievo pubblico, un ruolo fondamentale è svolto dal cronista, il quale giunge presso il luogo del fatto per raccontare gli avvenimenti così come accadono, nella loro precisa successione cronologica, realizzando un’attività di testimonianza diretta o indiretta. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”). Dunque, appare evidente che, diversamente dal giornalismo tradizionale, il quale attinge le notizie da fonti ufficiali e istituzionali perché si dia informazione sui fatti, il giornalismo d’inchiesta impiega mesi e mesi per sviluppare e preparare un’indagine giornalistica in quanto approfondisce aspetti e circostanze su fatti socialmente rilevanti, così da indurre il lettore a riflettere e formare la propria opinione, seppure diversa da quella letta sul giornale. L’inchiesta, pertanto, mette in rilievo problemi sociali o vicende politiche attuali e consente di compiere un’analisi sociale. L’inchiesta e la cronaca sono tipologie giornalistiche che si distinguono da “Gomorra”, la quale è a tutti gli effetti un’opera letteraria, che racchiude diversi generi, come “il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Dunque, accanto alla cronaca giornalistica, che consiste nel narrare fatti realmente accaduti “secondo la successione cronologica, senza alcun tentativo di interpretazione o di critica degli avvenimenti”, vi è il romanzo, un componimento letterario in prosa, di ampio sviluppo, frutto della creazione fantastica dell’intelletto dell’autore; il saggio, un componimento relativamente breve, nel quale l’autore “tratta con garbo estroso e senza sistematicità argomenti vari (di letteratura, di filosofia, di costume, ecc.), rapportandoli strettamente alle proprie esperienze biografiche e intellettuali, ai propri estri umorali, alle proprie idee o al proprio gusto”; e per finire il pamphlet, definito come un “breve scritto di carattere polemico o satirico”.
Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte.
Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.
Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.
Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate.
Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.
Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.
Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.
Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.
Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.
Popgiornalismo. Il caso e la post-notizia. Un libro di Salvatore Patriarca. Con le continue trasformazioni dell’era digitale, diventa sempre più urgente mettere a punto dinamiche comunicative che sappiano muoversi con la stessa velocità con la quale viaggia la trasmissione dei dati e che, soprattutto, riescano a sviluppare capacità connettive in grado di ricomprendere un numero sempre maggiore di dati-fatti-informazioni. Partendo dal fenomeno giornalistico rappresentato da Dagospia – il sito di Roberto D’Agostino che ha saputo cogliere, sin dagli albori, le possibilità offerte dal mezzo digitale – il libro analizza i caratteri di una nuova forma giornalistica, il popgiornalismo. Al centro di questa recente declinazione informativa non c’è più la notizia ma la post-notizia, la necessità cioè di lavorare sulle connessioni e sugli effetti che ogni nuovo fatto, evento o dato determina. Da qui ne conseguono i tre tratti essenziali dell’approccio popgiornalistico: la “leggerezza” pesante dell’informazione, la conoscenza del quotidiano come opera aperta e la libera responsabilità del lettore.
Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.
Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com.
Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.
Che cosa significa "Stampa non periodica"?
Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).
Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.
Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.
La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione.
Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506.
La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”.
La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".
Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.
Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.
Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".
Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)
Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.
Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.
Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)
Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.
Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.
Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)
Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.
Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.
NON CI SI PUO’ SOTTRARRE ALLE CRITICHE ONLINE.
Tribunale di Roma (N. R.G. 81824/2018 Roma, 1 febbraio 2019 Presidente dott. Luigi Argan): non ci si può sottrarre alle critiche online, scrive Guido Scorza 28 febbraio 2019 su l'Espresso. In un’epoca nella quale la libertà di parola, specie online, sembra condannata a dover sistematicamente cedere il passo a altri diritti e a contare davvero poco, un raggio di libertà, arriva dal Tribunale di Roma che, nei giorni scorsi, ha rispedito al mittente le domande di un chirurgo plastico che aveva chiesto, in via d’urgenza, ai Giudici di ordinare a Google di sottrarre il proprio studio dalle recensioni del pubblico o, almeno, di cancellare quattro commenti particolarmente negativi ricevuti da pazienti e amici di pazienti. Secondo la prima sezione del Tribunale, infatti, il diritto di critica viene prima dell’interesse del singolo a non veder la propria attività professionale compromessa da qualche recensione negativa e nessuno ha diritto, nel momento in cui esercita un’attività professionale o commerciale, a pretendere di essere sottratto al rischio che terzi, ovviamente dicendo la verità e facendolo in maniera educata, lo critichino. E questo, secondo i Giudici, è quanto accaduto nel caso in questione. Il chirurgo in questione non può né pretendere che Google rinunci a mettere a disposizione degli utenti un servizio che consente, tra l’altro, la raccolta di “recensioni” sulla propria attività né che non consenta agli utenti di pubblicare commenti negativi o che cancelli quelli pubblicati. Ma non basta. Il Tribunale di Roma mette nero su bianco un principio tanto semplice quanto spesso ignorato: non può toccare a Google sorvegliare che i propri utenti non pubblichino recensioni negative perché Google non ha, né può avere, alla stregua della disciplina europea della materia, alcun obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati da terzi. Google – e il Giudice lo scrive con disarmante chiarezza – ha il solo obbligo di rimuovere un contenuto quando la sua pubblicazione sia accertata come illecita da un Giudice e la notizia gli sia comunicata. E a leggere l’Ordinanza con la quale il Giudice ha respinto le domande d’urgenza proposte dal chirurgo vien davvero da pensare che tutti dovremmo iniziare a imparare ad accettare le critiche con spirito costruttivo e come stimolo a far meglio in futuro anziché investire ogni energia nel tentativo – vano, fortunatamente, in questa vicenda – di condannare all’oblio le opinioni di chi, su di noi, si è fatto, a torto o a ragione, ma dicendo la verità, un’idea che semplicemente non ci piace. Che un professionista, in piena società dell’informazione, davanti a un cliente – per di più suo paziente – che pubblica critiche del tipo “lavoro mal fatto, senza impegno e senza amore per la sua professione” o “Pessimo, assolutamente non idoneo a trattamenti di chirurgia estetica”, anziché fare autocritica non trovi niente di meglio da fare che correre davanti a un Giudice a domandare di trattare le parole altrui come carta straccia, da gettare di corsa nel tritacarta, è circostanza preoccupante. Probabilmente la volatilità tecnologica dei bit ci ha persuasi che le opinioni, le parole e le idee del prossimo valgano poco per davvero. Bene, dunque, hanno fatto i Giudici a ricordare che la critica è costituzionalmente garantita e che ci vuol ben altro che il rammarico di un chirurgo per qualche recensione poco lusinghiera – peraltro tra tante altre positive – per pretendere di veder cancellate, a colpi di spugna, le opinioni altrui.
· La Credibilità.
Caratteristiche della credibilità di una persona. Da Pensiero Critico.
Cos'è la credibilità. Quando ci troviamo di fronte a una persona elaboriamo sempre un giudizio sulla sua credibilità, e spesso siamo indotti a pensare che essa sia una proprietà intrinseca di quella persona. Secondo il sociologo Guido Gili (2005, La credibilità) la riflessione psicologica e sociologica contemporanea ha modificato questa prospettiva, proponendo che la credibilità sia qualcosa che viene riconosciuto dagli altri, anche se essa non può prescindere da qualità effettivamente possedute da quella persona. Ecco la definizione data da Gili (p.4): La credibilità è sempre una relazione tra emittente e ricevente/pubblico, per cui una credibilità universale ed un discredito universale sono i poli estremi di un continuum sul quale si collocano concretamente tante forme e modi diversi di credibilità. Spesso chi è credibile presso un interlocutore o un pubblico non lo è nello stesso modo e per le stesse ragioni presso un altro, come mostra, in modo estremo ed evidentissimo, il caso di molti leader carismatici. Per i loro seguaci rappresentano delle personalità eccezionali, dotate di qualità quasi sovrumane e di una credibilità illimitata; per gli altri possono apparire come degli esaltati, dei pazzi o dei criminali.
Il punto chiave. La credibilità non è una caratteristica intrinseca della fonte, ma è una relazione. (Guido Gili).
La credibilità è soggettiva. La credibilità che attribuiamo a una persona non è "oggettiva" ma "soggettiva": dipende da come la nostra mente è fatta in termini di ricordi, emozioni, esperienze, capacità logiche, ecc. Il problema della credibilità di una persona non si pone nei rapporti di familiarità perchè le lunghe frequentazioni permettono di maturarla e sperimentarla nel tempo (anche la familiarità, comunque, non è esente da rischi perchè espone alla manipolazione). Il problema della credibilità di una persona si pone soprattutto nelle relazioni caratterizzate da livelli crescenti di estraneità e talvolta richiede, affinchè una relazione possa iniziare, una anticipazione di credibilità.
Nel valutare le condizioni per accordare tale anticipazione entra in gioco il concetto di fiducia. Nel valutare le condizioni per accordare tale anticipazione entra in gioco il concetto di fiducia che è complementare alla credibilità, nel senso che si può parlare di fiducia solo quando l'altra persona è libera di tradirla (non vincolata da norme o imposizioni). Come ha scritto il sociologo Niklas Luhman (Le strategie della fiducia, Einaudi pp.131-132)"la fiducia non nasce da un pericolo intrinseco ma dal rischio. [...] Ciò che determina il rischio è un calcolo puramente interiore delle condizioni esterne. [...]". Vi sono molti concetti legati alla credibilità (affidabilità, attendibilità, reputazione, ecc.) dei quali è opportuno conoscere le proprietà e individuare le differenze.
Credibilità dei politici italiani. Credibilità del ruolo e credibilità nel ruolo. Quando comunichiamo non siamo quasi mai individui generici ma, la maggior parte delle volte, ci portiamo dietro un ruolo specifico riconosciuto dalla società: padre, insegnante, medico, manager, politico, operaio, ecc. I diversi ruoli professionali posseggono già, di per sè, una credibilità riconosciuta: la credibilità del ruolo che influenza positivamente o negativamente la nostra percezione dell'altro. Insieme a questo tipo di credibilità ve ne è però uno più pertinente alla persona che stiamo valutando ed è la credibilità nel ruolo. Essa equivale al modo in cui quella specifica persona interpreta quel ruolo, con i suoi personali pregi e difetti. Questi due tipi di credibilità si influenzano e, di solito, se si ha un ruolo socialmente credibile si tende a interpretarlo in modo da rafforzarlo. Talvolta ciò non accade: ad esempio in Italia, negli ultimi anni, il patrimonio di credibilità del ruolo politico è stato sperperato da comportamenti personali discutibili sul piano etico (vedere ad esempio: G.Stella, S.Rizzo, La Casta - Perchè i politici italiani continuano a essere intoccabili 2007 Rizzoli). Dunque, a fronte del discredito della credibilità del ruolo, i politici (se sono eticamente dotati), dovranno impegnarsi di più nella loro credibilità nel ruolo per sperare che l'altro tipo di credibilità possa essere recuperato.
Radici della credibilità. Secondo Gili (p.7) le radici della credibilità, che i riceventi cercano nelle persone, sono tre:
radice cognitiva: è la competenza o qualifica riconosciuta di esperto.
radice etico-normativa: è la condivisione di valori percepiti (pregiudizi inclusi).
radice affettiva: è la condivisione emotiva di appartenenza (a un gruppo, un'associazione, un partito, ecc).
Verifica della credibilità di una persona sul Web. Il web offre la possibilità di verificare rapidamente la credibilità di una persona (la sua reputazione), attraverso: i commenti postati sui blog/forum, le menzioni ricevute da altri soggetti, le immagini postate sui social networks, ecc. Questa possibilità può diventare un rischio per chi pubblica incautamente informazioni che lo riguardano, perchè spesso esistono scostamenti tra l'identità personale e l'identità digitale della stessa persona, dovuti al modo in cui la personalità dell'individuo viene "costruita" in rete. Tale problema ha dato luogo alla creazione di una nuova figura professionale: quella dell'"online reputation manager". Naturalmente ciò riguarda soprattutto le persone che hanno una immagine pubblica da difendere, ma ciò diventerà una necessità anche per le persone comuni. Quando la credibilità online di una persona viene danneggiata (dai suoi comportamenti reali o da quelli di altri) esiste la possibilità che essa si rivolga a un servizio di ricostruzione della propria reputazione digitale. Alle persone "normali", consigliamo di attuare i consigli suggeriti dall'articolo "Google e web, come gestire la reputazione online". Per chi volesse fare qualcosa in più Susan Adams ha pubblicato su Forbes sei utili consigli per gestire la propria reputazione online nel seguente articolo: "6 Steps To Managing Your Online Reputation". Esistono peraltro servizi rivolti a persone che hanno molto da nascondere e desiderano rifarsi una verginità online, ad esempio i politici: ecco un esempio di azienda che offre una "web reputation per politici" che li "ripulisce" prima di affrontare una campagna elettorale.
Monitoraggio online. Esistono servizi di "ricostruzione" della reputazione online in grado di innalzare fittiziamente la credibilità di soggetti che hanno molto da nascondere. Ciò rende più faticosa la valutazione della credibilità online di coloro che hanno le risorse per accedere a tali servizi, quali: politici, imprenditori, aziende, ecc.
Patologie della credibilità. Generalmente, se nel corso della nostra vita abbiamo vissuto in ambienti con buone relazioni interpersonali, tendiamo ad accordare alla "gente" una fiducia generalizzata. L'influsso esercitato dal sistema mediatico sul singolo individuo dipende non solo dall'efficacia comunicativa dei media, ma anche dalla vulnerabilità del singolo. La mancanza di fiducia o l'eccesso di fiducia rientrano tra le patologie della credibilità, e si collocano ai due estremi dell'asse della fiducia. In tali patologie le persone possono avere un atteggiamento di sospetto generalizzato o, all'opposto, un atteggiamento di credulità senza limiti.
I vari gradi della fiducia si trovano tra due estremi: il sospetto generalizzato e la credulità senza limiti.
Teoria della coltivazione (dei telespettatori).
Eccesso di sospetto. Nella costruzione della fiducia, in mancanza di situazioni di familiarità, influiscono anche le rappresentazioni della società offerte dai mezzi di comunicazione di massa, ad esempio l'esposizione alla violenza nelle fiction in TV (più che nelle news). Secondo una ricerca pionieristica di George Gerbner (1976), la violenza in TV produce la convinzione che anche nella propria realtà sociale vi sia violenza e che esista un'alta probabilità di rimanerne vittima. Gerbner propose una teoria (Cultivation theory) nella quale la Televisione, anzichè essere una occasione di riflessione sul mondo reale, può sostituirsi alla realtà nelle persone che si espongono per molte ore al giorno ai suoi programmi. Secondo questa teoria le persone vengono "coltivate" fin dall'infanzia ad accettare storie, preferenze, messaggi dalla TV anzichè dalle persone reali del loro ambiente sociale. La teoria della coltivazione ha ricevuto molte critiche per le modalità di svolgimento delle interviste ma, nonostante ciò, rimane un'ipotesi sociale che mantiene un elevato grado di credibilità.
Eccesso di credulità. Riguardo alla credulità fanno riflettere i metodi usati da Kevin.D. Mitnick, un famoso hacker statunitense, per carpire informazioni riservate (L'arte dell'inganno, 2002 Feltrinelli). Mitnick ha dimostrato che l'anello debole della sicurezza dei sistemi informatici (anche i più sofisticati) non è di natura tecnologica ma è il fattore umano. Egli riusciva a procurarsi le informazioni più riservate semplicemente... chiedendole, cioè sfruttando la credulità delle persone. Egli aveva la capacità di rendersi credibile a interlocutori che non aveva mai visto nè sentito prima. Questa capacità è stata chiamata ingegneria sociale (social engineering) e consiste nel raccogliere informazioni sulla vittime (spesso per telefono) per poi arrivare all'attacco vero e proprio (di solito di natura informatica). L'ingegneria sociale impiega metodi quali: nascondere la propria identità, mentire, ingannare, rendersi credibili e sfrutta alcune tendenze generali dell'essere umano: il desiderio di rendersi utile, la tendenza alla credulità, la paura di mettersi nei guai (se non rispondono alle richieste). Nel suo libro Mitnick, che ora fa il consulente di sicurezza alle aziende, descrive nel dettaglio in che modo vengono effettuati i tentativi di manipolazione e come imparare a difendersi.
· L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.
Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.
Dispotismo: dispotismo (raro despotismo) s. m. [der. di despota e dispotico]. – Governo esercitato da una sola persona o da un ristretto gruppo di persone in modo assolutistico e arbitrario, senza alcun rispetto per la legge. In particolare e detto Dispotismo illuminato, quello dei sovrani riformatori del 18° secolo, ispirato alle teorie politiche e filosofiche dell’illuminismo francese (esaltazione della Ragione, accettazione dell’assolutismo come forma di governo, ecc.). In senso estensivo e figurativo: autorità che si esercita in modo prepotente, oppressivo; atteggiamento ispirato a estremo autoritarismo, a noncuranza o a disprezzo degli altrui diritti.
La teoria di Montesquieu: Lo Stato e la suddivisione dei poteri. La moderna teoria della separazione dei poteri viene tradizionalmente associata al nome di Montesquieu. Il filosofo francese, nello Spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, fonda la sua teoria sull'idea che "Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti [...]. Perché non si possa abusare del potere occorre che [...] il potere arresti il potere". Individua, inoltre, tre poteri (intesi come funzioni) dello Stato - legislativo, esecutivo e giudiziario - così descritti: "In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo, punisce i delitti o giudica le liti dei privati", perché “una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica”. L'idea che la divisione del potere sovrano tra più soggetti sia un modo efficace per prevenire abusi è molto antica nella cultura occidentale: già si rinviene nella riflessione filosofica sulle forme di governo della Grecia classica, dove il cosiddetto governo misto era visto come antidoto alla possibile degenerazione delle forme di governo "pure", nelle quali tutto il potere è concentrato in un unico soggetto. Platone, nel dialogo La Repubblica, già parlò di indipendenza del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delineò una forma di governo misto, da lui denominata politìa (fatta propria poi anche da Tommaso d'Aquino), nella quale confluivano i caratteri delle tre forme semplici da lui teorizzate (monarchia, aristocrazia, democrazia); distinse, inoltre, tre momenti nell'attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. Polibio, nelle Storie, indicò nella costituzione di Roma antica un esempio di governo misto, in cui il potere era diviso tra istituzioni democratiche (i comizi), aristocratiche (il Senato) e monarchiche (i consoli). Nel XIII secolo Henry de Bracton, nella sua opera De legibus et consuetudinibus Angliæ, introdusse la distinzione tra gubernaculum e iurisdictio: il primo è il momento "politico" dell'attività dello Stato, nel quale vengono fatte le scelte di governo, svincolate dal diritto; il secondo è, invece, il momento "giuridico", nel quale vengono prodotte e applicate le norme giuridiche, con decisioni vincolate al diritto (che, secondo la concezione medioevale, è prima di tutto diritto di natura e consuetudinario). È però con John Locke che la teoria della separazione dei poteri comincia ad assumere una fisionomia simile all'attuale: i pensatori precedenti, infatti, pur avendo individuato, da un lato, diverse funzioni dello Stato e pur avendo sottolineato, dall'altro lato, la necessità di dividere il potere sovrano tra più soggetti, non erano giunti ad affermare la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Locke, nei Due trattati sul governo del 1690, articola il potere sovrano in potere legislativo, esecutivo (che comprende anche il giudiziario) e federativo (relativo alla politica estera e alla difesa), il primo facente capo al parlamento e gli altri due al monarca (al quale attribuisce anche il potere, che denomina prerogativa, di decidere per il bene pubblico laddove la legge nulla prevede o, se necessario, contro la previsione della stessa).
La Teoria di Voltaire: Tolleranza e Libertà di manifestazione del pensiero. La libertà di esprimere le proprie convinzioni e le proprie idee è una delle libertà più antiche, essendo sorta come corollario della libertà di religione, rivendicata dai primi scrittori cristiani nel corso del II-III secolo e, successivamente, durante i conflitti tra cattolici e protestanti (XVI-XVII secolo). D’altra parte, essa è stata sollecitata anche dai grandi teorici della libertà di ricerca scientifica (basti pensare a Cartesio o a Galileo) e della libertà politica (ad esempio, Milton), nonché, successivamente, dagli stessi filosofi del XVIII e del XIX secolo (Voltaire, Fichte, Bentham, Stuart Mill). Va detto, comunque, che soltanto in alcuni documenti costituzionali si parla di libertà di manifestazione del pensiero (art. 8 Cost. Francia 1848; art. 21 Cost.), laddove in altri testi si preferisce utilizzare l’espressione libertà di opinione (art. 11 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese 1789; art. 8 Cost. Francia 1814; art. 7 Cost. Francia 1830; tit. VI, art. IV, par. 143, Cost. Francoforte 1849; art. 118 Cost. Germania 1919; art. 5 Legge fondamentale Germania 1949; art. 20 Cost. Spagna 1978; art. 16 Cost. Svizzera 1999), libertà di parola (I emendamento Cost. U.S.A. 1787) o libertà di stampa (art. 18 Cost. Belgio 1831; art. 28 Statuto albertino).
La Teoria di Voltaire. Voltaire non credeva che la Francia (e in generale ogni nazione) fosse pronta a una vera democrazia: perciò, non avendo fiducia nel popolo (a differenza di Rousseau, che credeva nella diretta sovranità popolare), non sostenne mai idee repubblicane né democratiche; benché, dopo la morte, sia divenuto uno dei "padri nobili" della Rivoluzione, celebrato dai rivoluzionari, è da ricordare che alcuni collaboratori e amici di Voltaire finirono vittime dei giacobini durante il regime del Terrore, tra essi Condorcet e Bailly). Per Voltaire, chi non è stato "illuminato" dalla ragione, istruendosi ed elevandosi culturalmente, non può partecipare al governo, pena il rischio di finire nella demagogia. Ammette comunque la democrazia rappresentativa e la divisione dei poteri proposta da Montesquieu, come realizzate in Inghilterra, ma non quella diretta, praticata a Ginevra. Nel Trattato sulla tolleranza il filosofo denuncia le conseguenze dell’intolleranza e si scaglia, in particolare, contro il cristianesimo. Secondo Voltaire bisogna abbandonare il fanatismo delle religioni storiche e abbracciare unicamente una religione razionale che si basi sull’obbedienza a Dio e sull’esercizio del bene. Essere tolleranti significa, per Voltaire: accettare la diversità e le comuni fragilità, rifiutare la tortura e la pena di morte e abbracciare una fede pacifista e cosmopolita. L'idea di tolleranza di Voltaire. Tutta la polemica di Voltaire contro le ingiustizie sociali, la superstizione, il fanatismo è esemplificata nella sua difesa del principio della tolleranza. Nella sua opera più importante, il Trattato sulla tolleranza, infatti, il filosofo parte da un fatto di cronaca (un processo concluso con la condanna a morte di un protestante di Tolosa) per denunciare globalmente le conseguenze dell’intolleranza, ed in particolare si scaglia contro il cristianesimo. «I cristiani sono i più intolleranti degli uomini», o «la nostra (religione, n.d.r) è senza dubbio la più ridicola, la più assurda e la più assetata di sangue mai venuta a infettare il mondo» scrive. Ma la sua requisitoria è diretta contro tutte le religioni storiche che hanno tradito il loro comune nucleo razionale, fatto di alcuni principi semplici e universalmente condivisi e, attraverso l’istituzione di dogmi e riti particolari, si sono macchiate di ogni tipo di crimine (dalle guerre alle persecuzioni). Abbandonare dunque il dogmatismo e abbracciare una religione spogliata dei suoi tratti esteriori e deleteri perché: «il deista non appartiene a nessuna di quelle sette che si contraddicono tutte… egli parla una lingua che tutti i popoli intendono… egli è persuaso che la religione non consiste né nelle opinioni di una metafisica incomprensibile, né in vane cerimonie, ma nell’adorazione e nella giustizia. Fare il bene è il suo culto: obbedire a Dio è la sua dottrina». L’uomo deve accettare la diversità, i diversi punti di vista, in quanto, secondo Voltaire, essere tolleranti significa accettare le comuni fragilità: «Siamo tutti impastati di debolezze e errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura… Chiunque perseguiti un altro suo fratello, perché non è della sua opinione, è un mostro». La tolleranza deve animare qualunque tipo di potere politico e Voltaire si scaglia, quindi, anche contro l’uso della tortura e della pena di morte. Allo stesso modo attacca l’uso della religione per giustificare le guerre e rigetta il nazionalismo in nome di una fede cosmopolita. La celebre frase: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo», a cui è legato indissolubilmente il nome di Voltaire, in realtà non fu mai pronunciata dal filosofo. Appartiene, infatti, ad una saggista (Evelyne Beatrice Hall) che scrisse e ricostruì la vita e le opere di Voltaire. Ciononostante, sicuramente le prese di posizione del filosofo in merito non scarseggiarono e, anche nella sua vita privata, soffriva profondamente delle conseguenze dell’intolleranza degli uomini. Ogni anno, infatti, dedicava un giorno al lutto e all’astensione da qualunque attività: il 24 agosto, anniversario della notte di San Bartolomeo (una strage compiuta nel 1572 dalla fazione cattolica ai danni dei calvinisti parigini), si dice che aggiornasse la sua casistica dei morti nelle persecuzioni religiose arrivando a contarne 24/25 milioni. Ma la sua personalità non fu esente da contraddizioni: si batteva contro le guerre e il pacifismo ma faceva affari lucrosi nel campo dei rifornimenti all’esercito; era un paladino della tolleranza ma intrattenne degli accesissimi diverbi con l’illuminista Rousseau che screditavano la validità di tale principio; infine, celebri furono le prese di posizione sull’inferiorità degli africani rispetto a scimmie e elefanti, oltre che all’uomo bianco.
Voltaire e l'illuminismo oscurato dalle catastrofi. Commentando il terremoto di Lisbona del 1755 il filosofo rifletteva sui limiti della ragione umana. Dino Cofrancesco, Sabato 11/04/2020 su Il Giornale. Mentre nel mondo infuria il Covid-19, rileggersi Voltaire, come faceva il compianto Piero Ostellino nei suoi ultimi anni, può essere un tonico per l'intelligenza e un richiamo alla virile accettazione della realtà. Voltaire, è noto, rimase, come i suoi contemporanei del resto - philosophes e uomini comuni - sconvolto dal terremoto di Lisbona che nel 1755 provocò vittime e macerie non solo in Europa ma, altresì, in Africa (nel regno di Fez). Nella sola capitale del Portogallo crollarono ottanta edifici su cento e morirono sessantamila persone su duecentomila. Il terribile evento ispirò al filosofo un poema di struggente bellezza, Le désastre de Lisbonne (1756) che più di altri scritti, non meno famosi, compendia la sua visione del mondo, della natura, degli uomini, di Dio. Principe indiscusso dell'età dei Lumi, Voltaire è sempre meno letto o, almeno, se ne conoscono alcune opere teatrali (sia pure indirettamente, ad esempio, Semiramide, che ispirò il melodramma di Gioacchino Rossini, o Alzira, messa in musica da Giuseppe Verdi), l'evergreen Trattato sulla tolleranza o il celeberrimo Dizionario filosofico. Della sua vastissima produzione filosofica e letteraria, però, si sa ormai poco. Per questo si è grati a Domenico Felice - uno dei maggiori studiosi italiani di Voltaire e di Montesquieu - per aver distillato il meglio delle riflessioni voltairiane sulla condizione umana in un voluminoso ma godibilissimo Taccuino di pensieri. Vademecum per l'uomo del terzo millennio (Mimesis, con una sobria e illuminante Prefazione di Ernesto Ferrero). Gli ideari non sostituiscono la lettura diretta delle opere di un autore ma attivano l'attenzione su quelle che interessano di più e di cui spesso non si era nemmeno sentito parlare. In riferimento al tema della catastrofe che da mesi occupa le prime pagine dei giornali, il Taccuino può costituire un'ottima guida al Disastro di Lisbona, nel senso che ci permette di inquadrarne il messaggio nel più vasto ambito dell'etica di Voltaire. Innanzitutto ci fa capire che il suo illuminismo non ha nulla a che vedere con «le magnifiche sorti e progressive» su cui ironizzava il nostro Leopardi. Per Voltaire la ragione non è la pietra filosofale che rende immortali, onniscienti e dominatori delle forze avverse di natura, ma è il bastone che permette all'umanità sofferente di non inciampare nelle passioni perverse, nelle superstizioni, nelle tirannidi che aggiungono ai mali che già ci ritroviamo quelli dovuti alla nostra insipienza. «Se questo è il migliore dei mondi possibili, che mai saranno gli altri?», dirà Candido, il più famoso dei suoi personaggi. «Dai più piccoli insetti sino al rinoceronte e all'elefante - si legge in Prendere partito - la Terra non è altro che un vasto campo di guerre, di imboscate, di carneficina, di distruzione; non vi è animale che non abbia la sua preda e che, per catturarla, non impieghi l'equivalente dell'astuzia e della ferocia con cui l'esecrabile ragno cattura e divora l'innocente mosca». Eppure queste considerazioni che sembrano preleopardiane non gli impediscono di prendere «il partito dell'umanità» contro quel «sublime misantropo» che è Pascal. L'uomo, obietta al filosofo, «non è un enigma. L'uomo appare al suo posto nell'ambito della natura: superiore agli animali ai quali è simile per gli organi, inferiore ad altri esseri ai quali probabilmente somiglia per il pensiero. Egli è, come tutto ciò che vediamo, un misto di bene e di male, di piacere e di dolore. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le proprie azioni. Se l'uomo fosse perfetto, sarebbe Dio, e i pretesi contrasti, che voi chiamate contraddizioni, sono gli ingredienti necessari che costituiscono quel composto che è l'uomo, il quale è ciò che deve essere». Ma come è lontano da Pascal, così Voltaire lo è da Rousseau il quale, in una lettera dell'agosto 1756, sempre parlando di Lisbona, lo accusava di ateismo e di non considerare che «questo universo materiale non deve essere più caro al suo Autore di un solo essere che pensa e sente. Ma il sistema di questo universo che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri che pensano e sentono, gli deve essere più caro di uno solo di questi esseri. Può dunque, nonostante la sua bontà, o piuttosto grazie alla sua bontà, sacrificare qualcosa della felicità degli individui alla conservazione del tutto». Sembra quasi che nella lettera Rousseau anticipi i temi dell'ecologismo contemporaneo: a Lisbona «dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato minore, e forse non vi sarebbe stato». Ma Voltaire, critico implacabile sia dell'ottimismo razionalistico di Leibniz e di Alexander Pope, sia di quello preromantico di Rousseau, non trovava nessuna ragione - dal peccato originale, al quale non credeva, all'ordine immutabile dell'universo - per consolarsi delle tante vittime innocenti del terremoto. E scrive: «La natura è muta e la s'interroga invano/ si ha bisogno di un Dio che parli al genere umano/ Solo lui può spiegare il suo disegno/ consolare il debole, illuminare l'ingegno». E tuttavia questa sensibilità che fa di Voltaire più il figlio di Montaigne che il padre di Condorcet si traduce in un atteggiamento stoico che lo porta - allontanandolo dal trionfalismo illuministico - a una sorta di etica del destino. «Come voi - scrive ad Allamand nel dicembre 1755 - ho pietà dei Portoghesi, ma gli uomini si procurano più male gli uni agli altri sul loro piccolo mucchio di fango di quanto faccia loro la natura. Le nostre guerre massacrano più uomini di quel che ne inghiottono i terremoti. Se a questo mondo fosse da temere soltanto la sorte di Lisbona, ci si troverebbe ancora abbastanza bene». La ragione ci serve per evitare il peggio, non certo per costruire una città dell'uomo immune da ogni imperfezione. Per questo Robespierre si oppose alla traslazione al Pantheon dei suoi resti mortali.
La Teoria di Rousseau: La democrazia diretta come contratto sociale e la capacità del popolo libero a gestirla. A livello politico Rousseau parte da un presupposto sociologico: lo Stato moderno che sta nascendo e la borghesia che continua a governare stanno diventando incompatibili tra loro, scrive F Occhetta. Così per dare un senso all’uomo e alla società ritiene utile partire da un’ipotesi logica che, pur non essendosi realizzata nella storia, ne costituisce il fondamento. Il punto di partenza è costituito, secondo lo schema classico del giusnaturalista laico, dallo stato di natura, che costituisce lo scenario a partire dal quale è possibile interpretare la storia stessa. I processi politici e i sistemi istituzionali sono per Rousseau il modo di «governare» cittadini, che associandosi perdono la loro bontà naturale. Cultura e natura sono in tensione nel pensiero del ginevrino. L’immagine che usa è quella di un’arma pericolosa in mano a un bambino, per questo nei suoi scritti si incontra spesso una proporzione: l’uomo di natura sta alla bontà come l’uomo civilizzato sta alla corruzione. Gli uomini di natura possiedono solo due princìpi anteriori alla loro ragione: l’amore di sé e la pietà mentre l’uomo sociale è egoista e solo, il desiderio di apparire migliore degli altri lo porta ad essere invidioso e falso. Nello stato di natura, però, si radica un’altra contraddizione. Se, per gli illuministi la natura rappresentava un oggetto che la ragione analizzava «per Rousseau la natura rappresenta invece una realtà che non va vivisezionata con la ragione, ma prima di tutto amata e compresa col sentimento». La priorità del cuore sulla ragione, che porta a riconoscere la natura come buona, faranno di Rousseau un «illuminista pre-romantico». Basta poco però per perdere questo status ideale. Appena l’uomo isolato incontra altri uomini per associarsi, perde la sua bontà ed è costretto a fondare un patto iniquo. Questa svolta nella storia dell’umanità è per Rousseau la nascita della proprietà, che egli considera il vero male della storia e definisce con la nota immagine del palo: «Il giorno in cui un uomo ha piantato un palo e ha detto “questo è mio”, е gli altri uomini sono stati cosi ingenui da non strappare quel palo, dicendo “non c’è né mio né tuo”, in quel momento è cominciata la degenerazione della Storia». Le dottrine comuniste esaspereranno questa posizione. Se la natura umana è stata corrotta dallo sviluppo della civiltà e in particolare dall’introduzione della proprietà privata, ci chiediamo: come può essere rieducato l’uomo alla libertà? Qui tocchiamo un punto decisivo: «Per Rousseau la libertà non può che essere sociale: l’uomo è libero solo tra uomini liberi. La liberazione dell’uomo non può che essere frutto di un impegno solidale. Е la socialità che, secondo Rousseau, va riscoperta attraverso l’educazione, costituisce il primo dover essere dell’uomo. La libertà е l’uguaglianza ne costituiscono i frutti preziosi». In verità nel pensiero di Rousseau ciò che salva è una solitudine radicale: «Il “selvaggio” non tiene in alcun conto gli sguardi degli altri sa essere felice indipendentemente dagli altri e vive in se stesso. “L’uomo civilizzato” vive proiettato sempre fuori di sé, nell’opinione degli altri e deriva dagli altri la stessa coscienza della propria esistenza». Ma se gli uomini non si stimano né si aiutano, non si riconoscono reciproci e perdono la loro felicità incontrandosi, su che cosa basano la loro convivenza? Questi presupposti di natura antropologica e sociologica iniziano qui a creare problemi. Ritenere che la società sia la causa dei contrasti tra gli uomini (e non l’effetto) significa ritenere che le ineguaglianze date dalle diverse capacità e dall’appartenenza sociale prendono il posto dell’uguaglianza dello stato di natura. Ma c’è di più: «Le differenze naturali si trasformano in disuguaglianze morali e al tempo stesso gli uomini si riconoscono come individui. Per mezzo dell’opinione degli altri acquistiamo un’identità personale, ma diventiamo anche schiavi dell’opinione». La via d’uscita è di carattere morale e risiede nella capacità che ciascuno dovrebbe avere di rieducarsi alla libertà, facendo nascere il contratto sociale che è un «dover essere della coscienza», un’esigenza deontologica capace di recuperare i valori perduti dello stato di natura, quando l’uomo era buono. Ma c’è di più. Gli studi di questi ultimi anni dedicati al profilo psicologico del pensiero di Rousseau sostengono — con le dovute riserve — che la sua solitudine, il suo narcisismo e il suo masochismo siano stati le cause che lo portarono a teorizzare il «buon selvaggio» — figura letteraria già presente nel pensiero di Montaigne —, vittima innocente della società, e l’Emilio, la vittima innocente dell’educazione. In verità l’attualità del suo pensiero tocca il significato filosofico della «volontà generale» che è chiamata a guidare lo Stato per conseguire il bene comune. Secondo Rousseau la sovranità si poteva esprimere soltanto in un corpo collettivo, inalienabile e indivisibile. In questo meccanismo logico risiede l’ideologia democratica di Rousseau. Quali sono le condizioni che devono sussistere per far sì che uno Stato sia democratico? Lo Stato diventa nel pensiero di Rousseau la via di uscita politica per porre rimedio ai due grandi male sociali: quello di incontrare altri uomini in società e quello della disuguaglianza creata dalla proprietà privata. Il problema è dunque politico, e non antropologico. Il male non è mai all’interno dell’uomo ma nelle strutture politiche, che devono quindi essere riformate e cambiate. Non occorre una conversione morale e una nuova auto-comprensione dell’umano, ma è necessaria la trasformazione delle strutture politiche. In questa visione si concentra tutta la debolezza della proposta politica di Rousseau. La dimensione religiosa che potrebbe cambiare il cuore dell’uomo, insegnargli a distinguere il bene dal male e a conoscere Dio, per Rousseau deve essere invece legata alla politica che diventa per l’uomo la vera religione. Sono dunque le strutture politiche che dovrebbero essere «convertite» per espellere il male dalla storia, non gli uomini che le governano. Costruire lo Stato dunque diventa per il pensiero del ginevrino un atto religioso che non tocca il cuore del cittadino. Per questo alcuni studiosi sono inclini a ritenere che Rousseau secolarizzi il pensiero teologico introducendo l’idea di democrazia moderna. La democrazia, che si fonda sul contratto sociale, diventa in Rousseau lo strumento di redenzione e liberazione dal male; i cittadini non cedono la loro libertà e i loro diritti a un sovrano come riteneva Hobbes, ma alla collettività che li farà ritrovare insieme a tutti gli altri cittadini. Così la democrazia è per Rousseau quella forma di Stato in cui il popolo è allo stesso tempo sovrano e suddito. Per realizzare questa intuizione la sovranità deve essere esercitata direttamente dal popolo tramite procedure che garantiscano il principio di l’autodeterminazione dei singoli che devono realizzare il programma definito dall’interesse generale. L’ambito si sposta dal teologico al teleologico. In origine c’è una situazione buona (lo stato di natura), segue una caduta (la nascita della proprietà), ne consegue che per redimersi l’uomo deve far nascere lo Stato democratico. Della redenzione non ha bisogno l’uomo, perché è buono, ma la politica, perché il male della storia, che si radica nella proprietà, appartiene alla sfera giuridica. Proprio qui però si radica la seconda contradizione del suo pensiero: tutti possono esercitare i diritti di tutti; e se questi non sono concordi? Che cos’è in realtà la «volontà generale» su cui si sono fondate le moderne democrazie? È formalmente la guida dello Stato democratico, quella che il bene comune della collettività e che si distingue dalla volontà di tutti. La maggioranza va distinta dalla minoranza e la sua volontà coincide tendenzialmente con la volontà generale. Questa è rappresentata della «classe media», non da intendere come la classe borghese, ma quella che in una votazione si determina togliendo le parti estreme. L’interpretazione di questa scelta ha portato ad applicazioni storiche opposte: il pensiero liberal democratico ha fatto coincidere la volontà della maggioranza con la volontà generale; i totalitarismi e le dittature come quelle di Napoleone e di Marx, hanno ritenuto che la volontà generale venisse intuita da personalità carismatiche. Nel pensiero di Rousseau è mancato un ponte che collegasse la vita privata dell’uomo, la dimensione, per lui importante, della coscienza e dei buoni sentimenti, con la costruzione della città. È forse questa l’urgenza di cui hanno bisogno le moderne democrazie per riformarsi. A questo riguardo diventano preziosi due insegnamenti del ginevrino. Il primo è contenuto nell’Emilio, quando Rousseau ricorda che si può vivere in due modi, recitando una parte e privandosi di vivere autenticamente, come fanno gli attori di teatro; oppure vivere e lasciarsi vivere come in una festa quando ciascuno diventa se stesso. Il fine della politica poi lo richiama nella sua Lettera a d’Alambert: «Possano i giovani trasmettere ai loro discendenti le virtù, la libertà, la pace che hanno ricevuto dai loro padri!». «La ricerca del proprio vantaggio a spese degli altri è qualche volta temperata dalla pena che proviamo nel vedere gli altri soffrire. Prima che l’amor proprio sia interamente sviluppato, la pietà naturale agisce come un freno all’ardore con cui gli uomini perseguono il proprio benessere […].
La teoria di Cesare Beccaria: Certezza del Diritto e Pene certe, ma non crudeli. Scritto da Library.weschool.com. L’Illuminismo lombardo, in stretto rapporto con quello francese ma consapevolmente non rivoluzionario e di orientamento moderato, si sviluppa nell’alveo del riformismo di Maria Teresa d’Austria (1717-1780) e Giuseppe II (1741-1790). I punti caratterizzanti sono allora quellli del riordino generale del sistema economico-giuridico del tempo (in accordo con le necessità della nascente borghesia imprenditoriale, e contro l’immobilisimo del sistema aristocratico), la polemica contro la tradizione culturale dei secoli passati, l’idea che gli intellettuali debbano collaborare attivamente al progresso collettivo della società. In ambito letterario, rilevante è la preferenza per toni sobri ed eleganti, in reazione agli eccessi della poetica barocca; tra i nomi più direttamente avvicinabili a questi propositi riformistici, ci sono sicuramente Giuseppe Parini (1729-1799; si pensi all’ode La caduta o al poemetto Il Giorno), le commedie teatrali di Goldoni (1807-1793), le tragedie di Alfieri (1749-1803). I maggiori esponenti dell’Illuminismo lombardo sono innanzitutto, oltre a Cesare Beccaria, i fratelli Alessandro (1741-1816) e Pietro Verri (1728-1797) attivi animatori di battaglie amminsitrative e legislative e della vita culturale milanese. Due gli organi per sostenere questo disegno di riforma civile: da un lato l’Accademia dei Pugni, istituzione culturale fondata a Milano nel 1761 dei fratelli Verri, Beccaria ed altri intellettuali illuminati milanesi che si fa portavoce di un gusto moderno, anticonvenzionale ed antitradizionalista; dall’altro il periodico «Il Caffè» (1764-1766) che, ispirandosi all’inglese «Spectator», diffonde gli ideali dell’Illuminismo, come quando sostiene la necessità di una nuova lingua dell’uso, agile e moderna, sull’esempio dei principali modelli europei.Particolare risalto per l’Illuminismo italiano ha l’esperienza letteraria, culturale e politico-economica di Cesare Beccaria. Di famiglia di recente nobiltà, Beccaria studia presso i gesuiti e in seguito si diploma in diritto a Pavia, e, dopo essere divenuto membro dell’Accademia dei pugni, pubblica nel 1764 il saggio Dei delitti e delle pene, composto sulla spinta e l’attiva collaborazione dell’amico Pietro Verri. In pochi anni, grazie anche ad una traduzione in francese del 1766, l’opera conquista fama in tutta Europa, tanto di divenire un punto di riferimento anche per gli illuministi francesi, nella cui corrente di riflessione sui fondamenti del diritto moderno (si pensi a Montesquieu e alla teoria di divisione dei poteri, Helvétius, Rousseau e il suo Contratto sociale) i Dei delitti e delle pene si inserisce pienamente. In seguito al successo dell’opera Beccaria si reca a Parigi con Alessandro Verri per stringere i rapporti con i philosophes, ma, sopraffatto dalla nostalgia, l’autore resta nella capitale francese solo qualche settimana per poi tornare in Italia, provocando reazioni derisorie e una brusca rottura nel rapporto con Pietro Verri. Mentre Dei delitti e delle pene si diffonde per il mondo, a Milano Beccaria vive in solitudine, dedicandosi all’insegnamento di economia e collaborando con il governo austriaco per un disegno di riforma fiscale. Beccaria muore nel 1794. Tra le sue opere ricordiamo anche Del disordine e de’ rimedi delle monete nello stato di Milano nel 1762 (1762), primo scritto pubblicato che suscita svariate polemiche; le Ricerche intorno alla natura dello stile (1770), legate alle riflessioni sull’incivilimento della società, in cui collega lo studio dello “stile” alla scienza dell’uomo, rifacendosi al sensismo; e gli Elementi di economia politica, raccolta delle sue lezioni, pubblicata postuma nel 1804. La portata rivoluzionaria del saggio di Beccaria Dei delitti e delle pene (1764) è giustificata dal fatto che questo scritto getta alcune basi fondamentali del diritto moderno. Dei delitti e delle pene nasce all’interno del clima dell’Accademia dei Pugni, su espressa indicazione di Pietro Verri, che mette ampiamente mano alla prima stesura sia correggendola sia modificandone l’assetto. L’ordinamento finale dell’opera sarà ulteriormente modificato da André Morrellet (1727-1819), in occasione della traduzione francese due anni dopo la prima pubblicazione. L’opera, sull’onda di quei principi filosofici ed etici riscontrabili in Montesquieu e Rousseau, si sviluppa come un’articolata riflessione sulla natura e i principi della punizione inferta dalla legge a chi abbia commesso qualche reato: Beccaria tematizza quindi non sul rapporto causale tra “delitto” e “pena”, ma sulla natura filosofica e sul concetto stesso di “pena” all’interno di una società umana. Beccaria ritiene infatti che la vita associata sia rivolta al conseguimento della felicità del maggior numero di aderenti al “contratto sociale” e che le leggi siano la condizione fondante di questo patto; dati questi presupposti è evidente che le peneservano a rafforzare e garantire queste stesse leggi, ed è sulle pene e sulla loro applicazione che si concentra quindi l’opera di Beccaria. Scrive così nell’introduzione all’opera: Le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. Le pene sono dunque finalizzate sia adimpedire al colpevole di infrangere nuovamente le leggi, sia a distogliere gli altri cittadini dal commettere colpe analoghe. Le pene vanno allora scelte proporzionatamente al delitto commesso e devono riuscire a lasciare un’impressione indelebilenegli uomini senza però essere eccessivamente tormentose o inutilmente severe per chi le ha violate. Il tema si lega strettamente al decadimento della giustizia al tempo dell’autore, ancora legata all’arretrata legislazione di Giustiniano (il Corpus iuris civilis del VI secolo d.C.) e alla sua revisione per mano di Carlo V (1500-1558). La proposta riformistica di Beccaria vuole abolire abusi ed arbitri dipendenti, nell’amministrazione della giustizia, dalla ristretta mentalità aristocratica dei detentori del potere; secondo la prospettiva “illuminata” dell’autore una gestione più moderna del problema giudiziario non potrà che favorire, oltre che la tutela dei diritti individuali, anche il progresso dell’intera società (come nel caso delle osservazioni sulla segretezza dei processi o sul fatto che il sistema giudiziario presupponga la colpevolezza e non l’innocenza dell’imputato). La portata rivoluzionaria del discorso di Beccaria si evince in particolar modo dal discorso sulle torture, intese come uno strumento inefficace e perverso per ottenere un’illusione di verità; essendo il colpevole tale solo dopo la sentenza, le torture, utilizzate comumente come mezzo finalizzato alla confessione, sono inutili e illegittime e rischiano di assolvere coloro che, essendo più robusti di costituzione riescono a resistervi, e condannare innocenti dal fisico più debole. L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema. Inoltre l’innocente è messo dalla tortura in una situazione peggiore di quella del reo, in quanto il secondo, se resiste, è dichiarato innocente, mentre il primo anche se è riconosciuto tale avrà comunque dovuto subire una tortura immeritata. Altrettanto centrale è il discorso sulla pena di morte, alla cui origine Beccaria non riesce a trovare un qualche fondamento di diritto. Evidente è che non può essere un potere dato dal contratto sociale, perché nessuno aderirebbe a un patto che dà agli altri il potere di ucciderlo. Oltre a questa considerazione Beccaria nota anche che l’esistenza della pena di morte non ha mai impedito che venissero commessi quegli stessi crimini per cui altri venivano giustiziati. Infatti fa più impressione vedere un uomo che paga per la sua avventatezza, che vedere uno spettacolo che indurisce ma non per questo corregge: Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Dati questi presupposti Beccaria parte dal principio che non sia l’intensità della pena a far effetto sull’immaginazione degli uomini, quanto la sua durata ed estensione. La pena non dev’essere cioè terribile e breve, quanto certa, implacabile ed infallibile. Inoltre la misura dei delitti deve essere il danno arrecato alla società e non l’intenzione, che varia in ciascun individuo, e scopo della pena deve essere sempre la prevenzione dei delitti.
L’illuminato pensiero di Cesare Beccaria. IL TRATTATO DEI DELITTI E DELLE PENE, segna l’inizio della moderna storia del diritto penale. Saggio scritto dall’illuminista milanese Cesare Beccarla (1738-1794) tra il 1763 e il 1764, in cui l’autore si pone delle domande circa le pene allora in uso. scritto da G.M.S. il 3 Settembre 2016 su Umsoi. Nonostante il notevole successo e la vasta eco in tutta Europa (la zarina Caterina II di Russia mise in pratica i princìpi fondamentali della riforma giudiziaria in esso proposta, mentre nel Granducato di Toscana venne perfino abolita la pena di morte), nel 1766 il libro venne incluso nell’indice dei libri proibiti a causa della distinzione che vi si ritrova tra reato e peccato. L’autore afferma, infatti, che il reato è un danno alla società, a differenza del peccato, che, non essendolo, può essere giudicabile e condannabile solo da Dio. Alla base di questa distinzione sta la tesi secondo cui l’ambito in cui il diritto può intervenire legittimamente non attiene alla coscienza morale del singolo. Inoltre, per Beccarla non è “l’intensione” bensì “l’estensione” della pena a poter esercitare un ruolo preventivo dei reati, motivo per cui, fra l’altro, esprime un parere negativo nei confronti della pena capitale, comminando la quale afferma che lo Stato, per punire un delitto, ne compie uno a sua volta. E il diritto di “questo” Stato, che altro non è che la somma dei diritti dei cittadini, non può avere tale potere: nessuna persona, infatti, darebbe il permesso ad altri di ucciderla. Riprendendo i concetti roussoviani, Beccaria contrappone al principio del vecchio diritto penale “è punito perché costituisce reato” il nuovo principio “è punito perché non si ripeta”. Il delitto viene separato dal “peccato” e dalla “lesa maestà” e si trasforma in “danno” recato alla comunità. Sulla base della teoria contrattualistica, egli arriva a sostenere che, essendo il delitto una violazione dell’ordine sociale stabilito per contratto (e non per diritto divino), la pena è un diritto di legittima autodifesa della società e deve essere proporzionata al reato commesso. Le leggi devono in primo luogo essere chiare (anche nel senso di accessibili a tutti, cioè scritte nella lingua parlata dai cittadini) e non soggette all’arbitrio del più forte; non è giusto pertanto infierire con torture, umiliazioni e carcere preventivo prima di aver accertato la colpevolezza. Un uomo i cui delitti non sono stati provati va ritenuto innocente. L’accusa e il processo devono essere pubblici, con tanto di separazione tra giudice e pubblico ministero e con la presenza di una giuria. (Tuttavia per il Beccaria legittimo “interprete” della legge è solo il sovrano; il giudice deve solo esaminare se le azioni dei cittadini sono conformi o meno alla legge scritta). La stessa pena di morte va abolita in quanto nessun uomo ha il diritto, in una società basata sul contratto fra persone eguali, di disporre della vita di un altro suo simile. E’ impossibile allontanare i cittadino dall’assassinio ordinando un pubblico assassinio. Occorre che i cittadini siano messi in condizione di comportarsi nel migliore dei modi. La condanna capitale rende inoltre irreparabile un eventuale errore giudiziario. Il vero freno della criminalità non è la crudeltà delle pene, ma la sicurezza che il colpevole sarà punito.
I tre filosofi dell'Illuminismo. Da Comprensivocesari.edu.it. Charles de Montesquieu, un illuminista aristocratico, era favorevole a una monarchia costituzionale, sul modello di quella inglese. Egli sosteneva che i tre poteri dello Stato, cioè il potere legislativo (di fare le leggi), esecutivo (di applicarle) e giudiziario (di giudicare chi non le rispetta) non devono essere concentrati nelle mani di una sola persona. Per garantire la libertà politica ed evitare che pochi pravalgano su molti, è necessario che i tre poteri restino divisi e indipendenti. Questo principio, detto della separazione dei poteri, è accolto oggi dalle costituzioni di quasi tutti i Paesi. In Italia, ad esempio, il potere legislativo spetta al parlamento, cioè a rappresentanti del popolo liberamente eletti; il potere esecutivo al governo; quello giudiziario alla magistratura, costituita dall'insieme dei giudici. Per Jean-Jacques Rousseau, un filosofo di Ginevra, il potere dello Stato, cioè la sovranità, il potere di comandare, appartiene interamente al popolo, che è l'unico sovrano. Il principio della sovranità popolare, sta alla base delle moderne democrazie. Nelle democrazie moderne, come l'Italia, la sovranità popolare viene esercitata indirettamente attraverso i rappresentanti (deputati e senatori che formano il parlamento) scelti dal popolo e prende il nome di democrazia rappresentativa. Voltaire, il più famoso dei filosofi illuministi, non riponeva nel popolo alcuna fiducia ed era disposto ad accettare il governo di un sovrano assoluto, a patto che questi si dimostrasse "illuminato" e si lasciasse guidare non dal capriccio, ma dalla ragione, preoccupandosi dell'efficienza dello stato e del benessere dei sudditi. Molti sovrani europei sembrarono sensibili alle idee illuministe e attuarono nei loro Stati importanti riforme. Il loro sistema di governo prende il nome di dispotismo illuminato.
Il dispotismo illuminato. Le idee degli illuministi furono accolte da molti sovrani europei, come Federico II di Prussia, Maria Teresa d'Austria, la zarina Caterina II di Russia e, in Italia, Leopoldo, granduca di Toscana e Carlo III di Borbone, re di Napoli. Nella seconda metà del Settecento questi "despoti" (sovrani) introdussero delle riforme, cioè dei cambiamenti che avevano lo scopo di migliorare il loro Stato, rendendolo più efficiente e moderno. In Toscana, ad esempio, il granduca Leopoldo abolì la tortura e la pena di morte. Alcuni sovrani si preoccuparono di modernizzare l'agricoltura e combatterono l'analfabetismo, favorendo l'istituzione di scuole pubbliche laiche (cioè non religiose), tanto che l'istruzione pubblica ebbe un grande sviluppo. Questi "despoti illuminati" non cessarono di essere sovrani assoluti e spesso si proposero, molto più che il benessere dei sudditi, l'aumento del proprio potere ai danni della nobiltà e del clero, ossia i ceti privilegiati. Le idee illuministe si diffondono anche in Italia In Italia i centri illuministi più attivi furono due: Napoli e Milano. A Milano fu pubblicato un giornale intitolato "Il caffè", perchè si voleva che avesse sulla società lo stesso effetto stimolante che ha la bevanda sull'organismo umano. Del gruppo milanese faceva parte il marchese Cesare Beccaria, che nel 1764 pubblicò il saggio Dei delitti e delle pene, l'opera più importante e più famosa dell'Illuminismo italiano, in cui l'autore dimostrava l'inutilità della tortura e della pena di morte. Presto tradotto in molte lingue, il saggio contribuì a far modificare le leggi e i procedimenti giudiziari in alcuni Stati, fra cui il granducato di Toscana e l'impero austriaco.
Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Appunto di Filosofia che spiega e mette a confronto le varie idee politiche e etiche di tre esponenti dell'illuminismo: Montesquieu, Rousseau e Voltaire in relazione al clima storico. Elisa P. su skuola.net.
Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Gli illuministi erano grandi ammiratori del sistema liberale inglese, proponendolo come modello nel loro programma di riforme politiche per la Francia:
- libertà religiosa;
- Libertà di stampa;
- Abolizione dei privilegi fiscali;
- Limitazione dell'assolutismo regio.
VOLTAIRE - "Lettere filosofiche" (1734). Egli aveva fatto conoscere in Francia il sistema parlamentare inglese, rendendosi conto che la società civile francese era più arretrata di quella inglese e che l'eccessivo indebolimento della monarchia potesse degenerare in anarchia; Voltaire inoltre riponeva scarsa fiducia nelle masse popolari, poichè riteneva fossero soggette al dominio dell'ignoranza e della superstizione; per questo motivo un monarca assoluto, ma illuminato, poteva essere il migliore garante del rinnovamento della società. Egli identificava come possibili monarchi illuminati Federico II e Caterina di Russia.
ROUSSEAU. Rousseau aveva fatto inizialmente parte del movimento degli illuministi, ma a partire dal "Discorso sulle scienze e sulle arti" (1750) se ne era progressivamente allontanato. Nella sua opera egli respingeva l'idea di progresso e incivilimento (progresso verso migliori condizioni materiali di vita e costumi più raffinati e umani) e la contrapponeva con la visione di un'austera comunità repubblicana, nella quale le virtù morali e politiche contavano di più delle scienze, della tecnica e degli artificiosi raffinamenti dei costumi. Nel 1762 il filosofo pubblicò la sua opera politica più celebre e discussa "Il contratto sociale"; in esso proponeva un modello di Stato in cui il sovrano fosse tutto il popolo e le leggi derivassero dalla volontà generale del popolo. Inoltre Rousseau elabora il concetto di sovranità popolare che si riferiva alla capacità degli individui di cogliere l'unico interesse generale, liberandosi quindi dei loro egoismi. In un simile Stato gli organi del Governo erano al servizio dell' intera comunità. Venne anche elaborata anche la definizione di Stato democratico, in cui la proprietà privata doveva essere subordinata all'interesse generale.
MONTESQUIEU - "Lo spirito delle leggi" (1748). Montesquieu compì un esame comparativo delle diverse forme di Governo (repubblica, monarchia, dispotismo). Secondo lui il sistema di leggi di ciascun Paese ha uno spirito (logica interna); le leggi non sono solo il prodotto del legislatore, ma sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose. Egli voleva appurare se in Francia erano in atto processi che stavano trasformando la monarchia in dispotismo, questi processi dovevano essere fermati finchè si era in tempo;
il dispotismo appariva a Montesquieu come una forma di Governo tipica dei Paesi asiatici, dove era agevolato da tre fattori:
- l'enorme estensione;
- La fitta popolazione;
- La relativa semplicità delle strutture sociali.
Quando tra l'autorità del sovrano e la massa dei sudditi non esistono corpi intermedi dotati di autonomia, il dispotismo è un' evoluzione inevitabile. Tra le forze sociali intermedie, Montesquieu dava importanza a quelle magistrature supreme che erano i parlamentari. Nel momento in cui queste forze prendessero ogni potere, la monarchia sarebbe degenerata nel dispotismo; Montesquieu giudicava poco adatta per la Francia la forma di governo repubblicana; lo spirito repubblicano poteva solo realizzarsi in comunità territorialmente e demograficamente limitate, come Sparta e Roma nell' antichità. Dell'Inghilterra bisognava imitare la divisione dei poteri (la potenza statale così distribuita non sarebbe stata esposta al rischio dell'assolutismo) in tre funzioni diverse:
- la legislazione (Parlamento, l'emanazione di leggi generali);
- Il Governno (re e Governo, eseguire le leggi e occuparsi dell'alta politica);
- L'amministrazione della Giustizia;
La magistratura sarà pienamente indipendente dal potere del Governo, senza che nessuno dei tre poteri cerchi di usurpare le funzioni altrui, auspicava quindi una monarchia costituzionale.
Illuministi a confronto: Rousseau e Montesquieu. Giada.cofano (Medie Superiori) scritto il 12.04.17 su scuola.repubblica.it. L'illuminismo è un movimento di pensiero nato in Francia nel '700, sviluppatosi poi nel corso del secolo nel resto dell'Europa. Gli illuministi, collaborano insieme nello sviluppo delle idee, ma ognuno di loro pone un accento o una particolare attenzione su un aspetto, che viene quindi sviluppato in modo differente.
Rousseau, inizialmente faceva parte del movimento illuminista, poi con la pubblicazione di "Discorso sulle scienze e sulle arti" nel 1750, se ne allontana progressivamente. Sostiene che le arti e le scienze nascano da un progressivo snaturamento della sensibilità primitiva e originale dell'uomo, con conseguente negativo sugli esiti dell'evoluzione storica. Ogni passo verso la civiltà comporta, nell'uomo, il nascere di bisogni artificiosi, che lo distraggono dalle cose essenziali e autentiche. Rousseau, facendo emergere una critica radicale, respinge l'idea di progresso e incivilimento e lo contrappone con la visione di un'austera comunità repubblicana. Ne "Il contratto sociale", propone un modello di Stato in cui il popolo è sovrano, e le leggi derivano dalla volontà popolare. Gli individui così facendo si liberano dall'egoismo tipico del loro essere, sviluppando nuove capacità collaborative nell'interesse generale. La storia non era corruzione <>. Ma <>, fissando il vincolo della proprietà privata, del possedere la terra, che in realtà, originariamente, appartiene a tutti. La disuguaglianza tra gli individui deve essere risolta attraverso la ridistribuzione delle ricchezze, quindi con la definizione di leggi uguali per tutti ed uno Stato democratico.
Differente è invece la visione politica di Montesquieu, che individua nella monarchia costituzionale, un governo in cui i poteri non si sovrappongono, né entrano in contrasto tra loro. Attraverso un esame che compie sulle diverse forme di governo, Montesquieu comprende come le leggi siano, il risultato di una varietà di condizioni fisiche,meteorologiche, sociali e storiche e non semplicemente il prodotto della ragione pura o dell'istituzione arbitraria dei legislatori. Quindi il dispotismo che stava emergendo e affermandosi in Francia, tipico dei Paesi orientali, andava fermato tempestivamente. Il modello inglese che suggeriva la divisione dei poteri diviene per l'illuminista la migliore soluzione governativa. In ogni Stato la divisione consiste in <>. Non vi è libertà se questi tre poteri sono nelle mani di uno solo, o dello stesso organismo. Seguirebbero mancanza di controllo e abusi d'ogni tipo. Se il potere giudiziario è quello legislativo fossero uniti <>. Il principio della conservazione dei poteri è ancora oggi valido, e per noi contemporanei è una cosa scontata e ovvia. Ma nel '700 una tale riforma costituiva una sorta di conquista del potere politico, economico ed ideologico, da parte di una borghesia in fermento, cosciente della propria funzione sociale propulsiva.
Montesquieu e Rousseau sono solo due dei tanti filosofi che in questo periodo storico, hanno espresso le proprie tendenze e dottrine politiche: al primo, teorico del liberalismo moderato, si contrappone il secondo, che attraverso il suo "contratto sociale" ispirerà l'azione della borghesia democratica.
Montesquieu, la libertà risiede nella separazione dei poteri. Barbara Speca su rivoluzione-liberale.it il 17 Agosto 2011. Il viaggio alle radici del Pensiero Liberale continua con Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède et de Montesquieu (1689-1755), un protagonista dell’Illuminismo europeo nella prima metà del XVIII secolo che occupa, ancora oggi, una posizione di straordinario rilievo nella storia del liberalismo soprattutto grazie al suo capolavoro, lo Spirito delle Leggi, un’opera monumentale, frutto di quattordici anni di lavoro e pubblicata anonimamente nella Ginevra di Jean-Jacques Rousseau, nel 1748. Due volumi, trentadue libri, una vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento, nonché un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico. Avversario di ogni forma di oppressione dell’uomo sull’uomo, Montesquieu è il filosofo della moderazione e dell’equilibrio. A lui viene attribuita la teoria della separazione dei poteri che rappresenta uno dei princìpi necessari dello Stato di diritto e una condizione oggettiva per l’esercizio della libertà che per Montesquieu è “Il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono”. Sulla base dell’esempio costituzionale inglese, lo scrittore politico francese sostiene che l’unica garanzia di fronte al dispotismo risiede nell’equilibrio costituzionale di cui godono i paesi in cui i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sono nettamente separati e distinti, capaci di controllarsi a vicenda. “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà; perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano delle leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo o da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se un’unica persona o un unico corpo di notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie dei privati”. L’idea che la separazione del potere sovrano tra più soggetti sia una maniera efficace per impedire abusi affonda le sue radici nella tradizione filosofica della Grecia classica. Platone ne La Repubblica sostiene l’autonomia del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delinea una forma di governo misto denominata politìa, una condizione di equilibrio tra oligarchia e democrazia, o meglio, una democrazia temperata dalla oligarchia. Aristotele, per di più, distingue tre momenti nell’attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. In tempi più recenti, nella seconda metà del Seicento, John Locke sostiene la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Montesquieu apre però la strada alla politica moderna, perfezionando la teoria della separazione dei poteri già presente in Locke. Il giurista francese trasforma la sua ricerca scientifica e sociologica in un programma morale e politico: come strutturare un sistema di leggi che, nelle condizioni storiche date, produca il massimo di libertà.“La libertà politica è quella tranquillità di spirito che la coscienza della propria sicurezza dà a ciascun cittadino; e condizione di questa libertà è un governo organizzato in modo tale che nessun cittadino possa temere un altro”. Si può definire libera solo quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui affidato. Per contrastare tale abuso bisogna far sì che “il potere arresti il potere”, cioè che i tre poteri fondamentali siano affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire all’altro di oltrepassare il proprio limite, degenerando in tirannìa. La riunione di questi poteri nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perché distruggerebbe la “bilancia dei poteri” che costituisce l’unica salvaguardia o “garanzia” costituzionale in cui risiede la libertà effettiva dei cittadini. Secondo Montesquieu“Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica” e il dispotismo, anche se rappresenta una forma “naturale” di governo, è il pericolo supremo da evitare, in quanto una sola persona “senza né leggi né impedimenti trascina tutto e tutti dietro la sua volontà e i suoi capricci”. Montesquieu struttura un metodo di interpretazione delle leggi in cui scompare l’alternativa tra legge naturale universale e immutabile, di cui avevano parlato i giusnaturalisti, e l’incertezza o l’arbitrarietà delle leggi positive su cui, dai sofisti greci fino a Montaigne e Pascal, si basava il dubbio scettico sulla stabilità della giustizia umana. Montesquieu cerca di dimostrare come, nonostante la diversità e la complessità degli eventi, la Storia abbia un ordine e manifesti l’azione di leggi costanti in grado di superare i contrasti. Ogni Stato, a sua volta, ha le proprie leggi che non sono mai casuali o arbitrarie, ma strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione, addirittura dal clima. Montesquieu sostiene però che sia possibile stabilire, metodologicamente, i princìpi che regolano le leggi e ne determinano il carattere e la natura: le leggi, cioè, non si formano a caso, o secondo il capriccio di qualche individuo, ma seguono la direzione loro imposta da tutto un insieme di condizioni che è compito dello studioso indagare. Lo “spirito” delle leggi corrisponde all’anima dell’insieme di norme che regolano le relazioni umane nelle diverse società. Poiché tali norme variano nei diversi popoli, non è possibile valutarle in relazione a uno schema di princìpi dotati di validità assoluta, ma ne va chiarita caso per caso la dinamica interna, facendo uso di criteri costanti riconducibili all’esprit général che rappresenta il collante, il tessuto connettivo di ogni sistema giuridico, un principio non naturale e statico ma storicamente dinamico, di cui ogni legislatore deve tener conto. Il metodo di Montesquieu presuppone che i fenomeni sociali possano essere spiegati con leggi scientificamente rilevanti come quelle delle scienze naturali: le società umane, al pari di ogni essere vivente, sono sottoposte all’azione che deriva dall’intreccio delle situazioni e delle proprie caratteristiche fisiche e spirituali. Montesquieu tenta di organizzare il Diritto in categorie semplici alle quali ricondurre la grande varietà della struttura giuridica e sociale; mette in luce il grande ruolo assunto dalla Storia ed infine, sul piano politico, tenta di strutturare un modello pratico di società per salvaguardarla dai regimi dispotici. Seguendo le orme del Saggio sul governo civile di Locke, Montesquieu definisce le leggi “rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose” nonché manifestazione della ragione umana. In una società civile le leggi fungono da elementi regolatori in grado di mediare le tendenze individuali, in vista del perseguimento di un obiettivo comune. Dimostrato che il mondo fisico come il mondo dell’intelligenza dipendono da rapporti intrinseci alla loro stessa esistenza, Montesquieu esamina l’intreccio delle forze che agiscono nelle varie società storiche per scoprire coerenze e discordanze delle istituzioni e delle leggi rispetto alla loro essenziale necessità, al loro “esprit”. Le leggi fondamentali dello Stato prescindono dal principio e dalla natura del governo che per Montesquieu può essere repubblicano, monarchico o dispotico, a seconda che vi prevalga il principio della virtù, dell’onore o della paura. La stabilità dello Stato dipende dal principio del governo e si basa sulla coerenza delle sue leggi. Nella situazione storica in cui le leggi si dimostrino aberranti dall’esprit général che le ha determinate e le sorregge è necessario individuare la natura e la ragioni dell’errore. Quando il principio si corrompe, le migliori leggi diventano distruttive. Il principio della democrazia, ad esempio, si corrompe quando la nazione perde lo spirito d’uguaglianza o lo interpreta arbitrariamente. Nel suo capolavoro Montesquieu si propone di estendere allo studio della società umana il metodo sperimentale per fissare dei “princìpi” universali volti ad organizzare logicamente l’infinita molteplicità delle usanze, delle norme giuridiche, delle credenze religiose, delle forme politiche e per formulare, infine, leggi obiettive secondo le quali si articola costantemente, sotto l’apparenza del caso, l’incostante comportamento degli uomini. Non rifiuta la concezione machiavellica della politica come forza, ma la integra con un’accurata analisi delle molteplici “cause” – storiche, politiche, fisiche, geografiche e morali – che operano negli eventi umani. Le leggi positive formulate da Montesquieu riguardano principalmente: il diritto delle genti (leggi che regolano i rapporti esistenti tra i vari stati); il diritto politico (leggi che regolano i rapporti tra Stato e società civile); il diritto civile (leggi che regolano i rapporti tra i componenti della società civile). Rinuncia comunque alla ricerca della miglior forma di Stato, cara alla letteratura utopistica, e tenta di stabilire, concretamente, le condizioni che garantiscono, nelle diverse forme di governo, l’optimum della convivenza civile: la libertà. Il suo realismo e relativismo si salda con un alto intento normativo: un invito alla razionalizzazione delle leggi e delle istituzioni.
DA MARX ALLA RIFONDAZIONE. Giovanni De Sio Cesari.
PREMESSA. Nel secolo scorso due grandi movimenti mondiali si sono confrontati su tutti i piani possibili: il socialismo e il capitalismo. Il socialismo (e il comunismo) parlava di uguaglianza, di giustizia sociale, di solidarietà, era dalla parte dei poveri e degli oppressi; il capitalismo (liberismo) invece esaltava la competizione, puntava sull'egoismo, era dalla parte dei potenti. Per questo i giovani, i poeti, gli intellettuali, tutti quelli che avevano a cuore le sorti dell'umanità inclinavano sempre verso il socialismo. Tuttavia alla fine del secolo il capitalismo (liberismo) si è dimostrato, potremmo dire “purtroppo”, la forma più adatta alla civiltà industriale: il socialismo in parte è confluito nel capitalismo stesso e nella sua manifestazione più coerente e radicale, il comunismo, si è dissolto. In particolare il comunismo marxista è stato, in positivo o in negativo, il protagonista della storia del secolo scorso: nel nostro secolo invece è sparito come grande movimento storico anche nei paesi che si dicono ancora comunisti (Cina, Viet-nam tranne forse Cuba e Nord Corea) ed è rimasto una aspirazione di piccole minoranze politicamente ininfluenti. Almeno per le prossime generazioni il socialismo può rimanere una bella e nobile ideale ma non ha nessuna possibilità di realizzazione nella realtà nei fatti. Per un secolo quasi quindi Marx è stato il punto sul quale il mondo si divideva fra quelli che lo sostenevano e quelli che gli erano contrari: adesso il suo pensiero è fuori della realtà politica ma può dare suggerimenti, spunti, idee. Succede per Marx come per Mazzini o per Voltaire: ai loro tempi divisero il mondo ma ora sono un patrimonio comune: non siamo più contro o a favore di Mazzini, come i nostri antenati, ma giudichiamo storicamente Mazzini (e i liberali) insieme ai loro avversari reazionari, qualche volta anche riabilitandoli (come i Borboni di Napoli). Però Mazzini e gli illuministi furono dei vincitori nella storia nel senso che le generazioni che vennero dopo di loro li acclamarono come propri maestri: la storia invece ha dato torto a Marx: le statue di Mazzini sono ancora ovunque ma non se ne vedono di Marx. Ma questo nulla toglie al fatto che il pensiero di Marx rimane uno dei fondamenti della nostra cultura e della nostra civiltà. Il termine di marxismo e di comunismo viene usato in molti significati diversi e tutti validi e non ha senso parlare di "vero" comunismo contrapposto a un "falso" comunismo: le parole importanti hanno sempre tanti significati diversi e non vi è certo un copyright sul termine. Si definiscono comunisti e marxisti Stalin e Troztski, Togliatti e i sessantottini, Mao e Deng Xiaoping, (attuale dirigenza cinese ). Fondamentale è la distinzione poi fra pensiero marxiano (proprio di Marx, d'altra parte con tante interpretazioni ) e il marxismo (cioè il movimento che si fa ad esso, estremamente vario). In questa lavoro intendiamo mostrare brevemente l’evoluzione dal pensiero proprio di Marx fino a certe posizioni della cosi detta Sinistra Alternativa (S.A.) diffusa in tutto il mondo occidentale che, benchè tagliata ormai fuori dalla possibilità di governo, tuttavia mantiene un suo seguito vivace e attivo nella vita politica.
MARX : LA SCIENZA. La teoria di Marx non era un semplice pauperismo, incentrato sulle idee di giustizia e umanità (socialismo utopistico) ma voleva essere una disanima scientifica. La sua opera fondamentale venne intitolata, non a caso. “il capitale” (non “il comunismo”) perchè Marx intendeva mostrare, attraverso una analisi scientifica dell’economia capitalista che essa necessariamente doveva dissolversi per le proprie contraddizione interne e strutturali , non superabili. In sintesi, senza scendere nelle argomentazioni tecniche, Marx legò la sua dottrina alla previsione "scientifica" che i ricchi sarebbero stati sempre più pochi e sempre più ricchi (borghesi) e i poveri sarebbero stati sempre più numerosi e sempre più poveri (proletari) con la sparizione del ceto medio e dei lavoratori indipendenti. Ma questa previsione non si è affatto verificata: anzi è avvenuto il contrario di quanto previsto da Marx. In tutti i paesi capitalistici il ceto medio si è esteso fino a comprendere la grande maggioranza della popolazione e i lavoratori indipendenti sono sempre più numerosi di quelli dipendenti. Non esiste quindi una lotta del proletariato contro la borghesia perchè le due classi, nel senso marxiano, non esistono più. Le minoranze povere come gli emarginati, i giovani disoccupati, le famiglie monoredditi, gli emigrati, sono cosa diversa dal proletariato marxiano. I lavoratori non si identificano più con i salariati proletari di Marx: la classe dei lavoratori ha cambiato profondamente i suoi i caratteri. In essa confluiscono gli operai e gli impiegati, i dipendenti e gli autonomi, i professionisti e gli artigiani e i piccoli imprenditori e anche i pensionati e disoccupati: praticamente la classe lavoratrice si identifica con la nazione nel suo insieme. Resterebbero fuori solo i grandi industriali: la lotta di classe consisterebbe allora nella nazionalizzazioni delle grandi imprese: la cosa è stata fatta nel passato e ha dato risultati cosi negativi e catastrofici che tutti ora vogliono fare le privatizzazioni: non sarebbe certo nell'interesse generale cioè dei lavoratori. La lotta di classe attualmente è un concetto privo di significato. Il pensiero di Marx aveva una valore scientifico nel significato moderno del termine cioè non nel senso di verità assoluta (come fu inteso nei suoi tempi e dallo stesso Marx) ma di ipotesi che andava verificata nei fatti. Nella scienza moderna, infatti, si riconosce che non si può giungere alla verità ultima e definitiva dei fenomeni, alla essenza cioè come nella scienza antica ma che le leggi scientifiche sono ipotesi che spiegano i fatti FINO AD ORA osservati. Poichè nel caso di Marx la previsione si è dimostrata errata evidentemente anche la teoria era errata, come avviene nel campo delle scienze. Ma il fatto che le previsione non si siano verificate non toglie al fatto che la teoria fosse scientifica: bisogna solo prendere atto che si tratta di una teoria superata , “falsificata”, come si dice, dai fatti. Essa comunque conserva una grande importanza culturale e costituisce pur sempre una delle componenti fondamentali della cultura moderna.
SOCIALISMO REALE: LA RELIGIONE. E poi venne nel ‘17 la Rivoluzione Bolscevica in Russia. In realtà si trattava di qualcosa di profondamente diverso da quanto previsto “scientificamente” da Marx. Non si trattava della crisi finale del capitalismo, dell’esplodere delle sua contraddizioni perchè il capitalismo in Russia era appena appena ai primi passi e l’economia era ancora sostanzialmente a carattere feudale. Non esisteva quindi una proletariato nel senso marxiano del termine ma una sterminata moltitudine di contadini intrinsecamente tradizionalisti, come avrebbe detto Marx. Soprattutto non insorgeva, per il comunismo, il popolo nel suo complesso ma una minoranza esigua di rivoluzionari di professione che affermavano, e credevano effettivamente, di essere la autocoscienza del popolo. La caduta del capitalismo era intesa da Marx come un processo spontaneo, irreversibile, sostanzialmente pacifico che sarebbe avvenuto quando i tempi sarebbero stati maturi. Non a torto si era detto che il “Capitale ” era il libro dei capitalisti: si aspettava il crollo ma fino a che esso non sarebbe avvenuto il capitalista poteva tranquillamente godersi la propria ricchezza fino al grande giorno della Rivoluzione: i capitalisti potevano tranquillamente credere in Marx. Ma la Rivoluzione Russa era qualcosa di radicalmente diverso. Tuttavia si affermò che era una strada nuova, non prevista, si pensò anche che era un caso che la Rivoluzione fosse scoppiata in Russia e ci si aspettava che essa fosse dilagata rapidamente nel mondo capitalistico occidentale in America, in Inghilterra, soprattutto nelle Germania della crisi del dopoguerra. Ma questo non avvenne: alla fine degli anni 30 apparve chiaro ed evidente che la rivoluzione comunista non si sarebbe estesa in tempi brevi fuori dalla Russia: di fatto essa poi si estese a paesi poveri ed arretrati come la Cina. Invece in Russia si impiantò il regime staliniano: si sospettavano dappertutto complotti capitalistici, spie delle nemici, una città assediata che esigeva il massimo della disciplina, monastica più che militare. Ma se i fatti avevano smentito la teoria scientifica marxiana, Il marxismo allora divenne allora una religione, la più grande religione del ‘900. Allora tanta parte dell’umanità credette veramente che il regime sovietico avrebbe portato al mondo intero prosperità, giustizia pace. E ci voleva davvero una grande fede per credere che dagli orrori staliniani potesse nascere la società comunista prefigurata da Marx che è come dire che l’inferno in terra avrebbe prodotto il paradiso in terra. Come pensare che un regime che aveva provocato carestie spaventose, che aveva mandato a morte la grande maggioranza dei propri stessi dirigenti in spaventosi processi farsa, che dappertutto aveva sparso il terrore come nessun altro nella storia, era premessa della liberta, della prosperità, della umanizzazione. Ma in tanti ci credettero e i Don Peppone di tutto il mondo pensavano “ha da venì baffone” come di colui che avrebbe finalmente estirpato dal mondo una volta per sempre la ingiustizia e la povertà. E in tanti, in milioni, sacrificarono a questa fede terrena la loro vita e anche la verità e l’evidenza. A un certo punto gli stessi regimi comunisti si resero conto della impossibilita di raggiungere la società preconizzata da Marx. Allora la prospettiva del comunismo marxiano viene allontanato indefinitivamente nel tempo, diviene in pratica una richiamo teorico ufficiale ma in realtà si abbandonò il progetto concreto di instaurarlo, almeno in un futuro prevedibile. Si passa allora a quello che viene definito “capitalismo di stato” e i paesi comunisti in qualche modo si omologano al resto del mondo. L’evidenza e la verità erano divenute troppo forti perchè potessero ancora essere ignorate. Crollò allora la fede nel socialismo reale degradato a capitalismo di stato e il grande sogno del comunismo si spense lentamente nelle masse di tutto il mondo, lasciando un grande vuoto. Il comunismo era rappresentato da Stalin e Togliatti, Mao o i Kmer rossi, da quel terzo dell’umanità che aveva abbracciato quel sistema che sembrava allargarsi all'Asia tutta, all'Africa, all'America Latina: "le campagne che assediavano le citta," si disse. Poi a un certo punto è stato detto che quello non era il "vero" comunismo marxista, si e' parlato di "strappo" (nel 68), di "esaurimento della spinta propulsiva". Poi quel sistema è imploso improvvisamente dappertutto per decisone unanime degli stessi dirigenti (fatto forse unico nella storia) fra la soddisfazione dei popoli. Nessuno si richiama ad esso ma si parla al più di una rifondazione mentre invece il modello liberistico non solo ha vinto la sfida ma ha preso dovunque il posto del comunismo (Cina, Russia, paesi dell'est).
LA RIFONDAZIONE : LA SETTA. Ma se i regimi comunisti ormai sono spariti o quasi dalla storia quella antica religione del comunismo non è affatto spenta: continua nei gruppi della Sinistra Alternativa, piccoli di numero ma estremamente attivi sul piano ideologico e delle manifestazioni politiche. Già negli anni 60, e poi soprattutto con la contestazione del 68, quaranta anni fa ormai, si disse che non era finito il comunismo marxista ma solo una sua deviazione che non aveva niente a che fare con il vero pensiero marxiano. Infatti quando si dissolsero i miti comunisti, la maggioranza dei comunisti con Berlinguer si posero come i “veri” democristiani (la definizione e’ di Pasolini) cioè quelli che volevano realizzare quello che i democristiani avevano promesso ma non realizzato e massima aspirazione il compromesso con DC stessa: la democrazia borghese divenne allora la democrazia e basta, il capitalismo divenne l’economia di mercato, e si fece lo strappo da "Mosca". Ma la minoranza combattiva e motivata invece voleva rifondare il comunismo su nuove basi che non fossero quelle del socialismo reale: continuò sempre a vagheggiare una società alternativa ma in modo sempre più confuso e vago. L'esigenza della rifondazione nasce dall'idea che il comunismo realizzato sia una cosa sostanzialmente diversa da quello che Marx intendeva: si dice qualcosa di vero ma si pone anche una grande questione che non può essere ignorata: perche mai tutti quelli che per due generazioni hanno detto, e sono stati universalmente creduti, di seguire Marx, perche mai tutti poi hanno costruito sistemi tanto diversi da quello marxista? Perche erano tutti dei malvagi, dei traditori opportunisti, spie della CIA? Chi mai ci crederebbero e comunque nello spirito di Marx sono le condizioni materiali e non la moralità degli uomini a fare la storia. Non si accetta la spiegazione più elementare: il pensiero di Marx era inattuabile e per questo chi ha cercato ostinatamente di attuarlo ha costruito qualcosa di diverso, ha creduto di portare il paradiso in terra ma ha invece costruito solo l'inferno in terra. Quando vi era il grande partito comunista guidato da Togliatti, il migliore, il discorso era chiaro: si contrapponeva alla democrazia borghese la dittatura del proletariato, al capitalismo la economia pianificata, all’America l’Unione Sovietica. L’alternativa attualmente proposta invece non si capisce bene “cosa” sia, con quali “mezzi” attuarla (la rivoluzione e la via elettorale sembrano ambedue escluse), soprattutto “quando” (non pare in questa generazione). Alla fine raccoglie consensi da un piccolissimo gruppo di appassionati e dai molti scontenti (voto di protesta). L’inquadramento della realtà non corrispondono a quello della gente (cioè di quelli (nella stragrande maggioranza) non particolarmente politicizzati): la gente ha il problema del mutuo, della precarietà, dell’aumento degli alimentari e la S.A. parla di Multinazionali, di Afganistan, della base di Vicenza, di fascismo. I modelli cioè sono quelli di un altra società ALTERNATIVA e non corrispondono a quelli della società attuale: in altre parole si tratta di una filosofia che vagheggia una società che non esiste e non di un discorso politico che indica i mezzi per operare in quella che c'è. I gruppi marxisti hanno quindi assunto l'aspetto di una setta che va sempre più rimpicciolendosi ma che resiste, coraggiosa e indomita. Come tutte le sette è chiusa in se, impermeabile al mondo esterno: ritiene che tutti gli altri, il 98% delle persone non ha capito nulla o che è corrotta, o che è succube di un inganno globale o della TV, che ogni avvenimento si spiega con il complotto dei capitalisti e della Cia. Afferma che la fine del mondo capitalistico è dietro l’angolo anche se poi se ne sposta continuamente la data come fanno i testimoni di Geova, sulla fine del mondo. Anche le parole assumono significati diversi da quelli comuni e compare un frasario oscuro, incomprensibili ai non adepti. Non avendo quindi proposte proprie, concrete ed effettive, ha sostenute le “buone” cause che però non c’entravano niente con il comunismo: il pacifismo il divorzio, i gay, l’anti consumismo. Per colmo di assurdo sostengono pure HAMAS che è quanto di più lontano si possa immaginare dal comunismo e dalla sinistra in generale. Tuttavia i gruppi marxisti della Sinistra Alternativa assolvono a una importante funzione nelle democrazie occidentali in cui sono comunque inseriti e partecipi: rappresentano infatti la voce dissenziente che mette in discussione i concetti dominanti, le prospettive condivise, la direzione stessa verso cui corre la società. Costituiscono quindi una riserva essenziale di pensiero critico che va oltre le prospettive immediate e realizzabili, di tenere aperta cioè una alternativa logica alla necessita del momento. Riveste cioè quelle caratteristiche che furono anche nella storia del passato proprie delle sette alle quali si devono anche molti sviluppi della civiltà e della cultura. Giovanni De Sio Cesari
La sinistra ha il buonismo ed il Politicamente Corretto su immigrazione ed LGBTI, la destra il proibizionismo ed il punizionismo moralista sul sesso e la droga. Il Giustizialismo per entrambi è per gli altri, il garantismo per se stessi.
LA GUERRA ALLA CANAPA E IL POLITICALLY CORRECT DI DESTRA. Dimitri Buffa il 3 giugno 2019 su opinione.it. Il politically correct è un’invenzione della sinistra. Ma da tempo a destra viene scimmiottato. Basta cambiare di segno alcuni tabù e il gioco è fatto. La sinistra ha il buonismo, la destra il proibizionismo sulla droga e il punizionismo degli stili di vita. E questo è il primo parallelo che salta agli occhi. In entrambi i casi si tratta di cose stupide e poco pratiche. Dire “accogliamoli tutti” è altrettanto velleitario che dire “facciamo la guerra alla canapa”. Anche quella senza effetti stupefacenti. Ebbene, i rampanti nuovi “capitani” di questa destra che legittimamente aspira al governo della nazione Italia, perché non prendono esempio dai loro omologhi olandesi, come Geert Wilders, anche loro militanti anti islam e anti immigrazione selvaggia, ma tutt’altro che irragionevoli proibizionisti sulla canapa, light o hard che sia? Si parla dello “stato spacciatore”, ma perché si concentra questa furia proibizionista su un prodotto come la canapa che, con o senza il thc, rimane uno dei prodotti più innocui in natura alla faccia dei finti studi di alcuni scienziati politicizzati che dai tempi della Fini-Giovanardi sparano balle col cannone per dimostrare l’indimostrabile? Non esiste in natura la possibilità di avere effetti letali per ingestione o inalazione di cannabis. Mentre si può entrare in coma etilico alla seconda bottiglia di vodka, per arrivare a una dose letale di thc bisognerebbe mangiarsi in una botta sola qualche etto di resina di hashish. Ed esistono maniere più comode per suicidarsi. Ma al di là dell’effetto dopante, la canapa light dei negozi adesso di moda per la criminalizzazione propagandistica, semplicemente vendono un prodotto senza alcuna attività dopante. Lo stato spacciatore che vende alcool, sigarette e psicofarmaci perché dovrebbe menare scandalo se permettesse la vendita della cannabis con il thc e tanto più quella senza? Questo proibizionismo tutto centrato sulla canapa ricorda i primordi del proibizionismo degli anni ’30 in America. Guidato dalla mafia italo americana. Quando legavano il consumo da parte dei negri alla violenza sulle donne bianche nei manifesti che imbrattavano la New York di Fiorello La Guardia. Avevano appena perso la gallina dalle uova d’oro dell’alcool proibito su qualche altro consumo di massa occorreva puntare. E si badi bene che la scelta cadde sulla canapa proprio perché la fumavano tutti. Già negli anni ’30. Nel mondo c’è un intero continente di assuntori di erba e hashish (le statistiche parlano di 300 milioni di persone) e con quelli la mafia fa i soldi. Tutto sommato eroina e cocaina al consumo di massa non sono mai arrivate. Non a quei numeri comunque. E i numeri che ogni anno la Direzione nazionale antimafia fornisce confermano questo assunto. Anche se con la cocaina un enorme sforzo criminale in questo senso è stato fatto dalla fine degli anni ’70 in poi. Parlare come fa Salvini sulla canapa è anche fuorviante e pericoloso. Il messaggio che ogni droga è uguale tende a livellare tutto verso il consumo più pericoloso delle droghe pesanti. La propaganda è perniciosa e si rivolta sempre contro chi cavalca queste bugie. Da ultimo la parabola di Gianfranco Fini - che voleva mettere in carcere chi si faceva le canne e che rischia di finirci lui per riciclaggio insieme a questo signor Corallo il cui padre in America viene segnalato come uno dei boss del settore narco traffico - è molto significativa. Insomma si può essere di destra, per legge e ordine, senza necessariamente avventurarsi con le sirene del punizionismo moralista su sesso, droga e rock ‘n’ roll. I consumatori di canapa indiana, leggera o hard che sia, non sono tutti tribù di “zecche” dei centri sociali o apostoli dell’“accogliamoli tutti”. Ce ne sono milioni pure di destra. Così come ci sono centinaia di migliaia di omosessuali che votano Salvini. Perché allora regalare questa gente a una scialba a e opportunista sinistra che cavalca tutto quello in cui non crede pur di raccattare voti? Infine sulla cannabis light va fatta un’ulteriore riflessione, in attesa di conoscere le motivazioni di questa sentenza che molto probabilmente non cambierà nulla al di là di come è stata venduta dai servili mass media della tv pubblica del “neo sovranismo de noantri” (si dice che il commercio non può continuare nel dispositivo “a meno che la sostanza non abbia effetti droganti”, cioè esattamente come è oggi, ndr): se un ragazzo oggi spinto dagli amici va in giro a cercare cannabis non light ne trova quanta ne vuole anche sotto casa, visto che il mercato è capillare e incontenibile. Se invece si accontentasse della trasgressione “dethcizzata” dei negozi di cannabis light non sarebbe meglio? Quelli che non possono bere il caffè da sempre si bevono il decaffeinato, non è la stessa cosa? O si pensa di fare una cosa intelligente iniziando la battaglia contro l’alcoolismo vietando le birre analcoliche?
Il problema della destra con la canapa è solo una idiozia ideologica, un tabù, un politically correct all’incontrario. Si è rimasti col cervello infantilista all’epoca in cui i compagni si facevano gli spinelli e portavano i capelli lunghi e li si odiava per questo. E l’infantilismo della politica sembra non evolvere mai verso la razionalità.
Il nuovo fascismo: Liberale, Antifascista ed Europeista. Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019 su Nicolaporro.it. Caro Nicola, oggi il mio pezzo comincia a mo’ di lettera perché dobbiamo riconoscerci sconfitti. La nostra battaglia per la libertà, di parola prima di tutto, condotta fin dall’inizio da te, e da noi tutti, è persa. Me lo confermano due recenti fatti. Uno, di cui scrive Azzurra Barbuto su Libero del’8 ottobre: un insegnante livornese accusata di razzismo, e richiamata dai superiori, per aver proposto in classe un’esercitazione in cui si contrapponevano le ragioni dei favorevoli a quelle dei contrari all’immigrazione, senza prendere posizione. Come ha osato? Sarebbe come se nella Germania nazista si fronteggiassero le ragioni dei nazisti a quelle degli altri: l’accusa di essere ostile al Fuhrer sarebbe scattata subito. O come se in uno qualsiasi dei regimi comunisti si opponessero le ragioni del marxismo-leninismo a quelle degli altri: insegnante buttata fuori subito in quanto “traditrice del popolo”. Secondo fatto, da La Verità del 9 ottobre: i verdi italiani, riunitisi in una cabina telefonica, chiedono formalmente ai giornali e alle Tv di non ospitare le ragioni degli scienziati negazionisti: quelli che non credono alla (balla) della emergenza climatica. Non si capisce quale ritorsione i gretini nostrani minaccino, per i reprobi che continuino a pubblicare, ad esempio, Franco Battaglia. Ma l’avvertimento è lanciato. Di fronte a tutto ciò dobbiamo dichiararci sconfitti. E in nome del “nuovo umanesimo” professato da Giuseppi e i suoi fratelli (nel doppio senso) dobbiamo essere costruttivi. Ecco alcune proposte. Gli insegnanti di ogni grado, dai nidi all’università, dovranno rispettare i valori del SELA (Stato Etico Liberale Antifascista) che sono: 1) l’Antifascismo (che non abbisogna di spiegazioni, esso è, come l’Essere parmenideo); 2) l’immigrazione è positiva e gli immigrati (tutti profughi) sono intrinsecamente buoni, ci arricchiscono sia materialmente che spiritualmente; 3) l’emergenza climatica è un dogma inoppugnabile; 4) l’Europa è la nostra patria, le nazioni e i confini non esistono, l’Euro ci ha reso tutti più ricchi e felici. Gli insegnanti sono obbligati, al di là delle loro materie, a insistere sempre su questi valori e a ribadirli durante le ore di lezione: quindi avremo la Letteratura Liberale, la Matematica Liberale, il Disegno tecnico Liberale, la Musica liberale, e via dicendo. Apposite ore saranno tuttavia riservate per l’insegnamento della MLAE (Mistica Liberale Antifascista Europeista). Qualsiasi insegnante sia colto a mettere in dubbio questi valori sarà immediatamente licenziato ed eventualmente deferito al TDRLA (Tribunale per la Difesa della Razza Liberale Antifascista). Sarà fatto divieto agli insegnanti di mettere in dubbio i valori del SELA anche sui social, che saranno controllati da un‘apposita commissione del Ministero della Educazione Liberale Europeista. Chiunque anche solo ponga un like su post contrari ai valori del SELA sarà licenziato. Ma poiché il privato è pubblico e il pubblico è privato, grazie ai sistemi di ricognizione facciale e alle tecnologie introdotte dalla Cina comunista (un modello per il SELA), l’insegnante sarà licenziato anche se dovesse dubitare dei valori Liberali Antifascisti Europeisti in piscina o al bar. Sui pensieri, si sta lavorando, ma anche qui con l’apporto di Pechino si stanno facendo passi avanti. Per quanto riguarda invece i giornalisti, chiunque voglia scrivere su testate cartacee, on line o in tv o in radio dovrà possedere la tessera dell’OGLE (Ordine dei Giornalisti Liberali Europeisti). Qualsiasi giornale ospitasse pezzi scritti da estranei all’Ordine sarà chiuso. Ogni pezzo sarà comunque preventivamente controllato dal Ministero della Cultura Liberale Antifascista, ricordato più speditamente come MINCULA (senza apostrofo). Il MINCULA provvederà, attraverso appositi algoritmi, a modificare e a riscrivere pezzi che mettano in dubbio i valori del SELA. E’ chiaro che alla quinta modifica di pezzo nel corso di un mese, il MINCULA farà chiudere il giornale. Tutto questo, oltre che estremamente Liberale Antifascista ed Europeista, mi sembra anche nuovo per il nostro paese. O no? Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019
GENERAZIONE Z 2. Carole Hallac per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. Addio Millennials. All' Advertising Week di New York i riflettori sono puntati sui Gen Z, il gruppo demografico più influente del pianeta, e che entro il 2020, rappresenterà 2.56 miliardi di individui e conterà il 40% dei consumatori. Chi sono i Gen Z? Nati dopo il 1996, sono la prima generazione di «social natives», e usano in maniera istintiva e naturale i social media. Bombardati da continue informazioni, la curva per attirare la loro attenzione è di soli otto secondi, ma possono guardare Netflix per ore. Passano di media nove ore al giorno davanti allo schermo, quattro di queste facendo diverse cose allo stesso tempo in quanto abilissimi al multitasking. Per loro, mondo virtuale e quello reale sono realtà complementari, e alcuni considerano Alexa parte della famiglia. Sono diffidenti verso la classe dirigente, e più sovversivi dalle generazioni precedenti, capaci con un tweet di mobilitare un boicottaggio o creare un movimento per una causa a cui credono. La «we generation» I Gen Z si distinguono dai Millenials, considerati la generazione dell'«io», per essere quella del «noi» e usano i social media per creare comunità e non solo connessioni individuali. Pensano al noi in senso globale, non solo al proprio cerchio di amicizie, e sono sensibili al benessere collettivo. Negli Stati Uniti, il 51% appartiene a gruppi di minoranze, una diversità che vogliono celebrare. Questo vale anche per l' orientamento sessuale: solo due terzi si considera eterosessuale, e sin da piccoli, rigettano la divisione binaria spronando Mattel a introdurre una bambola no gender. Hanno a cuore l' eco sostenibilità, scegliendo brand e aziende che considerano etici (70%), sia per gli acquisti che quando entrano nella forza lavoro. Desiderio di autonomia Grazie all' uso delle risorse online, in particolare YouTube, i Gen Z hanno l' abilità di auto educarsi e ritenere un grande numero di informazioni. «Maturano sia fisicamente che mentalmente prima delle altre generazioni - spiega Monica Dreger, VP di Mattel - e ora sono parte delle decisioni importanti in famiglia, come l' acquisto di una casa o di una macchina». Il desiderio di autonomia spinge molti a lasciare gli studi dopo il liceo o lanciare il proprio business, e, sul lavoro, prediligono l' indipendenza mentre i Millennials cercano la collaborazione.
Il rapporto con i social. Il 94% dei Gen Z usa almeno un canale social, a cui quasi la metà ammette di essere costantemente connessa. In una ricerca dell' agenzia Hill Holiday, è pero emerso che il numero di Gen Z cui i social fanno sentire ansiosi, tristi o depressi, è in aumento (48% contro 41% nel 2017). Molto più giovani stanno cercando di staccarsene temporaneamente (il 58% contro il 50% del 2017), e di questi, un terzo si è completamente disconnesso. Tra le cause, la perdita di tempo, la negatività online, problemi di stima e preoccupazioni sulla privacy. Si rileva un aumento di "Finsta", finti profili Instagram in cui danno accesso a un numero ristretto di amici e sentono meno pressioni di pubblicare immagini di una vita perfetta. Ciò nonostante, il 74% ritiene che i social abbiano più benefici che svantaggi, come l' abilità di connettere con altri. Tra i canali in crescita, Tik Tok (40 milioni di utenti), e la piattaforma di gaming Discord (250 millioni). Come conquistarli La parola chiave per la Gen Z è l' autenticità. «I brand devono prendere sul serio il messaggio che vogliono comunicare, non può essere solo di apparenza - spiega Ziad Ahmed, fondatore ventenne di JUV Consulting, società di consulenza focalizzata sulla Gen Z - Abbiamo un filtro naturale per l' inautenticità». Vogliono sentirsi unici, scegliendo prodotti esclusivi, ad edizione limitata e personalizzati, e amano lo shopping esperenziale, spingendo molti brand digitali a creare negozi e pop up shop.
Greta Thunberg e Carola Rackete, ambientalisti e Ong fanno un partito insieme. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 6 Ottobre 2019. Tira una brutta aria in politica. Eravamo convinti di aver visto il peggio con la nascita del governo giallorosso, i grillo-comunisti al potere e la loro ideologia a metà tra Utopia e Incompetenza. E invece, tenetevi forte, al peggio non c' è mai fine perché stanno arrivando i gretini al seguito della Thunberg, il movimento dei Fridays For Future, ossia del cazzeggio del venerdì per bigiare la scuola, che ora ha intenzione di trasformarsi in un partito. Sì, ma mica un partito di periferia, buono a candidarsi per le elezioni locali. No, un partito globale. Dopo il successo avuto dalle piazzate dei ragazzini ecologisti in mezzo mondo, Greta & Co. sono pronti a fare il grande passo, a scendere in politica, sfidando dall' interno quel Palazzo che contestano, anzi aprendolo come una scatoletta di tonno, se non fosse che questa espressione è già stata usata ed è un po' troppo poco ecologista. Il Climate Party, il partito del Clima, cui darebbe vita la Thunberg, intende superare i «partiti verdi e ambientalisti che si sono impantanati nei giochi di potere dei parlamenti nazionali e regionali», si legge su Italpress, e proporre «una piattaforma programmatica alle elezioni, comune in tutti i Paesi occidentali», per dare vita - udite udite - a una «leadership governativa internazionale».
CORSI E RICORSI. L' ultima volta che un partito ha avuto una vocazione Internazionale è stata ai tempi del Partito comunista, e sappiamo come è finita. I proletari di tutto il mondo non si sono uniti spontaneamente; viceversa l' idea è stata imposta negli altri Paesi con esiti sanguinari. A questo retaggio globalista i gretini associano il mito della democrazia diretta e digitale, della E-democracy come a loro piace chiamarla. L' obiettivo è portare in politica i cittadini comuni, gli adolescenti dell' antipolitica, volti nuovi, candidi e quindi candidabili, facce pulite anche perché odiano tanto lo smog e l' anidride carbonica. Ma il problema, oltre che anagrafico, è di competenza: con quale esperienza, con quali conoscenze, con quali capacità di leadership questi sbarbatelli andranno a comandare, per dirla con Rovazzi? Non rischiamo una nuova accozzaglia di incapaci buttati lì nei Palazzi, mandati al macello, e allo stesso tempo in grado di mandare in malora tutto l' Occidente? Non bastavano i grillini, ora ci toccano pure i gretini. Il dramma è che alla loro ingenuità sommano pretese smodate come quella di salvare il pianeta, con un cocktail letale tra inettitudine e scarso senso della realtà. Questo Partito del Clima intende addirittura sfidare le superpotenze del Male come Cina, Russia, India, Pakistan, Iran, che «hanno anteposto gli interessi militari e nazionali al rispetto dell' ambiente». Ma ve li vedete quattro adolescenti imberbi e una paladina delle emissioni zero con le treccine far cambiare rotta a Putin, a Xi Jinping, a Modi? Ah be', c'è Greta Thunberg, c'è il partito del Clima, deindustrializziamo subito, torniamo a un' economia rurale Orsù, non fateci ridere. Aggiungici poi l' ideologia dello sconfinamento. Perché tutto, secondo i gretini, deve stare entro i parametri, i limiti (le emissioni, i consumi, lo sfruttamento delle terre coltivate), tranne le nazioni che devono perdere i loro confini e diventare globali. E qua l' ideologia di Greta si salda con quella di Carola, con lo slogan No Borders, con l' essere cittadini del mondo, e non figli di un luogo e di una storia. Soprattutto, però, quello che nausea è scoprire che la partecipazione genuina, l' ambizione nobile a cambiare le coscienze dei grandi del mondo, la battaglia senza doppi fini dei ragazzini si risolve, come sempre, in scopi molto più meschini: l' obiettivo di far carriera, di essere eletti e magari riuscire a occupare un giorno le stanze dei potenti.
COME FINIRÀ. Resta solo da capire chi guiderà, quali saranno i colori e come si chiamerà ufficialmente questo partito del Clima. Per la leadership Greta pare avvantaggiata, anche se al momento non può ancora eleggere né essere eletta e quindi per un paio d' anni dovrà farsi aiutare da qualche vicario. Per il colore, il verde sarebbe troppo sputtanato perché già utilizzato dai Verdi e dalla Lega: i gretini farebbero meglio a utilizzare un colore trasparente, come l' aria che vogliono respirare e come le loro idee, così trasparenti da essere invisibili. Per il nome, si potranno sbizzarrire con le sigle: Il Partito della Tripla Fi come Fridays For Future oppure C & G che non è la versione tarocca di Dolce e Gabbana ma sono le iniziali di Carola e Greta. Oh, però sti ragazzini devono fare in fretta. Nel 2030 il pianeta si estingue e, se non scendono in campo ora, rischiano di essere morti prima ancora di essere eletti. Gianluca Veneziani
· Introduzione.
Le stragi irrisolte. La vergogna infinita dei misteri d'Italia, scrive Venerdì 6 Dicembre 2013 Paolo Graldi su Il Messaggero. Del fatto, si sa, era il 2 agosto 1980. Tre parole per dirlo: strage di Bologna. L’ultima notizia, invece, è di questi giorni, avvolta in un velo di sconcerto ipocrita: ancora una volta non ci saranno i soldi per risarcire le vittime, i feriti, i famigliari. Lo Stato promette, rassicura, s’inchina. E scappa. Chi ci ha lasciato la vita, vittima inconsapevole e innocente, chi sopporta da trent’anni e più la ferita aperta di quella infinita notte della Repubblica, chi ha perso per sempre il sonno e sopravvive singhiozzando tra gli incubi (oltre alla stazione di Bologna, è assai lungo l’elenco con il massacro di Piazza Fontana, la bomba di Peteano, Piazza della Loggia, Ustica, l’Italicus, via dei Georgofili, la strage di San Benedetto Val di Sambro e molto altro), una intera, vastissima e dolente comunità, sorretta da una fierezza incrollabile, si sente ancora una volta tradita nei propri diritti. La querelle infinita sui conti mai saldati agisce come una metafora sulla disastrosa incapacità del Paese di porre la parola fine sulla stagione dei massacri e dei delitti con l’infamante marchio della politica. «Un Paese che rinuncia alla speranza di avere giustizia ha già rinunciato non solo alle proprie leggi, ma alla sua storia stessa. Ecco perché severamente, ma soprattutto ostinatamente, aspettiamo», ha scritto Sergio Zavoli nel suo imperdibile “La notte della Repubblica”, raccogliendo il pensiero di un sopravvissuto alla strage del 2 agosto. In quel libro, che è la trascrizione della serie tv, c’è anche la testimonianza di Vincenzo Vinciguerra, neofascista all’ergastolo, autore della strage di Peteano, una trappola in un’auto bomba per falciare una pattuglia di carabinieri. Quest’uomo, mai pentito, racconta “da dentro” quella terrificante stagione. E di quella è l’unico colpevole certo. Infatti è reo confesso. E dal ’72 è «da solo in guerra con lo Stato». Neofascisti irriducibili, iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli, generaloni e colonnelli dei carabinieri al Sifar, poi al Sid e infine al Sisde in posti di prima grandezza sono stati riconosciuti colpevoli di gravissimi depistaggi, trame complesse, sempre orchestrate in nome della paura di una guerra civile fatta scoppiare dai comunisti, mestatori impuniti e spavaldi, chiamati a proteggere lo Stato dall’assalto rosso. Giudici coraggiosi, alcuni hanno pagato con la vita (Occorsio, Amato, Scopelliti, il fratello di Imposimato), hanno cercato di dipanare la matassa del terrore ma la loro strada si è spesso incrociata con ostacoli insormontabili: chi doveva aiutarli nelle indagini, le ostacolava. Nella strage di Ustica, per esempio, l’ostinazione inarrendevole di Rosario Priore assieme con i rottami del Dc9 Itavia, inabissatosi poco più di un mese prima della bomba alla stazione di Bologna (coincidenza?), ha fatto riemergere dagli abissi tutte le losche complicità di altissimi ufficiali dell’Aeronautica, colpevoli (è storia di questi giorni, accertata definitivamente) di aver celato elementi indispensabili a ricostruire l’accaduto. Ora si sa che un missile fece precipitare l’aereo con il suo carico di 81 passeggeri diretti a Palermo. Ma ragion di Stato e opportunismi internazionali impediscono tuttora di vedere il traguardo. Senza nome anche i responsabili dell’esplosione a Piazza della Loggia, Brescia (28 maggio 1974), un evento che segnò la fase più cruenta e strategica dello stragismo. Nessun colpevole certo, tanti processi, come per Bologna con un gruppetto di ultraneri, in testa Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (colpevoli mai pentiti di una catena di omicidi nella guerriglia tra rossi e neri), condannati al carcere a vita per quella bomba alla stazione che negano risolutamente di aver fatto scoppiare e attualmente liberi dopo aver scontato oltre vent’anni. Vuoto, fitto di pagine bianche, mai scritte e dunque neppure mai cancellate, il capitolo dei mandanti: certo, intrecci con la malavita romana, la famigerata banda della Magliana, sodalizi criminali con boss della mafia siciliana (Pippo Calò), mescolanze politiche e malavitose quante se ne vogliono ma niente che illumini il quadro. Chiari i moventi, oscuri o comunque liberi i mandanti. Accanto a singoli episodi chiariti nei dettagli, per esempio la figura di Concutelli e di Tuti, assatanati assassini, o quella dei Moretti o dei Bonisoli sul fronte opposto, quello della sanguinaria epopea delle Brigate Rosse e con l’assassinio di Aldo Moro, gli scenari dei colpevoli si allungano ai nostri giorni, in un’inesauribile dispiegarsi di verità e di controverità, di rivelazioni e di sconfessioni. Se davvero è «beato quel Paese che non ha bisogno di eroi», è angosciante constatare che certo di eroi sono pieni i nostri cimiteri. Forse non inutilmente, si potrebbe sussurrare con ritegno. Ma il Paese quegli eroi dovrà pure meritarseli un giorno e saprà farlo solo quando la vera storia delle stragi, sia di terrorismo sia di mafia, sarà scritta senza che l’ultima riga sia dedicata all’annuncio della “prossima puntata”.
Vittorio Feltri contro il governo: "Tace su stragi e misteri, temo sia un esecutivo mafioso". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 05 agosto 2020. Non sono mai stato un dietrologo, un pistarolo, un appassionato dei misteri italiani, quindi non mi accingo ora che sono vecchio a improvvisarmi investigatore. Però una cosina la voglio dire chiara e tonda. Alcuni giorni orsono la stampa al complesso ha evocato con spreco di retorica la strage di Bologna, più di ottanta morti, avvenuta la bellezza di quaranta anni fa, 1980. A quel tempo ero al Corriere della Sera, redazione politica. E la mattina del micidiale scoppio ero seduto al famoso tavolo albertiniano insieme con Giovanni Belingardi. Vari dispacci ANSA avvertivano i giornali abbonati che era avvenuto un massacro. Ci mettemmo subito al lavoro con frenesia per ricostruire il fatto e predisporre gli articoli che lo narrassero e commentassero. Nel giro di pochi minuti il quotidiano di via Solferino, il più importante del Paese, si mobilitò con tutte le proprie forze. Immediatamente i sospetti a riguardo degli autori del mostruoso attentato caddero sui fascisti. La moda era già questa: la violenza è sempre in camicia nera. Seguirono indagini pressappochistiche e furono indicati quali pluriomicidi due cretinetti di destra, Fioravanti e la Mambro, che in realtà non erano attrezzati per compiere un disastro simile. Non importa. Costoro furono indagati, processati e condannati con una sentenza totalmente priva di prove. Caso chiuso? Chiuso un corno. Da quattro decenni si continua a discutere senza giungere a una conclusione minimamente credibile. Mambro e Fioravanti una vita fa sono stati giustamente scarcerati per pudore, ma i veri responsabili della macellazione sono ancora sconosciuti e pertanto nessuno li ha mai puniti. Sappiamo che la magistratura, nonostante dal fattaccio sia trascorso tanto tempo, è tuttora impegnata nelle investigazioni per tentare almeno di capire chi abbia finanziato la carneficina e magari risalire, sia pure con grave ritardo, ai signori assassini. Temo che si tratti di uno sforzo vano della Procura di Bologna, non perché essa ispiri poca fiducia, bensì per una ragione terra-terra. Il governo e le autorità centrali, tanto per cambiare, hanno secretato le carte riguardanti il misfatto, cosicché le toghe si troveranno di fronte a un muro invalicabile. Peggio di così non potrebbe andare, per cui andrà così: lo Stato invece di agire sotto la luce del sole e denunciare quanto di buono e soprattutto di cattivo è avvenuto nella nostra Repubblica, vi stende sopra il solito assurdo segreto. Gli italiani non devono sapere. Sono come bambini stupidi a cui bisogna occultare la verità altrimenti si incazzano. Il metodo è lo stesso usato da Conte per nasconderci i motivi per cui l'emergenza virus è stata prolungata fino all'autunno. L'esecutivo che non rivela ai cittadini le proprie attività temo sia mafioso.
· La strage di Bologna.
2 agosto, l’alfabeto della strage di Bologna. Angela e Zangheri, il bus, Cavallini, l’orologio e i misteri: non basta un vocabolario per l’orrore e i segreti, scrive Gianluca Rotondi il 2 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera".
Angela Fresu. La vittima più giovane del massacro. Aveva appena tre anni quel 2 Agosto 1980. Era con la madre Maria, 24 anni, emigrata dalla provincia di Sassari e impiegata in una fabbrica di confezioni a Empoli. Stava andando con due amiche e la figlioletta in vacanza al Lago di Garda. Erano insieme nella sala d’aspetto della stazione quando la deflagrazione le spazzò via. Si salvò solo una delle amiche. Al nome di Maria Fresu è legata un’anomalia che ha alimentato teorie, complotti e sospetti. Del corpo della ventiquattrenne non fu trovata traccia, se non, a distanza di tempo, un lembo di pelle. Come se si fosse disintegrata, ipotesi ritenuta assai improbabile da alcuni esperti.
Bene Carmelo. Le parole dell’indimenticato attore e drammaturgo risuonarono dalla torre Asinelli la sera del 31 agosto del 1981, nel primo anniversario della strage, quando davanti a migliaia di bolognesi declamò alcune letture della Divina Commedia. Dedicò quell’interpretazione struggente non alle vittime del massacro, ma ai tantissimi feriti che riuscirono a sopravvivere. L’evento fu accompagnato da polemiche e divisioni, anche in Rai, che ne impedirono la trasmissione. L’amministrazione comunale volle invece fortemente rispondere al terrorismo con la cultura.
Cavallini. L’ultimo dei Nar ad arrendersi e a finire a processo, 38 anni dopo l’attentato, con l’accusa di aver dato supporto logistico a Mambro e Fioravanti per commettere l’eccidio. Secondo la Procura fornì covi e mezzi in Veneto, lui 65 anni, sepolto dagli ergastoli ma in semilibertà, sarà interrogato dopo l’estate.
Desecretazione. Insieme ai mandanti del massacro, resta uno dei nodi che hanno segnato questi 38 anni. Nonostante promesse e impegni dei governi, di qualsiasi colore, non si è mai arrivati alla compiuta desecretazione degli atti custoditi negli archivi di Stato. Nemmeno la direttiva Renzi ha scalfito il muro eretto in questi anni, con archivi solo parzialmente aperti e molti altri rimasti inaccessibili insieme ai tanti segreti sulla stagione dell’eversione e sul grumo di poteri che anche negli apparati dello Stato hanno depistato o addirittura favorito le stragi.
Esplosivo. Quello nascosto in una valigetta e usato per compiere la strage è ancora oggi oggetto di analisi. Secondo gli atti giudiziari dei processi celebrati in questi anni, il 2 Agosto ‘80 furono usati 23 chili di esplosivo, circa 5 di una miscela di tritolo e T4 e 18 di nitroglicerina a uso civile. Nel processo in corso contro Gilberto Cavallini, accusato di concorso nella strage, il presidente della Corte d’Assise Michele Leoni ha disposto una nuova perizia sull’esplosivo per via dei dubbi sollevati nell‘appello bis sulla reale composizione dell’ordigno.
Fioravanti e Mambro. Gli ex neofascisti ragazzini dei Nar condannati con sentenza passata in giudicato insieme a Luigi Ciavardini si sono sempre dichiarati innocenti per Bologna mentre hanno confessato decine tra omicidi e rapine commessi con il gruppo armato di estrema destra. Recentemente hanno testimoniato entrambi nel processo all’ex compagno d’armi Cavallini.
Gelli. Il venerabile maestro capo della loggia massonica P2, già condannato per calunnia aggravata dalle finalità di depistaggio sulla strage e scomparso nel 2015, viene ritenuto dall’Associazione dei familiari il grande burattinaio che non sviò solo le indagini ma fu tra i mandanti e finanziatori della strage, il punto di raccordo tra servizi deviati e neofascisti arruolati per destabilizzare il Paese.
Innocentisti. Non sono pochi coloro che hanno a più riprese sostenuto che la verità sul 2 Agosto non sia quella cristallizzata nelle sentenze, peraltro rimaste monche quanto a mandanti e finanziatori. Tra loro figurano intellettuali, scrittori e magistrati che non hanno mai creduto alla verità giudiziaria e anzi hanno invitato a seguire piste alternative, finora rimaste prive di riscontri.
Lo Sciacallo. Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come Carlos, è un terrorista di origine venezuelano condannato in Francia per diversi attentati commessi col suo gruppo Separat. In più occasioni ha sostenuto di avere informazioni preziose sulla strage. Inizialmente accusò Cia e Mossad, poi i servizi segreti americani attraverso Gladio.
Mandanti. Il buco nero del 2 Agosto. La Procura in questi anni ha aperto e archiviato i fascicoli nati dagli esposti dei familiari per arrivare ai mandanti che ordinarono la strage. Di recente la Procura generale ha avocato a sé l’inchiesta che ora punta dritto su coloro che avrebbero finanziato i terroristi neri. L’inchiesta ruota attorno al documento intitolato «Bologna– 525779 – X.S.» e relativo a un conto aperto da Licio Gelli alla Ubs di Ginevra, proveniente dal fascicolo del processo per il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Per l’Associazione da quel conto sarebbero usciti milioni di dollari serviti a finanziare il massacro.
Neofascisti. Tra le ipotesi oggetto della nuova inchiesta, anche il finanziamento da parte della massoneria in favore di elementi dell’estremismo nero veneto, per esempio alla galassia di Ordine Nuovo di Carlo Maria Maggi, condannato in via definitiva per la strage di piazza della Loggia, a Brescia.
Orologio. Fermo alle 10,25, è uno dei simboli della strage alla stazione insieme all’autobus 37. Tornò in funzione dopo l’esplosione ma successivamente fu di nuovo bloccato, un fermo-immagine, ora eterno, per ricordare per sempre l’ora esatta della strage e coltivare la memoria.
Pista palestinese. È la pista alternativa(archiviata)alla verità codificata dai processi uscita dalla commissione Mitrokhin. Una strada sulla quale si è a lungo indagato senza successo e che vedeva nella rottura del Lodo Moro, l’immunità per l’Italia dagli attentati e il libero passaggio dei terroristi mediorentali nel Paese, la ragione del massacro a Bologna.
Quadro. Quindici giorni dopo la strage, l’Espresso pubblicò in copertina un quadro a cui Renato Guttuso diede lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Guttuso aggiunse solo la data del 2 Agosto 1980.
Risarcimenti. Li chiedono ininterrottamente da anni i familiari delle vittime e dei feriti. Alcune promesse sono state mantenute ma non tutte. Restano i vuoti sugli indennizzi e le pensioni.
Servizi. La mano degli apparati deviati dello Stato, dei gruppi di potere occulto che insieme a massoneria ed eversione nera avrebbero commissionato e depistato le indagini. È questo secondo i familiari delle vittime l’ultimo tassello per comporre il puzzle di quella stagione di terrore.
Trentasette. L’autobus divenuto il simbolo del massacro. Un bus di linea che dopo l’esplosione venne utilizzato per trasportare i cadaveri all’obitorio e permettere alle ambulanze di assistere i feriti. Quest’anno torna in moto per la prima volta e accompagnerà il corteo fino alla stazione.
Ustica. La tragedia del Dc 9 è stata più volte accostata alla strage, come se ci fosse un legame tra i due eventi e una unica matrice, quella libico-palestinese dietro i due attentati. Ma l’ipotesi emersa secondo alcuni dalla commissione Moro e che si fonderebbe su un patto, violato dall’Italia con i fedayn arabi, non ha mai trovato riscontri.
Vittime. Bambini, studenti, intere famiglie, pensionati, vacanzieri e lavoratori. Ottantacinque morti e più di duecento feriti che ancora chiedono verità e giustizia. I loro parenti sono di nuovo tornati in Tribunale a distanza di 38 anni nel processo a carico di Cavallini.
Zangheri. I compagno professore, il sindaco della strage, infonde coraggio alla città ferita a morte e pretende risposte. «Non arretreremo» dice in una piazza Maggiore gremita e attonita, con a fianco il presidente della Repubblica Pertini.
Bologna, quando mettere le bombe era un modo per far politica, scrive Paolo Delgado il 3 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Da Piazza Fontana al massacro della stazione di Bologna, una lunga scia di sangue e di misteri di Stato durata 11 anni. È stata la più sanguinosa e feroce di tutte: 85 vittime, il crimine più orrendo nella storia della Repubblica. Eppure quella di Bologna è stata una strage “fuori stagione”: la si potrebbe definire inattesa, se il termine non suonasse sinistro, e dunque difficilmente comprensibile. La vera stagione delle stragi, quella in cui le bombe esplodevano con frequenza oggi inimmaginabile anche se fortunatamente non tutte mietevano vittime, era iniziata nel 1969 e si era prolungata sino al 1974. Per rendere l’idea di cosa s’intenda basti dire che solo le Sam, Squadre azione Mussolini, attive soprattutto a Milano e nel nord, firmarono in quei cinque anni un’ottantina di attentati esplosivi. Per convenzione si data l’esordio della tremenda “stagione delle stragi” al 12 dicembre 1969, quando alle 16.37 del pomeriggio una bomba esplose nel salone della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano. L’attentato uccise subito 13 persone, altre quattro non sopravvissero alle ferite. I feriti furono 83. Una seconda bomba, nella sede milanese della Banca commerciale italiana, in piazza della Scala, non esplose. A Roma, nelle stesse ore, i botti furono tre: una bomba nel sottopassaggio di via Veneto, una di fronte all’Altare della Patria in piazza Venezia e un’altra all’ingresso del Museo del Risorgimento, nella stessa piazza. Nella capitale i feriti furono 16. Le esplosioni si verificarono tutte nell’arco degli stessi 53 minuti. Lo shock fu immenso e il seguito peggiorò le cose: la morte in questura dell’anarchico Pino Pinelli precipitato non si saprà mai come dal balcone della Questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, le false accuse contro gli anarchici, i depistaggi e le reticenze dello Stato, la scoperta del coinvolgimento di un neofascista arruolato e poi fatto fuggire all’estero dai servizi segreti, Guido Giannettini, “l’agente Zeta”, la farsa di un processo spostato da Milano, sede naturale, a Catanzaro nel quale sfilarono uno dopo l’altro gli uomini del potere muti e reticenti. Ma in quel 12 dicembre 1969 la stagione del sangue era iniziata già da mesi, il 25 aprile, con una bomba al padiglione Fiat della fiera di Milano, nessuna vittima, molti feriti. Poi, il 9 agosto, nel pieno dell’esodo estivo, otto ordigni scoppiarono su altrettanti treni. Le bombe del 12 dicembre furono le prime a uccidere, non a esplodere. La cosiddetta “strategia della tensione” avrebbe fatto nei cinque anni successivi 113 vittime in 4.584 attentati. Le stragi propriamente dette falciarono in quegli anni 50 persone. Secondo un luogo comune diffuso quanto infondato la sola strage di cui si conoscono almeno gli esecutori è quella di Bologna, arrivata sei dopo la fine della “strategia della tensione”. È un’idea sbagliata per molti motivi: prima di tutto esistono enormi dubbi, diffusi anche tra i magistrati che si sono occupati di stragi e di neofascismo sulla effettiva colpevolezza dei condannati per quella strage, i militanti dei Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. In secondo luogo, anche limitandosi alla in questo caso molto discutibile verità giudiziaria, i condannati non sarebbero né gli ideatori né gli esecutori materiali del massacro ma solo una sorta di “anello intermedio”. Infine e soprattutto i colpevoli per la strage di piazza Fontana sono stati individuati, i neofascisti Franco feda e Giovanni Ventura, anche se non condannati. Essendo stati già assolti in via definitiva in precedenti processi non potevano infatti essere riprocessati, e in ogni caso ventura è del frattempo deceduto. Piazza Fontana è una strage impunita, non più misteriosa. Ne seguirono parecchie. Il 22 luglio 1970, nel pieno della rivolta di Reggio Calabria, la più lunga rivolta urbana di tutto l’Occidente dal dopoguerra in poi, della quale anche per insipienza della sinistra avevano preso le redini i neofascisti, una esplosione sui binari provocò il deragliamento di un treno a Gioia Tauro: sei morti. Il 31 maggio un’autobomba uccise tre carabinieri a Peteano, in provincia di Gorizia. Reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra. Il 17 maggio 1973, un anarchico sospetto però di legami con vari servizi segreti qua e là per il mondo e con l’estrema destra, tirò una bomba nel cortile della Questura di Milano nel corso della commemorazione del commissario Luigi Calabresi, ucciso l’anno precedente: quattro morti, 40 feriti. Il 28 maggio 1974 la bomba di piazza della Loggia a Brescia, esplosa nel corso di una manifestazione sindacale antifascista, uccise otto persone. Quest’anno è diventata defiitiva la condanna per gli ordinovisti veneti Carlo maria Maggi. Pochi mesi dopo, il 4 agosto, l’attentato al treno Italicus fece 12 vittime e ne ferì 105. Che queste stragi, come molti altri attentati, rientrino nella stessa cornice è praticamente certo. Si trattava di una strategia di infiltrazione nei gruppi dell’estrema sinistra, di provocazione e di innalzamento costante della tensione con al termine il miraggio del golpe codificata dai teorici della guerra non convenzionale, molti dei quali si erano incontrati nel noto convegno svoltosi nel maggio 1965 all’Hotel Parco dei Princìpi a Roma, organizzato dall’Istituto di studi militari Pollio, appunto sulle strategie di “guerra rivoluzionaria e non convenzionale”. Ma parlare di identica cornice non implica affatto una regia comune o l’esistenza di un’unica centrale. È al contrario probabile che ciascuna strage risponda a logiche, circostanze e anche organizzatori diversi, sia pure nell’ambito dello stesso progetto di massima e degli stessi ambienti politici. Sono peraltro leciti dubbi anche sulla omogenietà tra l’ultimo attentato, quello dell’Italicus, e quelli precedenti. Altrettanto discutibile il coinvolgimento diretto dello Stato. L’idea che a organizzare le stragi fossero i governi o i vertici dei servizi segreti dell’epoca, largamente diffusa negli ambienti di sinistra dell’epoca, è fantapolitica venata di paranoia. Molto più probabilmente tra i servizi segreti e gli ambienti neofascisti sussisteva un rapporto in cui ciascuno dei due soggetti pensava di poter usare e manipolare l’altro. Certamente, nel clima della “guerra non convenzionale”, i neofascisti furono usati in funzione di infiltrati provocatori, ma gli stessi neofascisti pensavano di sfruttare la postazione ai loro fini, tutt’altro che coincidenti con quelli dei servizi stessi. La strage di Bologna cade però in una fase tutta diversa. In pochi anni il mondo e l’Europa erano cambiati: caduti i regimi fascisti in Spagna, Portogallo e Grecia, caduta l’amministrazione Nixon negli Usa, ogni pur tenue rapporto sospettabile si connivenza con l’estrema destra era stato tagliato. Per innalzare la tensione, in un Paese dove ferimenti e omicidi politici erano non per modo di dire all’ordine del giorno, non c’era certo bisogno e neppure ci si trovava di fronte a un’insorgenza sociale o politica “di sinistra” tale da giustificare un ritorno alla strategia della tensione. È vero che alcune bombe erano tornate a esplodere prima di quella tremenda di Bologna nel 1979 ma erano rimaneggiate in modo tale da fare solo rumore. Poche settimane prima della strage un ordigno era stato rinvenuto a palazzo dei Marescialli, sede del Csm, proprio nel giorno del raduno degli alpini nella stessa piazza Indipendenza. La strage fu evitata perché il timer non funzionò, ma l’artificiere del Movimento popolare rivoluzionario Emanuele Macchi, che firmò l’attentato, ha sempre sostenuto di aver modificato la bomba proprio per non farla esplodere. Dal momento che lo stesso Mpr era responsabile anche dei precedenti attentati a Roma, in ciascuno dei quali gli ordigni erano stati rimaneggiati in modo da renderli di fatto inoffensivi è probabile che Macchi non menta. Senza entrare in particolari, anche il contesto indica la strage di Bologna come sostanzialmente diversa da quelle precedenti e probabilmente da inquadrarsi più nel quadro delle tensioni internazionali, in particolare sullo scenario mediorientale, che in una sanguinosa “coda” della strategia della tensione. Il 23 dicembre 1984 un altro treno, il Rapido 904, fu squassato da un’esplosione. In quella passata poi alla storia come “la strage di natale” perirono 17 persone e i feriti si contarono a centinaia. Non fu una bomba politica e neppure legata a terrorismo internazionale. Quella del dicembre 1984 non fu l’ultima bomba della serie iniziata nel 1969 ma il primo anello di una nuova catena di sangue, le stragi mafiose. Serviva, secondo l’impianto dell’accusa, a distogliere l’attenzione dalle deposizioni dei primi grandi pentiti di mafia ed era stata organizzata, sempre stando alle condanne, da Pippo Calò, il boss di Cosa nostra che viveva a Roma. Ma il mandante, Totò Riina, è stato assolto tre anni fa. Un simile attentato era anomalo per gli usi di Cosa nostra, indicava però un cambio di strategia che si sarebbe dispiegato solo sei anni dopo, con le stragi di Capaci e via D’Amelio e poi con gli attentati dinamitardi di Roma, Firenze e Milano. La strategia della guerra aperta contro lo Stato.
La storia della Strage di Bologna, 85 persone uccise da una bomba. Redazione de Il Riformista il 10 Gennaio 2020. 2 agosto 1980. Stazione di Bologna, sono le ore 10.25: una bomba a tempo, nascosta in una valigia abbandonata, esplode nella sala d’aspetto della seconda classe. Perdono la vita 85 persone, duecento restano ferite. È la strage di Bologna, uno degli atti terroristici più gravi del secondo Dopoguerra. A causa della violenza dello scoppio, si sbriciola su se stessa un’intera ala della stazione, che investe in pieno il treno Ancona-Chiasso fermo al primo binario e il parcheggio dei taxi antistante. Le indagini si indirizzarono quasi subito sulla pista neofascista, ma solo dopo un lungo iter giudiziario e numerosi depistaggi, per cui furono condannati Licio Gelli, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte e Francesco Pazienza, la sentenza finale del 1995 condannò Valerio Fioravanti e Francesca Mambro «come appartenenti alla banda armata che ha organizzato e realizzato l’attentato di Bologna» e per aver «fatto parte del gruppo che sicuramente quell’atto aveva organizzato», mentre nel 2007 si aggiunse anche la condanna di Luigi Ciavardini, minorenne all’epoca dei fatti. La sentenza definitiva della Cassazione è del 23 novembre 1995: furono condannati all’ergastolo, quali esecutori dell’attentato, i neofascisti dei NAR Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che si sono sempre dichiarati innocenti, mentre hanno ammesso e rivendicato decine di altri omicidi, con l’eccezione di quello di Alessandro Caravillani di cui la Mambro si dichiara innocente. L’ex capo della P2 Licio Gelli, gli ufficiali del SISMI Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e il faccendiere Francesco Pazienza (collaboratore del SISMI) furono condannati per il depistaggio delle indagini. Il 9 giugno 2000 la Corte d’assise di Bologna emise nuove condanne per depistaggio: 9 anni di reclusione per Massimo Carminati, estremista di destra, 4 anni e 6 mesi per Federigo Mannucci Benincasa, ex direttore del SISMI di Firenze, e Ivano Bongiovanni, delinquente comune legato alla destra extraparlamentare. L’ultimo imputato condannato come esecutore materiale è Luigi Ciavardini: assolto dall’accusa di strage e condannato per banda armata, fu condannato a 30 anni in appello. L’11 aprile 2007 la Cassazione confermò la sentenza, rendendola definitiva. Nonostante la condanna, anche Ciavardini ha continuato a dichiararsi innocente.
Nicolò Zuliani per Termometropolitico.it il 2 agosto 2019. Sei una studentessa di 18 anni a Bologna. È il 2 agosto 1980 e tu sei una ragazza, hai compiuto da poco diciotto anni, indossi un vestito a righe blu e zeppe di tela che in quel periodo vanno di moda. Hai passato la maturità, sei andata a Bologna per vedere l’università che frequenterai, hai dormito a casa di un’amica e ora stai tornando a casa. Non esistono le macchinette automatiche e devi fare la fila in biglietteria, così per sicurezza arrivi presto. Appena metti piede in stazione capisci che hai avuto una buona idea.
Nell’ala ovest c’è la sala d’aspetto di seconda classe. Un uomo arranca con il peso inclinato a sinistra, per compensare il peso della valigia che tiene con la mano destra. La appoggia con cautela su un tavolino, tra le tante. La sua però contiene 23 chili di Compound B, un esplosivo militare composto da 5 chili di tritolo e di T4 (tciclotrimetilentrinitroammina), avvolti da 18 chili di nitroglicerina gelatinata (e collegati a una sveglia modificata). Si assicura la valigia sia appoggiata al muro portante, poi esce di fretta senza guardarsi attorno e asciugandosi il sudore. Alla biglietteria è quasi il tuo turno.
L’orologio sul muro segna le 10.18. Davanti a te noti un ragazzo alto con le spalle larghe, ma non riesci a vederlo in faccia. Si chiama Mauro di Vittorio, ha 24 anni e dal taglio dell’abito deduci sia un venditore. Provi a sfruttare il riflesso sul vetro della biglietteria, ma ci si mette davanti una coppiettai. Hanno circa la tua età, ridacchiano in inglese e i loro zaini blu e arancio ti coprono la visuale per colpa del sacco a pelo arrotolato. Te li immagini in tenda, al buio, da soli, e ti viene in mente il mostro di Firenze. Però tua madre dice che è solo in Toscana. Mauro fa il biglietto, passa, e non era questo granché.
Nella valigia, il timer segna le 10.19. Speri incroci il tuo sguardo, ma lui nemmeno ti vede e tira dritto. Gli dedichi un’ultima occhiata, poi incroci Iwao, 20 anni, seduto su una panca nell’angolo. Mangia e scrive su un quadernino, ha sandali da monaco e capelli nerissimi. Senza accorgertene, lo stai fissando. Lui ti fa un sorriso e un cenno con la testa, dietro di te qualcuno ti chiede di muoverti. Ti volti per scusarti e ti trovi davanti un vecchietto sulla sessantina, Pietro Galassi. Ha una vecchia giacca anni ’70 e una cravatta con fantasie larghe e scherzose, probabilmente è un professore. Ti scusi e fai il biglietto.
Il vecchio Tissot del nonno fa le 10.20. Fai due parole con una tua coetanea, Patrizia. Ha l’accento barese marcato, una camicetta di lino ricamata a mano e una minigonna assai più moderna. Anche lei si è appena diplomata in ragioneria, ed è lì con la madre, i nonni, la zia e le cugine per tornare a Bari. Si siedono nella sala d’aspetto alla tua sinistra mentre Sonia, di 7 anni, sta giocando con una bambola rossa. La sua famiglia è sfinita per il caldo e la madre la tiene d’occhio dietro un ventaglio nero con fiori rosa e verdi. S’è messa a giocare con Angela, una bimba di 3 anni che è incuriosita dalla bambola.
L’altoparlante comunica che il treno delle 10.21 è in ritardo di 10 minuti. Quando lo vedi entrare in sala d’aspetto. Ha 21 anni, occhi azzurri, i capelli corti e due labbra che sembra Marlon Brando. È uno dei tanti militari di leva, e probabilmente il ragazzo più bello tu abbia mai visto. D’istinto tiri su la schiena e ti sistemi meglio la gonna. Lui ti vede quasi contemporaneamente, fa un mezzo sorriso, tu ricambi distogliendo subito lo sguardo. Vedi una signora di 50 anni, Berta Ebner, che ha capito la situazione e gongola guardando altrove. Il ragazzo ti si siede vicino e si schiarisce la voce mentre tu ti auguri non dica una cosa troppo stupida. «Mi scusi, sa che ore sono?» domanda lui. Ti volti a guardarlo, ed è bello davvero. Noti che ha l’orologio e le vene sull’avambraccio, lui segue il tuo sguardo: «Oh, questo è… rotto.»
«Davvero?»
«Giuro» dice lui, sbattendolo contro la panchina. Poteva andarti peggio, nell’epoca dei paninari. Fai una mezza risata: «Sono le 10.22», rispondi a Roberto, 21 anni, artigliere di leva in licenza. Le tue farfalle nello stomaco lasciano spazio a un crampo ben meno nobile, realizzi che giorno del mese è, e ti rendi conto che è il caso di trovare un bagno alla svelta. Lui ti guarda confuso, ha paura di aver detto qualcosa di male. Tu mentre t’incammini sei incerta se dirgli qualcosa, poi decidi che un po’ di suspance gli farà bene. Il bagno è al secondo piano della sala d’attesa, dove c’è il bar. C’è parecchia gente, e Mirella, Euridia, Franca, Katia, lavorano sodo perché Rita e Nilla, 23 e 25 anni, proprio non ci sono con la testa; a entrambe i loro uomini hanno chiesto di sposarli, e stanno progettando come arredare la casa dove andranno a vivere. Vai alla cassa.
«Sono solo le 10.23 e senti che caldo fa» sbuffa la cassiera, Euridia, 42 anni. Le sorridi comprensiva e domandi dov’è il bagno. Una volta dentro ti accorgi che avevi ragione, infili l’assorbente nelle mutande e ne approfitti per sistemarti i capelli, verificare il trucco e correggere il rossetto. Esci e quasi ti scontri con una vecchietta, Maria Idra, 80 anni. Ha un vestito blu scuro a fiorellini e ti rivolge un sorriso stanco. Le tieni aperta la porta e passi davanti al banco del bar. Hai fatto colazione, ma qualcosa di fresco ti farebbe voglia. Però non ti va di far aspettare troppo l’artigliere, così guardi con invidia la limonata fredda in mano a Viviana Bugamelli, 23 anni, nell’esatto momento in cui confessa a suo marito Paolo di essere incinta. Lui si trasforma in una statua di sale.
L’orologio sopra la macchinetta del caffè segna le 10.24. Dalla radio parte “Our last summer” degli ABBA. Scendi le scale e schivi Irene Breton, un’orologiaia svizzera con un vestito orrendo che la fa sembrare biancaneve, poi un uomo che voltato verso l’esterno grida a qualcuno «Un attimo che prendo le sigarette». La banchina del primo binario s’è riempita e devi fare la gimcana tra Argeo, un ferroviere 42enne che fuma la pipa, Vincenzo, un 34enne che si infila in bocca una gomma da masticare annusando avidamente l’odore della pipa del ferroviere, una coppia di anziani che si tiene per mano, una francesina della tua età con un cappello di paglia e un vestito di seta con cucito “Brigitte” che legge un libro di Prevert, Leoluca che ha la salopette macchiata d’intonaco e vernice, Carlo Mauri che osserva i cavi del treno, poi Francesco, Antonio, Vito, Lina, Romeo, Mario. Arrivi in vista della sala d’attesa.
La sveglia nella valigia segna le 10.25. In un microsecondo le molecole dell’esplosivo si espandono e moltiplicano, spingendo l’aria attorno in un’onda di pressione a sfera che impatta contro corpi, muri, pavimento e soffitto a 9000 metri al secondo con una potenza di 26.9 G, portando la temperatura a 1240°. Le persone più vicine alla valigia vengono vaporizzate dal calore o spappolate, mentre il soffitto e i muri si dilatano fino a spaccarsi, travolgendo le persone all’esterno con pezzi di cemento e marmo che li investono alla velocità di un cannone, smembrandole. Sul primo binario, l’onda d’urto distrugge trenta metri di pensilina e investe l’Adria express 13534 Ancona Basilea sollevandolo, accartocciando l’alluminio delle fiancate mentre detriti di cemento, acciaio e vetro impattano contro i passeggeri, uccidendoli o mutilandoli. Nel parcheggio, l’autobus 37 e i taxi sussultano mentre aria e detriti gli corrono incontro. Poi la stazione collassa. Pezzi di cemento, lastre di granito, tavoli, sedie, scrivanie, brioche, gelati e limonate precipitano tirandosi dietro clienti e camerieri, schiacciandoli dopo un volo di tre metri contro quel che resta della sala d’aspetto e i suoi sopravvissuti, tra cui un bambino di 3 anni.
Sono passati tre secondi. Non vedi e non senti niente. Il petto ti brucia e non riesci a tirare dentro aria. Emetti un ringhio roco mentre i polmoni e gli addominali cercano di recuperare ossigeno. Cominci a vedere qualcosa, macchie informi, le orecchie fischiano così forte da farti male alla testa. Ti volti di fianco e l’aria rientra all’improvviso con un gorgoglio. Tossisci e rantoli per qualche istante, raggomitolata e sorda. Davanti a te c’è Pier Francesco, 44 anni, ma è sbagliato. Non capisci cos’ha che non va; provi a parlargli ma non senti la tua voce, solo quel fischio assordante. Lui ti fissa immobile e giallastro, senza rispondere.
Ti guardi. Il vestito è sporco e stracciato. Hai macchioline di sangue su tutto il corpo, ma non senti dolore. Provi a metterti a carponi e ce la fai. Provi a metterti in piedi e ci riesci al secondo tentativo, incespicando. Solo a quel punto riesci a guardarti attorno. Vedi macerie, fumo, un odore acre e ovunque pezzi di persone. Maria Fresu è stata smaterializzata, di lei resta solo un brandello sotto il treno. Dell’artigliere non è rimasto nulla, è stato proiettato a trenta metri fuori e lo riconosceranno solo dalle piastrine. Quando le orecchie riprendono a funzionare, senti le urla. Di paura, di dolore, di aiuto, di disperazione. Provengono dalle macerie, dall’interno della stazione, da quel che resta del treno. Vedrai arrivare i soccorsi e cercherai di aiutare chi puoi come puoi, assieme agli altri sopravvissuti come te. Vedrai i Carabinieri arrivare e alcuni saranno talmente sconvolti da mettersi a piangere. Le ambulanze non basteranno; le autorità dovranno usare anche i taxi e gli autobus per portare via i 200 feriti e gli 85 morti, oppure i loro brandelli. Alla fine tornerai a casa e continuerai a sentire quelle grida, a vedere quelle persone, per gli anni a venire. In televisione parleranno di indagini, di sospettati, di depistaggi, di periti ed esperti, personaggi nell’ombra, mandanti occulti, fazioni che si accusano a vicenda. Cinque anni dopo troveranno chi aveva lasciato la valigetta in stazione; si chiamano Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, due neofascisti già condannati per altri attentati. Dopo la strage di Bologna avevano continuato a uccidere e, a differenza di tutti gli altri omicidi, si sono sempre dichiarati estranei. Verranno condannati e faranno 26 anni di carcere. Buona parte dei politici, dei terroristi, dei faccendieri e degli uomini di Stato che c’erano nel 1980 sono morti o spariti. A distanza di quasi quarant’anni, nessuno sa se la strage di Bologna ha avuto dei mandanti più in alto, o se si sia trattato di follia omicida da parte di un gruppo neofascista. Licio Gelli e uomini di Stato tentarono, secondo il giudice Rosario Priore, di depistare le indagini. Furono condannati, ma non saltò mai fuori chi avrebbero dovuto coprire.
Le voci della strage. Stazione di Bologna. Due giovanissimi cameramen arrivano sul luogo dell'attentato e documentano l'inferno: polvere, sangue, disperazione, rabbia e stupore. Quaranta minuti choccanti nel documentario di History Channel. Online su L'Espresso i minuti iniziali, con le prime registrazioni della sala operativa e il sonoro originale dei soccorritori, scrive Gianluca De Feo il 30 luglio 2007 su "L'Espresso". Erano passati pochi minuti e nessuno riusciva a capire. Perché sembrava incredibile. Il boato era stato sentito in ogni angolo della la città. Poi per pochi secondi il silenzio. Ma le voci che lo avevano seguito parlavano di tanti morti: una decina, forse trenta. Una cifra impensabile: trenta morti alla stazione, nel cuore di Bologna, nei giorni dell'esodo d'agosto. Tutti correvano verso la piazza dilaniata: baristi con il grembiule addosso, cameriere con la divisa di una volta, operai in tuta blu, carabinieri con la cravatta da cerimonia. Per coprire i corpi travolti nel parcheggio dei taxi usavano le tovaglie. E subito l'incredibile diventava vero: i cadaveri erano decine. Alla fine saranno 85. Quella mattina del 2 agosto 1980, pochi minuti dopo le 10.25 nella piazza della Stazione arrivarono anche Enzo Cicco e Giorgio Lolli, meno di quarant'anni in due. Arrivarono di corsa, prima delle ambulanze. Da poche settimane i due ragazzi avevano cominciato a collaborare come cameramen per Punto Radio Tv, storica emittente nata da un'idea di Vasco Rossi e poi acquistata dal Pci. Le loro immagini documentano l'incredibile: la polvere, il sangue, la disperazione, la rabbia. Ma soprattutto lo stupore per quell'attentato così mostruoso che aveva sepolto turisti, pendolari, ferrovieri, baristi, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile.
Adesso, 27 anni dopo, History Channel trasmette integralmente i quaranta minuti girati da Cicco e Lolli. "L'Espresso" anticipa i minuti iniziali, con le prime registrazioni della sala operativa e poi il sonoro originale dei soccorritori. Un filmato choccante, che costringe lo spettatore a immergersi tra le rovine e i suoni di quel dramma; tutto sembra uscire da un'atmosfera irreale. Pochi urlano e lo fanno solo per cercare di dare un ordine a quei soccorsi fatti solo di buona volontà; i più sembrano parlare a bassa voce, quasi sussurrare, come se l'enormità della tragedia gli avesse tolto il respiro. C'è chi piange, senza riuscire a fermarsi. E una folla crescente di persone che sente il bisogno di fare qualcosa, affrontando a mani nude quella montagna che ha preso il posto della sala di aspetto inghiottendo 85 vite. Da quella di Angela Fresu, che a ottobre sarebbe andata all'asilo, a quella di Luca Mauri, che forse aveva già comprato la cartella per la prima elementare; da Marina Trolese, di sedici anni che lotterà invano per dieci giorni, a quella di Antonio Montanari, che di anni ne aveva 86 e aveva già visto due guerre prima di venire massacrato da una guerra mai dichiarata.
History Channel ha mandato in onda questo documento alle 10.25, nell'orario esatto dell'esplosione. È un filmato che costringe a entrare nella polvere, obbligando ogni spettatore a fare i conti con la ferita più profonda nella storia della Repubblica: oggi come allora, le immagini tolgono il fiato. E spingono solo a chiedere: perché?
Strage di Bologna, la memoria divisa. I familiari (anche) contro i magistrati. La contestazione annunciata. Gelo con la Procura dopo lo stop all’inchiesta sui mandanti dell’esplosione del 2 agosto 1980 nella sala d’aspetto della stazione che causò 85 morti e duecento feriti, scrive Marco Imarisio il 1 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". L’autobus della linea 37, matricola 4030, tornerà per la prima volta in piazza Medaglie d’oro. Quella mattina divenne un simbolo, della tragedia, dei soccorsi, di una città che cerca di reagire fin da subito. Gli autisti tolsero i montanti e i corrimano per consentire l’ingresso delle barelle, e fissarono delle lenzuola ai finestrini, per impedire la vista dei corpi feriti, mutilati, oltraggiati. Non tornò più in servizio, per rispetto delle vittime. Non è mai stato formalmente dismesso, per rispetto della propria storia. Oggi, 37 anni dopo la strage, uscirà dal capannone di via Bigari, dove è stato conservato e curato come una reliquia laica, e verrà portato davanti alla stazione.
Lo strappo del 2005. Ci sarà il 37, memoria della Bologna che seppe resistere e rimase in piedi, per quanto colpita. Mancherà il resto, la concordia istituzionale, la condivisione del ricordo. Quest’anno come non mai. Succede spesso, il 2 agosto ha talvolta fatto più notizia per la contestazioni che per l’esercizio delle memoria. Nulla, neppure una apparenza di quiete, è stato più come prima dopo il 2005, quando gli abituali fischi contro gli esponenti del governo divennero bordate, lunghe quanto il discorso dell’allora vice primo ministro Giulio Tremonti e capaci di oscurarlo. Da allora non parla più nessuno, o quasi. È stato inventato lo spazio mattutino tra le mura del Comune, per ridare la voce alla politica nazionale, che nel momento più importante, l’unico che davvero conta, il corteo da piazza Nettuno alla stazione, il comizio alle 10.10 del presidente dell’Associazione familiari delle vittime seguito dal minuto di silenzio e dal discorso del sindaco, è sempre stata costretta all’anonimato e al silenzio, accompagnato dal rumore di fondo dei fischi.
L’attacco al governo. Ma questa volta si è passati alle parole. Che spesso sono pietre, per definizione e contenuto. «Il governo si è comportato in maniera assurda e truffaldina nei confronti delle vittime. I suoi rappresentanti in piazza e sul palco non sono graditi. Non li vogliamo accanto a noi». Paolo Bolognesi, il deputato Pd che dal 1996 è il volto dell’Associazione familiari, ci è andato pesante. Il suo canone prevede da sempre dichiarazioni roboanti. Ma per questo 2 agosto ha scelto lo scontro frontale, in polemica con il suo segretario Matteo Renzi, che da presidente del Consiglio promulgò la direttiva per rendere pubbliche le carte sugli anni della strategia della tensione, con il sottosegretario Claudio De Vincenti che lo scorso anno, alla cerimonia «privata» in Comune promise che tutto sarebbe stato risolto entro l’anniversario del 2017. «Invece continuano a fare il gioco delle tre carte. Ancora lo scorso maggio ho chiesto alla presidenza del Consiglio la lista degli iscritti alla Gladio nera. Mi è stato risposto che c’è un problema di privacy. Sembra che la verità interessi solo a noi».
I dubbi sui mandanti. Il bersaglio inedito degli strali di Bolognesi e dell’Associazione è la magistratura. Fino a oggi l’asse tra i familiari e i magistrati aveva retto seppur con difficoltà alle scosse del tempo e al paradosso di un processo per strage chiuso a differenza di molti altri con colpevoli accertati, i terroristi neri Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, ma che ha lasciato dietro di sé una scia di dubbi e illazioni su chi davvero avesse progettato quella atrocità. La ferita non si rimargina mai, come le feroci discussioni, eufemismo, tra chi inneggia a quella sentenza contro gli allora giovani neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari e chi insiste a dire che è sbagliata, che quei «ragazzini» non c’entrano, e dietro l’esplosione c’è il terrorismo medio-orientale, la Libia o qualche intrigo internazionale. Il gelo con la procura è sceso a marzo, dopo la richiesta di archiviazione dell’inchiesta sui mandanti e l’invio per competenza a Roma del filone che riguarda l’eventuale partecipazione all’attentato dell’ex Nar Gilberto Cavallini. Non si è mai sciolto, anzi.
Il testo del discorso. E qui di parole ne sono bastate poche, tante quante lo slogan scelto per il manifesto della commemorazione di quest’anno: La storia non si archivia, la forza della verità non si può fermare, la giustizia faccia la sua parte. Il messaggio è arrivato forte e chiaro al procuratore capo Giuseppe Amato, che ne ha preso atto. «Non credo che la nostra presenza possa riscuotere un apprezzamento», ha detto, seguito a ruota dal procuratore aggiunto Valter Giovannini, che rappresenta la memoria storica della procura bolognese. «Sono d’accordo con la non partecipazione alla commemorazione in stazione». La mediazione del sindaco Virginio Merola, che invece appoggia le ragioni della protesta contro il governo, ha strappato ai magistrati la promessa di una presenza in Comune, in quella che si presenta come una vera e propria riserva indiana degli ospiti sgraditi. Bolognesi ha fatto un altro strappo non inviando il testo del suo discorso a sindaco e prefetto, come invece accade ogni anno da 37 anni. Si annunciano sorprese. Era quasi meglio quando c’erano i fischi.
Strage di Bologna, l’articolo di Enzo Biagi: «Quante trame di vita su quei binari». Il 2 agosto 1980 una bomba esplose alla stazione di Bologna, nel più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel dopoguerra. I morti furono 85. Questo è il pezzo che Enzo Biagi scrisse sul «Corriere della Sera». Ripubblichiamo il testo che Enzo Biagi scrisse il 2 agosto 1980 sulla strage alla stazione di Bologna. "Nell’aria bruciata d’agosto, si è alzata una nuvola di polvere sottile, ha invaso il piazzale, sul quale mi sono affacciato tante volte. Bastava la voce dell’altoparlante, con quegli inconfondibili accenti, per farmi sentire che ero arrivato a casa. Adesso la telecamera scopre l’orologio, con le lancette ferme sui numeri romani: le dieci e venticinque. Un attimo, e molti destini si sono compiuti. Ascolto le frasi che sembrano monotone, ma sono sgomente, di Filippini, il cronista della TV, costretto a raccontare qualcosa che si vede, a spiegare ragioni, motivi che non si sanno: lo conosco da tanti anni, e immagino la sua pena. Dice: «Tra le vittime, c’è il corpo di una bambina». Mi vengono in mente le pagine di una lettura giovanile, un romanzo di Thornton Wilder, «Il ponte di San Louis Rey», c’era una diligenza che passava su un viadotto, e qualcosa cedeva, precipitavano tutti nel fiume, e Wilder immaginava le loro storie, chi erano, che cosa furono. Quell’atrio, quelle pensiline, il sottopassaggio, il caffè, le sale d’aspetto che odorano di segatura, e nei mesi invernali di bucce d’arancio, mi sono consuete da sempre: con la cassiera gentile, il ferroviere che ha la striscia azzurra sulla manica, che assegna i posti, e mentre attendiamo mi racconta le sue faccende, quelle del suocero tedesco che vuol bere e di sua moglie che dice di no, e la giornalaia, che scherza: «Ma come fa a leggere tutta questa roba?», e vorrei sapere qualcosa, che ne è stato di loro, e li penso, ma non so pregare. Si mescolano i ricordi: le partenze dell’infanzia per le colonie marine dell’Adriatico, i primi distacchi, e c’erano ancora le locomotive che sbuffavano, i viaggi verso Porretta per andare dai nonni, e le gallerie si riempivano di faville, e bisognava chiudere i finestrini, e una mattina, incolonnato, mi avviai da qui al battaglione universitario, perché c’era la guerra. Ritornano, con le mie, le vicende della stazione: quando, praticante al «Carlino», passavo di notte al Commissariato per sapere che cos’era capitato, perché è come stare al Grand Hotel, ma molto, molto più vasto, gente che va, gente che viene, e qualcuno su quei marciapiedi ha vissuto la sua più forte avventura: incontri con l’amore, incontri con la morte. Passavano i treni oscurati che portavano i prigionieri dall’Africa, che gambe magre avevano gli inglesi, scendevano le tradotte di Hitler che andavano a prendere posizione nelle coste del Sud, e conobbi una Fraulein bionda in divisa da infermiera alla fontanella, riempiva borracce, ci mettemmo a parlare, chissà più come si chiamava, com’è andata a finire. Venne l’8 settembre, e davanti all’ingresso, dove in queste ore parcheggiano le autoambulanze, si piazzò un carro armato di Wehrmacht; catturavano i nostri soldati, e li portavano verso lo stadio, che allora si chiamava Littoriale. Un bersagliere cercò di scappare, ma una raffica lo fulminò; c’era una bimbetta che aveva in mano la bottiglia del latte, le scivolò via, e sull’asfalto rimase, con quell’uomo dalle braccia spalancate, una chiazza biancastra. Cominciarono le incursioni dei «liberators», e volevano sganciare su quei binari lucidi che univano ancora in qualche modo l’Italia, ma colpirono gli alberghi di fronte, qualche scambio, i palazzi attorno, le bombe caddero dappertutto, e vidi una signora con gli occhialetti d’oro, immobile, composta, seduta su un taxi, teneva accanto una bambola, pareva che dormisse, e l’autista aveva la testa abbandonata sul volante. «Stazione di Bologna», dice una voce che sa di Lambrusco e di nebbia, di calure e di stoppie, di passione per la libertà e per la vita, quando un convoglio frena, quando un locomotore si avvia. Per i viaggiatori è un riferimento, per me un’emozione. Ecco perché mi pesa scrivere queste righe, non è vero che il mestiere ti libera dalla tristezza e dalla collera, in quella facciata devastata dallo scoppio io ritrovo tanti capitoli dell’esistenza dei mici. «Stazione di Bologna»: quante trame sono cominciate e si sono chiuse sotto queste arcate di ferro. Quanti sono stati uccisi dallo scoppio, o travolti dalle macerie: cinquanta, sessanta, chissà? Credere al destino, una caldaia che esplode, un controllo che non funziona, una macchina che impazzisce, qualcuno che ha sbagliato, Dio che si vendica della nostra miseria, e anche l’innocente paga? Anche quei ragazzi nati in Germania che erano passati di qui per una vacanza felice, ed attesa, il premio ai buoni studi o al lavoro, una promessa mantenuta, un sogno poetico realizzato: «Kennst Du das Land, wo die Zitronen bluhen?», lo conosci questo bellissimo e tremendo Paese dove fioriscono i limoni e gli aranci, i rapimenti e gli attentati, la cortesia e il delitto, dovevano pagare anche loro? Forse era meglio vagheggiarlo nella fantasia. Ci sono genitori che cercano i figli; dov’erano diretti? Perché si sono fermati qui? Da quanto tempo favoleggiavano questa trasferta? E le signorine del telefono, già, che cosa è successo alle ragazze dal grembiule nero che stavano dietro il banco dell’interurbana: chi era in servizio? Qualcuna aveva saltato il turno? Che cosa gioca il caso? Poi, l’altra ipotesi, quella dello sconosciuto che deposita la scatola di latta, che lascia tra le valigie o abbandonata in un angolo, magari per celebrare un anniversario che ha un nome tetro, «Italicus», perché vuol dire strage e un tempo «Italicus» significava il duomo di Bolsena, le sirene dei mari siciliani, i pini di Roma, il sorriso delle donne, l’ospitalità, il gusto di vivere di un popolo. Non mi pare possibile, perché sarebbe scattato l’inizio di un incubo, la fine di un’illusione, perché fin lì, pensavamo, non sarebbero mai arrivati. «Stazione di Bologna», come un appuntamento con la distruzione, non come una tappa per una vacanza felice, per un incontro atteso, per una ragione quotidiana: gli affari, i commerci, le visite, lo svago. Come si fa ad ammazzare quelle turiste straniere, grosse e lentigginose, che vedono in ognuno di noi un discendente di Romeo, un cugino di Caruso, un eroe del melodramma e della leggenda, che si inebriano di cattivi moscati e di sole, di brutte canzoni? Come si fa ad ammazzare quei compaesani piccoli e neri, che emigrano per il pane e si fermano per comperare un piatto di lasagne, che consumano seduti sulle borse di plastica? Come si fa ad ammazzare quei bambini in sandali e in canottiera che aspettano impazienti, nella calura devastante, la coca cola e il panino e non sanno che nel sotterraneo, non lo sa nessuno, c’è un orologio che scandisce in quei minuti la loro sorte? Vorrei vedere che cosa contengono quei portafogli abbandonati su un tavolo all’istituto di medicina legale: non tanto i soldi, di sicuro, patenti, anche dei santini, una lettera ripiegata e consumata, delle fotografie di facce qualunque, di quelle che si vedono esposte nelle vetrine degli «studi» di provincia: facce anonime, facce umane, facce da tutti i giorni. Dicono i versi di un vero poeta, che è nato da queste parti e si chiama Tonino Guerra: «A me la morte / mi fa morire di paura / perché morendo si lasciano troppe cose che poi non si vedranno mai più: / gli amici, quelli della famiglia, i fiori / dei viali che hanno quell’odore / e tutta la gente che ho incontrato / anche una volta sola». Sono facce che testimoniano questa angoscia, ma nessuno ha potuto salvarle. «Stazione di Bologna». D’ora in poi non ascolteremo più l’annuncio con i sentimenti di una volta; evocava qualcosa di allegro e di epicureo, tetti rossi e mura antiche, civiltà dei libri, senso di giustizia, ironia, rispetto degli altri, massi, anche la tavola e il letto, il culto del Cielo e il culto per le buone cose della Terra. Ora, ha sapore di agguato e di tritolo. Perché il mondo è cambiato e in peggio: i figli degli anarchici emiliani li battezzavano Fiero e Ordigno, quelli dei repubblicani Ellero e Mentana, quelli dei socialisti Oriente e Vindice, quelli dei fascisti Ardito e Dalmazia, una gli insegnavano a discutere a mensa imbandita. Si picchiavano anche, si sparavano, talvolta, ma il loro ideale era pulito e non contemplava l’agguato: Caino ed Erode non figuravano tra i loro maestri. «Stazione di Bologna»: si può anche partire, per un viaggio senza ritorno".
L'Associazione delle vittime: «Lo Stato non vuole la verità sulla strage di Bologna». «Se si sapessero come sono andate veramente le cose si innescherebbe un effetto a catena che a molti farebbe paura» afferma il presidente Paolo Bolognesi. Sulle polemiche dopo l'archiviazione dell'indagine sui mandanti: «Anche noi abbiamo il diritto di critica, non parliamo solo in tribunale», scrive Federico Marconi l'1 agosto 2017. «L’Italia non ha mai fatto i conti con il proprio passato. È una costante: è stato così per il fascismo, lo è oggi per la strategia della tensione. Ci sono ancora dei grumi, delle situazioni e degli apparati che non si possono assolutamente svelare. Se così fosse ci sarebbe un effetto a catena che a molti farebbe paura». Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione delle vittime della strage di Bologna e deputato Pd, non si nasconde dietro frasi di circostanza quando si parla dell’attentato che il 2 agosto 1980 sconvolse Bologna e l’Italia. La bomba che scoppiò quel giorno alla stazione fece 85 morti e oltre 200 feriti: la più grande strage che l’Italia abbia conosciuto in tempo di pace. Nonostante lacune nelle indagini e depistaggi di cui furono responsabili dirigenti del Sismi, dopo un tormentato iter giudiziario sono stati individuati i responsabili dell'eccidio: nel 1995 la Cassazione ha condannato in via definitiva all’ergastolo Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, membri del gruppo di estrema destra Nuclei Armati Rivoluzionari.
Presidente Bolognesi, dopo 37 anni si continuano ancora a cercare i mandanti della strage.
«Ancora non sappiamo tutta la verità e ci impegneremo fino a che non verrà fatta. Abbiamo cercato una sponda negli ultimi governi, e in un primo momento sembrava che l’avessimo trovata: nel 2015 è stato stipulato un accordo per la digitalizzazione degli archivi con il Ministero della Giustizia e quello dei Beni Culturali. Questa è una metodologia di indagine e di analisi che permetterebbe di fare chiarezza sui mandanti della strage. La digitalizzazione viene però osteggiata, boicottata, con tutte le motivazioni più incredibili. Nei tre anni successivi all’accordo non è stata digitalizzata una pagina. Dopo i miei reclami è stato fatto un comunicato congiunto in cui si diceva che gli archivi non possono essere divulgati per ricerche di natura giudiziaria, una cosa totalmente assurda. Ma questi sono messaggi che vogliono rassicurare qualcuno che è un po' preoccupato, sicuramente non i familiari delle vittime. Poi c'è la direttiva Renzi (con cui nel 2014 è stato deciso di declassificare i documenti riguardanti le stragi, ndr), che tante speranze aveva dato alle associazioni: ma gli unici che vogliono che funzioni sono i familiari delle vittime, non certo gli apparati dello Stato».
Quali difficoltà ci sono in questa partita che si gioca negli archivi?
«Innanzitutto abbiamo un blocco costante e metodico da parte degli apparati dello Stato. Sembrerà incredibile, ma sia dal Ministero della Difesa che dal vecchio Ministero dei Trasporti sono spariti gli archivi. Incredibile ma vero, il Ministero della Difesa dal 1980 al 1986 non ha nulla che riguardi i voli e le navi che attraversavano l'Italia e il Tirreno. Ma se non si trovano questi archivi fai qualcosa, fai un'inchiesta per capire dove sono andati a finire. Nessuno però fa una piega: questo dei documenti è l’ultimissimo dei loro problemi».
Per quale motivo ci sono ancora tutte queste resistenze da parte dello Stato?
«Perché evidentemente ci sono situazioni e apparati che non possono essere svelati. Nell'ambito della direttiva Renzi ultimamente ho chiesto i nomi degli appartenenti ai Nuclei Armati di Difesa dello Stato, la cosiddetta Gladio Nera, che molto probabilmente è implicata in questi attentati e non solo. Mi è stato risposto che non me li potevano dare per ragioni di privacy».
A marzo la Procura di Bologna ha archiviato l’indagine su Licio Gelli come mandante e finanziatore della strage. Non avete risparmiato critiche ai procuratori bolognesi.
«La procura deve ricordarsi che anche le vittime hanno il diritto di critica, non parliamo solo in tribunale. L'archiviazione è stata fatta su una serie di “non indagini” che lasciano perplessi. Sul finanziamento di Gelli agli stragisti si sono basati su una relazione del 1984, non su elementi più recenti o sulle acquisizioni che noi abbiamo presentato, che non sono stati neanche guardate. C'è anche una perla nella richiesta di archiviazione: i pm scrivono che Mambro e Fioravanti erano degli “spontaneisti”. Questo vuol dire non tenere nemmeno conto della sentenza del 1995 con cui i due membri dei Nar sono stati condannati. Questa cosa ci lascia molto perplessi. Noi abbiamo presentato un dossier di mille pagine, la procura ha chiesto l'archiviazione a cui ci siamo opposti e a ottobre vedremo cosa deciderà il Gip. Poi se il fascicolo verrà archiviato vedremo quali parti si potranno sviluppare per far riaprire il processo».
Dopo tutte questi attacchi a governo e procura, in che clima si svolgeranno le manifestazioni per l’anniversario della strage?
«Bologna è una città estremamente democratica, i cittadini hanno avuto sempre un comportamento esemplare nei confronti di chiunque abbia partecipato alla commemorazione. Non c'è stato nessun ministro, neanche nei momenti più delicati, che sia stato contestato durante il corteo o le manifestazioni. Può darsi che qualche volta, mentre parlavano dal palco, siano stati fischiati. Ma questo per altre ragioni, come per le promesse non mantenute».
Nonostante si siano individuati i responsabili della strage, periodicamente si torna a parlare della “pista palestinese” (secondo cui la bomba è stata una ritorsione dell’Olp per la rottura del Lodo Moro, ndr). Per quale motivo?
«La “pista palestinese” non porta da nessuna parte. Riportarla agli onore della cronaca fa parte di operazioni per confondere le idee alla gente, per fargli uscire dalla testa personaggi come Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. I due responsabili della strage, condannati a 8 ergastoli per i loro 98 omicidi, hanno già finito di scontare la pena. Sembra una grande barzelletta, ma è quello che ha fatto lo Stato italiano. È una sorta di do ut des».
Può spiegarsi meglio?
«C’è un silenzio eccezionale da parte dello Stato nei confronti di questi personaggi. Non dico che dovrebbero essere in galera, ma almeno non dovrebbero aver finito di scontare la pena dopo tutto il sangue che hanno versato. Inoltre è appurato come abbiano continuato ad avere frequentazioni poco limpide. Mambro e Fioravanti, durante il periodo di liberà condizionale, avevano contatti con Gennaro Mokbel, uomo della Banda della Magliana e grande riciclatore di soldi sporchi. Addirittura c'è un’intercettazione telefonica di Mokbel in cui dice che “liberare quei due dalla galera” gli è costato un milione e duecentomila euro. È incredibile che nessuno abbia indagato su queste situazioni. Mambro e Fioravanti erano in libertà condizionale e doveva essere sospesa immediatamente: per evitare, come poi è successo, che avessero contatti con malavitosi. Per Mambro e Fioravanti si è mosso il mondo della Banda della Magliana, non so che si vuole di più: probabilmente avrebbero dovuto fare un’altra strage affinché lo Stato li rispedisse in galera».
Giovanni Lindo Ferretti e la stage di Bologna: furono o no i fascisti?, scrive il 2/08/2017 Chiara Comini. Avvenne il 2 agosto del 1980 alle 10.25 l’esplosione, causata da una bomba, che provocò la morte di 85 persone e 200 i feriti. Oggi, dopo 37 anni dalla strage, Giovanni Lindo Ferretti lancia una provocazione. Ferretti, noto per essere stato il cantate del gruppo musicale CCCP Fedeli alla linea, nato nell’Emilia degli anni Ottanta, in un intervista rilasciata a Repubblica dichiara: “Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani. Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto”. Continua affermando: “In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…”. Secondo Ferretti sarebbe più plausibile la pista, allora archiviata, definita “Lodo Moro”, o “Lodo Palestinese”: il patto tra servizi segreti italiani e la dirigenza palestinese per evitare attentati in Italia. Solo negli ultimi anni si sono iniziate a scoprire le carte, ammettendo l’effettiva esistenza dell’accordo, allora considerato una tesi complottista. Un documento segreto, emerso anni fa grazie a Enzo Raisi, datato 17/02/1978 e pubblicato nel 2015 dal Quotidiano nazionale, prova l’esistenza del Lodo Moro. Raisi il 2 agosto 1980 era nei pressi della stazione, in procinto di partire per il servizio militare. Da quel giorno si è assiduamente dedicato alla ricerca della verità. La sua convinzione è che la strage sia stata opera dei palestinesi in combutta con Carlos, un terrorista internazionale famoso anche con il nome di “Sciacallo”. Non è da sottovalutare che tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, fosse stato arrestato e condannato il responsabile del Fronte per la liberazione della Palestina in Italia. Nel libro “Ustica storia e controstoria”, scritto dall’on. Eugenio Baresi, possiamo leggere: “Fra il sette e otto novembre 1979, in un casuale controllo – ricorda Baresi – vengono sequestrati missili antiaerei a membri dell’Autonomia romana e ad un palestinese, Abu Anzeh Saleh, […], rappresentante in Italia del Fronte per la liberazione della Palestina (FPLP). La Procura di Chieti con assoluta e inusuale velocità perviene ad un’immediata condanna il 25 gennaio del 1980. Il responsabile del FPLP in Italia, arrestato e condannato, è residente da anni a Bologna”. La strage della stazione di Bologna, pertanto, si collocherebbe in uno scenario intrecciato di fatti avvenuti in quegli anni che la collegherebbero dall’omicidio di Aldo moro e all’aereo di Ustica, che Baresi considera un “avvertimento non capito”. L’ordigno a Bologna sarebbe stato il secondo avvertimento. Ferretti conclude la sua dichiarazione a La Repubblica dicendo: “Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa”. Resta il fatto che questa ipotesi, dopo quasi quarant’anni dalla tragedia, grazie a documenti allora secretati, ha iniziato a prendere sempre più forma.
La provocazione di Giovanni Lindo Ferretti: "La strage di Bologna? Non furono i fascisti". Le parole del musicista sull'attentato del 2 agosto in stazione, che provocò 85 morti e 200 feriti: "Mi spiace ma la penso diversamente dai bolognesi, credo alla pista palestinese", scrive Emanuela Giampaoli l'1 agosto 2017 su “La Repubblica”. "Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani". Lo dice Giovanni Lindo Ferretti, ex CCCP ed ex CSI, da anni ormai ritiratosi sull’Appennino tosco emiliano, sceso sotto le Torri per inaugurare al Museo della Musica la mostra della fotografa Federica Troisi "Illumina le tenebre", dedicata agli abitanti dell'enclave serba di Velika Hoca in Kosovo, alla quale il musicista partecipa con una serie di testi e di brani musicali. Parole che suonano come una provocazione alla vigilia dell’anniversario della strage, quando la città è pronta a ricordare ancora una volta la sua ferita più profonda e a raccogliersi intorno ai suoi morti. "Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto". A convincere il cantante e scrittore è il cosiddetto lodo palestinese, una pista archiviata che in ambito giudiziario contrasta con le sentenze, la matrice neofascista e le condanne definitive di Mambro e Fioravanti. "In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…". Confessa che sono anni che ha smesso di parlare di queste cose. "Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa".
La strage di Bologna. Andrea Muratore il 2 agosto 2020 su Inside Over. Il 2 agosto 1980 la stazione di Bologna centrale fu colpita da una violentissima esplosione che portò al collasso dell’ala ovest dell’edificio e travolse il treno Adria Express 13534 Ancona-Basilea, che al momento sostava sul primo binario, portando al collasso anche il limitrofo parcheggio dei taxi e un ampio tratto di pensilina della lunghezza di 30 metri. L’esplosione fu causata da un ordigno di 23 chili contenete cinque chili di esplosivo posizionato in una valigia abbandonata in una sala d’aspetto della stazione. Bologna si fermò alle 10.25 di quel caldo sabato agostano, ora esatta in cui andò in scena quello che risultò essere il più grave attentato della storia repubblicana. L’onda d’urto dell’esplosione, unitamente al collasso della struttura in una giornata di grande affollamento della stazione per i flussi turistici, contribuì a un tragico bilancio di 85 morti e 200 feriti: la vittima più giovane fu Angela Fresu, di appena tre anni, la più anziana Antonio Montanari, 86 anni. Un numero di morti superiore a quello di qualunque altro attentato o strage della turbolenta stagione inaugurata nel 1969 dalla bomba di Piazza Fontana a Milano e proseguita negli anni successivi dapprima nella forma della strategia della tensione (la cui fine è indicata da storici come Aldo Giannuli nell’attentato di Brescia del 1974) e in seguito nella forma dell’assalto allo Stato degli opposti estremismi, quello rosso resosi responsabile dell’omicidio di Aldo Moro, e quello nero che si sporcò le mani del sangue delle vittime di Bologna. Alla strage di Bologna sono stati associati nomi e volti dei responsabili, dopo che come successo con altre stragi della storia d’Italia processi e indagini erano stati inquinati da un’ampia serie di depistaggi e la strage era stata associata a grandi partite in corso sullo scenario internazionale, che si apprestava a vedere l’inizio del decennio conclusivo della Guerra fredda. Dopo le prime condanne, datate 1995, di Francesca Mambro e “Giusva” Fioravani, terroristi del gruppo neofascista dei Nuclei armati rivoluzionari, ritenuti dalla Corte di Cassazione responsabili “come appartenenti alla banda armata che ha organizzato e realizzato l’attentato di Bologna” nella sentenza che impose loro la detenzione a vita, e di Luigi Ciavardini, condannato a 30 anni di galera negli anni Duemila, le indagini sono proseguite fino ai giorni nostri. Con l’obiettivo di fare piena luce laddove permangono ancora coni d’ombra: ed è così che si è arrivati nel 2020 alla condanna all’ergastolo di Gilberto Cavallini e a un nuovo processo a cura della Procura di Bologna per cercare di capire se oltre a queste quattro persone esistono altri responsabili ancora perseguibili.
Una strage "anomala". Entrare nel ginepraio delle inchieste giudiziarie sulla strage risulterebbe impresa oltremodo complessa, specie considerato il fatto che scriviamo questo resoconto mentre un’inchiesta è ancora in corso; più funzionale a comprendere con chiarezza il contesto della strage di Bologna è la spiegazione del quadro politico italiano e internazionale al momento della strage. La strage è ritenuta da numerosi esperti “anomala” per la veemenza dell’attacco e per la sua apparente estraneità cronologica rispetto alle serie di attentati dell’era della strategia della tensione, a cui Bologna è stata più volte impropriamente accostata. Fattispecie che rende un difficile esercizio, individuati i responsabili materiali, scoprire i mandanti. Nel contesto delle stragi degli anni Sessanta e Settanta, infatti, è stato individuato un fil rouge che porta a una terra di mezzo costituita da apparati deviati dei servizi e dei corpi di sicurezza italiani, gruppi eversivi aventi da questi ultimi coperture e sostegno e frange degli apparati militari di potenze Nato governate da regimi dittatoriali come Grecia e Portogallo. Dopo la morte di Aldo Moro, la politica italiana era rapidamente tornata agli assetti primigeni, con la Dc saldamente al governo e il Pci all’opposizione, dunque anche la più semplificatoria delle cause potenzialmente in grado di essere addotte come movente, il timore di questi gruppi di pressione per un’ascesa comunista al potere, era tramontata. Luigi Cipriani, deputato di Democrazia proletaria, batté sul tasto della riproposizione della “pista atlantica” anche per Bologna, sostenendo che la bomba avrebbe dovuto servire a fungere da diversivo per distrarre l’attenzione da un recente, tragico accadimento come l’esplosione del Dc-9 dell’Itavia nei cieli di Ustica, precedente di soli due mesi l’attentato. La presunta correlazione tra Ustica e Bologna è stata anche tirata in ballo dal terrorista Vincenzo Vinciguerra, ma si è rivelata una suggestione non provata giudiziariamente. Assimilabile a un depistaggio è stata invece considerata a lungo la cosiddetta pista palestinese, che vedrebbe i responsabili nei guerriglieri anti-israeliani di ispirazione marxista-leninista del Fplp (Fronte popolare per la liberazione della Palestina), e la possibile giustificazione nel fatto che la bomba fosse in realtà esplosa per un incidente durante il trasporto di materiali appartenenti gruppi della resistenza palestinese operanti in Italia e coperti dal famoso “lodo Moro”. L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in più interviste e nell’autobiografia La versione di K, ha sostenuto l’innocenza di Mambro e Fioravanti e la realtà della pista palestinese. L’ex parlamentare Enzo Raisi, nel saggio Bomba o non bomba, sostiene che il carico detonato a Bologna fosse in realtà diretto a colpire un obiettivo più simbolico per la causa palestinese. Nessuna conferma giudiziaria ha mai dato credito a queste due piste, e al contempo la cosiddetta “pista palestinese” è stata sempre osteggiata dal presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi. Nel 2019 un certo clamore mediatico è stato suscitato in questo contesto dalla scoperta di alcuni dispacci inviati al Sismi dal colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone, nome in codice “Maestro”, ex capo scorta di Aldo Moro e, in seguito, capo stazione per i nostri servizi in Medio Oriente, in cui si definivano i palestinesi pronti a colpire in Italia qualora non fosse stata chiarita la vicenda dell’arresto a Ortona, nel 1979, dei corrieri di un carico d’armi riconducibile al Fplp.
La pista interna e i dilemmi sulla democrazia italiana. Nel febbraio 2020 la procura di Bologna, che indaga sulle responsabilità di un possibile quinto esecutore, Paolo Bellini, ha messo per la prima volta nero su bianco i nomi di coloro che sono ritenuti essere dai giudici i reali mandanti della strage e ritenuti aver avuto un ruolo nell’arruolamento dei terroristi e nella catena di depistaggi. I quattro nomi in questione corrispondono alla figura sulfurea di Licio Gelli, capo della Loggia P2, del direttore de Il Borghese Mario Tedeschi, dell’imprenditore al centro degli intrighi finanziari della loggia P2 Umberto Ortolani e di una figura chiave dei servizi segreti italiani della Prima Repubblica, Federico Umberto d’Amato. Questi fu tra gli Anni Sessanta e Settanta a capo dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno e risultò tra i fondatori del “Club di Berna”, il coordinamento delle polizie politiche d’Europa che escludeva sia la Cia che i servizi militari. “In particolare il gran maestro della P2 pagò cinque milioni di dollari, presi da conti svizzeri derivanti anche dal crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, per finanziare il gruppo esecutore dei terroristi di estrema destra Nar”, scrive Avvenire nell’introduzione a un’intervista a Libero Mancuso, pm della prima inchiesta che portò alla condanna di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. Per Mancuso, “la vicenda del depistaggio per cui vennero condannati Licio Gelli e i vertici del Sismi, tutti iscritti alla P2, fu solo uno, anche se il più eclatante, dei numerosi avvelenamenti delle indagini” che miravano a “salvare gli esecutori materiali, anche perché non si individuassero i mandanti, i soli in grado di scatenare, dalle sedi occulte del loro straordinario potere […] un’offensiva contro la verità con una forza intossicante mai prima conosciuta”. Bologna, la strage più sanguinosa, il massacro più sanguinoso della Repubblica, insegna molto sull’assalto alla diligenza continuamente condotto da fine anni Sessanta in avanti alla macchina dello Stato da parte di un’infame alleanza tra suoi membri deviati, gruppi terroristici e, in certi casi, criminali. La destabilizzazione continua degli apparati democratici, che avrebbe dovuto fornire la giustificazione a una possibile svolta autoritaria il cui presupposto ispirò episodi mai pienamente chiariti come il golpe Borghese, passò anche attraverso le bombe e il sangue di centinaia di innocenti, che assieme a quello delle vittime di mafia ha rappresentato il tributo versato dall’Italia repubblicana per resistere ai più drastici tentativi di minarne la legittimità. Il monito di stragi come quella di Bologna, a quarant’anni di distanza, è un invito a non dare mai per scontati gli assetti e le conseguenze del modello democratico e pluralista in cui la società italiana si è sviluppata.
40 anni fa la strage di Bologna, il mio ricordo di quei giorni di fuoco e sangue. Giuliano Cazzola su Il Rifomista il 2 Agosto 2020. Sono passati quarant’anni anni da quando, il 2 agosto del 1980, una carica di esplosivo, all’interno di una valigia lasciata nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, fece crollare un’intera ala dell’edifico, investì i passeggeri assiepati sul primo binario e gli avventori del buffet. Erano le 10,25, i morti furono oltre ottanta, più di duecento i feriti. Il 2 agosto del 1980 ero segretario generale della Cgil dell’Emilia Romagna. Ero stato eletto il 2 maggio di quello stesso anno. Mi pregio di essere stato l’unico socialista dal dopoguerra ad oggi ad aver ricoperto quell’incarico in una regione in cui il Pci governava, dal dopoguerra, praticamente ovunque, spesso con la maggioranza assoluta. Ero tornato a Bologna, in famiglia, all’inizio del 1974 dopo una esperienza alla Fiom di ben nove anni, di cui circa quattro nella segreteria nazionale. Ed ero entrato a far parte della segreteria regionale della confederazione, dove conobbi un grande dirigente sindacale come Giuseppe Caleffi, il cui insegnamento fu molto importante per la mia formazione. Divenuto prima segretario generale aggiunto, se ben ricordo nel 1978, arrivai al vertice di una organizzazione che aveva più di 800mila iscritti ed era il ‘’granaio’’ della Cgil. Ricordo quegli anni con orgoglio per il fatto di appartenere ad un’organizzazione che, nonostante l’uso di una sorta di Manuale Cencelli delle correnti, sapeva riconoscere il merito. Basti pensare che mentre io dirigevo l’Emilia Romagna un altro socialista, Alberto Bellocchio – un carissimo amico – era segretario generale della Lombardia. Mantenni quell’incarico (sostanzialmente ad personam perché dopo venne riconsegnato al comunista Alfiero Grandi) fino al 1985, quando, eletto segretario generale della Federazione dei Chimici (l’acronimo, Filcea, sembrava il nome di una fanciulla), tornai a Roma. Il mio vice era Sergio Cofferati. Negli undici anni trascorsi nella mia ragione ne capitarono di tutti i colori: la strage del treno Italicus nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974; le sommosse del 1977 dopo l’uccisione dello studente Francesco Lorusso (nel settembre Bologna fu persino teatro di una manifestazione internazionale contro la repressione); la strage alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 e, per finire con le bombe, l’attentato al Rapido 904, la cosiddetta strage di Natale del 23 dicembre 1984. Poi – sul piano politico – dovetti affrontare, da separato in casa con i compagni comunisti, il tormentone della scala mobile tra il decreto del 1984 e il referendum dell’anno successivo. Tornando al 2 agosto, quel giorno del destino cadeva di sabato. Io ero agli sgoccioli del mio periodo feriale sulla riviera romagnola. Sarei rientrato il giorno dopo per essere in ufficio il lunedì. La notizia mi raggiunse in spiaggia udendo una signora che la stava attraversando piangendo e gridando: ‘’Hanno messo una bomba. Ci sono tanti morti’’. Pensai subito alla mia città; mi precipitai dal bagnino (allora non c’erano i cellulari) e chiesi di telefonare in sede. Mi rispose Adelmo Bastoni, il responsabile organizzativo, un grande compagno modenese, che era già sul posto. Capii dalle sue sommarie informazioni quanto fosse grave la situazione. Sistemate alcune questioni di carattere famigliare (mio figlio aveva 12 anni e doveva essere accudito) rientrai a Bologna in serata. I giorni immediatamente successivi li impiegai a partecipare ad incontri con le istituzioni, ad organizzare iniziative di protesta, a tirare le fila delle azioni di protesta che il sindacato poteva e doveva promuovere in quel momento. Ricordo soltanto che la domenica sera, insieme con Roberto Alvisi (mio storico collaboratore), incontrai Claudio Sabattini e Francesco Garibaldo, i quali erano in stazione il giorno precedente ed erano scampati miracolosamente all’esplosione. Parlammo anche della vertenza Fiat – Sabattini era il segretario della Fiom per il settore auto – che era in corso da mesi e che finì nell’autunno dopo 35 giorni di sciopero ad oltranza e lo shock della Marcia dei Quarantamila. Un esito che cambiò la storia del sindacato ed anche la vita di Claudio (a cui fu attribuita l’intera responsabilità di una sconfitta che pure aveva tanti altri padri). Alcuni giorni dopo si tenne, a Bologna, la prima manifestazione commemorativa in piazza Medaglie d’Oro, a fianco della stazione ferita a morte, a cui mancava un’intera ala. Parlò Renato Zangheri, allora sindaco della città. Un discorso che andrebbe letto ancora oggi nelle scuole. Ricordo che, alla fine, chiese scusa alle vittime e ai loro parenti, perché le sue ‘’ultime parole non erano di commiato, ma di lotta’’. Erano tempi fatti così. I politici e i sindacalisti dei nostri giorni hanno sentito scoppiare solo i mortaletti la notte di Capodanno.
Strage di Bologna, parla il medico Franco Baldoni. "Io, scampato alla strage per un caffè". Pubblicato venerdì, 31 luglio 2020 da Antioco Fois su La Repubblica.it. "Avevo 37 anni ed ero appena smontato dal turno in ospedale. Mia moglie voleva andare al bar ma io avevo già preso una tazzina in ospedale, così andammo dritti al binario. Poco dopo, il boato". Se la ricorda bene Franco Baldoni quella tazzina, fumante e un po’ annacquata. L’ha benedetta per la prima volta quando un vento rovente e una pioggia di detriti l’hanno sorpreso sul sesto binario, al sicuro, e non al bar della stazione di Bologna, alle 10.25 del 2 agosto 1980.
Cosa c’era in quella tazzina?
“Adesso posso dire che c’era il resto della mia vita. In termini meno profetici un caffè offerto a fine turno, che però ci ha salvato. Se non l’avessi accettato sarei stato con mia moglie Nicoletta nel posto sbagliato al momento sbagliato e non sarei qui a raccontarlo”.
Iniziamo dal principio dottore.
“Al tempo ero un chirurgo 37enne e quella mattina smontavo dalla guardia di notte al ‘Maggiore’ di Bologna. Mi aspettava un fine settimana a Riccione con Nicoletta e con nostra figlia Annalisa, che era già al mare con i nonni”.
E questo famoso caffè?
“Avevo appena finito il ‘giro’ dei pazienti e Maria Dolores D’Elia, la nostra infermiera, mi ha detto: ‘La vedo stanco, prendiamo un caffè, da sola non faccio la ‘macchina’ da sei’. Scherzando le diedi della rompiscatole, ma accettai e verso le 8.45 tornai a casa. Avevamo il treno alle 10.40 o giù di lì”.
Il treno e non l’auto?
“Tra caldo e traffico del primo sabato di agosto preferivo non guidare. Quel giorno la stazione sembrava un formicaio. Biglietti, giornale e caffè?, chiese mia moglie. Ma no, l’avevo già preso in ospedale e siamo andati spediti al binario”.
Quante volte ha ripercorso quei momenti, un’azione dopo l’altra?
“Centinaia, migliaia forse. Salite le scale del sesto binario, Nicoletta ha aperto il giornale e un botto sordo, una cannonata, ci ha fatto accovacciare a terra. Da sotto i vagoni di un treno che faceva da scudo ci ha investito una folata di aria caldissima. Un aerosol di polvere si è gonfiato in un gigantesco fungo sopra la stazione e subito dopo una pioggia di detriti ci ricadeva addosso”.
E poi?
“Il panico. Chi correva, chi urlava. È stata mia moglie a prendermi per mano e accompagnarmi nel sottopasso, rimasto al buio, in mezzo a una calca incontrollata. Io riuscivo solo a dire devo tornare in ospedale”.
Da medico non era più utile sul posto?
"Quando siamo usciti dallo scalone dell’ala ovest, in quell’inferno erano già arrivati i primi soccorsi. Era tutto foga e improvvisazione. I corpi dilaniati dall’esplosione venivano portati via a braccia, dentro lenzuoli, sopra una porta scardinata. Era da piangere. La maggior parte di feriti sarebbero arrivati al “Maggiore”, era lì il mio posto”.
All’inizio si parlò di una caldaia. Cosa ricorda dopo l’esplosione?
"L’odore di polvere da sparo. Al tempo ero un cacciatore e lo conoscevo bene, altro che caldaia".
“Recuperata la mia 500 mi sono accodato a un autobus stipato di corpi, non so se morti o feriti. Ho fatto scendere mia moglie vicino casa e mi sono fiondato in ospedale. In reparto ho trovato tutti che piangevano, sapevano che ero in stazione, mi credevano morto”.
E ha indossato il camice…
“Per tutto il giorno. C’era da organizzare, ancora senza primari che stavano rientrando di corsa dalle ferie. I feriti arrivavano in maniera incontrollata, il pronto soccorso era saltato. Eravamo in uno stato di grazia professionale, ma non organizzati per gestire una massa del genere di traumatizzati. In seguito è nato il trauma center del “Maggiore”, dove sono diventato primario”.
Cosa le ha lasciato la Strage di Bologna, con 85 morti, 200 feriti e i suoi misteri?
“Dopo quell’esperienza mi sentii più vecchio”.
È rimasto in contatto con la signora Dolores?
“Siamo rimasti ottimi amici”.
Cosa le direbbe a distanza di quarant’anni?
“Niente, le offrirei un caffè”.
Strage di Bologna, parla il medico della foto simbolo: «Soccorsi io la donna e ho ancora il magone». Fabrizio Caccia il 2/8/2020 su Il Corriere della Sera. Stefano Badiali, il dottore dell’ospedale Maggiore: «Quel giorno è dentro di me, è come fosse oggi». C’è quella foto, una donna che urla su una barella mentre la portano via dopo l’esplosione: la foto simbolo della strage di Bologna. La donna si chiama Marina Gamberini, l’unica sopravvissuta della Cigar, la tavola calda del piazzale Ovest, oggi ha 60 anni e per fortuna sta bene. Il primo a raggiungerla sotto le macerie fu Stefano Badiali, all’epoca ventisettenne assistente medico all’ospedale Maggiore, specializzato in Anestesia e Rianimazione.
Lei dov’è nella foto, dottor Badiali?
«In realtà non ci sono, perché avevo appena finito di stabilizzare la signora Marina ed ero accanto al fotografo, mentre la scattava».
É stato in piazza Maggiore, per la celebrazione?
«No, gli ingressi quest’anno erano contingentati per le misure anti Covid, così ho preferito andare direttamente in piazza delle Medaglie d’Oro, alla stazione, con mia moglie Marina e una coppia di nostri amici, Cristina e Francesco. E nella sala d’aspetto abbiamo lasciato un mazzo di rose di tutte le età: boccioli appena nati, rose freschissime ma anche rose mezze appassite per ricordare tutti gli 85 morti della stazione, giovani, vecchi e bambini».
Un pensiero bellissimo, dottor Badiali. Lei crede in Dio? Crede che le 85 vittime, dopo 40 anni, oggi finalmente riposino in pace?
«Io sono agnostico, spero comunque che lassù ci sia qualcuno di guardia. Di sicuro, credo che se le 85 vittime potessero sapere quanta gente oggi c’era in piazza per la commemorazione e quanta gente, da 40 anni, fa di tutto per mantenerli vivi nel ricordo, intendo come persone e non come numeri, beh allora sì, credo che un po’ di pace i morti la troverebbero».
Marina Gamberini ha detto però che quell’urlo che lanciò sulla barella aspetta ancora giustizia. É d’accordo?
«C’è una verità giudiziaria, ci sono state delle sentenze, io penso però che manchi ancora qualcuno all’appello, che non ha pagato. Di anno in anno, ad ogni celebrazione, si parla di desecretazione degli atti. La presidente del Senato, Casellati, l’ha appena ribadito: si aprano i cassetti, escano i fascicoli. Speriamo che questa volta alle parole seguano i fatti».
Il 2 agosto 1980 lei era un giovane assistente, oggi è un medico in pensione. Ripensa spesso a quel giorno?
«Quel giorno è dentro di me, è come fosse oggi. A volte mi torna su il magone, quando rivedo le immagini alla tv non spengo il televisore, tolgo solo il volume e mi concentro, penso a tutte le vittime, ai 200 feriti, li sento vicinissimi. No, non ci si può fare l’abitudine a una cosa così e lo dico io che ho alle spalle una vita nei reparti di Rianimazione e ne ho viste tante di cose bruttissime. Ma Bologna è la più brutta di tutte. Pensate al Covid: ha fatto più di 35 mila morti in Italia, è vero, ma stiamo parlando di un virus. Gli 85 morti di Bologna invece sono stati volutamente ammazzati da qualcuno».
Ha sempre e solo questi ricordi tristi, dottore?
«No, per fortuna. Due infermiere che erano di turno quel giorno all’ospedale Maggiore poi si sono sposate con due signori che conobbero lì, in quelle ore disperate. Un parente e un ferito. Perché la vita alla fine vince sempre».
· Le vittime.
Strage di Bologna, le vittime venivano da tutta Italia. Pubblicato sabato, 01 agosto 2020 da La Repubblica.it. Salve, mi chiamo Gaetano Manuele, ero un bambino quel giorno. Negli anni, vedendo le immagini, e avendo fatto diverse volte da piccolo il tragitto Catania-Milano per andare a trovare i miei zii, mi sono venuti i brividi pensando che tra quei bambini morti, sarei potuto esserci anch’io. Quando arriva la ricorrenza della strage di Bologna, come molti, mi chiedo sempre cosa possa fare nel mio piccolo per mantenerne vivo il ricordo e lanciare un monito affinché certe tragedie non si ripetano più. Come tanti, ogni anno ho condiviso un video, un articolo, una frase, sulla strage attraverso i social per “non dimenticare”. Trovando quest’anno per caso il libro “2 Agosto 1980-2016 Strage alla stazione di Bologna” mi è venuta un’idea: perché non realizzare una mappa multimediale nella quale fossero geolocalizzati i luoghi in cui in cui vivevano al momento della morte le vittime? I mass-media ogni anno parlano di “strage di Bologna”, mentre in fondo è una tragedia nazionale (e non solo). La mappa, evidenziando i luoghi in cui vivevano i deceduti nell’esplosione, vuol porre anche visivamente l’accento sul fatto che sia stata una tragedia che abbia ferito al cuore l’Italia, non solo Bologna. A perdere la vita furono italiani provenienti da diverse regioni ma interessò anche altri luoghi del mondo visto che tra i morti vi furono anche alcuni inglesi, francesi, giapponesi e tedeschi.
Bologna 2 Agosto. Pubblicato sabato, 01 agosto 2020 da Maurizio Molinari su La Repubblica.it Ottantacinque vittime sono ottantacinque persone con una storia e un volto. Ragazze, ragazzi, anziani, bambine. Partivano per le vacanze, aspettavano un treno, lavoravano. Quel giorno tutto è finito per loro ed è importante ricordarli, uno per uno. A questo serve il progetto “Una vita, una storia” curato da Cinzia Venturoli e dall'Associazione 2 Agosto da cui sono tratti i testi. Quel sabato del 1980 la bomba alla stazione di Bologna fece 85 morti e 200 feriti. Le vittime provenivano da 50 città diverse 33 avevano tra i 18 e i 30 anni 7 tra i 3 e i 14 anni.
Alle 10,25 del 2 agosto 1980 il più sanguinoso attentato del Dopoguerra ferisce l’Italia. Un potente ordigno a tempo, nascosto in una valigia abbandonata nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria di Bologna, esplode in coincidenza con la sosta del treno Ancona-Basilea, ed uccide 85 persone, ferendone altre 200. L’ala Ovest è devastata e la nazione intera è sotto shock per "l’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia" come il presidente della Repubblica Sandro Pertini la definisce. A 40 anni da allora la Procura generale di Bologna ha indicato come mandanti Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi - tutti deceduti - che avrebbero affidato l’esecuzione al gruppo neofascista dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar): Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini condannati in via definitiva e Gilberto Cavallini in primo grado. La ricompensa sarebbe stata versata dai conti svizzeri di Gelli e Ortolani ai Nar per un totale di 5 milioni di dollari di cui, forse, un milione consegnato in contanti. A 40 anni da allora la nostra scelta è dedicare la copertina di Repubblica a quanto avvenne per ricordare identità e dignità di ogni vittima, per rafforzare la memoria collettiva di un’offesa alla democrazia, per rendere omaggio a forze dell’ordine e magistrati protagonisti dell’accertamento dei fatti. E per attestare il valore del ricordo delle vittime del terrorismo - ognuna delle quali con una propria storia - come elemento cruciale dell’identità nazionale. La violenza che colpì Bologna ed offese l’Italia puntava a travolgere la democrazia repubblicana che invece seppe resistere ed ancora oggi garantisce le nostre libertà. Tanto più forte, e quotidiano, è il nostro ricordo tanto più forte è lo Stato di Diritto basato sulla Costituzione. In ultima istanza è il nostro ricordo di ogni singola vittima a garantire i nostri diritti fondamentali.
1) Natalia Agostini in Gallon. Lavorava come operaia alla Ducati di Bologna, aveva due figli. Era in stazione con il marito e con la figlia Manuela di 11 anni. Morì qualche giorno dopo mentre c’erano i funerali di Manuela. Aveva 40 anni.
2) Mauro Alganon. Partito da Asti, andava a Venezia con un amico. Per il ritardo del treno persero la coincidenza. Era nella sala d’aspetto con i bagagli, l’amico che era uscito si salvò. Lavorava in libreria. Aveva 22 anni.
3) Angela e Maria Fresu. Maria Fresu era nella sala d’attesa, con la figlia e due amiche. Il suo corpo non fu mai ritrovato ma gli esami dissero che tra le macerie c’erano i suoi resti. Un’altra perizia ha smentito anche questa ipotesi. Aveva 24 anni. Angela Fresu abitava con la mamma, la nonna, zie e zii vicino a Firenze. Era in stazione con la mamma e due sue amiche, andavano in vacanza sul lago di Garda. È la vittima più giovane della strage. Aveva 3 anni.
4) Angela Marino. Nella sua famiglia erano in otto, tra fratelli e sorelle. Lei lavorava nello studio di un dentista vicino a Palermo. Era con una delle sorelle, con il fratello e con la sua fidanzata. Aveva 23 anni.
5) Antonella Ceci. Era di Ravenna e aveva appena fatto la maturità chimico-tecnica. Doveva cominciare a lavorare in uno zuccherificio. Era in stazione con il fidanzato e due sorelle di lui. Aveva 19 anni.
6) Rosina Barbaro in Montani. Stava partendo con il marito per la Riviera: avevano rinunciato a un passaggio in auto della figlia. Mano nella mano, andavano verso il bar. Travolti dalle macerie, lui rimase ferito e lei morì. Aveva 58 anni.
7) Nazareno Basso. Nel 1978, carabiniere ausiliario a Chioggia, aveva conosciuto la sua futura moglie. Ora stava a Milazzo, aveva 4 figli, e dalla Sicilia andava dalla famiglia in vacanza in Veneto. Il treno era in ritardo. Aveva 33 anni.
8) Euridia Bergianti in Baldazzi. Rimasta vedova nel 1975, da tre anni lavorava nella ditta di ristorazione della stazione: era al bancone del self service. Viveva a Bologna con uno dei suoi due figli. Aveva 49 anni.
9) Katia Bertasi. Aveva due figli, il più piccolo di 15 mesi. Nata a Rovigo, viveva a Bologna con il marito e i genitori. Ragioniera, lavorava negli uffici della Cigar, la ditta di ristorazione della stazione. Aveva 34 anni.
10) Francesco Betti. Viveva con la moglie e il figlio di due anni in provincia di Bologna. Con il suo taxi era in servizio davanti alla stazione, a trenta metri dal luogo dove era posizionata la bomba. Aveva 44 anni.
11) Paolino Bianchi. Ogni anno andava sul Garda con un’amica, l’unica distrazione che si concedeva. Viveva vicino a Ferrara prendendosi cura della madre, le aveva fatto la spesa. Lavorava come muratore. Aveva 50 anni.
12) Verdiana Bivona. Viveva vicino a Firenze, faceva l’operaia e stava andando in vacanza con due amiche e la figlia di una di loro. Solo una delle amiche si salvò, lei morì nella sala d’aspetto. Aveva 22 anni.
13) Argeo Bonora. Ferroviere, nato vicino a Bologna, dal 1970 stava a Bolzano. Sposato, con 5 figli, quel giorno di ferie era tornato nella sua città per vedere la madre. Stava aspettando il treno per rientrare a casa. Aveva 42 anni.
14) Sonia Burri. Era nella sala d’aspetto, veniva da Bari con i genitori, i nonni, la sorella, la zia e le cugine: la trovarono ancora viva vicino alla sua bambola rossa. Morì in ospedale due giorni dopo. Aveva 7 anni.
15) Davide Caprioli. Viveva a Verona, voleva diventare commercialista, suonava la chitarra e cantava. Stava rientrando a casa dopo una vacanza perchè aveva una serata con il suo gruppo. Morì in ospedale. Aveva 20 anni.
16) Flavia Casadei. Era partita da Rimini per andare a Brescia. Doveva cambiare treno e perse la coincidenza. Insieme a una ragazza conosciuta durante il viaggio era nella sala d’aspetto. Faceva il liceo. Aveva 18 anni.
17) Mirco Castellaro. Viveva a Ferrara, sposato, con un figlio di sei anni. Insieme a un amico aveva comprato una barca in Sicilia, dovevano fare dei viaggi di rodaggio. Doveva partire prima, ci riuscì solo il 2 agosto. Aveva 33 anni.
18) Roberto Demarchi. Viveva a Marano Vicentino, con la madre e tre fratelli. Giocava a pallavolo. Andava a trovare dei parenti con la madre. Morirono entrambi: lui stava passeggiando sul primo binario. Aveva 21 anni.
19) Maria Idria Avati in Gurgo. Doveva andare in Trentino, da Rossano Calabro: aveva viaggiato di notte con la figlia. Stava nella sala d’attesa, la figlia era andata alla toilette. Lo scoppio la travolse, morì all’ospedale. Aveva 80 anni.
20) La famiglia Diomede Fresa: da sinistra Francesco Cesare, Errica Frigerio e Vito. Francesco era di Bari. I suoi genitori avevano deciso di prendere il treno per evitare il traffico in autostrada. La sorella non era partita con loro. Morì insieme alla madre e il padre. Aveva 14 anni. Vito, medico, impegnato nella ricerca sul cancro, dirigeva l’Istituto di patologia generale della facoltà di medicina di Bari, dove abitava con la famiglia. Aveva 62 anni. Errica insegnava lettere in un istituto per geometri a Bari. Aveva due figli, un maschio e una femmina. Aveva 57 anni.
21) Antonino Di Paola. Lavorava per una ditta di impianti elettrici, era di Palermo e divideva la casa a Bologna con un collega. Era in stazione: alle 10 e 15 doveva arrivare il fratello del collega. ma il treno era in ritardo. Aveva 32 anni.
22) Mauro Di Vittorio. Voleva andare a Londra, cercava lavoro. Fu fermato alla frontiera : non aveva denaro per mantenersi. Rientrò in Italia per tornare a Roma e solo il 10 agosto la famiglia seppe che era morto. Aveva 24 anni.
23) Domenica Marino. Lavorava come collaboratrice famigliare in provincia di Palermo. Era arrivata a Bologna con la sorella per andare con il fratello e la sua fidanzata in Romagna. Il treno era stato posticipato. Aveva 26 anni.
24) Berta Ebner. Nata in provincia di Bolzano, aveva un fratello, non era sposata e viveva in casa con la madre. Faceva la casalinga. Non si è riusciti a ricostruire perché quel giorno fosse in stazione. Aveva 50 anni.
25) Lina Ferretti in Mannocci. Stava a Livorno. Doveva partire, col marito, il 3 agosto per una vacanza a Brunico offerta dalla suocera che aveva vinto al lotto. Ma una stanza si era liberata prima. Il marito rimase ferito. Aveva 53 anni.
26) Mirella Fornasari in Lambertini. Lavorava per la ditta di ristorazione della stazione: quel sabato le era stato chiesto di essere lì e non nell’ufficio dove era stata trasferita. Sposata, un figlio, viveva vicino a Bologna. Aveva 36 anni.
27) Franca Dall'Olio. Da 4 mesi lavorava per la ditta della ristorazione della stazione. Era al telefono con un fornitore che era andato a consegnare della merce. Di solito scendeva lei, quel giorno chiese a lui di salire. Aveva 20 anni.
28) Roberto Gaiola. Finite le elementari, era andato a lavorare in fabbrica, a Vicenza. Dopo anni difficili stava seguendo un percorso di disintossicazione a Bologna. Aspettava il treno per rientrare a casa. Aveva 25 anni.
29) Pietro Galassi. Nato a San Marino, si era laureato in matematica e fisica. Prima di andare in pensione aveva insegnato in una scuola di Viareggio di cui era diventato preside. Aveva 66 anni.
30) Eleonora Geraci in Vaccaro. Il 2 agosto era andata in macchina con il figlio alla stazione di Bologna. Aspettava il treno della sorella che abitava in Sicilia e veniva a trovarla. Fu uccisa nello scoppio insieme al figlio. Aveva 46 anni.
31) Carla Gozzi. Insieme al fidanzato partiva per le vacanze alle Tremiti. Viveva con i genitori in provincia di Modena, era impiegata in un maglificio. Erano arrivati alla stazione in anticipo. Morì con il fidanzato. Aveva 36 anni.
32) Vincenzo Iaconelli. Aveva deciso di andare a Verona per vedere uno spettacolo all’Arena. Viveva in provincia di Ravenna, era in pensione e si era iscritto a Legge per aprire uno studio di consulenza. Aveva 51 anni.
33) Francesco Antonio Lascala. Il suo treno da Reggio Calabria aveva tre ore di ritardo, doveva andare a Cremona, aveva perso la coincidenza. Sposato, tre figli, era un centralinista delle Ferrovie in pensione. Aveva 56 anni.
34) Pier Francesco Laurenti. Viveva a Parma, lavorava a Padova nelle assicurazioni. Stava tornando a casa dopo una vacanza in Riviera. Era sceso, durante la sosta del treno a Bologna, per telefonare a un amico. Aveva 44 anni.
35) La famiglia Lauro: Velia Carli e Salvatore. Velia Carli, nata a Tivoli, sette figli, aveva una piccola impresa di maglieria in provincia di Napoli. Con il marito andava a Venezia per un funerale, persero la coincidenza e morirono nella sala d’aspetto. Aveva 50 anni. Salvatore Lauro Maresciallo dell’aereonautica, era di Acerra e abitava a Brusciano, in provincia di Napoli. Sette figli, di cui due molto piccoli. Era con la moglie Velia e stava aspettando il treno successivo. Aveva 57 anni.
36) Loredana Molina in Sacrati. Insieme al marito aveva portato il figlio minore e la suocera in stazione. Il marito aspettava in macchina, lei andò a comprare i biglietti. Stava guardando il tabellone degli orari. Aveva 44 anni.
37) Leo Luca Marino. Era della provincia di Palermo, faceva il muratore a Ravenna. Insieme alla fidanzata era andato a prendere due delle sue sorelle per le vacanze in Romagna. Morirono tutti e quattro. Aveva 24 anni.
38) Kai Maeder. Rimase ucciso con la madre e uno dei suoi fratelli: il terzo fratello e il padre, che scavò a lungo tra le macerie, si salvarono. Stavano rientrando a casa, in Germania. Aveva 8 anni.
39) Elisabetta Manea in De Marchi. Stava andando in Puglia con il più piccolo dei suoi quattro figli, dopo la convalescenza per un intervento chirurgico. Era rimasta vedova nel 1970. Morì in stazione insieme al figlio. Aveva 60 anni.
40) Manuela Gallon. Stava aspettando il treno per la colonia estiva con i genitori, vicino alla sala d’attesa. Il padre andò a comprare le sigarette e rimase ferito. Lei morì in ospedale dopo 5 giorni. Aveva 11 anni.
41) Maria Angela Marangon. Nata in provincia di Rovigo, aveva due fratelli e una sorella. Faceva la babysitter a Bologna e appena poteva rientrava a casa. Era in stazione per ritornare a Rosolina, il suo paese. Aveva 22 anni.
42) Rossella Marceddu. Dalla vacanza stava rientrando a casa, vicino a Vercelli. Doveva fare il viaggio in moto ma scelse il treno, più sicuro. Era al quarto binario con un’amica e andò al bar da sola per bere qualcosa. Aveva 19 anni.
43) Amorveno Marzagalli. Aveva accompagnato la moglie e il figlio al Lido degli Estensi e aveva preso un treno, il primo dopo 20 anni, per andare a Cremona dal fratello a fare una gita sul Po. Viveva ad Omegna. Aveva 54 anni.
44) Famiglia Mauri: da sinistra Anna Maria Bosio, il piccolo Luca e Carlo. Lei e il marito erano cresciuti in parrocchia, avevano un figlio, e vivevano a Tavernola vicino a Como. Dal 2016 c’é un piazzale che li ricorda. Lei faceva la maestra. Aveva 28 anni. Luca Mauri doveva cominciare le elementari all’inizio del nuovo anno scolastico, dopo le vacanze. Viaggiava con i genitori per andare in un villaggio turistico in Puglia. Aveva 6 anni. Carlo Mauri Era partito in macchina da Como con la moglie e il figlio. Ebbero un incidente a Bologna e decisero di prendere il treno. Morirono tutti e tre in stazione. Aveva 32 anni.
45) Patrizia Messineo. Si era diplomata in ragioneria, era di Bari. Era in stazione con la madre, la sorella, i nonni materni, una zia e le cugine. Tutte in sala d’aspetto: la bomba la uccise assieme alla sorella e alla zia. Aveva 18 anni.
46) I fidanzati Catherine Hellen Mitchell e John Andrew Kolpinski. John Andrew Kolpinski si era laureato all’Arts Court di Birmingham, e aveva deciso, insieme alla fidanzata, di fare un viaggio in diversi paesi, senza mete particolari. Furono uccisi dallo scoppio. Aveva 22 anni. Catherine Helen Mitchell Il suo zaino era blu, quello del fidanzato arancione. Erano partiti per vedere l’Europa, morirono entrambi. Si era laureata all’Arts Court di Birmingham. Aveva 22 anni.
47) Antonino Montanari. Viveva a Bologna con la moglie. Era andato a informarsi sugli orari delle corriere e aspettava il bus di fronte al portico della stazione per tornare a casa. Fu colpito da un pezzo di un edificio. Aveva 86 anni.
48) Nilla Natali. Aveva scelto i mobili per la sua nuova casa, stava per sposarsi e lasciare la casa dei genitori. Era figlia unica. Lavorava nella società di ristorazione della stazione. Aveva 25 anni.
49) Lidia Olla in Cardillo. Era partita da Cagliari con il marito per andare in Trentino dalla sorella. Il marito era uscito dalla sala d’aspetto per controllare l’orario del treno e rimase ferito. Lei morì. Aveva 67 anni.
50) Giuseppe Patruno. Faceva l’elettricista a Bari, era in vacanza a Rimini con uno dei suoi 10 fratelli. In macchina avevano accompagnato delle amiche alla stazione. Il fratello rimasto più indietro si salvò. Aveva 18 anni.
51) Vincenzo Petteni. Andava a Palermo con un amico per una vacanza sul mare verso la Tunisia. Non c’era posto in aereo e scelsero il treno. Morì dopo 14 giorni. Nato vicino a Trento, stava a Ferrara, era sposato. Aveva 34 anni.
52) Angelo Priore. Nato a Bolzano, faceva l’ottico a Messina. Con lui c’erano i suoceri, raggiungevano la moglie e il figlio in vacanza. Era nella sala d’aspetto a leggere, lo scoppio lo devastò. Mori l’11 novembre. Aveva 26 anni.
53) Pier Carmine Remollino. Orfano di madre, era cresciuto con il padre e otto fratelli vicino a Potenza. A 18 anni era partito per la Germania. Rientrato in Italia per il servizio militare, si era trasferito a Ravenna. Aveva 31 anni.
54) Rita Verde. Era impiegata nella ditta di ristorazione della stazione. Morì insieme a cinque colleghe, si salvò solo la più giovane, Marina Gamberini. Rita stava per sposarsi. Aveva 23 anni.
55) Roberto Procelli. Dopo un corso per programmatore elettronico aveva trovato lavoro. Dal 13 maggio faceva il militare a Bologna e stava tornando a casa, vicino ad Arezzo. Fu identificato grazie alla piastrina. Aveva 21 anni.
56) Gaetano Roda. Appena assunto dalle Ferrovie, viveva vicino a Ferrara e faceva un corso alla stazione. Durante una pausa era andato al bar. L’onda d’urto lo gettò contro il treno sul primo binario. Aveva 31 anni.
57) Romeo Ruozi. Il treno della figlia doveva arrivare alle 11 e 58, ma lui era andato in stazione con molto anticipo. Sposato, abitava a Bologna dal 1975 e aveva tre figli. Era in pensione. Aveva 54 anni.
58) Vincenzina Sala in Zanetti. Col marito, i consuoceri e il nipote di sei anni, aspettava, sul primo binario, la figlia e il genero in arrivo dalla Svizzera. Il treno era in ritardo. Lo scoppio la uccise. Nata a Pavia, abitava a Bologna. Aveva 50 anni.
59) Sergio Secci. Nato a Terni, una laurea al Dams: da Forte dei Marmi andava a Bolzano per lavoro. Voleva passare per Verona dove c’era un amico. Il suo treno ritardò, perse la coincidenza. Morì il 7 agosto. Aveva 24 anni.
60) Salvatore Seminara. Era un operaio specializzato. Suo fratello stava arrivando in licenza a Bologna e lui era andato con il collega con cui divideva la casa ad aspettarlo. Erano nella sala d’aspetto. Aveva 34 anni.
61) Silvana Serravalli in Barbera. Insegnava a Bari alle elementari, aveva compiuto gli anni il primo agosto. Alle 10,25 era al bar della stazione. Nella sala d’aspetto c’erano i genitori, il cognato e la sorella con le figlie. Aveva 34 anni.
62) Mario Sica. Avvocato specializzato in diritto del lavoro, era stato assunto all’Atc, l’azienda di trasporti di Bologna, dove viveva con la moglie e i tre figli. Aspettava la madre in arrivo da Roma. Aveva 44 anni.
63) Vito Ales. Andava in Romagna per lavorare in una pensione come aveva fatto nelle estati precedenti. Veniva da Palermo. Camminava, in attesa del treno, sul marciapiede del primo binario. Aveva 20 anni.
64) Vittorio Vaccaro. Sposato con Adele che aveva conosciuto a Rimini, una figlia di 4 anni di nome Linda, faceva l’operaio ceramista in provincia di Reggio Emilia. Era con sua madre e morì con lei. Aveva 24 anni.
65) Umberto Lugli. Aveva una merceria a Carpi con il fratello. Stava andando con la fidanzata alle Tremiti. Il fratello li aveva portati presto in stazione per rientrare al lavoro. Morì con la fidanzata. Aveva 38 anni.
66) Iwao Sekiguchi. Veniva da Tokio per conoscere l’arte italiana. Aveva una borsa di studio e da Firenze era arrivato a Bologna. Stava andando a Venezia. Teneva un diario: stava scrivendo prima dello scoppio. Aveva 20 anni.
67) Fausto Venturi. Viveva con la madre e il fratello a Bologna. Il 2 agosto, dalle 8, era in servizio con il suo taxi alla stazione. Fu travolto dalle macerie dello scoppio mentre stava parlando con un collega. Aveva 38 anni.
68) Angelica Tarsi in Sacrati. Doveva partire con il nipotino. Li avevano accompagnati suo figlio e la nuora: non c’era parcheggio e il figlio restò ad aspettare in auto. L’esplosione uccise lei e la nuora ferendo il bimbo. Aveva 72 anni.
69) Onofrio Zappalà. Si era innamorato di una danese, Ingeborg, e pensava di trasferirsi. Ma venne assunto dalle Fs. Era in stazione con due colleghi: lui restò sul marciapiede e morì. Il 3 sarebbe arrivata Ingeborg. Aveva 27 anni.
70) I coniugi Zecchi: Paolo e Viviana Bugamelli. Paolo Zecchi si era sposato da pochi mesi. Con la moglie era in stazione per comprare i biglietti per la Sardegna dove volevano andare all’inizio di settembre. Morirono tutti e due. Lavorava in banca. Aveva 23 anni. Viviana Bugamelli Viveva vicino a Bologna con il marito, sposato da poco, e con i genitori. Ragioniera, lavorava in un’azienda agricola. Morì con il marito: stavano comprando dei biglietti. Era incinta. Aveva 23 anni.
Le vittime senza volto:
Marina Antonella Trolese. Faceva il liceo e abitava vicino a Padova. Stava partendo con la sorella: c’erano anche il fratello più piccolo e la mamma, che fu uccisa nello scoppio. Lei morì il 22 agosto, per le ustioni. Aveva 16 anni.
Anna Maria Salvagnini in Trolese. Aveva accompagnato le due figlie, dalla provincia di Padova alla stazione di Bologna: erano in partenza per un viaggio studio. Morì anche una delle figlie. Lei insegnava alle medie. Aveva 51 anni.
Irene Breton in Boudouban. Era svizzera. Nata a Boncourt, paese di poco più di mille abitanti, viveva a Delemont con il marito. Faceva l’orologiaia. Non è stato possibile ricostruire come mai fosse in stazione. Aveva 61 anni.
Margret Rohrs in Mäder. Viveva ad Haselhorf in Westfalia con il marito e i tre figli, era in vacanza in Italia con tutta la famiglia, aspettavano il treno per tornare a casa. Morì insieme ai due figli più piccoli. Aveva 39 anni.
Eckhardt Mäder. Era in vacanza con i genitori e rimase nella sala d’attesa con la madre mentre il padre aveva deciso di visitare Bologna nelle due ore di attesa. Morì con la mamma e un fratellino. Aveva 14 anni.
Brigitte Drouhard. Nata a Saules, in Francia, abitava a Parigi dove lavorava come impiegata. Stava aspettando un treno per Ravenna. Le piacevano la poesia e la letteratura italiana. Aveva 21 anni.
Francisco Gomez Martinez. Catalano, aveva cominciato a lavorare a 16 anni, risparmiava per viaggiare. Stava andando a Rimini. Nella sala d’aspetto scriveva alla fidanzata e immaginava le prossime vacanze con lei. Aveva 23 anni
· Il Depistaggio Ideologico ed il Processo Mediatico.
Strage di Bologna, le due verità del Manifesto e dell’Unità. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Agosto 2020. Il 19 luglio del 1990, a dieci anni dalla strage di Bologna, quando la corte d’assise d’appello assolse Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, i due principali quotidiani della sinistra italiana ebbero un comportamento opposto. “Lo scandalo di una sentenza giusta”, titolò il quotidiano diretto da Valentino Parlato, mentre il rivale-fratello maggiore guidato da Massimo D’Alema pubblicava la sua prima pagina totalmente bianca in segno di protesta. Non si era mai visto, che il partito comunista si mettesse contro i giudici. Ma del resto il Pci era fin d’allora dalla parte dei pubblici ministeri, quegli stessi che avevano chiesto e ottenuto gli ergastoli in primo grado e con cui a Bologna il partito di Occhetto era in stretti rapporti. Quella pagina bianca e la grancassa che ne seguì sortirono il loro effetto mediatico, politico e anche giudiziario. Cassazione, ancora appello e di nuovo cassazione misero la pietra tombale sugli ergastoli di un processo politico celebrato senza prove e con labilissimi indizi. E ancora si indaga, in questo processo senza fine. Quest’anno la piazza militante non ha fischiato coloro che parlavano dal palco, a Bologna, nell’anniversario del 2 agosto, che è stato addirittura il quarantennale. Non ha fischiato un po’ perché, data la solennità dell’anniversario, era presente il presidente Mattarella e un po’ perché i rappresentanti del governo sono di sinistra. Ma per quarant’anni quella piazza, governata da quell’associazione dei parenti delle vittime che è diventata un vero partito ( tanto da aver mandato in parlamento il proprio presidente Paolo Bolognesi) è stata inaccessibile a chiunque non condividesse quella “verità” nata nelle notti insonni e nei conciliaboli tra dirigenti di partito e pubblici ministeri. Mai l’ombra del dubbio solcò la fronte di quegli uomini. E al manifesto quel titolo del 1990, che rispecchiava una campagna di stampa garantistica su un processo indiziario, costò l’insulto più bruciante: siete “oggettivamente” al fianco dei mandanti della strage, scrissero i dirigenti della federazione bolognese del Pci. Per loro la sentenza, perentoria e definitiva, era scritta fin dal 3 agosto 1980, quando ancora si frugava a mani nude tra la macerie e si contavano i morti. E coloro che pure erano stati prestigiosi dirigenti comunisti come Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Valentino Parlato, venivano degradati a “nemici” perché dubitavano della loro verità. Ma se invece quella delle sentenze non fosse la verità? Se le cose fossero andate in un altro modo e la strage non fosse “fascista”? Esiste ormai un bel po’ di storiografia che segue un’altra pista, sia sulla strage di Bologna che sul Dc 9 precipitato a Ustica il 27 giugno di quell’anno, ed è la cosiddetta “pista palestinese”. Lasciamo agli appassionati il compito di trovare eventuali prove o indizi di questa seconda alternativa “verità”. Ma esiste anche una terza ipotesi, quella che non piace ai pistaroli retroscenisti di tutti i tipi e di tutti i colori politici, quella della casualità, quella di chi non crede alla “strategia della tensione” di chi (fascisti o servizi più o meno deviati) avrebbe usato le bombe per cambiare di volta in volta il quadro politico nel Paese. Un personaggio disincantato ma non certo sprovveduto né poco politico come Luigi Pintor ha sempre sostenuto per esempio che la bomba di piazza Fontana fosse stata un banale errore di chi credeva di aver posto l’esplosivo a titolo dimostrativo in orario di chiusura della Banca dell’agricoltura. Ignorando il fatto che una volta la settimana, il venerdì, il prolungamento di un’ora fosse dedicato a incontri tra gli agricoltori. E Francesco Cossiga era convinto che anche la strage di Bologna fosse frutto di un “errore”, la casualità di un trasporto di esplosivo in transito, finito male. Se a questo si aggiunge un altro fatto accidentale, quello scroscio improvviso di pioggia che costrinse i manifestanti di piazza della Loggia a Brescia a rifugiarsi proprio sotto i portici dove qualcuno aveva posto un altro ordigno “dimostrativo”, è facile costruire un’altra teoria. Che potrebbe avere la stessa dignità di quelle considerate ormai storiche. E se fosse stato tutto tragicamente casuale? Sulla base di questo dubbio, ci domandiamo se abbia ancora senso, non solo da parte della magistratura militante la continua ossessiva ricerca di “mandanti”, vivi o morti (come nel caso delle ultime indagini bolognesi), ma anche la periodica proposta, da parte di vertici istituzionali, di “liberare” gli atti sulle stragi ancora secretati o pieni di omissis o con nomi e date sbianchettati. Che cosa pensiamo di trovare in quelle carte? Qualche verità rivelata? Sarà cinico il dirlo, o magari qualunquistico secondo qualcuno, ma cessiamo per un attimo di frugare, lasciamo depositare un po’ di polvere del tempo sulla storia delle stragi. Noi, le generazioni che hanno vissuto gli anni del terrorismo di destra e di sinistra, sappiamo che quelli furono fenomeni tragici ma genuinamente politici e con un certo radicamento anche sociale. E sono già storia. Quella delle bombe ancora no, troppo inquinata anche (ma non solo) da forzature politiche e giudiziarie. Cominciamo prima a imparare a coltivare il dubbio. Poi ne riparliamo.
Università degli Studi di Padova Facoltà di Scienze Politiche La strage di Bologna - 2 agosto 1980 di Marco Dal Pont Relatore Alba Lazzaretto Anno Accademico 2007-2008.
INTRODUZIONE. Alle 10.25 di sabato 2 agosto 1980 il violentissimo scoppio di una bomba lasciata sopra un tavolino della sala d aspetto di 2^ classe della stazione Centrale di Bologna provoca il crollo delle strutture sovrastanti la sala d aspetto di 1^ e di 2^ classe e della pensilina per circa 30 metri di lunghezza. L esplosione coinvolge anche due vetture del treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario. Dato il grande affollamento dovuto al giorno prefestivo di agosto, il bilancio delle vittime è terrificante: 85 morti e più di 200 feriti. È la strage di Bologna, il più grave attentato terroristico mai registrato nella storia della Repubblica italiana. Nei giorni seguenti tutti i quotidiani nazionali iniziano già a parlare di pista nera e di attentato terroristico neofascista: «Torna il terrore nero, per i giudici l'unica pista valida è quella fascista» è l'accusa che appare su La Repubblica, anche per il Corriere della Sera «È una bomba quasi certo nera» così come per l'Avanti la vicenda di Bologna è un azione descrivibile come «orrore fascista», «Una strage spaventosa, quasi certo: un atroce attentato fascista», «Sono stati i fascisti: la strage spaventosa di Bologna» sono i titoli delle prime pagine de L'Unità. L opinione pubblica è ben orientata verso un unica direzione e, infatti, nel 1981, quattordici anni prima della condanna definitiva dei neofascisti Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, viene posta dal Comune di Bologna una lapide commemorativa recante la scritta Vittime del terrorismo fascista riprendendo le stesse parole di accusa contro l'estremismo di destra usate dal Presidente del Consiglio Francesco Cossiga durante la sua relazione al Senato del 5 agosto 80 rispondendo alle interrogazioni presentate da tutti i gruppi a riguardo di moventi e circostanze relative alla strage appena compiuta. Le indagini si indirizzano quindi verso ambienti della destra eversiva extraparlamentare, in particolare contro Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Le indagini sono però intralciate dal SISMI per mezzo di indicazioni, informazioni e ritrovamenti di indizi e prove rivelatisi poi infondati: un intervista della giornalista Rita Porena ad un dirigente palestinese del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina apparsa sul Corriere del Ticino il 19 settembre 1980 e il depistaggio sul treno Taranto-Milano del 13 gennaio 1981, con il ritrovamento a bordo di una valigetta di esplosivo compatibile con quello usato sei mesi prima a Bologna indirizza l'inchiesta verso i NAR di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, unico gruppo a non essere ancora sospettato fino a quel momento. Nello stesso anno la testimonianza di un malavitoso filonazista, Massimo Sparti, contribuisce all'accusa di Fioravanti e Mambro in veste di esecutori materiali. Nel 1986 Angelo Izzo, il massacratore del Circeo, con la sua testimonianza raccolta in carcere dopo vari passaparola, porta l'attenzione dei magistrati bolognesi anche in direzione di Luigi Ciavardini, un ragazzo romano da poco aggregatosi ai NAR e all'epoca dei fatti ancora diciassettenne. Dopo cinque processi e tre gradi di giudizio il 25 novembre 1995 Mambro e Fioravanti vengono definitivamente condannati all'ergastolo come esecutori materiali della strage. L'11 aprile 2007 arriva la condanna della Corte di Cassazione a 30 anni di reclusione anche per Luigi Ciavardini, la massima pena possibile per un minorenne. Secondo Luca Telese, giornalista de Il Manifesto, ci troviamo di fronte ad una storia inquinata dai servizi segreti e logge massoniche, depistaggi, con condanne e assoluzioni inspiegabili. A 25 anni di distanza dalla strage due consulenti della Commissione Mitrokhin, istituita per indagare le attività del KGB in Italia e i rapporti con il nostro servizio di intelligence, il giornalista Gian Paolo Pelizzaro e il magistrato Lorenzo Matassa, usufruendo dei documenti provenienti dal SISMI, dal SISDE, dall UCIGOS e dai servizi segreti francesi, tedeschi e ungheresi acquisiti sia dalla Commissione Mitrokhin sia dalla Commissione Stragi hanno portato alla luce nuove ipotesi di colpevolezza descritte nel dossier da loro redatto Relazione sul gruppo Separat e il contesto dell'attentato del 2 agosto 1980: la strage di Bologna sarebbe stato un attentato punitivo organizzato dai palestinesi contro l'Italia a seguito dell'arresto per traffico d'armi di un uomo legato al mondo terroristico palestinese. Abu Anzeh Saleh, un giordano componente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (la corrente radicale dell'OLP guidata da George Habbash e Wadi Haddad), infatti, era stato arrestato dai carabinieri il 13 novembre 1979 a Bologna nell'ambito delle indagini che avevano portato in prigione, circa una settimana prima, tre militanti dell Autonomia Operaia, Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Giuseppe Nieri, mentre trasportavano in casse di legno due lanciamissili e relativo munizionamento. La sua mancata scarcerazione, seguita da ripetute minacce e ultimatum all'Italia, avrebbe scatenato la rabbia dei vertici palestinesi in virtù di un accordo segreto stipulato con il governo Moro nei primi anni 70 che imponeva al nostro Paese l'immediata scarcerazione di qualsiasi palestinese arrestato. Data la violazione di questo patto il FPLP, per mano del gruppo terroristico Separat di Carlos ad esso collegato, avrebbe colpito l'Italia proprio nella città di residenza di Saleh. Compreso il carattere punitivo della strage i vertici dello Stato in collaborazione con il servizio segreto per le questioni internazionali, il SISMI, si sarebbero mossi per ottenere la scarcerazione del terrorista giordano che, in effetti, avvenne un anno dopo la strage nonostante la condanna emessa dal tribunale de L'Aquila nei suoi confronti per traffico d'armi fosse di sette anni.
2 agosto 1980: narrazione pubblica di una strage. Claudia Sbarbati, numero 49, giugno 2020, Saggi e Studi su BIBLIOMANIE.
1 – La bomba alla stazione: il contesto. Estate 1980. Il primo sabato d’agosto. Chiusi i cancelli delle fabbriche, abbassate le saracinesche dei negozi, gli italiani si preparano a partire per le ferie estive: le città iniziano a svuotarsi e famiglie, giovani e turisti si riversano in autostrada e affollano le stazioni. È gremita anche quella di Bologna, nodo ferroviario nevralgico dell’Italia Settentrionale, crocevia imprescindibile per le destinazioni del versante Adriatico e, in generale, per il Mezzogiorno del Paese. L’inflazione è al 22%, la cassa integrazione ha toccato anche la Fiat, gli effetti della crisi economica internazionale si fanno sentire e una violenza incessante ha scandito gli ultimi mesi. A gennaio la mafia ha assassinato il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, mentre il mese successivo è caduto per mano brigatista il Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Vittorio Bachelet, seguito a maggio da Pino Amato (Consigliere Nazionale della Dc) e dal giornalista Walter Tobagi, vittima di un’altra formazione terroristica di estrema sinistra. Il 23 giugno i Nar hanno ucciso il sostituto procuratore della Repubblica di Roma, Mario Amato, titolare di tutte le inchieste sull’eversione neofascista e pochi giorni dopo il DC 9 dell’Itavia, decollato proprio da Bologna, è misteriosamente precipitato nel cielo di Ustica senza lasciare superstiti fra gli 81 passeggeri. Nonostante questo, o forse proprio per allontanarsi da questo, alla stazione di Bologna c’è aria di festa, di gioiosa impazienza, di desiderio di evasione. Valige al seguito e zaini in spalla, moltissime persone hanno già invaso i binari, mentre sul piazzale tassisti e autobus continuano incessantemente ad accompagnare i vacanzieri. Alle 10 e 25 minuti tutto cambia: un boato, nuvole di fumo, polvere, grida. Nella sala d’aspetto di seconda classe è impietosamente esplosa quella miscela di tritolo e di T4 che ucciderà ottantacinque persone e ne ferirà oltre duecento. La strage del 2 agosto passa tristemente alla storia come la più sanguinosa dell’Italia Repubblicana e le sue vittime si sommano alla drammatica conta degli anni della strategia della tensione. Alla “madre di tutte le stragi”, quella di Piazza Fontana del 1969, era seguito nel luglio del ‘70 il deragliamento del treno Freccia del Sud che aveva ucciso sei persone. Nel 1971 era giunta la notizia del fallito colpo di Stato del principe nero Junio Valerio Borghese ordito nel dicembre dell’anno precedente e nel 1972 una bomba alla Questura di Milano era costata la vita a quattro persone. Nel 1973 gli italiani avevano appreso la notizia dell’esistenza della Rosa dei Venti, un’organizzazione neofascista collegata ad alti ufficiali, dirigenti dei servizi segreti, politici, industriali e finanzieri, coinvolta in trame eversive; mentre nel maggio 1974 era deflagrato l’ordigno di Brescia che aveva dilaniato otto cittadini innocenti. Appena qualche mese dopo, il 4 agosto, un altro ordigno era esploso, questa volta sul treno Italicus Roma – Brennero, uccidendo dodici persone e ferendone quasi cinquanta. Tutti episodi, questi, riconducibili all’eversione dell’estrema destra italiana, nell’ambito dei lunghi anni della “guerra non ortodossa” al comunismo. Dal 1974, lo stragismo neofascista sembrava aver lasciato posto al terrorismo rosso e allo spontaneismo armato dei Nar ma già dai primi anni Settanta la Magistratura aveva gettato le prime luci sulle bombe nere della strategia della tensione. Alla fine del decennio, il contesto sociopolitico iniziava a cambiare: di lì a poco ci sarebbe stato l’avvio di un diverso capitalismo, dell’“Italia da bere” e degli anni del riflusso, di un nuovo assetto internazionale in cui la grande paura dell’avanzata del comunismo stava ormai venendo meno nonostante le tensioni internazionali fossero ancora notevoli. Nonostante queste ultime considerazioni potrebbero indurre a ritenere la bomba alla stazione qualcosa di estraneo alla strategia delle stragi, vari elementi suggeriscono che la discontinuità sia solo apparente e che alcuni aspetti siano convergenti. Fra questi ultimi, le responsabilità della destra eversiva, il coinvolgimento dei servizi segreti e di alcune personalità dello Stato nei depistaggi e l’attività della loggia massonica P2 di Licio Gelli che con il suo obiettivo di involuzione del sistema democratico sembra aver avuto un ruolo importante anche nelle stragi precedenti. Dalla cronaca “a caldo”, sulla scia della suggestiva definizione del giornalista come “storico dell’istante” offerta da Albert Camus, così come dalla stampa da ricorrenza e da quella di commento alle svolte giudiziarie, emerge un giudizio spesso negativo dell’operato statale in rapporto alle stragi. La ricostruzione del complesso quadro d’insieme richiederà decenni, ma l’informazione a stampa ne traccerà i contorni già dai primi anni Settanta, in particolare dal ‘74 – anno decisivo per le inchieste sulle trame eversive e golpiste – definendo un racconto pubblico in cui Servizi segreti e istituzioni dello Stato non cessano mai di riempire le pagine dei quotidiani e dei periodici in qualità di depistatori o complici dell’eversione nera. La strage di Bologna sopraggiunge, infatti, in un momento di fermento per le inchieste sul terrorismo nero, quando già sono emerse alcune linee di quello “Stato intersecato” in cui personalità dei settori civile, militare e d’intelligence statali sono coinvolte in programmi di sovvertimento o riforma della Repubblica a vari livelli. L’immaginario predominante, nonostante il differente contesto, è comunque lo stesso che aleggia su tutta la stagione stragista: quello di una Giustizia osteggiata, di uno Stato lontano e, talvolta, persino Nemico.
2 – Raccontare la strage: le prime informazioni e gli immaginari “a caldo”. Nel pomeriggio del 2 agosto, è il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto a Bologna in elicottero per incontrare i feriti all’ospedale Maggiore, ad offrire una prima interpretazione di quanto accaduto, definendo la strage l’impresa più “criminale” mai avvenuta in Italia. Nell’immediatezza della deflagrazione, invece, radio, televisione e una quota della stampa nazionale danno inizialmente spazio all’ipotesi di un terribile incidente. Mentre in prima pagina il “Corriere della Sera” si interroga sulle ipotesi di “attentato o sciagura”, meno dubbiosa è l’apertura de “La Stampa” che tuona immediatamente contro i Nar e ne riporta le rivendicazioni telefoniche, pur sottolineando che l’ipotesi dell’attentato è stata tenuta in sospeso sino all’ultimo «per il rifiuto di accettare l’orrore». Anche “L’Unità” racconta di piste investigative alternative al «sospetto di un atroce attentato fascista», ma in ogni caso richiama subito l’immaginario delle stragi degli anni Settanta: «si è riacceso nella nostra mente – scrive – un decennio di sangue, di barbaria politica e morale.» Qualcuno avanza una prima distinzione fra terrorismo rosso e nero, che ricorda quelle emerse subito dopo la strage di Brescia, asserendo che se da sinistra la società e l’ordine democratico vengono colpiti «attraverso la classe dirigente, con uno stillicidio oculato e crudele di assassinii», da destra «vengono attaccati spargendo il terrore cieco, indiscriminato, della strage popolare.» Accertata formalmente la matrice criminale dell’attentato, con le dichiarazioni del procuratore della Repubblica di Bologna Ugo Sisti la cronaca nazionale si concentra sull’eversione nera e sulle risposte dello Stato italiano. Il timore diffuso è che la legittima indignazione popolare nei confronti delle Istituzioni favorisca il gioco dei terroristi, destituendo di ogni dignità la nazione e togliendo «ogni credibilità all’Italia repubblicana.» Lo Stato sembra vulnerabile giacchè appare, ed è già apparso nel corso delle indagini sull’eversione negli ultimi dieci anni, corruttibile e corrotto nelle sue componenti interne. Nuovamente, come dopo le bombe di Milano e di Brescia, dalle narrazioni su carta i cittadini emergono come gli unici paladini di una democrazia interiorizzata e tenacemente difesa, laddove lo Stato sembra assente o nel migliore dei casi impotente. Dalle pagine del “Corriere” Moravia riflette su una sorta di educazione politica, diremmo forse anche sentimentale, che ha dato i suoi frutti migliori negli anni cupi dell’ultimo decennio: «Gli italiani […] vedono, riflettono, non si lasciano più destabilizzare sia individualmente, sia collettivamente», e in questa nuova consapevolezza del tessuto sociale si rintraccia il «maggiore baluardo delle nostre istituzioni», difese più dai cittadini che dalle agenzie di sicurezza. L’idea di una mancanza, di una lacuna nell’attività di governo e controllo della cosa pubblica, è chiaramente espressa anche sulle pagine di altre testate, dove la strage è interpretata come un attacco alla democrazia, «mentre manca una guida politica seria e si fa sempre più acuta la crisi economica e sociale.»
Da un punto di vista eminentemente giudiziario, nel 1979 sono giunte importanti sentenze che hanno offerto alla stampa un quadro interpretativo nel quale contestualizzare la strage del 2 agosto: per Piazza Fontana sono stati dichiarati colpevoli i neofascisti Franco Freda, Giovanni Ventura e Guido Giannettini, mentre per quella di Brescia sono stati comminati due ergastoli al neofascista Ermanno Buzzi e ad Angelino Papa. Tuttavia, la vicenda politica ne è uscita ridimensionata sino a ridurre la strage quasi ad un fatto di cronaca bresciana. Entrambe le sentenze non saranno definitive, ma certamente al momento della strage bolognese risulta evidente la paternità neofascista delle due bombe. Peraltro, anche per l’ordigno mortale del 4 agosto del ‘74, soltanto due giorni prima della strage alla stazione, sono rinviati a giudizio gli estremisti neri Mario Tuti, Luciano Franci e Piero Malentacchi. Sembra essere la premessa logica per riconoscere la mano neofascista anche in questo dramma nazionale dell’agosto 1980: “Una piazza Fontana 10 anni dopo. Dieci volte più feroce e oscura.” L’indirizzo delle indagini è esplicitato il 5 agosto quando appare ormai chiaro che “Per i giudici l’unica pista valida è quella fascista.” Il giorno successivo, quello del solenne addio alle vittime, sono soltanto otto le bare cui rendere omaggio in San Petronio, eppure il centro di Bologna è invaso da migliaia di persone tanto che Piazza Maggiore non riesce a contenerle tutte. Si levano fischi e applausi al passare degli esponenti politici; qualcuno grida “venduto” al presidente del Consiglio Francesco Cossiga, ma a prevalere è un partecipato e sentito dolore, una forte unità di sentimenti e di desiderio di verità. “L’Italia è solidale con Bologna”, titola “La Stampa”, in linea con il quotidiano comunista per il quale “Questa è l’Italia”, un «popolo forte che non si piega ma vuole giustizia e rinnovamento.» Dal “Corriere” giungono parole di sostegno agli operai, ancora impegnati a ripulire la stazione e animati da «un sentimento di sfida coi fatti, di protesta creativa con l’azione, contro la cieca volontà di distruzione e di morte che agisce nei sadici e necrofili attentatori.» Piazza Maggiore, dunque, come specchio del Paese: una folla immensa, eguale al desiderio di giustizia, un monito contro il disegno stragista che vorrebbe relegare i cittadini nella dimensione privata dominata dalla paura e dalla rassegnazione. Sempre il 6 agosto è la mano della mafia ad uccidere. Questa volta a cadere è il Procuratore capo di Palermo, Gaetano Costa, magistrato impegnato nella lotta alla criminalità organizzata degli appalti e del traffico di stupefacenti. “L’Unità” divide in parti eguali la prima pagina: da un lato l’articolo sulla strage di Bologna, dall’altro quello sull’omicidio mafioso del magistrato. Al centro, fra i due, a suggellarne la prossimità simbolica, un interrogativo rispetto alle ragioni di questo attacco alle Istituzioni e ai cittadini, di «questo intreccio del terrorismo nero delle stragi infami, del terrorismo “rosso” che seleziona e uccide, del terrorismo mafioso.» Sull’interpretazione politica dell’attentato alla stazione interviene il magistrato della Procura Luigi Persico, per rassicurare i cittadini e i parenti delle vittime: «Non indaghiamo su una strage di Stato, ma su una strage contro lo Stato.» Una netta presa di distanza, dunque, da quell’immaginario collettivo che ha accompagnato in modo particolare la bomba di Piazza Fontana, ma che è tornato ciclicamente ad ogni successiva strage del lungo decennio. Il Palazzo è quindi assolto. Almeno dai suoi rappresentanti. Il racconto quotidiano della strage segue il filo nero degli ultimi dieci anni della Repubblica, fra inquietanti linee di continuità che fanno dell’eversione e delle minacce alla democrazia i due capisaldi attorno ai quali costruire l’immagine della nazione e la narrazione di uno Stato sistematicamente attaccato e in pericolo. Qualcuno si interroga sul futuro «di un Paese quotidianamente insanguinato» e irrimediabilmente segnato dai suoi «riti, i discorsi rotondi, la passerella degli Onorevoli, delle Alte Cariche, degli Alti Pennacchi, dei Grandi Pavoni, insieme alle verità spietate, ai fischi per chi governa, alla sfiducia e al disprezzo per lo Stato partitocratico.» La strage sembra aver aperto un pubblico dibattito sul destino della nazione e aver provocato una frattura fra chi, da un lato, auspica un rinnovamento complessivo e radicale sia delle istituzioni sia del modo d’essere cittadini; e chi, dall’altro, vede solo nelle forze sociali la via per la rinascita democratica del Paese. Intanto, il 26 agosto, la Procura di Bologna emette ventotto ordini di cattura per banda armata e associazione sovversiva, tutti indirizzati ad esponenti della destra eversiva: da Ordine Nuovo agli spontaneisti armati dei Nar. È una prima tangibile svolta nelle indagini e tutta l’Italia ne segue gli sviluppi.
3 – L’arresto di Valerio Fioravanti, le strutture occulte e la strage di Natale (1981-1984). Il 1980 si congeda con la macabra conta delle vittime del terrorismo, 114 morti e 235 feriti, nell’«anno della ripresa del terrorismo nero.» Pertini, nel suo messaggio di fine anno, annovera le tragedie che hanno scosso il Paese negli ultimi dodici mesi – dal sisma che ha flagellato Campania e Basilicata al terrorismo «che non dà pace al popolo italiano» – eppure esprime piena fiducia nelle risorse di una nazione che si è dimostrata decisa, coraggiosa e ferma contro il terrore. La rappresentazione pubblica degli italiani è, ancora una volta, quella di un popolo «che intende fare barriera contro il terrorismo per difendere la democrazia e la Repubblica.» Nel nuovo anno, il 5 febbraio, viene arrestato in un covo padovano Giuseppe Valerio Fioravanti, protagonista solo poche ore prima di una sparatoria in cui hanno perso la vita due giovani carabinieri, Enea Codotto e Luigi Maronese. È un arresto importante, che avrà ricadute decisive sull’inchiesta e i suoi esiti, sino alla pronuncia della Corte di Cassazione del 1995. Sulla stampa sembra contestualmente ravvivarsi la teoria degli “opposti estremismi” e il paradigma riempie le pagine dei quotidiani. I due terrorismi sembrano aiutarsi in quelle che vengono descritte dal “Corriere” come le rispettive fasi critiche: nel ’74, contestualmente al declino della strategia delle bombe neofasciste, era emersa l’eversione rossa, mentre nel 1980, quando Patrizio Peci e numerosi “pentiti” contribuivano allo smantellamento di intere colonne, i fascisti organizzavano la strage di Bologna. Tutte le stragi, da Piazza Fontana all’Italicus, da Piazza Loggia alla Stazione di Bologna, sono raccontate come esempi di una giustizia che non riesce ad affermarsi, nonostante l’emergere di importanti acquisizioni dalle lunghe e complesse istruttorie. I processi e le sentenze sulle stragi d’Italia si intrecciano sempre più profondamente fra di loro, evidenziando nodi irrisolti di un diffuso problema di giustizia. Il 2 marzo 1982 i giudici del processo di appello assolvono tutti gli imputati per la strage di Brescia; l’indignazione sale da Piazza della Loggia per abbracciare le vittime di ogni attentato, i familiari di ognuna di esse, i sopravvissuti di ogni strage, crescendo esponenzialmente ogni qualvolta la giustizia viene arrestata e vilipesa. Quando ad agosto 1982 Bologna ospita il convegno “Il terrorismo delle stragi: la risposta dello Stato democratico”, la stampa nazionale ne ripropone i contenuti evidenziando i paradigmi interpretativi imperanti nell’arena del discorso pubblico. La narrazione investe una molteplicità di temi e di rappresentazioni ricorrenti: la lentezza cronica della giustizia italiana; le coperture offerte dal potere politico; la mancata collaborazione fra organi di sicurezza e magistratura; i legami della criminalità con l’eversione nera e quelli di quest’ultima con i Servizi segreti e con la politica. In questo racconto pubblico, dal 1984, entrano sistematicamente in scena gli uomini del servizio segreto militare (il Sismi), inquisiti anche per la strage di Bologna all’indomani degli arresti a carico del generale dei Carabinieri Pietro Musumeci, del colonnello Giuseppe Belmonte e del faccendiere Francesco Pazienza. «Una istituzione dello Stato, quella che ha addirittura il compito di proteggerne la sicurezza […] si rivela essere il centro delle più turpi cospirazioni contro lo Stato e contro i cittadini: ricatta, depreda, viola la legge, destabilizza la Repubblica, forse uccide, forse compie delitti di strage.» Nello stesso anno la relazione Anselmi sulla loggia massonica P2, legata all’oltranzismo atlantico e implicata in progetti eversivi, apre il vaso di Pandora di un sistema politico corrotto e deviato, mentre il giudice Felice Casson indaga sulla Stay Behind italiana, “Gladio”, e procedono le inchieste sugli attentati dei neri ai danni dei treni della Toscana e dell’Italicus. Il 1984 è anche l’anno della criminalità organizzata, della banda della Magliana, delle rivelazioni del boss Tommaso Buscetta e si chiude in tragedia il 23 dicembre: 16 morti e 267 feriti nella strage del treno di Natale, nella Grande galleria dell’Appennino, appena passato Vernio. Sull’attentato pende l’ipotesi di un avvertimento di Cosa Nostra, anche in relazione alla collaborazione di Buscetta con la giustizia. Sfogliando i quotidiani nazionali, il panorama è lo stesso in cui ogni bomba è deflagrata negli ultimi anni. Sembra ormai evidente che nel Paese vige «un partito della strage che non è mai stato fermato, che non ha mai smesso di lavorare [anche se] molte cose si sanno di lui e fin troppe sono le tracce che ha lasciato in 15 anni.»
4 – Gli sviluppi delle inchieste (1984-1985). Le inchieste proseguono. I magistrati di Bologna individuano una struttura occulta e clandestina, definita di “sicurezza”, nata negli anni Sessanta al convegno dell’hotel Parco dei Principi30 e ancora pressoché intatta nelle sue finalità nel 1980, che vede coinvolti Musumeci, Gelli e Pazienza. Sulle pagine del “Corriere” si rintracciano proprio in «questo torbido intreccio31» le motivazioni eterogenee ma convergenti della strage del 2 agosto: quelle del golpismo-stragismo interessato storicamente all’escalation militare in favore di una svolta autoritaria; quelle dei fautori della lotta armata convinti che alla repressione statale provocata dagli attentati avrebbe fatto seguito l’insorgenza degli indecisi e il ricompattarsi degli spontaneisti; fino a quelle di Gelli interessato a lanciare un avvertimento a certi ambienti politici e militari. Il “Superesse”, così nel pubblico dibattito prende nome il servizio segreto parallelo che ha depistato le indagini sulla strage alla stazione, verrà di fatto condannato per deviazioni gravi e reiterate compiute fra il 1980 e il 1981. Il quinto anniversario della strage di Bologna si celebra nello sconcerto della sentenza assolutoria per la strage alla Banca dell’Agricoltura di Milano, ennesimo copione di una mancata giustizia, mentre a fine anno sono ormai evidenti tre livelli distinti di eversione: la P2, i servizi segreti deviati, il terrorismo nero. Le stragi dell’ultimo decennio risultano connesse a livello di narrazione pubblica, in un rimando continuo fra di esse, anche a livello giudiziario. I magistrati che indagano su Brescia, Bologna, sugli attentati ai treni e sulla strage di Natale, si riuniscono per fare il punto delle rispettive inchieste che convergono relativamente a molti nomi e organizzazioni: l’immaginario collettivo si cristallizza sempre più attorno a un unico disegno in cui la strategia terroristica dei neri sposa gli obiettivi ultimi dei poteri occulti e dei servizi segreti deviati. Il giornalista de “L’Espresso” Pietro Calderoni pubblica un contributo sul “Superesse” e sulle deviazioni dei servizi, con riferimenti importanti all’ordinanza di rinvio a giudizio per i neofascisti accusati della strage bolognese e alla lunga mano di Licio Gelli sulla politica, sull’industria e sulle forze armate italiane. La sentenza ordinanza sulla strage è riproposta quasi integralmente anche nel volume curato da Giuseppe de Lutiis il quale ritiene possibile individuare «una strategia in più tempi, che si è esplicitata inizialmente nella protezione dei gruppi destinati a compiere l’attentato prima che esso avvenisse, poi nel depistaggio delle indagini […] infine nel salvataggio dei presunti responsabili». Intanto, per la strage del 2 agosto si apre una nuova fase giudiziaria e giornalistica: l’avvio del primo processo, nel gennaio 1987.
5 – L’eco pubblica delle sentenze. È l’11 luglio 1988: dopo otto anni, duecentocinque udienze, diciotto giorni di camera di Consiglio viene emessa la prima sentenza che sembra aver spezzato “una catena di impunità.” Sono infatti comminati quattro ergastoli: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco sono giudicati esecutori materiali, mentre per calunnia aggravata dalla finalità di eversione sono condannati a dieci anni di carcere Gelli, Pazienza, e gli ex ufficiali del Sismi Musumeci e Belmonte. Gli imputati per associazione eversiva, tra i quali Stefano Delle Chiaie, sono assolti per insufficienza di prove. Lo Stato sembra aver vinto, ma a metà. L’immagine proposta da quasi tutte le testate giornalistiche è quella di una serie di tasselli che trova finalmente ordine, tracciando un disegno complessivo di cui, però, sfuggono ancora alcuni dettagli fondamentali. La sentenza del luglio 1988 rende conto di un legame articolato fra terrorismo neofascista, P2 e servizi segreti, e pare sempre più chiaro che «in ogni processo per strage sono state accertate responsabilità di esponenti dei servizi di sicurezza che, quanto meno, hanno cercato di ostacolare l’accertamento della verità». Peraltro, mancano ancora i mandanti. Dopo il ricorso in Cassazione, il 18 luglio 1990 viene emesso il secondo verdetto. Tutti assolti. Lo stravolgimento della sentenza di primo grado suscita forti polemiche fra l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage e il Movimento Sociale Italiano che invoca l’eliminazione dell’aggettivo “fascista” dalla lapide posta in stazione. Il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga porge le sue scuse all’MSI, all’unisono con il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. L’Italia diviene sempre più, in un certo immaginario diffuso, lo Stato dell’impunità assunta a pratica. Il 19 luglio la prima pagina de “L’Unità” appare quasi completamente bianca. Al centro l’immagine della strage alla stazione e poche righe: «Questa pagina bianca è il rifiuto della possibile retorica. È il segno dell’indignazione e dell’ira. È la testimonianza dello sgomento, ma anche di una battaglia civile che continua più forte.» Avverso al dispositivo viene eccepito ricorso in Cassazione e deciso che il processo d’appello sia integralmente ripetuto. La stampa continua a interrogarsi sulla trasparenza del Governo e sulla lealtà delle Istituzioni e “La Repubblica” di Eugenio Scalfari segue giorno dopo giorno l’evoluzione della vicenda giudiziaria legata al Super Sid e all’operazione Gladio raccontando una classe politica reticente nel rendere conto di un passato in cui «in ogni caso i servizi segreti sono gli ospiti fissi, a volte con il sostegno dell’Intelligence Usa, nelle tragedie senza responsabili che hanno scosso la Repubblica». Mentre il presidente Cossiga lancia l’invito a dimenticare i «fantasmi del passato»40 sollevando le critiche dei familiari delle vittime di strage, nell’anno successivo altri volumi si impegnano a raccontare la storia di Gladio e dei servizi paralleli. Il 12 febbraio 1992 è emessa la terza sentenza per la strage di Bologna: “Processo da rifare”. Dodici ore di camera di consiglio per i nove giudici della suprema Corte, al termine delle quali si annullano le sentenze assolutorie per riprendere in mano l’ipotesi fascista, i collegamenti con la loggia P2 e il coinvolgimento dei Servizi Segreti. Il verdetto è accolto con un misto di assuefazione ai ribaltamenti giudiziari e di sincera speranza, aggiungendo ulteriori dettagli all’immagine di uno Stato complice di terroristi, piduisti e delinquenti comuni. L’ennesima sentenza giunge nel 1994, quattordici anni dopo l’eccidio: è “Neofascista la bomba in stazione.” I giudici della prima corte d’Appello di Bologna confermano l’impianto accusatorio del primo processo e condannano all’ergastolo Fioravanti, Mambro e Picciafuoco. Gelli, Pazienza, Musumeci e Belmonte sono di nuovo giudicati colpevoli di calunnia aggravata da finalità eversive, e i depistaggi dei servizi e della P2 sono quindi confermati. L’interpretazione ultima della strage è così riassunta dal “Corriere”: «Era un patto […] tra i filosofi dell’eversione e la P2. La “rivoluzione” era l’obiettivo dei primi, la “restaurazione” era alla base del “Piano di rinascita democratica” voluto da Gelli: due diversi modi di intendere le bombe». Lo Stato violato, dunque. Il 23 novembre 1995 la suprema Corte rende definitiva la sentenza di condanna del secondo processo d’appello. “Ergastoli confermati”: la notizia è di quelle da titolo d’effetto in prima pagina e lunghi approfondimenti interni. La strage di Bologna, quella che ha colpito il Paese nell’innocenza spensierata della vacanza, non è più senza colpevoli e non sarà l’ennesima strage impunita della storia d’Italia. Nel giorno in cui la bomba di Bologna «come gli attentati di Peteano e del rapido 904, esce dal grande libro dei misteri italiani, fitto delle tante altre stragi ancora in cerca di autore48», il parallelismo con quelle al momento irrisolte (Milano e Brescia su tutte) sorge spontaneo. Nonostante sia fra le prime stragi a trovare una sentenza definitiva, quella di Bologna è foriera di conflittualità legate a innumerevoli implicazioni ideologiche e politiche: la paternità neofascista dell’eccidio disturba oltremodo la destra e riaccende fuochi, mai realmente sopiti, di antifascismo militante a sinistra. Come è stato efficacemente evidenziato, «sul piano simbolico la memoria sociale di questa strage è centrata su alcuni termini fortemente evocativi nell’immaginario collettivo: “terrorismo”, “strage di stato”, “fascismo”.» Le risultanze processuali, la ricostruzione storica e alcune categorie interpretative che vengono chiamate in causa, in cui appunto l’antifascismo riveste un ruolo affatto secondario, si scontrano con l’esigenza forzata di una “memoria pacificata” e condivisa, di una “riabilitazione” delle forze politiche in campo nel lungo decennio dei Settanta, auspicata in particolar modo dall’ala afferente alla destra italiana. «È una disputa che non cela di voler creare una memoria condivisa e artificiosa che è piuttosto “comunione nella dimenticanza”, “smemoratezza patteggiata.”» A differenza delle sentenze occorse per la bomba di Milano, di Brescia e per tutte le altre che hanno insanguinato il periodo, quella bolognese è di fatto l’unica che anima una campagna innocentista di vasta eco fra i mass media. Appelli sottoscritti da intellettuali e politici, lettere dei principali condannati, pubbliche prese di posizione sulle pagine dei maggiori quotidiani, sostengono caparbiamente l’interrogativo “E se fossero innocenti?”. Nonostante non abbiano trovato sufficienti riscontri giudiziari, le piste alternative a quella neofascista hanno affascinato non pochi italiani, illustri magistrati e importanti intellettuali, convinti dell’innocenza della coppia del neofascismo italiano51. Fra le tesi sostenute quella palestinese è stata di certo la più fortunata: la strage sarebbe stata una ritorsione dovuta al tradimento del cosiddetto Lodo Moro da parte del governo italiano. Peraltro, è in relazione alle false prove a sostegno delle piste internazionali che vengono condannati per depistaggio Musumeci, Belmonte, Pazienza e Gelli, rei di aver costruito e diffuso informative nelle quali elementi di verità affiancati a false notizie avevano lo scopo di rendere inintelligibile il quadro generale e sviare le indagini dalla pista della destra eversiva a quella internazionale. Ciclicamente riproposta, l’ipotesi è sempre stata respinta anche in sede giudiziaria e resta la condanna per i neofascisti Mambro e Fioravanti, cui si somma nel 2007 quella definitiva per Luigi Ciavardini, minorenne all’epoca della strage, anch’egli giudicato esecutore materiale55. Nel 2018, un ulteriore processo chiede l’ergastolo per l’ex Nar Gilberto Cavallini, accusato di aver fornito supporto logistico al gruppo terroristico. La condanna di primo grado arriva il 9 gennaio 2020, a quasi quarant’anni dalla strage d’agosto. Resta aperta, ancora oggi, la questione dei mandanti , rispetto alla quale si muove un’inchiesta della Procura Generale di Bologna, segno della volontà di andare oltre le responsabilità individuali degli esecutori e di individuare finalmente con chiarezza chi ha operato ai più alti livelli della stagione stragista italiana.
6 – Oltre le sentenze: la memoria, la giustizia. Andare avanti. E soprattutto andare oltre. Sono gli imperativi dei sopravvissuti, delle vittime, di chi ha perso qualcuno. Nella peculiarità del dolore e delle sue personalissime rielaborazioni, affiorano elementi comuni nel tentativo di affrontare il lutto e ricercarne un senso. «Si scrive per non dimenticare, per non dimenticarsi e per non far dimenticare.» Le memorie di chi ha subito la violenza stragista, rare nell’immediatezza dei fatti, divengono più prolifiche nella seconda metà degli anni Duemila e nonostante siano già trascorsi decenni, «insieme al bisogno di giustizia, emerge nettamente il bisogno di verità.» Nell’elaborazione scritta del dolore si tenta inoltre di riparare a quelle asimmetrie del ricordo insite nell’opposizione tra privato e pubblico59; uno iato che sembra essere particolarmente vivo nella Memoria collettiva. Emerge poi un’ulteriore lacerazione, fra la dimensione locale e quella statale. Nelle interviste ai familiari delle vittime del 2 agosto, affiora spesso un’antinomia ricorrente del profilo culturale della nazione: il Comune vicino, lo Stato lontano. Le città e la società civile in prima linea, l’Istituzione per eccellenza distante e opaca. A Bologna, Lia Serravalli ha perso Patrizia e Sonia, le sue figlie, e Silvana, la sorella incinta. Il dolore e l’impossibilità di trovare risposte al perché più profondo di quella violenza hanno spinto suo padre a porre fine alla propria esistenza gettandosi nel vuoto: «non riusciva a farsi una ragione del fatto che non si trovasse un colpevole […] La bomba mi ha tolto le mie figlie. Lo Stato mi ha tolto mio padre» e – aggiunge – la rabbia è diretta anche a chi «ha deriso la memoria delle mie figlie lasciando impuniti i colpevoli, quelli che ordinarono la strage. Quelli non li hanno mai presi. E sono colpevoli quanto gli esecutori materiali. Colpevoli più di loro.» Vittorio Bosio è fratello di Annamaria, morta assieme al marito Carlo e al loro bambino, Luca, che di anni ne aveva appena sei. Vittorio non ha scelto l’attivismo nelle associazioni di memoria e si interroga sul senso dei ricordi a scadenza programmata, sul modo “ufficiale” e “formale” di ricordare. Dello Stato, nell’immediatezza della strage, riusciva solo a pensare: «Tu istituzione non sei stata in grado di difendere la vita umana, di intervenire prima per fermare la mano degli assassini, e ora entri pesantemente in una questione che io considero privata.». Negli ultimi anni sono i figli e i nipoti delle vittime a vivere una dimensione più sociale del dolore dando vita, sull’onda di un’eredità generazionale, a una sorta di staffetta della memoria. L’obiettivo è non dimenticare, certo, ma spesso va oltre il semplice mantenere in vita: si tratta di costruire immagini, reinventare o propriamente inventare volti mai visti prima, raccogliendo indizi dai racconti altrui, edificando ricordi a partire dagli album di famiglia, dai ritagli di giornale. In queste generazioni impegnate nella “post memoria” la ricerca della verità diviene una forma di giustizia, seppure differente dalla verità giudiziaria, nella consapevolezza che nelle aule di tribunale potrebbe essere impossibile – e talvolta lo è stato – attestare secondo i canoni del diritto e della legge una verità invece ricostruita e riconosciuta in ambito storico e documentale. Pensare e affrontare lo stragismo in una dimensione pubblica della Storia significa quindi dare spazio e forma a un’interazione dialettica in cui le Politiche di Memoria siano efficacemente affiancate e chiaramente sostenute da quelle altrettanto preziose e necessarie del dibattito scientifico, della ricerca documentale e della conoscenza storica. Alla memoria istituzionalizzata, alla dimensione sociale del dolore e all’informazione emotiva, è fondamentale affiancare una comprensione ragionata degli eventi, per evitare che la narrazione pubblica costruita e centrata sulla sola condizione di Vittima e sull’innegabile dolore del Trauma, privi quest’ultimo del contesto e dello spazio entro il quale è stato inflitto, rendendolo meno intellegibile e, di conseguenza, impedendone la piena rielaborazione e il necessario superamento.
· Il Depistaggio Istituzionale.
Il Depistaggio Istituzionale. Università degli Studi di Padova Facoltà di Scienze Politiche La strage di Bologna - 2 agosto 1980 di Marco Dal Pont Relatore Alba Lazzaretto Anno Accademico 2007-2008.
CAPITOLO 1 IL DEPISTAGGIO DEL SISMI. In Italia, tra il 12 dicembre 1969, giorno della strage di Piazza Fontana e il 2 agosto 1980, si sono avuti numerosi attentati terroristici, molti sono falliti, sei invece quelli riusciti per i quali sono stati arrestati, in riferimento alla strage di Peteano del 31 maggio 1972 e di Piazzale della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974 esponenti di Ordine Nuovo, mentre sono solo ancora indagati altri militanti di destra in relazione alle altre stragi di Piazza Fontana, di Gioia Tauro del 22 luglio 1970, del treno Italicus del 4 agosto 1974 e di Ustica il 27 giugno. Il terrorismo rosso delle Brigate Rosse, di Lotta Continua o di Potere Operaio era presente da vari anni e in varie forme ma aveva fatto un uso molto limitato di esplosivi. A prima vista quindi l'esplosione di Bologna sembra un nuovo colpo da attribuire al mondo eversivo, "La bomba a Bologna l'ha messa per forza la destra!", questa è l'opinione che subito si diffonde tra la popolazione bolognese e italiana. Non era un pregiudizio contro la destra, era la storia dei più recenti attacchi terroristici che imponeva questo pensiero nella mentalità della gente. Così si esprime Valerio Fioravanti: «Nell'80 quando dell'estremismo di destra si sapeva pochissimo, era del tutto comprensibile pensare che anche per la strage a Bologna fossero colpevoli i fascisti. Il problema è aver voluto mantenere quella certezza anche dopo, quando invece c'erano tutti gli elementi per interpretare il quadro». Subito si attivano anche i servizi segreti che ipotizzano interventi di organizzazioni neofasciste francesi e tedesche con mire internazionaliste ma ben presto le trame studiate dal SISMI portano l'attenzione dei magistrati verso i NAR, gruppo rivoluzionario extraparlamentare di destra che fino a quel momento era stato l'unico a non essere preso di mira dagli arresti. La manovra depistante del servizio segreto è minuziosa e precisa, composta di tanti piccoli particolari, a prima vista di poco valore, che però fanno breccia nei magistrati bolognesi incaricati di seguire le indagini. L'inizio del depistaggio è un intervista rilasciata da Abu Ayad alla giornalista Rita Porena sulle pagine del Corriere del Ticino il 19 settembre. Abu Ayad è un alto dirigente palestinese, numero due di Al Fatah, capo dell'intelligence e dei servizi segreti dell'OLP, responsabile dell'organizzazione per la difesa dell'apparato militare palestinese. Rita Porena è invece una giornalista romana collaboratrice di Paese Sera, del Corriere del Ticino e di Avvenimenti, esperta di questioni mediorientali, risulta aver collaborato con il SISMI dal 1977 al 1982 e in particolare con il colonnello Stefano Giovannone, capo del centro SISMI a Beirut. La Porena è inoltre introdotta nei più alti vertici del FPLP, sospettata di aver partecipato a corsi di guerriglia in Libano, di aver eseguito per la medesima organizzazione funzione di corriere per trasporto di armi in diversi paesi europei e di aver collaborato con il gruppo terroristico di Carlos in occasione degli attentati di Rue Toullier a Parigi il 27 giugno 1975 e del deposito di carburanti Siot di Trieste il 4 agosto 1972. Il 19 settembre, giorno della pubblicazione dell'intervista, prende ufficialmente corpo la pista libanese collegata a quella del neo fascismo internazionale e italiano. Ayad racconta alla Porena dell'esistenza di campi di addestramento per stranieri nei pressi di Aqura, in Libano, controllati dalle destre maronite. Dal contatto con due tedeschi presenti al campo aveva appreso che vi erano circa 35 persone e che si discuteva di un progetto per la Commissione parlamentare d'inchiesta sul dossier Mitrokhin e l'attività d'intelligence italiana, fascicolo O intestato a Salah Khalaf (alias Abu Ayad), presso doc Commissione parlamentare d'inchiesta sul dossier Mitrokhin e l'attività d'intelligence italiana, fascicolo Z intestato a R.Porena presso Ufficio Stralcio Commissione Stragi, doc. 254 e fascicolo Z intestato a R.Porena presso archivio Commissione Mitrokhin, doc Commissione parlamentare d'inchiesta sul dossier Mitrokhin e l'attività d'intelligence italiana, doc e doc. 226; proc. pen. 204/83 del giudice istruttore di Venezia Mastelloni.
Strage Bologna: depistaggi istituzionali. Claudio Meloni il 9 luglio 2020. L’ edizione della rivista di area socialista Critica Sociale pubblica nell’ottobre del 1980 la prima parte di un’inchiesta dal titolo “Il Grande Labirinto” a firma Andrea Pamparana e Umberto Giovine. Nel lavoro vengono messi assieme elementi veri con elementi falsi, frutto dell’attività di depistaggio da parte di due soggetti utilizzati come fonti dai giornalisti, ma che poi si scoprirà in seguito essere contigui alla loggia P2 di Licio Gelli. Si trattava del colonnello del SISMI Federico Mannucci Benincasa, per lungo tempo Capo Centro a Firenze, e dell’avvocato Federico Federici amico di Gelli e iscritto al Comitato massonico di Montecarlo. Gli elementi veri confermati dall’inchiesta condotta dai sostituti procuratori Luigi Persico, Claudio Nunziata, Riccardo Rossi e Luigi Dardani, riguardavano il ruolo dei terroristi neri, ed in particolare quello di Aldo Semerari e Claudio Mutti quali sponsor della loggia P2 nel mondo arabo, ed in particolare verso Libia e Iran. Il cambio di regime avvenuto in entrambe i paesi e le politiche nazionalistiche condotte dai loro governi furono in parte frustrati dal boicottaggio commerciale e petrolifero ai quali questi furono sottoposti da parte dei paesi occidentali, in primis gli Stati Uniti. Si poneva dunque per tali paesi l’esigenza di approvvigionare generi di prima necessità, ma anche armamenti, attraverso canali illegali. Tra questi, quelli intessuti con l’Italia attraverso il lavoro diplomatico e commerciale svolto da Gelli e da alcuni degli esponenti iscritti alla P2. Il tipo di accordo negoziato da Gelli e da Semerari con la Libia, come vedremo oltre che delle relazioni commerciali con la Libia Semerari si sarebbe dovuto occupare anche della raccolta delle iscrizioni ai campi di addestramento libici da parte dei terroristi neri, aveva come basi lo scambio di soldi e droga in cambio di informazioni sensibili sulla sicurezza italiana. Come ad esempio quelle sulla CAMEN di Pisa, il Centro per le Applicazioni Militari dell’Energia Nucleare presso il quale era impiegato come disegnatore Ezio Giunchiglia, anche lui iscritto alla P2. Come riporta l’inchiesta di Pamparana e Giovine, a quell’epoca la CAMEN stava svolgendo due ricerche molto delicate, una appaltata dalla FIAT su nuovi metalli e nuove leghe, e l’altra dall’ENI, con quest’ultima coperta dal segreto NATO. Sul versante dei finanziatori della strage l’inchiesta annota come la Guardia di Finanza di Bologna (Nucleo Polizia Tributaria), dietro l’indicazione fornita da un’informativa della Digos di Roma, riferisce di una fonte confidenziale che avrebbe raccontato come il Semerari avesse ricevuto da un’industriale toscano (forse Gelli, che a quell’epoca era titolare dell’azienda di confezioni maschili Giole) 700 milioni di lire (altri 70 erano stati girati a uno dei fondatori di Avanguardia Nazionalie Adriano Tilgher). A queste coordinate se ne aggiungevano poi delle altre. In un’ informativa del Nucleo operativo dei carabinieri di Bologna diretta al consigliere istruttore dott. Aldo Gentile si evidenzia come in un articolo a firma del giornalista Giorgio Santilli, pubblicato sulla rivista economica il Mondo, veniva indicato come le prove dei finanziatori della strage di Bologna si sarebbero potute trovare indagando su di un conto presso la Banca Commerciale e su di un altro presso la banca libica UBUE. Dunque le tracce del coinvolgimento della P2 in quella strage vi erano. Oltre ad individuare queste precise piste investigative l’inchiesta giornalistica rivolgeva pesanti accuse nei confronti di due dei principali magistrati incaricati dell’ iniziale fase delle indagini, accuse che si riveleranno totalmente infondate. Umberto Giovine e Andrea Pamparana nel loro lavoro sostenevano come il sostituto procuratore dott. Persico fosse stipendiato dal SISMI e di come altresì il procuratore della Repubblica di Bologna suo superiore, dott. Guido Marino, fosse iscritto alla loggia P2. Oltre a querelare per diffamazione i due giornalisti, il sostituto Persico scriverà al dott. Domenico Sica, incaricato all’epoca delle indagini sulle deviazioni del SISMI, di come da alcuni accertamenti fosse emerso che la fonte di tali calunnie fosse l’allora capo centro del SISMI di Firenze Federico Mannucci Benincasa. E con queste due precise accuse che l’azione di depistaggio portata avanti dal colonnello Mannucci Benincasa capocentro del SISMI di Firenze, azione che mette assieme elementi reali con elementi inventati tali da screditare tutto il lavoro di indagine svolto dai magistrati, indirizza la sua azione. Nella missiva inviata al dott. Sica il sostituto sottolineava come l’allora capo centro del servizio militare del capoluogo toscano avesse messo a punto le sue strategie tese ad inquinare la fase di raccolta e verifica delle prove, attraverso la ripetuta riproposizione della pista internazionale franco-tedesca. Mediante quest’ultima si intendeva accreditare una verità preconfezionata che vedeva quali ideatori ed esecutori di quella strage i francesi dell’organizzazione neonazista Fane (Federazione per l’Azione Nazionale Europea), della quale Marco Affatigato era membro, coadiuvati dai tedeschi dell’organizzazione Hoffmann.
Affatigato era in quel periodo ricercato dalla giustizia italiana per una condanna a tre anni e sei mesi per favoreggiamento nei confronti di Mario Tuti. Quest’ultimo era il capo della cellula neofascista toscana identificata dalla sigla Fronte Nazionale Rivoluzionario, responsabile di una serie di attentati sui treni, tra cui quello all’Italicus. Del resto in occasione della strage del DC9 Itavia in volo tra Bologna e Palermo, precipitato il 27 giugno 1980 tra le isole di Ustica e Ponza, il 28 giugno alla redazione romana del Corriere della Sera giungeva una rivendicazione a nome Nuclei Armati Rivoluzionari. La voce anonima riferiva che l’aereo era precipitato per via dell’esplosione causata da un loro membro dell’organizzazione, Marco Affatigato. Questi, secondo l’anonimo telefonista, aveva portato a bordo dell’aereo un certo quantitativo di esplosivo che sarebbe poi esploso involontariamente.
Giornalisti usati inconsapevolmente dal SISMI. Come emergerà dalle dichiarazioni rese da Pamparana nel corso dell’udienza del processo per diffamazione, del 4 luglio 1983, i due autori dell’inchiesta avevano avuto quali fonti principali per il loro lavoro un funzionario del SISMI di nome Manfredi, che altri non era che il Mannucci Benincasa il quale si era loro presentato sotto questa falsa identità, oltre ad una seconda fonte denominata Nostradamus, che era in realtà l’avvocato fiorentino Federico Federici. Mannucci Benincasa proveniva dal SID, il Servizio Informazione Difesa, istituito nel 1966 e sciolto nel 1977 a seguito della riforma introdotta dalla legge n.801 del 1977, con la quale sono stati istituiti il SISMI (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare) e il SISDE (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica). Nel giugno del 1971 l’allora capo centro di Firenze colonnello Antonio Viezzer veniva promosso a segretario del SID, ed al suo posto veniva nominato il Mannucci Benincasa. In seguito Viezzer verrà accusato di essere iscritto alla P2 e di avere passato a Licio Gelli tutti i dossier segreti provenienti dal SIFAR, che avrebbe invece dovuto distruggere. Come vedremo tale avvicendamento sarebbe stato promosso dallo stesso Gelli, e ciò lo si può desumere da un intervista da questi rilasciata al giornalista dell’ANSA Marcello Coppetti, nella quale il Venerabile valutava positivamente il lavoro svolto dal capo centro SISMI nel capoluogo toscano.
Ovunque P2. In ben due audizioni davanti alla Commissione parlamentare sulla P2 il giornalista Coppetti ed il maggiore Umberto Nobili del SIOS Aeronautica sosterranno come fosse stato lo stesso Gelli ad ottenere il trasferimento del Nobili dal SIOS dell’Aeronautica di Firenze al SIOS dello Stato Maggiore di Roma, nel gennaio del 1980. Nobili era iscritto alla loggia Ombrone di Grosseto, e Mannucci Benincasa condivise con lui numerosi segreti relativi al SISMI, tra i quali anche quelli relativi alla strage di Ustica. Nel corso del processo in corte d’assise verrà ascoltato il capitano dei carabinieri Paolo Pandolfi, comandante del nucleo operativo di Bologna, incaricato di svolgere una serie di accertamenti in ordine alla strage alla stazione. Quando Pandolfi comincerà ad indagare su Semerari entrerà in possesso di una sua agenda, nella quale era annotato un appuntamento con Licio Gelli presso la sua villa di Arezzo. Pandolfi chiederà consiglio al capo centro del sismi di Firenze, il colonnello “Manfredi”, che aveva conosciuto nel 1978 quando questi gli chiese di seguire per un’indagine un allievo della scuola paracadutisti di Pisa ((SMIPAR). Dunque Gelli sapeva in anticipo della direzione presa dalle indagini nei confronti dei “bombaroli neri” e dei loro vertici. Quando infatti Pandolfi chiederà a Manfredi le modalità per poter controllare la villa di Gelli, che si trova in una località isolata raggiungibile attraverso un’unica strada e dunque assai difficile da controllare, Pandolfi non potrà che prendere atto di come Gelli fosse partito già da diversi giorni per l’Argentina, da dove gestiva un fiorente commercio di carni con l’Italia.
Dalla strage ai primi depistaggi. Il 3 agosto 1980 il quotidiano La Repubblica titola: “I NAR rivendicano: Nostra la strage”. La prima ammissione di responsabilità giunge infatti proprio al quotidiano romano. Sono le 13.30, a tre ore dal fatto, quando una voce maschile comunica al centralino del giornale: “Qui NAR, rivendichiamo noi l’attentato alla stazione di Bologna. Onore al camerata Tuti”. Due giorni prima dell’esplosione il giudice istruttore incaricato delle indagini sulla strage del treno Italicus, dott. Angelo Vella, aveva depositato l’ordinanza con cui rinviava a giudizio gli appartenenti al gruppo neofascista toscano denominato Fronte Nazionale Rivoluzionario, fondato dal geometra di Empoli Mario Tuti, già condannato all’ergastolo per l’uccisione di due agenti di polizia ed il ferimento di un terzo. Il gruppo era composto anche da Luciano Franci, ex carrellista alla stazione di Firenze, condannato a 17 anni per l’attentato alla linea ferroviaria di Terontola del gennaio 1975, da Pietro Malentacchi, e da Margherita Luddi, quest’ultima accusata di associazione sovversiva oltre che di porto e detenzione di materiale esplosivo. Secondo la ricostruzione dei giudici, Tuti avrebbe organizzato la strage e confezionato l’ordigno che il 4 agosto 1974 fece esplodere il treno in località San Benedetto Val di Sambro, causando 12 morti e 48 feriti. L’ ordigno sarebbe stato posto a bordo del mezzo dal Malentacchi, giunto alla stazione accompagnato dalla Luddi, mentre il Franci faceva da palo. Diversamente dal Malentacchi e dal Franci, al Tuti non venne contestato il reato di strage politica, in quanto ciò avrebbe rappresentato un ostacolo alla sua estradizione. Infatti la Francia, paese nel quale Tuti era stato arrestato a seguito di una fuga rocambolesca attraverso la Corsica, così come altri stati europei non concede l’estradizione per rati politici. Pochi minuti dopo la telefonata al centralino di Repubblica il quotidiano di Genova Il Secolo XIX riceve anche lui una chiamata anonima che rivendica l’attentato di Bologna a nome delle Brigate Rosse. E ancora. Al centralino dell’Agenzia Italia di Torino, nel primo pomeriggio, giunge la seconda rivendicazione dei NAR: “Qui NAR, rivendichiamo la paternità dell’attentato di Bologna”. Alle 18.30 a Radio Popolare di Milano viene mandata in diretta una telefonata. Il telefonista, a nome della colonna delle BR Walter Alasia, “smentiva ufficialmente” la responsabilità per l’ordigno alla stazione di Bologna. Più tardi, alle 20:15, al centralino della sede torinese dell’Agenzia Italia giunge una terza rivendicazione sempre a nome del gruppo neofascista, che però in questo caso smentisce la paternità dell’attentato: “Abbiamo detto che non siamo noi che abbiamo fatto l’attentato”. Lunedì 4 agosto, la Repubblica titola a lettere cubitali: “Un massacro”. Sottotitolo: “C’è la prova: è stata una bomba”. Dalle prime ipotesi di uno scoppio delle caldaie e poi di una fuga di gas dal ristorante adiacente alla sala d’ aspetto, finalmente si è giunti ad un punto fermo. La certezza è che a causare quella immane carneficina non era stata la sfortuna o l’imperizia umana, ma una precisa volontà criminale. Sgombrate le macerie delle due sale d’aspetto, di prima e seconda classe, e del ristorante i pompieri avevano trovato il cratere provocato dall’esplosione. Largo 120 centimetri e profondo 30, l’avvallamento degradava sulla superficie del pavimento, fino a diventare un profondo foro. Sulla porzione di muro portante rimasta ancora in piedi i segni di una fiammata. In terra gli artificieri trovano anche i frammenti di una valigia nera in plastica, dove la bomba era probabilmente contenuta. In effetti già alcuni testimoni avevano accennato ad una fiammata e ad una successiva vampata di fumo a forma di fungo propagatasi contestualmente alla deflagrazione. I tecnici poi avevano avuto conferme ulteriori dalla presenza di cadaveri privi di indumenti, segno evidente di una forte fiammata attorno alla zona in cui l’ordigno era esploso. Martedì 5 agosto la prima pagina di Repubblica tuona: “Torna il terrore nero”, sottotitolo: “Per i giudici l’unica pista valida è quella fascista”. Nell’articolo a firma dell’inviato Marco Marozzi si da conto delle decine di feriti, alcuni anche molto gravi, che giacciono in condizioni disperate negli ospedali del capoluogo emiliano. Gli inquirenti hanno ordinato una serie di perquisizioni a tappeto nelle case di tutti gli aderenti e simpatizzanti della galassia di movimenti giovanili di estrema destra, a Bologna così come a Firenze, Roma, Napoli, Venezia, Bari, Torino, Milano, Reggio Calabria e Palermo. I NAR hanno rivendicato l’attentato contattando anche la redazione del quotidiano torinese La Stampa: “Siamo stati noi”, avvisando anche che: “I prossimi obiettivi saranno le stazioni di Milano e Firenze”.
Legami e parallelismi con l’Italicus. Dunque i magistrati bolognesi incaricati delle indagini hanno ben chiara la matrice ideologica alla quale attribuire la responsabilità di quella mattanza. Nella conferenza stampa indetta nei locali della questura, il sostituto procuratore Luigi Persico sottolinea la presenza di analogie e di collegamenti “che sarebbe deplorevole trascurare”. Il punto di riferimento per i magistrati che indagano è l’attentato all’Italicus. E le analogie con questo sono impressionanti. Hanno a che fare con una tragica catena di eventi che gli inquirenti ripercorrono come un triste rosario di morti. Infatti, qualche giorno prima dell’Italicus, il capoluogo lombardo era stato funestato da un tremendo attentato. Sei anni prima la serie impressionante di ordigni era cominciata con quello alla Questura di Milano del 17 maggio 1973, che causò 4 morti e 52 feriti. Poi era stata la volta di Brescia, con la bomba piazzata nel cestino dei rifiuti durante il comizio sindacale a Piazza della Loggia: otto morti e centodue feriti. E infine l’Italicus, solo per un caso esploso sull’Appennino, a causa di un ritardo sull’orario di viaggio. Se il treno fosse stato in orario sarebbe esploso dentro la stazione di Bologna. Di nuovo quella strategia inaugurata il 12 dicembre 1969 con la strage di piazza Fontana, strategia costellata da una serie di attentati minori avvenuti in gran parte sulla tratta ferroviaria Roma-Firenze, ascrivibili al gruppo guidato da geometra ideologo empolese Mario Tuti.
E poi c’è quella coincidenza nelle date. Il 31 luglio si era conclusa l’istruttoria Italicus, dove il principale imputato rinviato a giudizio era proprio Tuti, accompagnato dai neofascisti, Luciano Franci e Pietro Malentacchi. Ancora il 5 agosto Repubblica riporta un articolo del Daily Mirror, quotidiano laburista inglese, che attribuisce al colonnello Gheddafi la responsabilità di addestrare i terroristi italiani. “L’esperto di bombe (responsabile dell’attentato di Bologna) può provenire solo da un addestramento specializzato” scrive il corrispondente del giornale da Roma. Secondo le sue fonti il quotidiano sostiene come sia i gruppi terroristici di ispirazione nazista che quelli di matrice marxista-leninista sarebbero addestrati “da esperti del colonnello Gheddafi”. Il giornale cita le testimonianze dirette di alcuni esuli libici, secondo i quali l’obbiettivo del ras sarebbe quello di destabilizzare tutta l’area mediterranea. Lo stesso giorno in un articolo dal titolo “Molte analogie con l’Italicus” del quotidiano romano Il Messaggero Ugo Cubeddu scrive: “C’è tuttavia una serie di elementi nuovi per quanto riguarda il metodo delle indagini. Per la prima volta, infatti, si è costituito un collegio di magistrati (anche se tecnicamente il titolare dell’inchiesta è il dott. Renato Rossi), in stretto rapporto con le altre strutture dello Stato, Cossiga (Presidente del Consiglio), Pertini (Presidente della Repubblica), Rognoni (Ministro dell’Interno) e soprattutto con una garanzia, che tutti i mezzi saranno messi a disposizione di questo collegio. Significa- o almeno dovrebbe significare – che anche i servizi segreti faranno affluire notizie ai magistrati, specie per quanto riguarda l’ipotesi di collegamenti internazionali del terrorismo. Sarebbe un grosso passo in avanti verso quella logica collaborazione che dovrebbe esserci in fatti così gravi e che invece finora è clamorosamente fallita”.
Mannucci Benincasa e la cellula neofascista di Tuti. Nell’ambito della sentenza di rinvio a giudizio relativa agli attentati sui treni avvenuti in Toscana, il giudice Rosario Minna scrive: “E con nomi e cognomi proprio un ufficiale dei servizi ha affermato di avere incontrato Augusto Cauchi (ordinovista coinvolto nella strage di Piazza della Loggia e risultato essere agente CIA), nella primavera del 1974, non meno di due volte. E di avere avuto inoltre un colloquio telefonico da Milano a fine 1975 con lo stesso, telefonata allora comunicata alla magistratura di Arezzo”. L’ufficiale dei servizi in questione era Mannucci Benincasa. Da notare come il Cauchi citato fosse in quel periodo latitante, con sul capo una condanna pendente in primo grado ad una pena di sedici anni, anche se in seguito verrà assolto in secondo grado giudizio. Mannucci Benincasa era il sostenitore della tesi dell’attentato terroristico in relazione alla strage di Ustica, anche dopo che si seppe che Marco Affatigato non era mai salito su quell’aereo, e che le rivendicazioni rilasciate a nome dei NAR erano false. Mannucci sosteneva che quell’attentato era stato compiuto all’indirizzo di un magistrato che stava indagando sui terroristi di Prima Linea, in merito ad un supposto traffico di armi con la Libia. Il magistrato in questione, in quel fatidico 27 giugno 1980, avrebbe prenotato un posto sul DC9 Itavia, diretto da Bologna a Palermo, per interrogare alcuni presunti testimoni di quel traffico. Anche questa circostanza, citata nell’articolo di Giovine e Pamparana apparso su Critica Sociale, risulterà completamente falsa: un depistaggio messo in scena ancora una volta dal capo centro del SISMI di Firenze.
· Quale verità?
Strage di Bologna, Casellati: basta veli sulla verità. Meloni: via il segreto di Stato. Redazione del Secolo D'Italia domenica 2 agosto 2020. In occasione del quarantesimo anniversario della Strage di Bologna il presidente Sergio Mattarella, a distanza di pochi giorni dalla sua visita a Bologna nel luogo dell’attentato, ha riaffermato “il dovere della memoria, l’esigenza di piena verità e giustizia e la necessità di una instancabile opera di difesa dei principi di libertà e democrazia”. La giornata commemorativa ha visto anche, nuovamente, invocare quel desiderio di verità che le sentenze fin qui conseguite non hanno raggiunto o hanno addirittura distorto. “E’ inaccettabile che ancora ci siano dei veli” per questo bisogna “fare un lavoro per capire finalmente chi e perché una volta per tutte. Senza veli”, ha detto la presidente del Senato Elisabetta Casellati parlando con alcuni familiari delle vittime dell’attentato. “Già lo sappiamo”, è stata la replica di un familiare delle vittime della strage. La stessa di chi si accontenta delle verità di comodo, come fa Il Fatto che affida a un articolo di Gianni Barbacetto la sua indignazione per le tesi di chi contesta il teorema “nero” sollecitando indagini sulla pista palestinese. Ebbene chi cerca la verità per Il Fatto è assimilabile ai “terrapiattisti”. Sostenere che tutto è chiaro e tutto è noto significa ignorare i molti colpi che la tesi ufficiale (Nar esecutori, Gelli mandante) ha ricevuto in questi anni: il lodo Moro, la presenza di Carlos a Bologna nei giorni della strage, i misteri legati al corpo mai trovato di Maria Fresu (una delle vittime). Ha detto opportunamente la presidente del Senato Elisabetta Casellati nel corso del suo intervento sul palco alla cerimonia di commemorazione: “Non succeda che chiunque azzardi interrogativi o verifichi ipotesi possa essere tacciato di depistaggio”. E ha chiesto di porre fine ai segreti di Stato sulla strage. Una richiesta avanzata anche da Giorgia Meloni: “Oggi – ha scritto su Fb – sono 40 anni dalla terribile strage di Bologna del 2 agosto 1980. 40 anni senza Giustizia. In un giorno così significativo rivolgo un appello al Presidente Conte: desecreti gli atti relativi a quel tragico periodo storico. Lo dobbiamo alla verità e alle famiglie delle vittime”. Appello ripetuto da Francesco Lollobrigida: “A distanza di 40 anni la Strage di Bologna rimane una delle pagine più dolorose dell’Italia. Il ricordo di tante vittime innocenti è doveroso, così come lo è la ricerca della verità. Conte ascolti l’appello di Giorgia Meloni e desecreti gli atti relativi a quel drammatico periodo”.
Strage di Bologna: la verità in documenti ancora segreti? Redazione de Il Giornale Off il 18/06/2020. Bologna, stazione Centrale, 2 agosto 1980. Le macerie dell'ala Ovest del fabbricato viaggiatori della stazione, dopo essere stata squarciata dall'attentato dinamitardo a sfondo terroristico che, alle ore 10:25, provocò 85 morti e 200 feriti: si trattò del più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra, uno degli ultimi nell'ambito della cosiddetta strategia della tensione. Fonte Bologna, 2 agosto 1980, Autore AP Photo. Fotografia scattata in Italia-nel pubblico-dominio copyright scaduto. Il 27 giugno saranno 40 anni dalla Strage di Ustica. E il 2 agosto dalla strage alla stazione di Bologna. Segnaliamo una clamorosa novità sulla strage di Ustica: la ricostruzione, grazie al reportage del giornalista Pino Finocchiaro, dell’audio dalla cabina del DC9 Itavia in cui il copilota Enzo Fontana dice: “Guarda, cos’è quello?”. Le ultime parole pronunciate dal copilota avvalorerebbero l’evento esterno alla base del disastro aereo così come sancito dalla Cassazione in sede civile. La voce strozzata del pilota conferma che in cabina di pilotaggio videro arrivare qualcosa: un missile o un velivolo da guerra così come ipotizzato dal giudice istruttore Rosario Priore e dai magistrati di rito civile in tutti i gradi di giudizio. Seconda novità: strage di Bologna. Carlo Giovanardi: “Ci sono carte che avrebbero potuto riscrivere la storia”. Partecipando ai lavori della Commissione Moro, il senatore dichiara di aver trovato carte che avrebbero potuto ricostruire la storia delle due stragi. Il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti presieduto da Raffaele Volpi auspica che i documenti custoditi negli archivi delle agenzie di sicurezza sul sequestro Moro, sulla strage di Bologna e quella di Ustica siano desecretate e messe a disposizione dell’autorità giudiziaria.
Ustica e Bologna: la verità in documenti ancora segreti? Emanuele Beluffi il 26 Giugno 2020 su Il Giornale Off. Il 27 giugno saranno 40 anni dalla Strage di Ustica. E il 2 agosto dalla strage alla stazione di Bologna. Segnaliamo una clamorosa novità sulla strage di Ustica: la ricostruzione, grazie al reportage del giornalista Pino Finocchiaro, dell’audio dalla cabina del DC9 Itavia in cui il copilota Enzo Fontana dice: “Guarda, cos’è quello?”. Le ultime parole pronunciate dal copilota avvalorerebbero l’evento esterno alla base del disastro aereo così come sancito dalla Cassazione in sede civile. La voce strozzata del pilota conferma che in cabina di pilotaggio videro arrivare qualcosa: un missile o un velivolo da guerra così come ipotizzato dal giudice istruttore Rosario Priore e dai magistrati di rito civile in tutti i gradi di giudizio. Seconda novità: strage di Bologna. Carlo Giovanardi: “Ci sono carte che avrebbero potuto riscrivere la storia”. Partecipando ai lavori della Commissione Moro, il senatore dichiara di aver trovato carte che avrebbero potuto ricostruire la storia delle due stragi. Il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti presieduto da Raffaele Volpi auspica che i documenti custoditi negli archivi delle agenzie di sicurezza sul sequestro Moro, sulla strage di Bologna e quella di Ustica siano desecretate e messe a disposizione dell’autorità giudiziaria. Vi proponiamo la puntata di byoblu in onda lo scorso 13 febbraio, ospite Edoardo Sylos Labini, a 40 anni dalla consumazione di una delle stragi più efferate della storia italiana. Ancora tu. Verrebbe da citare il grande Battisti per commentare l’ennesimo ingresso in scena del Venerabile Licio Gelli, fra gli indagati nella nuova inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, costata la vita a 85 persone e il ferimento di oltre 200, conclusa dalla procura generale del capoluogo felsineo. Fra gli indagati Paolo Bellini: ritenuto esecutore materiale dell’attentato, ex di Avanguardia nazionale e informatore dei servizi segreti, indicato come esecutore materiale dell’attentato insieme a Valerio Fioravanti, Francesca Mambro (già condannati in via definitiva, da sempre si dichiarano innocenti), Luigi Ciavardini, Gilberto Cavallini (condannato in primo grado per concorso in strage) e “con altre persone da identificare”. E qui torna la P2: Bellini avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi. Tutti deceduti. Ma l’avvocato Raffaello Giorgetti, storico legale di Licio Gelli, afferma: “Una volta testualmente il Gelli mi disse, prima che fosse coinvolto in questo processo, “E’ impossibile che sia una strage commessa da un italiano ma può essere stata commessa solo da terroristi stranieri”. (fonte AdnKronos) Già, la pista palestinese. Ce la ricorda Edoardo Sylos Labini, editore del mensile CulturaIdentità, ospite il 13 febbaraio del TgTalk di Byoblu, insieme a Paolo Bolognesi, Presidente Associazione familiari delle vittime, Adriano Tilgher, già leader di Avanguardia Nazionale, l’ex direttore responsabile di Lotta Continua Fulvio Grimaldi e Giancarlo Seri, Sovrano Gran Maestro. Nel corso della trasmissione Tilgher ha fatto notare che se Bellini fosse stato di Avanguardia Nazionale, nata nel 1970 e sciolta nel 1976, avrebbe dovuto avere 16 anni. L’ex leader di Avanguardia afferma di non aver mai sentito parlare di lui: anche confrontandosi, a suo tempo, con Stefano Delle Chiaie (deceduto quest’anno), non gli risultava alcunchè su Paolo Bellini. L’ala Ovest della stazione di Bologna Centrale, crollata a seguito dell’esplosione dell’ordigno che causò la strage. fotografia pubblicata in territorio italiano – pubblico dominio. Per illuminare i fatti della strage di Bologna, varrebbe la pena, come ha ricordato Sylos Labini, di ripartire dalla Conferenza Intergruppo 2 agosto. La verità, oltre il segreto sulla strage di Bologna, promossa lo scorso anno dai deputati Federico Mollicone e Paola Frassinetti e tutti i partiti dell’arco costituzionale. Una lunga catena di ipotetiche (sottolineiamo: ipotetiche) responsabilità che partono dallo “sfregio” italiano al famoso lodo Moro e passano attraverso il coinvolgimento del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina sostenuto dall’oltranzismo antiatlantico della sinistra insurrezionale internazionale per arrivare alla stagione delle bombe del biennio 1992/1993 coincidente con l’inizio della stagione di Mani Pulite, forse una “punizione” a danno dell’Italia per la sua politica estera non ostile ai “vicini di casa” (Libia), da parte americana dopo la fine dello spauracchio comunista. Labini cita in proposito l’intervista a Stefania Craxi (che si può leggere integralmente sullo scorso numero di febbraio di CulturaIdentità). Ci atteniamo alle decisioni della Procura, ma pensiamo che varrebbe la pena ripartire anche da piste, come quella palestinese, che secondo noi non sono ancora state percorse fino in fondo.
Aldo Cazzullo per “il Corriere della Sera” il 27 giugno 2020. Ci fu una vittima in più, il 2 agosto 1980 a Bologna: una donna di cui resta solo un lembo del volto, che non appartiene a nessuna delle 85 vittime fin qui identificate. Una donna senza nome, i cui resti, in quarant' anni, non sono mai stati reclamati, e che si trovava vicinissima all'ordigno che devastò la stazione. È da questa scoperta, che viene dal lavoro dell'ex giudice Priore e dell'avvocato Cutonilli e dall'ultimo processo sulla strage, quello che il 9 gennaio scorso si è concluso con la condanna in primo grado di Gilberto Cavallini, che muove la nuova edizione de «I terroristi della porta accanto», il libro-inchiesta di Piero A. Corsini - già autore con Giovanni Minoli de «La Storia siamo noi» - che Newton Compton pubblica il 9 luglio, con le ultime notizie su uno dei grandi misteri d'Italia. La scoperta di questa nuova vittima riporta alla mente quello che Francesco Cossiga disse al Corriere nel 2008. Secondo Cossiga - al tempo presidente del Consiglio -, l'eccidio di Bologna fu dovuto all'esplosione accidentale di esplosivo trasportato dai palestinesi, che in virtù del «lodo Moro» in quegli anni si muovevano liberamente per il nostro Paese. Quei resti - si chiede Corsini - appartengono forse a chi doveva trasportare la bomba? Una tesi sempre duramente avversata dai magistrati bolognesi (i quali scrivono che il «lodo Moro» non è mai esistito) e dall'Associazione tra i familiari delle vittime, che restano convinti della colpevolezza di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, condannati con sentenza definitiva quali esecutori materiali. Per questo si tratta di una materia da maneggiare con cura. Il libro di Corsini si muove con rispetto sia del lavoro della magistratura, sia del dolore dei familiari. E, con questa premessa, racconta la vicenda di Fioravanti e Mambro, che continuano a dirsi innocenti. La loro storia è tra le più terribili di quegli anni spietati, in particolare di quella pagina del terrorismo nero conosciuta come «spontaneismo armato». Ma i nuovi capitoli del libro, con un lavoro capillare sugli atti e sui documenti, si concentrano soprattutto sulla strage del 2 agosto 1980. È accertato, infatti, che quel giorno a Bologna c'era Thomas Kram, esperto tedesco di esplosivi e affiliato al gruppo Carlos; così come è noto che l'arresto, nel 1979, di un palestinese che trasportava missili insieme ad alcuni autonomi aveva irritato il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, che aveva ufficialmente chiesto la sua liberazione (e la restituzione dei missili) minacciando, in caso contrario, ritorsioni. Una minaccia confermata da Stefano Giovannone, all'epoca capocentro dei servizi segreti militari a Beirut. Nel più classico stile del giornalismo investigativo, Corsini mette in fila i dubbi e gli interrogativi, elenca tutte le strane presenze che si affollavano alla stazione e si concentra, da ultimo, sulla misteriosa vicenda di Paolo Bellini, ennesimo indagato per la strage (in attesa della decisione del Gup di Bologna) che la moglie avrebbe riconosciuto nel filmato girato il 2 agosto da un turista su quella banchina, come ha scritto il Corriere qualche settimana fa. Bellini, però, somiglia anche ad un giovane che, come lui, porta i baffi e indossa una maglietta celeste, e che subito dopo la strage è raffigurato nelle fotografie e nei filmati mentre presta soccorso alle vittime e ai superstiti: una novità dell'ultima ora che si deve ad altri due ricercatori, Pelizzaro e Paradisi, che mal si concilierebbe con l'ipotesi che fosse lui un altro esecutore materiale. Bellini, si è scoperto, ha alloggiato nel febbraio 1980 a Bologna, nello stesso albergo dove - per quella notte soltanto - ha dormito anche Thomas Kram. Solo una coincidenza? Così il libro, che intreccia cronaca e ricostruzione storica, indagine e introspezione psicologica, chiede una memoria di quel tempo che sia - è l'auspicio dell'autore -, se non condivisa, almeno «pacificata».
Strage di Bologna, dopo 40 anni si cerca ancora la verità. Mollicone: «Basta col fantasy giudiziario». Paolo Sturaro del Secolo D'Italia domenica 2 agosto 2020. Quarant’anni dalla strage di Bologna, da quelle immagini terribili, devastazione e morte. Un attentato che ha segnato la storia d’Italia. Ma è la verità che manca. Quella verità che in molti sono certi non sia quella venuta fuori sin dal primo istante. La tesi della bomba fascista non convince. Anzi, dopo ciò che è emerso, non regge. Così come molti, troppi dubbi ci sono sulla colpevolezza di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro. La giustizia attende di fare luce, vera luce, su quanto accaduto alle 10.25 del 2 agosto 1980. Cioè quando, in un torrido sabato di esodo verso le vacanze, una valigia piena di tritolo esplose nella sala d’aspetto della seconda classe della stazione di Bologna. A terra rimasero 85 morti e 200 feriti. «L’inchiesta della Procura Generale sui cosiddetti mandanti della strage di Bologna ha qualche fondamento? No, sembra un fantasy giudiziario». Lo afferma il fondatore dell’Intergruppo “La verità oltre il segreto”, il deputato Federico Mollicone. «Ci risulta, inoltre, aveva evitato di procedere per insussistenza. Fino ad oggi abbiamo letto soltanto ricostruzioni più simili a sceneggiature di un film d’azione. Sarà pertanto opportuno, in assenza di un qualsivoglia riscontro oggettivo, procedere contro tutti coloro a vario titolo hanno contribuito a creare l’ennesimo teorema finalizzato all’occultamento della verità». «Lo scoop di Bianconi sul Corriere apre un doppio interrogativo su Bellini. Se era lui, lavorava per lo Stato? Se non era lui, chi è autore del depistaggio? Abbiamo presentato un’interpellanza», aggiunge, «anche per chiarire questi aspetti oscuri della strage di Bologna. In particolare per chiedere chiarezza sulla vicenda del giudice Gentile e degli inquietanti rapporti con il capo delle operazioni palestinesi in Italia Abu Saleh, tramite delle ispezioni, e la revisione del processo con lo spostamento della sede processuale a Roma, dato che molti documenti sono qui a Roma in sedi istituzionali e molte vicende sono interconnesse con la Capitale. Lo dobbiamo alle vittime e ai loro familiari».
Strage di Bologna, le “bizzarre indagini” su Cavallini e il tragico precedente istriano, scrive domenica 10 febbraio Massimiliano Mazzanti su Secolo d’Italia. La Procura generale del Tribunale di Bologna non s’accorge – indagando sui fantomatici rapporti tra Gilberto Cavallini e Licio Gelli – di scadere quasi nel ridicolo, imponendo ai Carabinieri di ascoltare “a sit” – sommarie informazioni testimoniali – addirittura il figlio dell’ex-militante dei Nar. Giusto per inquadrare al meglio le dimensioni delle cose, si sta parlando di una persona che nacque proprio nell’estate del 1980 e che aveva solo tre anni, quando il padre fu arrestato. Un ragazzo, quindi, che è cresciuto senza aver rapporti diretti col genitore, almeno fino alla maggiore età, essendo stato quest’ultimo detenuto in forme “dure” o “speciali” per buona parte dei 36 anni scontati. Ora, già la sola idea di andare a perquisire la casa di Flavia Sbrojavacca – la donna che nell’80 era compagna di Cavallini -, al fine di trovarvi oggi riscontri degli eventuali rapporti “finanziari” tra Gelli e l’ex-Nar si è dimostrata per lo meno bizzarra; ma pensare che di questi rapporti potesse in qualche modo esserne al corrente il figlio, appunto, riduce questo secondo troncone delle nuove inchieste a poco più di una barzelletta. Se la generale serietà e tragicità della materia non lo impedisse, la notizia odierna dovrebbe essere liquidata con ironia, commentando col dovuto sarcasmo il fatto che a qualche magistrato sia baluginata l’idea che “papà Cavallini”, dovendo ricostruire dopo anni di detenzione un rapporto col figlio, gli parlasse del “buon zio Licio che tanto provvede alla famiglia”. Ricordando come l’unica traccia finora mostrata di questi possibili denari transitati dalle casse della Cia a quelle della P2 e, da qui, a quelle dell’eversione spontaneista, sia un’annotazione dello stesso Cavallini in cui la frase <3.500.000 IN franchi svizzeri> viene curiosamente cambiata e letta in <3.500.000 DI franchi svizzeri> – perché è fondamentale ipotizzare un finanziamento demoniaco di almeno qualche milione di dollari, non potendo seriamente pensare che qualcuno si sia prestato a uccidere 85 persone per un migliaio di “verdoni” o poco più -, più che alle investigazioni, si è appunto alla commedia degli equivoci. D’altro canto, non è stato qualche fazioso commentatore delle vicende processuali bolognesi, ma colleghi magistrati a bollare le ipotesi che legherebbero Gelli a Cavallini, la Strage di Bologna ad altre, determinate oscure pagine della Repubblica degli anni ’70 e ’80, come <bizzarrie logico-giuridiche>. Però, evidentemente, ciò che è “bizzarro” per la Procura della Repubblica, non lo è altrettanto per la Procura generale. E questo non contribuisce certamente ad accrescere il tasso di fiducia del cittadino comune nell’istituzione giudiziaria italiana. Per altro, in questo strano tentativo di creare “collegamenti” e “paralleli” storici nelle vicende terroristiche italiane, la giornata odierna ne suggerisce uno che, di norma, si tende a dimenticare. Bombe che vengono innescate e fatte esplodere ad agosto tra la gente; decine e decine di morti; la mano dei servizi segreti; il giornale “l’Unità” e il Pci che denunciano a gran voce le responsabilità delle strutture militari atlantiche, prima; oscure “trame neofasciste”, poi. Ovviamente, non si sta parlando della Strage di Bologna o di un’altra di quelle degli anni ’70, non ostante la curiosa ricorrenza degli eventi e delle circostanze; bensì, della strage di Vergarola, del 18 agosto 1946, con cui l’Ozna, i servizi segreti jugoslavi di Tito, assassinarono 65 istriani, spingendo crudelmente gli abitanti di Pola – non ancora assegnata alla neonata repubblica comunista – a dare il via al tragico e drammatico esodo. Già, la prima strage indiscriminata della storia italiana post-bellica fu certamente una strage comunista, compiuta da mani straniere e “inquinata” nell’individuazione delle responsabilità dalla stampa “rossa” italiana. Un bel precedente, no?
Strage di Bologna, il figlio smentisce il pentito. E adesso? Incriminiamolo… Sotto accusa adesso è Gilberto Cavallini. Esclusi tutti gli indizi che potrebbero scagionare i fascisti, scrive Paolo Delgado il 20 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Da mesi, nel silenzio dei media e nel disinteresse generale, è in corso a Bologna l’ennesimo processo per la strage alla stazione del 2 agosto 1980. L’imputato è Gilberto Cavallini, oggi di 67 anni, 28 all’epoca della strage. Cavallini era un militante dei Nar in un certo senso anomalo. Aveva qualche anno in più dei giovanissimi militanti dei primi Nar, i fratelli Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi. Veniva da Milano, mentre il nucleo dei Nar era formato di fatto da un gruppo di giovani neofascisti per lo più amici e quasi tutti di Roma- Monteverde. Cavallini, in carcere per l’assassinio a Milano dello studente di sinistra Gaetano Amoroso, a Milano nel 1976, era evaso, latitante aveva raggiunto Roma e si era aggregato al gruppo dei primi Nar. La differenza fondamentale è nei legami che, a differenza dei romani, manteneva con il vecchio fascismo veneto di Ordine nuovo, col quale i romani non avevano invece alcun rapporto. Il processo in sé, come quasi tutto quello che riguarda la strage di Bologna, ha aspetti paradossali. Cavallini infatti è già stato processato e condannato per lo stesso reato ma con altra imputazione, banda armata. Nel 2017 è stato rinviato a giudizio anche per concorso in strage. Tra le altre cose a Cavallini è stato ed è contestato l’aver fornito a Valerio Fioravanti e Francesca Cavallini documenti falsi. Un capo d’accusa bizzarro in sé, dal momento che il supertestimone sul quale si basò di fatto la condanna dei due raccontava appunto di avergli procurato quei documenti falsi. Di fatto il processo a Cavallini si è rapidamente trasformato in un carrozzone nel quale è entrato di tutto: l’omicidio di Valerio Verbano, avvenuto sei mesi prima della strage, quello di Piersanti Mattarella, 7 mesi antecedente la strage, i nessi eventuali con le stragi dei primi anni ‘ 70. In compenso la corte ha deciso di non occuparsi della pista palestinese. Il presidente Michele Leoni ha respinto la richiesta di audizione di Carlos, al secolo Ilich Ramirez Sanchez, uno dei più noti terroristi internazionali degli anni ‘ 70. Carlos, una quindicina di anni fa, aveva a sorpresa dichiarato che alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, era presente un militante vicino alla sua organizzazione, il tedesco Thomas Kram, membro delle Rz. Dal momento che Kram alla stazione c’era davvero non si capisce perché in un processo a spettro così ampio rifiutare di ascoltarlo e la giustificazione ufficiale, la “reticenza” di Carlos, non aiuta. In realtà si tratta di una scelta precisa: quella di escludere ogni segnale che non porti verso il neofascismo di quei tempi. La mole di elementi, che non è affatto probante ma neppure trascurabile a priori, emersi in questi anni, viene infatti liquidata derubricando il lodo Moro a “diceria”. Nonostante il medesimo lodo, che sarebbe secondo i sostenitori della pista palestinese all’origine della strage, sia invece stato ammesso ormai da una ressa di fonti, sia italiane che palestinesi. In realtà, a esaminare nei particolari le udienze, alcuni elementi nel processo sono emersi: in senso opposto alla condanna dei Nar. Uno degli elementi sui quali si basava l’accusa era infatti l’omicidio del neofascista siciliano Francesco Mangiameli a opera di Fioravanti e Giorgio Vale (altro militante dei Nar poi ucciso) un mese dopo la strage. Secondo i giudici di Bologna quell’omicidio era conseguenza della strage: i Nar volevano mettere a tacere un testimone. Nella panoplia di assurdità e contraddizioni che costella i processi per la strage del 2 agosto, nel processo per quell’omicidio, svoltosi a Roma e non a Bologna, il delitto viene spiegato con motivazioni opposte a quelle messe nero su bianco nelle motivazioni della sentenza bolognese. L’esecuzione sarebbe stata decisa per motivi che avevano a che vedere solo con il progetto di far evadere Pierluigi Concutelli e in particolare al ‘ furto’ dei fondi messi a disposizione dai Nar per quell’impresa a opera di Mangiameli. La moglie del siciliano, che all’epoca dell’omicidio era uno dei leader di Terza posizione, ha confermato in aula che i dissapori tra il marito e la coppia dei Nar era questione di soldi. Allo stesso modo, è stata dimostrata l’evanescenza delle due supertestimoni citate nel libro ‘ colpevolista’ di Riccardo Bocca Tutta un’altra strage. Ma è inutile sperare che queste contraddizioni abbiano qualsiasi peso in un processo come questo. Il cui clima è illustrato come meglio non si potrebbe dall’ ‘ incidente’ che rischia di costare a Stefano Sparti, figlio del pentito di cui sopra, il rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Stefano Sparti, che all’epoca aveva 11 anni, aveva dichiarato, come a suo tempo la madre, la nonna e la Colf, che il 4 agosto suo padre non poteva aver incontrato a Roma Fioravanti e Mambro per i documenti falsi dal momento che si trovava a Cura di Vetralla. Più tardi Stefano Sparti ha anche raccontato che il padre, sul letto di morte, gli aveva confessato di aver mentito ‘ perché non potevo fare altro’. Nell’interrogatorio, Sparti ha parlato di una visita di Cristiano Fioravanti, appena uscito di prigione, nella casa di Cura di Vetralla dicendosi sicuro che si trattasse del 2 agosto. In realtà la visita di Cristiano Fioravanti avvenne il 3 agosto e la confusione dell’allora undicenne Stefano Sparti dipende dal fatto che il suo ricordo si basa sui servizi televisivi dedicati alla strage, che in realtà proseguirono per giorni e comunque l’equivoco non incide neppure superficialmente sugli aspetti rilevanti della sua testimonianza. Ciò nonostante è stato iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza, come non accadde, nei processi contro Fioravanti e Mambro per il falsario De Vecchi, che materialmente aveva costruito, secondo Sparti, i falsi documenti. Per anni De Vecchi aveva sostenuto che nessuno dei due documenti era per una donna. Quando cambiò versione e disse che uno dei due documenti era per la Mambro si giustificò così: «Mi era stato chiesto se erano per una donna, mica se erano per la Mambro». Erano i processi per la strage di Bologna, il punto più basso raggiunto dalla giustizia italiana. E ancora lo sono.
Strage di Bologna, il processo Cavallini: pietra tombale sui segreti della Repubblica, scrive Gabriele Paradisi il 24 febbraio 2019 su Il Dubbio. Perché al processo Cavallini l’avvocato dello Stato e i legali della parte civile si sono opposti all’acquisizione di alcuni documenti? Nell’ultima udienza del processo sulla strage del 2 agosto 1980, che vede Gilberto Cavallini sul banco degli imputati, il presidente della Corte d’Assise di Bologna Michele Leoni ha rigettato l’istanza della difesa che chiedeva di acquisire il carteggio tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, nel periodo 1979 – 1980 ed in particolare le informative redatte dal capocentro del Sismi a Beirut, colonnello Stefano Giovannone. Giovannone era il garante per l’Italia del cosiddetto “lodo Moro”, quell’accordo segreto, oggi riconosciuto pacificamente dagli storici, tra il nostro governo e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina che dal 1972- 1973, a fronte di una ampia indulgenza nei confronti dei commando palestinesi che utilizzavano il territorio italiano come libero transito e deposito di armi, manteneva il nostro Paese esente da azioni terroristiche. Su quei documenti venne apposto il segreto di Stato nel 1984 dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, su richiesta di Giovannone nell’ambito del procedimento penale sulla scomparsa in Libano il 2 settembre 1980 dei due giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo. Nell’agosto 2014, trascorsi 30 anni, il segreto è decaduto, ma immediatamente è stata ripristinata la classifica di segreto e segretissimo, facendo tornare di fatto quei documenti indisponibili alla consultazione. Gli stessi membri dell’ultima Commissione bicamerale d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, che poterono prenderne visione sommariamente, vennero messi al corrente che rischiavano una pena fino a tre anni di carcere in caso di divulgazione. Nell’ambito di un procedimento penale per terrorismo e strage, la magistratura può richiedere anche atti sottoposti a segreto di Stato, era quindi nella possibilità della Corte di Bologna togliere finalmente, una volta per tutte, quel velo ormai inaccettabile e permettere di far luce su ciò che poté accadere nel nostro Paese negli anni di piombo, sotto l’oscura coltre protettiva di quella “diplomazia parallela”. Perché quei documenti potrebbero essere utili anche per la strage di Bologna del 2 agosto 1980? Lo schema della cosiddetta “pista palestinese”, sostiene che il “lodo” fu rotto con il sequestro, nel novembre 1979, di due missili e con l’arresto del responsabile per l’Italia dell’Fplp Abu Anzeh Saleh, garante dell’accordo per i palestinesi. In quei mesi a cavallo tra 1979 e 1980, si susseguirono le minacce di ritorsione da parte dell’Fplp. Testimonianze documentali – la deposizione del generale Silvio Di Napoli davanti al giudice Carlo Mastelloni, nonché documenti ritrovati negli archivi della Stasi, la polizia politica della Ddr – dimostrano che il Fronte prese contatti in quei drammatici giorni con il terrorista venezuelano Carlos, il cui gruppo compiva le azioni più sanguinose per conto dei palestinesi. La notte tra il 1° e il 2 agosto 1980, un uomo di Carlos “esperto di esplosivi”, il tedesco Thomas Kram era indiscutibilmente a Bologna e nel corso dell’inchiesta della Procura, che ha vagliato questa pista dal 2005 al 2014, non ha saputo in alcun modo giustificare il motivo di quella sua inquietante presenza, costringendo i magistrati bolognesi a scrivere nella richiesta di archiviazione che su di lui permaneva un “grumo residuo di sospetto”. La strage alla stazione fu dunque la sanzione dell’Fplp? Non è nemmeno del tutto vero che il carteggio da Beirut sia interamente secretato. Per un caso fortuito e inspiegabile, un paio di quelle informative sono emerse e chiunque può leggerle senza incorrere nei rigori della legge. Si trovano negli atti, liberamente consultabili da qualunque cittadino, del procedimento penale sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974. È sufficiente riportare un breve passaggio dell’informativa datata 12 maggio 1980 per capire quanto sarebbe utile disporre dell’intero carteggio. In essa il “Maestro”, così era chiamato Giovannone, riferiva che qualora le “Autorità italiane” non avessero soddisfatto le richieste del Fronte – liberazione di Saleh e restituzione o indennizzo dei missili – «la maggioranza della dirigenza e della base dell’Fplp intende riprendere – dopo sette anni – la propria libertà d’azione nei confronti dell’Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti». Sono ormai trascorsi quattro decenni da quella stagione drammatica e pare inspiegabile che sia ancora così forte la resistenza degli enti erogatori che mantengono di fatto tale documentazione inaccessibile. Quali segreti indicibili nascondono quelle pagine? Perché al processo Cavallini l’avvocato dello Stato e i legali della parte civile si sono opposti all’acquisizione di quei documenti? Perché chi ha il potere di chiederli evita di farlo?
Bomba prima della strage di Bologna: i fascisti volevano annientare la giunta rossa di Milano. Un’inchiesta dell’Espresso in edicola da domenica 20 gennaio ricostruisce l’intera strategia della destra neofascista culminata nell’eccidio del 2 agosto 1980. I terroristi neri erano pronti ad uccidere anche il giudice di Piazza Fontana. E per depistare usarono la sigla dei killer di ultrasinistra di Acca Larentia, scrive Paolo Biondani il 18 gennaio 2019 su "L'Espresso". La strage di Bologna doveva essere preceduta e seguita, nell'arco di pochissimi giorni, da un altro attentato sanguinario e dal clamoroso omicidio di un giudice eroe della democrazia. Un'autobomba a Milano, programmata per colpire e annientare la storica giunta di sinistra. E un agguato con armi da guerra per eliminare il magistrato veneto che scoprì la pista nera su piazza Fontana. L'Espresso, nel numero in edicola da domenica 20 gennaio ricostruisce l'intera strategia della destra neofascista che è culminata nella strage di 85 innocenti alla stazione di Bologna. L'inchiesta giornalistica, che ha recuperato molti documenti che sembravano perduti di storiche istruttorie dei giudici di Milano, Roma e Bologna, documenta che l'attentato del 2 agosto 1980, il più grave nella storia italiana, era inserito in un piano politico-criminale ancora più folle e cruento. Con personaggi che dai lontani anni di piombo tornano a incombere sul presente. Due giorni prima della strage di Bologna, alle 1.55 della notte tra il 29 e 30 luglio 1980, a Milano esplode un’autobomba davanti a Palazzo Marino. L’ingresso del Comune di Milano viene devastato pochi minuti dopo la fine della prima lunga seduta del consiglio che ha eletto la nuova giunta di sinistra. Per Milano è la prima autobomba. Le cronache segnalano che al momento del boato molti consiglieri hanno appena lasciato il palazzo, mentre il sindaco, Carlo Tognoli, è ancora nel suo ufficio, con la luce accesa: la Fiat 132 imbottita di esplosivo è stata parcheggiata sotto la sua finestra, davanti al portone verso piazza San Fedele. Il messaggio politico è spaventoso: i terroristi volevano annientare la giunta rossa di Milano. L’attentato, che ferisce un passante, non diventa una carneficina perché scoppia solo uno dei tre carichi di esplosivo: sei chili di polvere da mina, stipati in un tubo di piombo. Altri otto chili, collocati in un secondo tubo e in una tanica, vengono scaraventati all’esterno senza deflagrare. L'autobomba del 1980 a Milano, oggi dimenticata, è rimasta impunita. Le successive indagini, ricostruite dall'Espresso, dichiarano però accertata la matrice di estrema destra che punta sui Nar, la stessa organizzazione terroristica di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, i tre condannati in via definitiva per la strage di Bologna. L'attentato di Milano fu eseguito da loro complici, rimasti ignoti, come attacco preparatorio dell'eccidio del 2 agosto. L'inchiesta dell'Espresso ricostruisce anche il successivo, sofisticato depistaggio: l'autobomba di Milano fu rivendicata con una sigla di ultrasinistra, che era stata utilizzata in precedenza una sola volta, a Roma, dal commando di terroristi rossi che il 7 gennaio 1978 uccisero due giovanissimi militanti del Movimento sociale, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, davanti alla sede del partito in via Acca Larentia. Un terzo ragazzo di destra, Stefano Recchioni, morì nei successivi scontri con i carabinieri. Il vergognoso eccidio di Acca Larentia è rimasto totalmente impunito. Ma le indagini successive hanno dissolto ogni dubbio sulla matrice politica: una mitraglietta usata per sparare ai giovani missini fu sequestrata nel 1998 in un covo delle Brigate rosse. Per l’autobomba di Milano, su un opposto fronte politico, anni di istruttorie giudiziarie disegnano un quadro analogo: nessun condannato a livello individuale, ma una montagna di indizi a carico dei Nar, la destra neofascista romana, allevata e protetta dalla P2. Uno dei principali sospettati per l'attentato esplosivo del 30 luglio 1980, Gilberto Cavallini, vide archiviare quell'accusa per insufficienza di prove. Già condannato in via definitiva per omicidio e per banda armata con Mambro e Fioravanti, oggi Cavallini è il quarto terrorista dei Nar sotto processo per la strage di Bologna. I documenti giudiziari recuperati dall'Espresso completano il quadro con un ultimo piano omicida, fallito solo perchè i terroristi neri ebbero un incidente d'auto. Dopo l’autobomba di Milano e la strage di Bologna, ai primi di agosto del 1980 i Nar erano pronti ad ammazzare Giancarlo Stiz, il giudice veneto che scoprì la pista nera su piazza Fontana: indagini che, nonostante mille depistaggi, hanno portato alla condanna definitiva dei neonazisti Franco Freda e Giovanni Ventura per 16 attentati del 1969 (comprese otto bombe sui treni).
Strage di Bologna: in libreria “Le verità negate”, coraggiosa graphic novel di Ferrogallico. Gabriele Alberti del Secolo D'Italia domenica 2 agosto 2020. Bologna, 2 Agosto 1980, una bomba alla Stazione Ferroviaria causa 85 vittime e oltre 200 feriti. Condannati per la Strage come esecutori Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Tutti esponenti dei NAR. Identificati come mandanti i vertici della P2. Nel terzo processo appena cominciato, alla sbarra una altro NAR, Gilberto Cavallini. Per la Procura della Repubblica di Bologna, nessun dubbio: la strage è dei “neo-fascisti”. Sulla lapide commemorativa alla stazione di Bologna, nessun dubbio : la strage è “fascista”. Per il Presidente Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage della Stazione di Bologna del 2 Agosto 1980, nessun dubbio: la strage è dell’estremismo nero. Eppure – come abbiamo visto e letto – qualcosa non torna. In quarant’anni innumerevoli voci di politici di tutti gli schieramenti, fino alle massime cariche dello Stato, hanno creduto, se non direttamente indicato, una verità diversa da quella dei Giudici di Bologna. C’è di che spaziare, tra depistaggi, notizie e informative trascurate dagli investigatori; presenze inquietanti a Bologna il giorno della strage; riscontri fattivi del coinvolgimento del terrorismo internazionale. E ancora, le evidenze delle ultime perizie: che sono arrivate a dimostrare la presenza di una 86° vittima (mai identificata) della strage. Sembra proprio che i dubbi e le domande su quanto accadde quel maledetto 2 Agosto del 1980, siano ben maggiori delle incrollabili certezze delle sentenze bolognesi. A quarant’anni dalla più tragica strage che il nostro Paese abbia conosciuto, la casa editrice Ferrogallico, diretta da Marco Carucci, porterà a settembre in tutte le librerie italiane una graphic novel coraggiosa. Il volume ripercorre tutte le “piste” che la Procura della Repubblica di Bologna non ha voluto seguire. O alle quali non ha voluto dare credito investigativo. Un lavoro preciso e documentato che inchioda il lettore in una narrazione a fumetti densa, avvincente come un legal thriller. Il fumetto di indagine giornalistica si intitola “Le verità negate – Bologna 2 Agosto 1980”: sarà presentato alla Camera dei Deputati mercoledì 9 settembre 2020 alle ore 14.00. Una graphic novel scritta con grande scrupolo giornalistico e passione. Ne sono artefici Riccardo Pelliccetti, Francesco Bisaro autore dei disegni e Valerio Cutonilli: a lui si deve l’importante apparato di note a corredo e tutti i riferimenti alla vicenda giudiziaria. Il volume è arricchito da due importanti dossier di Massimiliano Mazzanti. Il primo sulla vicenda della salma della povera Maria Fresu e sulla presenza di una 86° vittima mai identificata dagli inquirenti. Il secondo è un dossier chiarificatore sulla questione dei presunti fondi della P2 volti a finanziare i NAR . Il volume è corredato da un’ intervista esclusiva a Stefano Sparti, figlio del teste chiave del processo di Bologna per la condanna degli esponenti dei NAR. Intervista rilasciata all’ autore Riccardo Pelliccetti. Corredano il volume oltre 30 pagine di documenti inediti che raccontano verità diverse da quelle giudiziarie e documentano le tesi e le suggestioni che il fumetto propone. Le prefazioni di Nicola Porro e Gian Marco Chiocci assieme all’ intervento dell’Onorevole Paola Frassinetti (Fondatrice e membro dell’ Intergruppo parlamentare “La Verità oltre il segreto”) completano un albo a fumetti che farà parlare molto di sé.
Giampiero Mughini per Dagospia il 2 agosto 2020. Caro Dago, il 2 agosto 1980 ero in vacanza in Sicilia con degli amici. Non ricordo chi di loro ci annunciò che alla radio avevano dato la terrificante notizia della strage di Bologna. Una notizia per quanto spaventosa di cui devo dire che non mi stupì. In quel decennio zeppo di assassini furibondi di destra e di sinistra, dopo la bomba di piazza Fontana, dopo la strage di Brescia, dopo l’assassinio di Aldo Moro e del giudice Vittorio Occorsio, in quel decennio in cui fu compatto il muro dell’odio distruttivo che una parte nutriva contro l’altra, nel sentire di un tale e miserabile agguato terroristico non c’era di che stupirsi per un figlio naturale del Novecento com’ero io allora e come sono adesso. Dico subito che non ho di che pontificare su chi siano stati gli autori e i mandanti di quella strage. Ho letto in tutto e per tutto cinque o sei libri, pochissimi per un evento talmente complicato da un punto di vista giudiziario. So per certo che, a differenza di quanto scrive Gianni Riotta (un giornalista che stimo) sulla prima pagina della “Stampa” di oggi, il nutrito drappello costituito da chi è convinto della innocenza di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro (quorum ego) non è un drappello “di anime belle”, di gente che assume una postura chic senza sapere quello di cui sta parlando. “Anime belle” l’ex deputato Luigi Manconi, il bravissimo giornalista del “Manifesto” Andrea Colombo (il cui libro lo so a memoria), Rossana Rossanda, il giornalista Sandro Provvisionato, il mio vecchio amico/nemico Massimo Fini, o addirittura l’ex presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino? Un’”anima bella” Sergio D’Elia, l’ex terrorista strapentito Sergio D’Elia e comandante in capo dell’associazione contro la pena di morte “Nessuno tocchi caino”, l’unica associazione cui io sia mai stato iscritto nella mia vita? Proprio qualche giorno fa D’Elia ha scritto sull’ “Huffington post” di Mattia Feltri un bellissimo articolo in difesa di Fioravanti e Mambro, che lui conosce e con i quali convive giorno dopo giorno da trent’anni. E ne ha dunque ben donde quando dice che dura trent’anni la sua convinzione dell’innocenza dei due. (Tra parentesi e detto per ultimo, sono amico personale di Giusva e Francesca e spero di averli presto a cena a casa mia.) Loro due sono stati eccome degli assassini politici in un decennio arroventato dal fanatismo ideologico. Loro e altri hanno assassinato sì Mario Amato e Vittorio Occosio, due magistrati impeccabili nel fare il loro dovere, ma questo è tutt’altra cosa che deporre una bomba a freddo in una sala della stazione assiepata di gente che non conosci. Quella è tutta un’altra cosa, come sa chiunque conosca non da semianalfabeta le fenomenologie del terrorismo. Sarà perché ho letto solo cinque o sei libri sull’argomento, ma non ho affatto capito su quali elementi di prova si basi la condanna. Soltanto su indizi, ragionamenti, deduzioni avvalorate da una supposta “rivelazione” di un farabutto di destra? Se qualcuno mi dimostrasse che non è così, gliene sarei grato. Mentre resta monumentale il fatto che si siano di recente scoperti i resti di una donna di cui non si sapeva e non si sa nulla, e che era vicinissima alla deflagrazione della bomba e di cui non è illecito supporre che fosse lei quella che si trascinava dietro un esplosivo caro alla causa del terrorismo palestinese. Terrorismo che quanto a Bologna è chiamato in causa da mille altri indizi. E per non dire della comica finale, che sia stato il “mandante” Gelli a mollare i “trenta denari” di che trasformare gli assassini politici Mambro/Fioravanti in due mostri. Lui e altri personaggi che ti raccomando, ossia il Mario Tedeschi che assieme a Gianna Preda aveva diretto il “Borghese” fondato da Leo Longanesi. Ero stato a casa sua, una casa accosta al carcere di Regina Coeli. Non erano davvero né l’uomo né una casa di volesse annichilire la stazione della città di Bologna. No, assolutamente no. E a non dire che anche la Preda l’avevo conosciuta benissimo, e qui la ricordo con affetto.
Bologna, fuori la verità. Dopo quarant'anni non ci sono ancora certezze sulla strage di Bologna. Federico Mollicone, Domenica 02/08/2020 su Il Giornale. Ogni 2 agosto mi prende una fitta al cuore. Penso alle vittime, ai loro familiari e, in particolare, quest’anno a quelli di Maria Fresu che dopo 40 anni hanno denunciato la scomparsa della loro cara. Sono stati costretti a farlo perché le ultime perizie sono state esplicite: il lembo facciale ascritto a quel nome non corrisponde a Maria Fresu, ma a un’altra donna e, non solo, i resti assemblati nella sua bara appartengono a due persone diverse. Dopo 40 anni non hanno più certezze, neanche dove sia finito il corpo della loro figlia. Nemmeno noi abbiamo più certezze. Non crediamo più in alcuni magistrati, in quelli che a Bologna hanno omesso il proprio dovere. Non hanno indagato sulla presenza certa a Bologna quel maledetto 2 Agosto di Thomas Kram, terrorista della rete “Separat" di Carlos. Lo hanno sentito solo a dichiarazioni spontanee molti anni dopo e lasciato andare seppure lo stesso pm Ceri ammette che sono contraddittorie. Pazzesco. Non hanno indagato nemmeno su Christa Margot Frohlich, nota per fare abitualmente il corriere con valigette di esplosivo esattamente come quella esplosa a Bologna, anch’essa presente a Bologna quel 2 agosto. Addirittura, il primo agosto manda dal suo Hotel, il Jolly, una valigetta alla stazione con un facchino. E, subito dopo l’esplosione, si precipita alla concierge chiedendo se ci sono vittime e dove sia esplosa esattamente. Nel 1982 verrà arrestata a Fiumicino con una valigetta analoga piena di esplosivo e di meccanismi di innesco. Il portiere dell’albergo la riconosce in tv e si precipita a denunciare il riconoscimento. Quel giorno sarebbero stati a Bologna anche il Br Francesco Marra (riconosciuto dal Br Franceschini e autodichiaratosi a verbale agente infiltrato), due presunte terroriste con passaporti cileni falsi usati abitualmente dal gruppo Carlos. C’era Salvatore Muggironi esponente di Barbargia Rossa e fidanzato con una del gruppo Barbagia Rossa il cui fratello fu arrestato due anni prima in Olanda mentre trasportava armi ed esplosivi dei palestinesi. Erano lì per incredibile coincidenza? Tutto può essere, ma sono tutte presenze da verificare in un’unica indagine e invece quando sono state analizzate furono frettolosamente archiviate. Un uomo, poi, aveva riconosciuto Maurizio Folini per tutti “Corto Maltese” uomo al servizio dei palestinesi che portava armi e esplosivi in Europa per conto loro come da lui stesso confessato. Incredibilmente, però, nessuno indaga. Incredibile, inaccettabile. Intanto, in questi anni continua una sorta di fiction a puntate fatta di processi con esiti inverosimili. Francesca Mambro e Valerio Fioravanti condannati per una strage per cui si sono sempre dichiarati innocenti, accusati su dati certi inappuntabili? No, da due pentiti: Massimo Sparti smentito dai familiari che riferiscono il suo pentimento in punto di morte. Sarebbe dovuto morire di cancro al pancreas nonostante la perizia medica fu contestata dal dott. Cerauso in poche settimane e, per questo fu rilasciato dopo la deposizione. Visse per altri 23 anni. L’altro è lo spietato serial killer, Angelo Izzo, il mostro del Circeo, dichiarato insano di mente. Non altre prove o riscontri. Poi Luigi Ciavardini, poco più che un bambino all’epoca e Cavallini, anche loro sempre dichiaratisi innocenti, e proprio durante il loro dibattimento sono emerse le perizie che hanno svelato l’86° vittima, probabilmente la trasportatrice, come raccontato dal documentatissimo libro di Valerio Cutonilli. Ricapitoliamo. Il 2 Agosto a Bologna erano presenti terroristi internazionali e italiani legati al gruppo di Carlos lo Sciacallo, esperti in trasferimenti di esplosivi, spesso per il Fronte per la Liberazione della Palestina, frangia marxista dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e in connessione con il KGB, e i libici, simili a quello esploso a Bologna o di attentati ai treni come quelli ad una stazione francese. Lo stesso Carlos ha confermato, grazie anche alla rogatoria con il giudice Bruguière, e ai documenti fatti acquisire dall’infaticabile e coraggioso lavoro di Gian Paolo Pellizzaro e Lorenzo Matassa in Commissione Impedian (“Mithrokin”) di cui mi onoro di essere stato consulente e di aver letto e lavorato con il compianto e indimenticato capogruppo di Alleanza Nazionale Vincenzo Fragalà, con Alfredo Mantica e con Enzo Raisi. I magistrati bolognesi hanno omesso di indagare su questa pista di scenario internazionale legato alle dinamiche della Guerra Fredda: il patto segreto e allora inconfessabile, dalla stretta attualità, per cui l’Italia era sì alleata inserita nel contesto delle alleanze politico-militari occidentali ma si teneva al riparo da attentati da parte del mondo arabo grazie al “Lodo Moro” stipulato con i palestinesi dal Colonnello Stefano Giovannone, capo centro di Beirut dei servizi esteri italiani, soprannominato “Il Maestro” per la sua bravura nella tessitura di accordi, di diretta connessione con Aldo Moro. I “partigiani” delle “trame nere” continuano, invece, a latrare contro il depistaggio rappresentato dalla pista palestinese mentre ad oggi gli unici dati certi sono la presenza di terroristi internazionali legati alla sinistra internazionale terrorista, a Carlos e ai servizi dell’Est, a Bologna. La strage segue di pochi giorni quella di Ustica e anche lì i cablogrammi di Giovannone pubblicati da la Stampa con Francesco Grignetti e dall’Adnkronos, sempre in prima linea nella ricerca della verità con il direttore Gian Marco Chiocci, e da un’analitica ed esplosiva ricostruzione comparata dal 1979/1981 di Pelizzaro e Paradisi su Reggio Report, ci raccontano di minacce esplicite per la rottura del Lodo Moro in seguito all’arresto di Abu Saleh - la vera figura chiave che lega Ustica a Bologna, città dove abitava e da dove partì l’aereo Itavia - e degli autonomi con due lancia missili di fabbricazione sovietica arrestati e processati. Noi qui non difendiamo solo la storia della Destra che questa nuova indagine grottesca tenta di infangare coinvolgendo anche il Senatore missino Tedeschi e il Movimento Sociale Italiano, noi difendiamo la sovranità nazionale e il diritto dei parenti delle vittime di conoscere la verità. Siamo, invece, alla minestra rancida riscaldata. Un vecchio plot trito e ritrito riproposto da un ex parlamentare della sinistra, un fantasy giudiziario, smentito dall’Avvocato di Gelli, dal processo a Cavallini, in particolare sui soldi che i Nar avrebbero ricevuto dalla P2 come denunciato da Massimiliano Mazzanti, giornalista de Il Secolo d’Italia, già tempo addietro. Tutte favole già smontate nei diversi dibattimenti. Come ricostruito da Romoli su “Il Riformista”, il dossier dell’associazione delle vittime, rifiutato inizialmente dalla procura di Bologna, si basa su un prospetto contabile di Gelli e la destinazione di finanziamenti a un misterioso “Zafferano”, finanziamenti che, però, essendo in contanti non sono tracciabili, un dossier - inoltre - già smentito in dibattimento. Abu Saleh diventa una figura chiave anche di Bologna quando incrocia sulla sua strada il giudice Gentile, istruttore proprio nel processo per strage che lo frequenta come lui stesso ammette e riceve anche regali dal palestinese. Non solo, ma viene mandato a Roma proprio su autorizzazione di Gentile. Un rilievo, svelato da Pelizzaro e Paradisi su Reggioreport e riportato anche da Boni nel suo libro “La strage del 2 agosto”, emerso anche durante il convegno organizzato al Senato con il vicepresidente del Copasir Adolfo Urso, il senatore M5S Gianni Marilotti e numerosi analisti e giornalisti come Silvio Leoni, a cui va la nostra solidarietà, ora indagato per aver cercato un’intervista su questi temi col giudice omonimo Leoni. Presenteremo un'interpellanza urgente in aula al ministro Bonafede per chiedere l'invio di ispettori alla Procura generale di Bologna affinché chiariscano e facciano luce su tutto. Su Paolo Bellini ci sono ancora punti opachi sulla sua presenza a Bologna e sulla sua eventuale connessione con apparati statali. La moglie, ad esempio, non lo aveva riconosciuto e viene minacciata dai magistrati di falsa testimonianza e poi, magicamente, lo riconosce. Interrogativi che minano la credibilità dell’impianto accusatorio. Fermo restando che come ha dichiarato Adriano Tilgher all’Adnkronos: "Bellini? Non sappiamo assolutamente chi sia. Non è mai stato di Avanguardia Nazionale, non sappiamo proprio da dove venga fuori”. Sono passati 40 anni e la memoria delle vittime ci unisce certamente, ma dobbiamo ritrovare l’unità nazionale non su verità processuali strumentali e non dimostrate ma sulla verità oggettiva. E questa parla e urla dai documenti delle Commissioni d’inchiesta ancora classificati e per cui abbiamo chiesto la desecretazione su cui una parte della magistratura si è rifiutata di indagare o quando lo ha dovuto fare è stato per archiviare. Come Intergruppo parlamentare, fondato con la collega Paola Frassinetti, con la presenza di forze sia di maggioranza che d’opposizione, abbiamo anche presentato una proposta di legge per costituire una commissione d’inchiesta sui fatti dal dopoguerra ad oggi connessi al terrorismo internazionale, così da chiudere una ferita tragica della Nazione. Non ci faremo intimidire. In Italia è stata giocata una partita a scacchi tra Ovest ed Est che ha fatto molte vittime collaterali civili e innocenti. Lo dobbiamo a loro la ricerca della Verità, e non di una verità di comodo per chiudere questo interminabile dopoguerra italiano.
Federico Mollicone, Fondatore Intergruppo parlamentare “La verità oltre il segreto”
· Una Strage Massonica?
«La strage di Bologna fu organizzata e finanziata dai capi della loggia P2». Licio Gelli «mandante» con il suo braccio destro Ortolani. Il prefetto D'Amato che manovra i terroristi di destra. Il killer nero Bellini che porta l’esplosivo ai Nar. E i depistaggi che continuano ancora oggi. Ecco tutte le accuse della nuova indagine sulla bomba in stazione (85 vittime): il più grave attentato della storia italiana. Lirio Abbate e Paolo Biondani il 25 febbraio 2020 su L'Espresso. Il capo della P2 è nervoso, preoccupato dalle indagini milanesi sui misfatti della sua loggia massonica. E ha molta fretta di svuotare i conti svizzeri dove ha nascosto una montagna di soldi rubati al Banco Ambrosiano. Quel giorno, il 13 settembre 1982, Licio Gelli si presenta di persona nella sede di Ginevra della banca Ubs. Dove ha accumulato 280 milioni di franchi svizzeri, che vorrebbe spostare al sicuro. Quel tesoro, parte di bottino ancora più grande, da poche settimane è però sotto sequestro giudiziario per la maxi-bancarotta dell’Ambrosiano di Roberto Calvi. La manovra fallisce. E all’Ubs arriva la polizia, che arresta così il burattinaio della loggia segreta, scoperta nel marzo 1981, che ha condizionato e inquinato le gerarchie del potere in Italia. Quando viene perquisito, gli agenti gli trovano addosso documenti riservatissimi. Carte che riassumono i suoi segreti più scottanti, utilizzabili per ricattare, tessere nuove trame, garantirsi omertà e protezioni. Tra quegli «appunti manoscritti», ad esempio, c’è lo schema dell’effettiva catena di controllo della Rizzoli, il colosso dell’editoria scalato dai vertici della P2 con i soldi di Calvi. Gelli ammette di aver scritto questi “pizzini” e finisce per confermare che descrivono fatti veri. Da quelle carte parte la nuova indagine sulla strage di Bologna, il più grave eccidio terroristico della nostra storia: 85 vittime, straziate dalla bomba esplosa il 2 agosto 1980 tra la folla nella stazione dei treni. Come esecutori sono stati riconosciuti colpevoli, con diverse sentenze definitive, tre terroristi dei Nar, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Ora, dopo la condanna in primo grado di un quarto killer neofascista, Gilberto Cavallini, la procura generale di Bologna ha chiuso la nuova indagine sui presunti «mandanti, finanziatori ed altri esecutori» della strage. Che chiama in causa Licio Gelli e il suo braccio destro Umberto Ortolani. E parte proprio dalla pista dei soldi. Una delle carte che Gelli portava con sé ha questa intestazione: «Bologna – 525779 – X.S.». Il numero corrisponde a uno dei conti svizzeri dove il capo della P2 incassava i fondi neri dell’Ambrosiano. L’appunto riassume un «piano di distribuzione di somme di denaro»: diversi milioni di dollari, versati da Gelli tra luglio 1980 e febbraio 1981, cioè nei mesi della strage e dei più esplosivi depistaggi orchestrati proprio dal capo della P2. Il flusso di soldi è precisato in altre due pagine scritte da Gelli, che annota pagamenti in lire o dollari: «a M.C. consegnato contanti 5.000.000», «accreditato $ 4.000.000 Ginevra», e altri. I contanti risultano distribuiti «dal 20 al 30 luglio 1980». Il bonifico milionario viene eseguito il primo settembre 1980 «dalla signorina Agnolini», la segretaria che gli gestisce i conti. E ha consegnato pacchi di banconote anche a un misterioso italiano del sud, così descritto: «meridionale, biondo, naso largo, cicatrice vicino orecchio». Gelli è stato condannato in via definitiva come stratega di mesi di depistaggi: false «piste internazionali» create per proteggere i terroristi di destra romani. Dopo la strage, quando scopre che c’è un rapporto del Sisde che accusa i Nar, il capo della P2 si muove di persona per imporre al capo-centro del servizio segreto civile, Elio Cioppa, piduista, di abbandonare la pista neofascista. L’incontro avviene «ai primi di settembre 1980». In coincidenza con il bonifico svizzero. Da allora c’è un crescendo di altre piste false e costose, che culmina nel depistaggio più clamoroso: nel gennaio 1981, per ordine di Gelli, una cordata di ufficiali del Sismi, tutti piduisti, guidata dal colonnello Pietro Musumeci e dal generale Giuseppe Santovito (capo del servizio segreto militare), fa ritrovare sul treno Taranto-Bologna un carico di armi e di esplosivi identici alla bomba del 2 agosto, accanto a falsi documenti di due fantomatici terroristi stranieri. Scoperti questi intrighi, il capo della P2 viene dichiarato colpevole di aver ostacolato le indagini per favorire i Nar. Gelli viene poi condannato, con altri big della loggia come Umberto Ortolani, anche come principale responsabile, nonché beneficiario, della rovinosa bancarotta dell’Ambrosiano (1.193 miliardi di lire): la banca milanese guidata da Roberto Calvi, ucciso nel 1982 a Londra. Gelli ha potuto scontare la pena nella sua villa di Arezzo, dove è morto nel 2015: ha dovuto restituire oltre 300 milioni di dollari e 250 chili di lingotti d’oro, ma si è tenuto 12,5 milioni. Anche Ortolani ha evitato il carcere, per motivi di salute, ed è deceduto nel 2002. I “pizzini” di Gelli, ritrovati dai familiari delle vittime della strage, ora uniscono la bancarotta targata P2 con la bomba di Bologna. I magistrati che si preparano a chiudere il nuovo atto d’accusa, che dovrà essere convalidato dal gip, sostengono che i terroristi dei Nar sarebbero stati finanziati con soldi sottratti all’Ambrosiano. Nascosti nei conti svizzeri di Gelli e Ortolani. E riversati ai neofascisti romani. Di certo mentre preparavano la strage, come si legge nelle sentenze già definitive, i terroristi neri hanno ricevuto grossi finanziamenti. Un riscontro in tempo reale arriva proprio dal rapporto del Sisde che costringe Gelli a mobilitarsi, firmato dal colonnello di estrema destra Amos Spiazzi: l’ufficiale preannuncia già nel luglio 1980 che i gruppi romani dei Nar stanno preparando «azioni militari», cioè attentati gravissimi, e cercano armi ed esplosivi «senza limiti di prezzo», perché hanno ricevuto «finanziamenti». Spiazzi ha ricevuto quella soffiata da Francesco Mangiameli, capo di Avanguardia nazionale e poi di Terza posizione (la banda armata intrecciata ai Nar) in Sicilia, dove aveva ospitato Fioravanti e Mambro pochi giorni prima della strage. Mangiameli è stato ucciso da Fioravanti e altri tre killer dei Nar il 9 settembre 1980, dopo la diffusione del rapporto Spiazzi, per far tacere uno dei pochi che potevano parlare della bomba di Bologna. L’ipotesi che Gelli abbia depistato le indagini sulla strage perché ne era il mandante deve ancora superare l’esame dei giudici, ma è suffragata da gravissimi precedenti. La commissione presieduta da Tina Anselmi, nella relazione finale sulla loggia di Gelli, conclude che già negli anni ’70 «la P2 svolse opera di istigazione agli attentati e di finanziamento di gruppi terroristici neofascisti in Toscana». Soldi, appoggi e coperture che risultano «adeguatamente dimostrati», con «gravi e sconcertanti riscontri», perfino dalle sentenze di assoluzione, per insufficienza di prove, dei terroristi neri che furono imputati della strage dell’Italicus. Un altro attentato sanguinario (12 morti per una bomba sul treno tra Firenze e Bologna) depistato da plotoni di piduisti. La sorpresa maggiore, nel nuovo atto d’accusa, è il ruolo di «organizzatore» dell’eccidio di Bologna attribuito a Federico Umberto D’Amato, per anni capo dell’Ufficio affari riservati, anche lui iscritto alla P2, morto nel 1996. Le sentenze su Piazza Fontana, la madre di tutte le stragi, accusavano il suo ufficio di aver orchestrato la falsa pista anarchica. Per favoreggiamento dei terroristi di Ordine Nuovo, invece, sono stati condannati due ufficiali (piduisti) del Sid, il servizio segreto militare, coinvolto con un suo confidente-infiltrato anche nell’esecuzione della strage di Brescia (28 maggio 1974, otto vittime). La commissione Anselmi certifica che il prefetto D’Amato aveva «rapporti stretti e costanti con Licio Gelli» e altri personaggi chiave della loggia, come il banchiere Calvi, che lo frequentò fino agli ultimi giorni, il faccendiere del Sismi Francesco Pazienza, l’editore Angelo Rizzoli e il giornalista poi assassinato Mino Pecorelli. Anche nell’archivio di Gelli in Uruguay c’erano «informazioni raccolte da D’Amato». E dossier su di lui. Nel 1974, dopo troppe stragi e depistaggi, l’Ufficio affari riservati viene soppresso. Il nuovo ispettorato anti-terrorismo, guidato dal prefetto Emilio Santillo, apre le prime indagini sulla P2, ancora sconosciuta, e trasmette ai magistrati tre relazioni sui legami tra la loggia di Gelli e l’eversione di destra. D’Amato viene mandato a dirigere la polizia stradale, ferroviaria e postale. Ma nel 1980, secondo quanto emerge dall’ordinanza d’arresto della Banda della Magliana (collegata ai Nar), l’ex capo degli affari riservati inizia a collaborare con il Sismi, come conferma anche Francesco Pazienza, braccio destro del generale Santovito e a sua volta condannato per i depistaggi di Bologna. Le attività «preparatorie» della strategia stragista, con Gelli mandante e D’Amato organizzatore, sarebbero «iniziate», secondo la procura generale, già «nel febbraio 1979». I magistrati per ora non svelano le prove raccolte, sostenute anche da documenti inediti come diversi dossier dei servizi, mai svelati, che adesso sono stati messi a disposizione delle parti solo per consultazione (senza farne copia). Perché coperti da segreto. In quelle carte ci sono fatti descritti dall’intelligence dell’epoca successiva alla strage che mettono a nudo un sistema finora coperto da assoluta riservatezza, per una questione di “ragion di Stato” che solo oggi sta per essere svelata. Di certo in quei mesi l’Italia fu segnata da una svolta a destra: la fine della solidarietà nazionale, cioè dei governi democristiani con l’appoggio esterno del Pci; le elezioni anticipate del 1979; i nuovi esecutivi a guida Dc, infiltrati dalla P2 come tutti i servizi; il cosiddetto «preambolo», nel febbraio 1980, con la definitiva esclusione del partito di Enrico Berlinguer e l’alleanza con il Psi di Craxi. La strage di Bologna, spiegano le sentenze già definitive, aveva «finalità politiche»: un attacco mortale contro la città simbolo del vecchio Pci. Un movente confermato anche dall’autobomba nera esplosa due giorni prima, il 30 luglio 1980, all’ingresso di Palazzo Marino, pochi minuti dopo la nascita della seconda «giunta rossa» di Milano. Una strage sfiorata, per un guasto a uno dei due inneschi, che provocò solo feriti: l’attentato è rimasto senza colpevoli, ma tutte le indagini lo attribuiscono proprio ai Nar. Federico Umberto D’Amato, secondo l’avviso di conclusione delle indagini, si sarebbe servito di un altro politico della P2, Mario Tedeschi, già direttore del Borghese e poi parlamentare del Msi, per «la gestione mediatica dell’evento strage», sia nella fase «preparatoria» che nei successivi «depistaggi». Anche questa grave ipotesi d’accusa a carico di Tedeschi, morto nel 1993, va accolta con prudenza, in attesa di riscontri. L’unica certezza, per ora, è il suo intrigante rapporto con D’Amato, che risale agli anni ’60, quando lo aiutò a organizzare «l’operazione manifesti cinesi». Una provocazione contro il Pci, realizzata tappezzando molte città italiane con propaganda murale firmata da un inesistente gruppo di ultra-sinistra. I manifesti in realtà furono affissi dai neofascisti di Avanguardia nazionale, come ha poi ammesso il loro capo, Stefano Delle Chiaie. Reclutato da D’Amato proprio attraverso Tedeschi. Negli anni ‘90, a Venezia, un ex dirigente degli affari riservati, Guglielmo Carlucci, ha testimoniato che Delle Chiaie è stato per lunghi anni un «confidente-infiltrato» di D’Amato, che in cambio «agevolava lui e i suoi camerati per il rilascio di passaporti, porto d’armi e quant’altro». Proprio tra i neofascisti di Avanguardia nazionale è cresciuto Paolo Bellini, oggi sotto accusa come quinto presunto esecutore materiale della strage di Bologna, che si dichiara innocente. Di sicuro ha una storia pazzesca. Killer nero. Latitante con passaporto brasiliano. Pilota e istruttore di volo. Ricettatore di opere d’arte rubate. Confidente-infiltrato dei carabinieri. Suggeritore della strategia terroristico-mafiosa di attacco ai monumenti per le bombe di Cosa nostra del 1993. Sicario della ’ndrangheta emiliana. Da alcuni anni è rientrato nel programma di protezione dei collaboratori di giustizia, pagato dallo Stato. E ora indagato per la strage. Il suo nome emerge già il 7 agosto 1980, quando la polizia trasmette una foto «dell’estremista di destra Paolo Bellini», segnalando la «notevole rassomiglianza» con l’identikit di «un giovane visto allontanarsi precipitosamente dalla sala d’aspetto della stazione poco prima dell’esplosione». Allora nessuno sa che è un killer neofascista: ha ucciso un militante emiliano di Lotta Continua, Alceste Campanile, alla vigilia delle elezioni del 1975. Un delitto politico rimasto impunito, con indagini deviate verso false piste di sinistra, che lo stesso Bellini confessa più di 30 anni dopo, quando ottiene la prescrizione. Intanto, nel 1976, scappa all’estero per sfuggire all’arresto per un altro tentato omicidio, per una lite di famiglia, da cui anni dopo verrà assolto. Durante la latitanza, cambia identità: diventa il brasiliano Roberto Da Silva. Con passaporto del regime militare: un documento autentico con generalità false, come quelli dei servizi. Con quel falso nome, ottiene un brevetto di pilota negli Stati Uniti, rientra in Italia e apre una scuola di volo a Foligno. Dove porta in giro in aereo anche l’allora procuratore capo di Bologna, Ugo Sisti, come «socio onorario» che non paga l’iscrizione. Il magistrato, molto discusso per i suoi rapporti col Sismi, è amico di famiglia di Aldo Bellini, fascista dichiarato e padre del latitante. La mamma di Bellini, intercettata, si lascia scappare che «il giorno dopo la strage Ugo Sisti ha visitato la nostra famiglia» e la figlia conferma, minimizzando: «Solo perché c’è amicizia». Quando si scopre che l’aviatore brasiliano è un latitante italiano, il procuratore si vede accusare dai giudici della strage di aver coperto e protetto il ricercato, ma viene scagionato con una sentenza iper-garantista: «Avendo appreso lo stato di latitanza di Bellini in via privata, e non in veste di procuratore, non aveva obbligo di denuncia». E così il neofascista resta libero, entra in una banda che svaligia ville in Toscana e viene arrestato e condannato per ricettazione di mobili, ma sempre come brasiliano. Detenuto in Sicilia, nomina un avvocato prestigioso: il professor Ennio Amodio. Interpellato dall’Espresso, Amodio ricorda che Da Silva gli fu segnalato «dal professor Giuseppe De Luca», un grande avvocato di Roma, «a sua volta contattato da un amico di famiglia». In carcere, a Sciacca, il finto brasiliano divide la cella con un mafioso di rango, Antonino Gioè. Scontata la pena e ritrovata la sua vera identità, Bellini torna libero e diventa confidente di un maresciallo dei carabinieri incaricato di recuperare opere d’arte rubate. E tra il 1991 e 1992 va a trovare l’amico mafioso Gioè, come infiltrato, per recuperare capolavori rubati da Cosa nostra. Bellini diventa così il tramite della prima trattativa Stato-mafia, ammessa da tutti, che fallisce: Salvatore Riina è pronto a far ritrovare quadri preziosi, ma pretende gli arresti ospedalieri per cinque boss troppo pericolosi, tra cui Pippo Calò, mafioso di collegamento a Roma, condannato per la prima strage terroristico-mafiosa del treno di Natale (23 dicembre 1984, stessa galleria dell’Italicus). Ed è proprio Bellini a spiegare a Gioè l’importanza per lo Stato delle opere d’arte, che sono «insostituibili» (mentre «al posto di un magistrato ucciso ne arriva un altro»): da lì nasce l’idea di colpire chiese e musei per ricattare le istituzioni, attuata da Cosa nostra con le stragi del 1993 a Roma, Milano e Firenze. Uscito come testimone ad alto rischio dai processi alla Cupola, alla fine degli anni ‘90 Bellini diventa un killer della ’ndrangheta emiliana. Dopo l’arresto, confessa di aver eseguito almeno due omicidi, un attentato con 14 feriti in un bar di Reggio Emilia e altri reati inseriti in una guerra tra cosche che inquieta la città. Condannato a 22 anni, sconta la pena in una residenza protetta, come collaboratore di giustizia. Nella vecchia istruttoria Bellini era stato archiviato per insufficienza di prove. Alcuni testimoni confermano di averlo visto a Bologna poco prima della strage; un detenuto giura che il fratello, Guido Bellini, poco prima di morire, gli confidò in carcere che era stato proprio Paolo a trasportare l’esplosivo. Ma l’inchiesta non riesce a smontare l’alibi difensivo: un incontro con la mamma a Rimini, durato fino alle 9.30, che esclude il suo arrivo a Bologna con la bomba scoppiata alle 10.25. Pochi mesi fa, però, gli avvocati delle vittime isolano alcuni fotogrammi in un video dell’epoca, girato da un turista: in stazione c’è davvero un uomo con i baffi molto simile a Bellini. Le perizie confermano l’identità dei tratti somatici. A riscontrare l’accusa è anche un’intercettazione di Carlo Maria Maggi, il capo di Ordine nuovo nel Triveneto, condannato come organizzatore della strage nera di Brescia. La microspia nascosta nella sua casa dai pm di Milano, nel 1996, registra le sue risposte al figlio, che gli chiede cosa sa della strage di Bologna: «I tuoi cosa dicono? E tu, quello che sai?». Risposta di Maggi: «Lo so perché è così... In pratica già qua nei nostri ambienti, erano in contatto con il padre di ’sto aviere... E dicono che portava una bomba... Era alla stazione...». Poi il figlio domanda: «La Mambro e Fioravanti hanno fatto la strage di Bologna?». Risposta di Maggi: «Sì, sicuramente. Sono stati loro». Parola di stragista nero. L’aviere è il pilota Bellini? Maggi ne fu informato dal suo camerata Massimiliano Fachini, che ospitava i Nar e sapeva della strage, tanto da preavvisare un’amica di stare lontana da Bologna? E i depistaggi continuano ancora oggi, con altre accuse per tre nuovi indagati? In attesa di future sentenze, gli avvocati di parte civile, Andrea Speranzoni e Roberto Nasci, elogiano la procura generale che, «dopo le condanne dei Nar come esecutori», è risalita «al livello superiore dei possibili mandanti»: «Questo processo può veramente cambiare la storia d’Italia».
"Gelli consegnò ai Nar l'anticipo di denaro per l'esecuzione della strage di Bologna". Ne è convinta la Procura generale: alcuni giorni prima dell'attentato ci fu un incontro tra il capo della P2 e i terroristi. Giuseppe Baldessarro il 23 luglio 2020 su La Repubblica. Fu direttamente Licio Gelli a consegnare ai Nar l'anticipo di denaro per l'esecuzione della strage di Bologna. Ne sono convinti i magistrati della Procura generale che hanno indagato su mandanti e finanziatori dell'attentato del 2 agosto 1980 (come esecutori sono già stati condannati in via definitiva Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, mentre per concorso in strage è stato condannato in primo grado Gilberto Cavallini). Il venerabile capo della P2, accompagnato da un suo factotum, alcuni giorni prima della bomba alla stazione, incontrò alcuni esponenti della destra eversiva a cui consegno un milione di dollari in contanti. Gli inquirenti sono riusciti a stabilire con certezza la presenza di Gelli e dei terroristi, nello stesso giorno e in una precisa località. La vicenda è stata ricostruita nelle indagini condotte da Digos, Guardia di Finanza e Ros, analizzando i flussi di denaro che tra il 1979 e il 1982, partivano dal Banco Ambrosiano per arrivare sui conti cifrati svizzeri e, dopo una serie di passaggi schermati, a Gelli. Dai conti del capo della P2 inoltre arrivarono importanti somme di denaro sia a Federico Umberto D'Amato, ex piduista e direttore dell'Ufficio affari riservati del ministero dell'Interno legato alla Cia, sia a Mario Tedeschi, ex senatore del Msi e direttore de Il Borghese. D'Amato era in contatto diretto con Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale, che - sempre secondo i magistrati - era il punto di contatto con le diverse fazioni del terrorismo di destra. Tedeschi dal canto suo ha avuto un ruolo importante nel tentativo di depistare le indagini sul fronte dell'informazione. Grazie a lui "vennero sistematicamente inventate piste alternative" al fine di salvaguardare i Nar. Dopo la strage ci furono altri pagamenti "a saldo" dell'attentato costata la vita a 85 persone e il ferimento di altri 200. In questo caso alcune operazioni furono fatte estero su estero.
Esclusivo - Strage di Bologna, chi è stato. Cinque milioni di dollari dal capo della P2 Licio Gelli per finanziare i terroristi neri e comprare la complicità degli apparati di sicurezza. Ecco le carte mai apparse prima che svelano il volto dei mandanti della strage più grave della storia repubblicana. Paolo Biondani il 23 luglio 2020 su L'Espresso. I soldi sporchi di Licio Gelli: cinque milioni di dollari rubati al Banco Ambrosiano e distribuiti nei giorni cruciali della strage. I conti esteri segreti della super-spia Federico Umberto D’Amato. Le manovre per far sparire i documenti che collegano il capo della P2 all’eccidio di Bologna. I legami inconfessabili tra i terroristi dei Nar e il killer fascio-mafioso Paolo Bellini. E i ricatti allo Stato. Documentati da appunti “riservatissimi” del capo della polizia, tenuti nascosti in un deposito clandestino, insieme a pezzi di ordigni esplosivi sottratti alle indagini sulle prime bombe nere. Sono gli ultimi tasselli del mosaico criminale della strage di Bologna, il più grave attentato nella storia della democrazia italiana. Quarant’anni dopo la bomba neofascista che il 2 agosto 1980 ha ucciso 85 innocenti nella stazione dei treni, le nuove indagini della procura generale hanno identificato, per la prima volta, i presunti mandanti. A differenza di troppe altre stragi nere, lo spaventoso attentato di Bologna non è rimasto impunito. Come esecutori sono stati condannati da tempo, con diverse sentenze definitive, tre terroristi dei Nar: i capi, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e il loro complice allora 17enne Luigi Ciavardini. L’ultimo processo, chiuso in primo grado nel gennaio scorso, è costato l’ergastolo a un quarto killer neofascista, Gilberto Cavallini. Anche le responsabilità di Licio Gelli, morto nel 2015, sono già state accertate per i depistaggi successivi alla strage: il capo della loggia P2 è stato condannato in via definitiva come stratega di una lunga serie di trame per inquinare le indagini, accreditare false piste estere e coprire i terroristi di destra con base a Roma. Manovre gestite dallo stesso Gelli, a partire dal settembre 1980, e culminate in un depistaggio di stampo terroristico, organizzato dai capi del servizio segreto militare: nel gennaio 1981 una cordata di dirigenti del Sismi, guidata dal generale Giuseppe Santovito e dal colonnello Piero Musumeci, fa ritrovare sul treno Taranto-Bologna un carico di armi e di esplosivi identici alla bomba del 2 agosto, accanto a falsi documenti di due fantomatici terroristi stranieri.
Strage di Bologna, la mano dei Servizi segreti: i documenti inediti sull'Espresso. Nuovi elementi rivelano le complicità dello Stato e il ruolo di Licio Gelli nell'attentato che il 2 agosto del 1980 è costato la vita a 85 innocenti. Ve li raccontiamo nel numero in edicola da domenica 29 luglio, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 27 luglio 2018 su "L'Espresso". Il capo della P2, i finanziamenti e il misterioso documento “Bologna”. Le protezioni che i servizi hanno fornito ai terroristi neri coinvolti nella strage e un secondo covo rimasto finora segreto. L'ombra di Gladio sulle sul curriculum criminale del quarto neofascista sotto processo con l'accusa di essere uno degli esecutori. Insomma, sulla bomba del 2 agosto 1980 alla stazione dei treni di Bologna che ha ucciso 85 innocenti, i misteri sono ancora molti. Conosciamo gli esecutori, ma non i nomi degli ideatori politici. Per questo attentato, il più sanguinario, c’è un processo in corso contro un terrorista di destra accusato di essere il quarto complice, dopo i tre stragisti già condannati. E c’è una nuova indagine, ancora aperta, sui mandanti occulti. A 38 anni dalla strage, L’Espresso in edicola a partire da domenica 29 luglio, pubblicherà un ampio servizio esclusivo sull’attentato: con tutte le sentenze e altri documenti, finora inediti, che disegnano la stessa trama nera, una strage di Stato. La mano di alcuni uomini dei servizi fedeli non alla Costituzione ma a Licio Gelli, il fondatore della loggia segreta P2. Prendiamo, per esempio, Valerio Fioravanti, il terrorista di destra condannato in via definitiva come esecutore materiale dell’attentato alla stazione. Vito Zincani, il giudice istruttore della maxi-inchiesta sulla strage, ricorda bene le vecchie carte ora ritrovate da L’Espresso: «Fioravanti aveva rubato un’intera cassa di bombe a mano, modello Srcm, quando faceva il servizio militare a Pordenone. Era stato ammesso alla scuola ufficiali quando risultava già denunciato e implicato in gravi reati. Per capire come avesse fatto, abbiamo acquisito i suoi fascicoli. E negli archivi della divisione Ariete abbiamo trovato un documento dell’Ufficio I, cioè dei servizi militari: indicava proprio Fioravanti e Alessandro Alibrandi come responsabili del furto delle Srcm. Quelle bombe sono state poi utilizzate per commettere numerosi attentati. Sono fatti accertati, mai smentiti». C'è poi l'imputato del nuovo processo di Bologna, Gilberto Cavallini. Al centro di un caso ancora più inquietante. Il mistero di una banconota spezzata. Il 12 settembre 1983 i carabinieri perquisiscono a Milano un covo di Cavallini. Tra le sue cose, elencate nel rapporto, il reperto numero 2/25: una mezza banconota da mille lire, con il numero di serie che termina con la cifra 63. Tra migliaia di atti ufficiali dell’organizzazione Gladio,la famosa rete militare segreta anticomunista, L'Espresso ha recuperato le foto di banconote da mille lire, tagliate a metà, e i fogli protocollati che spiegano a cosa servivano: erano il segnale da utilizzare per accedere agli arsenali, per prelevare armi o esplosivi, in particolare, dalle caserme in Friuli. Su una foto si legge il numero di una mezza banconota: le ultime due cifre sono 63. Le stesse delle mille lire spezzate di Cavallini. Infine il ruolo del Gran Maestro della P2: Licio Gelli, morto nel 2015, senza aver scontato neppure un giorno di carcere per il depistaggio ordito dopo la strage di Bologna. A suo carico, oggi, emergono nuovi fatti, su cui indaga la Procura generale nel filone sui mandanti. E che L'Espresso è in grado di rivelare: tra le sue carte dell’epoca sequestrate a Gelli ora emerge un documento classificato come «piano di distribuzione di somme di denaro». Milioni di dollari usciti dalla Svizzera proprio nel periodo della strage e dei depistaggi, tra luglio 1980 e febbraio 1981. Il documento ha questa intestazione: «Bologna - 525779 XS». Numero e sigla corrispondono a un conto svizzero di Gelli. Altre note, scritte di pugno da Gelli, riguardano pacchi di contanti da portare in Italia: solo nel mese che precede la strage, almeno quattro milioni di dollari. A chi erano destinati quelle somme indicate nel documento “Bologna”? Paolo Bolognesi, il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto 1980, è convinto di una cosa: «Mani esterne hanno sempre lavorato contro la verità. Esiste ancora un pezzo delle nostre istituzioni che rema in direzione contraria alla verità».
Esclusivo - Strage di Bologna, ecco le carte segrete di Licio Gelli. I documenti sequestrati al capo della P2 che sono al centro delle nuove indagini sui mandanti dell'attentato. L'inchiesta in edicola da domenica 26 e già online per i nostri abbonati. Paolo Biondani il 22 luglio 2020 su L'Espresso. I soldi sporchi di Licio Gelli: cinque milioni di dollari rubati al Banco Ambrosiano e distribuiti nei giorni cruciali della strage. I conti esteri segreti della super-spia Federico Umberto D'Amato. Le manovre per far sparire i documenti che collegano il capo della P2 all'eccidio di Bologna. I legami inconfessabili tra i terroristi dei Nar e il killer fascio-mafioso Paolo Bellini. E i ricatti allo Stato. Documentati da appunti «riservatissimi» dell'allora capo della polizia Vincenzo Parisi, trafugati dal Viminale e nascosti in un deposito clandestino, insieme a pezzi di ordigni esplosivi sottratti alle indagini sulle prime bombe nere. Sono gli ultimi tasselli del mosaico criminale della strage di Bologna, il più grave attentato nella storia dell'Italia repubblicana. Quarant'anni dopo la bomba nera che il 2 agosto 1980 ha ucciso 85 innocenti nella stazione dei treni, le nuove indagini della procura generale hanno identificato, per la prima volta, i presunti mandanti, finanziatori e organizzatori. L'Espresso, nel prossimo numero in edicola da domenica 26 luglio e già online per i nostri abbonati, pubblica un'inchiesta con i nuovi documenti, intercettazioni e testimonianze che chiamano in causa personalmente il capo della loggia P2, Licio Gelli , morto nel 2015, già condannato per tutti i depistaggi successivi alla strage, il suo tesoriere e braccio destro Umberto Ortolani e il capo dell'Ufficio affari riservati del Viminale, Federico Umberto D'Amato. Al centro delle nuove accuse ci sono carte segrete di Licio Gelli, scritte di suo pugno, che erano state fatte sparire dagli atti del processo per la bancarotta dell'Ambrosiano e ora si possono finalmente rendere pubbliche.
Questo primo documento è stato sequestrato al capo della P2 nel giorno del suo arresto in Svizzera, il 13 settembre 1982: c'è il numero di un conto di Ginevra, dove Gelli custodiva milioni di dollari sottratti al Banco Ambrosiano, preceduto da un'indicazione: Bologna. Questo «documento Bologna» era stato fatto sparire dagli atti giudiziari.
Nel prospetto allegato, Gelli ha annotato di suo pugno le cifre e i nomi in codice dei beneficiari dell'operazione Bologna e di altri bonifici collegati: almeno cinque milioni di dollari usciti dal suo conto svizzero in date che coincidono con i giorni cruciali della pianificazione, esecuzione e successivi depistaggi della strage del 2 agosto 1980. La sigla «Zafferano» nasconde lo storico capo dell'Ufficio affari riservati, Federico Umberto D'Amato, iscritto alla P2, che ha incassato 850 mila dollari, secondo l'accusa, come presunto «organizzatore» della strage.
Questo terzo documento è un «appunto manoscritto» sequestrato a Castiglion Fibocchi il 17 marzo 1981, con la stessa perquisizione che portò a scoprire la lista segreta degli oltre 900 affiliati alla loggia massonica P2: Gelli riassume di aver distribuito, attraverso un fiduciario (M.C.), un milione di dollari in contanti tra il 20 e 30 luglio 1980, alla vigilia della strage, e altri quattro milioni il primo settembre 1980, quando iniziano i depistaggi. Altri documenti e testimonianze collegano questi soldi ai terroristi dei Nar, già condannati come esecutori della strage, e alle false «piste estere» create dagli ufficiali piduisti dei servizi per ostacolare le indagini sui neofascisti.
Come esecutori della strage di Bologna sono stati condannati, con diverse sentenze definitive, i terroristi dei Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e, in primo grado, il killer nero Gilberto Cavallini. Le nuove indagini ora identificano il quinto presunto complice, anche lui neofascista, sospettato di aver portato a Bologna l'esplosivo: Paolo Bellini, ex pilota d'aereo e killer della 'ndrangheta, misterioso personaggio collegato a militari dei servizi segreti, magistrati massoni, boss di Cosa Nostra e terroristi neri, compresi gli stragisti dei Nar.
Strage di Bologna, “un milione di dollari in contanti consegnati ai Nar prima del 2 agosto 1980. Soldi da un conto di Licio Gelli”. Il Fatto Quotidiano il 23/7/2020. Denaro che faceva parte di una fetta più ampia di cinque milioni di dollari - o forse anche maggiore - che a più riprese sarebbero transitati da febbraio '79 e fino al periodo successivo alla strage anche agli organizzatori e ai depistatori. Subito dopo la chiusura dell’indagini sui presunti mandati della strage di Bologna, era emersa una traccia di un flusso di 5 milioni di dollari che sarebbero stati utilizzati per finanziare i terroristi che piazzarono la bomba alla stazione provocando 85 morti e oltre 200 feriti. Oggi dalle carte dell’inchiesta, depositate dalla procura generale di Bologna, emerge secondo quanto riporta l’Ansa che un milione di dollari in contanti sarebbe stato consegnato ad alcuni dei Nar già condannati in via definitiva. Soldi che arrivavano dai conti svizzeri di Licio Gelli e che facevano parte di una fetta più ampia di cinque milioni di dollari – o forse anche maggiore – che a più riprese sarebbero transitati da febbraio ’79 e fino al periodo successivo alla strage anche agli organizzatori e ai depistatori. Gli inquirenti hanno chiesto il rinvio a giudizio per Paolo Bellini, ex di Avanguardia Nazionale, accusato di concorso nella strage del 2 agosto 1980. L’inchiesta si è concentrata soprattutto sulle ‘menti dietro la bomba, individuando in Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, tutti già deceduti, come mandanti, finanziatori o organizzatori dell’attentato. Gi inquirenti hanno scoperto che nei giorni immediatamente precedenti la strage Licio Gelli, un suo factotum e alcuni degli esecutori si trovavano nella stessa località. Gelli, o un suo emissario secondo i magistrati, avrebbero consegnato il milione di dollari in contanti agli attentatori. Un’altra parte di quei cinque milioni, circa 850mila dollari, finì invece a D’Amato, ex capo dell’Ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno, che secondo l’ipotesi investigativa teneva i contatti con la destra eversiva tramite Stefano Delle Chiaie, capo di Avanguardia nazionale. E ancora un’altra fetta di quel denaro sarebbe servita invece a finanziare il depistaggio a mezzo stampa. In particolare, la Procura generale ritiene che una somma andò a Mario Tedeschi, ex senatore del Msi iscritto alla P2 e direttore del settimanale "Il Borghese", perché portasse avanti una campagna sul suo giornale avallando l’ipotesi della "pista internazionale" dietro la strage. Dalla movimentazione dei conti bancari, in particolare dal conto ‘Bologna’ riferibile al capo della P2 Licio Gelli, e di altri due, “possiamo dire che l’operazione eversiva sfociata nel 2 agosto 1980, è stata agita da uomini della P2 e dello Stato e ha avuto un anticipo economico tra il 16 febbraio 1979 e il 30 luglio 1980, tre giorni prima della Strage, e un saldo economico che inizia a sedimentarsi a partire dal 22 agosto 1980” aveva spiegato qualche giorno fa l’avvocato Andrea Speranzoni, difensore dei familiari di parte civile, spiegando che l’inchiesta della Procura generale di Bologna, che ha individuato nel Capo della P2 morto nel 2015, avrebbe ricostruito con precisione i finanziamenti all’attentato. “L’originale del documento ‘Bologna’, sequestrato a Licio Gelli nel momento dell’arresto nel 1982”, ha detto ancora, “è stato ritrovato all’archivio di Stato di Milano, nel portafogli sequestrato allo stesso Gelli. Il lavoro della Guardia di Finanza e della Digos è giunto a comprendere come e perché questo documento è stato inabissato”. “Il lavoro fatto dalla Procura generale – ha proseguito l’avvocato Speranzoni – sugli atti del crac del Banco Ambrosiano ha consentito di capire cose che all’epoca non erano state correttamente comprese in quel processo”. Inoltre, dagli atti “sappiamo anche che preventivamente ci sono stati depistaggi orchestrati dal Sismi, in parte anche al centro di questi finanziamenti. Elementi che ci dicono che la pista cosiddetta palestinese e la figura di Carlos sono stati introdotti preventivamente alla perpetrazione della Strage”. Infine, un altro aspetto importante che emerge dalla nuova inchiesta è “la non contraddizione sulla compartecipazione di uomini dei Nar, di Terza Posizione e di Avanguardia Nazionale nel progetto stragista del 1980. Sui primi due gruppi abbiamo le sentenze passate in giudicato, sul terzo abbiamo elementi che ci parlano di piena rispondenza, fra soggetti, che ci fa ben capire la saldatura tra i vecchi gruppi eversivi e una generazione che aveva 10-15 anni in meno e che fu protagonista dei fatti del 1980″. In definitiva, per il collegio di parte civile, “è un’indagine soddisfacente, meticolosa, non ancora conclusa perché c’è un secondo filone in corso, ma che dà al puzzle i pezzi fondamentali che fino ad oggi mancavano”. Intanto è atteso per il 7 settembre il deposito delle motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo dell’ex Nar, Gilberto Cavallini.
Strage di Bologna, false piste estere pagate da Gelli per favorire i Nar. Tangenti della P2 a politici e giornalisti per screditare le indagini sui terroristi neofascisti. E dopo la bomba, una raffica di omicidi di magistrati, poliziotti e camerati che sapevano troppo. Quarant'anni dopo l'eccidio del 2 agosto 1980, ecco i verbali della nuova inchiesta sui mandanti. Paolo Biondani il 30 luglio 2020 su L'Espresso. La strage nera più spaventosa e inconfessabile. La raffica di omicidi degli eroi civili, magistrati e poliziotti che per primi hanno osato indagare sui terroristi di destra. Le uccisioni di stampo mafioso dei camerati che si opponevano alla deriva stragista dei Nar. Le inchieste di Giovanni Falcone sui delitti politici di Cosa Nostra e sugli stessi killer neri. I soldi sporchi della P2, rubati al Banco Ambrosiano. Gli incontri di Licio Gelli con i neofascisti alleati della Banda della Magliana. Le coperture sistematiche dei servizi segreti deviati. Il covo affittato dai latitanti dei Nar nello stesso misterioso appartamento usato dai capi delle Brigate rosse nei giorni del sequestro Moro. E le false piste estere inventate per screditare le indagini contro i terroristi neri. Menzogne prefabbricate ancora prima della strage. Con dossier pagati dal capo della P2. Compresa l’ultima fantomatica “pista palestinese”, che oggi risulta orchestrata, come quella libanese e tutte le altre, dagli stessi generali piduisti del Sismi già condannati in via definitiva per i depistaggi più esplosivi. Quarant’anni dopo l’eccidio del 2 agosto 1980, il più grave attentato terroristico della storia dell’Italia repubblicana (85 vittime), il muro del silenzio comincia a sgretolarsi. Generali dei servizi, ex gladiatori e neofascisti cominciano a rivelare i segreti della strage di Bologna, raccontati anche dall’interno del fronte nero. Con testimonianze dirette sui rapporti con la P2 e i servizi deviati. E sullo scontro mortale tra terroristi di destra che ha preceduto la strage. Ed è il vero movente di una catena di omicidi di ex amici: camerati che sapevano troppo.
I colpevoli della strage di Bologna. Quel 2 agosto la bomba provocò 85 morti. È l’unico attentato di cui la magistratura ha accertato gli esecutori e gli autori dei depistaggi. Che però sono continuati fino a oggi. Miguel Gotor il 20 luglio 2020 su L'Espresso. Al disastro di Ustica del 27 giugno 1980 seguì la strage di Bologna, il 2 agosto successivo. Tra i due tragici eventi trascorsero trentacinque giorni incerti e sospesi, scanditi dalle note sdolcinate di Alan Sorrenti («non so che darei per fermare il tempo») che vibravano nell’aria afosa di luglio. La bomba di Bologna costituisce un’eccezione nel panorama dello stragismo italiano dal 25 aprile 1969 in poi perché è l’unico attentato di cui la magistratura è riuscita ad accertare sia la responsabilità degli esecutori materiali (i neofascisti dei Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini, Luigi Ciavardini, che pure continuano a professarsi innocenti) sia il ruolo svolto da un secondo livello “cerniera”, formato da quanti, tra i servizi segreti militari, infiltrati dalla loggia massonica P2, hanno depistato le indagini con lo scopo di coprire i responsabili dell’inaudito crimine. Nel 1995, infatti, sono stati condannati con sentenza definitiva «in ordine al delitto di calunnia, aggravato dalla finalità di eversione dell’ordinamento democratico e di assicurare l’impunità degli autori della strage della stazione di Bologna» il capo della P2 Licio Gelli (10 anni), il generale del Sismi e affiliato alla P2 Pietro Musumeci (8 anni e 5 mesi), il colonnello del Sismi Giuseppe Belmonte (7 anni e 11 mesi) e il collaboratore civile del servizio militare Francesco Pazienza (10 anni), questi ultimi due anche loro massoni ma non piduisti. Secondo la Corte d’assise di Roma tali azioni depistanti sono avvenute con la connivenza del responsabile dei servizi militari di allora, il generale Giuseppe Santovito, anche lui iscritto alla P2, arrestato nel dicembre 1983, ma prematuramente scomparso due mesi dopo a causa di una crisi di cirrosi epatica di cui soffriva. È interessante notare un italico paradosso. Nell’unico caso in cui si è registrata una duplice condanna sia degli esecutori materiali sia dei depistatori della strage si è sviluppata una parallela campagna d’opinione volta a ridiscutere questa verità giudiziaria faticosamente acquisita. Nonostante le prove raccolte abbiano superato il vaglio di oltre un centinaio di diversi magistrati, togati e popolari, e abbiano retto in tutti i gradi di giudizio oltre ogni ragionevole dubbio, ciò non è bastato ad arrestare il continuo zampillare di teorie alternative, dubbi e petizioni innocentiste. Anzi, lo ha alimentato. Tale atteggiamento, certamente condizionato dal fatto che i giudici hanno attestato per la prima volta l’azione di infiltrazione e di condizionamento della P2 ai massimi livelli dello Stato, sembra rivelare un dato di fondo della società italiana, ossia il suo continuo oscillare tra attese salvifiche affidate all’azione della magistratura, che alimentano una diffusa cultura giustizialista, e il profondo scetticismo sul suo agire quando essa riesce a giungere a sentenza secondo le regole proprie di uno Stato di diritto. A integrazione e completamento di questo primo processo per depistaggio se ne è svolto in anni più recenti un secondo in cui sono stati imputati il capocentro del Sismi di Firenze Federico Mannucci Benincasa e l’esponente dei Nar Massimo Carminati, i quali sono stati condannati in primo grado nel 2000 e assolti nei successivi gradi di giudizio nel 2001 e nel 2003. Concretamente in cosa è consistito il primo depistaggio giudiziariamente accertato nel 1995? Nel gennaio 1981, a seguito di una segnalazione del Sismi, nell’ambito di un’operazione denominata “Terrore sui treni” i condannati fecero ritrovare in un vagone dell’espresso Taranto-Milano, una valigia con esplosivo dello stesso tipo di quello utilizzato a Bologna, insieme con armi e oggetti personali attribuibili a due estremisti di destra, uno tedesco e l’altro francese. La sentenza di primo grado del secondo processo per depistaggio avrebbe accertato che il mitra Mab, con il numero di matricola abraso e il calcio rifatto artigianalmente, fatto ritrovare nello scompartimento del treno dagli agenti segreti, era stato prelevato da un deposito di armi presso il ministero della Sanità custodito dalla banda della Magliana. Nonostante le univoche testimonianze dei neofascisti Sergio Calore e Paolo Aleandri e dal delinquente comune Maurizio Abbatino che avrebbero riconosciuto il mitra, il primo verdetto non ha retto sul punto negli altri due gradi di giudizio. Ovviamente, il concetto di «servizi deviati» appare del tutto insufficiente a descrivere quanto è avvenuto perché stiamo parlando dei vertici istituzionali della struttura, nominati nel gennaio 1978 dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, con il placet del presidente della Repubblica Giovanni Leone, e confermati nel loro ruolo anche dopo il sequestro e la morte di Aldo Moro dal nuovo premier Francesco Cossiga e dal capo dello Stato Sandro Pertini. Non sappiamo se Santovito e Musumeci, nonostante l’umiliazione subita dall’Italia nella primavera 1978, furono conservati nei loro posti in ragione di una riconosciuta professionalità o perché avevano validi argomenti per essere ritenuti degli intoccabili dai vertici politico-istituzionali dello Stato. Le ragioni che spinsero il numero uno e il numero due dei servizi militari a compiere un depistaggio tanto importante a rischio e pericolo della propria libertà personale, della carriera e della stessa reputazione - come del resto è avvenuto - sono molteplici e stratificate e meritevoli di essere comprese nelle loro effettive dinamiche.
Il primo scopo del depistaggio fu quello di coprire la responsabilità dei Nar, ossia degli esecutori materiali della strage e, più in generale, di quella galassia neofascista con cui è stato accertato in diversi processi quei servizi avevano relazioni di infiltrazione e un consueto atteggiamento impostato sul laissez-faire. Basti pensare che Fioravanti, secondo quanto attestato dal magistrato Vito Zincani, durante il servizio militare, svolto nel 1978, aveva rubato due casse contenenti 144 bombe Srcm, utilizzate dai Nar per compiere attentati dinamitardi a Roma, tra cui uno alla sezione del Pci dell’Esquilino, nel giugno 1979, in cui si era sfiorata una vera e propria strage. Nonostante sia stato accertato che i servizi segreti fossero al corrente che gli autori del furto erano stati il sottotenente Fioravanti e Alessandro Alibrandi, figlio di un alto magistrato del tribunale di Roma, nulla si fece per rintracciare le bombe e identificare gli autori di quegli attentati prima che avvenissero. Peraltro il problema per i servizi militari era acuito dal fatto che su questa composita galassia neofascista la magistratura, sin dal 28 agosto 1980, aveva riservato le sue attenzioni imboccando la pista giusta. Coprire i Nar, dunque, significava anzitutto occultare questi legami imbarazzanti con quel mondo che si erano sviluppati nel corso degli anni Settanta.
Una seconda ragione, strettamente collegata alla precedente, riguardava la necessità di mandare un messaggio tranquillizzante al criminologo Aldo Semerari, detenuto in quei mesi con l’accusa di essere coinvolto nella strage di Bologna, il quale stava dando segnali di improvviso cedimento e collaborazione con gli inquirenti. L’illustre cattedratico, di simpatie filo-naziste, autore di compiacenti perizie mediche in favore degli esponenti della Banda della Magliana, era anche lui piduista e con strette relazioni sia con i servizi militari italiani sia con quelli libici essendo un grande ammiratore di Mu’ammar Gheddafi che aveva incontrato nella primavera 1980 a Tripoli. Nella clinica privata ove lavorava, Villa Mafalda, ospitava regolarmente e in modo anonimo esponenti del regime libico bisognosi di cure mediche. La sistemazione nella valigia contenente l’esplosivo di un mitra di marca Mab, da Semerari conosciuto e riconoscibile, serviva a fargli arrivare la notizia che, anche grazie all’impegno di soggetti a lui vicini politicamente, si stavano ponendo in essere atti di depistaggio per sviare le indagini degli inquirenti bolognesi e facilitarne l’uscita di prigione.
In terzo luogo, si scelse di inventare a tavolino una pista internazionale provando ad attribuire la strage alla galassia neofascista e neonazista franco-tedesca - il gruppo neonazista Wehrsportgruppe Hoffmann (Wsg) e la Fédération d’Action Nationaliste et Européenne (Fane) - con la speranza di riuscire a fare coincidere i mandanti e gli esecutori materiali dell’attentato così da cancellare il ruolo dei Nar. Del resto, secondo la testimonianza dell’alto funzionario del Sisde Elio Cioppa, anche lui iscritto alla P2, proprio questo fu il suggerimento che Gelli gli aveva dato nei primi mesi delle indagini su Bologna: «mi disse che avevamo sbagliato tutto e che gli autori dell’attentato dovevano essere ricercati in campo internazionale», come da lì in poi sarebbe avvenuto.
Coerentemente con questo assunto gli stessi ambienti del Sismi, si prodigarono con il medesimo scopo ad accreditare una sedicente pista libanese rivelatasi poi inconsistente. Successivamente si sarebbero impegnati con straordinaria energia ad attribuire le responsabilità della strage di Bologna ai palestinesi e/o al gruppo di Carlos, una chiave di lettura che non ha avuto esiti giudiziari apprezzabili, ma è comunque servita a rinfocolare lo scetticismo dell’opinione pubblica sugli esiti giudiziari conseguiti. La tecnica depistante, già messa in pratica ai tempi della strategia della tensione, tra il 1969 e il 1974, era sempre uguale e ormai ben oliata: bisognava fabbricare le prove per false direzioni investigative, all’interno delle quali si mescolavano però elementi autentici o suggestivi in funzione di esche attrattive per raggiungere l’obiettivo minimo di costringere la magistratura inquirente a lunghe e defatiganti inchieste che, comunque, la distraessero dalla sua attività investigativa principale. Contestualmente, occorreva intossicare la stampa e l’opinione pubblica, sviluppando relazioni con giornalisti collaborativi per screditare alcune tesi e metterne in circolazione delle altre. I depistaggi, infatti, hanno una funzione di inquinamento spesso sottovalutata, ma preziosa per i loro autori e sempre pagante. In ogni caso una falsa pista, se ben accreditata, può portare un ufficio giudiziario a impegnare intelligenze, risorse e mezzi per svariati anni, fosse soltanto per riconoscerla e smontarla. Un quarto livello, si direbbe il più importante, fu quello di provare a impedire che, al netto della manovalanza implicata, si identificasse un movente e dei mandanti della strage come se scoppi di violenza così inauditi, raffinati e ripetuti nel tempo non avessero un’intelligenza organizzata alle spalle. Su questo piano i depistaggi hanno stravinto perché per uno che è stato accertato e punito in modo esemplare, almeno una decina di altri hanno prodotto i loro effetti di sviamento e di rallentamento delle inchieste senza che fossero individuati e sanzionati i loro autori. Se ancora quarant’anni dopo continuiamo a ripeterci la solita «canzone dalle domande consuete» e «siamo ancora qui a domandarci e far finta di niente come se il tempo passato e il tempo presente non avessero stessa amarezza di sale» come una qualsiasi canzone di Francesco Guccini, vuol dire che la tecnica depistatoria e disinformativa, di cui abbiamo provato a delineare l’anatomia, ha lavorato con sorprendente efficacia incrociando l’orizzonte d’attesa di una parte significativa dell’opinione pubblica nazionale. Con l’obiettivo supremo di coprire i veri committenti della strage che, secondo una serie di testimonianze convergenti altamente qualificate e coeve ai fatti, come quella del più volte ministro democristiano Giuseppe Zamberletti, dell’allora ministro dell’Industria Antonio Bisaglia, del prefetto Bruno Rozera e degli stessi Pazienza e Santovito autori del depistaggio di copertura, andavano individuati nella Libia. Proprio per questo motivo i mandanti andavano nascosti al massimo livello in ragione degli ingenti interessi pretroliferi, industriali e commerciali che l’Italia aveva storicamente stretto con quel Paese, i quali erano entrati pericolosamente in crisi dopo l’eliminazione di Moro e la fine del governo Andreotti che di quel campo di relazioni erano stati gli artefici e i garanti.
Costruzione di una strage. Muratori neofascisti al servizio dei massoni. Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 2 agosto 2020. Chi non c' era, deve sapere. Chi era troppo piccolo per capire, deve sforzarsi di farlo. Chi c' era ma ha perso il filo della memoria, anche. Tramortiti da bugie, segreti e depistaggi, dopo quarant' anni rischiamo di non accorgerci che della strage alla stazione di Bologna, la più cruenta della Repubblica, sappiamo non tutto, ma quanto basta. È tutta questione di connessioni. Di contesto, direbbe Leonardo Sciascia. L' eco plumbea degli Anni 70 non ha esaurito la sua carica di violenza. Nei primi mesi del 1980 vengono uccisi Mattarella, Bachelet, Galli, Walter Tobagi. A fine giugno la strage di Ustica. Il 2 agosto è sabato. Primo giorno di ferie per parlamentari e operai. Alla stazione di Bologna i treni sono in ritardo.
Alle 10,25 un' esplosione distrugge l' intera ala sinistra della stazione, le sale d' aspetto di prima e seconda classe, gli uffici dell' azienda di ristorazione al piano superiore e parte della pensilina, investendo anche il treno Ancona-Chiasso in sosta sul primo binario e i taxi parcheggiati sul piazzale. Tutte le ambulanze della città non bastano per trasportare gli oltre 200 feriti. Quanto agli 85 morti, come carro funebre viene usato anche l' autobus della linea 37. Si pensa a una caldaia, per ore. Nel pomeriggio arriva il presidente della Repubblica Sandro Pertini. Alle due di notte Bruno Vespa, inviato del Tg1, parla di una bomba mentre si estrae delle macerie l' ottantacinquesimo morto. C' è strage e strage, sul piano criminologico. Questa è roba da professionisti, politica e senza rivendicazione. Chi deve capire, non ne ha bisogno. Le indagini prendono subito la pista nera.
Fra il 1975 e il 1980 l' estrema destra è responsabile di tremila degli 8400 attentati contro cose o persone in Italia e uccide 115 delle 270 vittime del terrorismo. Il giudice Mario Amato è uno di loro. Ucciso con 32 colpi di pistola 40 giorni prima della strage di Bologna dopo aver detto al Consiglio superiore della magistratura: «Siamo sull' orlo della guerra civile». Condannati per il suo omicidio come per la strage Giuseppe Valerio Fioravanti, la fidanzata e futura moglie Francesca Mambro (raccontano di aver festeggiato l' uccisione di Amato a ostriche e champagne), Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini. Condanne definitive tranne quella di Cavallini per la strage, in primo grado. Lo storico Miguel Gotor usa una metafora. Dice che una strage è come una casa. Per realizzarla servono operai, geometri, ingegneri, uno o più committenti. Per la giustizia italiana, i Nar sono gli operai della strage alla stazione di Bologna. Forse non gli unici, ma questo non si sa. In compenso, le sentenze definitive non si fermano al primo livello.
Condannano per depistaggio anche i geometri, secondo la metafora di Gotor: due alti esponenti del servizio segreto militare, il faccendiere Francesco Pazienza e soprattutto Licio Gelli, capo della loggia massonica segreta P2. «Avevamo l' Italia in mano», dirà Gelli nel 2008. Ma la ricerca della verità non si ferma. E la caccia agli ingegneri della strage riparte negli ultimi anni. Accade grazie a tre circostanze singolari: la determinazione e la lucidità dell' associazione parenti delle vittime, la digitalizzazione degli archivi sulle stragi, l' avocazione dell' inchiesta da parte della Procura generale di Bologna, che la tratta come se la strage fosse avvenuta ieri. Mette al lavoro la Guardia di finanza, convoca e riconvoca i testimoni, li intercetta prima e dopo per valutarne attendibilità e contraddizioni. Fa, come dice l' avvocato di parte civile Andrea Speranzoni, «l' indagine che aspettavamo da quarant' anni». Si scoprono due documenti di Gelli, uno dei quali con l' intestazione «Bologna» mai visto prima perché, fotocopiato dopo il sequestro nel 1982, era stato piegato in modo tale da nasconderla. Dai documenti emergono pagamenti di Gelli, con fondi arrivati dal Banco Ambrosiano, per diversi milioni di dollari prima e dopo la strage. Beneficiari, sospettano i magistrati, in parte i neofascisti dei Nar, in parte Federico Umberto D' Amato, alto funzionario del Viminale, piduista, protagonista della strategia della tensione dai tempi della strage di piazza Fontana. La storia è ricostruita minuziosamente nel libro L' oro di Gelli (Castelvecchi) da Roberto Scardova. Che traccia questa ipotesi: Gelli, D' Amato e altri personaggi degli apparati di sicurezza non sono solo geometri, ma anche ingegneri della strage. Non si sono limitati a depistare e proteggere i terroristi, ma li hanno finanziati, organizzati, indirizzati, istigati. Se così fosse, esisterebbe una continuità tra il primo e il secondo tempo dello stragismo nero, per provocare uno spostamento dell' equilibrio politico del Paese. Dieci anni prima, ai tempi di piazza Fontana, l' obiettivo era scongiurare l' avanzata comunista. All' alba degli Anni 80, l' obiettivo era un più sottile controllo dello Stato dall' interno (politica, magistratura, apparati di sicurezza, mass media) mantenendo una vernice democratica ma imbrigliando le spinte progressiste. Lo spiega l' ex magistrato Claudio Nunziata nel libro L' Italia delle stragi (Donzelli). La deputata democristiana Tina Anselmi, presidente della commissione parlamentare sulla P2, conierà la definizione «golpe strisciante». La tesi ha una sua verosimiglianza storica, il processo dirà se anche una certezza giudiziaria. I magistrati di Bologna, oltre a interpellare il figlio di Calvi, hanno recuperato un altro episodio. Nell' ottobre del 1987 l' avvocato di Gelli, il professor Fabio Dean, chiede un colloquio col capo della Polizia, Vincenzo Parisi. Ricevuto da un funzionario, chiede per Gelli un trattamento penitenziario privilegiato paventando che, «se la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli, allora quei pochi che ha li tirerà fuori tutti». Artigli da ingegnere, non da geometra, secondo la Procura generale di Bologna. Molti dei protagonisti - Gelli in primis, nel 2015 - sono morti. Altri no. Questo consente alla magistratura di proseguire le indagini. Giuseppe Valerio Fioravanti è stato condannato a otto ergastoli, 134 anni e 8 mesi di reclusione per diversi reati. Arrestato nel 1981, primi permessi premio nel 1998. Nel 1999 l' ammissione al lavoro esterno al carcere, nel 2001 la semilibertà, nel 2004 la liberazione condizionale, beneficio previsto anche per i condannati all' ergastolo che abbiano tenuto «un comportamento tale da farne ritenere sicuro il ravvedimento». Cinque anni di prova, senza rientrare in carcere nemmeno la notte, al termine dei quali la pena viene dichiarata «estinta». Dal 2009 la pena è estinta. Francesca Mambro è stata condannata a nove ergastoli, 84 anni e 8 mesi di reclusione per diversi reati. Arrestata nel 1982, primo permesso premio nel 1997. Nel 1998 ammessa al lavoro esterno presso l' associazione «Nessuno tocchi Caino», che si batte contro la pena di morte. Nel 2002, dopo un periodo di sospensione dell' esecuzione della pena per gravidanza e maternità, le viene concessa la detenzione domiciliare speciale e nel 2009 ottenne la libertà condizionale. Dal 2013 la pena è estinta, per la Cassazione «il ravvedimento è presente». Hanno confessato molti delitti, non la strage. Oggi sono liberi. La vittima più anziana della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, la più cruenta della Repubblica, era Antonio Montanari, 86 anni mezzadro in pensione. Sposato da 60 anni, due figli. Amava giocare a briscola e leggere i fumetti. Quella mattina era andato a informarsi sugli orari delle corriere e stava ritornando a casa. Perse l' autobus per un soffio e riparò sotto i portici per aspettare il successivo. Prima di morire in ospedale ebbe la forza di dire al figlio: «Ho fatto la prima guerra mondiale, durante la seconda la nostra casa era sulla linea del fronte e me la sono cavata. Vado a prendere una bomba in tempo di pace». Altro che non si sa niente. Si sa, si sa.
Strage di Bologna, rispunta Licio Gelli: “E’ lui il mandante”. Il Dubbio l'11 febbraio 2020. Secondo la procura generale, ci sarebbe la loggia massonica P2 dietro la bomba del 1980 alla stazione di Bologna. La Procura generale di Bologna ha chiuso la nuova inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980 e ha notificato quattro avvisi di fine indagine. Secondo l’indagine, l’esecutore sarebbe l’ex primula nera di Avanguardia Nazionale, Paolo Bellini. A concorrere come mandanti, finanziatori o organizzatori, il “venerabile” della P2 Licio Gelli, l’imprenditore e piduista Umberto Ortolani (considerato la vera “mente” della loggia P2, avendo favorito lo sviluppo degli affari di Licio Gelli in Sud America e con il Vaticano, tramite l’Istituto per le Opere di Religione di monsignor Marcinkus), l’ex prefetto e agente segreto del Ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato e il giornalista iscritto alla P2 ed ex senatore dell’Msi, Mario Tedeschi. I quattro, tutti appartenenti alla loggia massonica P2, sono deceduti. Secondo la ricostruzione della Procura generale, l’esecutore Bellini avrebbe agito in concorso con gli ordinovisti Fioravanti, Mambro e Ciavardini, già condannati in via definitiva come esecutori della strage alla stazione di Bologna. Gli altri tre avvisi di fine indagini sono stati notificati all’ex generale dei servizi segreti Quintino Spella e a Piergiorgio Segatel, ex carabiniere del nucleo investigativo di Genova: ad entrambi si contesta il reato di depistaggio. Avviso di fine indagine, infine, anche per Domenico Catracchia, amministratore di condominio di immobili in via Gradoli 96 a Roma, dove abitarono durante il sequestro Moro i leader delle Brigate Rosse Mario Moretti e Barbara Balzerani, per il quale si ipotizza il reato di false informazioni al pubblico ministero. Il reato sarebbe stato commesso quando è stato sentito in qualità di persona informata sui fatti dai magistrati della Procura Generale. In particolare, «al fine di ostacolare le investigazioni in corso», Catracchia avrebbe mentito, negando di avere locato un appartamento tra settembre e novembre 1981 e di essere stato «reticente, rifiutandosi di spiegare le modalità e le ragioni per cui il dott. Vincenzo Parisi, alto funzionario di Pubblica Sicurezza e poi vice direttore del Sisde, “si serviva di tutta l’agenzia” dello stesso Catracchia e, comunque, di dare contenuto esplicativo a della circostanza». Licio Gelli e Umberto Ortolani sono ritenuti dai Pg di Bologna mandanti-finanziatori; Federico Umberto D’Amato mandante-organizzatore e Tedeschi organizzatore per aver coadiuvato D’Amato nella gestione mediatica della strage, preparatoria e successiva, nonchè nell’attività di depistaggio delle indagini. La Procura generale di Bologna aveva avocato a sè l’inchiesta sui mandanti nell’ottobre del 2017 dopo che la Procura ordinaria aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo. L’inchiesta era partita da una corposa memoria difensiva presentata alla procura di Bologna dai legali dell’Associazione dei familiari delle vittime del 2 Agosto. “Sono passati 40 anni, forse se ne potevano risparmiare 10-15 – ha commentato Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime – Ora speriamo che si possa mettere le mani sui mandanti fino in fondo. Bisognerà leggere i documenti, valutare, vedere e questo sarà compito degli avvocati. Mi fa piacere che possa avere efficacia la legge sul depistaggio che ho voluto quando ero in Parlamento”.
Strage di Bologna, processo ai mandanti: Bellini tra gli esecutori per conto di Licio Gelli. "Flussi di denaro milionari" verso i Nar. La "primula nera" accusata di concorso in strage. Altri tre (Spella, Segatel e Cadracchia) di depistaggio. I presunti finanziatori e organizzatori Gelli, Ortolani, D'Amato e Tedeschi sono già deceduti. Bolognesi (associazione famigliari vittime): "Si potevano risparmiare 15 anni". Giueseppe Baldessarro l'11 febbraio 2020 su La Repubblica. Sono quattro gli avvisi di conclusione indagine notificati questa mattina dalla Procura generale di Bologna nell’ambito dell’inchiesta sui finanziatori e sui mandanti della strage del 2 Agosto 1980, costata la vita a 85 persone e il ferimento di oltre 200. In un caso viene contestato il concorso in strage, in altri tre il reato di depistaggio. Nello stesso provvedimento affiorano poi anche i nomi dei mandanti che però sono tutti già deceduti, circostanza che spingerà i magistrati a chiedere l’archiviazione di alcune posizioni per “morte del reo”. Di aver concorso alla strage è accusato Paolo Bellini, 63 anni, di Reggio Emilia. Il nome dell’ex primula nera di Avanguardia Nazionale e informatore dei servizi è entrato nel fascicolo lo scorso maggio, quando il gip, Francesca Zavaglia ha accolto la richiesta di revocare il proscioglimento che era stato deciso nel 1992. Bellini avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D'Amato e Mario Tedeschi, questi quattro tutti deceduti e ritenuti mandanti, finanziatori o organizzatori, oltre che i concorso con i Nar già condannati. Flussi di denaro per alcuni milioni di dollari movimentati e, attraverso varie e complesse operazioni, partiti sostanzialmente da conti riconducibili a Licio Gelli e Umberto Ortolani e alla fine destinati, indirettamente, al gruppo dei Nar e a coloro che sono indicati come organizzatori, Federico Umberto D'Amato e Mario Tedeschi. Il giro di denaro è stato ricostruito dall'indagine della Guardia di Finanza di Bologna, nell'ambito dell'inchiesta della Procura generale sulla Strage del 2 agosto 1980. Per i magistrati ci sono elementi che attribuirebbero a Bellini un ruolo nell’attentato. Le indagini hanno portato alla luce un video amatoriale Super 8 (girato in stazione a Bologna da un turista straniero il 2 agosto su cui gli investigatori hanno disposto una perizia antropometrica) in cui sarebbe apparso un uomo con le fattezze dell’ex estremista di destra. Oltre a Bellini nel mirino degli inquirenti è poi finito anche l’ex generale dei servizi segreti di Padova, Quintino Spella (oggi novantenne), con l’accusa di depistaggio. Il militare, interrogato come testimone, avrebbe negato di aver ricevuto nel luglio 1980 dal giudice Tamburino le rivelazioni dell'ex terrorista nero Luigi Vettore Presili che aveva annunciato la strage. Indagato per depistaggio anche Piergiorgio Segatel, ex carabinierie del Nucleo investigativo di Genova, nel 1980. Nei guai, sempre per aver ostacolato le indagini, Domenica Cadracchia, responsabile delle società, legati ai servizi segreti che affittavano gli appartamenti di Via Gradoli, nei quali nel 1981 trovarono rifugio alcuni appartenenti ai Nar. Il lavoro dei finanzieri si è concentrato in parte sull'analisi di documentazione bancaria, poi su rogatorie con la Svizzera - alcune rimaste senza risposta - ma anche su carte sequestrate all'epoca e soprattutto ha preso spunto dal fascicolo del processo sul crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, consegnato agli inquirenti dagli avvocati dei familiari delle vittime. In particolare all'interno del fascicolo c'è un atto chiamato "documento Bologna", sequestrato nel 1982 a Gelli, capo della loggia P2, morto a dicembre 2015, quando fu arrestato in Svizzera: un manoscritto con intestazione "Bologna - 525779 - X.S.", con il numero corrispondente ad un conto corrente acceso alla Ubs di Ginevra dallo stesso Gelli. Un documento le cui informazioni sono state collegate con altre. Proprio sulla base della data in cui si ritiene che sia partita la prima movimentazione del denaro, cioè a febbraio 1979, la Procura generale ha inserito nelle imputazioni il momento di inizio della condotta preparatoria all'attentato: febbraio 1979, appunto, "in località imprecisata". Il sindaco di Bologna Virginio Merola ha annunciato che, in caso di processo, il Comune di Bologna si costituirà parte civile. Nel corso delle indagini, condotte dalla Guardia di Finanza, dalla Digos e in una fase inziale anche dal Ros, la Procura generale ha analizzato documenti provenienti da diversi processi e sentito decine di testimoni. L’inchiesta nasce da una corposa memoria difensiva presentata alla procura di Bologna dai legali dell’Associazione dei familiari delle vittime del 2 Agosto. In una prima fase la Procura aveva chiesto l’archiviazione a cui si erano opposte le parti civili. A quel punto è subentrata la Procura generale avocando l’inchiesta che proprio oggi ha portato alla notifica della conclusione delle indagini. Il pool di pm (coordinato dal procuratore generale Ignazio De Francisci e composto dall’avvocato generale Alberto Candi e dai sostituti Nicola Porro e Umberto Palma) ha scandagliato conti cifrati svizzeri e i movimenti bancari riconducibili al capo della P2 Licio Gelli (già deceduto). In questo contesto sarebbero venuti fuori i flussi di denaro che dagli Usa arrivavano al “venerabile” e da questi ad esponenti di vertice dell’eversione nera collegati ai Nar. Il 9 gennaio scorso, la Corte d’Assise di Bologna aveva già condannato all’ergastolo per concorso in strage, l’ex terrorista del Nar Gilberto Cavallini.
Bolognesi (Famigliari vittime): "Si potevano risparmiare 15 anni". L'esito delle indagini della Procura generale di Bologna "è nella direzione dei documenti che avevamo predisposto noi per la Procura. Il problema è che sono passati 40 anni, forse se ne potevano risparmiare 10-15", commenta Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime. "Ora speriamo che si possa mettere le mani sui mandanti fino in fondo. Bisognerà leggere i documenti, valutare, vedere e questo sarà compito degli avvocati. Mi fa piacere che possa avere efficacia la legge sul depistaggio che ho voluto quando ero in Parlamento", aggiunge. "Esprimiamo soddisfazione per l'indagine condotta in maniera ineccepibile e attenta dalla procura generale. L'addebito provvisorio a Paolo Bellini ce lo aspettavamo e ora abbiamo la conferma. L'ipotizzato concorso in strage di Gelli, Ortolani, D'Amato e Tedeschi è una novità assoluta che ci fa ritenere che questo processo possa cambiare la storia di questo paese". Lo dice l'avvocato Andrea Speranzoni, per conto dei familiari delle vittime della Strage del 2 agosto 1980.
· Una Strage Fascista?
Chi ha compiuto la strage di Bologna? Scontro in Aula. Frassinetti (FdI) nega la matrice neofascista: il centrosinistra insorge, ma tanti studiosi seguono piste alternative, scrive il 2 agosto 2018 "In Terris". La Camera dei Deputati si è trasformata stamattina in qualcosa di simile a un saloon del far west. Ad accendere la miccia dello scontro, dopo il minuto di silenzio per ricordare le vittime della strage di Bologna, l'intervento della deputata Paola Frassinetti (FdI), la quale si è fatta interprete di un sentimento diffuso presso molti storici, giornalisti e gente comune, ossia che la matrice neofascista dell'attentato sia per nulla scontata, nonostante le sentenze passate in giudicato. Secondo l'onorevole, “la verità non s’è ancora affermata. I veri colpevoli non sono stati ancora condannati. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che i giudici a Bologna sono sempre stati prigionieri di logiche idelogiche-giudiziarie con lo scopo non di ricercare la verità ma di riuscire, a tutti i costi, ad arrivare alla conclusione che la matrice fosse nera per ragione di Stato”. E ancora ha proseguito la deputata di FdI: "Bisognerebbe avere lo stesso coraggio del presidente Cossiga quando nel 1991 ebbe l'onestà di ammettere che si era sbagliato e che la strage non era addebitabile ad ambienti di estrema destra chiedendo anche scusa".
I tumulti in Aula. Dai banchi di Pd e Leu le parole sono apparse come un'eresia. Fin da subito molti deputati hanno reagito con urla e strepiti. Ha preso la parola Pier Luigi Bersani, ex segretario del Pd e oggi deputato Leu, il quale ha ricordato che le stragi non riuscirono a privare l'Italia della democrazia. “Attorno a noi c’erano solo bombe – ha concluso tra gli applausi del centrosinistra – ma quegli attentati non riuscirono a portarci dove volevano”. L'intervento di Bersani ha però accentuato lo scontro. Giovanni Donzelli (FdI) ha fatto un accorato discorso rivolto al deputato di Leu. “Se qualcuno pensa che c’è una forza democraticamente eletta che ha causato le stragi deve dirlo, sarebbe come se io accusassi la forza politica di Bersani di aver rapito Moro”, ha attaccato Donzelli, scatenando ulteriori polemiche. Sulla vicenda, intervistato dall'Ansa, ha detto la sua anche Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime della Strage di Bologna: "La loro fortuna è di essere deputati, perché altrimenti sarebbero denunciati per depistaggio. L'immunità di parlamentari li salva dall'accusa".
I dubbi sulla matrice neofascista. Il tema della matrice della strage di Bologna tiene banco da trentotto anni, quanti sono passati dall'esplosione alla stazione. Nel corso del tempo si è diffusa l'idea che esista su quell'evento una verità storica diversa da quella processuale, anche da persone di sinistra. Tra queste Rossana Rossanda, cofondatrice de Il Manifesto, che in un'intervista del 2008 al Corriere della Sera affermò: "Ci sono molti conti che non tornano", disse, chiedendosi quale – a differenza di quella di Piazza Fontana dove "il quadro neofascista è plausibile" - sia la logica politica della strage. Una pista seguita da storici e giuristi è quella palestinese, cui ha accennato anche la Frassinetti nel suo intervento di oggi alla Camera sottolineando che "il nuovo processo iniziato a Bologna in Corte di Assise a marzo è un'altra occasione perduta" perché "invece di approfondire la pista che porta a verificare l'ipotesi dell'esistenza di una ritorsione del terrorismo palestinese...". Ne parlò un anno fa in un'intervista ad In Terris l'avvocato romano Valerio Cutonilli, che scrisse insieme al giudice Rosario Priore Strage all’Italiana (ed. Trecento) e I segreti di Bologna (ed. Chiarelettere).
Strage di Bologna, ecco (tutte) le fake news dell’Espresso, scrive Massimiliano Mazzanti lunedì 30 luglio 2018 su "Il Secolo D’Italia". Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo: Caro direttore, purtroppo, un quotidiano non gode dello stesso statuto comunicativo di una trasmissione satirica televisiva e, per tanto, non è lecito in alcun modo lasciarsi andare al turpiloquio che, nel caso delle “rivelazioni” sui rapporti Gelli-Servizi deviati-Nar-Cavallini dell’Espresso di domenica sarebbe l’unico linguaggio adatto per ribattere adeguatamente alle fake news propalate ai lettori di quel giornale. Tre, sostanzialmente, le tesi lanciate dal settimanale e riprese – inopinatamente senza commenti o analisi – da diversi quotidiani, tra i quali quelli con la cronaca di Bologna: Cavallini era in possesso di un “pass” speciale per accedere agli arsenali segreti di “Gladio”; i “servizi segreti” aiutarono Valerio Fioravanti ad accedere al corso Auc dell’Esercito; i “servizi” aiutarono in ogni modo i Nar, occultando la matrice fascista della strage di Bologna.
Il “pass” di Cavallini. Dopo l’arresto, nel corso della perquisizione, la Polizia ritrovò a Cavallini, tra una miriade di altre cose, una banconota strappata da mille lire e ne repertò il ritrovamento. Per anni quel pezzo di carta non ha significato nulla, mentre oggi, su segnalazione dell’Associazione familiari delle vittime, quel mezzo foglietto potrebbe essere l’indizio che collega l’imputato nel nuovo processo per la bomba alla stazione niente meno che a “Gladio”. Infatti, tra la vasta documentazione giudiziaria accumulata sulla struttura segreta della Nato, ci sarebbero anche parecchie banconote spezzate da mille lire, la cui funzione sarebbe stata quella di certificare l’appartenenza alla “rete” del soggetto che, presentandosi a un arsenale segreto con una metà del biglietto di banca, sarebbe stato identificato tramite la perfetta coincidenza di quella stessa metà con l’altra conservata dai custodi delle armi. Ora, non solo non è certo che gli “armieri” di “Gladio” utilizzassero proprio questo sistema, ma anche quando così fosse stato, nel caso di Cavallini, due circostanze non tornano proprio. In primo luogo, negli anni del terrorismo, la banconota da mille lire era quella con riprodotto il profilo di Giuseppe Verdi e contraddistinta da una sequenza alfa-numerica di tre lettere e sei numeri; ora a Cavallini è stata trovata una banconota con le due cifre finali “63” e, pare, tra le tante che farebbero parte della documentazione “Gladio” ce ne sarebbe anche una con le due cifre finali “63”; curiosamente, però, gli autori dello “scoop” non citano le lettere della seria che sole potrebbero associare la banconota di Cavallini alla serie eventuale di “Gladio”. Non bisogna essere Sherlock Holmes per capire che, se di una cifra di 6 numeri, si prende in considerazione quella formata dagli ultimi due, si riducono a 99 le possibilità di trovare una coincidenza ed è facile che, confrontando una banconota (quella di Cavallini) con tante o tantissime (quelle di “Gladio”) si trovi anche il fatidico “63”. In secondo luogo, proprio quella banconota – e anche l’avventurosa interpretazione che ne hanno dato le parti civili – è da quasi due anni nella disponibilità dei pubblici ministeri che hanno rinviato a giudizio Cavallini, i quali, però, non solo non l’hanno ritenuta utile per il processo in corso, ma la scartarono come prova nelle indagini preliminari del secondo troncone delle nuove investigazioni per la strage – quelle così dette “sui mandanti” -, al termine delle quali chiesero appunto l’archiviazione (non ottenuta perché la Procura generale ha deciso di avocare questa seconda inchiesta). Forse, in questa decisione dei pm di Bologna ha avuto non poco peso un particolare evidentemente sfuggito ai grandi giornalisti de “L’Espresso”: le mezze-banconote repertate nelle inchieste su “Gladio” – inchieste, detto per inciso, che non hanno portato alla luce alcunché di illegale commesso da questa struttura Nato – sono appunto, come si diceva, quelle con Verdi; mentre a Cavallini fu trovato un mezzo biglietto della serie dedicata a Marco Polo ed entrato in circolazione nel 1982. Insomma, per quanto è dato conoscere, la possibilità di collegare Cavallini a “Gladio” sulla base di quella banconota è pari a zero.
Fioravanti ufficiale grazie ai “servizi segreti”. L’altro mirabile “scoop” dell’Espresso è costituito dal fatto che Fioravanti, nel 1977, fu ammesso, durante il servizio di Leva, al Corso Allievi ufficiali, non ostante i reati di cui si sarebbe macchiato prima di partire per il servizio militare. Ora, “Giusva” partì per la Scuola di Cesano nell’aprile del ’77, a 19 anni e, per quanto avesse qualche denuncia alle spalle, non era gravato da alcun precedente passato in giudicato, mentre era pur sempre l’ex-attore di successo di un noto sceneggiato televisivo. È tanto difficile pensare che qualcuno – un maresciallo “fan” dei <Benvenuti>, un ufficiale “amico di famiglia” e non necessariamente i “servizi segreti” – abbia “spinto” un po’ la richiesta del ragazzo di fare la Leva in una condizione migliore rispetto a quella ordinaria? Per altro, a volerla ragionare tutta, questa vicenda, andrebbe rilevato un altro particolare, che balza agli occhi, leggendo lo “scoop” de “L’Espresso”, quando su questa materia viene richiamato il sodalizio di Fioravanti e Alessandro Alibrandi. Nel 1977 la Sinistra parlamentare ed eversiva – con un particolare ardore da parte di Lotta continua – sollevò una interminabile e vastissima polemica contro Antonio Alibrandi, padre di Alessandro e magistrato in quel di Roma, per il così detto “Processo degli 89”, coi quali il giudice tentò di mettere un freno a un tentativo di inquinamento delle Forze armate da parte dei movimenti eversivi “rossi”. Ad Alibrandi padre fu riservato – da parte di Lotta continua e non solo, anche da parte del Pci – esattamente lo stesso trattamento usato con Luigi Calabresi e che portò, come si ricorderà, all’assassinio del commissario di Polizia per mano degli stessi capi di Lc. Ciò non solo può spiegare, in relazione ai Nar, almeno parte dell’involuzione radicale del figlio Alessandro – pur sempre un ragazzo che vede il padre aggredito sguaiatamente dal “sistema” di cui faceva parte e che avrebbe dovuto tutelarlo -; ma, in relazione ai fatto oggi contestati a Fioravanti, il “Processo agli 89” testimonia semmai del clima di pesante timore di essere infiltrato da forze ostili – queste sì, innegabilmente, finanziate e addestrate da una potenza straniera, l’Urss, dalle Br al Pci, come ha dimostrato Valerio Riva – in cui operava l’Esercito. E che in questo “clima” si soprassedesse sui “nei” dei ragazzi di destra arruolati nella Leva è a dir poco scontato e tutt’altro che significativo.
L’asse Servizi deviati-Nar. Infine, a pochi giorni dalla celebrazione del 2 agosto, per quanto scomodo risulti, bisogna rimarcare ancora una volta quanto sia falsa e stucchevole questa vera e propria leggenda dei “servizi deviati” che aiutarono i Nar a occultare le loro responsabilità sulla strage di Bologna. A poche ore dallo scoppio della bomba, esattamente alle 21.30 del 2 agosto, quando ancora inquirenti e investigatori – cioè: forze di polizia e magistrati – non erano neanche sicuri che si fosse trattato di un attentato, il prefetto Italo Ferrante diramò una richiesta di investigazioni in tutta Italia a carico di qualsiasi estremista di destra. Alle 11 del giorno dopo, con un secondo telegramma, lo stesso Ferrante precisò meglio i confini degli accertamenti da fare, citando anche i nomi di Mario Tuti, Luciano Franci e Piero Malentacchi. Ne giorni successivi – non ostante polizia e magistrati brancolassero sostanzialmente nel buio – la “pista nera” prese sempre più corpo: come, se non proprio in base alle “veline” dei servizi segreti, gli unici “titolati” a formulare accuse e ipotesi senza doversi curare troppo delle formalità e degli indizi? Fu questo il depistaggio? Semmai, anche se nessuno sembra volersene ricordare, i “servizi” che cercarono di indirizzare altrove le indagini non furono quelli “deviati” e “nostrani”, bensì quelli francesi, tedeschi, americani e di “mezza Europa” che, come scrissero all’epoca i giornali, si riunirono a Bologna per indagare congiuntamente, sollevando l’irritazione degli inquirenti bolognesi e degli “spioni” italiani. I “servizi”, “deviati” o meno, piaccia o no a Paolo Bolognesi, in quei primi giorni di indagine fecero senz’altro sopra a tutto e solo due cose: nascosero la presenza di Thomas Kram a Bologna la notte tra l’1 e il 2 agosto e intervennero evidentemente sulle redazioni giornalistiche il 5 agosto affinché non si desse alcuna importanza al comunicato dettato all’Ansa – e pubblicato solo dal Giornale d’Italia -, con cui il “Fronte popolare per la Liberazione della Palestina” ammetteva le proprie responsabilità. Curioso, no? I “servizi deviati” ebbero la possibilità – negli istanti fatidici dell’immediato dopo-attentato – di segnalare la presenza a Bologna di un noto terrorista straniero e, qualche giorno dopo, di indicare per loro stessa ammissione i responsabili della strage e, al contrario, per “proteggere” i Nar, indirizzarono le indagini sul “terrorismo nero”. Evidentemente, nella redazione de L’Espresso e pur troppo non solo lì, lo spazio per le comiche non è ancora finito.
STRAGE DI BOLOGNA: I DEPISTAGGI E L’ONESTÀ INTELLETTUALE. Scrive Dimitri Buffa l'1 agosto 2018 su L’Opinione. Prepariamoci, da domani per un’intera giornata si tornerà a parlare di un terribile episodio di 38 anni prima, la strage di Bologna. E si tornerà a parlare dei depistaggi, dei mandanti politici, della Loggia P2. Parole che viaggiano da anni senza alcuna onestà intellettuale. E senza alcuna logica che non sia quella ideologica. Nella città felsinea, inoltre, si prevedono le solite sceneggiate fatte di manifestazioni condite con fischi alle autorità politiche e con declamazioni a effetto. Tutto si vedrà e sentirà, come da 38 anni a questa parte, tranne un qualcuno che – a mo’ di imitatore di quel bambino che esclamò: “il Re è nudo” – si erga e dichiari, una volta per tutte, che di quella strage, al di là di una sentenza passata in giudicato che consegna alla storia tre colpevoli di repertorio, Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e l’allora minorenne Luigi Ciavardini (più un quarto in dirittura d’arrivo, Gilberto Cavallini, protagonista suo malgrado di un ennesimo processo fotocopia fuori tempo massimo), noi non sappiamo nulla. Anzi, non vogliamo saperlo. E che i depistaggi ci furono, eccome se si furono, sebbene tutti ai danni di coloro che poi sarebbero stati condannati, ossia lo stato maggiore degli ex Nar, è cosa certa. Ma le vittime furono proprio quei “ragazzini” – all’epoca – pieni di rabbia esistenziale e di desiderio di vendicarsi contro tutto e tutti e quindi facili a essere incastrati fin da subito nelle manovre di depistaggio del Sismi della P2, come a sinistra amano tuttora chiamarlo. E a parte la storia arcinota del finto ritrovamento, il 13 gennaio del 1981, sul treno Taranto-Milano di armi ed esplosivo analogo a quello usato a Bologna, ci furono anche due vere e proprie esecuzioni ai danni di esponenti dell’estrema destra (più un tragico caso di scambio di persona in un ulteriore episodio) che nel piano di depistaggio ordito dal Sismi – preoccupatissimo che venisse fuori il cosiddetto Lodo Moro a favore dei terroristi palestinesi e arabi in Italia o le manovre di Gheddafi nel Mediterraneo – dovevano da morti essere incolpati della strage. Il primo fatto risale al 6 gennaio del 1981. Alcuni uomini della Digos stanno appostati vicino all’abitazione dell’ex militante Nar, Pierluigi Bragaglia – a via Vallombrosa, a Roma in zona Cortina d’Ampezzo – che possiede una Renault 5 rossa. Poche ore prima era stato ucciso Luca Pierucci, militante di quello stesso gruppo armato, perché considerato un delatore. Arriva una Renault 5 dello stesso modello e colore di quella di Bragaglia – oggi rifugiato riconosciuto come tale in Brasile proprio come l’ex leader dei proletari armati per il comunismo Cesare Battisti – gli uomini della Digos aprono il fuoco ma uccidono la ventottenne Laura Rendina che stava sul sedile posteriore. In macchina c’erano due coppie appena tornate dal ristorante. Nessuna traccia di Bragaglia. La caccia ai Nar – con ogni mezzo e con ogni modalità – era cominciata ufficialmente all’inizio di settembre del 1980 quando vennero spiccati i mandati di cattura ai danni di tutti loro proprio per la strage di Bologna. La manovra orchestrata dal depistaggio del Sismi era di far uccidere tutti quelli possibili per poi incolparli da morti. Manovra che se non era riuscita con Bragaglia, e a rimetterci la vita fu una povera donna innocente, andò in qualche maniera “meglio” con Pierluigi Pagliai e con Giorgio Vale. Pagliai, localizzato in Bolivia dal Sismi il 5 ottobre 1982, era un militante neofascista della vecchia guardia. Riparato in Sudamerica come tanti suoi camerati. Cinque giorni dopo viene ucciso da una calibro 22 con le mani alzate davanti alla chiesa “Nuestra Señora de Fátima” di Santa Cruz de la Sierra. Tornerà cadavere in Italia sullo stesso Dc9 dell’Alitalia che aveva portato il commando. Il 5 maggio di quello stesso terribile anno, il 1982, Giorgio Vale, un ventenne di Terza posizione, veniva crivellato di colpi a Roma nella casa “covo” di via Decio Mure 43 al Quadraro. Naturalmente alla stampa parlarono prima di “suicidio” e poi di conflitto a fuoco, ma ben presto venne fuori che Vale non aveva sparato neanche un colpo mentre chi aveva fatto irruzione ne aveva esplosi quasi un centinaio, uno solo dei quali mortale, alla tempia dello stesso giovane terrorista. La strage che “doveva essere fascista” per ordine dei servizi segreti militari che dovevano coprire il Lodo Moro e i patti coi gruppi armati terroristi palestinesi in Italia (che qualche giorno dopo l’esecuzione di Pagliai, il 9 ottobre 1982, avrebbero ucciso un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, davanti alla Sinagoga di Roma) era stata certamente depistata. Ma le vittime del depistaggio erano stati proprio i militanti della destra eversiva.
Cronista del Secolo nel mirino. Ma che cosa si sono messi in testa i magistrati di Bologna? Francesco Storace mercoledì 4 dicembre2019 su Il Secolo d'Italia. Vostro onore, risponda adesso alle nostre domande pubbliche, perché neppure la magistratura di Bologna può usare il potere di intimidazione, soprattutto nei confronti della stampa, a partire dal Secolo d’Italia. Non sarà certamente il suo caso, dottor Michele Leoni. Ma neanche il presidente della Corte di Assise che giudica su un nuovo filone del processo per la strage di Bologna può assimilare ad un reato la domanda di un giornalista. In sostanza, che cosa vi siete messi in testa, magistrati di Bologna (e vostri colleghi di Ancona, competenti per quel che riguarda i giudici emiliani)? Un nostro collega, Silvio Leoni, da anni segue decine di inchieste su fatti rilevanti di cronaca, inclusa quella giudiziaria. Ed indubbiamente tutto quello che è seguito all’orrenda strage alla stazione del 1980 è per noi motivo di interesse. Perché vogliamo che si anteponga la ricerca della verità a quella dei colpevoli qualunque.
Un colloquio garbato trasformato in reato per il cronista del Secolo. Silvio Leoni ha telefonato a quel magistrato, con cui è solamente omonimo. Ci ha raccontato il colloquio, assolutamente garbato, incluso il cortese rifiuto del presidente Leoni a rilasciare dichiarazioni sul processo. Una telefonata del 18 ottobre, durata probabilmente un minuto. Avvalorata, quanto alla bontà del comportamento del nostro cronista, persino da due messaggi successivi su whatsapp. Il primo, del giornalista, che comunque ci tiene a salutare rispettosamente il magistrato. E il giudice, col secondo messaggio che lo ringrazia. Avrebbe potuto non farlo se si fosse sentito minacciato. Abbiamo chiesto a Leoni se gli ha riferito che era del Secolo. “No, gli ho semplicemente detto che sono un giornalista di Roma”. Fa sempre così, il presidente della Corte d’Assise? Con tutti i giornalisti che lo chiamano con correttezza e rispetto? Oppure. l’azione è stata decisa solo quando si è “scoperto” che Leoni lavora con noi? Una ventina di giorni dopo, si presentano i carabinieri a casa del nostro collega e gli sequestrano il cellulare per minacce e violazione di sistema informatico. Minacce inesistenti. Nessuna violazione, perché per un giornalista cercare e trovare un numero di telefono di un magistrato non è roba che si reperisce frugando in chissà quale archivio dei servizi segreti. Basta chiamare un collega di Bologna…
Quel telefonino sequestrato, dissequestrato e risequestrato…Tanto è vero che il tribunale del riesame di Ancona dissequestra il telefonino di Silvio Leoni. La pm si arrabbia e lo sequestra di nuovo, questa volta – anche con qualche traccia di confusione a verbale – incrimina il giornalista del Secolo d’Italia per violenza o minaccia ad un corpo giudiziario. Crediamo che si sia superato ogni limite e ora siamo noi a pretendere spiegazioni. State forse insinuando che Leoni – quello nostro e non quello vostro – volesse influenzare il processo con una domanda? E siccome da nessuna delle carte esiste una sola traccia che possa minimamente avvalorare quello che pare un vero e proprio processo alle intenzioni, si tira fuori persino lo specchietto retrovisore dell’auto del presidente Leoni frantumato nella sua città, Forlì. Sarà stato il nostro pericoloso cronista, magari in un viaggio alla volta di Predappio? Poi, si parla di una strana telefonata anonima in dialetto siciliano allo stesso magistrato. Pure quella parto redazionale? Tutte queste illazioni lasciano invece pensare noi. Perché ci sono troppi non detto in questa mirabolante inchiesta. Sembra un romanzo di quelli in cui qualcuno decida illegalmente di pedinare, seguire, intercettare chi fa il proprio lavoro da cronista sulla strage di Bologna e i suoi misteri. In quel telefono sequestrato troverete tanti messaggi, cazziatoni compresi, di una testata online che vive di clic e di whatsapp. E come vi permettete voi di origliare quel che si dicono i giornalisti del Secolo d’Italia con un loro collega? Finisca subito questa commedia.
Strage di Bologna, la Procura scrive un bel romanzo a 40 anni dai fatti. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 13 Febbraio 2020. C’è un libro, un bel thriller scritto da Roberto Perrone, il giornalista e scrittore che ha creato il personaggio del colonnello Annibale Canessa, uomo dell’antiterrorismo anni Settanta, che ha come sfondo la strage di Bologna. La copertina rimanda a una stazione (L’estate degli inganni, Rizzoli) con al centro un orologio. L’orologio ha l’ora sbagliata, segna le 12,45 in luogo delle 10,25, il minuto esatto in cui il 2 agosto del 1980 scoppiò la bomba alla stazione di Bologna, che provocò 85 morti e 200 feriti. Ha l’ora sbagliata probabilmente perché, come spiega l’autore del libro, benché i riferimenti a fatti realmente accaduti non siano per niente casuali, si tratta comunque di un’opera di fantasia. Il che, ci pare, è anche il modo migliore di raccontare e di far riflettere, senza avere la pretesa di “rileggere la Storia”. Se passiamo dal ruolo di chi scrive a quello di chi conduce indagini o addirittura a quello di chi è chiamato a giudicare, notiamo sempre più spesso la totale assenza della consapevolezza del proprio ruolo e l’emergere arrogante della pretesa di “rileggere la Storia”. Ofelè fa el to mesté, si dice a Milano. Vuol dire che il pasticciere deve fare il pasticciere, così come lo scrittore lo scrittore, il magistrato il magistrato. Ma anche che la storia, con la “S” maiuscola o minuscola, deve essere riservata agli storici. Non succede così, soprattutto nelle inchieste che riguardano le stragi. La tentazione è forte: mettere insieme i pezzi di un castello fatto di complotti, retroscena, mandanti, depistaggi, servizi traditori. E pensare che spesso la realtà potrebbe essere più semplice, ancorché difficile da essere accettata, soprattutto per i parenti delle vittime. Una bomba messa in una banca a un orario in cui si ritiene per errore che l’istituto sia vuoto? Inaccettabile. Perché allora gli assassini potrebbero essere degli sprovveduti più che belve che vogliono veder correre il sangue (pur se spesso non se ne capisce il movente). Un’altra bomba messa sotto i portici di una piazza piena di manifestanti nel giorno in cui improvvisamente piovve e le persone si ripararono proprio dove c’era la bomba? Irriguardoso anche solo porre l’interrogativo. Quella su cui è molto difficile ci siano dubbi di errori o sventatezza degli assassini è la strage di Bologna. Qualcuno ha messo la bomba dove c’erano persone, ben sapendo che ci sarebbero stati morti e feriti. Ma chi? I processi che si sono svolti fino a ora erano indiziari e fondati su vociferazioni approssimative. Nulla di concreto. E si indaga ancora. In modo ridicolo, verrebbe da dire, se non si trattasse di una strage. Proprio in questi giorni alcuni tra i tanti pubblici ministeri che su quella tragedia hanno indagato, hanno mandato gli avvisi di chiusura indagini. Le ennesime indagini, e sono passati quarant’anni, il tempo di una vita. Infatti i principali indiziati di questa nuova inchiesta sono morti. Senza entrare troppo nel merito (lo ha già fatto benissimo ieri Piero Castellano) delle singole imputazioni, è sufficiente esaminare la composizione del pacchetto completo dei personaggi che i pm vorrebbero portare a processo, per constatare che una volta di più c’è qualche signore in toga che pensa di riscrivere la Storia. Quella che doveva essere la “strage fascista” è diventata faccenda di servizi e di grembiulini. Ha qualche importanza il fatto che coloro che sono stati condannati come esecutori materiali, cioè Mambro, Fioravanti e Ciavardini non abbiano mai incontrato Licio Gelli, cioè colui che avrebbe messo loro in mano la bomba? Non ce l’ha, per il modesto aspirante storiografo, perché quel che conta non sono banali principi costituzionali sulla responsabilità penale che è sempre personale o sul principio di non colpevolezza, ma solo e soltanto il Complotto di piduisti, barbe finte e terroristi per “destabilizzare”. Quel che conta è ricostruire, sempre con la pretesa storiografica, la “stagione delle stragi”. È importante che, nel corso di quarant’annis, si siano costruiti partiti e carriere politiche e parlamentari, si siano aizzate piazze dal fischio facile, si siano messi alla gogna quegli unici giudici (togati e popolari) della prima Corte d’assise d’appello che osarono persino assolvere gli imputati? No che non è importante, quelli erano solo i pidocchi nella criniera che avevano osato fare un normale processo, mentre bisognava scrivere la Storia, nella Bologna dove normalmente i pubblici ministeri facevano le riunioni con gli esponenti locali del Pci. E il giorno successivo a quella sentenza (che fu in seguito prontamente corretta) il quotidiano comunista L’Unità uscì con la prima pagina tutta bianca in segno di lutto. Lutto perché era stata emessa una sentenza che andava in senso contrario a quello della Storia. La loro storia. Se le cose stanno così, non è meglio leggere un buon thriller che ci racconta dei fatti ma non ha la pretesa di “rileggere la Storia”?
Strage di Bologna, l’ultimo mistero dell’esecutore: i frame e i tormenti dell’ex moglie. Il neofascista Bellini — inquisito e prosciolto nel 1992 - è stato riconosciuto in un video dalla donna. Il figlio intercettato: «Lavorava per lo Stato...». Giovanni Bianconi il 31 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. I quattro presunti mandanti recentemente individuati dalla Procura generale di Bologna (il Gran Maestro della P2 Licio Gelli, e altri tre associati alla sua Loggia segreta: l’imprenditore Umberto Ortolani, l’ex capo dell’Ufficio Affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato e l’ex senatore missino Mario Tedeschi) sono tutti morti. Il quinto esecutore materiale invece (altrettanto presunto; come il quarto, Gilberto Cavallini, condannato per ora solo in primo grado) è vivo e vegeto, e sta scontando un residuo di pena in detenzione domiciliare per i delitti confessati da «collaboratore di giustizia». Si chiama Paolo Bellini, neofascista aderente a Avanguardia nazionale divenuto killer per fatti personali e di ‘ndrangheta, oggi ha 67 anni e resta un personaggio misterioso; non fosse che per i contatti tenuti con boss e carabinieri al tempo delle stragi di mafia. Per la bomba del 2 agosto 1980 era già stato inquisito e prosciolto nel 1992, mentre partecipava a un rivolo della cosiddetta trattativa «Stato-mafia». Lui continua a proclamarsi innocente ma — sostiene l’accusa che ha fatto riaprire le indagini e ne ha chiesto il rinvio a giudizio — a incastrarlo ci sono soprattutto una testimonianza e un’intercettazione ambientale della ex moglie, che confessa di averlo riconosciuto nel fermo immagine ricavato da un filmato realizzato da un turista tedesco alla stazione di Bologna subito dopo l’esplosione. La deposizione della signora Maurizia Bonini è nota: «Posso dire che la persona ritratta è il mio ex marito Paolo Bellini». Meno noto è che prima di questo verbale sottoscritto il 12 novembre scorso ce n’è uno del 2 agosto 2019 (trentanovesimo anniversario della strage) in cui la donna rispose in maniera diversa: «Può somigliare a Paolo ma non posso dire che è lui». Per quella dichiarazione fu indagata per false dichiarazioni al pm, e ha cambiato versione. L’accusa era scattata per il dialogo tra Maurizia Bonini e il figlio Guido registrato da una microspia l’11 luglio 2019. È in quella conversazione che la ex moglie di Bellini ammette di riconoscerlo nell’immagine ripresa alla stazione e mostrata in tv. Ma nell’intercettazione — finora inedita, e un frammento della quale trovate qui, nel podcast Corriere Daily — il figlio contesta con fermezza l’identificazione. «Per me è lui, me lo ricorda da giovane… Ha la fossetta qui sotto, è lui», sostiene la donna, e Guido quasi la aggredisce: «Ma te ne rendi conto che è una faccia diversa completamente? Non è lui, te sei fuori! È la faccia di un altro, te non sei normale, sei malata, fatti ricoverare, non riconosci neanche tuo marito!». La ex moglie insiste, parla di una catenina al collo che Bellini portava sempre, mentre il figlio rivela che pure sua zia, sorella di Paolo, «ha detto che non è assolutamente lui». Finché la ex moglie emette un «Boh!» che lascia trapelare qualche incertezza. Il figlio aggiunge: «Se poi lui è stato lì e c’entra qualcosa non lo so… non è difficile che lui sapesse qualcosa in quegli anni lì…lavorava per lo Stato…». La donna annuisce: «Infatti, ma lui era a Bologna, è già dimostrato… aveva delle faccende di mobili antichi…». Dopo aver ascoltato l’intercettazione e rivisto il filmato reso più chiaro dalla Polizia scientifica, Maurizia Bonini nel secondo interrogatorio afferma: «Purtroppo è lui, attaccato alla catenina mi pare ci sia un crocifisso». Torna così il «mistero Bellini» che, al di là del lavoro ufficiale da antiquario e del riconoscimento «progressivo» da parte della ex moglie, secondo i suoi stessi familiari «lavorava per lo Stato». È la stessa Bonini a spiegare ai pm il significato di quell’espressione: «Il riferimento lo riconduco alla collaborazione che negli anni Novanta mio marito diede al colonnello Tempesta (dei carabinieri, ndr) per il recupero di opere d’arte». Poi aggiunge due episodi che — racconta — l’hanno colpita particolarmente: «Il primo riguarda un telegramma che Paolo mandò a Cossiga quando cessò l’incarico di Presidente della Repubblica (1992, ndr), nel quale gli disse ”sarai sempre il mio presidente”. Il secondo riguarda un incontro casuale avvenuto a Reggio Emilia con l’ex procuratore della Repubblica dottor Bevilacqua (morto nel 2003, ndr); Paolo gli andò incontro e i due si abbracciarono». Frammenti di vita segreta di un sicario che per un periodo ha vissuto in Italia da latitante, sotto la falsa identità brasiliana di Roberto Da Silva; il suo primo omicidio risale al 1975, quando era un «camerata» neofascista e uccise il militante di Lotta continua Alceste Campanile. Sia lui che Valerio Fioravanti, il fondatore dei Nuclei armati rivoluzionari condannato per la strage di Bologna su cui continua a negare ogni responsabilità, dicono di non essersi mai conosciuti né incontrati. I sostenitori della «pista medio-orientale» hanno scoperto che a febbraio del 1980 Bellini trascorse due notti nello stesso albergo in cui pernottava pure Thomas Kram, l’ex terrorista tedesco legato al gruppo Carlos presente a Bologna il 2 agosto ’80. Anche lui, negli anni scorsi, inquisito e prosciolto per la strage che secondo la giustizia italiana era e rimane «nera».
Strage stazione di Bologna, l'ex moglie riconosce Bellini: "Lui sul binario". Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 da La Repubblica.it. "Purtroppo è lui". È la conferma, in un verbale visionato dall'Ansa, dell'ex moglie di Paolo Bellini, che lo ha riconosciuto nell'uomo riccio coi baffi, ripreso in un filmato amatoriale sul primo binario della stazione di Bologna la mattina del 2 agosto 1980. Bellini, ex Avanguardia Nazionale, è accusato di concorso in strage - la bomba ha causato 85 morti e duecento feriti - e per lui la procura generale ha da poco chiesto il rinvio a giudizio. "Ho visto in questo momento il video - aggiunge la donna - e posso dire che la persona ritratta nel fermo immagine immediatamente dopo la colonna è il mio ex marito". Per la Procura generale di Bologna Paolo Bellini avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D'Amato e Mario Tedeschi, tutti deceduti e ritenuti mandanti, finanziatori o organizzatori dell'attentato. Richiesta di giudizio anche per Quintino Spella e Piergiorgio Segatel, per depistaggio, e Domenico Catracchia, per false informazioni al pm al fine di sviare le indagini. Nei fotogrammi prima della colonna - aggiunge Maurizia Bonini, interrogata il 12 novembre 2019 - non si riconosce bene perché il viso è alzato e girato da una parte". Nell'interrogatorio si parla anche di una catenina e di un crocifisso: "Paolo aveva una catenina che portava al collo con una medaglietta e un crocifisso, almeno così mi pare di ricordare". E nel riconoscere l'ex marito nel video, la donna osserva: "Attaccato alla catenina mi pare ci sia un crocifisso". Sempre nell'audizione si fa riferimento al sequestro di due crocifissi fatti in indagine: "Confermo che, a mio avviso, uno dei due crocifissi, poteva essere di Paolo in quanto non apparteneva alla mia famiglia. Quando Paolo se ne andò di casa, ovvero, credo, nel periodo in cui andò sotto protezione (perché collaboratore di giustizia, ndr) non portò con sé tutte le cose. Ricordo che si prese l'orologio e poco altro. Pertanto, quel crocifisso può essere appartenuto a lui". In ulteriori dichiarazioni Bonini aggiunge un ulteriore elemento, con riferimento alla latitanza di Bellini: "Quando Paolo rientrò dal Brasile con il nome falso di Da Silva Roberto, si era rifatto il naso, rendendolo più corto e si era tolto un neo sulla guancia sinistra. Se si confrontano le foto del prima e dopo Brasile si possono notare queste cose".
(ANSA l'11 febbraio 2020) - La Procura generale di Bologna ha chiuso, notificando quattro avvisi di fine indagine, la nuova inchiesta sulla Strage del 2 agosto 1980. Tra i destinatari, Paolo Bellini, ex Avanguardia Nazionale, ritenuto esecutore che avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D'Amato e Mario Tedeschi, questi quattro tutti deceduti e ritenuti mandanti, finanziatori o organizzatori, oltre che i concorso con i Nar già condannati. Altri tre avvisi riguardano ipotesi di depistaggio e falsità ai pm. Gli altri tre indagati, nell'ambito dell'inchiesta firmata dall'avvocato generale Alberto Candi e dai sostituti pg Umberto Palma e Nicola Proto che hanno coordinato le indagini di Guardia di Finanza, Digos e Ros sono Quintino Spella e Piergiorgio Segatel, per depistaggio, mentre Domenico Catracchia risponde di false informazioni al pm al fine di sviare le indagini in corso. Gelli e Ortolani sono indicati quali mandanti-finanziatori, D'Amato come mandante-organizzatore, Tedeschi come organizzatore per aver aiutato D'Amato nella gestione mediatica della strage, preparatoria e successiva e nell'attività di depistaggio delle indagini. E' giunta dunque a conclusione l'indagine nata dai dossier presentati dall'associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto, attentato che fece 85 morti e 200 feriti. Inizialmente archiviata contro ignoti dalla Procura ordinaria, è stata avocata a ottobre 2017 dalla Procura generale che è arrivata a queste contestazioni.
L'esito delle indagini della Procura generale di Bologna che accusa come mandanti per la Strage del 2 agosto 1980 i vertici della P2, Licio Gelli e Umberto Ortolani "è nella direzione dei documenti che avevamo predisposto noi per la Procura. Il problema è che sono passati 40 anni, forse se ne potevano risparmiare 10-15". E' il commento di Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime. "Ora speriamo che si possa mettere le mani sui mandanti fino in fondo. Bisognerà leggere i documenti, valutare, vedere e questo sarà compito degli avvocati. Mi fa piacere che possa avere efficacia la legge sul depistaggio che ho voluto quando ero in Parlamento", aggiunge.
Domenico Catracchia, amministratore di condominio di immobili in via Gradoli a Roma, avrebbe detto il falso negando di aver dato in affitto un appartamento nella strada romana, tra il settembre e il novembre 1981. Inoltre, secondo la Procura generale di Bologna che gli ha inviato un avviso di fine indagine nell'ambito delle indagini sulla Strage del 2 agosto, per false dichiarazioni al pm, sarebbe stato reticente, rifiutandosi di spiegare modalità e ragioni per cui Vincenzo Parisi, funzionario di pubblica sicurezza e poi direttore del Sisde, "si serviva di tutta l'agenzia" dello stesso Catracchia e, comunque, non avrebbe spiegato la circostanza, emersa in un'intercettazione ambientale, per cui Parisi si avvaleva dei suoi servizi per l'attività immobiliare. Via Gradoli, la strada romana già famosa per il covo delle Br nel sequestro di Aldo Moro nel 1978, è emersa recentemente anche nel processo a Gilberto Cavallini, concluso con l'ergastolo, grazie ad alcuni documenti prodotti dalle parti civili. Nella stessa via, infatti, anche i Nar avevano due covi, nel 1981. E gli appartamenti in uso ai terroristi di estrema destra, così come quello delle Br, erano riconducibili a società immobiliari e a personaggi legati ai 'Servizi segreti deviati', in particolare al Sisde. Proprio Catracchia sarebbe stato l'amministratore dell'immobile dove si nascondevano le Br oltre che amministratore della società proprietaria dello stabile. E il suo nome ritornò quando furono individuati i covi Nar, a lui riconsegnati in quanto titolare, di nuovo, dell'immobiliare di riferimento.
Piduisti, agenti dell'intelligence e faccendieri, ora considerati mandanti-finanziatori o organizzatori della strage di Bologna del 2 agosto 1980. Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D'Amato e Mario Tedeschi, seppur deceduti da anni, sono indagati in concorso, anche se poi la loro posizione verrà archiviata, insieme a Paolo Bellini, ex Avanguardia nazionale, ritenuto uno degli esecutori dell'attentato più sanguinario della storia dell'Italia Repubblicana. Vera mente della P2, accanto al 'Maestro venerabile' della loggia massonica Licio Gelli (già condannato come depistatore dell'attentato), era Umberto Ortolani, già accusato ma poi prosciolto, per il coinvolgimento nella strage della stazione. Accusato di essere stato al centro degli intrighi finanziari della loggia, Ortolani si rende latitante, inseguito da due mandati di cattura internazionali. Rifugiatosi a San Paolo, il Brasile si è sempre rifiutato di arrestarlo perché cittadino brasiliano. Nel 1996, nel processo a carico della loggia P2, viene assolto dall'accusa di cospirazione politica contro i poteri dello Stato. Nel 1998 la Cassazione rende definitiva la condanna a 12 anni per il crack del Banco Ambrosiano. Se Ortolani e Gelli vengono considerati mandanti-finanziatori della strage, Tedeschi, giornalista iscritto alla P2 ed ex senatore dell'Msi, storico direttore de Il Borghese, risulterebbe come organizzatore per aver aiutato D'Amato nella gestione mediatica dell'evento. Quest'ultimo, tessera P2 1.643, ex prefetto, per oltre un ventennio è stato responsabile dell' ufficio Affari Riservati del Viminale.
"Il mio cliente si è sempre proclamato innocente". Lo dice l'avvocato Manfredo Fiormonti, difensore di Paolo Bellini, ex Avanguardia Nazionale, per cui la Procura generale di Bologna ha chiuso le indagini individuandolo, a 40 anni di distanza, come uno degli esecutori materiali della Strage del 2 agosto 1980. Per il resto, il difensore ha detto di non conoscere ancora il contenuto degli atti a carico del suo assistito. Nei confronti di Bellini, autore di omicidi come quello del militante di Lotta Continua Alceste Campanile, informatore dei carabinieri e testimone di giustizia era stata disposta la revoca del proscioglimento del 1992, in virtù di elementi nuovi. Tra questi, il fotogramma estrapolato da un filmino amatoriale Super 8, girato da un turista la mattina del 2 agosto, dove si vede un volto somigliante, secondo l'accusa, a Bellini. C'era poi una intercettazione ambientale che riguarda Carlo Maria Maggi, ex capo di Ordine Nuovo, condannato per la Strage di Brescia dove, parlando con il figlio, disse di essere a conoscenza della riconducibilità della strage di Bologna alla banda Fioravanti e che all'evento partecipò un "aviere", che portò la bomba. Bellini era conosciuto nell'ambiente della destra per la passione per il volo tanto che conseguì il brevetto da pilota. Il terzo punto, invece, viene dal processo di Palermo sulla trattativa Stato-Mafia, dalla cui sentenza di primo grado risulta la sussistenza di rapporti tra Paolo Bellini e Sergio Picciafuoco, quest'ultimo, seppur definitivamente assolto dal delitto di partecipazione alla strage dopo la condanna in primo grado, certamente presente alla stazione di Bologna la mattina della strage.
Sotto la lente della Procura generale di Bologna, con l'accusa di depistaggio, è finito l'ex generale dei servizi segreti ed ex capo del Sisde di Padova Quintino Spella. L'ex 007, oggi 91enne, è il funzionario a cui il magistrato Giovanni Tamburino (che ha testimoniato davanti alla Corte d'Assise di Bologna nell'ambito del processo all'ex Nar Gilberto Cavallini), disse di essersi rivolto dopo aver raccolto, nel luglio del 1980, le dichiarazioni dell'estremista di destra Luigi Vettore Presilio. Quest'ultimo gli disse che,di lì a poco, sarebbe stato realizzato un attentato con una bomba" di cui avrebbero parlato i giornali di tutto il mondo". Spella ha negato di aver incontrato nel luglio e agosto 1980 il magistrato di sorveglianza Tamburino. Insieme a Spella è indagato con la stessa accusa l'ex carabiniere Piergiorgio Segatel, 72 anni. Per i magistrati bolognesi, che lo hanno sentito due volte lo scorso anno, Segatel avrebbe dichiarato il falso al fine di ostacolare le indagini. In altre parole mentì alla Procura quando smentì Mirella Robbio (moglie dell'esponente di Ordine nuovo, Mauro Meli), secondo cui Segatel le fece visita poco prima del 2 agosto, dicendole che "la destra stava preparando qualcosa di veramente grosso" e chiedendole di riprendere i contatti con l'Msi di Genova e con gli amici del marito per "cercare di capire cosa fosse in preparazione". Segatel ha inoltre negato, secondo gli investigatori bolognesi mentendo, di essere andato a trovare Robbio dopo la strage, dicendole "hai visto cosa è successo?" o una frase simile. Per i magistrati, infine, Segatel ha mentito ancora quando ha dichiarato che la sua prima visita a Robbio era stata fatta per chiedere informazioni sull'omicidio del magistrato Mario Amato, e non per saperne di più sulla strage che si stava preparando.
Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” il 12 febbraio 2020. Il nome del prefetto-gourmet è scritto nell' avviso di conclusione indagini mandato ieri dalla Procura generale di Bologna ai nuovi indagati per la più grave strage italiana, quella del 2 agosto 1980. Federico Umberto D'Amato è la figura più inquietante della storia del nostro dopoguerra. Manovratore dell' Ufficio affari riservati del ministero dell' Interno, il potente servizio segreto civile in eterna competizione con quello militare (Sifar, Sid, Sismi). "Mandante-organizzatore" della strage, scrivono i magistrati bolognesi. Burattinaio prima e grande depistatore dopo, aiutato da Mario Tedeschi , direttore del Borghese, "nella gestione mediatica dell' evento strage, preparatoria e successiva allo stesso". In compagnia della coppia ai vertici della loggia P2 , Licio Gelli e Umberto Ortolani , indicati come "mandanti-finanziatori". D' Amato-Tedeschi-Gelli-Ortolani: è il poker calato dai tre magistrati della Procura generale, Alberto Candi, Umberto Palma e Nicola Proto, che indagano sulla strage. I quattro manovratori sono tutti morti, ma la nuova indagine potrebbe ricostruire la verità almeno per la storia e per i famigliari degli 85 morti e dei 200 feriti. C' è una mole immensa di documenti raccolti dagli investigatori. Tra questi, il documento "Bologna-525779XS", sequestrato a Gelli: racconta di milioni di dollari usciti dal conto svizzero numero 525779XS tra il luglio 1980 e il febbraio 1981, i mesi della strage e dei depistaggi. Altre note, scritte a mano da Gelli, riguardano contanti da portare in Italia: 4 milioni di dollari solo nel mese prima dell' attentato. Nel biennio 1979-1980, quando la strage fu preparata, realizzata e "gestita mediaticamente" (ovvero depistata), Federico Umberto D' Amato non era più al vertice degli Affari riservati. Era stato rimosso nel 1974 da Paolo Emilio Taviani, due giorni dopo la strage di Brescia, e mandato a dirigere la Polizia di frontiera. Ma era rimasto l' uomo degli americani in Italia, membro del Club di Berna che riuniva le intelligence europee e Nato sotto l' ombrello Usa, lui che aveva cominciato la carriera lavorando con James Jesus Angleton all' Oss, il servizio americano che precede la Cia. Ci sono anche i vivi, tra i nuovi indagati di Bologna. Paolo Bellini , fin da ragazzo militante fascista di Avanguardia nazionale, poi confidente dei carabinieri, infiltrato in Cosa nostra con l' ok del generale Mario Mori, coinvolto nella trattativa Stato-mafia. "Che cosa succederebbe se Cosa nostra mettesse una bomba alla Torre di Pisa?": qualche investigatore ipotizza che sia stato lui a dare (o portare?) ai mafiosi l' idea di attentare al patrimonio artistico. E nel 1993, le stragi "in continente" colpiscono in effetti l' Accademia dei Georgofili a Firenze, il Padiglione d' arte contemporanea a Milano e due basiliche a Roma. Ora una cassetta "Super 8" scovata nell' Archivio di Stato dagli avvocati dei familiari delle vittime mostra un uomo che si aggira nei pressi del primo binario della stazione di Bologna pochi minuti dopo l' esplosione. Capelli ricci, grossi baffi, sopracciglia folte: davvero simile a Bellini nelle foto di quegli anni. Indagato (per depistaggio) anche l' ex generale dei servizi segreti Quintino Spella , che continua a negare ciò che gli ha raccontato nel luglio 1980 il giudice Giovanni Tamburino. È l' annuncio della strage, un mese prima. Da Tamburino, allora magistrato di sorveglianza a Padova, arriva un neofascista, Luigi Vettore Presilio, accompagnato dall' avvocato Franco Tosello. Ha una storia pesante da raccontare. Anzi due. Ha sentito in carcere che sono in preparazione due azioni: un agguato al giudice Giancarlo Stiz, il primo ad aver indagato sulla "pista nera" per la strage di piazza Fontana; e un "attentato di eccezionale gravità che avrebbe riempito le pagine dei giornali nella prima settimana d' agosto". Sull' agguato a Stiz, Tamburino manda subito una nota scritta alla Procura di Padova. Dell' altro annuncio, più generico, parla con il comandante locale dei carabinieri, che gli organizza un incontro con Spella, allora dirigente del Centro Sisde (il servizio segreto civile, erede degli Affari riservati di D' Amato) di Padova. Tamburino lo incontra il 15, il 19 e il 22 luglio 1980. Poi ancora il 6 agosto, a strage compiuta, dopo aver scritto ai magistrati di Bologna che infatti interrogano subito Vettore Presilio, il quale conferma i suoi racconti, pur senza svelare le fonti. Qualche tempo dopo, il "nero" viene trovato in carcere massacrato di botte. In compenso l' agente segreto si dimentica gli incontri con il giudice. Li nega nell' interrogatorio del 25 gennaio 2019 e anche nel confronto con Tamburino del 14 maggio. Indagato anche Piergiorgio Segatel , nel 1980 carabiniere a Genova. Mente, secondo gli investigatori, quando nega di essere andato un paio di volte da Mirella Robbio, moglie del neofascista di Ordine nuovo Mauro Meli, a chiederle di indagare tra i "vecchi amici del marito", perché "la destra stava preparando qualcosa di veramente grosso". E indagato infine Domenico Catracchia , amministratore di una società immobiliare usata da Vincenzo Parisi, capo della Polizia e poi vicedirettore del Sisde. Nega di aver affittato ai neofascisti dei Nar, nel settembre-novembre 1981, un appartamento in via Gradoli. Sì, proprio la via dove durante il sequestro di Aldo Moro, nel 1978, vivevano i brigatisti rossi Mario Moretti e Barbara Balzerani.
Strage di Bologna: il Comune conferma la dispersione dei resti umani delle vittime. Massimiliano Mazzanti martedì 17 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Bologna, riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo: Caro direttore, Le parti civili hanno terminato le loro arringhe, nel processo per la strage di Bologna. A concludere questo passaggio, l’Avvocatura dello Stato che ha chiesto alla Corte d’Assise di condannare Gilberto Cavallini anche al pagamento “in solido” – con Francesca Mambro e Valerio Fioravanti – del risarcimento di oltre due miliardi di euro. Quei due miliardi di euro allo Stato che tanta ironia avevano suscitato nella stampa nazionale parecchi mesi addietro. In attesa delle arringhe difensive, previste per i giorni 8 e 9 di gennaio, si fanno altri passi avanti nella vicenda di “Ignota 86”. Il Comune di Bologna, rispondendo a un’interrogazione presentata da una consigliera della Lega, Paola Francesca Scarano, ha confermato clamorosamente l’ipotesi avanzata dal Secolo d’Italia: tutti i resti umani raccolti alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 sono stati fatti sparire. Non esistono negli archivi comunali né “atti di morte” né moduli per la “inumazione dei resti umani appartenenti a persona non identificata”. Documenti, insomma, che attestino la sepoltura delle tante parti di corpi umani che pure furono ritrovate tra le macerie della stazione. Per altro, a fronte di questa conferma burocratica, c’è il registro del Cimitero monumentale della Certosa. Qui non è annotata – tra l’agosto e il dicembre 1980 – nessuna sepoltura o cremazione dei resti umani delle vittime della Strage di Bologna. Eppure, nei giorni successivi all’attentato, questa pietosa operazione finì sui giornali. Sul Resto del Carlino, Lamberto Sapori precisò anche la quantità di questi “resti” (tra cui mani, piedi, ecc.) nel numero di 57. Dunque, molti, molti più di quelli indicati il 6 agosto 1980 dal procuratore Luigi Persico, nel documento in cui disponeva la sepoltura di 11 di questi resti. Queste sepolture, però, non avvennero mai. Qualcuno – chissà per quale oscuro motivo – fece sparire tutte queste macabre testimonianze dell’esplosione. Appare impossibile l’ipotesi alternativa, quella della semplice incuria. Non solo perché queste operazioni sarebbero dovute avvenire a tre, quattro giorni dall’esplosione, quando il “clima emergenziale” in Comune e alla Medicina legale era già cambiato. Appare impossibile perché sono troppe le persone che si sarebbero dovute comportare in modo non corretto. Lo Stato civile del Comune, che non avrebbe redatto gli atti disposti dalla Procura. Il servizio dei necrofori, che avrebbero trasportato questi resti al cimitero privi della necessaria documentazione. La Polizia mortuaria, che avrebbe provveduto alla sepoltura in mancanza di attestazione e senza registrare l’operazione d’inumazione (o cremazione) nell’apposito registro. L’unica spiegazione possibile è che si è tentato – e si è riuscito – di far sparire tutto, affinchè nessun’altra persona potesse un domani testimoniare che cosa effettivamente fu seppellito in quei giorni. A questo punto, diventa ancor più importante la ricognizione dei registri della Medicina legale, richieste nelle settimane scorse dalla difesa di Cavallini.
Strage di Bologna, ergastolo a Gilberto Cavallini. L'ex terrorista nero condannato per la bomba alla stazione del 2 agosto 1980. Giuseppe Baldessarro su La Repubblica il 9 gennaio 2020. Pochi minuti prima delle 16 è stata emessa la sentenza: ergastolo per Gilberto Cavallini, ex terrorista dei Nar fascisti. Cavallini, 67 anni, era imputato di concorso in strage. Secondo la procura di Bologna fornì supporto logistico agli esecutori materiali della Strage del 2 agosto 1980. Fu lui a ospitare Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini (già condannati in via definitiva quali esecutori materiali dell'attentato) a Villorba di Treviso prima della strage. Sempre lui, per l'accusa, si occupò dei documenti falsi e del trasporto a Bologna, fornendo un'auto. L'ex Nar, già condannato a diversi ergastoli per banda armata e per gli omicidi commessi tra il 1979 e il 1981(di cui è reo confesso), dopo 37 anni di reclusione (venne catturato nel 1983), si trova ora in semilibertà. Cavallini e gli altri ex Nar (Nuclei armati rivoluzionari), pur ammettendo tutti gli altri attentati firmati dalle destra eversiva, rispetto alla strage alla stazione di Bologna si sono sempre dichiarati innocenti. Così come aveva dichiarato ai giudici di Bologna questa mattina in aula prima che si riunissero in camera di consiglio e sentenziassero: "Sono in carcere dal settembre '83, oltre 37 anni. Sono anni di galera che mi sono meritato, li ho scontati tutti e dovrò scontare ancora. Ho meritato condanne. Ma non accetto di dover pagare quello che non ho fatto, sia in termini carcerari sia di immagine. Tutto quello che abbiamo fatto come Nar lo abbiamo fatto alla luce del sole, a viso scoperto, rivendicando ogni azione. Ci siamo resi conto che quello che abbiamo fatto è stato inutile o comunque sbagliato". Continuando nelle sue dichiarazioni spontanee l'ex terrorista dei Nar aveva quindi affermato: "Non accetto la falsificazione della nostra storia. Tutto il resto non ci appartiene. Abbiamo lasciato in mezza alla strada molte vite umane, anche di nostri camerati e amici. Se voi pensate che dei ragazzini di poco più di 20 anni siano gli esecutori di ordini di gruppi di potere come la P2 o la mafia, fate un grosso errore". E ancora, aveva detto: "Non fate un servizio al Paese e alla verità. Non mi lamenterò qualsiasi cosa decidiate. Ma una mia condanna sarebbe sbagliata. Noi non abbiano da chiedere perdono per la Strage. Sono pentito di quello che abbiamo fatto, ma né io né i Nar dobbiamo abbassare gli occhi per quanto successo a Bologna il 2 agosto 1980". Il processo a Cavallini per l'assassinio di 85 persone e oltre 200 feriti che si è svolto davanti alla Corte d'Assise di Bologna, si chiude dopo 45 udienze che si sono svolte a partire dal marzo del 2018, durante le quali sono stati sentiti una cinquantina tra testimoni, investigatori e periti. Centinaia di migliaia le pagine di atti depositati e presi in esame dalla Corte, presieduta dal giudice Michele Leoni. Centomila euro per ogni persona che nella Strage di Bologna ha perso un parente di primo grado o il coniuge, 50mila per chi ha perso un parente di secondo grado o un affine di primo o secondo grado, 30mila per chi ha perso un parente o un affine di grado ulteriore, 15mila per ogni ferito, 10mila per chi ha un parente ferito. Sono le provvisionali immediatamente esecutive per le parti civili, decise dalla Corte di assise di Bologna nella sentenza di condanna all'ergastolo per Gilberto Cavallini. L'imputato è stato condannato anche a risarcire i danni, da liquidare nella competente sede civile. Va ricordato che per la strage di Bologna con sentenza definitiva della Cassazione del 23 novembre 1995: furono condannati all'ergastolo, quali esecutori dell'attentato, i neofascisti dei Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che si sono sempre dichiarati innocenti. L'ex capo della P2 Licio Gelli, gli ufficiali del SISMI Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e il faccendiere Francesco Pazienza (collaboratore del SISMI) furono condannati per il depistaggio delle indagini. L'ultimo imputato condannato come esecutore materiale è Luigi Ciavardini: 30 anni confermati in Cassazione l'11 aprile 2007.
Stadio, rapine, omicidi ed evasioni: storia di Cavallini "il Negro", condannato per la Strage di Bologna. Chi è il feroce terrorista già in galera da 37 anni: nove ergastoli Giuseppe Baldessarro su La Repubblica il 9 gennaio 2020. Lo stadio, la Giovane Italia dell'Msi, le risse con i "rossi" e gli accoltellamenti. Poi i Nar, le rapine e le pallottole. Di sangue, nella vita, Gilberto Cavallini ne ha visto e fatto scorrere tanto. Un'esistenza sempre oltre le righe. Oltre le righe o dietro le sbarre, dove ha trascorso più di 32 dei suoi 67 anni. Oggi ha ricevuto a Bologna il suo nono ergastolo per concorso nella strage alla stazione del 2 agosto 1980. Il "Negro", lo chiamavano negli ambienti della curva interista, dove aveva fondato i "Boys". Questi sono gli anni di Milano. E sempre come il "Negro" lo indicavano i camerati con cui ha condiviso l'adolescenza frequentando l'area più estremista dell'ambiente missino. A 22 anni, alle spalle risse e pestaggi, per la prima volta spara a un benzinaio che si era rifiutato di fargli rifornimento. Due anni dopo, la sera del 27 aprile 1976, sempre a Milano, in dieci aggrediscono tre ragazzi del Comitato Antifascista per "celebrare" l'anniversario della morte di Sergio Ramelli, ucciso da alcuni militanti di Potere Operaio. Sono gli anni del dente per dente, e quella notte le coltellate in via Uberti sono indirizzate a Gaetano Amoroso, che morirà due giorni dopo. In parallelo, per Cavallini arrivano anche i primi processi. I giudici lo condannano in primo grado a 13 anni e mezzo per concorso in omicidio. Si salva evadendo un anno dopo durante un trasferimento al carcere di Brindisi. Inizia così la latitanza: prima a Roma, "coperto" da Ordine Nuovo, e poi a Treviso. Per due anni vive sotto falso nome. Sono gli anni in cui stabilisce contatti solidi coi "camerati" storici della destra eversiva. Nel ‘78 a Treviso si lega a Flavia Sbroiavacca, alla quale nasconde la sua vera identità fino al 1980. In uno dei suoi viaggi a Roma, nel dicembre del '79 si lega ai Nar di Giuseppe Valerio Fioravanti. La sua vita e quella di "Giusva" sono una cosa sola. I due sono protagonisti di una rapina a Tivoli e una settimana dopo, a Roma, Fioravanti assieme ad altri neofascisti uccide, per un errore di persona, Antonio Leandri. Cavallini arriva in soccorso di "Giusva" e lo porta con sè in Veneto per dargli rifugio nella casa che divide con la fidanzata. A Padova assieme a Fioravanti e Francesca Mambro assaltano il distretto militare: rubano mitra, fucili e pistole. L'azione viene firmata Br per depistare le indagini. I Nar uccidono a maggio dell'80. Cavallini è di copertura al gruppo di fuoco composto da Fioravanti, Mambro, Giorgio Vale e Luigi Ciavardini. Viene assassinato a Roma l'appuntato Franco Evangelista (detto Serpico) e feriti altri due agenti. Il 23 giugno sempre dell'80 Gilberto Cavallini ammazza a Roma il giudice Mario Amato sparandogli alla testa a una fermata del bus. È considerato un nemico perché conduce le indagini sull'eversione nera. Si dice che Cavallini abbia commentato l'azione affermando: "Ho visto il soffio della morte". Il 2 agosto del 1980 esplode la bomba alla stazione di Bologna: 85 morti e 200 feriti. Verranno condannati quali esecutori Fioravanti, Mambro e Ciavardini. E nel processo di Bologna che si è chiuso oggi con la sua condanna, "il Negro" era accusato di aver fornito supporto logistico. La storia va avanti. A ottobre di nuovo rapine e scontri a fuoco. In uno di questi muore a Milano il brigadiere Ezio Lucarelli. Dopo una rapina che a dicembre frutta 3 miliardi di lire, la sera del 5 febbraio 1981, mentre tentano di recuperare delle armi nascoste nella periferia di Padova, il gruppo viene intercettato dai carabinieri Enea Codotto e Luigi Maronese. Entrambi vengono uccisi da Fioravanti, che però resta ferito e viene arrestato poco dopo. Ma la scia di sangue non si interrompe. Cavallini partecipa all'uccisione di Marco Pizzari, un militante di destra accusato di essere responsabile dell'arresto di Ciavardini. A ottobre dell'81 sotto i colpi del "Negro" cadono a Roma Francesco Straullu, dirigente della Digos, e l'agente Ciriaco Di Roma. Altri omicidi e ferimenti anche nel 1982. Cavallini sarà l'ultimo Nar arrestato, a settembre del 1983, in un bar di corso Genova a Milano. Alla fine del suo iter giudiziario Cavallini ha accumulato nove ergastoli, incluso l'ultimo di Bologna. Attualmente è in semilibertà a Spoleto, dove di giorno lavora e la sera rientra in cella.
Strage di Bologna, ergastolo all'ex Nar Gilberto Cavallini 40 anni dopo. I familiari delle vittime: "Giusto". Libero Quotidiano il 9 Gennaio 2020. Condanna all'ergastolo per l'ex terrorista dei Nar Gilberto Cavallini, nel processo sulla strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980. La sentenza è stata letta dalla Corte di assise, dopo sei ore e mezza di camera di consiglio. Cavallini, in semilibertà nel carcere di Terni, non era presente in aula dopo le dichiarazioni spontanee in mattinata. Tra i banchi del pubblico invece c'era una trentina di familiari delle vittime, che hanno accolto il verdetto in maniera composta ma con evidente soddisfazione. "La sentenza non cancella gli 85 morti e i 200 feriti, ma rende giustizia a noi familiari delle vittime che abbiamo sempre avuto la costanza di insistere su questi processi", è il primo commento di Anna Pizzirana, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime. La difesa Cavallini aveva detto che 40 anni dopo è inumano condannare una persona, la Pizzirani replica dura: "No, non è inumano, perché hanno condannato anche quelli della Shoah dopo 70 anni, non vedo perché debba essere inumano. È una giustizia che viene fatta ai familiari delle vittime, per la nostra perseveranza. E, se le carte processuali lette, rilette esaminate da questa Corte hanno stabilito così è una sentenza corretta".
Strage di Bologna, arrivata la sentenza: ergastolo per Cavallini. La procura ha infine avuto ragione riguardo la pena nei confronti dell'ex Nar, Cavallini è stato ritenuto colpevole per l'accusa di concorso in strage. Marco Della Corte, Giovedì 09/01/2020, su Il Giornale. La corte di assise di Bologna ha condannato all'ergastolo Gilberto Cavallini, nel corso del processo che ha visto l'imputato colpevole dell'accusa di concorso nella strage di Bologna. La sentenza, presieduta da Michele Leoni, scrive la parola fine ad un'importante capitolo di uno degli eventi più bui riguardanti il periodo terroristico italiano. La strage si verificò tramite lo scoppio di un ordigno che generò 85 morti ed oltre 200 feriti. La sentenza è arrivata dopo 6 ore e mezza di camera di consiglio. Come riporta l'agenzia Adnkronos, la parente di una ferita durante l'attentato terroristico ha esclamato: "Finalmente giustizia è fatta". Intervistato dal Resto del Carlino prima della lettura della sentenza, Gilberto Cavallini aveva spiegato il motivo per cui i giudici avrebbero dovuto assolverlo dall'accusa di concorso nella strage di Bologna: "Per il semplice fatto che non siamo responsabili di questo fatto. Noi siamo responsabili di altre cose, per le quali abbiamo pagato, stiamo pagando con anni di galera. Alcuni hanno lasciato la vita per le nostre scelte scellerate, che non voglio assolutamente valorizzare, anzi, sono state tremendamente sbagliate e questa come condanna per me basta e avanza, al di là del carcere, perché colpisce anche la mia coscienza". E invece, dopo 6 ore e mezza di camera di consiglio, il tribunale ha deciso per l'ergastolo nei confronti dell'ex Nar. Già condannati con sentenza definitiva per la strage di Bologna sono stati in precedenza Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. La sentenza per Cavallini è esemplare, in quanto conferma la natura fascista che diede origine alla strage il 2 agosto 1980. Erano stati i pm Antonella Scandellari, Enrico Cieri e Antonello Gustapane a chiedere la pena dell'ergastolo per Gilberto Cavallini, rivolgendosi alla corte con le seguenti parole: "Se doveste ritenere che Cavallini abbia semplicemente offerto ai tre condannati in via definitiva solo un passaggio fino a Bologna, mentre lui si dedicava ad altro, quantomeno dovreste ritenere il contributo di aver offerto una base logistica e documenti contraffatti, in tutti i casi si tratta di una condotta di partecipazione colpevole alla strage, che lo deve far ritenere responsabile". La bomba che causò la strage venne piazzata presso la stazione di Bologna, causando 85 morti e più di 200 feriti. Riguardo le accuse a suo carico, Cavallini si è professato innocente. L'uomo, già condannato a 8 ergastoli, è recluso presso il carcere di Terni in regime di semilibertà.
Strage di Bologna, il fascista Cavallini non si pente e accusa i giornalisti. L'ex Nar ribadisce la sua estraneità all'attentato del 2 agosto 1980 e in aula, prima della sentenza che lo ha condannato all'ergastolo, punta il dito contro Espresso e Repubblica: «È tattica della diffamazione». Lirio Abbate il 10 gennaio 2020 su L'Espresso. L'ex terrorista nero dei Nar, Gilberto Cavallini, condannato all'ergastolo per la strage della stazione di Bologna, prima di assistere alla lettura del dispositivo di sentenza della Corte di Assise, ha rivendicato in aula, con spontanee dichiarazioni, sue responsabilità passate, ma ha respinto ogni coinvolgimento in questo attentato del 2 agosto 1985 che provocò 85 morti e 200 feriti. Ha rivendicato il suo ruolo violento per altri episodi, per i quali dice di stare pagando, e ha puntato il dito contro l'informazione, con i giornali del gruppo L'Espresso e Repubblica. Il pensiero del Nar Cavallini è quello di accusare platealmente l'informazione per le inchieste giornalistiche che sono state pubblicate e per le notizie che sono state raccolte sul coinvolgimento del gruppo dei neri in questa strage. Cavallini ha sostenuto in aula che «è tutta strumentalizzazione che parte sempre da quei gruppi editoriali tristemente noti nel nostro Paese per la tattica della diffamazione, come il gruppo editoriale L'Espresso e Repubblica, che, non a caso, sono i referenti anche di molte persone qua dentro quando vogliono far sentire la loro voce». Non si pente e accusa Espresso e Repubblica di "tattica della diffamazione". Ecco, ancora una volta le nostre notizie vere e documentate fanno male ai protagonisti di queste storie che il giornalismo ha contribuito a far conoscere. E per questo motivo che continuano a diffondere pubblicamente il loro malessere per le nostre inchieste. È l’effetto del dito puntato. Se il giornalista colpisce con un sasso lo stagno immoto, il punto da cui partono i cerchi concentrici diventa l’obiettivo da colpire. Vuole questo Cavallini? Basta puntare il dito. Se un giornalista scrive certe cose in un clima stagnante, con una parte della categoria che rinuncia a un’autonomia di pensiero e la stampa che è ferma a guardare, quel giornalista o quella testata si espone. È una vecchia storia. Una storia che l’Italia conosce bene, si ripete ogni volta che il lavoro del giornalista, spesso lasciato da solo a raccontare fatti scomodi, si scontra con gruppi di potere e vuole fare luce sulle zone d’ombra dove questi gruppi conducono i loro affari e le loro relazioni. Nelle sue dichiarazioni Cavallini ha detto: «Se voi credete che dei ragazzini di poco più di 20, addirittura dei minorenni siano stati o siano la lotta armata o gli esecutori da parte di organi o gruppi di potere come la P2 o criminali come la mafia, come si sta cercando di far vedere in questi giorni a mio carico, fate un grosso errore e non fate un grosso servizio né alla verità, né al Paese». Ed ha aggiunto: «Poi io sono pronto a subirne tutte le conseguenze perché mi sono imposto di accettare tutto quello che mi viene e di offrire la mia sofferenza a Nostro Signore, quindi non mi lamenterò neanche di questo. Però non accetto che tutto questo venga spacciato, presentato come una verità alla quale sia doveroso credere. Di quello che non ho fatto non mi posso pentire. Dico anche a nome dei miei compagni di gruppo che non abbiamo da chiedere perdono a nessuno per quanto successo il 2 agosto 1980. Non siamo noi che dobbiamo abbassare gli occhi a Bologna». Cavallini è il quarto uomo della Strage della stazione come stabilito dalla Corte di assise. A questa decisione si è arrivati dopo sei ore e mezza di camera di consiglio, al termine di un processo durato quasi due anni, 40 udienze e una cinquantina di testimoni ascoltati. Già condannato a otto ergastoli per vari delitti, Cavallini è ora in semilibertà a Terni. Difficilmente sconterà la nuova pena inflitta che prevede il carcere a vita, quando e se sarà definitiva, visti i 37 anni in detenzione. Ma la sentenza è comunque un tassello in continuità con la verità giudiziaria che vede come responsabili gli altri tre Nar Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, compagni d'armi di Cavallini detto 'il negro', il meno giovane della banda. Il prossimo passo è verso i mandanti della strage.
Strage di Bologna, Cavallini condannato all’ergastolo 40 anni dopo. Redazione de Il Riformista il 9 Gennaio 2020. La Corte d’Assise di Bologna ha condannato all’ergastolo l’ex Nar Gilberto Cavallini per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione, costata la vita a 85 persone e nella quale altri 200 viaggiatori sono rimasti feriti. Cavallini, difeso dagli avvocati Gabriele Bordoni e Alessandro Pellegrini, doveva rispondere di concorso in strage. Prima della sentenza l’ex estremista di destra, che al momento è detenuto in semilibertà nel carcere di Terni, ha fatto dichiarazioni spontanee respingendo ogni responsabilità nella strage. Cavallini nel corso del processo a suo carico, che è arrivato alla sentenza di primo grado a 40 anni di distanza dalla strage, non ha mai voluto rivelare il nome della persona con la quale sarebbe stato la mattina del 2 agosto 1980, proprio nel momento in cui veniva piazzata la bomba in stazione a Bologna. L’ex Nar si è sempre limitato a dire di essere partito molto presto da Treviso per incontrare a Padova "il Sub", a cui avrebbe affidato delle armi da modificare, ma non ha mai voluto rivelarne la vera identità anche se questo particolare avrebbe potuto scagionarlo. Secondo gli ex Nar Francesca Mambro e Giusvà Fioravanti, entrambi condannati per la strage di Bologna, invece, Cavallini quella mattina avrebbe incontrato Carlo Digilio, detto "zio Otto", l’armiere di Ordine Nuovo, segretario del poligono di tiro del Lido di Venezia. Per gli avvocati di parte civile sarebbe proprio Cavallini il tramite con quei servizi segreti che, insieme alla P2 di Gelli, sarebbero i veri mandanti della strage. Dopo aver fatto dichiarazioni spontanee, l’ex terrorista non ha atteso fino alla fine della camera di consiglio, durata oltre 6 ore, ed è rientrato nel carcere di Terni, dove fino ad oggi era detenuto in semilibertà, prima della lettura della sentenza. Ad assistere al verdetto, invece, c’era Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime e una delegazione di parenti degli 85 morti e 200 feriti nella strage della stazione di Bologna. “La condanna per Gilberto Cavallini conferma ancora una volta la matrice neofascista della strage del 2 agosto 1980. E aggiunge un altro importante tassello verso la verità, che sarà piena quando saranno individuati anche i mandanti. Questo risultato è dovuto all’impegno tenace dei familiari delle vittime, sempre accompagnato dalle istituzioni come parte civile”. Lo afferma il sindaco di Bologna, Virginio Merola, in merito alla condanna dell’ex Nar Gilberto Cavallini per la strage del 2 agosto 1980.
Strage di Bologna, Cavallini condannato all’ergastolo: non accetto di pagare per cose che non ho fatto. Il Secolo D'Italia giovedì 9 gennaio 2020. Gilberto Cavallini, l’ex-Nar imputato in Corte d’Assise per concorso nella strage di Bologna, è stato condannato all’ergastolo. La sentenza, alla lettura della quale Cavallini non ha potuto assistere poiché è detenuto in semilibertà e il permesso orario concesso dai magistrati era limitato, è arrivata alle 16, come preannunciato. Cavallini ha dovuto riprendere il treno da Bologna che lo ha riportato in carcere a Terni alle 15,50. Per tutta la mattinata e parte del pomeriggio aveva atteso che i giudici del Tribunale di Bologna, riuniti in camera di Consiglio, uscissero. per pronunciare il verdetto. «Lo sapevamo benissimo che sarebbe andata così – dice il legale di Gilberto Cavallini, Alessandro Pellegrini – Non ci sono conseguenze pratiche, non andrà in carcere. Sappiamo in che condizioni è stato fatto questo processo. Hanno messo la quarta faccia nella foto di gruppo. E questo dopo che gli elementi accusatori sono stati considerati evanescenti da 65 giudici. E’ ovvio che andiamo in appello. La cosa non finisce qui», avverte l’avvocato Pellegrini preannunciando battaglia. Cavallini aveva ribadito, nuovamente, in mattinata, di essere estraneo ai fatti contestati. E aveva, comunque atteso, fino a quando ha potuto, che la Camera di Consiglio del Tribunale di Bologna, riunita ormai da oltre quattro ore, emettesse la sentenza nei suoi confronti. Per l’ex-Nar, sessantasette anni, condannato a diversi ergastoli, la Procura di Bologna aveva chiesto l’ergastolo per la strage di Bologna. Strage per la quale sono stati condannati in via definitiva Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Cavallini era arrivato ieri sera a Bologna. Ha dormito nel bed and breakfast di Massimiliano Mazzanti, suo amico che gli è stato molto vicino in questi anni. Ieri sera ha cenato con sua sorella e Mazzanti che ha cucinato tagliatelle al ragù e arrosto. L’ex-Nar lavora quotidianamente per una cooperativa. Ma, aveva spiegato a margine del processo: «non ho quasi più una vita sociale. E’ molto ritirata e semplice: casa-carcere e carcere-casa. Pochissime frequentazioni amicali e nessuna relazione affettiva».
«Tutto quello che è successo attorno al processo mi ha portato alla ribalta in una maniera che non è riparabile – aggiunge -. La gente rimane sconcertata quando sente che sei imputato per la strage di Bologna. O che potresti essere uno dei killer che ha ammazzato il fratello del presidente della Repubblica». L’imputato per la strage di Bologna ha «rapporti sporadici» col figlio. Che «non si occupa in nessun modo di politica». Quanto alla vicenda specifica della strage di Bologna: «non accetto di pagare per cose non fatte». Ricordando che i Nar hanno «sempre rivendicato le azioni» che hanno fatto. Il resto, dice, «è mistificazione della storia». «Se credete» alla storia dei «ragazzini utilizzati come esecutori», non è «un buon servizio alla verità». Se fosse stato condannato, aveva detto, avrebbe accettato «ciò che viene offrendo al sofferenza a Dio». Ma, aveva anche aggiunto, «in questa città non siamo noi che dobbiamo abbassare gli occhi». Se avesse detto il nome di chi incontrò a Treviso il giorno della strage di Bologna, avrebbe avuto un alibi. Ma, aveva chiarito, «non voglio coinvolgere un amico che potrebbe fornirmi l’alibi». Quanto ai delitti compiuti in passato Cavallini poco prima della lettura della sentenza, era stato esplicito: «l’omicidio Amato è quello che pesa più sulla mia coscienza».
Chi ha protetto gli assassini e gli stragisti degli anni di piombo. Paolo Biondani il 25 giugno 2020 su L'Espresso. Dalla P2 di Licio Gelli ai vertici delle forze armate. I terroristi neri hanno goduto di tanti appoggi e aiuti che ancora oggi rendono difficile ricostruire la verità di quella stagione di sangue. Terroristi neri. Neri come le stragi. E come i vertici della P2. Che in quella tragica estate del 1980 è al culmine del suo potere occulto. L’Antistato che scala lo Stato. E dichiara guerra ai difensori della legge e della democrazia. La storia d’Italia deformata con le armi del terrore. L’omicidio del magistrato Mario Amato è il primo atto di sangue di una strategia stragista appaltata ai killer neofascisti dei Nar, culminata nella carneficina del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Come esecutori della più cruenta strage nera (85 vittime) sono stati condannati, con varie sentenze definitive, i terroristi di destra Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e nel gennaio scorso, in primo grado, Gilberto Cavallini. Sono gli stessi killer dei Nar che hanno organizzato e perpetrato, cinque settimane prima, l’omicidio del pm Amato. Dopo l’arresto, schiacciati dalle prove, Fioravanti, Mambro e Cavallini hanno finito per confessare quel delitto, ma continuano ancora oggi a nascondere i mandanti della strage di Bologna. E troppi altri segreti dell’Antistato, come lo chiamava l’ex giudice Loris D’Ambrosio, amico ed erede delle ultime indagini di Giovanni Falcone sui delitti «fascio-mafiosi». Come l’omicidio di Piersanti Mattarella, assassinato nel gennaio 1980 con la stessa pistola che ha ucciso Amato. Gli assassini del magistrato si presentano come Nuclei armati rivoluzionari (Nar), nemici dello Stato. La prima prova che sono invece coperti da apparati deviati dello Stato arriva poco dopo l’omicidio. Il pm Amato, lasciato senza scorta, viene ucciso alle 8 del mattino, mentre aspetta l’autobus, con un colpo alla nuca sparato da Cavallini. Che fugge su una moto guidata dal diciassettenne Ciavardini. Un testimone annota il numero di targa: è stata rubata sei giorni prima a un cittadino bloccato da tre rapinatori vestiti da vigili. Quindi Fioravanti fa un errore da criminale drogato: perde un giubbotto per strada a Roma, che viene ritrovato da un poliziotto. Nelle tasche ci sono due bustine di cocaina pura, 12 proiettili, documenti di un altro terrorista dei Nar, 14 foto-tessere dello stesso Fioravanti e una strana mappa, disegnata a matita. È la piantina del deposito centrale dell’Aeronautica militare, con le vie di entrata e uscita dal garage. Dove un aviere onesto aveva inutilmente segnalato la comparsa di una moto sconosciuta, identica. Dunque i terroristi dei Nar, spiegano le sentenze, hanno potuto usare una caserma militare per nascondere una moto rubata per andare ad ammazzare un magistrato. E questa è solo una delle mille coperture garantite da traditori dello Stato rimasti ignoti: quelli smascherati, sono tutti piduisti. Amato era un magistrato coraggioso e onestissimo , lasciato solo a indagare sul terrorismo di destra. Arrivato a Roma nel 1977, eredita le inchieste del giudice Vittorio Occorsio, il primo a scoprire l’intreccio tra terrorismo nero, criminalità romana, mafia, massoneria e riciclaggio di denaro sporco, ucciso nel 1976 da Pierluigi Concutelli. In una drammatica audizione al Csm, dieci giorni prima di essere assassinato, il pm Amato denuncia: «Sono stato lasciato completamente solo. Devo occuparmi di 600 processi all’anno per i reati più vari e mi vengono delegate tutte le indagini sul terrorismo nero... Il procuratore capo mi ha chiamato una sola volta, perché nell’agenda di un arrestato c’era il nome di un collega... Ho chiesto inutilmente aiuto, ma sono stato bersagliato da denunce false... È un lavoro massacrante, che comporta la necessità di tenere a mente centinaia di nomi e dati. Tutti coloro che si occupano di terrorismo dicono che una banca dati è indispensabile, ma non se ne è mai fatto niente». Amato fa l’esempio di un arsenale trovato a Civitavecchia: «Le bombe a mano avevano lo stesso numero di lotto di quelle sequestrate in un covo dei Nar e di altre utilizzate dagli stessi Nar per un attentato nella sede del Pci con 22 feriti», ma «l’ho scoperto per caso, solo grazie ai miei appunti». Come Occorsio, Amato viene ucciso proprio quando, come spiega lui stesso, sta «arrivando alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori materiali». Eliminare quei magistrati significa azzerare le indagini sui complici eccellenti e sui mandanti delle stragi, passate e future. La loggia P2, allora, è ancora sconosciuta. E condiziona anche la giustizia romana. A scoprirla, nel 1981, sono i magistrati milanesi che indagano sul banchiere piduista Michele Sindona per l’omicidio Ambrosoli. Nella lista degli oltre 900 affiliati c’è la mappa del potere occulto: ministri, parlamentari, magistrati, banchieri, imprenditori, editori e tutti i capi dei servizi segreti. Compresi gli ufficiali condannati per aver inquinato le indagini sulle stragi nere, da Piazza Fontana a Bologna. Dopo l’omicidio Amato, Fioravanti e i suoi complici progettano di far evadere Concutelli, diventato il capo militare di Ordine nuovo, la stessa banda nera delle stragi di Peteano e Brescia. Poi si spostano in Sicilia, dove organizzano l’eccidio di Bologna. Due giorni prima, il 30 luglio 1980, un commando dei Nar, rimasto anonimo, fa esplodere un’autobomba all’ingresso del Comune di Milano, nella notte del varo della giunta di sinistra. Dopo la strage di Bologna, i killer di Amato pianificano l’omicidio di un altro giudice simbolo, Giancarlo Stiz, il primo a indagare sui terroristi neri, che si salva perché Ciavardini ha un incidente d’auto. Nei processi, Fioravanti, Mambro e Cavallini si dichiarano estranei a tutte le stragi: reati inconfessabili. Però mitizzano Concutelli e Mario Tuti, che nel 1981 hanno strangolato in carcere il manovale nero Ermanno Buzzi, condannato in primo grado per la strage di Brescia, per zittirlo per sempre. Dopo le confessioni di Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, i capi dei Nar ammettono tredici omicidi. Ma sull’omicidio Amato mentono ancora: cercano di scagionare Ciavardini, sostenendo che a guidare la moto fosse un altro neofascista, morto. Le sentenze li sbugiardano parlando di «baratto»: Ciavardini va difeso «in cambio del suo silenzio sulla strage di Bologna». Nell’estate dei delitti e delle bombe, Licio Gelli in persona si attiva per depistare, alimentando una lunga serie di false «piste internazionali». La macchina del fango piduista scatta già dopo la tragedia di Ustica , per eccesso di zelo: secondo le sentenze civili (quelle penali non hanno portato a niente), l’aereo fu abbattuto in una battaglia segreta tra caccia francesi, americani e libici. Il Sismi controllato dalla P2 però attendeva già da giugno un attentato clamoroso e aveva l’ordine di calunniare un ex terrorista, Marco Affatigato, per cui lo dà per morto con una bomba sull’aereo di Ustica. Affatigato in realtà è vivo e non c’entra niente, ma il depistaggio si ripete dopo la strage di Bologna. La commissione Anselmi, nell’indagine sulla loggia, rimarca che proprio Affatigato, guarda caso, è stato il primo ex ordinovista a svelare fin dagli anni ’70 «i finanziamenti della P2 ai terroristi neri». I processi di Bologna sono costati a Gelli, morto nel 2015, una condanna definitiva come burattinaio del depistaggio più grave: armi ed esplosivi nascosti su un treno dai piduisti del Sismi, nel gennaio 1981, per accreditare l’ennesima falsa pista estera. Le nuove indagini della procura generale ora lo indicano come presunto «mandante e finanziatore» della strage. Un’accusa nata dalla realizzazione dell’idea di Amato: una grande banca dati con tutti i delitti del terrorismo nero e i misfatti della P2, come la bancarotta dell’Ambrosiano. È questo incrocio di atti a svelare che Gelli, nell’estate della strage, ha usato almeno 8 milioni di dollari, rubati alla banca del piduista Calvi, per finanziare un piano segreto intitolato «Bologna». Affidato ai Nar: il braccio armato della P2.
La colpevolezza dei Nar è un dogma ideologico. Le strane relazioni che intercorrevano tra l'Italia e gli arabi del Fplp, scrive il 02/08/2016 Dimitri Buffa su “Il Tempo”. Anche oggi come da 36 anni a questa parte alle 10 e 25 in punto la città di Bologna si fermerà per qualche minuto. Per commemorare gli 85 morti e i 200 feriti di un attentato che, al di là delle sentenze definitive e della colpevolezza come esecutori materiali ormai appiccicata addosso in maniera indelebile ai tre ex Nar Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Francesca Mambro, rimane ancora avvolto nel mistero. Un po’ di luce però, almeno sul movente lo può fare il libro «I segreti di Bologna», di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, rispettivamente un avvocato e un magistrato, entrambi coraggiosi nell’andare contro corrente rispetto alla vulgata che ha voluto che questa strage fosse fascista sin dai primi istanti. Il Tempo già si era occupato di uno dei misteri di questa indagine, ossia la mancata identificazione di un cadavere e la scomparsa di un corpo di una delle vittime. Ma l’indicibile segreto di Stato che forse non sarà mai tolto, perchè è servito all’Italia a non subire più attentati da parte di terroristi palestinesi e medio orientali in genere, compresi quelli dell’Isis (toccando ferro), non è negoziabile nè rivelabile. E dopo gli anni ’70 che avevano lasciato una lunga scia di oltre sessanta morti del tutto rimossi dall’inconscio collettivo ad opera di settembre nero e altre formazioni dell’epoca, oggi se ne conosce il nome: «Lodo Moro». E colui che gli diede il nome non sapeva che un giorno, il 16 marzo 1978 ne sarebbe diventato vittima. Molte indagini infatti hanno acclarato, e il libro le elenca tutte in maniera che anche un bambino di sette anni potrebbe capire, che le armi alle Br in Italia le portarono anche i palestinesi del Fplp di George Habbash. Quel fronte popolare di resistenza palestinese di matrice marx leninista che invano nel febbraio 1978 tramite gli informatori del colonnello Stefano Giovannone, vero e proprio sacerdote della liturgia del «Lodo Moro», soffiò al Viminale della preparazione di un attentato con rapimento di un’alta personalità politica in Italia sul modello del sequestro di Hans Martin Schleyer, il presidente della Confindustria della ex Germania Ovest sequestrato nel settembre 1977 dalla Raf. Insomma se tutte le rivoluzioni finiscono per mangiarsi i propri figli il «lodo Moro» si mangiò suo padre, Aldo Moro. Il libro in questione, quindi, rivela e mette in fila tutti i segreti di Stato legati al «Lodo Moro» a cominciare dal ruolo di Carlos e di Thomas Khram e dei suoi accoliti dell’Ori, organizzazione rivoluzionaria internazionale, nella strage di Bologna, che potrebbe anche essere avvenuta per errore, cioè esplosivo in transito, cosa che spiegherebbe la mancata identificazione di almeno una delle vittime. Per non parlare degli omissis legati alle minacce di ritorsione sempre segnalate dal Sismi di Santovito, che venivano fino a tutto il luglio 1980 da parte dell’Fplp, legate alla vicenda dei missili Strela Sam 7 sequestrati qualche mese prima all’autonomo Daniele Pifano e destinati ai palestinesi. Con annessi arresto di Abu Anzeh Saleh e trattativa per farlo rilasciare dai giudici di Chieti e L’Aquila. Poi c’è la storia del trattato segreto tra Italia e Malta siglato dall’allora sottosegretario Giuseppe Zamberletti a La Valletta proprio un’ora prima della deflagrazione di Bologna. O quella dell’appoggio italiano, sottobanco, al tentato golpe contro Gheddafi fomentato dall’Egitto di Sadat, senza contare la vicenda di Ustica e via dicendo. Verità mai cercate anzi sacrificate da alcuni magistrati sull’altare della ragion di Stato. Moventi precisi, quasi certi, conosciuti da Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Giuseppe Zamberletti, Bettino Craxi, Lelio Lagorio e Giuseppe Santovito. Tragici segreti di Stato e insieme di Pulcinella. Ma che, per evitare che venissero fuori i nostri accordi sottobanco con i palestinesi dell’Olp e del Fplp, nonchè quelli con Gheddafi che includevano l’aiuto a scovare e uccidere i dissidenti libici in Italia, si preferì seppellire sotto i depistaggi ai danni dei Nar. Che in fondo, essendo tutti già condannati per altri omicidi e atti di terrorismo, erano dei capri espiatori perfetti, Ma oggi quando si chiede di togliere i segreti di Stato su Bologna, magari sperando di trovarci dietro chissà quale appoggio occulto della P2 di Licio Gelli, con quale onestà intellettuale si fanno questi appelli? Il «Lodo Moro» e il doppiogiochismo dell’Italia tra «la moglie americana e l’amante libica, e magari l’amichetta palestinese», per citare una felice battuta di Giovanni Pellegrino presidente della Stragi, rimarranno sempre segreti. L’Italia deve accontentarsi dei colpevoli di repertorio. Dimitri Buffa.
"Quella strage, per un diffuso pregiudizio, doveva essere fascista". Sergio D'Elia sulla strage di Bologna. huffingtonpost.it l'1/08/2020. “La teoria di stragi di stato nel nostro Paese non si è certo fermata alla stazione di Bologna. Potrebbe essere "di Stato" anche quella di Bologna, nel doppio o alternativo senso di una strage che lo Stato, potendolo fare, non avrebbe impedito avvenisse o di una strage che, una volta avvenuta, lo stato avrebbe coperto da una spessa e impenetrabile coltre di omertà. La "verità processuale" sulla strage di Bologna si specchia nel "segreto di Stato" che per oltre 40 anni è stato imposto sulla strage di Bologna e sull’occultamento di possibili e più probabili verità alternative, indicibili e inconfessabili per la loro gravità. Non per libera convinzione ma per comune convenzione, non per un fondato giudizio ma per un diffuso pregiudizio, la strage doveva essere "fascista". Si tratta della stessa convenzione che per decenni ha portato l’arco costituzionale a escludere il Movimento Sociale Italiano dalla vita democratica e a negargli la dignità di forza politica del nostro Paese. Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, che per storia e loro stessa natura ‘fascisti’ non sono mai stati, erano le vittime predestinate di questo luogo comune dominante: stragismo uguale fascismo. Aggiungo che, non per conoscenza diretta dei fatti e degli atti processuali, ma per conoscenza diretta del vissuto dei loro ultimi 30 anni, ho maturato da tempo il libero convincimento, l’assoluta convinzione della loro innocenza. Quando sono usciti dopo due decenni di pena espiata, come Nessuno tocchi Caino abbiamo decisi di accoglierli, perché doppiamente innocenti, non solo diversi dal tempo del delitto, ma anche estranei al più grave dei delitti. Sono testimone del fatto che Marco Pannella diceva che avrebbe affidato loro l’educazione dei suoi figli. Per loro, militanti "fascisti", era nato un comitato composto per lo più da "antifascisti" militanti che si chiamava "E se fossero innocenti?". Dopo vent’anni, non credo vi sia un solo promotore di quel comitato "di sinistra", un solo rappresentante delle istituzioni di questo Paese che, in scienza o coscienza, non abbia superato la cautela del dubitativo e dell’interrogativo posti all’origine e alla fine del nome di quel comitato. Le vittime della strage di Bologna vanno onorate innanzitutto del dovere più sacro che va reso loro, quello della ricerca della verità. Continuare a dare in pasto all’opinione pubblica colpevoli per convenzione, di comodo o di copertura, sarebbe la violazione più grave dei loro diritti, un alto tradimento della loro memoria.”
Strage, il neofascista Maggi: "Sono stati Giusva e Mambro. Ustica andava dimenticata". Pubblicato giovedì, 30 luglio 2020 da Rosario Di Raimondo su La Repubblica.it. Il leader di Ordine Nuovo in una intercettazione agli atti della Procura. E oggi il presidente Mattarella è a Bologna per incontrare i familiari delle vittime di Ustica e del 2 Agosto. "Sì sicuramente... sono stati loro". È la sera del 18 gennaio 1996, in sottofondo la tv trasmette notizie su Ustica e Carlo Maria Maggi, ex leader del movimento di estrema destra Ordine nuovo, discute a cena con la moglie e il figlio. Parla di "loro", cioè dei terroristi neri Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, esecutori materiali della strage di Bologna. Parole scritte nella pietra: la trascrizione dell’intercettazione ambientale in casa di Maggi è agli atti dell’inchiesta della Procura generale. "Il giudice ha da giorni... ha tracciato che la Mambro e Fioravanti... – chiede il figlio Marco – hanno fatto la strage di Bologna?". Risposta del padre, condannato per la strage di Brescia e morto nel 2018: "Sì sicuramente... sono stati loro". Poi, riferito a Giusva: "Eh, intanto lui ha i soldi". Un altro tassello del lavoro degli inquirenti, certi del fatto che pochi giorni prima dell’eccidio il capo della P2 Licio Gelli e un suo factotum diedero un milione di dollari ai neofascisti come anticipo per l’attentato. Per Maggi, Ustica "è stato un episodio di guerra fredda; perché la strage di Bologna è stato un tentativo di confondere le acque. Per far dimenticare Ustica. Lo so perché è così". Parla inoltre di Paolo Bellini, ex di Avanguardia nazionale, " l’aviere", uno degli indagati per i quali la Procura generale ha di recente chiesto il rinvio a giudizio per il concorso nell’attentato del 2 agosto in quanto il " quinto uomo" dell’attentato. Per i magistrati, l’intercettazione è una delle prove a carico di Bellini, che aveva appunto conseguito un brevetto da aviatore. Cronaca Strage Bologna, la Procura chiede il processo per Paolo Bellini Mattarella a Bologna per le vittime E' il primo Presidente della Repubblica a rendere omaggio alle vittime della strage della stazione dopo Sandro Pertini, che venne numerose volte in città per incontrare i familiari di coloro che persero la vita nell’attentato del Due agosto 1980.
Strage di Bologna 40 anni dopo. Feltri, Minoli e Veronesi: Mambro e Fioravanti non c’entrano. Adele Sirocchi venerdì 31 luglio 2020 su Il Secolo D'Italia. Quarant’anni dopo la Strage di Bologna cominciano a cadere le narrazioni di comodo, le verità precostituite. La domanda di chiarezza si fa sempre più forte dinanzi agli evidenti scricchiolii della tesi della strage “fascista”. La strage di Bologna del 2 agosto 1980 ”non è mai stata chiarita”, afferma il direttore di Libero Vittorio Feltri che aggiunge: ”Non credo che c’entrino Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. Non mi persuade questa interpretazione della vicenda. Non credo neanche che avessero la forza per organizzare una cosa simile. Non gli si può addossare la colpa della strage di Bologna che esigeva evidentemente un’organizzazione diversa”.
Feltri: la strage non è mai stata chiarita. La strage di Bologna, aggiunge Feltri, ”me la ricordo bene, lavoravo al Corriere della Sera, agli interni e al politico. Quando arrivò la notizia subito scattò l’allarme che pervase tutto il giornale. Ci mettemmo al lavoro. Naturalmente in seguito demmo un occhio alle indagini che non ci hanno mai persuaso, così come l’esito del processo. Ancora oggi c’è una delle vittime che non è stata identificata. Tra l’altro vorrei sapere chi ha finanziato quell’operazione. Mi risulta che sia in corso un’indagine a Bologna perché si intende fare un po’ di luce su come venne finanziato l’attentato. Certo sono passati 40 anni quindi non sarà facile”, conclude Feltri.
Sandro Veronesi: Mambro e Fioravanti non c’entrano. Sandro Veronesi, fresco premio Strega con "Il Colibrì" (La Nave di Teseo), afferma: “Sono convinto che i veri responsabili non siano stati mai puniti né processati. Questa per me è la cosa più dolorosa: pensare che tutto quello che è successo abbia prodotto una serie di depistaggi che a me sembrano evidenti. La mia impressione è che i responsabili siano ancora in giro”. Si tratta, aggiunge Veronesi, di un ”terreno veramente doloroso e delicato. Però, per come ho analizzato le cose, quando mi è capitato di studiare tutta la vicenda di Mambro e Fioravanti, dei loro omicidi e delle loro scorrerie criminali, mi pare evidente che loro nella strage non c’entrino. Questa è la mia impressione, suffragata dalle ricerche che ho fatto negli anni Novanta per un film che poi non si è mai realizzato”. Quel progetto, ricorda lo scrittore, ”ci aveva dato la possibilità di studiare bene una serie di passaggi che sembravano forzare molto sulla figura di Mambro e Fioravanti”. Per Veronesi i due ”sono stati incolpati visto che avevano commesso tanti altri crimini ma in modo diverso e non con un atteggiamento stragista”. ”Mi porto dietro l’amarezza – prosegue Veronesi – di un caso, forse il più eclatante, sanguinoso e impressionante al quale abbia assistito nella mia vita, in cui si è andati a pescare nell’acqua sbagliata. Insomma, il tutto mi dà l’idea che giustizia non sia stata fatta. E mi pare di vedere che questa sia una cosa condivisa. Altrimenti, Mambro e Fioravanti non avrebbero dovuto godere di quei benefici di legge di cui hanno goduto”. In altri termini per Veronesi, ”sono stati condannati ma non sono stati trattati come se fossero veramente i colpevoli”.
Minoli: e se fossero innocenti? Poco convinto dalle verità di comodo anche Giovanni Minoli che nel 1994, insieme a molte altre personalità del mondo della cultura, tra cui la regista Liliana Cavani e il fotografo Oliviero Toscani, firmò appunto l’appello del comitato "E se fossero innocenti?" che chiedeva la revisione della sentenza che condannò all’ergastolo Mambro e Fioravanti. “Mi sembra che Francesca Mambro e Giusva Fioravanti – dice Minoli – siano stati strumentalizzati e, a tanti anni di distanza, continuo a pensare che chi ha firmato la petizione "E se fossero innocenti?" abbia fatto bene a farlo”. Per Minoli dare la colpa a Mambro e Fioravanti rappresenta una scelta ‘facile’. ”Mi sembra comodo – spiega infatti – giocare sempre questa carta senza nessuna argomento in più. Resto dell’idea che avevo quando ho firmato. Dopo aver approfondito molto, abbiamo fatto tante puntate della ‘Storia Siamo Noi’ sulla strage di Bologna, mi sono fatto questa convinzione e cioè che il dubbio sulla loro responsabilità sia enorme. Avendoli intervistati in carcere, accusati di tutto il male che hanno fatto, mi sembra che loro siano estranei a quella cosa lì”, conclude Minoli.
· I misteri irrisolti.
2 agosto 1980. L’orazione civile di Marconi. Luigi Iannone il 30 luglio 2020 su Il Giornale. Quarant’anni dalla strage di Bologna e nessuno può con nettezza affermare che le inchieste delle varie Procure siano riuscite a sbrogliare quella intricata matassa fatta di presunti o reali mandanti, fiancheggiatori e organizzatori della strage. Anzi, in certi momenti, l’impressione che si avuta è stata opposta. Una sorta di caos organizzato! Gabriele Marconi pubblica per Eclettica Edizioni un volume dal titolo 2 agosto 1980. Orazione civile (p.115, euro 12) che si insinua tra i mille misteri di questa tragedia ma narrandola da una prospettiva diversa… quella del racconto teatrale. Tuttavia, non una costruzione frutto di fantasia, arzigogolata e scenograficamente artefatta, e quindi priva di valenza storiografica, ma alimentata da esperienze personali e grazie ad inchieste condotte e pubblicate da Area, il mensile che Marconi co-dirigeva, e che pubblicò un numero imprecisato di resoconti proprio su Bologna. La scelta dello strumento teatrale e di una narrazione orale procede la presa in carico del fatto che quegli speciali, densi e articolati apparivano tortuosi e, soprattutto, annoiavano un pubblico che accorreva numeroso alle conferenze ma veniva inondato da una multiformità di aneddoti, nomi, trame, misteri, sigle. Ed ecco la via d’uscita: riprendere tutto quel poderoso materiale pubblicato per anni su Area, corroborarlo con quello della Relazione Mithrokin, aggiornarlo con le scoperte più recenti, e farne un monologo teatrale. Senza dare sfogo alla fantasia! Attenendosi alla cronaca e ai fatti ma in un contesto, ovviamente, di riverberi, emozioni e sentimenti che sono politiche e collettive, ma anche e soprattutto individuali, perché afferrano dal profondo la coscienza di ogni italiano. Ciò che segue è il primo capitolo del libro che, per gentile concessione dell’editore, riproduciamo integralmente…
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2 agosto 1980. È la mattina del 2 agosto 1980. Fa molto caldo…È sabato, e la gente che affolla la Stazione centrale di Bologna si è lasciata alle spalle un inverno di lavoro, di studio, di fatiche… Fra terrorismo, corruzione e inflazione, c’è stato poco da divertirsi. Solo il mese prima un Dc9 è esploso in volo… ancora non si sa come né perché… e si è inabissato nel mare tra Ustica e Ponza causando la morte di ottanta persone. Il mondo è diviso in due blocchi: c’è ancora l’Unione sovietica, e l’Armata Rossa è entrata in Afghanistan per sostenere il fragile governo comunista locale, ma le sta prendendo di brutto contro i mujaheddin, aiutati dagli Stati Uniti d’America, dove il presidente Carter è in forte declino e presto perderà la sfida con Ronald Reagan ma intanto, insieme a molti Paesi occidentali, boicotta le Olimpiadi di Mosca, proprio per protestare contro l’invasione dell’Afghanistan. Qui in Italia, intanto, ci sono ancora tutti intatti i partiti della prima repubblica… Dc, Pci, Psi, Msi, Psdi, Pri, Pli… Presidente è Sandro Pertini. Da poco c’è un nuovo Papa: è un polacco e si chiama Karol Wojtyla…Bob Marley, Fabrizio de André, Lucio Battisti, Rino Gaetano e John Lennon sono ancora vivi e fanno musica. John Lennon non ne ha per molto. Ian Curtis, dei Joy Division, si è ammazzato da poco, mentre Bon Scott, degli AC/DC, è morto dopo l’ennesima sbronza all’inizio dell’anno, soffocato dal suo vomito; Sid Vicious dei Sex Pistols, gli alfieri della rivoluzione nichilista del Punk, è morto l’anno prima di overdose, a soli ventidue anni. I Clash fanno furore con London Calling, i Police lanciano Zenyatta Mondatta, i Dire Straits Making Movies, mentre Edoardo Bennato dice che Sono solo canzonette…È la mattina del 2 agosto 1980, dicevamo… e nella stazione di Bologna ci sono turisti che partono verso il mare, o verso la montagna… con valigie, zaini, tende, sacchi a pelo… ragazzi con l’Interrail in tasca… sapete, quel biglietto ferroviario che dura un mese e che ti consente di girare a piacere ad un prezzo abbordabile… come una tessera dell’autobus “intera rete”, ma valida su tutti i treni del continente. Insomma ragazzi che vanno in giro ad annusare l’Europa per la prima volta in vita loro, magari portandosi appresso una saccocciata di gettoni o di spiccioli, per telefonare a casa…Mica c’erano i telefonini, allora! Dice: e come facevate? Oh, facevamo. Se è per questo, non c’era neanche Internet, non c’erano i fax né le play station e tantomeno gli I-Pod, gli I-Pad, i tablet… nelle automobili non c’erano le cinture di sicurezza obbligatorie né gli air-bag, si poteva andare in moto senza casco, e nessuno si sognava di metterlo in bicicletta o sugli sci. Era un mondo difficile…Io ad esempio, per chiamare casa risparmiando al massimo, usavo un singolo gettone alla volta: durava quindici secondi, o dieci o trenta, a seconda di quanto fossi lontano. Erano più che sufficienti per dire: “CiaomammasonoiostobenesonoaLondraacasacomeva?” e mentre lei, grazie al Cielo, diceva “A casa tutto bene. Ma dimmi…” tu gridavi “ciaomammafinitiigettoni!” CLIC. Per raccontare, poi, ci sarebbe stato tempo tutto l’inverno…Oltre ai ragazzi, ovviamente, quel sabato mattina nella stazione di Bologna ci sono le famiglie. Soprattutto le famiglie… Mamme, papà stracarichi di valigie, nonni… bambini. Alle biglietterie, le solite code interminabili, con le solite misteriose variazioni di velocità. Lo sanno tutti: appena ti sposti alla coda accanto, perché sta correndo come un Eurostar, quella si ferma, e la coda dove stavi tu fino a un attimo prima si esaurisce in un batter d’occhio… È la famosa “Legge di Murphy sulle Code”: l’altra coda va più veloce. Appunto: l’altra. Quindi, appena ti sposti, sarà l’altra ad andare più veloce…Ai binari, chi sale, chi scende, chi arriva e chi parte, chi saluta e chi si bacia, chi litiga… chi dice “questa è l’ultima volta che mi ci fregate: in vacanza con voi, mai più!”. Non sa quanto è vicino all’essere esaudito… Perché… perché in mezzo a tutta questa umanità sudata che s’incrocia all’interno della stazione di Bologna, c’è qualcuno assolutamente indifferente al caldo, indifferente alle vacanze, ai saluti e ai baci…Indifferente a tutto quello che lo circonda in quel momento…Qualcuno che porta una valigia, proprio come gli altri che affollano la stazione quella mattina del 2 agosto 1980. Ma nella sua valigia non ci sono mica costumi da bagno, o… che so… pinne e maschere che odorano di quel misto di gomma, salsedine e muffa di cantina, dove sono state riposte per l’inverno…No, non c’è niente di tutto questo: nella sua vali-gia ci sono circa undici chili di una micidiale miscela esplosiva, composta di tritolo e T4. Qualcuno di voi sa cos’è? Dico, il T4, c’è qualcuno che sa cosa sia? Giusto, è un esplosivo. Un esplosivo ad alto potenziale. Quanto alto? Molto alto. Per fare un esempio… Ricordate le miccette, quei petardi piccoli piccoli che quand’eravamo bambini ci vendevano nei giorni di Capodanno? Intrecciate con una miccia lunga che le collegava tutte? Ora mi sembra che vadano i miniciccioli, che sono più o meno la stessa cosa…Avete presente? Bene. I miniciccioli contengono 0,05 grammi di polvere pirica. Ecco, se avesse usato miniciccioli, quella mattina, quel tipo indifferente a tutto avrebbe dovuto portare circa 10.000 valigie per ottenere un botto come quello del 2 agosto, tanto da riempire la palazzina dal pavimento al soffitto. E invece gliene è bastata una. La differenza di peso sta tutta in quella definizione: “Esplosivo ad Alto Potenziale”…Significa che con un chilo di miscela di tritolo e T4 provochi un’esplosione pari a circa otto tonnellate di polvere pirica. Pensate ai danni che ha fatto: 85 morti e 200 feriti. Per quella gente rimasta sotto le macerie della stazione centrale di Bologna – perché è soprattutto il crollo che provoca tanti morti, come stabiliranno gli esperti – niente più vacanze. Niente più partenze. Soprattutto, niente più ritorno…Tutti sanno che per quell’atto terroristico ci sono state indagini, arresti, processi, assoluzioni e condanne definitive; per la precisione, ad essere condannati sono stati prima Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, dei Nar, Nuclei armati rivoluzionari, una banda armata di estrema destra. Rei confessi di altri reati, compresi molti omicidi. E in un altro processo – al Tribunale dei minori, perché all’epoca dei fatti era diciassettenne – Luigi Ciavardini, anche lui dei Nar. Tutti e tre si sono sempre dichiarati innocenti per quanto riguarda la strage di Bologna (ora, in un nuovo processo, è stato condannato anche un quarto membro dei Nar, Gilberto Cavallini. Processo che ha fatto emergere nuove e sorprendenti rivelazioni, anche sul numero esatto delle vittime… ma di questo parleremo più avanti). Io però oggi vi racconterò un’altra storia. Una storia che molti conoscevano fin dall’inizio, ma che è stata nascosta a tutti…Una storia sulla quale era ovvio indagare, ma nessuno l’ha fatto. Nessuno l’ha mai voluto fare.
Paola Benedetta Manca per adnkronos.com il 29 luglio 2020. Nel libro di Beppe Boni, condirettore de “Il Resto del Carlino” e Carlino.it: 'La strage del 2 agosto – La bomba alla stazione. I processi, i misteri, le testimonianze. 2 agosto 1980-2 agosto 2020', edito da Minerva, sono riportati, per la prima volta in forma integrale, alcuni dei dispacci inviati al Sismi dal colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone, nome in codice "Maestro", capo stazione per i nostri servizi in Medioriente con base a Beirut, in Libano. Si tratta di dispacci – ricostruisce Boni - in cui si avvertivano i Servizi segreti della volontà di ritorsione del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che riteneva violato il cosiddetto "Lodo Moro" del 1973 che assicurava loro immunità nel nostro Paese. La ritorsione era nell'aria a causa dell'arresto nel novembre del 1979 a Ortona di tre esponenti del Collettivo di via dei Volsci, tra cui il loro leader Daniele Pifano, mentre su un furgone trasportavano due missili terra-aria Strela-2 che appartenevano all’Fplp, l’organizzazione palestinese di matrice marxista aderente all’Olp che in Europa operava con il gruppo del terrorista internazionale Carlos lo Sciacallo denominato "Separat". Insieme a loro viene arrestato anche il rappresentante dell’Fplp in Italia Abu Saleh. L'Olp, nel 1980, chiede la loro liberazione, minacciando rappresaglie in caso di riposta negativa. La vicenda è affrontata nel libro di Boni in cui si possono leggere i cablogrammi di Giovannone inviati da Beirut al Sismi in dettaglio. Eccoli di seguito:
Primo dispaccio: "21 novembre 1979 – Taisir Qubaa esprime necessità che Fplp confermi solidità dell’impegno di escludere il nostro Paese da qualsiasi azione terroristica".
Secondo dispaccio: "18 dicembre 1979 – L’interlocutore Taisir Qubaa habet minacciato immediata azione e dura rappresaglia nel momento in cui venisse a conoscenza del rifiuto out non rispetto impegno richiesto. Ritengo che l’interlocutore sia esasperato da critiche ed accuse rivoltegli da oppositori interni a Fplp e rappresentanti di autonomia che ritengo lo abbiano recentemente contrastato sollecitando urgenti passi idonei a ridimensionare la gravità delle imputazioni addebitate agli autonomi incriminati".
Terzo dispaccio: "14 aprile 1980 – Fplp (Abbas) notifica che gli elementi moderati dell’organizzazione sono riusciti sino ad ora a bloccare ogni operazione a carattere intimidatorio nei confronti dell’Italia, voluta dai membri del politbourot, si trovano attualmente pressati ed in seria difficoltà di fronte all’atteggiamento minaccioso degli elementi estremisti dell’Fplp. Inutile rivolgersi all’Olp perché "non sarebbe in grado di prevenire l’effettuazione di una operazione terroristica che sarebbe probabilmente affidata ad elementi estranei all’Fplp e coperti da una etichetta sconosciuta". A tale riguardo si ritiene significativa la recente presenza a Beirut negli ambienti dell’Fplp di Carlos e si ritiene possibile che, nell’eventuale operazione in Italia, sia avocata dagli stessi autonomi e comunque da elementi non palestinesi e probabilmente europei, allo scopo di non creare difficoltà all’azione politico diplomatica in corso da parte palestinese per il riconoscimento dell’Olp e per l’auspicato invito ad Arafat".
Quarto dispaccio: "12 maggio 1980 – Il 16 maggio scade l’ultimatum quale termine ultimo per la risposta da parte delle autorità italiane alla richiesta del Fronte. In caso di risposta negativa la maggioranza della dirigenza e la base dell’Fplp intende riprendere, dopo sette anni, la propria libertà di azione nei confronti dell’Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti. L’interlocutore ha lasciato capire che il ricorso all’azione violenta sarebbe la conseguenza di istigazione della Libia, diventata principale sponsor dell’Fplp. Ha affermato che nessuna operazione avrà luogo prima della fine di maggio e probabilmente senza che vengano date specifiche comunicazioni.
Quinto dispaccio: "16 giugno 1980 – La Corte d’Appello dell’Aquila ha respinto il 29 maggio la richiesta di scarcerazione del giordano Abu Saleh. Dalla preoccupata reazione dell’esponente Fplp c’è motivo di ritenere che si riprendano libertà di azioni. Non si può fare affidamento sulla sospensione dell’operazione terroristica in Italia e contro interessi e cittadini italiani decisa da Fplp nel 1973 e si può ipotizzare una situazione di pericolo a breve scadenza anche in coincidenza dell’Appello del 17 giugno. Fonte fiduciaria indica due operazioni da condurre in alternativa contro obiettivi italiani: 1)Dirottamento di un Dc Alitalia; 2)L’occupazione di una ambasciata. Non si può escludere che la notizia sia stata diffusa allo scopo di coprire i reali obiettivi e i luoghi delle suddette operazioni, non si può escludere che Fplp, attualmente controllato da esponenti filolibici, possa garantire l’Olp, ma faccia egualmente effettuare operazioni minacciate, utilizzando elementi estranei che potrebbero usare nella circostanza una etichetta non qualificata".
Infine, l'ultimo cablogramma, sempre più pressante e allarmato: "27 giugno 1980 – H 10 Habet informazioni tarda sera Fplp avrebbe deciso riprendere totale libertà di azione senza dare corso ulteriori contatti a seguito mancato accoglimento sollecito nuovo spostamento processo. Se il processo dovesse avere luogo e concludersi in modo sfavorevole mi attendo reazioni particolarmente gravi in quanto Fplp ritiene essere stato ingannato e non garantisco sicurezza personale ambasciata Beirut". Dopo circa un mese, la strage di Bologna. E solo dopo oltre vent'anni l'inizio delle indagini sulla 'Pista palestinese', che verrà archiviata dai giudici bolognesi solo nel 2015.
La strage di Bologna, il 2 agosto 1980: cosa è successo e i misteri irrisolti. Giovanni Bianconi il 2 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Alle 10:25 del 2 agosto 1980 una bomba fece esplodere la stazione di Bologna. I morti furono 85 (o forse 86): la metà non aveva 30 anni. Questo è il racconto di che cosa successe. È anche una storia di ragazzi del secolo scorso, la strage di Bologna avvenuta quarant’anni fa, quando alle 10,25 del 2 agosto 1980 una bomba fece esplodere la stazione centrale. Giovani o giovanissime molte delle vittime, così come gli assassini condannati. Tra i morti, Angela Fresu stava per compiere 3 anni, sua madre Maria — contadina della provincia di Sassari — ne aveva festeggiati 24 a febbraio. Sonia Burri aveva 7 anni, sua sorella Patrizia 18; venivano da Bari. Roberto Gaiola, vicentino, era uno studente di 14 anni come il tedesco Eckhard Mader (il fratello Kai ne aveva 8). Antonella Ceci, diciannovenne di Rimini, era fidanzata con Leoluca Marino, operaio, 24 anni, siciliano come le sorelle Domenica e Angelina, 26 e 23 anni. Bambini, ragazzi o poco più.
Chi mise quella bomba, a Bologna. Delle 85 persone dilaniate dalla bomba (ma forse furono 86, come vedremo), circa la metà non aveva trent’anni. Giovani vite che transitavano per caso da quei binari, spezzate da altrettanto giovani attentatori che avevano imbracciato le armi per scelta politica e ribelle, stando alla sentenza che ha individuato tre colpevoli: Valerio Fioravanti, 22 anni all’epoca; Francesca Mambro, 21; Luigi Ciavardini, nemmeno 18: è stato processato a parte, dal tribunale dei minorenni. Terroristi-ragazzini che sotto la sigla neofascista dei Nuclei armati rivoluzionari hanno commesso e rivendicato omicidi di poliziotti, carabinieri, magistrati, avversari politici e «camerati» accusati di tradimento, ma per la strage si proclamano innocenti. Nonostante le condanne ormai definitive. Un quarto esecutore materiale è ancora presunto, si chiama Gilberto Cavallini, altro estremista nero dell’epoca: il 2 agosto ’80 non aveva ancora compiuto 28 anni, ma per lui la giustizia è andata molto a rilento e la condanna di primo grado è arrivata solo a gennaio del 2020. Un quinto ipotetico attentatore, già inquisito e prosciolto ma ora nuovamente imputato, di anni ne aveva 27: Paolo Bellini, neofascista pure lui ma di un’altra banda, Avanguardia nazionale; gli inquirenti ne hanno appena chiesto il rinvio a giudizio, e chissà quando arriverà – se ci sarà un processo – la prima sentenza. (Nel podcast Corriere Daily trovate una intercettazione, inedita, nella quale si sentono la moglie e il figlio di Bellini parlare, a riguardo di un video della strage nella quale la moglie sembra riconoscere il marito).
I condannati, già liberi. E i mandanti, già morti. Dall’esplosione è passato talmente tanto tempo che i primi condannati (Mambro e Fioravanti) hanno interamente scontato la pena e sono tornati liberi cittadini. In Italia si può, anche con più di un ergastolo sulle spalle. Per altri sospettati, invece, i giudizi sono alle battute iniziali, o devono ancora cominciare. Un paradosso, reso più stridente dal fatto che i presunti mandanti, organizzatori o complici della strage, individuati al termine di un’indagine che s’è conclusa all’inizio di quest’anno, sono tutti morti. Si tratta di nomi che hanno riempito le cronache nere, politiche e giudiziarie del XX secolo, ma di un’altra generazione rispetto agli esecutori. Potevano essere i loro padri, addirittura nonni. Licio Gelli, classe 1919, scomparso nel 2015; Umberto Ortolani, (1913-2002); Federico Umberto D’Amato (1991-1996); Mario Tedeschi (1924-1993). Erano tutti iscritti alla Loggia massonica P2, un’associazione segreta ispirata all’oltranzismo filo-atlantico e anticomunista che nel dopoguerra italiano e in piena «guerra fredda» tra Est e Ovest s’è servita anche di trame occulte e metodi poco ortodossi per impedire che il Partito comunista italiano si avvicinasse alle stanze del potere. Gelli della P2 era il capo, e avrebbe foraggiato gli stragisti con movimenti bancari dall’estero verso l’Italia; l’imprenditore Ortolani, uno dei maggiori finanziatori della Loggia segreta, lo avrebbe aiutato nell’impresa; Federico Umberto D’Amato era un funzionario di polizia giunto alla guida dell’Ufficio Affari riservato del ministero dell’Interno (una sorta di servizio segreto parallelo dell’epoca), fatto fuori nel ’74 ma sempre in attività al fianco di Gelli, secondo l’accusa; Mario Tedeschi, parlamentare del Movimento sociale italiano (il partito nato nell’Italia repubblicana dalle ceneri del fascismo) lo avrebbe aiutato attraverso gli articoli sulla rivista «Il Borghese», di cui era direttore. Si tratta di ipotesi difficili da dimostrare oggi, giacché un processo ai morti non si può fare. Vedremo che cosa uscirà da quello, eventuale, a carico di Bellini di un paio di altri imputati accusati di depistaggio: un ex carabiniere e un ex agente segreto, oggi novantunenne. Ma gli ipotetici mandanti sono stati individuati fuori tempo massimo. In vita, Gelli ha fatto in tempo a essere condannato per un altro depistaggio, sempre legato alla strage di Bologna, insieme agli ufficiali del servizio segreto militare Pietro Musumeci (pure lui affiliato alla P2) e Giuseppe Belmonte, e al «faccendiere» Francesco Pazienza. Anche un altro «ragazzo nero» dell’epoca, Massimo Carminati, che dall’estrema destra ha traslocato armi e bagagli nella criminalità comune, fino ad essere accusato di essere il capo di «Mafia Capitale» (che alla fine non s’è rivelata mafia, bensì un’associazione per delinquere dedita alla corruzione e altri reati), fu processato ma assolto per aver contribuito a quel depistaggio. Se l’ultima ricostruzione degli inquirenti venisse confermata, saremmo di fronte a una banda di ragazzi e ragazzini protagonisti della contrapposizione politica violenta dell’epoca (rossi contri neri, a suon assalti, ferimenti e omicidi) utilizzati come pedine; marionette mosse da burattinai che ricorrevano alle bombe per impaurire il Paese e tenerlo sotto pressione. Com’era avvenuto in passato, quando la «strategia della tensione» si dispiegò dalla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969) a quella dell’Italicus (4 agosto 1974), passando per altre esplosioni assassine come a Peteano (31 maggio 1972), Milano (17 maggio 1973) e Brescia (28 maggio 1974).
Il ritorno della «strategia della tensione». Una ripresa della lotta politica attraverso le bombe dopo sei anni d’interruzione, densi di attentati di altra natura: il terrorismo, soprattutto di sinistra, praticato dalle Brigate rosse e gruppi affini che fra il 1974 e il 1980 (e oltre, sebbene a ritmi più blandi) ha mietuto oltre cento vittime «selezionate» tra nemici politici o simboli da abbattere; la più illustre delle quali – Aldo Moro, sequestrato il 16 marzo 1978 dopo lo sterminio dei cinque agenti di scorta, e ucciso 55 giorni più tardi, il 9 maggio – stava lavorando a uno scenario che per la prima volta vedeva la Democrazia cristiana e il partito comunista sostenere lo stesso governo, e la sua morte determinò una irreversibile deviazione del corso della politica italiana. (Qui le interviste di Walter Veltroni ai protagonisti di quella fase, drammatica, della storia italiana: Rino Formica - «Lo Stato non ha voluto trovare la prigione di Moro» — Aldo Tortorella — «I sovietici tramarono per fermare Berlinguer al governo» — Virginio Rognoni — «Quando Andreotti lesse, o rilesse, il memoriale di Moro» — Beppe Pisanu — «Come poterono le Br passare inosservate?»). Colpi potenzialmente mortali per la giovane democrazia italiana (nell’80 la Repubblica aveva appena compiuto 34 anni), che nonostante tutto ha resistito ed è riuscita a superare la stagione del terrorismo; malconcia e con ferite indelebili, ma tutto sommato sana. È come se avesse digerito in fretta i traumi subiti, a dispetto degli enigmi irrisolti e degli intrecci (reali, plausibili o solo immaginari) che hanno caratterizzato gli anni cosiddetti «di piombo».
Archiviato, nonostante le risposte mancanti. Per restare alla strage di Bologna, restano da chiarire i legami dei colpevoli accertati col resto dell’eversione nera e con i presunti mandanti, apparentemente molto distanti dal mondo dei Nar. E ancora, volendo dare credito a possibili piste alternative, i collegamenti (esplorati, ma mai accertati né esclusi del tutto) con la strage di Ustica, il Dc9 precipitato con 81 persone a bordo il 27 giugno 1980 (qui le foto delle vittime); o con il terrorismo medio-orientale, di cui sono state trovate tracce seguite solo in parte e infine archiviate dagli inquirenti bolognesi, convinti che ogni altra ipotesi che allontani dalle responsabilità dei giovanissimi neofascisti non sia altro che un nuovo depistaggio. Comprese le strane teorie avanzate dallo stesso Gelli e dall’ex presidente della Repubblica (all’epoca della bomba capo del governo) Francesco Cossiga, su un attentato avvenuto per sbaglio: qualcuno trasportava una valigia di esplosivo (secondo Cossiga alcuni «amici della resistenza palestinese» di passaggio in Italia) e un mozzicone di sigaretta o qualche altro inconveniente provocò il disastro.
Gli anelli spezzati della catena. Spiegazione banale quanto «minimale» per l’atto di terrorismo più grave verificatosi nel dopoguerra nell’intera Europa occidentale. E se pure Fioravanti e Mambro fossero innocenti (così si chiamava il comitato sorto in loro difesa al tempo dei processi, al quale aderirono diversi esponenti della sinistra tra cui l’ex terrorista rosso di Prima linea Sergio D’Elia, militante radicale e oggi segretario di «Nessuno tocchi Caino», l’associazione contro la pena di morte per cui lavorano i due ex terroristi neri, che ieri ha ricordato: «Marco Pannella diceva che avrebbe affidato loro l’educazione dei suoi figli»), ciò non significherebbe che l’eccidio non sia ascrivibile ai neofascisti. Anzi. Ma nell’andamento altalenante dei verdetti (condanne in primo grado, assoluzioni in appello, annullamento della Cassazione, nuove condanne nell’appello-bis e conferma in Cassazione) si sono persi per strada nomi noti dell’eversione nera della generazione precedente, già coinvolti nelle indagini sulle stragi precedenti. Come se fossero anelli di un’unica catena irrimediabilmente spezzati. Basti dire che alla fine pure il neofascista veneto (e più in età, all’epoca aveva 38 anni) Massimiliano Fachini uscì assolto dall’accusa di aver procurato l’esplosivo, così come Sergio Picciafuoco, l’unico certamente presente sul luogo del delitto perché rimasto ferito. Verdetti di non colpevolezza che certamente hanno un peso, ma se ci si dovesse basare sulle sole condanne i responsabili del lungo rosario di bombe che hanno insanguinato l’Italia si conterebbero sulle dita di una mano, al massimo due. Un po’ poco. Ci dev’essere dell’altro. Anche per Bologna. Tuttavia pure la tesi di una nuova «strategia della tensione» non convince del tutto. Nel 1980 il quadro politico era ben diverso da quello dei primi anni Settanta: l’avanzata delle sinistre si era arenata, e dopo il delitto Moro il partito comunista era definitivamente uscito dall’area di governo; ogni timore di cedimento sul fronte orientale dell’Europa divisa in due poteva considerarsi superato, nonostante mancasse un altro decennio al crollo del muro di Berlino. In ogni caso, il terrorismo di sinistra bastava e avanzava per tenere alta la guardia filo-occidentale.
Il mistero della vittima numero 86. Oggi, a quarant’anni di distanza, si prova a colmare il vuoto dei mandanti, e resta incerto il movente. Il nuovo imputato Paolo Bellini – personaggio misterioso, che dopo l’adesione giovanile al neofascismo e l’uccisione di un giovane militante di Lotta continua è divenuto un killer per motivi personali e di ‘ndrangheta, informatore dei carabinieri e in contatto con i mafiosi esecutori della stragi di mafia del 1992-93, come ha spiegato nel nuovo ruolo di «pentito» – si proclama innocente per l’attentato del 2 agosto. Di cui non è più sicuro nemmeno il numero delle vittime. Nel corso dell’ultimo processo, quello a carico di Cavallini, è stata riesumata la salma di Maria Fresu, ma l’esame del Dna ha stabilito che i resti esaminati dai periti non appartengono alla donna. Potrebbero essere di qualche altra vittima presente nell’elenco ufficiale, finiti per errore nella bara sbagliata, ma altri raffronti non sono stati effettuati. E così è spuntato un nuovo mistero: c’è un cadavere in più? E se sì, a chi appartiene? Una nuova vittima, di cui però nessuno ha mai denunciato la scomparsa? Oppure l’attentatore (o attentatrice), magari inconsapevole nell’ipotesi dell’esplosione per sbaglio, come ipotizzano le difese dei condannati?
Anche per rispondere a queste ulteriori domande, quella della strage di Bologna è una storia ancora da scrivere. Un ragazzo di oggi, che forse si trova a sapere poco o nulla di una vicenda misteriosa in cui sono coinvolti molti ragazzi di quarant’anni fa, avrà tempo e modo di seguire gli sviluppi futuri.
Strage stazione di Bologna, trovata una fotografia inedita fatta poco dopo l’esplosione. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da S.Mor. Una fotografia che ritrae il piazzale della stazione di Bologna la mattina del 2 agosto 1980, poco dopo l’esplosione che causò 85 morti e 200 feriti. È un’immagine inedita quella ritrovata dopo 40 anni dall’avvocato Andrea Speranzoni, difensore dell’associazione dei familiari delle vittime della strage. Nello scatto a colori si riescono a distinguere una donna che sembra allontanarsi andando incontro all’obiettivo della macchina fotografica, con una borsa sulla spalla destra e una mano sulla tempia, come a proteggersi la testa; un vigile urbano di spalle e altre persone in secondo piano. Sullo sfondo, invece, lo spazio è occupato dal fumo che ha invaso l’ingresso della stazione dopo la violenta esplosione. «Appena giunto in stazione mi trovai davanti a questo spettacolo che sembrava una scena di guerra», furono le parole utilizzate dal fotografo bolognese Paolo Ferrari nel 2015, per descrivere l’attentato, nel corso di un’intervista al Corriere della Sera. Una tragedia rimasta —come altre — anni un mistero (cosa sappiamo). Intanto, pochi giorni fa, la Procura generale di Bologna ha chiesto il rinvio a giudizio per Paolo Bellini, ex Avanguardia nazionale, ritenuto un esecutore della strage del 2 agosto 1980 (per la cronologia completa è possibile consultare qui il sito dell’Associazione dei familiari delle vittime): l’uomo avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, tutti deceduti e ritenuti mandanti, finanziatori o organizzatori dell’attentato. Richiesta di giudizio anche per l’ex generale del Sisde Quintino Spella e l’ex carabiniere Piergiorgio Segatel, per depistaggio, e Domenico Catracchia, per false informazioni al pm al fine di sviare le indagini. L’inchiesta arrivata ad accusare Bellini è il fascicolo sui mandanti, da sempre sollecitato dall’associazione dei familiari dell vittime: prima archiviato contro ignoti dalla Procura ordinaria, è stata avocato a ottobre 2017 dalla Procura generale che ora ha chiesto il processo. Ma come si è arrivati alla figura di Bellini? L’ex moglie avrebbe riconosciuto l’allora compagno in un video dell’epoca, la mattina del 2 agosto 1980. «Purtroppo è lui», avrebbe dichiarato in un video visionato dall’Ansa. Nel filmato si vede un uomo riccio con i baffi, ripreso in un filmato amatoriale sul primo binario della stazione di Bologna. Bellini, ex Avanguardia Nazionale, è accusato di concorso in strage e per lui la procura generale ha da poco chiesto il rinvio a giudizio. «Posso dire che la persona ritratta nel fermo immagine immediatamente dopo la colonna è il mio ex marito», avrebbe detto Maurizia Bonini, interrogata il 12 novembre 2019. Nell’interrogatorio si parla anche di una catenina e di un crocifisso: «Paolo aveva una catenina che portava al collo con una medaglietta e un crocifisso, almeno così mi pare di ricordare». E nel riconoscere l’ex marito nel video, la donna osserva: «Attaccato alla catenina mi pare ci sia un crocifisso».
La condanna di Cavallini, avvocati delusi: ignorata la scomparsa del cadavere di Maria Fresu. Il Secolo D'Italia giovedì 9 gennaio 2020. Strage di Bologna, parlano gli avvocati di Gilberto Cavallini. E si dicono delusi ma non sorpresi della sentenza di condanna. “In un paese che ancora non fa di tutto per riaprire quegli armadi da sempre chiusi è difficile che dopo 40 anni si ottengano sentenze che facciano avanzare la verità”, dice l’avvocato Gabriele Bordoni. E continua: “Credo, anzi, che quella di oggi sia una sentenza che sovverte erroneamente la valutazione espressa da decine di magistrati che si sono preoccupati della condotta di Cavallini rispetto alla strage esaminando lo stesso identico compendio probatorio mentre l’unica novità rilevante emersa nel processo e legata alla scomparsa inspiegabile del cadavere di Maria Fresu non è stata minimamente valorizzata”. “Quando anche alla luce dei nuovi elementi la Corte si è mantenuta fermissima nel non fare propria nostra istanza – insiste il legale dell’ex Nar – ho capito che lo spunto che poteva nascere era già sopito. E la sentenza di oggi è una conseguenza. Cavallini l’ha detto, è pronto a soffrire in silenzio perché sa di avere molti debiti con la giustizia, soprattutto quella di Dio. E’ amareggiato e deluso. Noi il coraggio di aprire quegli armadi lo abbiamo avuto, gli altri no. Perché questa chiusura, questo muro delle parti civili? Ai familiari delle vittime va il massimo rispetto, il mio e di tutti, mi riferisco però a chi li rappresenta tecnicamente, ai colleghi di parte civile, che si sono messi di traverso quando dalla difesa abbiamo portato quell’istanza. L’interesse per la verità dovrebbe essere di tutti, dovrebbe arricchire, magari a carico degli stessi imputati. In questo processo andavano superati non solo gli steccati ideologici ma anche quelli processuali”. Rincara la dose l’avvocato Alessandro Pellegrini: “Sono deluso ma non sono stupito. Come tutti i processi, qui bisogna ragionare nell’ottica dei tre gradi di giudizio. Siamo solo all’inizio, questo è il primo round, poi ci sarà l’Appello e la Cassazione. Non è detto poi che il processo finisca alla Cassazione di Roma, potrebbe anche finire a Strasburgo”. “Queste vicende giudiziarie – prosegue Pellegrini – essendo fatte di una materia opinabile risentono spesso di valutazioni difformi a seconda dei gradi di giudizio. Io e il collega Gabriele Bordoni certo non perdiamo né la grinta né la volontà per andare avanti con la massima determinazione, ancora più di prima”. Anche Valerio Cutonilli, autore del libro “I segreti di Bologna”, commenta all’Adnkronos la condanna all’ergastolo di Gilberto Cavallini. “La condanna di Cavallini non mi sorprende, la via giudiziaria continua a confermare quello che sostiene da 39 anni. Non è per me, la sentenza, motivo di sorpresa; gli elementi che ritengo utili di questo processo per la conoscenza della verità sono quelli emersi dalle operazioni peritali”. E aggiunge: “E’ stato scoperto che nella tomba Fresu c’erano i resti di altre donne, una vera e propria faccia che non può essere attribuita a nessuna delle 85 vittime censite – aggiunge Cutonilli – tutti elementi che rafforzano il sospetto che la scena sia stata inquinata nella immediatezza dei fatti e che il contenuto della Strage di Bologna sia diverso da quello ipotizzato fino ad oggi. La base da cui ottenere la verità è nelle risultanze operative e credo che il processo Cavallini inizierà solo in Corte di Cassazione, a Roma. A Bologna c’è un problema ambientale che non permette una serena valutazione. Nel frattempo – incalza – non bisogna far cadere l’attenzione su quelle valutazioni peritali emerse recentemente: la strage di Bologna è forse diversa da quella che i magistrati continuano a mostrare”. Massimiliano Mazzanti, esponente e fondatore di Fratelli d’Italia Bologna, afferma che “la riqualificazione del reato – dal 285 al 422 cp – con un articolo che assorbe tutti i reati connessi, compresi gli omicidi in danno di ciascuna vittima della strage, dimostra che, per giungere al verdetto di colpevolezza, la Corte abbia completamente messo da parte la questione della vittima ignota e della scomparsa di Maria Fresu. Cioè, dell’unico dato nuovo, certo scientificamente, emerso nel dibattimento. Per tanto, in attesa dell’immancabile appello, la battaglia per la verità continua e con maggior forza”. Nella condanna a Gilberto Cavallini all’ergastolo, infatti, la Corte di assise ha riqualificato il reato dall’articolo 285 del codice penale, che punisce “chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage territorio dello Stato o in una parte di esso” nel reato previsto all’articolo 422, che punisce chiunque, fuori dei casi previsti dall’altro reato, ha commesso il fatto “al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità” provocando la morte di persone. Verrebbe quindi a cadere la finalità dell’azione di attentare alla sicurezza dello Stato.
Strage di Bologna. Il mistero di Maria Fresu e dell’ 86esima vittima. Paolo Delgado il 3 Novembre 2019 su Il Dubbio. Maria Fresu è una delle 85 vittime della strage. Il corpo non è mai stato ritrovato. Il lembo facciale di una vittima per quasi 40 anni attribuito a lei, ma l’esame del DNA, disposto solo nei mesi scorsi, ha dimostrato che così non è. «Allora Maria dov’è finita?» : dicono, ma chi sa se è vero, che un parente di Maria Fresu sia sbottato così quando mercoledì sera Michele Leoni, presidente della corte d’assise di Bologna che sta processando l’ex Nar Gilberto Cavallini per la strage del 2 agosto 1980, ha letto l’ordinanza con la quale la corte rifiuta nuove perizie per verificare di chi siano i resti sinora attributi a Maria Fresu. La donna è una delle 85 vittime della strage. Il corpo non è mai stato ritrovato. Il lembo facciale di una vittima letteralmente polverizzata dall’esplosione è stato per quasi 40 anni attribuito a lei. L’esame del DNA, disposto solo nei mesi scorsi, ha dimostrato che così non è, ponendo dunque due quesiti: che fine ha fatto la salma di Maria Fresu e a chi appartiene quel lembo facciale. E’ inevitabile infatti chiedersi se non appartenesse a una ottantaseiesima vittima, forse la persona che trasportava l’ordigno essendo altrimenti difficilmente spiegabile un effetto così devastante dell’esplosione. Per accertare l’eventualità che quel lembo appartenesse invece a una delle altre vittime erano necessari alcuni esami del dna. Non moltissimi: sette. Tanti sono infatti i corpi rinvenuti ai quali potrebbero essere fatti risalire quei macabri resti. La difesa di Cavallini aveva chiesto quei sei esami del DNA. La corte ha negato le analisi perché «la perizia sul DNA delle presunte spoglie di Maria Fresu non ha dato esiti univoci e sicuri quali ad esempio la riconducibilità di tali resti a una sola persona» e di conseguenza «l’eventuale espletamento di altre perizie sul DNA porterebbe comunque a un binario morto». E’ una spiegazione in realtà insostenibile. E’ vero infatti che i presunti resti della Fresu sui quali è stato operato l’esame del dna corrispondono a due persone diverse, nessuna delle quali era Maria Fresu. Ma mentre per alcuni resti, le dita, è facilmente presumibile che si tratti di una conseguenza del caos del 2 agosto 1980 dopo l’attentato, per la faccia non è così. L’analisi del DNA si sarebbe dunque potuta fare tranquillamente solo sul reperto realmente significativo e misterioso. La difesa ritiene di avere ancora una freccia al proprio arco. Uno dei legali di Cavallini, l’avvocato Alessandro Pellegrini, ha presentato mercoledì una richiesta di rimborso per 348mila lire avanzata nell’ottobre del 1980 dal perito della procura Pierlodovico Ricci per le pellicole, lo sviluppo e la stampa, di 112 fotografie delle vittime. Le foto esisterebbero e sarebbero contenute in un faldone riservato e non consultabile, per le norme sulla privacy, depositato al Comune di Bologna. In quelle foto, inspiegabilmente mai entrate nei fascicoli processuali, si distinguerebbe, secondo chi le ha viste, una donna senza volto e di qui la difesa spera di poter riaprire il capitolo chiuso ieri dal presidente della Corte. In realtà la corte d’assise potrebbe facilmente definire questo tipo di indagini "non pertinenti". Il processo a Cavallini deve infatti solo accertare l’eventuale complicità dell’ex Nar con i tre terroristi già condannati per la strage e che da sempre si dichiarano innocenti: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. E’ stata però la stessa corte ad allargare il raggio del processo, in tutta evidenza con l’obiettivo di trovare nuove e inconfutabili prove a sostegno di una sentenza universalmente ritenuta molto fragile. Lo stesso esame del DNA eseguito sui resti attribuiti erroneamente alla Fresu è conseguenza di accertamenti che miravano a individuare ulteriori elementi a carico dei Nar. E’ capitato invece che le nuove indagini hanno offerto solo elementi in senso opposto, a partire dall’individuazione di una donna che alloggiava in un Hotel di fronte alla stazione in quei giorni con un documento cileno falso proveniente da una partita di documenti cileni falsi già adoperata più volte dall’organizzazione del terrorista ex Fplp Carlos, alla quale è seguito l ritrovamento di un secondo passaporto simile. Senza trarre conclusioni che sarebbero comunque indebite e azzardate, il processo in corso conferma però una situazione già vista più volte. Nonostante i numerosissimi elementi che confutano la sentenza contro i Nar ( al termine di un iter di cinque processi con verdetti contraddittori), nonostante magistrati di altre procure che hanno indagato su vicende parallele siano convinti dell’innocenza dei Nar ( dal pm milanese Salvini, che ha indagato su piazza Fontana, a Rosario Priore, il magistrato che più di ogni altro si è occupato di terrorismo palestinese, sino a Otello Lupacchini, che ha indagato sulla banda della Magliana), sia l’associazione dei parenti delle vittime della strage che la procura di Bologna sembrano considerare un insulto qualsiasi dubbio sulla colpevolezza dei Nar e oppongono una resistenza incomprensibile a ogni tentativo di proseguire le indagini in altre direzioni.
Da adnkronos.com il 15 ottobre 2019. Si riapre il giallo dell'86esima vittima della strage di Bologna. A quanto apprende l'Adnkronos, la perizia del Dna disposta nel processo all'ex Nar Gilberto Cavallini ha escluso che i resti che sono stati attribuiti a Maria Fresu appartengano effettivamente alla donna rimasta uccisa dalla bomba alla stazione. La notizia di fatto conferma la scomparsa del cadavere della Fresu e l'esistenza di un'altra vittima, che si aggiungerebbe alle 85 del bilancio ufficiale. Una vittima di cui fino a oggi nessuno ha reclamato il corpo. L'esame del Dna è stato eseguito sui reperti organici - un osso della mano e un lembo facciale con uno scalpo - ritrovati all'interno della bara di Maria Fresu i cui resti sono stati riesumati, il 25 marzo scorso, nel cimitero di Montespertoli dai periti incaricati dalla Corte d'Assise di Bologna che sta processando l'ex terrorista Gilberto Cavallini. Il materiale organico esaminato dalla biologa genetico-forense Elena Pilli - un lembo facciale, un piccolo scalpo con una chioma nera, un frammento parziale delle dita della mano destra, e un frammento di mandibola in prossimità del mento con alcuni denti - che peraltro erano risultati appartenere a due donne diverse, non ha trovato riscontri con il Dna del fratello e della sorella della Fresu. La perizia si è resa necessaria per tutta una serie di incongruenze e di misteri che gravano sulla fine della giovane madre sarda 'scomparsa', nessuno sa spiegarsi come, nella strage di Bologna, e che hanno fatto ipotizzare ad alcuni autori - che non credono alla pista fascista (per la strage sono condannati in via definitiva gli ex Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini) - l'esistenza di una 86sima vittima, secondo alcuni la terrorista che trasportava l'ordigno, una valigia esplosiva. Lo stesso perito esplosivista della Corte d'Assise di Bologna, Danilo Coppe, ha giudicato implausibile la disintegrazione del cadavere. Anche perché Maria Fresu, la figlioletta Angela e le due amiche Verdiana Bivona e Silvana Ancillotti, si trovavano lontane dal punto dell'esplosione, comunque in quell'area che non venne investita direttamente dalla detonazione. Coppe ha escluso che l'esplosione dell'ordigno della strage di Bologna possa aver disintegrato le persone presenti, a prescindere dalla loro collocazione sulla scena. Peraltro in un'intervista esclusiva concessa all'Adnkronos il 22 maggio scorso, Silvana Ancillotti, l'unica del gruppo di amiche sopravvissuta alla strage, ha raccontato che nel momento dell'esplosione si trovavano tutte vicine e Maria Fresu era in piedi di fronte a lei, a Verdiana Bivona e alla piccola Angela, a un metro di distanza. La richiesta della perizia sul dna, che era stata avanzata dalla difesa di Cavallini, è legata a una "disomogeneità" tra i resti attribuiti alla vittima nel 1980 e quelli campionati dopo la riesumazione. Del corpo di Maria Fresu fu ritrovato poco o nulla: una mano con 3 dita, uno scalpo con lunghi capelli neri, un osso mandibolare con tre denti, le due arcate sopraccigliari e un occhio. Ad attribuire quei pochi resti alla Fresu fu un medico, il professor Pappalardo, che, all'epoca, per far quadrare i conti che non tornavano sul gruppo sanguigno della ragazza, parlò di ''secrezione paradossa'', una tesi che anni dopo sarà giudicata astrusa e infondata da altri ematologi. Da qui l'interrogativo, posto nel libro 'I segreti di Bologna' del giudice Rosario Priore e dell'avvocato Valerio Cutonilli (Chiarelettere, 2016): se quei resti non appartengono alla Fresu e nessuno dei cadaveri delle donne sfigurate aveva un gruppo sanguigno compatibile, potrebbero quei resti appartenere a una ottantaseiesima, vittima mai identificata? "La cosa è talmente intricata, probabilmente sono avvenuti scambi di corpi o di pezzi di corpi" dice all'Adnkronos Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna. "Parlare di 86esima vittima penso sia un po' azzardato. Io non sono un esperto di Dna. Vediamo cosa diranno i periti in aula e si faranno le valutazioni".
Strage di Bologna, i resti non sono di Maria Fresu: c'è un'86esima vittima? Giallo sull'esito dell'esame. Le diverse ipotesi dei legali dei terroristi e dei famigliari delle vittime. Giuseppe Baldessarro il 15 ottobre 2019 su La Repubblica. Il Dna contenuto nella piccola bara che doveva custodire le spoglie di Maria Fresu non appartiene a lei. Lo ha stabilito la perizia ordinata dalla Corte d'Assise di Bologna nell'ambito del processo contro Gilberto Cavallini, accusato di aver concorso alla strage del 2 agosto 1980. L'esame è stato eseguito sui reperti organici: un osso della mano e un lembo facciale. Il Dna è stato comparato con quello del fratello e della sorella della vittima. A lungo si era discusso dell'eventualità che in quella bara ci fossero i resti di un'altra persona. Nelle scorse settimane era emerso il fatto che in realtà i Dna estratti erano due appartenenti a due diverse persone di sesso femminile. Ora la novità. Se quei resti non sono della Fresu a chi appartengono? Secondo la tesi più volta avanzata nel corso degli anni dai difensori dei Nar, condannati per la strage, nell'attentato alla stazione di Bologna potrebbe esserci stata una 86esima vittima mai identificata. Una persona che, forse, potrebbe essere un attentatore o un'attentatrice. Una tesi che ricondurrebbe alla pista palestinese, ossia alla possibilità che a fare la strage sarebbero stati dei terroristi palestinesi di matrice rossa. Per Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime del 2 Agosto, non è così: " Non esiste vittima ulteriore rispetto a quelle note, parlare di 86esima vittima è azzardato". E dando una spiegazione aggiunge: "Il giorno della strage io c'ero e sono stato in obitorio per il riconoscimento dei miei familiari, c'era una confusione incredibile, niente di più facile che in quella bara ci siano finiti i resti di altre vittime". In ogni caso, dice Bolognesi " se anche quel Dna non è della Fresu, non cambia nulla ai fini processuali ". Per scoprire a chi appartengono i resti bisognerebbe tornare a disseppellire le bare di tutte le vittime a fare Dna ad ognuno di essi. Un'operazione ciclopica e impossibile da condurre. Resta dunque il giallo. Del corpo di Maria Fresu fu ritrovato poco o nulla, sotto un treno al primo binario: una mano con 3 dita, uno scalpo con lunghi capelli neri, un osso mandibolare con tre denti, le due arcate sopraccigliari e un occhio. Ad attribuire quei pochi resti alla Fresu fu un medico, il professor Pappalardo, che, all'epoca, per far quadrare i conti che non tornavano sul gruppo sanguigno della ragazza, parlò di "secrezione paradossa", una tesi che anni dopo sarà giudicata astrusa. Al tempo si pensò che il corpo fosse stato disintegrato dalla bomba, trovandosi - si dedusse - vicina Maria Fresu al punto dell'esplosione. Ma l'amica che era con lei e che è sopravvisuta, Silvana Ancillotti, ricorda che al momento dello scoppio si trovavano vicine in sala d'aspetto, anche con l'altra compagna di viaggio Verdiana Bivona e la piccola Angela Fresu, figlia di Maria, la più giovane tra le vittime (quasi tre anni). Silvana vide i corpi di Verdiana e Angela, ma non quello di Maria.
Strage di Bologna, donna con passaporto cileno falso di fronte alla stazione. Il Secolo d'Italia giovedì 10 ottobre 2019.
Una serie di passaporti cileni falsi utilizzati in diversi attentati anche in Italia e, in particolare, un passaporto cileno falso esibito da una misteriosa donna nell’hotel di fronte alla stazione nei giorni immediatamente precedenti la strage di Bologna rimette in discussione la verità sull’attentato che fece 85 morti e oltre 200 feriti. Non bastava, dunque, il cadavere scomparso di Maria Fresu, una delle 85 vittime di Bologna. Non bastava nemmeno scoprire, dopo 39 anni, che esistono carte dei Servizi segreti – ma leggibili solo dai parlamentari – che raccontano tutta un’altra verità sulla strage alla stazione di Bologna. E rivelano i ripetuti e inascoltati Sos dei nostri Servizi segreti sulle minacce di attentati contro interessi italiani da parte dei terroristi palestinesi.
Nuovo giallo sulla strage di Bologna: spunta un passaporto cileno falso. Ora spunta un nuovo giallo, sul quale non si è mai capito se gli inquirenti felsinei abbiano fatto chiarezza: parliamo della storia di un passaporto cileno falso utilizzato da una donna, ad oggi sconosciuta, che soggiornò in un albergo davanti alla stazione di Bologna nei giorni precedenti la bomba. Quel passaporto cileno falso su cui vennero fatti accertamenti dalla polizia e dall’Interpol risultò falso, proprio come altri passaporti cileni falsi utilizzati da terroristi palestinesi o filopalestinesi. Terroristi della galassia Carlos e non solo, per trasportare esplosivi, anche in Italia, e compiere attentati contro cittadini inermi.
Una misteriosa donna con passaporto cileno falso alloggiava di fronte alla stazione. Chi era questa misteriosa donna che si è fatta registrare con un passaporto cileno falso? Dov’è finita? È mai stata identificata? I Servizi segreti italiani e stranieri sono a conoscenza della sua vera identità? E soprattutto la magistratura ha appurato chi si nascondesse dietro il nome di Juanita Jaramillo, nata a Santiago del Cile il 1 gennaio 1953? Già, perché la polizia cilena, interpellata all’epoca dai colleghi italiani, fece gli accertamenti richiesti e rispose tramite Interpol alla richieste italiane, come è agli atti del processo sulla strage di Bologna. Quello che invece non si sa è se, su quanto comunicato dai cileni, l’Italia abbia mai fatto accertamenti. In particolare, il contenuto della risposta venne comunicato prima dal ministero dell’Interno italiano alla Questura di Bologna e al Direttore della Criminalpol in una nota del 20 febbraio 1981. E, poi, dall’Ucigos al Tribunale di Bologna il 3 agosto 1981: il passaporto cileno numero 30435/80 presentato dalla sedicente Juanita Jaramillo al desk dell’hotel Milano Excelsior di Bologna, faceva sapere la polizia cilena, è falso, alterato «dagli stessi possessori o da altre persone».
Chi era la sedicente Juanita Jaramillo con passaporto intestato a un uomo? Anche un telex dell’allora capo della Polizia Coronas non lascia spazio a dubbi: la «polizia cilena ha fatto conoscere tramite l’Interpol che la nominata Jaramillo Juanita è sconosciuta». E ancora, sempre il capo della Polizia spiega che il passaporto cileno falso numero 30435 è stato in realtà emesso dal Cile a nome di un uomo, Alamos Jordan Francisco Ignacio, e non per una donna. Capire chi fosse questa donna sarebbe stato fondamentale per le indagini. Anche perché, come emerso in altri fatti di sangue, diversi passaporti cileni falsi sono comparsi negli accertamenti delle forze di polizia di mezzo mondo che hanno dato negli anni la caccia ai terroristi palestinesi. Lo stesso Carlos per muoversi agevolmente e indisturbato in tutto il mondo, Italia compresa, non utilizzava un passaporto cileno falso, ne utilizzava addirittura due. Tra l’altro, quel che emerge solo ora dalle carte rimaste nei cassetti per quasi quarant’anni diventa sconvolgente alla luce di quanto riportato in un documento esclusivo dell’Fbi in possesso dell’Adnkronos sull’attentato ad un volo Twa partito da Tel Aviv (di cui daremo conto domani), passato per Atene. Arrivato a Roma e da qui ripartito alla volta di New York ma mai atterrato lì al JFK, come previsto dalla tabella di volo. Mai atterrato perché precipitato nel mar Jonio con 88 persone a bordo l’8 settembre 1974. Una strage che ricalca, per molti versi, quella di Ustica.
L’Intergruppo 2 agosto sulla strage di Bologna chiede chiarezza. Sulla vicenda del passaporto cileno falso, i parlamentari componenti dell’Intergruppo “2 agosto” Federico Mollicone, Paola Frassinetti, Isabella Rauti, Galeazzo Bignami chiedono al governo «immediata chiarezza». «Il premier Giuseppe Conte, che ha tenuto a sé la delega sui Servizi segreti, chiarisca se i nostri apparati di sicurezza avessero contezza di queste evidenze, che cambiano totalmente la narrazione dominante – dicono -. Il ministro Bonafede prenda quindi atto delle nuove evidenze e palesi le eventuali storture del processo e dell’inchiesta. Presenteremo un’interrogazione in tal senso, al fine di raggiungere, finalmente, la verità giudiziaria e storica sulla strage di Bologna. Lo dobbiamo alle vittime e ai loro familiari».
«E’ necessario, quindi, inserire presto in calendario d’Aula la nostra proposta di legge bipartisan per la costituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle connessioni del terrorismo interno e internazionale con la strage di Bologna del 2 agosto 1980, la cui attività sarebbe ora d’importanza cruciale», concludono i parlamentari.
Strage di Bologna, nei resti della vittima Maria Fresu il Dna di due donne. Processo al terrorista Cavallini, indiscrezioni sull'esito delle analisi: c'è un morto in più? La Repubblica il 07 settembre 2019. La bomba alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 uccise 85 persone. A quanto apprende l'agenzia di stampa Adnkronos, apparterrebbero a due persone diverse, entrambe di sesso femminile, i reperti organici ritrovati all'interno della piccola bara di Maria Fresu, una delle 85 vittime della strage di Bologna del 2 agosto 1980 - l'unica ufficialmente 'disintegrata' - i cui resti sono stati riesumati, il 25 marzo scorso, nel cimitero di Montespertoli dai periti incaricati dalla Corte d'Assise di Bologna che sta processando l'ex terrorista Gilberto Cavallini. La scoperta è stata comunicata ieri ai periti delle parti, convocati al Dipartimento di Biologia Evoluzionistica dell'Università di Firenze dal perito della Corte, la biologa genetico forense Elena Pilli, capitano del Ris dei carabinieri di Roma, che è riuscita a estrarre 24 marcatori - ne occorrono almeno 9 - dei profili del Dna nucleare e mitocondriale dal materiale consegnatole e ufficialmente attribuito alla Fresu. Il Dna mitocondriale va a identificare un numero di persone che discendono dalla stessa linea femminile, al contrario il Dna nucleare definisce un solo unico soggetto. Il materiale organico esaminato dalla biologa genetico-forense Elena Pilli - un lembo facciale , un piccolo scalpo con una chioma nera, un frammento parziale delle dita della mano destra, e un frammento di mandibola in prossimità del mento con alcuni denti - sarà comparato, nei prossimi giorni, con il Dna di due parenti di Maria Fresu che hanno dichiarato la propria disponibilità, il fratello Bellino e la sorella Isabella, i quali sono stati convocati oggi presso il Dipartimento di Biologia Evoluzionistica dell'Università di Firenze dal perito della Corte per procedere al prelievo salivare del Dna. La perizia, il cui deposito è previsto per il 20 settembre prossimo - il 23 è fissata la prossima udienza del processo a carico di Gilberto Cavallini - si è resa necessaria per una serie di incongruenze sulla fine della giovane madre scomparsa nella strage di Bologna. La teoria che i difensori dei terroristi neri ipotizzano è l'esistenza di un'altra vittima mai accertata prima che, nella loro ricostruzione di parte, potrebbe essere tra gli esecutori materiali dell'attentato (per il quale sono già stati condannati i neofascisti Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini) e riaprire così la pista del terrorismo internazionale, scartata fin qui in ogni sede processuale e grado di giudizio.
Strage di Bologna, con l’ergastolo a Cavallini seppellita la verità. Paolo Comi il 10 Gennaio 2020 su Il Riformista. La sentenza che condanna all’ergastolo Gilberto Cavallini, ex esponente dei Nar (il gruppo armato neofascista guidato da Giusva Fioravanti e Francesca Mambro) per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, è allo stesso tempo scontata e scandalosa. Scontata prima di tutto perché senza mettere in discussione l’intero impianto che aveva portato, dopo cinque processi, alla condanna dei Nar (e di Fioravanti e Mambro che si sono sempre disperatamente dichiarati innocenti), era prevedibile che un processo celebrato a Bologna, dove il pregiudizio ha sempre avuto in materia la meglio sul giudizio, estendesse la responsabilità a Cavallini. Scandalosa perché proprio nel corso di questo processo sono emersi elementi che imporrebbero a qualsiasi giustizia degna del nome di rimettere in discussione quell’impalcatura, che era già fragilissima. Conviene ricordare alcuni fatti. In un albergo di fronte alla stazione di Bologna albergavano nei giorni della strage una o più probabilmente due donne che adoperavano falsi passaporti cileni. Detti documenti falsi provenivano da una partita adoperata dal gruppo del terrorista venezuelano, ma già interno al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Carlos. Quel giorno, alla stazione di Bologna, era certamente presente un terrorista tedesco delle cellule rivoluzionarie legato allo stesso Carlos. A farlo sapere, pur negando ogni responsabilità nella strage, era stato lo stesso Carlos, una decina di anni fa. È opportuno ricordare anche che la commissione parlamentare che si è occupata nella scorsa legislatura del caso Moro ha nel cassetto alcune informative del capoposto del Sismi a Beirut, colonnello Stefano Giovannone, ancora secretate, ma il cui contenuto è noto. Giovannone, nella primavera del 1980, preannunciava un imminente attentato in Italia, organizzato da una fazione dissidente del Fplp finanziata dalla Libia. Alcune settimane dopo, il principale agente italiano nel Medio Oriente, già uomo di fiducia di Moro, proseguiva informando della decisione di affidare l’attentato proprio a Carlos, che era per questo stato chiamato a Beirut e che si sarebbe avvalso però per l’esecuzione materiale di terroristi europei. In questa cornice, il ritrovamento dei passaporti falsi provenienti da una partita di documenti adoperati appunto da Carlos acquista un significato preciso. Poi c’è la questione di Maria Fresu. Le perizie tecniche hanno fugato ogni dubbio sul caso della salma di Maria Fresu. La donna era nella sala d’aspetto della stazione dove esplose la bomba, con la figlia piccola e due amiche, una delle quali sopravvissuta. L’amica e la figlia erano state uccise non dall’esplosione ma dal crollo del soffitto. La sopravvissuta ha sempre ripetuto che Maria Fresu era vicina a loro. Tuttavia la salma indicata come quella della donna era stata invece fatta a brandelli, come se si trovasse invece vicinissima alla bomba. Per decenni, di conseguenza, sono stati avanzati dubbi su quell’identificazione, senza trovare risposta. Stavolta, invece, è stato disposto l’esame del dna, che ha chiarito senza dubbi che quella salma non è di Maria Fresu. Si pongono così due interrogativi: chi sia la sconosciuta letteralmente polverizzata dall’esplosione e che fine abbia fatto Maria Fresu. Per chiarire l’ipotesi che quei resti appartengano a un’altra vittima, col che troverebbe risposta almeno il primo interrogativo, sarebbero bastati cinque esami del dna. Tante sono infatti le salme compatibili con quei resti sin qui attribuiti erroneamente alla giovane mamma sarda. La corte, con l’equanimità e l’ansia di arrivare a una verità non predeterminata che ha sempre caratterizzato l’atteggiamento della procura e del tribunale di Bologna, ha deciso di non disporre quegli accertamenti. In fondo, è stata la spiegazione, qui si giudica solo il ruolo di Cavallini. Verificare se alla marea di dubbi da sempre e da innumerevoli fonti avanzati sulla responsabilità dei Nar se ne dovessero aggiungere altri, ancora più corposi e forse decisivi, non rientrava nei compiti di quella corte. Ci penserà qualcun altro. Forse. Un giorno o a l’altro. Nel prossimo decennio o magari in quello dopo ancora. La condanna di Cavallini è ingiusta ma non sorprendente. La sorpresa, peraltro insperata, sarebbe arrivata se una corte di giustizia avesse deciso di infrangere la menzogna di Stato che sin dalle prime ore dopo la strage, in assenza di qualsiasi indizio, aveva deciso che mettere la bomba dovessero essere stati per forza i fascisti.
Strage di Bologna, il mistero della vittima "polverizzata" mai identificata. David Romoli su Il Riformista il 2 Agosto 2020. Quarant’anni fa, 2 agosto 1980, alla stazione di Bologna la strage più sanguinosa della storia italiana costò la vita a 85 persone. I colpevoli, secondo sentenze passate in giudicato, sono Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, all’epoca dei fatti minorenne e quindi processato a parte. Quest’anno è stato condannato, con sentenza di primo grado, anche Gilberto Cavallini. In precedenza erano stati condannati per depistaggio, ma non per un coinvolgimento diretto nella strage, Licio Gelli, Francesco Pazienza e i dirigenti del Sismi Musumeci e Belmonte. L’Italia è un Paese che adora gli anniversari a cifra tonda. Era dunque assicurato in partenza che il quarantennale della strage avrebbe fatto più rumore del solito. La procura generale di Bologna ha reso la profezia certa con una indagine, debitamente amplificata e quasi spacciata per verità comprovata da media compiacenti, che per la prima volta ritiene di aver scoperto i mandanti e l’esecutore materiale della strage. È il caso di ricordare, infatti, che i Nar erano stati considerati come “organizzatori” del massacro, non come i suoi ideatori e neppure come coloro che materialmente avevano depositato l’ordigno nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione della città italiana. Se mai si arriverà a un processo, si tratterà senza dubbio di un’udienza spettrale. Gli organizzatori e finanziatori della strage, Licio Gelli, il suo braccio destro Umberto Ortolani, l’ex direttore dell’Ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato e l’allora direttore del periodico Il Borghese Mario Tedeschi sono tutti morti, e così molti dei testimoni che dovrebbero essere chiamati alla sbarra. È vivo, invece, il presunto esecutore materiale, Paolo Bellini, una figura collocata all’estremo opposto della limpidezza: ex fascista, ex malavitoso, ex collaboratore dei servizi segreti, reo confesso di uno degli omicidi più misteriosi degli anni ‘70, quello del giovane militante di Lotta continua Alceste Campanile. Nella confessione, grazie alla quale incidentalmente ha potuto beneficiare della legge sui collaboratori di giustizia, Bellini chiamava in causa numerosi complici, i quali però sono poi stati tutti assolti. La nuova inchiesta ha in realtà molto poco di nuovo. Si basa su un dossier raccolto dall’Associazione parenti delle vittime della strage e poi presentato alla Procura di Bologna che aveva deciso di archiviare. Dopo le proteste dell’Associazione la Procura generale di Bologna ha deciso di avocare l’inchiesta e di procedere. A quel che se ne capisce, i “fatti nuovi che giustificano la roboante asserzione di aver “scoperto la verità” sono il frontespizio di un prospetto contabile, nel quale sono registrati versamenti dell’ex Venerabile, con su scritto “Bologna 525779 – x.s.”. Secondo la procura il frontespizio sarebbe stato tenuto nascosto per impedire i collegamenti tra i versamenti e la strage. In realtà il frontespizio, che in sé naturalmente non prova e neppure indica alcunché, era invece già stato citato dal pm Dall’Osso nel processo per il crack del banco Ambrosiano del 1988. Ulteriore elemento sarebbe la destinazione di corposi finanziamenti di Gelli a un misterioso “Zafferano”. Per gli inquirenti si tratterebbe del potentissimo ex capo dell’Ufficio affari riservati del Viminale D’Amato, che nella sua rubrica di cucina sull’ Espresso aveva in effetti lodato le virtù dello zafferano. Su questa base la Procura generale ritiene di poter azzardare l’ipotesi di un incontro tra Gelli e non meglio identificati leader neofascisti, nel quale il Venerabile avrebbe consegnato un milione di dollari in contanti come anticipo sul sanguinoso lavoretto commissionato. È il caso di segnalare che il pagamento cash, per gli investigatori, è provvidenziale. Rende infatti impossibile trovarne traccia. Come dire che in questo caso deve “bastare la parola”. Per quanto riguarda Bellini, che era già stato indagato per la strage nei primi anni ‘80 e prosciolto dopo aver fornito un alibi, il “fatto nuovo” eclatante è un filmino girato immediatamente prima della strage nel quale compare un passante che somiglia molto a Paolo Bellini. La filiera ricostruita dalla Procura generale di Bologna sembra dunque essere questa: la P2, eterna e demoniaca presenza adoperata a man bassa per spiegare praticamente tutti i fattacci a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, commissiona la strage per motivi non meglio chiariti. Gelli in persona consegna l’anticipo a non meglio identificate figure centrali del neofascismo che, a loro volta, incaricano i ragazzini dei Nar di eseguire. Questi, solerti, organizzano la mattanza, di eseguire la quale si incarica poi materialmente Bellini. A sostegno dell’ipotesi viene dato sui media ampio risalto all’intercettazione, in realtà nota da decenni, dell’ordinovista veneto Carlo Maria Maggi, condannato per la strage di Brescia e deceduto, nella quale il fascistone si dice certo, chiacchierando con moglie e figlio, della colpevolezza di Valerio Fioravanti. La ricostruzione fa acqua da tutte le parti. Il frontespizio con su scritto “Bologna” non era stato affatto tenuto segreto ma era al contrario noto e citato negli atti processuali. I prospetti economici vergati da Gelli, anche a prendere per buona l’interpretazione che ne danno gli inquirenti per quanto sia palesemente forzata, dimostra solo che il gran maestro della P2 aveva nel luglio 1980 prelevato dei soldi, senza chiarire nulla sulla loro destinazione. Non esistono né prove né indizi di incontri tra i presunti protagonisti della efferata trama, né tra Gelli e gli ordinovisti veneti, né tra questi e i Nar, che in realtà li odiavano al punto di condannarne a morte i dirigenti, né, infine, tra i Nar e Bellini. Non è poi chiaro perché Fioravanti, con un milione di dollari in tasca e con le spalle coperte dalla spia più potente d’Italia, Federico Umberto D’Amato, si fosse rivolto, per procurarsi documenti falsi, a un balordo come Massimo Sparti, la cui denuncia è il solo elemento concreto su cui si basi la condanna dei Nar per la strage. È il caso di ricordare che si tratta di quello stesso Sparti la cui testimonianza era stata smentita sia dalla moglie che dal figlio che dalla Colf e che, scarcerato perché in fin di vita dopo aver denunciato i Nar, è poi sopravvissuto a un cancro terminale per oltre trent’anni. Il medesimo Sparti che, secondo la testimonianza del figlio Stefano, avrebbe confessato sul letto di morte di aver mentito su Bologna. Non è neppure chiaro perché, sempre con un milione di dollari in contanti a disposizione, i Nar si siano sentiti in obbligo, il 5 agosto 1980, di finanziarsi con una rapina, seguita poi da altre rapine. La stessa registrazione delle chiacchiere di Maggi è in realtà un’arma a doppio taglio. Il leader ordinovista sostiene infatti che la strage sia stata decisa per sviare l’attenzione dallo “scenario di guerra” di Ustica, dunque dopo il giugno 1980. Secondo la procura di Bologna, invece, la P2 avrebbe iniziato a pianificare l’incomprensibile massacro agli inizi del 1979. Mentre la Procura di Bologna rincorre inesistenti elementi nuovi, nessuno si occupa delle scoperte effettive, emerse nel corso del processo contro Gilberto Cavallini, conclusosi con la condanna in primo grado nel febbraio scorso. È stato accertato che i resti sin qui attribuiti a Maria Fresu, una delle 85 vittime della strage, non corrispondo al dna della ragazza sarda. La vittima sconosciuta, inoltre, era senza dubbio vicinissima alla bomba, tanto da essere stata quasi polverizzata dall’esplosione. È dunque lecito sospettare che ci sia una vittima sconosciuta e che questa potesse essere la persona che trasportava l’esplosivo, confermando così quanto più volte affermato da Francesco Cossiga, che all’epoca era Presidente del Consiglio, secondo cui si era trattato di una esplosione accidentale avvenuta nel corso di un trasporto di esplosivo da parte dei palestinesi. Sempre nel corso del processo Cavallini, del resto, è stato appurato che nella notte precedente la strage aveva pernottato nell’Hotel di fronte alla stazione una donna in possesso di documenti falsi provenienti da uno stock di documenti falsificati che era già stato usato in due attentati contro aerei, uno riuscito, l’altro sventato per caso all’ultimo momento. Neppure è stata data alcuna importanza alle informative del colonnello Giovannone della primavera 1980, che dovrebbero essere desecretate a breve: c’è il parere favorevole del Copasir e della presidenza del Senato, manca ancora quello della presidenza del consiglio. Nelle informative, che si arrestano il 27 giugno 1980, il capoposto del Sismi in Medio Oriente informava di un grosso attentato commissionato dal Fplp (Fronte popolare di liberazione della Palestina) al terrorista Carlos, dell’arrivo di Carlos a Beirut, della sua decisione di accettare l’incarico adoperando per l’esecuzione materiale terroristi europei. Non si tratta, sia chiaro, di materiale probante. Neppure però di carta straccia insignificante, soprattutto a paragone di quanto squadernato con squillar di trombe e rulli di tamburi sulla nuova inchiesta della Procura generale di Bologna.
Non che si tratti di una novità. La decisione di addossare comunque ai neofascisti la responsabilità della strage fu presa già nella notte successiva all’attentato, nel vertice che si svolse a Bologna, come ha più volte raccontato Cossiga e come è confermato dai verbali di quel vertice. La differenza è che sino a pochi anni fa era anche, soprattutto e a lungo esclusivamente la sinistra a mettere in dubbio quella ricostruzione di comodo e a reclamare la verità. Nel clima da contrapposizione da stadio che imperversa oggi, invece, persino materiali risibili come quelli su cui si basa la nuova inchiesta vengono presi da buona parte della sinistra come oro colato, pena il sentirsi tacciare di leso antifascismo e di sfiducia nella magistratura. Di questo clima è senza dubbio in parte responsabile la destra che, dopo essersi disinteressata per decenni della vicenda, la ha in alcune occasioni strumentalizzata, in modo speculare a quello adoperato da una parte della sinistra, a fini di propaganda politica. Finendo per incappare in vere e proprie oscenità, come il tentativo di coinvolgere il giovane Mauro Di Vittorio, una delle vittime della strage, indicandolo come autore della stessa solo in quanto vicino, all’epoca, agli ambienti dell’autonomia. La sinistra stessa, peraltro, non è stata da meno, trasformando la convinzione nella colpevolezza di Nar in un atto di fede antifascista. Non è una piccola differenza rispetto a un passato non molto lontano e che tuttavia già sembra un’altra era geologica. Non testimonia di un miglioramento nella cultura politica di questo Paese.
· Ipotesi alternative sulla Strage di Bologna.
Ipotesi alternative sulla Strage di Bologna. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. A causa del protrarsi negli anni delle vicende giudiziarie e dei numerosi comprovati depistaggi, intorno ai veri esecutori e ai mandanti dell'attentato si sono sempre sviluppate numerose ipotesi e strumentalizzazioni politiche divergenti dai fatti processuali che hanno portato alle condanne definitive dei tre esecutori materiali della strage. I due punti chiave delle tesi di chi critica la versione ufficiale sono le stranezze del racconto di Sparti (il vestito «tirolese»): è stato fatto notare l'incongruenza e la stranezza che due ricercati usassero un travestimento così visibile e facile da notare – non c'erano comitive di turisti tedeschi e austriaci vestiti così in stazione – accusando che potesse essere una messa in scena per incastrare il neofascista Fioravanti, come venne fatto con l'anarchico Pietro Valpreda per la strage di piazza Fontana nel 1969) e il depistaggio verso la pista neofascista, che avrebbe avuto poco senso se la strage fosse stata davvero neofascista (la «tesi dell'impistaggio»). Nel maggio 2007 il figlio di Massimo Sparti (malvivente legato alla Banda della Magliana e principale accusatore di Fioravanti e Mambro) ha dichiarato: «Mio padre nella storia del processo di Bologna ha sempre mentito». Il terzo condannato, Luigi Ciavardini, venne invece accusato da Angelo Izzo, criminale pluriomicida noto come il «mostro del Circeo», spesso rivelatosi inattendibile.
Il 19 agosto 2011 la Procura di Bologna indagò su due terroristi tedeschi, Thomas Kram e Christa Margot Frohlich, entrambi legati al gruppo del terrorista «Carlos», i quali risulterebbero presenti a Bologna il giorno dell'attentato, seguendo così la pista del terrorismo palestinese e/o mediorientale, mai accettata dal presidente dell'Associazione famigliari vittime Paolo Bolognesi, e invece ripetutamente riproposta da Francesco Cossiga.
Anche persone appartenenti ad aree opposte rispetto all'estrema destra hanno espresso dei dubbi sulla verità emersa dalle indagini giudiziarie. Ad esempio, il giornalista Andrea Colombo, ex militante del movimento Potere Operaio, si espresse così riguardo alla sentenza sui tre neofascisti: «L'imitazione del terrorismo rosso, nelle intenzioni di Valerio Fioravanti, deve dimostrare a tutti che la nuova generazione del neofascismo è rivoluzionaria quanto e più dei comunisti. Altro che collusioni con golpe e stragi. Ma, come spesso accade, la realtà finisce per superare qualsiasi immaginazione: dopo aver cercato, in maniera criminale, di marcare la propria distanza dalla vecchia destra golpista e bombarola, Valerio, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini finiranno per essere gli unici terroristi condannati con sentenza definitiva per una strage nel nostro Paese. Per di più la strage più sanguinosa della storia repubblicana: quella alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Certo, tutti e tre hanno sempre dichiarato, anzi urlato la propria innocenza. Senza dimenticare che i giudici che li hanno condannati non sono stati in grado di indicare né movente, né complici, né mandanti. E se a ciò aggiungiamo l'elemento appena emerso, e cioè che i Nar hanno cominciato a uccidere rappresentanti dello Stato per esplicitare la propria opposizione alla destra stragista, i conti di questa sentenza non tornano proprio per niente.» (Andrea Colombo.)
Oltre a Francesco Cossiga, Giovanni Pellegrino e Andrea Colombo, esiste un movimento innocentista che afferma che Mambro, Fioravanti e Ciavardini non siano colpevoli della strage: in una sede romana dell'associazione di sinistra ARCI, nacque nel 1994 il comitato E se fossero innocenti?, ad opera di personalità politiche e culturali di estrazione diversa, tra cui Elio Vito, Liliana Cavani, Giovanni Negri, Marco Taradash, lo stesso Andrea Colombo, Giovanni Minoli, Sandro Curzi, Oliviero Toscani, Giampiero Mughini. Dubbi (a vario titolo) sulla sentenza sono stati espressi da Marco Pannella, Sergio D'Elia, Luca Telese, Andrea Camilleri, Paolo Mieli, Furio Colombo, Marcello De Angelis, Rossana Rossanda, Luigi Manconi, Enzo Fragalà, Enzo Raisi, Ersilia Salvato, Luigi Cipriani, Ennio Remondino (giornalista che scoprì che la cartella clinica di Sparti era andata distrutta), Sandro Provvisionato, Adriano Sofri, Gabriele Adinolfi, Gianfranco Fini, Paolo Guzzanti, Daniele Capezzone, le ex terroriste delle BR Anna Laura Braghetti e Barbara Balzerani, Gianni Alemanno, Massimo Fini, Giovanni Spadolini, Ugo Volli, Giovanni De Luna, Deborah Fait, Fulvio Abbate, Magdi Allam, Sergio Zavoli, Francesco De Gregori, Liliana Cavani, e dal magistrato Rosario Priore. Anche il terrorista comunista internazionale «Carlos», a volte accusato lui stesso, sostiene l'innocenza di Mambro e Fioravanti. Lo stesso Fioravanti ha affermato: «A noi è andata di lusso. L'ho sempre detto e ringrazio i [giudici] bolognesi perché hanno esagerato talmente tanto che alla fine veniamo chiamati a rendere conto solo di una cosa che non abbiamo fatto [la strage] e non di quelle che abbiamo commesso veramente [i numerosi omicidi commessi dai NAR], quindi veniamo perdonati per le cose che abbiamo fatto davvero perché nessuno in fondo ci pensa e discutiamo invece all'infinito di un'altra cosa; è un paradosso.» (Valerio Fioravanti.)
L'ipotesi di Licio Gelli. Licio Gelli ha dichiarato di credere che la strage sia dovuta a un mozzicone di sigaretta che, cadendo accidentalmente su dell'esplosivo o in una caldaia, ne avrebbe causato l'esplosione. Paolo Bolognesi ha affermato invece che la natura dell'esplosivo ritrovato, che è inerte se non azionato da un detonatore, rende del tutto inverosimile questa ipotesi.
Ipotesi della ritorsione della NATO. Oltre al citato depistaggio su Ustica, forse ad opera dei servizi segreti, c'è chi ipotizza una ritorsione. È da tenere in considerazione il fatto che, il 27 giugno 1980, da Bologna era partito l'aereo DC-9 Itavia volo IH870 per Palermo, che fu misteriosamente abbattuto al largo di Ustica provocando la morte di 81 persone. Le versioni ufficiali hanno sempre tenuto le due stragi separate, tanto che per l'opinione pubblica italiana i due fatti appaiono slegati da qualsiasi fattore o nesso comune. Esiste tuttavia, per alcuni, la possibilità che alcuni servizi segreti (CIA, Mossad) avessero provocato la strage di Bologna al fine di mettere sotto pressione il governo italiano e il suo filoarabismo (lodo Moro), in quanto considerato ambiguo e controproducente agli interessi atlantici. Tale filoarabismo dello Stato italiano avrebbe suggerito la protezione del colonnello Gheddafi nel presumibile attacco subito nei cieli di Ustica il 27 giugno di quella stessa estate. Ciò spiegherebbe la copertura successiva e la deviazione delle indagini sulla strage da parte dello Stato italiano. Questa ipotesi deriva principalmente dalla tesi del terrorista «Carlos» e di alcuni suoi compagni di lotta.
La versione di «Carlos». Dalla sua cella, a Parigi, «Carlos», pseudonimo del terrorista filopalestinese Ilich Ramírez Sánchez, affermò che «la commissione Mitrokhin cerca di falsificare la storia» e che «a Bologna a colpire furono CIA e Mossad», con l'intento di punire e ammonire l'Italia per i suoi rapporti di fiducia reciproca con l'OLP, che si era segretamente impegnato a non colpire l'Italia in cambio di una certa protezione. «Carlos» ha poi cambiato più volte versione, affermando che il movente era distruggere un carico di armi destinate alla resistenza palestinese e dare la colpa a loro, poi dichiarando che il Mossad e la CIA non c'entrano, né c'entrano i neofascisti, ma la colpa è di Gladio e dei servizi segreti militari americani.
Teorie del complotto. In un allegato pubblicato in fascicoli del settimanale di destra L'Italia settimanale venne fornita una particolare ipotesi sulla strage, accomunandola alla strage di Ustica (fu definita letteralmente il «bis»): poi è stata paragonata al caso di Enrico Mattei e al caso Moro. Il testo prosegue con: «L'Italia dalla nascita della prima Repubblica è stata, come tutti sanno, un paese a sovranità limitata [...] ora, nel momento in cui, per questioni contingenti [...] ha fatto - raramente - scelte che si sono rivelate in contrasto con le alleanze di cui vi dicevo, ha compiuto, detto in termini politico-mafioso-diplomatici, uno "sgarro". E come nella mafia quando un picciotto sbaglia finisce in qualche pilone di cemento o viene privato di qualche parente (in gergo si chiama "vendetta trasversale"). Così è fra gli Stati: quando qualche paese sbaglia, non gli si dichiara guerra; ma gli si manda un "avvertimento", sotto forma di bomba, che esplode in una piazza, su di un treno, su una nave, ecc ecc.». Senza contestare le sentenze giudiziarie che hanno riconosciuto gli esecutori materiali, il testo vuole indicare alcuni possibili mandanti internazionali. Antonino Arconte, militare ed ex agente segreto di Gladio con il numero G-71, ha affermato il collegamento tra Ustica e Bologna (in molti documenti che sono stati dichiarati «un falso» dal SISMI, sollecitato da Giulio Andreotti), sostenendo l'innocenza di Mambro e Fioravanti, definiti «capri espiatori» per persone coperte dal segreto di Stato. Le sue rivelazioni sono state riprese da alcune pubblicazioni di ambiente eterodosso e accusato di complottismo, ma anche in relazione al caso Moro, come nel libro dell'ex magistrato Ferdinando Imposimato I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia.
La pista mediorientale. Il gruppo di «Carlos» e la «pista palestinese» del FPLP. Stando a quanto riportato dai media nel 2004, ripreso nel 2007[30] e ribadito poi nell'autobiografia La versione di K, Francesco Cossiga, in una lettera indirizzata a Enzo Fragalà – capogruppo di Alleanza Nazionale nella commissione Mitrokhin (che si occupava del noto archivio di documenti del KGB sovietico) assassinato nel 2010, il cui presidente, Paolo Guzzanti, si trovò poi d'accordo con le rivelazioni di Cossiga - ipotizzò un coinvolgimento palestinese (per mano del FPLP e del gruppo tedesco Separat di Ilich Ramírez Sánchez, noto come «comandante Carlos», venezuelano filopalestinese e insignito della cittadinanza onoraria di Palestina dal leader OLP Yasser Arafat, secondo le sue affermazioni) dietro l'attentato.
Nel 2008 Francesco Cossiga, in un'intervista al Corriere della Sera, ribadì la sua convinzione secondo cui la strage non sarebbe da imputarsi al terrorismo neofascista, ma ad un incidente di gruppi della resistenza palestinese operanti in Italia: il Compound B (esplosivo al tritolo e T4) non può però detonare accidentalmente, e occorre comunque un innesco per le gelatine esplosive (seppur trattandosi di nitroglicerina, quindi più instabile), di cui la bomba era composta in parte maggiore. Allo stesso tempo si dichiarò convinto dell'innocenza di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti.
Il lodo Moro. Un'ipotesi nota riguarda il cosiddetto lodo Moro, del quale parla anche lo stesso Aldo Moro nel memoriale scritto durante la prigionia, riguardante un accordo segreto con la dirigenza palestinese, trattato dal colonnello del SISMI Stefano Giovannone. Tra il 1999 e il 2006, durante i lavori istruttori della Commissione Stragi (XIII legislatura) e poi della commissione d'inchiesta riguardante il dossier Mitrokhin e l'attività d'intelligence italiana (XIV legislatura) sono emersi elementi inediti sui collegamenti internazionali del terrorismo italiano e sulle reti dei servizi segreti dell'ex blocco sovietico e dei principali Paesi arabi come Siria, Libano, Libia, Yemen del Sud e Iraq. Grazie a queste informazioni è stato possibile riannodare i fili di una trama occultata per 25 anni e scoprire i punti nevralgici di uno dei segreti più sensibili della Repubblica: gli accordi con la dirigenza palestinese (il cosiddetto lodo Moro, che prevedeva nessun coinvolgimento diretto dell'Italia in attentati palestinesi in cambio di libero accesso al territorio da parte dei gruppi antisraeliani legati all'OLP: in più i Paesi arabi avrebbero garantito adeguato afflusso di petrolio per l'Eni); i retroscena del traffico di armi tra FPLP e Italia (e l'origine militare, occidentale o sovietica, dell'esplosivo usato a Bologna); le minacce al governo italiano per il sequestro dei missili di Ortona e l'arresto del capo dell'FPLP in Italia Abu Anzeh Saleh; i legami di Abu Anzeh Saleh con il terrorista internazionalista Ilich Ramírez Sánchez, detto «Carlos»; l'allarme dell'antiterrorismo italiano ai servizi segreti tre settimane prima della strage; il fallimento delle manovre della nostra intelligence per evitare l'azione ritorsiva; l'arrivo in Italia il 1º agosto 1980 del terrorista tedesco Thomas Kram legato al gruppo «Carlos» e ai palestinesi, e presente a Bologna il giorno della strage (poi rifugiatasi temporaneamente a Berlino Est il 5 agosto); possibile ritorsione per la rottura del lodo Moro. Il depistaggio del SISMI sarebbe stato atto a coprire gli accordi segreti italo-palestinesi. A fronte di queste sospetti, il 17 novembre 2005 la Procura bolognese ha aperto un procedimento contro ignoti (7823/2005 RG). Mino Pecorelli, giornalista assassinato nel 1979, parlò del lodo Moro commentando le parole dell'ex presidente democristiano in una lettera a Flaminio Piccoli, in cui Moro scrisse: «Dunque, non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero poi state poste in essere, se fosse continuata la detenzione. La minaccia era seria, credibile, anche se meno pienamente apprestata che nel caso nostro. Lo stato di necessità è in entrambi evidente.» (Aldo Moro, lettera dal covo delle BR.) Il lodo Moro sarebbe stato coperto dai depistaggi in altre situazioni, come nel caso dei giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni, scomparsi (probabilmente rapiti e poi assassinati dalla frangia OLP-FPLP di George Habbash) in Libano il 2 settembre 1980, mentre indagavano a Beirut sui legami tra servizi segreti, terrorismo e organizzazioni palestinesi. La Commissione Mitrokhin attribuì nel 2006 la responsabilità dell'omicidio di Toni e De Palo al FPLP, con il concorso di frange dei servizi segreti. «Potrà sembrare, anche qui, una singolare casualità, ma è opportuno riferire per completezza del quadro storico e probatorio la circostanza che Carlos, a metà settembre 1980 (proprio nei giorni in cui si stava mettendo in moto la macchina delle coperture e dei depistaggi) si trovava in Libano, in contatto con ambienti politici filo siriani su probabile iniziativa della Libia. Italo TONI e Graziella DE PALO, dunque, furono sacrificati sull’altare dei "patti inconfessabili" tra entità italiane e terrorismo palestinese. È proprio per coprire e tutelare questi "accordi" che i vertici del nostro servizio segreto militare furono costretti a creare una vera e propria "pista alias" che, attraverso un gioco di specchi duplicanti, doveva determinare (semmai gli inquirenti avessero rivolto le loro attenzioni in quella direzione) la deviazione dell'inchiesta in un luogo e su contesti opposti e speculari a quelli che costituivano la verità. Questo vale per il caso dei missili di Ortona, per la strage di Bologna e per la sparizione dei due giornalisti in Libano.» (Relazione della Commissione Mitrokhin sul gruppo Carlos e l'attentato del 2 agosto.) Cossiga afferma che lo stesso Habbash gli mandò un telegramma dopo il sequestro dei missili di Ortona nella macchina di Daniele Pifano, leader di Autonomia Operaia, per avvisarlo che l'Italia stava rompendo l'accordo e violando i patti[36]. Il terrorismo arabo-palestinese si rese responsabile di due stragi sul territorio italiano, entrambe a Fiumicino: nel 1973 (prima della stipula dell'accordo) e nel 1985 (dopo la rottura). Inoltre il 15 febbraio 1984, su richiesta dell'OLP con la quale i brigatisti collaboravano da anni, le BR-PCC uccisero a Roma Ray Leamon Hunt, il comandante in capo della Sinai Multinational Force and Observer Group, la forza militare multinazionale dell'ONU nel Sinai[37]: nel documento di rivendicazione viene affermata la necessità di un intervento antimperialista. Le FARL rivendicarono l'azione insieme alle BR-PCC. Il politologo Giorgio Galli indicò in Maurizio Folini («Corto Maltese») il tramite per cui le armi dell'OLP e di Mu'ammar Gheddafi giungevano alle BR, circostanza confermata dal terrorista in persona che utilizzava la sua barca da diporto per il trasporto del materiale bellico. Si è anche scritto che le BR erano in contatto fin dal 1973 con l'OLP al fine di ricercare un trampolino di lancio sulla scena internazionale. La figura della terrorista palestinese Leila Khaled affascinava addirittura Mara Cagol. «Carlos lo sciacallo» fu anche responsabile di alcune bombe in Francia, come rappresaglia per l'arresto della sua prima moglie e di altri militanti (il che non rende inverosimile la vendetta per il sequestro dei missili e l'arresto di Abu Anzeh Saleh), e che egli stesso, pur essendo condannato per undici omicidi, ha riconosciuto di aver causato più di 1.000 vittime, di cui 200 come «danni collaterali»: a differenza delle BR o dei NAR, che colpivano obiettivi precisi e rivendicavano il tutto, l'associazione Separat-FPLP non esitava nel colpire anche persone che erano, dal loro punto di vista, innocenti conclamati, pur di raggiungere l'obiettivo «rivoluzionario» (o per semplice ritorsione, come le bombe sui TGV francesi e l'attentato della stazione Saint-Charles di Marsiglia).
Ipotesi di Rosario Priore. Il magistrato Rosario Priore, ex titolare dell'inchiesta su Ustica e sui legami tra P2 e Brigate Rosse, nonché parente di una delle vittime della strage di Bologna (il lontano cugino Angelo Priore), ha sostenuto che il DC-9 di Ustica fu abbattuto da un missile libico o francese durante il confronto tra le tre aviazioni francesi, statunitense e libica, e che la vendetta di Gheddafi per l'attentato di Ustica (perpetrato con l'assenso dell'Italia) e per l'accordo della Valletta, avrebbe potuto essere la fornitura dell'esplosivo ai palestinesi che poi fu usato per la strage di Bologna. Priore ha sostenuto la pista tedesco-palestinese del citato lodo Moro, legandola a quella libica: in pratica i vari servizi e strutture segrete come quella di «Carlos» avrebbero agito di concerto, con l'esplosivo libico ma su incarico non di Habash ma di Abu Ayad (detto anche Abu Iyad, vero nome Salah Mesbah Khalaf, membro del gruppo terroristico Settembre Nero e in seguito dirigente dell'OLP), il leader palestinese citato nel cosiddetto documento olografo di Giovanni Senzani. L'ex capo brigatista Senzani attribuirebbe, probabilmente secondo quanto riferito dallo stesso Abu Ayad, la strage (assieme all'attentato alla sinagoga di Parigi e quello alla SIOT di Trieste) alla regia del KGB, che tramite la STASI (polizia politica della Germania Est) finanziava il gruppo di «Carlos» e la causa palestinese del FPLP: «Il rapporto esiste, ma non è ufficiale nel senso che non verrà mai ammesso, punto 1 dell'accordo. [...] Il rapporto è ufficiale con AF [al-Fatah], ed è possibile perché fra gli innumerevoli gruppi che si riconoscono in AF, uno ci appoggia (Quale? Paolo). Inoltre oggi c'è un III giocatore, peso della Europa in Medio O. [Oriente], che oggi ha un certo controllo. C'è un asse Mitterrand – Kresky [Kreisky] per il controllo politico del Medio O. e la R. [Russia] tenta in ogni modo di far saltare questa politica europea. Gli ultimi attentati in Europa (Sinagoga, BO e Trieste (?)) possono essere letti in questa chiave internazionale. [...] (A. [forse Abu Ayad] pensa così) – Così ogni altro movimento in Europa di forze rivoluzionarie e servizi segreti può essere letto in questo modo – Andando avanti si vedranno altre dimostrazioni di ciò – altri attentati e dietro c'è sempre R. (e suoi collegati)... – A. aspetta.» Vengono riprese e ribadite le conclusioni della commissione Mitrokhin, in quanto i documenti dell'archivio avrebbero confermato il rapporto tra URSS, gruppo Carlos e terroristi mediorientali, e quello tra servizi segreti italiani non solo con la NATO ma anche con il FPLP libanese in relazione al lodo Moro, per tramite del colonnello Stefano Giovannone. Nel libro I segreti di Bologna (2016) Priore e l'avvocato Valerio Cutonillo hanno anche ipotizzato che il corpo di Maria Fresu, l'unica vittima mai ritrovata, possa essere stato occultato dai depistatori, vista la difficoltà palese per un corpo umano di disintegrarsi in polvere (i corpi della figlia e di un'amica erano pressoché intatti, mentre un'altra amica, anch'ella vicina alla bomba, incredibilmente si salvò, pur gravemente ferita) e portando come prova che i pochi resti (una parte del volto) a lei attribuiti non corrispondevano al gruppo sanguigno della donna (erano di un individuo di gruppo A invece che O negativo, anche se di sesso femminile); questo all'epoca fu spiegata dal perito Giuseppe Pappalardi con la teoria della «secrezione paradossa», secondo cui un corpo può produrre marcatori estranei al proprio gruppo sanguigno, causando errori negli esami, e i resti identificati come i suoi, dato che non corrispondevano ad altri e non esistendo all'epoca l'esame del DNA. Oggi questa teoria è poco accettata dalla medicina, addirittura ritenuta impossibile e non scientifica da alcuni esperti, come il professor Giovanni Arcudi. Non c'erano altre vittime o feriti di sesso femminile a cui fosse possibile attribuire i resti (le donne sfigurate non avevano il gruppo A): secondo la teoria alternativa di Priore apparterrebbero quindi a una donna forse trasportatrice dell'esplosivo, deceduta o rimasta sfigurata, e mai identificata (cosiddetta «ottantaseiesima vittima»)[47]. Per contro, i critici di Priore affermano che c'erano altri resti umani (un femore e una parte della mano), oltre alla parte del volto, attribuibili alla vittima (su cui però non furono eseguiti test del gruppo sanguigno), seppur non con certezza, e si sostiene che ci fu una confusione con il gruppo sanguigno della figlia, riportato nella cartella clinica della nascita. Mancava il tronco, solitamente ritrovato anche nel caso di attentatori suicidi, quindi molto più vicini all'esplosivo di quanto fosse lei. Gli effetti personali, la borsa e i documenti della donna furono trovati intatti, assieme a una giacca leggera. Secondo l'ex giudice è invece possibile che sul corpo di Maria Fresu ci fossero tracce compromettenti, forse dell'esplosivo di origine militare (in uso sia nella NATO che nel blocco orientale, di provenienza cecoslovacca), e che potevano portare alla pista da loro indicata, oppure il corpo dell'ottantaseiesima vittima sarebbe stato scambiato col suo, come depistaggio, dai servizi segreti italiani deviati, per evitare indagini sull'identità della donna misteriosa, che poteva condurre alla verità del lodo Moro. In particolare è stato ipotizzato l'uso del Semtex (pentrite, anziché del Compound B), che venne usato dai terroristi libici nel 1988 per attentato al volo Pan Am 103 che si schiantò su Lockerbie (Scozia). Un quantitativo di Semtex-H fu anche acquistato da Cosa nostra agli inizi degli anni ottanta: parte di esso fu usato per la strage di via d'Amelio, in cui furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, e per la strage del Rapido 904, mentre un'altra parte di questo esplosivo fu sequestrata dalla DIA di Palermo nel febbraio del 1996. Un altro ingente quantitativo fu invece venduto dal governo cecoslovacco proprio alla Libia che lo utilizzò in alcuni attentati. Viene inoltre ricordata la presenza, sul luogo della strage, del passaporto, della borsa e di documenti personali di Salvatore Muggironi, docente sardo non vedente e forse militante nei gruppi dell'estrema sinistra della Barbagia (Barbagia Rossa, un gruppo vicino alle BR), non coinvolto. Il sottosegretario di Stato Ivan Scalfarotto confermò nel 2015 la circostanza. Nel gruppo di Muggironi militavano anche Giovanni Paba e Franco Secci (anch'essi ritenuti vicini alle BR), che nel 1976 furono arrestati in Olanda per trasporto di armi ed esplosivo su un treno diretto alla stazione di Amsterdam. Rosario Priore ha dichiarato: «Dopo la strage, una ragazza italiana e un ragazzo mediorientale andarono all'obitorio alla ricerca di qualcuno che conoscevano e non riuscivano a trovare. A un certo punto, quando si trovarono davanti due cadaveri, sobbalzarono, come se avessero riconosciuto dei loro amici. Ebbene, all'epoca nessuno si premurò di sentire testimoni. La donna e l'uomo non si fecero riconoscere e si dileguarono. Nessuno ha mai saputo chi fossero né chi avessero riconosciuto. Ed è davvero molto strano, visto che in un obitorio non si entra e si esce liberamente, soprattutto dopo una strage.» (Rosario Priore.) Il giudice in pensione ha anche accusato Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione delle vittime, che gli ricordava il reato di depistaggio («I suoi dieci minuti di celebrità potrebbero costargli cari»), di agire in modo «sovietico» e di minacciarlo. Non è stato dimostrato che fosse Semtex l'esplosivo al plastico di Bologna. Thomas Kram, nel periodo 1979-1983, ebbe rapporti con il colonnello Gheddafi e lavorò con i servizi segreti della Jamahiyria: inoltre si sa che due ex agenti della CIA, Frank Terpil e Ed Wilson, avevano probabilmente venduto del T4 (esplosivo al plastico, usato anche a Bologna) e alcuni timer a Gheddafi nel 1977. Il terrorismo libico, negli anni successivi, colpì in Francia (bombe sul TGV poste da uomini di «Carlos» nel 1983), in Germania Ovest (la bomba nella discoteca La Belle nel 1986) e nel Regno Unito (strage di Lockerbie nel 1988, utilizzando una bomba al plastico), oltre all'attacco missilistico su Lampedusa. Cutonilli e Priore sostengono anche che nel caso in cui si fosse voluta compiere un'efferata strage per uccidere quante più persone possibili, per le caratteristiche specifiche del materiale esploso il 2 agosto 1980 (Semtrex o Compound B, potenziato con gelatina), avrebbe avuto più senso utilizzare un pulverulento, cioè un esplosivo meno rischioso del gelatinato, che è soggetto a oscillazioni se inserito in un elevato campo magnetico. Inoltre è sensibile al caldo e risulta pericoloso anche con il freddo, perché la parte liquida trasuda ed è sensibile all'urto. Secondo l'ex giudice l'esplosivo potrebbe, in via teorica, anche essere detonato per errore a causa del caldo estivo (quindi non per diretta ritorsione) come sostenuto da Cossiga, e il suo originale obiettivo poteva essere il super-carcere di Trani, dove i terroristi avrebbero dovuto abbattere le mura per liberare Abu Anzeh Saleh arrestato in violazione del lodo Moro, tra le proteste di numerosi fedayyin contro il governo Cossiga.[56] Saleh, condannato a 7 anni in primo grado, fu scarcerato il 14 agosto 1981, unico tra gli imputati del processo relativo (Pifano, Neri e Baumgartner), dopo aver scontato 20 mesi di custodia cautelare.
Archiviazione del 2015. I magistrati titolari dell'indagine stavano andando già nel 2013-2014 verso l'archiviazione della pista tedesco-palestinese[58], cosa avvenuta, pur con qualche dubbio da parte della Procura sulla presenza di Kram e Frohlich a Bologna, nel febbraio 2015, che alimenta «un grumo di sospetto». Thomas Kram ha poi querelato l'ex giudice Priore, ma il GIP di Roma Pierluigi Balestrieri ha archiviato la denuncia per diffamazione poiché, a suo dire, la pista tedesca era basata su una «seria e attendibile piattaforma storiografica».
Le ipotesi di Raisi. Enzo Raisi (parlamentare di AN, poi di Futuro e Libertà, che il 2 agosto stava per partire per il servizio militare proprio da Bologna ed era nei pressi della stazione quando scoppiò l'ordigno, evitando per pochi minuti di rimanerne possibile vittima)[61] nel libro Bomba o non bomba ha sostenuto che la bomba sarebbe stata destinata ad un obiettivo più simbolico per la causa palestinese, come accadde con le due stragi di Fiumicino (in cui si colpirono, tra le vittime, alcuni italo-israeliani): secondo Cossiga, per un errore (o cambio di programma) sarebbe stato fatto detonare durante il trasporto, mentre secondo l'archivio Mitrokhin Bologna sarebbe stata l'obiettivo fin da subito. Nel libro si è ricostruita la possibile vicenda, seguendo la tesi innocentista sui NAR proposta da Cossiga e dai documenti del dossier Mitrokhin: la bomba, ordinata dai palestinesi del FPLP (dalla frazione di George Habbash) e da «Carlos» del gruppo Separat, doveva esplodere in un obiettivo sensibile, con molte vittime israeliane o militari della NATO, oppure su un treno nei pressi di Roma. Carlos ne incaricò Thomas Kram (la cui presenza è accertata da alcuni documenti in un albergo di Bologna quel giorno, nonostante lui neghi) e altri membri di Separat come Christa Margot Frohlich (che alloggiava all'Hotel Jolly di fronte alla stazione, e fu vista con una grossa valigia)[64][65] moglie del brigatista romano Sandro Padula, ma per un errore di impostazione del timer e dell'innesco, di comunicazione o un sabotaggio («Carlos» ha affermato che il carico di armi e tritolo era destinato alla resistenza palestinese, ma venne fatto esplodere appositamente dall'Organizzazione Gladio e dai servizi segreti della NATO)[66], esplose a Bologna (in alternativa per ritorsione alla rottura del lodo Moro); il portatore disattento della bomba non è stato identificato poiché il suo corpo sarebbe stato completamente disintegrato dall'improvvisa deflagrazione ravvicinata, e Kram fuggì immediatamente a Berlino Est, mettendosi sotto la protezione della Germania Est (ufficialmente andò ad un incontro con altri elementi del gruppo di estrema sinistra). I servizi segreti e Gladio incaricarono la P2 di dirigere il depistaggio che portasse alla pista del neofascismo, attribuendo l'attentato prima ad Avanguardia Nazionale, poi ai NAR. Lo stesso Cossiga puntò con decisione la pista neofascista, per poi abbandonarla molti anni dopo, quando la situazione si era calmata, poiché la priorità sarebbe stata innanzitutto di nascondere il lodo Moro, in quanto accordo segreto e illegale con l'OLP di Arafat, e salvare le apparenze. Raisi ha anche sostenuto che l'assassinio della De Palo e di Toni in Libano faceva parte del depistaggio: l'omicidio sarebbe stato compiuto dal FPLP e dai servizi segreti italiani per coprire il secondo scandalo (dopo Ustica) che, nel giro di un mese, aveva messo in imbarazzo i servizi segreti militari, causando immani stragi di cittadini, tuttalpiù che Bologna nuoceva anche alla causa dei palestinesi stessi, in quanto città tradizionalmente di sinistra e filopalestinese. Il coinvolgimento di altri agenti, invece, non è mai stato escluso, ma nemmeno provato. L'ipotesi dell'incidente, proposta con diverse varianti da Enzo Raisi, Francesco Cossiga e Licio Gelli, è smentita anche da considerazioni di pura logica: È poco verosimile che una valigia piena di esplosivo, destinata a un altro obiettivo, venisse fatta transitare su un treno (tale infatti sarebbe la motivazione della presenza in stazione dell'ordigno), sebbene ci siano stati dei casi sospetti. È ancora più inverosimile che un carico del genere venisse affidato a un «corriere» inconsapevole di ciò che stava trasportando. Il luogo e il momento dell'esplosione non sembrano affatto casuali: la bomba fu collocata al centro del muro portante dell'ala Ovest, adiacente al marciapiede del primo binario, nel punto in cui il suo effetto sarebbe stato il massimo. Alla stessa intenzione di massimizzare gli effetti corrisponde il momento scelto per l'attentato: la mattina del primo sabato di agosto, in cui la stazione sarebbe stata più affollata che mai. Il tipo di esplosivo usato ha bisogno di un detonatore. Raisi ha ipotizzato il legame con la morte nella strage del giovane comunista Mauro Di Vittorio, simpatizzante di Lotta Continua e del movimento degli indiani metropolitani, affermando che potesse essere un ignaro o incauto portatore di un ordigno che non era destinato a Bologna. L'ipotesi di Raisi e la chiamata in causa di Mauro Di Vittorio sono smentite da due fatti, come hanno ricostruito anche la sorella di Mauro, Anna Di Vittorio, e altri come Paolo Persichetti (ex brigatista e oggi giornalista) e l'autorità giudiziaria di Bologna: Non esiste alcuna prova della militanza di Di Vittorio con l'FPLP e della collaborazione con Carlos alla preparazione di un attentato. Il 21 agosto 1980 il giornale Lotta Continua (quotidiano di LC fondato da Adriano Sofri e allora diretto da Enrico Deaglio) pubblicò il diario di Di Vittorio, da cui si evince che il giovane, nei giorni prima della strage, stava attraversando l'Europa in autostop, partendo da Londra.
La pista libica. C'è anche chi pensa che la Libia stessa abbia avuto una larga parte nella strage di Bologna quale ritorsione per l'attacco al colonnello Gheddafi, avvenuto presumibilmente a Ustica il 27 giugno del 1980, forse ad opera di forze anglo-francesi[69]. L'attacco sarebbe fallito perché il colonnello fu avvisato, come avverrà con Bettino Craxi che lo salverà dal bombardamento aereo su Tripoli del 1986, da qualche personaggio importante della politica italiana. Queste teorie sono state sostenute da uno dei condannati per la strage (Valerio Fioravanti), dal diplomatico Giuseppe Zamberletti, da Emilio Colombo, da uno dei condannati per depistaggio, (Francesco Pazienza, dopo la scarcerazione), da Giovanni Spadolini, da alcuni ex brigatisti e da un collaboratore di giustizia legato alla criminalità organizzata). Sebbene Cossiga avesse escluso la complicità diretta di Gheddafi accusando solo i palestinesi, talvolta la pista libica è stata collegata a quella mediorientale-palestinese suggerita dalla Mitrokhin e da Cossiga stesso. In questa occasione aviazioni NATO avrebbero lanciato, col consenso del governo italiano che non si occupò di vigilare sulle rotte civili, un missile che appunto non colpì Gheddafi, ma un caccia libico (ritrovato in Calabria) e l'aereo DC-9 Itavia. Poco più di un mese dopo, proprio il 2 agosto, l'Italia, alla Valletta, firmò un accordo per proteggere Malta da possibili attacchi libici, nell'ambito della crisi Malta-Libia. Il rais libico avrebbe minacciato l'Italia durante un comizio a Tripoli nell'agosto 1979, dicendo che «fra poco gli italiani conosceranno il significato della parola terrore». Le minacce libiche, proferite e fatte pervenire anche poche ore prima dello scoppio della bomba, sono state confermate dal diplomatico inviato del governo a Malta per la firma del trattato, Giuseppe Zamberletti: Bologna era anche il luogo da cui era partito l'aereo abbattuto a Ustica. Secondo Zamberletti la Libia sarebbe responsabile anche della strage di Ustica, in un'azione di guerra tra NATO e Libia, tramite una bomba a bordo nell'ambito della strategia terroristica del colonnello Gheddafi. «Malta subiva una grande influenza libica, ma il governo Mintoff aveva deciso, per quanto riguarda lo sfruttamento politico del mare circostante, di procedere alle ricerche ed anche allo sfruttamento di quella che la Libia considerava la sua piattaforma continentale. Gheddafi aveva fatto capire che questa cosa avrebbe rappresentato un atto di ostilità nei confronti della Libia, che era sempre stata beneficiaria e che beneficava il nostro paese di rapporti economici e politici particolari. Questa radicale modifica di politica internazionale non poteva non portare alcune tensioni che, nella mia posizione di sottosegretario agli Esteri, avevo letto bene perché c'erano stati dei segni premonitori molto importanti. Il primo segno premonitore è quello del capo del Sismi, generale Santovito. Ricordo che una sera, avendomi incontrato, mi volle parlare di questo tema e mi disse: “lei sta grattando la schiena della tigre; stia attento perché questo gesto va in direzione opposta ad una politica di amicizia e di rapporti particolarmente collaborativi che abbiamo tenuto sempre con quel paese”. La seconda, mi è venuta da una fonte autorevole. L'allora presidente della commissione Esteri, Andreotti, che in quel periodo non aveva incarichi di governo e mi telefonava per dirmi: “stai attento, abbiamo buone relazioni commerciali ed economiche con la Libia; so che questo gesto di fornire la garanzia militare e, quindi, anche di creare un’antenna militare a Malta, perché sia presidio di questa garanzia, viene letta a Tripoli come un’operazione in funzione anti-libica e, quindi, i nostri rapporti economici possono subire un danno da questa decisione”. Ed aggiunse: “perché per questa piccola isola del Mediterraneo dovremmo mettere in discussione i rapporti che abbiamo da tempo con un paese che è un grande rifornitore di petrolio del nostro paese ed è anche un paese con cui abbiamo buone relazioni economiche?”. Il terzo segnale è l'interpretazione autentica. Una delegazione libica venne alla Farnesina e mi espose l'ostilità libica alla conclusione di questo accordo: “state facendo un gesto che mette a repentaglio i nostri rapporti; non possiamo non leggere con preoccupazione un cambiamento di atteggiamento come questo”. Ancora: “questa cosa si aggiunge allo schieramento dei missili nucleari a Comiso, di fronte alla coste libiche, non possiamo non intravedere un combinato disposto di due minacce che vengono proiettate dal vostro paese nei nostri confronti".» (Giuseppe Zamberletti.) Nel 1999 il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo (ex mafioso di Altofonte), interrogato dal giudice Rosario Priore, dichiarò che, quando era detenuto in Inghilterra per traffico di droga, il suo compagno di cella era «il braccio destro di un colonnello siriano che si stava esercitando in Libia nel 1980» che gli confidò che la strage di Bologna era stata compiuta dai servizi segreti libici «per ripicca contro i servizi italiani che avevano aiutato gli americani», i quali volevano abbattere l'aereo sul quale viaggiava Gheddafi, sfociando appunto nella strage di Ustica. La bomba al tritolo di Bologna – di fabbricazione militare – sarebbe stata posta da agenti segreti libici come quella della strage di Lockerbie del 1988 (270 vittime), in cui è riconosciuta la responsabilità del governo di Tripoli e di un suo agente, Abd el-Basset Ali al-Megrahi[76], che la attuò, probabilmente, per vendicare un abbattimento per errore di un aereo di linea della Repubblica Islamica dell'Iran (causato dall'aviazione statunitense), con cui la Libia aveva un'alleanza strategica, o da Thomas Kram del gruppo filopalestinese e filoarabo di «Carlos», che fu collaboratore anche dei libici. La tesi, oltre che da Fioravanti, è appoggiata da elementi dissociati delle Brigate Rosse, mentre Cossiga affermò invece che Gheddafi non era coinvolto. Gheddafi si fece anche promotore di un lancio di missili contro il territorio italiano nel 1986, prima della distensione degli anni novanta. Peraltro la NATO ufficialmente avversava Gheddafi ritenendolo il principale nemico globale, e quindi anche l'Italia era tenuta a farlo, ma i produttori di armi italiani trafficavano anche in armamenti ed esplosivi con la Jamahiyria (la Libia aveva molti rapporti di questo tipo anche con l'URSS). Anche gli stessi NAR, condannati come esecutori materiali, professavano una posizione di anti-imperialismo, come gli stessi libici. Parte degli archivi di Gheddafi, contenenti forse informazioni sui finanziamenti e i coinvolgimenti del regime di Tripoli con il terrorismo internazionale e gli accordi petroliferi occulti, sono stati ritrovati, mentre parte sono andati persi durante la guerra civile libica e con la morte del rais stesso durante questo conflitto. Il punto debole della teoria è che Gheddafi non rivendicò l'attentato, mentre sfidò apertamente gli Stati Uniti in altre occasioni. Tuttavia, nemmeno la strage di Lockerbie venne rivendicata, benché sia accertata la colpevolezza dei libici, e così sarà anche per la bomba di Berlino, anche se i libici, messi alle strette, si offriranno negli anni duemila di pagare un risarcimento danni alle vittime e ai parenti[82].
Il depistaggio «petrolifero». Giovanni Spadolini si dichiarò convinto della pista libica, in un'interrogazione parlamentare del 4 agosto[83], quando si capì che era detonata una bomba e non una caldaia, ma Cossiga dichiarò subito la strage come «fascista», apparentemente senza prove certe (all'epoca di questa affermazione), ritrattando alcuni anni dopo accusando il terrorismo palestinese. Lo stesso depistaggio dei servizi segreti e della P2, sarebbe servito a indicare la pista del neofascismo, anche se non quella dei NAR ma quella «internazionale», per scagionare la Libia ed evitare incidenti diplomatici, poiché Gheddafi aveva importanti partnership commerciali e petrolifere con l'Eni e la FIAT, nonché quote di partecipazioni azionarie. Il leader libico coltivava anche buoni rapporti con Giulio Andreotti. L'ex faccendiere Francesco Pazienza, condannato a 13 anni per i depistaggi verso la pista neofascista, ha sostenuto questa tesi in interviste concesse dopo la scarcerazione, affermando che anche il procuratore Domenico Sica propose la pista libica, rivelando il motivo per cui Gelli volle depistare, e cioè la difesa degli interessi finanziari e petroliferi italiani con il regime di Gheddafi, poiché «coinvolgerla [la Libia]», sempre secondo l'ex collaboratore del SISMI a Milena Gabanelli, «in quel momento avrebbe voluto dire tragedia per la Fiat e per l'Eni».
Strage di Bologna «In Bolivia un faccendiere mi parlò di una missione in Italia ad agosto». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 6 agosto 2020. Sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980il racconto di un particolare fatto da Giovanni Arcuri, interprete di “Cesare deve morire”. «Un mese prima della strage di Bologna, il faccendiere mi disse che il suo amico Kram doveva compiere in Italia una importante missione». Si tratta di una testimonianza raccolta da Il Dubbio. Ma andiamo con ordine. Per la strage di Bologna del 2 agosto del 1980 c’è la verità giudiziaria che vede come esecutori gli ex Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, condannati definitivamente nel 1995. Si aggiunge poi Luigi Ciavardini (minorenne all’epoca dei fatti) condannato nel 2007 e Gilberto Cavallini, condannato in primo grado a gennaio di quest’anno. Tutti e quattro si professano innocenti. L’opinione pubblica è tuttora divisa. Diversi intellettuali di sinistra hanno fin da subito messo in dubbio l’effettiva colpevolezza degli ex Nar. Come non ricordare Luigi Cipriani, esponente di Democrazia Proletaria, che fin da subito disse che non avrebbero dovuto scrivere “strage fascista”. Ma, a sinistra, non era un caso isolato. Ad esempio c’era Ersilia Salvato di Rifondazione Comunista e Luigi Manconi che aderirono al celebre comitato “…e se fossero innocenti?”, composto in maggioranza da persone radicalmente contrapposte alla destra. Diversi sono stati i giornalisti di sinistra come Sandro Curzi, all’epoca direttore di Liberazione o Andrea Colombo, l’attuale brillante penna del manifesto.
“Cesare deve morire” e le frequentazioni in Sudamerica. Nel tempo si sono avanzate diverse ipotesi, alcune suggestive. Non mancano indizi verso la pista palestinese, o meglio quella relativa ai gruppi terroristici. In esclusiva diamo spazio a una testimonianza che potrebbe corroborare quest’ultima ipotesi. A parlare è il romano Giovanni Arcuri. Non è uno qualunque. È stato per diversi anni in carcere, pena finita di scontare nel 2016. È lui che ha fatto la parte di Giulio Cesare nel film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire” che ha vinto 5 David di Donatello e l’Orso d’oro a Berlino. Arcuri stesso è stato premiato al Palm Springs Festival in California come miglior attore di lingua straniera. Ha scritto diversi libri come “Libero Dentro”, dove parla della sua vita fino a quando finì in carcere con l’accusa di traffico di stupefacenti. Nella prima parte parla del suo viaggio a New York , la partita a poker, poi Las Vegas, il Nepal, Caracas. Da pagina 61 invece il racconto cambia radicalmente. Non più viaggi e conoscenze con persone potenti, ma della sua vita trascorsa nel carcere di Rebibbia. Ha svolto numerosi lavori, attività imprenditoriali all’estero e finì per frequentare membri vicini ai cartelli della droga. Ebbe anche un ruolo nell’operazione Watch Tower, opera della Cia inerente al traffico di armi e stupefacenti, il cui scopo era quello di finanziare progetti della lotta anticomunista nei paesi dell’America Latina. Va ribadito che parliamo di un passato che non appartiene più a Giovanni Arcuri. Oggi è libero, anche se si è ritrovato nel 2016 accusato nuovamente di traffico di stupefacenti. «In primo grado mi hanno assolto – spiega Giovanni Arcuri a Il Dubbio – per i capi d’imputazione gravi e inesistenti. Mi hanno solo mantenuto l’art. 56, ovvero il “delitto tentato”». Ma facciamo un passo indietro. Fu negli anni 80 che conobbe persone di tutti i tipi, compresi faccendieri che avevano legami con il mondo dell’estremismo di destra.
Il racconto di Giovanni Arcuri e la strage di Bologna. Ed è qui che inizia il racconto di Arcuri che ha fatto a Il Dubbio. «Ho ritenuto opportuno – spiega -in occasione dell’anniversario della strage di Bologna dare la mia testimonianza e il mio punto di vista al riguardo. Punto di vista derivante non da una presa di posizione di parte ma da fonti a mio avviso attendibili di persone legate a chi potrebbe avere avuto a che fare con tutto ciò». Siamo a luglio del 1980. Giovanni Arcuri si trova in Bolivia. «Mi trovavo lì – spiega – perché avevo una relazione con la figlia di Roberto Suarez (l’allora “re della cocaina”, ndr ) ed ero in contatto con personaggi che volevano mantenere lo status quo in Bolivia, che favoriva gli interessi degli Stati Uniti nell’area. Tra le altre cose – aggiunge Arcuri – in quell’epoca anche Stefano Delle Chiaie latitante si aggirava per Santa Cruz con il nome di Alfredo Modugno». Arcuri spiega che lì conobbe Joaquin Fiebelkorn, un faccendiere tedesco noto per le sue simpatie neonaziste. «Lavorava per Suarez – racconta -, re indiscusso del narcotraffico di stanza a Santa Cruz de la Sierra. Joaquin proveniva dal Paraguay dove aveva lavorato per l’amministrazione del presidente Stroessner. Si era portato dietro un piccolo esercito conosciuti come “i fidanzati della morte”. Tutti mercenari esperti in armi simpatizzanti della destra internazionale. Tra di loro c’era anche Herbert Kopplin ex SS, esperto in armi corte, e Manfred Kuhlman, mercenario proveniente dalla Rodesia, che con Hans Stellfeld erano istruttori militari ex Gestapo».
Thomas Kram era a Bologna il 2 agosto 1980. Ma veniamo al punto cruciale. «Fiebelkorn – prosegue Arcuri – mi disse che avrebbe dovuto incontrare il suo grande amico Thomas Kram nel mese di agosto, in Germania. Kram sarebbe arrivato dall’Italia perché aveva un importante missione da concludere». Arcuri poi va nei dettagli: «In una serata dove il liquore e le donnine abbondarono mi parlò di Separat e di Carlos. Mi fece capire che ogni tanto Carlos utilizzava i loro servigi in varie parti del mondo. Nel caso di Kram il contratto era stato appaltato per conto dello Fplp di Habbas (organizzazione terroristica palestinese, ndr) anche se probabilmente dietro c’era sempre l’Olp ma non poteva ovviamente comparire poiché Arafat stava tentando di far riconoscere lo Stato Palestinese. Questi individui non facevano parte del gruppo di Carlos, ma erano contattati ogni qual volta la loro presenza era fondamentale per la loro professionalità e riservatezza comprovata». Arcuri spiega che erano i primi di luglio del 1980 quando parlò con Fiebelkorn. Poco dopo avvenne il colpo di Stato del Generale Garcia Meza e non lo rivide mai più.«Da altre considerazioni fatte dall’ex Sismi Francesco Pazienza – riflette Arcuri -mi è sembrato di capire che i servizi erano a conoscenza da tempo del fatto che l’Italia si trovava sotto scacco dopo l”arresto del terrorista Saleh e del ritrovamento a Ortona (cittadina abruzzese) delle armi destinate alla cellula di Habbas. L’appoggio era saltato e il Lodo Moro, che aveva garantito una certa impunità di passaggio nel nostro Paese a beneficio degli arabi del Fdlp, era crollato. La ritorsione era alle porte». Giovanni Arcuri aggiunge: «L’unica nota stonata è che Kram alloggiò a Bologna con il suo vero nome. Alcuni mercenari che erano in Bolivia però mi dissero che dall’Europa in quel periodo c’erano dei problemi con i documenti. Potrebbe essere stata una scelta obbligata per non far saltare l’operazione, un’emergenza? Non possiamo né assicurare né smentire, quello che è certo è che Kram era a Bologna il 2 agosto e poi andò in Germania come disse Fiebelkorn».
E quando scoppiò la bomba Kram si trasferì a Firenze. A questo punto Arcuri conclude con una sua riflessione: «I servizi sapevano delle problematiche con gli arabi dovute agli arresti e al sequestro delle armi e hanno depistato il tutto facendo convergere sui Nar le responsabilità». Per dovere di cronaca Kram ha da sempre rigettato le accuse di aver fatto parte dell’organizzazione di Carlos. Per quanto riguarda la sua presenza all’albergo di Bologna proprio il 2 agosto del 1980, il giorno della strage di Bologna, ha dato in passato una sua spiegazione. Sin dal novembre 1979, quando soggiornava a Perugia, Kram era sorvegliato in Italia su richiesta del Bundeskriminalamt, che lo sospettava di favoreggiamento delle Cellule rivoluzionarie. Quando arrivò a Bologna, lui stesso ha raccontato che decise di evitare di incappare in nuovi controlli di polizia. Allo scoppio della bomba che provocò la strage di Bologna, quindi, decise di andare subito a prendere la corriera per raggiungere Firenze. Qualche settimana fa c’è stato però lo scoop dei giornalisti Gian Paolo Pelizzaro e Gabriele Paradisi: Kram, cinque mesi prima della strage era stato già a Bologna, e quel giorno, in quello stesso albergo, ha soggiornato anche Paolo Bellini, l’ex primula nera di Avanguardia nazionale. Ricordiamo che i Nar, invece, erano una formazione nata come punto di rottura e antagonismo nei confronti delle formazioni golpiste e stragiste.
· La pista palestinese.
C’è una pista araba per la strage alla stazione di Bologna? Scrive Paolo Delgado il 2 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Trentasette anni dopo la bomba alla stazione di Bologna, cioè la più sanguinosa strage nella storia d’Italia, oggi si ripeteranno puntualissime le polemiche che accompagnano da sempre la commemorazione. Stavolta nel mirino ci sarà la stessa procura di Bologna, fortemente criticata per aver archiviato l’inchiesta sui mandanti della strage. E’ opportuno ricordare che, secondo una sentenza definitiva ma giudicata quasi ovunque non credibile, non sono ancora stati individuati né i mandanti, né il movente, né gli esecutori materiali della strage. Ci sono tre condannati, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ma come “anelli intermedi”: quelli che avrebbero organizzato, su mandato non si sa di chi, l’attentato poi realizzato non si sa da chi per non si sa quali ragioni. Si può scommettere che nella polemica sui mandanti non una parola verrà dedicata alla denuncia che il quotidiano romano Il Tempo porta avanti, inascoltato, da una settimana. Il direttore Gian Marco Chiocci ha rivelato che esistono delle note dell’allora capo dei servizi segreti in Medio Oriente Stefano Giovannone, capocentro Sismi a Beirut e già uomo di fiducia di Aldo Moro. Le informative, ancora secretate dal Copasir, potrebbero secondo Chiocci gettare una luce tutta diversa sulla strage e sui suoi mandanti. Le note di Giovannone sono state visionate dai parlamentari della commissione Moro, ma senza il permesso di fotocopiarle né di diffonderne i contenuti. Prima di entrare nel merito degli appunti del vero ideatore del famoso Lodo Moro, quello che consentiva alle organizzazioni palestinesi di usare di fatto l’Italia come base in cambio dell’impegno a non colpire obiettivi italiani ( a meno che, segnalava però Cossiga, non avessero rapporti con Israele: il che, secondo l’ex presidente picconatore, escludeva dall’accordo gli ebrei), bisogna chiarire perché quelle note sono importanti e fino a che punto costituiscono un elemento valido per l’individuazione della verità sulla strage del 2 agosto 1980. A rendere particolarmente interessante quel documento è prima di tutto proprio il fatto che siano note di pugno di Giovannone. Non si trattava infatti di un agente dell’Intelligence come tanti: “Stefano d’Arabia”, com’era soprannominato, era senza dubbio la persona che nello Stato italiano conosceva meglio, più a fondo e più da vicino le organizzazioni palestinesi, nei confronti delle quali provava una assoluta simpatia. Il secondo elemento d’interesse è la stessa scelta di mantenere il segreto su quelle note del 1979- 80 a destare curiosità e sospetti: cosa giustifica, a quasi quarant’anni di distanza, tanta prudenza? Allo stesso tempo va chiarito che gli appunti di Giovannone non indicano affatto con certezza una responsabilità palestinese nella strage. In compenso confermano al di là di ogni dubbio che le indagini trascurarono deliberatamente una pista e scelsero, non sulla base di elementi concreti ma al contrario ignorando i soli elementi concreti a disposizione, di seguire solo quella neofascista. L’antefatto è noto ma conviene riassumerlo. Nella notte tra il 7 e l’8 novembre tre autonomi romani del collettivo di via dei Volsci furono arrestati a Ortona mentre trasportavano per conto dei palestinesi due lanciamissili Sam- 7 Strela di fabbricazione sovietica. Giovannone si mobilitò immediatamente, poche ore dopo l’arresto, per cercare invano di risolvere l’incidente, evidentemente molto preoccupato per qualcosa, anzi per qualcuno, che non potevano certo essere i tre autonomi. Si trattava infatti Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente a Bologna, in realtà responsabile militare del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina in Europa. Saleh, che aveva chiesto ai tre autonomi di occuparsi del trasporto, senza chiarire di cosa si trattasse, fu arrestato pochi giorni dopo. Qualche settimana fa l’allora dirigente dell’Fplp Abu Sharif, nel corso dell’audizione di fronte alla Commissione Moro, ha rivelato che proprio Saleh era il dirigente palestinese a cui lo Stato italiano si era rivolto, dopo il sequestro di Moro, chiedendo un intervento dell’Olp a favore della liberazione dell’ostaggio. I rapporti stretti tra Giovannone e Saleh sono confermati dall’interessamento del potente colonnello perché al palestinese, espulso nel ‘ 74, fosse consentito il ritorno e il soggiorno in Italia. La preoccupazione di Giovannone era comprensibile e fondata. Sin dal ‘ 73 era in vigore l’accordo con il Fronte, come con altre organizzazioni palestinesi, che avrebbe dovuto mettere Saleh al riparo da ogni rischio d’arresto. Il colonnello aveva capito al volo che, con tre autonomi italiani di mezzo e nel clima dell’epoca, ottenere la scarcerazione del palestinese sarebbe stato molto difficile. Era ben consapevole di quanta irritazione ciò avrebbe comportato nei vertici dell’Fplp, allora fortemente influenzato dalla Libia, e quanto fosse di conseguenza alto il rischio di una reazione violenta. Pochi giorni dopo gli arresti, Giovannone accenna, nelle informative ancora secretate, a una lettera inviata al premier italiano Cossiga da Arafat, evidentemente preoccupatissimo per i sospetti di collusione tra palestinesi e terrorismo italiano. Nella lettera, mai consegnata a Cossiga per l’intervento del responsabile dell’Olp in Italia Nemer Hammad, Arafat attribuiva alla Libia ogni responsabilità per il trasporto dei lanciamissili. In dicembre Giovannone accenna per la prima volta a una divisione tra falchi e colombe ai vertici dell’Fplp e del conseguente rischio di dure rappresaglie ove l’Italia non mantenesse i propri impegni con il Fronte. In concreto, senza la liberazione di Saleh e la restituzione dei lanciamissili. Il colonnello torna a registrare la possibilità di rappresaglie e di iniziative punitive nei confronti dell’Italia nei primi mesi del 1980, dopo che il 25 gennaio tutti gli imputati erano stati condannati in primo grado a sette anni. In aprile Giovannone riporta le preoccupazioni dello stesso leader dell’Fplp George Habbash, che si dice pressato dall’ala estremista del Fronte favorevole alla rappresaglia. Nella stessa occasione il responsabile dei servizi segreti italiani in Medio Oriente specifica che l’eventuale attentato sarebbe commissionato a un’organizzazione esterna all’Olp, quella di Carlos con il quale, aggiunge Giovannone, l’area dura dell’Fplp ha appena preso contatti. L’esecuzione, prosegue la nota, sarebbe probabilmente affidata a elementi europei, per non ostacolare il lavoro diplomatico in vista del riconoscimento dell’Olp da parte dell’Italia. In maggio Giovannone cita apertamente un ultimatum, con scadenza il 16 maggio, dopo il quale la maggioranza sia dei vertici che della base del Fronte è favorevole a riprendere la piena libertà d’azione in Italia, se nel frattempo non ci sarà stata la liberazione di Saleh. Il colonnello afferma anche che, secondo le sue fonti, a premere per un’azione violenta è la Libia, principale sostegno del Fronte ma che, in ogni caso, nulla succederà prima della fine di maggio. La fase più pericolosa è invece considerata l’avvio del processo d’appello, il 2 luglio. Nelle settimane seguenti il governo italiano fa sapere di essere pronto a prendere in considerazione la condizione di Saleh, ma non quella dei tre autonomi italiani, e di essere disponibile a indennizzare i palestinesi per i due lanciamissili sequestrati. Il 29 maggio però la Corte d’Appello dell’Aquila respinge la richiesta di scarcerazione di Saleh e le fonti di Giovannone alludono a due possibili ritorsioni: un dirottamento aereo oppure l’occupazione di un’ambasciata. Ma è lo stesso capocentro del Sismi, in giugno, a sottolineare che gli siano stati segnalati obiettivi falsi allo scopo di coprire quelli e a ipotizzare un attentato “suggerito” dalla Libia all’Fplp ma non rivendicato per evitare di creare problemi all’Olp. L’ultimo appunto è di fine giugno. Giovannone dice di essere stato informato sulla scelta del Fronte di riprendere a muoversi in piena libertà, cioè senza più offrire le garanzie previste dal Lodo Moro e afferma di aspettarsi «reazioni particolarmente gravi» se l’appello non rovescerà la sentenza di condanna. Il processo però viene subito rinviato fino a ottobre. Le comunicazioni di Giovannone si fermano qui, ma l’11 luglio il direttore dell’Ucigos prefetto Gaspare De Francisci mette in allarme con una nota riservata il direttore del Sisde Giulio Grassini in merito a possibili ritorsioni da parte dell’Fplp. Né l’informativa di Giovannone né i molti altri elementi che potrebbero indicare una pista libicopalestinese per la strage sono tali da permettere di arrivare a conclusioni credibili, come troppo spesso ha cercato di fare negli ultimi anni uno stuolo di investigatori dilettanti. Ma il punto non è sostituirsi agli inquirenti. È, più semplicemente, chiedersi perché, che, con elementi simili a disposizione, gli investigatori abbiano deciso, sin dalle prime ore dopo l’attentato, di seguire tutt’altra pista.
2 AGOSTO 1980. Bologna, il buco nero della strage alla stazione. 36 anni dopo, Bologna si prepara ad accogliere i famigliari delle vittime e le commemorazioni. Per non dimenticare l'atto terroristico che provocò 85 vittime. La dinamica e i mandanti, nonostante i processi e le condanne, non sono mai stati chiariti, scrive Michele Sasso l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. La più grande strage italiana in tempo di pace. Ottantacinque morti, più di duecento feriti. Il 2 agosto 1980, un giorno d’estate di un Paese che esiste solo nella memoria, è diventato un tutt’uno con la strage di Bologna. È un sabato quel 2 agosto di 36 anni fa. Le ferie estive che svuotano le città del Nord sono appena iniziate. Chi ha scelto il treno deve passare necessariamente per Bologna, scalo-cerniera per raggiungere l’Adriatico o puntare verso Roma. La stazione è affollatissima dalle prime ore del mattino. I voli low cost arriveranno sono trent’anni dopo. Dopo la bomba alla stazione, che provocò 85 morti, il nostro settimanale preparò un numero speciale e mise in copertina la riproduzione di un quadro di Renato Guttuso, realizzato apposta per l'occasione. Guttuso dette all'opera lo stesso titolo dell'incisione di Francisco Goya Il sonno della ragione genera mostri ed aggiunse la data della strage, 2 agosto 1980, unico riferimento al fatto specifico, vicino alla firma dell'autore. La tavola originale è esposta nel Museo Guttuso. Raffigura un mostro con sembianze da uccello e corpo di uomo, denti aguzzi, occhi sbarrati e di fuoco, che tiene un pugnale nella mano destra e una bomba a mano nella sinistra, e colpisce alcuni corpi morti o morenti, sopra i quali sta a cavalcioni Alle 10 e 25 però il tempo si ferma: 23 chili di tritolo esplodono nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria. Le lancette del grande orologio, ancora oggi, segnano quel tempo e quella stagione di morte e misteri. Un boato, sentito in ogni angolo della la città, squarcia l'aria. Crolla l'ala sinistra dell'edificio: della sala d'aspetto di seconda classe, del ristorante, degli uffici del primo piano non resta più nulla. Una valanga di macerie si abbatte anche sul treno Ancona-Basilea, fermo sul primo binario. Pochi interminabili istanti: uomini, donne e bambini restano schiacciati. La polvere e il sangue si mischiano allo stupore, alla disperazione e alla rabbia. Tanta rabbia per quell’attentato così mostruoso e vile che prende di mira turisti, pendolari, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice terroristica della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile. Cominciò quel giorno una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana. Un iter che ha portato a cinque gradi di giudizio, alla condanna all'ergastolo degli ex Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e a quella a trent'anni di Luigi Ciavardini. Con un corollario di smentite, depistaggi e disinformazione. Resta la verità giudiziaria della pista neofascista e la strategia della tensione ma rimangono senza nomi i mandanti. I responsabili dei depistaggi, invece, come stabilito dai processi, sono Licio Gelli, P2, e gli ex 007 del Sismi Francesco Pazienza, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte. Il giorno dei funerali, il 6 agosto, «non era possibile determinare quante persone fossero presenti», come scrisse Torquato Secci, che quel giorno perse il figlio e poi diventò il presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage. Non tutte le vittime ebbero, però, il funerale di Stato: solo sette le bare presenti in chiesa in mezzo alle quali camminò il presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto insieme a Francesco Cossiga, presidente del Consiglio dei ministri. Fuori dalla chiesa, la gente in piazza iniziava a contestare le autorità. Solo Pertini e il sindaco di Bologna, Zangheri, ricevettero degli applausi. Ancora prima dei funerali si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città. Un moto di indignazione e dolore scosse l’intero Paese. L'Espresso uscì la settimana successiva con un numero speciale: in copertina un quadro a cui Renato Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Trentasei anni dopo, con l’eredità di ombre, depistaggi e la strategia della tensione per controllare il Paese, si rinnova il ricordo collettivo e personale della strage. Bologna si prepara a rinnovare l’impegno con la “giornata in memoria delle vittime di tutte le stragi”, organizzata dall’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto che tenne viva la memoria e la spinta civile durante l’intero processo.
Come a sinistra si racconta sempre un'altra storia.
La strage di Bologna: l’intervista di Gianni Barbacetto al giudice Mastelloni. Ad ogni anniversario della strage di Bologna spuntano le rivelazioni su nuove piste e nuovi responsabili per la bomba. Piste e responsabili che spesso si sono rivelati sbagliati o, peggio, dei depistaggi. L'ultimo libro sulla bomba alla stazione: il saggio uscito per Chiarelettere di Rosario Priore e Valerio Cutonilli "I misteri di Bologna". L’1 agosto 2016 sul Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto (autore tra gli altri del libro "Il grande vecchio" sulle stragi e sui segreti italiani) intervista il giudice Carlo Mastelloni, che nel passato aveva indagato sul disastro di Argo 16 e sui contatti tra Br e Olp per lo scambio d'armi. Diversamente da Priore, Mastelloni ha pochi dubbi sull'origine della bomba e sui responsabili: sono stati i neofascisti dei Nar, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Quest'intervista cancella la tesi dei due autori del libro. E' la più grave delle stragi italiane: 85 morti, 200 feriti. È anche l’unica con responsabili accertati, condannati da sentenze definitive: Valerio Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini. Esecutori materiali appartenenti ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. La strage di Bologna del 2 agosto 1980, ore 10.25, è anche l’unica per cui sono state emesse sentenze per depistaggio: condannati due uomini dei servizi segreti, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e due faccendieri della P2, Licio Gelli e Francesco Pazienza. I depistaggi: fanno parte della storia delle indagini sull’attentato di Bologna (come di tutte le stragi italiane, a partire da piazza Fontana) e arrivano fino a oggi, dopo che sono passati 36 anni. Malgrado le sentenze definitive che attribuiscono la responsabilità dell’attentato ai fascisti nutriti dalla P2, sono continuamente riproposte altre spiegazioni, fantasmagoriche “piste internazionali”. La pista palestinese, più volte presentata in passato, anche da Francesco Cossiga, torna alla ribalta oggi aggiornata dal magistrato che ha indagato sulla strage di Ustica, Rosario Priore. Continua a resistere la pervicace volontà di non guardare le prove raccolte in anni d’indagini e allineate in migliaia di pagine di atti processuali, per inseguire le suggestioni evocate da personaggi pittoreschi e depistatori di professione. Del resto Fioravanti e Mambro, che pure hanno confessato decine di omicidi feroci, continuano a proclamare la loro innocenza per la strage della stazione: non possono e non vogliono accettare di passare alla storia come i “killer della P2”. La definizione è di Vincenzo Vinciguerra, protagonista dell’altra strage italiana per cui c’è un responsabile condannato, quella di Peteano. Ma Vinciguerra ha denunciato se stesso e ha orgogliosamente rivendicato l’azione di Peteano come atto “di guerra politica rivoluzionaria” contro uomini dello Stato in divisa. Su Bologna, sulle 85 incolpevoli vittime, sui 200 feriti, invece, 36 anni dopo restano ancora all’opera i dubbi, le menzogne, i depistaggi. Non ha dubbi: “Cominciamo a mettere le cose al loro posto: la matrice neofascista della strage di Bologna è chiara”. Carlo Mastelloni è dal febbraio 2014 procuratore della Repubblica a Trieste. Non dà credito alla pista internazionale per l’attentato: il giudice Rosario Priore, in un libro scritto con l’avvocato Valerio Cutonilli, spiega la strage con una pista palestinese. “Non l’ho mai condivisa”, dice Mastelloni. In estrema sintesi, secondo i sostenitori di questa ipotesi, la Resistenza palestinese avrebbe compiuto la strage come ritorsione per l’arresto nel novembre 1979 di Abu Saleh, uomo del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), componente radicale dell’Olp di Yasser Arafat, fermato in Italia con tre missili terra-aria tipo Strela insieme a Daniele Pifano e altri due esponenti dell’Autonomia romana. La strage come vendetta per la rottura da parte italiana del cosiddetto “Lodo Moro”, cioè dell’accordo di libero transito in Italia dei guerriglieri palestinesi, in cambio della garanzia che sul territorio italiano non avrebbero compiuto attentati. “Quella pista”, ricorda Mastelloni, “si basa sul fatto che a Bologna la notte prima della strage era presente Thomas Kram; tuttavia, all’elemento certo di quella presenza si è aggiunto il nulla indiziario”. Kram è un tedesco legato al gruppo del terrorista Carlos, lo Sciacallo. Nuovi documenti, ancora secretati perché coinvolgono Stati esteri, sono stati di recente acquisiti dall’attuale Commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro: proverebbero che gli accordi con la Resistenza palestinese hanno tenuto almeno fino all’ottobre dell’80, assicura lo storico Paolo Corsini, che ha potuto leggere quelle carte in qualità di componente dell’organismo parlamentare. Racconta Mastelloni: “Quando il vertice del Sismi (il servizio segreto militare erede del Sid) dopo l’arresto di Pifano e degli altri fu costretto a rivelare la persistenza del Lodo Moro a Francesco Cossiga – che già ne era stato sommariamente informato attraverso le lettere inviate da Moro prigioniero nella primavera 1978 – questi andò su tutte le furie. Soprattutto dopo aver appreso che il transito dei missili era stato accordato al capo dell’Fplp George Habbash dal colonnello del Sid Stefano Giovannone”. La furia di Cossiga, i contatti di Giovannone. In quei mesi Cossiga era presidente del Consiglio. “Appunto. E si arrabbiò moltissimo. Di qui l’atteggiamento furioso di Habbash che rivendicò i missili e la copertura datogli “dal governo italiano” che lui evidentemente identificava in Giovannone, capocentro Sismi a Beirut. Conosco un po’ la personalità di Cossiga: gli piacevano assai certi intrighi internazionali e poi credeva di avere le stesse capacità strategiche di Moro. Per questo è assai facile che il Lodo abbia tenuto fino a tutto il 1980, almeno fino alla conclusione del mandato di Cossiga. È però da escludere che di fronte a una strage come quella di Bologna il Lodo Moro potesse essere idoneo a coprire il fatto. Mi si deve poi spiegare quale utilità avrebbe mai conseguito il Kgb – che aveva avuto alle sue dipendenze Wadi Haddad fino al 1978, così come nella sua orbita si trovava Habbash e lo stesso Arafat capo dell’Olp – colpendo la rossa Bologna”. Cossiga arrivò a dire, in un’intervista al Corriere del giugno 2008, che la strage fu la conseguenza un transito di esplosivo finito male. “Non è assolutamente plausibile. L’esplosivo usato per l’attentato poteva esplodere solo se innescato, non per altri fattori accidentali. La strage fu causata dalla deflagrazione di una valigia riempita con circa 20 chili di Compound B, esplosivo di fabbricazione militare in dotazione a istituzioni come la Nato”. Priore sostiene che l’Fplp di Habbash aveva una così forte influenza su Giovannone e, tramite questi, sul governo italiano, da pretendere che le nostre autorità rifiutassero a statunitensi e israeliani di esaminare i missili Strela sequestrati. “Il dottor Habbash è stato un capo carismatico ma, francamente, penso che i nostri alleati non avessero bisogno di analizzare gli Strela che già conoscevano. Le rivelo che spesi ogni energia –tante missive di richiesta allo Stato maggiore dell’esercito – per avere notizia dei missili sequestrati e poi inviati agli organi tecnici dell’Esercito. Dove si trovavano? Silenzio. Mi fu poi detto nel 1986, dal generale Vito Miceli, che erano stati spediti agli americani per le analisi”. L’ipotesi è che il destinatario ultimo dei missili sequestrati fosse niente di meno che il terrorista Carlos, che stava progettando un’azione clamorosa, un attentato contro i leader egiziano Sadat. “Lo escludo. Nel 1979, Carlos già da anni era stato espulso dal circuito di Fplp. Penso che quei missili fossero in transito e che gli autonomi arrestati si sarebbero dovuti limitare a trasportarli, probabilmente fino al confine svizzero. Si trovava infatti in Svizzera quella che io chiamo la testa del motore, e cioè la centrale del terrorismo palestinese. Mi pare che proprio in quel periodo a Ginevra fosse in programma un’importante conferenza internazionale cui doveva partecipare Henry Kissinger, da anni obbiettivo del Fplp. Carlos aveva assunto il comando dell’organizzazione poi chiamata Separat, vicina ai siriani, e quindi all’Unione Sovietica. Escludo perciò che Carlos avesse bisogno proprio dei due missili di Habbash così come escludo che quest’ultimo si mettesse nelle mani di Carlos per compiere un attentato eclatante nella rossa Bologna”. È dunque solida, da un punto di vista giudiziario, la matrice fascista della strage di Bologna. “Sì. Ricordiamoci innanzitutto il luogo e il contesto: agli inizi degli anni Ottanta, Bologna era ancora la capitale simbolica del Pci. Finiti gli anni del compromesso storico e degli accordi con la Dc, Enrico Berlinguer riposizionò il Partito comunista all’opposizione”. Tanti i testimoni che parlano di Giusva. Responsabile della strage, per la giustizia italiana, è il gruppo dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Giusva Fioravanti. “Lo provano le testimonianze di militanti di primo piano dei Nar: da Cristiano Fioravanti a Walter Sordi, da Stefano Soderini a Luigi Ciavardini. Ma decisiva appare nel contesto della strage la vicenda dell’omicidio Mangiameli. Francesco Ciccio Mangiameli, leader nazionale di Terza Posizione, fu indicato dal colonnello Amos Spiazzi nell’agosto del 1980 come coinvolto nell’attentato. Nel settembre dello stesso anno, Mangiameli venne eliminato dai fratelli Fioravanti, Francesca Mambro e Giorgio Vale a Roma, dopo essere stato attirato in una trappola. Omicidio inspiegabile, se non con il pericolo che ‘Ciccio’ rivelasse quello che sapeva sulla strage di Bologna”. Giusva Fioravanti e Francesca Mambro erano stati a Palermo, da Mangiameli, nel mese di luglio 1980, per pianificare l’evasione di Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine nuovo. “Sì. Ed è proprio per paura di quanto avevano appreso durante quel viaggio in Sicilia che Giusva era deciso a eliminare anche la moglie e la bambina di Mangiameli. Questo lo ha raccontato il pentito Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva”. Cristiano Fioravanti è un personaggio drammatico, grande accusatore del fratello Giusva. È un personaggio credibile? “Certamente sì. In diverse confidenze fatte nel carcere di Palianolo si evince dalle dichiarazioni di Sergio Calore e Raffaella Furiozzi – e in parziali confessioni rese alla Corte d’assise di Bologna, poi ritrattate ma solo su fortissime pressioni del padre dei fratelli Fioravanti, Cristiano ha additato il fratello come responsabile della strage che, nelle intenzioni, non avrebbe dovuto assumere dimensioni così devastanti”. In aggiunta c’è la testimonianza di Massimo Sparti. “Ed è molto importante. Sparti parla di una richiesta urgente di documenti falsi per Francesca Mambro avanzata da un Valerio Fioravanti molto preoccupato che la ragazza fosse stata riconosciuta alla stazione di Bologna. Inoltre, è assolutamente certo che Giusva e Francesca volevano eliminare Ciavardini per aver fatto incaute rivelazioni il 1° agosto alla fidanzata. Stefano Soderini era già stato mobilitato per l’eliminazione del giovane, allora minorenne e ferito in uno scontro a fuoco durante un’azione dei Nar. Non le pare abbastanza per considerare definitiva la matrice fascista della strage?”. Alcuni ritengono però che in tutta la vicenda processuale sia apparsa indeterminata, se non assente, la figura dei mandanti e la motivazione profonda per la strage. “Resta un buco di ricostruzione storica. Ma nessuno può levarmi dalla testa che le continue e pervicaci campagne volte ad accreditare l’innocenza degli attentatori materiali neofascisti non hanno avuto altro esito – anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione – che allontanare ancora di più la ricerca dei mandanti e dei loro scopi”. Oggi resta intoccabile quella grande lapide (“Vittime del terrorismo fascista”) all’interno della stazione, con i nomi degli 85morti di Bologna. “Sì, e aggiungo una cosa: quella lapide è tuttora scomoda per parecchi ambienti”.
Libri. “I segreti di Bologna”: perché sulla strage la verità è ancora lontana, scrive il 2 agosto 2018 Francesco Filipazzi su Barbadillo. In occasione del 2 agosto, ogni anno vengono riaperte vecchie ferite e proposte nuove letture di quella che è stata la strage più grave del dopoguerra italiano, la Strage di Bologna. La verità giudiziaria, fra depistaggi, silenzi e manomissioni, è notevolmente carente e nel corso degli anni la sentenza finale, che condanna i terroristi neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, è stata messa più volte in discussione, sotto molti aspetti. Un paio d’anni fa fece invece scalpore un libro, scritto dal magistrato in pensione, Rosario Priore, insieme a Valerio Cutonilli, dal titolo “I segreti di Bologna”. Il filo conduttore del volume, ampiamente contestato dall’associazione dei Famigliari delle Vittime e da molta parte della stampa, tanto che qualcuno arrivò ad ipotizzare una denuncia per il reato di depistaggio, è legato all’ipotesi della “pista palestinese”. Questo filone di indagine non è stato molto battuto dalla magistratura bolognese, ma al contrario rinverdito negli anni da inchieste parlamentari, da Francesco Cossiga, ai tempi presidente del Consiglio e dagli interrogatori del terrorista Carlos, legato al gruppo palestinese Fplp e ai servizi segreti della Germania est. Il volume in sé è molto interessante e ha il pregio di non proporre una soluzione incontestabile al mistero di Bologna. Anzi, riguardo all’esplosione del 2 agosto, vengono valutate tutte le ipotesi ma non viene mai sentenziato che la strage è necessariamente di matrice palestinese. Semplicemente viene presentata una serie di fatti, verificati, che hanno preceduto l’attentato. Ciò che del libro appare estremamente interessante, a parere nostro, è in realtà tutta la ricostruzione dei rapporti intercorsi negli anni ’70 fra servizi italiani, gruppi palestinesi, mondo arabo, Libia, Brigate Rosse e altri gruppi della sinistra extraparlamentare. In sostanza gli autori spiegano in modo piuttosto dettagliato, avvalendosi di informative dei servizi e documenti giudiziari, la ragnatela di rapporti e contatti che hanno animato alcuni capitoli fra i più importanti della Guerra Fredda. Una guerra in gran parte segreta, di cui ancora oggi non sappiamo tutto. La narrazione dei fatti parte dal caso dei “missili di Ortona”. La notte fra il 7 e l’8 novembre 1979 dei militanti di Autonomia Operaia vengono fermati dalle Forze dell’Ordine italiane mentre trasportano dei missili Strela, di fabbricazione sovietica. La situazione è poco chiara ed iniziano le indagini, che portano all’arresto di un militante palestinese, a Bologna. Quella che sembrerebbe una normale azione di polizia diventa però una crisi internazionale. I missili infatti sono del Fplp, un gruppo piuttosto importante nel terrorismo internazionale legato alla causa palestinese, che infatti nei mesi successivi ne rivendica la proprietà e ne chiede la restituzione, in base agli accordi presi fra l’organizzazione e l’Italia. Ma quali accordi? Qui esplode il bubbone. L’atlantista Italia, per evitare attentati e ritorsioni, avrebbe infatti intrattenuto rapporti e preso accordi con i terroristi palestinesi (all’epoca peraltro non integralisti islamici ma di ispirazione piuttosto socialista e marxista) per far sì che questi potessero transitare in Italia senza problemi, trasportando anche armi e munizioni. L’accordo è noto con il nome di Lodo Moro. Nel libro vengono quindi ricostruiti tutti i retroscena, presentati attori e circostanze dello stesso. L’affaire Ortona dunque sarebbe stata una rottura dell’accordo stesso da parte dell’Italia, per volere di Cossiga. Il Fplp iniziò quindi a minacciare ritorsioni. In questo clima di tensione, con i servizi in allerta per il pericolo di un attentato dinamitardo, arriva il 2 agosto con relativa strage. Certo, la strage per ipotesi potrebbe essere attribuita senza troppi problemi al Fplp, o al massimo al gruppo del terrorista Carlos, noto bombarolo legato sia al Fplp che ai servizi della Germania Est. Il libro però non manca di mettere in dubbio questa ricostruzione sotto il profilo della volontarietà dell’azione. L’esplosione sarebbe da attribuire ad un passaggio di armi destinate ai gruppi terroristici che ruotano attorno all’Olp, ma un errore umano avrebbe provocato la detonazione. Questa pare di capire, è la versione più accreditata secondo gli autori, i quali però, come già detto, non danno una risposta definitiva. In generale il volume è un tentativo di spiegare le dinamiche, talvolta perverse, che hanno mosso la politica internazionale dell’Italia negli anni ’70. Una politica fatta talvolta di doppiezze ed equilibrismi, che se studiata in modo corretto aiuta a capire anche gli sviluppi successivi della geopolitica mediterranea. Riguardo la strage, certamente vengono aggiunti elementi interessanti al quadro globale nel quale avvenne, ma la ricerca della verità completa è ancora piuttosto lunga ed ardua. Va inoltre sottolineato che la “pista palestinese” proprio di recente è stata esclusa dal nuovo capitolo processuale aperto di recente, riguardante il ruolo di Gilberto Cavallini.
«Le stragi di Ustica e Bologna? Cercate in medioriente», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il 2 agosto di 36 anni fa, la stazione di Bologna venne devastata da un'esplosione che provocò 85 morti e oltre 200 feriti. Il giudice Rosario Priore racconta la sua verità e spiega il “Lodo Moro”. Che cosa è successo alla stazione Bologna, quel 2 agosto del 1980? A 36 anni dalla strage più sanguinosa del secondo dopoguerra - in cui persero la vita in un’esplosione 85 persone e ne rimasero ferite 200 - la verità processuale è stata stabilita in via definitiva e ha riconosciuto colpevoli i militanti neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Foravanti e Francesca Mambro. Secondo l’ex magistrato Rosario Priore, titolare delle inchieste sulla strage di Ustica e autore con Valerio Cutonilli del libro I segreti di Bologna, la verità storica apre scenari completamente diversi.
Partiamo dall’inizio, perchè lei scarta la pista neofascista?
«Da magistrato rispetto la cosa giudicata, ma sul piano storico la ricostruzione presenta numerose falle, dovute probabilmente al fatto che l’istruttoria del processo è stata molto lunga, il che spesso si presta a inquinamenti di ogni genere. Gli elementi che rimandano alla pista mediorientale, invece, sono molto evidenti e in alcuni di questi mi sono imbattuto in prima persona nei processi da me istruiti».
A che cosa si riferisce?
«Principalmente alle dichiarazioni di Carlos, detto lo Sciacallo e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Non solo, però, io credo che il primo a raccontare le cose per come andarono fu il presidente Francesco Cossiga, quando parlò di esplosione prematura».
Non si trattò di una strage voluta?
«Io credo non sia stato un atto doloso per colpire deliberatamente Bologna. La mia ipotesi è che l’esplosivo si trovasse lì perchè doveva essere trasportato dai membri del Fronte Popolare fino al carcere speciale di Trani, in cui era detenuto il militante filopalestinese Abu Anzeh Saleh».
A che cosa serviva quell’esplosivo?
«Il quantitativo fa pensare alla necessità di abbattere mura robuste, come quelle del carcere di Trani. Io credo servisse a far evadere Saleh e che sia esploso per errore a Bologna».
Era così facile per forze straniere trasportare armi ed esplosivi in territorio italiano?
«In quel periodo vigeva ancora il cosiddetto “lodo Moro”, che concedeva alle organizzazioni palestinesi il libero passaggio sul suolo italiano con armi, al fine di stoccarle e usarle successivamente, a patto che non agissero in territorio italiano. Di questo patto esistono le prove, come i depositi di armi in Sardegna e in Trentino».
Possiamo parlare di una sorta di disegno internazionale?
«In quegli anni gli attori in gioco erano molti e molto complessi. Da un lato i filopalestinesi, dall’altro gli americani e la Nato. Noi ci trovavamo nel mezzo e Aldo Moro, da politico raffinato quale è stato fino alla sua morte (nel 1978) sapeva che le regole della partita andavano capite e interpretate».
Lei ha indagato anche sulla strage di Ustica, che avvenne il 27 giugno, un mese prima della strage alla stazione, e in cui persero la vita gli 81 passeggeri del volo Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo. In questo caso una verità processuale chiara manca e le ipotesi rimangono molte. Lei vede un legame con la strage di Bologna?
«Io credo esista un legame generale tra i due eventi, come in tutti i fatti di quegli anni. Anche in quella situazione si riverbera il “lodo Moro”, a cui ancora si ispirava la nostra politica estera. In volo quella notte c’erano velivoli stranieri non Nato, che sorvolavano i nostri cieli con il nostro benestare, sfruttando i buchi sul controllo aereo del patto Atlantico».
Quindi lei scarta decisamente la teoria della bomba a bordo dell’aereo?
«L’ipotesi della bomba non regge. Non posso dire cosa sia successo quella notte, è possibile che si sia trattato di una cosiddetta near-collision tra il volo di linea e un altro aereo militare. Anche i radar indicano questa strada, così come il ritrovamento sui monti calabresi di un aereo da guerra libico».
Tornando ai fatti di Bologna, il suo libro ha scatenato molte polemiche e il presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi l’ha messa in guardia dal commettere il reato di depistaggio.
«Non voglio alimentare polemiche ma trovo strane queste sue affermazioni. Lui si è battuto una vita per capire cosa sia successo a Bologna, ma io ho fatto lo stesso, con intento cronachistico. Entrambi abbiamo lo stesso obiettivo, trovare la verità».
Stragi, i palestinesi dietro Ustica e Bologna? Il centrodestra: fuori le carte, scrive giovedì 5 maggio 2016 “Il Secolo D’Italia”. Reazioni, polemiche ma anche approvazione dopo che in una interpellanza presentata in vista della celebrazione solenne il 9 maggio a Montecitorio della Giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo, i senatori Giovanardi, Quagliariello, Compagna, Augello, Di Biagio e Gasparri, hanno chiesto al Presidente del Consiglio di rendere pubbliche le carte relative alle stragi di Ustica e della stazione di Bologna. Gli interpellanti – si legge in una nota – citano gli autorevoli interventi del 2014 e 2015, in occasione della giornata della memoria e dell’anniversario di Ustica, dei Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato nei quali si chiede di arrivare alla verità «pretendendo chiarezza oltre ogni convenienza» e l’intervista del 3 maggio ultimo scorso del Ministro degli esteri Gentiloni sul caso Regeni, dove afferma testualmente: «La nostra ricerca della verità è al primo posto, e non può essere cancellata da interessi e preoccupazioni geopolitiche». Gli interpellanti ricordano poi di aver potuto consultare il carteggio dell’epoca tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, relativo ai drammatici avvenimenti del 1979 e 1980, quando si sviluppò un drammatico confronto fra l’Italia da una parte e dall’altra le frange più estreme del Movimento per la liberazione della Palestina con dietro la Libia di Gheddafi ed ambienti dell’autonomia, materiale non più coperto dal segreto di Stato, ma che, essendo stato classificato come segretissimo, rende penalmente perseguibile anche dopo 36 anni la sua divulgazione. La figlia di una vittima chiede chiarezza sulle stragi: «Sconcertata, come figlia di una vittima dell’esplosione del DC9 Itavia, e come Presidente onorario dell’Associazione per la Verità sul disastro aereo di Ustica, nell’apprendere che dopo 36 anni da quella tragedia non sono ancora divulgabili documenti che potrebbero contribuire in maniera decisiva a far piena luce su quella strage», scrive Giuliana Cavazza, presidente onorario dell’associazione citata. «Lunedì sarà celebrata a Montecitorio la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi: aggiungo la mia modesta voce a quella dei vertici istituzionali che hanno più volte sottolineato la necessità di cercare la verità al di là di ogni convenienza o calcolo politico. Mi auguro pertanto che per quella data il Presidente del Consiglio abbia già assunto la decisione di rendere noto il contenuto dei documenti che solo i membri della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro hanno già potuto consultare». Di diverso avviso Bolognesi: «Ho letto le carte contenute nei faldoni messi a disposizione della Commissione Moro e posso affermare che su Ustica e Bologna non ci sono né segreti, né rivelazioni, né novità. I decenni passano ma i depistaggi sembrano resistere», ha detto infatti Paolo Bolognesi, deputato Pd, presidente dell’Associazione 2 agosto 1980, commentando le recenti notizie di possibili nuovi elementi sulle stragi di Ustica e Bologna contenuti nei documenti consultati dai componenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro di cui Bolognesi fa parte. C’è poi la tesi di Zamberletti: «Torniamo indietro al 2 agosto 1980, data della strage di Bologna. Era il giorno in cui io, da sottosegretario, avrei firmato un accordo italo-maltese. L’accordo, che fu poi firmato regolarmente, prevedeva da parte italiana la garanzia militare sulla sovranità aerea e marittima di Malta. La notizia della bomba alla stazione di Bologna, che ci arrivò quando eravamo a La Valletta, mi diede subito la sensazione della vendetta contro l’Italia». È questa la verità sulle stragi di Bologna e Ustica secondo Giuseppe Zamberletti, all’epoca sottosegretario agli Esteri nel governo Cossiga, in un’intervista a La Stampa. «I libici – dice – esercitavano fino a quel momento un protettorato di fatto su Malta». Zamberletti afferma di essere stato avvertito anche dall’allora direttore del Sismi, il generale Santovito, che gli chiese di soprassedere, poiché Gheddafi considerava Malta “una cosa sua”, «il governo Cossiga però decise di andare avanti. E se oggi Malta è nella Unione europea e non in Africa, tutto cominciò quel giorno. Questi documenti che sono stati desecretati sono un punto di inizio e non di arrivo. È proprio il caso di andare avanti», dice in riferimenti all’interrogazione con cui alcuni parlamentari chiedono di rendere pubblici tutti i documenti: «Nel febbraio 1978 c’era dunque questo accordo tra italiani e palestinesi, ma che ci fossero rapporti tra Gheddafi e certe schegge palestinesi è una grande novità, di cui all’epoca non avevamo assolutamente contezza».
Strage di Bologna, i giudici escludono Carlos dai testi: la “pista palestinese” resta fuori dal processo a Cavallini. Secondo la Corte d'Assise, l’indagine bis archiviata nel 2015 è stata esaustiva e non ha trascurato nulla. No anche alla deposizione dell’ex senatore Carlo Giovanardi. Ammessi invece Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, le tre persone condannate in via definitiva che tutte le parti hanno chiesto di ascoltare, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 4 aprile 2018. Niente “pista palestinese” nell’ultimo processo sulla strage di Bologna. Lo hanno deciso i giudici della corte d’Assise del capoluogo emiliano, escludendo i testimoni indicati dalla difesa di Gilberto Cavallini, l’ex Nar accusato a 38 anni di distanza di concorso nella strage del 2 agosto 1980. Per sostenere l’ipotesi alternativa della verità giudiziaria, i legali dell’ex estremista nero volevano ascoltare alcuni testimoni: tra tutti anche Ilich Ramirez Sanchez alias ‘Carlos‘, il terrorista detenuto in Francia. Secondo la Corte, l’indagine bis archiviata nel 2015 è stata esaustiva e non ha trascurato nulla. No anche alla deposizione dell’ex senatore Carlo Giovanardi. Ammessi invece Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, le tre persone condannate in via definitiva che tutte le parti hanno chiesto di ascoltare. L’ipotesi dell’accusa – il pool di pm è coordinato dal procuratore capo Giuseppe Amato – è che Cavallini abbia partecipato alla preparazione della strage, fornendo ai condannati supporto e covi in Veneto. L’ex Nar, oggi sessantacinquenne, sconta il massimo della pena per alcuni omicidi politici, tra cui quello del giudice Mario Amato, poche settimane prima della strage di Bologna. Fu l’ultimo della banda di terroristi a essere catturato, a Milano, nel settembre 1983 e fu condannato per banda armata nello stesso processo che portò all’ergastolo Mambro e Fioravanti, mentre Ciavardini, minorenne nel 1980, ebbe una condanna a 30 anni. La rilettura delle migliaia di pagine di atti processuali definisce secondo l’accusa un ruolo più preciso di Cavallini nella preparazione della bomba nella sala d’aspetto di seconda classe che devastò un’ala dello scalo bolognese. Al processo deporrà anche a Carlo Maria Maggi, ex leader di Ordine Nuovo, mentre non è stat ammessa la deposizione di Roberto Fiore, il leader di Forza Nuova indicato dalle parti civili. Non è stata ammessa neanche la testimonianza dei feriti o dei parenti delle vittime, perché, in sostanza, l’oggetto delle loro testimonianze è agli atti. Intanto prosegue il percorso dell’inchiesta della Procura generale sui mandanti dopo l’avocazione del fascicolo con l’avvio di una rogatoria in Svizzera. per verificare gli eventuali movimenti per diversi milioni di dollari che, prima dell’eccidio, sarebbero partiti da un conto bancario elvetico aperto riconducibile al maestro venerabile della Loggia P2 Licio Gelli.
LA VERITÀ SULLA BOMBA. Strage di Bologna, le carte segrete sui palestinesi. I telex dei nostri 007 a Beirut rimasti nascosti per quasi 30 anni. Parlavano di ritorsione palestinese per la rottura del "Lodo Moro", scrive Gian Marco Chiocci il 28 Luglio 2017 su "Il Tempo". È giusto continuare a nascondere ai cittadini quanto accadde nel nostro paese nell’estate del 1980? A distanza di tanti anni, oggi che il regime di Gheddafi si è dissolto nel nulla e molti dei protagonisti politici italiani dell’epoca sono passati ad altra vita, sussistono esigenze di segretezza sul legame che legherebbe il terrorismo palestinese alla strage alla stazione di Bologna? Stando ai documenti del centro-Sismi di Beirut relativi al biennio ‘79-80 custoditi incredibilmente ancora sottochiave al Copasir verrebbe da dire di sì visto che la verità documentale stravolgerebbe completamente - e capovolgerebbe - la verità giudiziaria passata in giudicato. Verità giudiziaria, per quanto riguarda la pista palestinese, archiviata a Bologna dopo l’apertura di un’inchiesta a seguito di notizie rimaste coperte per più di vent’anni. Ma a 37 anni dal mistero dell’esplosione di Bologna escono dunque altre prove, clamorose, sulla «pista palestinese» opportunamente occultata dal nostro Stato e dai nostri servizi segreti per una indicibile ragion di Stato. Pista che si rifà alla ritorsione, più volte minacciata dai terroristi arabi, per la rottura del «Lodo Moro» (l’accordo fra i fedayn e l’Italia a non compiere attentati nel nostro Paese in cambio del transito indisturbato delle armi dei terroristi). Roba da far tremare i polsi. Seguiteci con attenzione e annotate i continui riferimenti alla città di Bologna. Tutto ha inizio nel novembre 1979 quando i carabinieri, a Ortona, in Abruzzo, sequestrano alcuni missili terra-aria «Strela» di fabbricazione sovietica. I militari arrestano i tre esponenti dell’autonomia operaia romana che quei razzi custodiscono all’interno dell’auto. Seguendo la traccia dei missili i magistrati abruzzesi arrestano a Bologna Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia dell’organizzazione terroristica Fplp (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina). Questo Saleh viene «individuato» e descritto già nella commissione Mitrokhin che indagava sulle spie del Kgb in Italia. Saleh risulta essere il dirigente della rete logistica palestinese in Italia. In alcune interviste Saleh ha confermato il suo ruolo rivoluzionario negando qualsiasi ruolo dei palestinesi con la strage di Bologna (lo stesso ha fatto, lo scorso 26 giugno, in commissione Moro Nassam Abu Sharif, già braccio destro di Arafat, ricordando che Saleh fu la persona contattata dai Servizi italiani il giorno dopo il sequestro Moro per chiedere che l’Olp mediasse con le Brigate Rosse per ottenere la liberazione del leader democristiano). Insomma, un personaggio cruciale, nevralgico, questo Saleh. Sconosciuti sono i risvolti internazionali della vicenda raccontata nei documenti ancora top secret in parlamento che Il Tempo è oggi in grado di rivelare. Il palestinese Saleh era persona protetta dal Sismi in ottemperanza all’accordo segreto di cui sopra. Con le manette dei carabinieri all’arabo residente a Bologna, l’accordo segreto fra Italia e Palestinesi, il cosiddetto «lodo Moro» era da considerarsi violato. A parte il governo in carica e l’intelligence a Beirut nessuno poteva immaginare che quell’arresto a Ortona rappresentava l’inizio della fine. Dietro il transito di quei missili c’era Gheddafi, il partner intoccabile della disastrata economia italiana che proprio in quel periodo aveva stretto una pericolosa alleanza con l’Urss. In ossequio alla ragion di Stato e all’accordo, il ruolo della Libia nella vicenda fu tenuto accuratamente nascosto, così come non venne mai identificato il giovane extraparlamentare di Bologna che aveva accompagnato il palestinese Saleh a Ortona nelle ore successive al sequestro delle armi. Perché quel ragazzo bolognese scomparve nel nulla? E perché i fatti occultati riguardavano e riguarderanno anche in seguito sempre Bologna? Il Sismi diretto dal generale Santovito sapeva bene che, dopo l’arresto di Saleh, i vertici dell’Fplp chiesero a un loro militante di restare in Emilia per mantenere i contatti con un terrorista del famigerato gruppo Carlos, dal nome del super terrorista venezuelano che intorno a se aveva raggruppato la crema criminale del terrorismo arabo marxista-leninista. Chi era il basista in Emilia di Carlos “lo Sciacallo” e perché non è stato mai localizzato il suo covo? I vertici palestinesi – stando ai telex top secret del novembre 1979 - temevano che, a distanza di un anno dall’omicidio Moro, potesse emergere la prova delle collusioni dell’ala oltranzista dell’Olp con il terrorismo italiano. La dirigenza dell’Fplp era spaccata. La parte vicina ai paesi arabi filosovietici (Siria e Libia), indispettita dal voltafaccia italiano, respinse l’invito alla prudenza dell’ala «moderata» e più violenta e reclamò un’azione punitiva. Poco prima del Natale 1979, esattamente il 18 dicembre, l’Fplp minacciò una rappresaglia contro il nostro paese. Le nostre «antenne» del Sismi a Beirut, legatissime al Fplp come peraltro confermato lo scorso 2 luglio alla Stampa dall’allora responsabile dell’informazione Abu Sharif («io personalmente siglai l’accordo con l’Italia attraverso il colonnello del Sismi Giovannone a Beirut») lanciarono drammatici Sos. Nelle carte si fa cenno a un interlocutore del Fplp (...) che minacciava durissime rappresaglie qualora finisse per essere formalizzato il rifiuto dell’Italia all’impegno preso con il Lodo. Saleh in cella è il prezzo dello strappo letale, Roma è disposta a pagarlo? Stando sempre alle corte riservate lo 007 Giovannone, o chi per lui, da Beirut insiste a non giocare col fuoco. Da gennaio a marzo le minacce salgono di livello. Arriviamo al 14 aprile 1980. Habbash, leader del Fplp, spiffera agli agenti segreti italiani che l’ala moderata del Fronte fa sempre più fatica a frenare lo spirito di vendetta contro Roma che alligna nell’anima più irriducibile del suo gruppo. Anche l’idea di rivolgersi ad Arafat cade nel vuoto perché non sarebbe in grado – così riportano le note coperte dal sigillo del segreto– di prevenire un attentato affidato a «elementi estranei al Fplp», comunque coperti da una «etichetta sconosciuta». Ma chi sono questi «estranei»? Quale sarebbe questa sigla non conosciuta? I servizi italiani lo fanno capire di lì a poco allorché annotano la presenza del ricercatissimo «Carlos lo Sciacallo» proprio a Beirut accostandola alla possibilità che proprio a Lui e al suo gruppo internazionale venga affidato l’attentato in Italia. Dunque i documenti tuttora segreti riscontrerebbero le dichiarazioni rese anni e anni fa al giudice Mastelloni da tale Silvio Di Napoli, all’epoca dirigente del Sismi preposto alla ricezione die messaggi cifrati provenienti dal centro Sismi di Beirut. Quando il capo degli 007 a Beirut, Giovannone, informa il direttore Santovito che il Fplp, preso atto della condanna di Saleh, ha subito contattato Carlos, in Italia scatta l’allarme rosso. I servizi tricolori di Beirut ribadiscono ancora come la sanguinaria ritorsione può essere compiuta da «elementi non palestinesi» o «probabilmente europei» per non creare problemi al lavorio politico-diplomatico per l’imminente riconoscimento della casa madre della causa palestinese: l’Olp di Araf. Sono giorni gonfi di tensione. A metà maggio scade l’ultimatum del Fronte. Il Sismi scrive al comando di Forte Braschi che la dirigenza del Fplp è pronta, dopo 7 anni di non belligeranza, a riprendere le ostilità contro il Paese non più amico, contro i suoi cittadini, contro gli interessi italiani nel mondo «con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti». La fonte del colonnello Giovannone confessa che è la Libia, ormai sponsor principale del Fplp, a premere. L’Italia, col sottosegretario Mazzola, è in bambola. Prende tempo con vane e finte promesse su Saleh. In un documento dove si ribadisce il ruolo istigatore di siriani e libici, la ritorsione del Fplp viene data per certa ed imminente. E’ l’inizio della fine. Il Sismi in Libano scrive che non si può più fare affidamento sulla sospensione delle azioni terroristiche in Italia decisa nel ‘73. Secondo i documenti ancora coperti dal segreto, insomma, la nostra intelligence fa sapere della decisione del Fplp di vendicarsi a seguito del mancato accoglimento del sollecito per lo spostamento del processo di Saleh. Mancano due mesi alla strage alla stazione di Bologna. Luglio passa veloce, i contatti dei nostri servizi col Fplp si fanno via via più radi. Non c’è più feeling.Ogni canale viene interrotto. E’ il silenzio. Spettrale. Inquietante. Prolungato. Sino alla mattina del 2 agosto quando una bomba devasta la sala d’aspetto della stazione di Bologna: 80 morti, 200 feriti. La più grave strage dal dopoguerra. E’ stato Carlos? Sono stati i palestinesi? Tantissimi indizi portano a pensarlo ma nessuno di questi vedrà mai la luce per oltre trent’anni, i magistrati mai verranno messi a conoscenza di questi clamorosi carteggi all’indomani dello scoppio nelal sala d’aspetto di Bologna. Fatto sta, per tornare a quel 1980, che l’estate successiva alla strage Saleh tornerà libero su decisione della Cassazione dopo le ennesime pressioni del Sismi sui magistrati abruzzesi. E non sembra poi un caso se fu proprio il capo dei servizi segreti dell’Olp, a cui gli oltranzisti del Fplp erano affiliati, a organizzare con l’avallo del Sismi uno scientifico depistaggio sulla strage di Bologna, e non è ovviamente un caso se la base del depistaggio fu proprio Beirut. Ma chi e come si prestò a sviare le indagini? La memoria giudiziaria ci riporta a Rita Porena, giornalista free lance, in seguito identificata come anica personale del capocentro Sismi a Beirut, collaboratrice remunerata, che riuscì a intervistare proprio a Beiurut un leader dell’Olp il quale, poco dopo la strage di Bologna, disse che noi loro campi di addestramento (frequentati assiduamente da brigatisti rossi) erano stati individuati ed espulsi dei neofascisti che progettavano e organizzavano un gravissimo attentato in Italia. Fu quella di Beirut la prima «rivelazione» (falsa) sulla pista neofascista, pista orchestrata da quello Stefano Giovannone da tutti considerato, anche con una certa ammirazione, il migliore e più fedele custode del Lodo Moro anche dopo la morte del politico che diede il nome al lodo segreto. Mettetela come vi pare ma l’escalation delle minacce e degli ultimatum sovrapposti alla coincidenza temporale della strage di Bologna non danno scampo a una ipotesi alternativa, che invece – all’epoca - diventa l’unica da seguire: perché la strage - si è detto per anni - è per sua natura fascista. «Fascista» senza alcuna prova, indizio, risconto. Dunque, senza alcun plausibile motivo (o forse i motivi erano ben chiari a chi non voleva rendere noto il risultato prodotto da un accordo che ci avrebbe delegittimato per sempre come Paese sponsor dei terroristi nemici di Israele che insanguinavano l’Europa) le indagini vengono indirizzate sugli ambienti neofascisti. Nessuna spia, a poche ore dalla bomba e nemmeno nelle settimane e nei mesi (e negli anni) a venire, si prenderà la briga di avvisare mai i magistrati di Bologna delle minacce palestinesi, dell’ingiustificata presenza a Bologna del gruppio Carlos, del ruolo delicatissimo di Saleh. Sulla scia dell’Olp anche il Sismi si attiverà per depistare l’inchiesta. Lo farà in mille modi, usando personaggi e storie diverse. Ma i documenti tuttora inaccessibili del Sismi, di cui Il Tempo ha scoperto l’esistenza, rivelano lo scenario di crisi conosciuto dalle nostre autorità e taciuto ai magistrati, e oggi consentono una lettura del depistaggio molto più grave e realistica anche perché solo dopo 20 anni, e per un caso fortuito (attraverso la ricerca dei consulenti della Mitrokhin) si è scoperta la presenza (sempre nascosta) a Bologna, il giorno della strage, di un certo Thomas Kram, che i servizi della Stasi, gli 007 della Germania Est, indicavano come membro del già citato gruppo terroristico di Carlo lo Sciacallo. Per la cronaca Kram era entrato nell’inchiesta sulla «pista palestinese», poi archiviata a Bologna nel 2015. Oggi gli unici che si ostinano a negare l’importanza di quelle carte sembrerebbero quelli strenuamente contrari alla loro divulgazione. Curioso paradosso. Ma ai giudici bolognesi non può essere opposto alcun veto perché le indagini per il reato di strage non lo consentono. Basterebbe una semplice richiesta al Copasir per illuminare a giorno il buio della strage del 2 agosto. Il buon senso porta ad augurarsi che sia la procura di Bologna a chiedere di sua iniziativa il carteggio esplosivo. La politica, per una volta, raddrizzi la schiena e non speculi per interesse. Lo deve agli 80 morti e ai familiari delle vittime che vogliono davvero la verità. Molti, già da 37 anni, con il loro silenzio si sono fatti compici degli assassini. Molti altri si sono messi a posto la coscienza sostenendo di non saperne abbastanza. Ora Il Tempo gli sta fornendo i necessari riscontri necessari. D’ora in poi, chi non agisce, è complice.
Libri. “I segreti di Bologna”: perché sulla strage la verità è ancora lontana, scrive il 2 agosto 2018 Francesco Filipazzi su Barbadillo. In occasione del 2 agosto, ogni anno vengono riaperte vecchie ferite e proposte nuove letture di quella che è stata la strage più grave del dopoguerra italiano, la Strage di Bologna. La verità giudiziaria, fra depistaggi, silenzi e manomissioni, è notevolmente carente e nel corso degli anni la sentenza finale, che condanna i terroristi neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, è stata messa più volte in discussione, sotto molti aspetti. Un paio d’anni fa fece invece scalpore un libro, scritto dal magistrato in pensione, Rosario Priore, insieme a Valerio Cutonilli, dal titolo “I segreti di Bologna”. Il filo conduttore del volume, ampiamente contestato dall’associazione dei Famigliari delle Vittime e da molta parte della stampa, tanto che qualcuno arrivò ad ipotizzare una denuncia per il reato di depistaggio, è legato all’ipotesi della “pista palestinese”. Questo filone di indagine non è stato molto battuto dalla magistratura bolognese, ma al contrario rinverdito negli anni da inchieste parlamentari, da Francesco Cossiga, ai tempi presidente del Consiglio e dagli interrogatori del terrorista Carlos, legato al gruppo palestinese Fplp e ai servizi segreti della Germania est. Il volume in sé è molto interessante e ha il pregio di non proporre una soluzione incontestabile al mistero di Bologna. Anzi, riguardo all’esplosione del 2 agosto, vengono valutate tutte le ipotesi ma non viene mai sentenziato che la strage è necessariamente di matrice palestinese. Semplicemente viene presentata una serie di fatti, verificati, che hanno preceduto l’attentato. Ciò che del libro appare estremamente interessante, a parere nostro, è in realtà tutta la ricostruzione dei rapporti intercorsi negli anni ’70 fra servizi italiani, gruppi palestinesi, mondo arabo, Libia, Brigate Rosse e altri gruppi della sinistra extraparlamentare. In sostanza gli autori spiegano in modo piuttosto dettagliato, avvalendosi di informative dei servizi e documenti giudiziari, la ragnatela di rapporti e contatti che hanno animato alcuni capitoli fra i più importanti della Guerra Fredda. Una guerra in gran parte segreta, di cui ancora oggi non sappiamo tutto. La narrazione dei fatti parte dal caso dei “missili di Ortona”. La notte fra il 7 e l’8 novembre 1979 dei militanti di Autonomia Operaia vengono fermati dalle Forze dell’Ordine italiane mentre trasportano dei missili Strela, di fabbricazione sovietica. La situazione è poco chiara ed iniziano le indagini, che portano all’arresto di un militante palestinese, a Bologna. Quella che sembrerebbe una normale azione di polizia diventa però una crisi internazionale. I missili infatti sono del Fplp, un gruppo piuttosto importante nel terrorismo internazionale legato alla causa palestinese, che infatti nei mesi successivi ne rivendica la proprietà e ne chiede la restituzione, in base agli accordi presi fra l’organizzazione e l’Italia. Ma quali accordi? Qui esplode il bubbone. L’atlantista Italia, per evitare attentati e ritorsioni, avrebbe infatti intrattenuto rapporti e preso accordi con i terroristi palestinesi (all’epoca peraltro non integralisti islamici ma di ispirazione piuttosto socialista e marxista) per far sì che questi potessero transitare in Italia senza problemi, trasportando anche armi e munizioni. L’accordo è noto con il nome di Lodo Moro. Nel libro vengono quindi ricostruiti tutti i retroscena, presentati attori e circostanze dello stesso. L’affaire Ortona dunque sarebbe stata una rottura dell’accordo stesso da parte dell’Italia, per volere di Cossiga. Il Fplp iniziò quindi a minacciare ritorsioni. In questo clima di tensione, con i servizi in allerta per il pericolo di un attentato dinamitardo, arriva il 2 agosto con relativa strage. Certo, la strage per ipotesi potrebbe essere attribuita senza troppi problemi al Fplp, o al massimo al gruppo del terrorista Carlos, noto bombarolo legato sia al Fplp che ai servizi della Germania Est. Il libro però non manca di mettere in dubbio questa ricostruzione sotto il profilo della volontarietà dell’azione. L’esplosione sarebbe da attribuire ad un passaggio di armi destinate ai gruppi terroristici che ruotano attorno all’Olp, ma un errore umano avrebbe provocato la detonazione. Questa pare di capire, è la versione più accreditata secondo gli autori, i quali però, come già detto, non danno una risposta definitiva. In generale il volume è un tentativo di spiegare le dinamiche, talvolta perverse, che hanno mosso la politica internazionale dell’Italia negli anni ’70. Una politica fatta talvolta di doppiezze ed equilibrismi, che se studiata in modo corretto aiuta a capire anche gli sviluppi successivi della geopolitica mediterranea. Riguardo la strage, certamente vengono aggiunti elementi interessanti al quadro globale nel quale avvenne, ma la ricerca della verità completa è ancora piuttosto lunga ed ardua. Va inoltre sottolineato che la “pista palestinese” proprio di recente è stata esclusa dal nuovo capitolo processuale aperto di recente, riguardante il ruolo di Gilberto Cavallini.
La strage di Bologna e la pista palestinese. La strage di Bologna e la pista palestinese. Che cosa è successo a Bologna il 2 agosto del 1940? Matteo Carnieletto, Domenica 02/08/2020 su Il Giornale. "Come mai, secondo lei, l'Isis non ha mai colpito il nostro Paese?", mi chiesero all'esame per diventare giornalista professionista. "Beh", balbettai teso, "i nostri servizi segreti sono molto efficienti e poi, diciamolo, forse il 'lodo Moro' non è stato ancora dimenticato...". "Quindi secondo lei il Lodo Moro è esistito?". "Sì, anche se non si può dire", risposi sperando di non essermi giocato il tanto agognato tesserino. La commissione mi sorrise, la tensione si stemperò e ci confrontammo a lungo. Imparai molte cose e tutto filò liscio, grazie a Dio. Sono passati diversi anni da quel giorno, ma il "Lodo Moro" ha continuato a interessarmi. Soprattutto negli anni in cui la minaccia di Daesh era ancora forte e i miliziani vestiti di nero continuavano a compiere attentati in Europa. Mi chiedevo perché il nostro Paese non venisse mai colpito. Perché un lupo solitario dello Stato islamico potesse colpire la Francia, la Germania, la Spagna ma non l'Italia. In qualche modo - mi chiedo - il "Lodo Moro" funziona ancora? Di sicuro ci ha fatto scudo dal 1973 al 1979, quando qualcosa si ruppe, come racconta Beppe Boni, condirettore de Il Resto del Carlino, ne La strage del 2 agosto. La bomba alla stazione, i processi, i misteri, le testimonianze (Minerva). Nel novembre del 1979 vengono infatti arrestati ad Ortona tre esponenti del collettivo di via dei Volsci. Stavano trasportando due missili terra-aria Strela 2, che appartenevano all'Fplp, l'organizzazione palestinese di matrice marxista aderente all'Olp che agiva insieme al gruppo di Carlos lo Sciacallo. Insieme a loro viene arresato anche Abu Saleh, il rappresentante del Fplp in Italia, che tiene sul proprio comodino il numero di telefono del colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone. È lui ad agire per conto di Moro con i palestinesi. Sono suoi, in quegli anni, gli occhi che controllano il Medio Oriente per conto dell'Italia. A luglio, quando inizia il processo a Saleh, "il presidente del tribunale riceve una missiva da parte dell'Olp in cui si minacciava l'Italia di una ritorsione per aver rotto l'accordo se non avessero immediatamente posto in libertà Abu Saleh, i loro compagni del collettivo di via dei Volsci e nob avessero restituito le armi di loro proprietà". I giudici ovviamente non possono sapere nulla del "Lodo Moro". Non possono neanche lontamente immaginare che il nostro Paese abbia stretto un patto con dei terroristi palestinesi. E così condannano tutti gli imputati. Da Beirut, il colonnello Giovannone raccoglie gli umore (e le minacce) dei palestinesi. "La ritorsione è nell'aria, il clima si fa teso. Sullo sfondo della trama si aggiunge anche una missiva del prefetto Gaspare De Francisci, capo dell'Ucigos, del 10 luglio 1980 indirizzata al direttore del Sisde, Giulio Grassini, in cui lancia un segnale di grave preoccupazione per il rischio di vendette se il processo di appello dei missili di Ortona, iniziato, il 2 luglio 1980, non si fosse concluso positivamente". Ma non c'è nulla da fare. Il 16 maggio scade l'ultimatum dell'Fplp. Poco più di un mese dopo, il 27 giugno del 1980, avviene uno dei più grandi misteri d'Italia: la strage di Ustica. Nessuno sa realmente cosa sia successo quella sera d'estate di quarant'anni fa. Le piste, ancora oggi, sono diverse: c'è chi parla di una guerra nei cieli tra un caccia americano e uno libico; chi invece di un missile francese lanciato per colpire un aereo di Muammar Gheddafi e chi, invece, ritiene che quel massacro sia dovuto a una bomba palestinese. Cosa accadde realmente nessuno lo sa. Ma nei cablogrammi inviati da Beirut si legge:
"Fonte fiduciaria indica due operazioni da condurre in alternativa contro obiettivi italiani:
1) Dirottamento di un Dc Alitalia;
2) L'occupazione di un'ambasciata".
In un altro cablogramma, proprio del 27 giugno in cui si consumò la strage di Ustica, si legge: "H 10 Habet informazioni tarda sera Fplp avrebbe deciso di riprendere totale libertà di azione senza dare corso ulteriori contatti a seguito mancato accoglimento sollecito nuovo spostamento processo. Se il processo dovesse avere luogo e concludersi in modo sfavorevole mi attendo reazioni particolarmente gravi in quanto Fplp ritiene essere stato ingannato e non garantisco sicurezza personale ambasciata Beirut". Nel suo libro, Boni si sofferma anche sullo "strano via vai", legato ad ambienti palestinesi e a Carlos lo sciacallo, nel giorno della strage di Bologna. Nella città felsinea, infatti, è presente Thomas Kram, un terrorista legato a Carlos e, soprattutto, esperto di esplosivi, "bombarolo provetto pronto a colpire ovunque, dal giorno della strage di Bologna entra in clandestinità e, dal 1896, diviene un latitante perché la Germania spiccherà nei suoi confronti un mandato di cattura". Anche Carlos ammette la presenza di un suo uomo a Bologna, ma ritiene che la bomba "fu fatta scoppiare dalla Cia e dagli israeliani per incolpare loro". Quasi un'ammissione di colpa. Tra l'1 e il 2 agosto a Bologna c'era anche Christa-Margot Fröhlich, una terrorista tedesca, anch'essa esperta in esplosivi, che verrà arrestata nel 1982 mentre trasportava esplosivi in Bulgaria. Strana coincidenza: alloggiava all'hotel Jolly di Bologna, proprio di fronte alla stazione. Ma non solo. A Bologna quel giorno ci sono anche Francesco Marra, legato alle Brigate rosse, e alcune "turiste" cilene che verranno fermate con passaporti falsi "usati da altri terroristi in analoghi attentati", scrive Boni. Un'altra coincidenza. Una delle 85 vittime dell'attentato alla stazione, inoltre, fu Mauro Di Vittorio. "Il suo corpo", fa notare Boni, "presentava molte bruciature, fatto indicativo che fosse vicinissimo alla bomba". Una tragica sventura? Forse. Ma colpisce un altro fattore di questa storia, come nota Enzo Raisi, autore di Bomba o non bomba: "Un giorno si presentarono una giovane donna e un ragazzo di sembianze mediorientali chiedendo di vedere i corpi delle vittime rimaste senza nome, quando passarono davanti al cadevere di Di Vittorio i due fecero la faccia sorpresa. Il carabiniere di turno (...) cercò di fermarli ma questi fuggirono". Il giorno dopo, si presentarono la sorella e la madre di Di Vittorio, ma non seppero dire chi le aveva avvisate della morte del loro caro. Questi sono fatti. Come è un fatto la continua proclamazione di innocenza di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Perché dei terroristi che hanno le mani sporche di sangue per altri terribili attentati si ostinano a proclamarsi innocenti in merito alla strage di Bologna? Proprio ieri, l'AdnKronos ha pubblicato una loro lettera in cui chiedono a Sergio Mattarella di far luce su questa vicenda: "Se parla così, e se darà seguito alle sue parole, passerà alla storia come il presidente che ha saputo garantire un equo processo anche all’uomo accusato (ingiustamente, molto ingiustamente) di aver sparato al fratello. E alla coppia accusata, in maniera confusa, di aver messo una bomba a Bologna che invece ha messo qualcun altro. Per parte nostra noi oggi possiamo fare poco, se non continuare a offrire la nostra pacata ma ferma dichiarazione d'innocenza come contributo alla verità". A distanza di quarant'anni (e dopo centinaia di depistaggi), si dovrebbe forse riaprire anche la pista palestinese. E ricordarci del "Lodo Moro". "Quindi secondo lei è esistito?". Difficile, il 2 agosto, rispondere di no a questa domanda...
(Adnkronos il 20 ottobre 2019) - Spunta un secondo passaporto falso utilizzato a Bologna nell'immediatezza della strage del 2 agosto 1980. E, anche stavolta, come per la sedicente cilena Juanita Jaramillo di cui ha parlato per la prima volta Adnkronos negli scorsi giorni, il documento di identità contraffatto è stato presentato alla reception dell'hotel Milano Excelsior, che si trovava proprio di fronte alla stazione, da un'altra misteriosa donna nascosta dietro l'identità fasulla della 44enne basca Maria Quintana, nata a Bilbao il 5 marzo 1936 e residente in Venezuela. Anche la sedicente Maria Quintana avrebbe soggiornato, fra il 31 luglio 1980 e il 1 agosto, il giorno precedente la strage, nell'hotel le cui finestre consentivano di vedere proprio la sala d'aspetto di seconda classe dove è esplosa la bomba. Anche nel caso del passaporto della basca Maria Quintana, nata in Venezuela, come per la cilena Juanita Jaramillo, il capo della polizia scrive il 20 febbraio 1981 al questore di Bologna e al Direttore della Criminalpol per segnalare che il documento è stato alterato ''dagli stessi possessori o da altri''. Va ricordato che passaporti falsi venivano costantemente utilizzati da terroristi palestinesi e dal venezuelano Carlos ''Lo Sciacallo'' per compiere attentati e trasporti di armi ed esplosivi, anche in Italia come abbiamo documentato nei giorni scorsi. Due passaporti cileni falsi che utilizzava Carlos, fra i sei contraffatti che l'intelligence francese identificò, vennero ritrovati, assieme ad armi, munizioni ed esplosivo ad alto potenziale, a Londra, nell'appartamento di un'altra basca, la cameriera Angela Otaola, che venne arrestata dalla polizia perché ritenuta fiancheggiatrice del superterrorista venezuelano fuggito nella capitale britannica dopo aver ucciso a Parigi, in un conflitto a fuoco, due agenti dello Dst francese, il servizio di controspionaggio. Ma quelli della basca Maria Quintana e della cilena Juanita Jaramillo non sono gli unici due passaporti utilizzati all'Hotel Milano Excelsior di Bologna ad attirare l'attenzione degli investigatori fra i 23 ospiti dell'albergo che erano lì nei giorni immediatamente precedenti la strage del 2 agosto 1980. Sempre il ministero dell'Interno - Investigazioni generali Operazioni speciali Ufficio Centrale - segnala con una nota il nominativo di Mara Diukè o Djukiè nata ad Adorsvici, in Iugoslavia, il 17 giugno 1958. La Djukiè esibisce al desk dell'albergo che si affaccia proprio sul piazzale della stazione il passaporto numero 858295 rilasciato nel 1979. Subito dopo la strage di Bologna gli investigatori vanno a ricontrollare tutti i nominativi delle persone che si trovavano negli alberghi cittadini nei giorni dell'attentato. E selezionano, oltre al nome di Juanita Jaramillo e a quello di Maria Quintana, anche il nome di Mara Djukiè chiedendo chiarimenti al Servizio segreto collegato. In questo caso, ''per quanto riguarda Mara Djukiè - ammette il ministero dell'Interno - non si dispone di alcun altro elemento utile per la sua identificazione''. Chi è questa terza misteriosa donna, anch'essa non identificata, come Juanita Jaramillo e Maria Quintana, che resta nell'ombra da 39 anni e che in quei giorni si trova certamente a Bologna? Resta ancora un mistero, come tanti che riguardano la strage del 2 agosto 1980, a cominciare dalle presenze registrate in città in quelle ore drammatiche e concitate, dal terrorista del gruppo Carlos Thomas Kram al brigatista che sequestrò il giudice Sossi Francesco Marra.
Da adnkronos.com il 15 ottobre 2019. La storia di altri due di quei passaporti, rivelata ancora dall’AdnKronos, riguarda due personaggi che, a metà degli anni ’70, si imbarcano su due voli Twa 841 con una bomba al seguito. Il primo arriva a destinazione per l’accidentale malfunzionamento dell’ordigno, il secondo, tredici giorni dopo, esplode sul Mar Ionio con 88 persone a bordo, tra cui tre italiani, (lo steward Gianpaolo Molteni e le hostess Isabella Lucci-Masera e Angela Magnoni). Chi disponeva degli altri tre passaporti? Due sono utilizzati da Ilich Ramirez Sanchez, alias Carlos lo Sciacallo. L’intelligence inglese scopre, a un certo punto, che Carlos sta usando un passaporto cileno falso con il numero di serie 035857 intestato a Hector Hugo Dupont e avverte i colleghi dei Servizi segreti di Francia, Germania, Olanda, Belgio e Italia. Con quello stesso numero di passaporto cileno falso, Carlos viene segnalato a Talcahuano, in Cile, nel 1970, mentre si sta recando ad un incontro a Hualpencillo con alcuni terroristi. Ma non si tratta dell’unico passaporto cileno falso che lo Sciacallo esibisce. Ne utilizza un altro, numero 035848, a nome di Adolpho Bernal sul quale ha appiccicato la sua foto. Ufficialmente è un ingegnere, e il passaporto è stato rilasciato nella cittadina cilena di Quillota. Un nome da non dimenticare, perché comparirà diverse altre volte in questa storia. Il passaporto falso cileno intestato a Adolpho Bernal verrà scoperto in maniera rocambolesca nel 1975 in un appartamento di Londra, dove Carlos, che riesce a sfuggire alla cattura, vive assieme alla basca Angela Otaola e al fidanzato di lei, il britannico Barry Woodhams. Sarà quest’ultimo a scoprire, nascosta in casa, una borsa contenente armi, munizioni ed esplosivo - gelignite - appartenenti al terrorista, così come i documenti falsi, il passaporto cileno e una patente kuwatiana. Siamo nel giugno 1975. Due mesi prima, il 7 aprile 1975, un documento dell’Ispettorato per l’azione contro il terrorismo e gli Affari Riservati dello Stato italiano aveva rivelato che un altro passaporto cileno falsificato era spuntato in Svezia nelle mani del terrorista giordano Michel Archamides Doxi, addestrato in un campo libanese del Fplp, il Fronte Popolare della Liberazione della Palestina. “Un Servizio (segreto, ndr) amico – scrive l’Ispettorato italiano nella nota custodita oggi negli archivi della Commissione parlamentare sulle stragi e il terrorismo - ci ha comunicato che il giordano Michel Archamides Doxi, nato a Gerusalemme il 20.4.1956, dimorante in Svezia, ha recentemente inoltrato alla Autorità di quella nazione una istanza per ottenere la concessione dell’asilo politico. Il medesimo era giunto prima in Danimarca, quindi in Svezia con un passaporto cileno contraffatto n 037972, rilasciato a Quillota il 5.12.1972 a nome di Eduardo Hernandez Torres”. Dunque l’ennesimo passaporto cileno falso. Come quelli esibiti da Carlos. Come quello spuntato a Bologna. Ancora rilasciato a Quillota. “Secondo le sue dichiarazioni - continua la nota dell’Ispettorato - nel gennaio 1973 (Doxi, ndr) sarebbe stato inviato in un campo libanese del Fplp per addestramento e, in seguito, a Bari in compagnia di due giovani donne allo scopo di portare in Italia delle pistole e delle bombe a mano. Le stesse armi rinvenute poi indosso ai due sedicenti iraniani arrestati all’aeroporto di Fiumicino il 4 aprile 1973. Per questo viaggio in Italia - specifica la nota secondo le informazioni avute dal Servizio segreto collegato - avrebbe utilizzato un passaporto contraffatto dell’Honduras, rilasciato al nome di Tomas Gonzalo Perez. Nel maggio 1973, sarebbe stato inviato a Ginevra, dove una donna danese gli avrebbe consegnato una bomba per eseguire un attentato, non portato a termine, all’aeroporto di Lod”, in Israele. “Si suppone - ipotizza l’Ispettorato - che i guerriglieri palestinesi abbiano falsificato un certo numero di passaporti con le stesse caratteristiche al fine di utilizzarli per compiere azioni terroristiche”. Ma la questione non finisce qui perché la nota dell’Ispettorato italiano per l’azione contro il terrorismo e gli Affari Riservati si sofferma su un particolare di non poco conto in relazione al passaporto di Michel Archamides Doxi: “Il passaporto cileno ha il numero quasi identico ed identica località di rilascio di quello in possesso a Josè Mario Garcia Aveveda, responsabile dell’incendio avvenuto a bordo del velivolo Twa volo 841 del 26 agosto 1974”. Quale località di rilascio? Sempre Quillota. A questo punto ad attirare l’attenzione è il viaggio in Italia del giordano Archamides Doxi. Chi sono le donne che lo accompagnano quando sbarca dalla nave Ausonia a Bari? “Una delle donne era una cittadina libanese di nome Maha Abu Halil – scrivevano i Servizi segreti svedesi avvertendo l’Italia - L’altra era una cittadina italiana, della quale (Doxi, ndr) conosceva soltanto il primo nome: Rita. Al termine della missione, Rita restò in Italia, mentre Halil fece ritorno in Libano”. Interrogato dai Servizi segreti svedese, Doxi rivela che “Rita” avrebbe “preso parte ad un lungo corso d’istruzione alla guerriglia, tenuto dal FPLP nel Libano e sarebbe stata utilizzata per il trasporto di armi ai diversi Paesi europei e in diverse occasioni”. Sulla Ausonia attraccata a Bari, quel giorno, rivelano i Servizi Segreti italiani, era imbarcata Rita Porena, la giornalista italiana amica del capocentro del Sismi a Beirut, Stefano Giovannone. Proprio la donna che in una intervista ad Abu Ayad, uno dei capi dell’organizzazione palestinese Al Fatah, accusava gli ambienti di destra della strage alla stazione di Bologna. “Secondo il Doxi - scrive nella sua relazione l’Ispettorato Generale per l’azione contro il terrorismo, datato 27 giugno 1975 - l’introduzione di armi dal Medio Oriente in Occidente viene solitamente affidata a donne. Esse sono ben vestite, alloggiano in ottimi alberghi, sono in possesso di molto denaro e viaggiano con passaporti sudamericani o italiani”. A questo punto la domanda è lecita: chi era dunque quella donna che, nascosta dietro il passaporto cileno falso numero 30435 intestato a Juanita Jaramillo - uno dei tanti passaporti falsi cileni, come si è visto, utilizzati dai terroristi arabi e da quelli del gruppo Carlos – alloggiava il giorno della strage all’Hotel Milano di Bologna proprio di fronte alla stazione?
Strage Bologna, note Sismi: ultimatum palestinesi "pronti a colpire innocenti". Adnkronos 3 agosto 2019 ripreso da Tiscali news. Un vero e proprio ultimatum all'Italia, con scadenza 15 maggio 1980, a poco più di un mese dalla strage di Ustica (27 giugno 1980) e di due dalla bomba alla stazione di Bologna (2 agosto 1980). A lanciarlo, stando ai documenti rintracciati nelle migliaia di carte del processo sulla strage di Piazza della Loggia dallo storico-ricercatore Giacomo Pacini e finiti integralmente sulle pagine social di altri ricercatori ed esperti di anni di piombo, sarebbe stato il Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Il documento in questione è una nota del Sismi del 12 maggio 1980. Un appunto, classificato come "riservatissimo" ma attualmente accessibile a chiunque faccia richiesta alla Casa della memoria di Brescia perché finito inspiegabilmente nel fascicolo del pm di Brescia insieme a una nota precedente, risalente al 24 aprile 1980: Pacini e altri ricercatori lo hanno scovato per caso nel cd contenente gli atti digitalizzati del processo sulla bomba del 28 maggio 1974. La nota degli 007 avrebbe come oggetto "Minacce contro gli interessi italiani" e, come si vede sulle pagine Facebook di chi l'ha pubblicata integralmente, riporta testualmente l'ultimatum del Fronte all'Italia: "In caso di risposta negativa (alle richieste palestinesi, ndr), la maggioranza della dirigenza e della base del Fplp intende riprendere - dopo sette anni - la propria libertà d'azione nei confronti del'Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti". Ma che cosa era successo? Stando sempre ai documenti finiti negli atti del processo di Brescia e pubblicati dai ricercatori, i rapporti tra Italia e Palestina, che dal 1973 sarebbero 'regolati' dal lodo Moro (presunto accordo che avrebbe previsto l''immunità' del nostro paese da attentati in cambio di una libertà di movimento e di transito di armi per l'Fplp, ndr), entrerebbero in crisi con l'arresto, a Bologna, di un esponente di spicco del Fronte, Abu Saleh, immediatamente successivo all'arresto di tre esponenti dell'Autonomia sorpresi ad Ortona con dei missili. Siamo a novembre 1979. L'Fplp, a quanto sosterrebbero le due note dei nostri 007 in Libano pubblicati dai ricercatori, attraverso i contatti tra i suoi esponenti e il capocentro del Sismi a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone, chiederebbe all'Italia di aderire a una serie di richieste, tra le quali l'assoluzione di Abu Saleh, o il lodo Moro sarà rotto e il Fronte sarà libero di fare attentati sul nostro territorio "con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti". La scadenza dell'ultimatum - stando sempre ai documenti - sarebbe fissata al 15 maggio e la nota (insieme a quella del 24 aprile) di fatto racconterebbe i contatti tra Sismi e Fplp per tentare di trovare un accordo, svelando le preoccupazioni degli 007 in caso di probabile risposta negativa da parte dell'Italia. Negli appunti ci sarebbe il dettaglio delle condizioni, tutte relative al caso dei missili di Ortona. I palestinesi in particolare chiederebbero di "celebrare il processo di appello per la vicenda dei due SAM-7 in giugno-luglio anziché in settembre-ottobre come previsto", anche se "la dirigenza del Fplp si riserva di riesaminare l’argomento alla luce dei riflessi negativi - nell'attuale momento - determinati dalle asserite rivelazioni del brigatista Peci che, per il loro impatto sull'opinione pubblica, sul Parlamento e sul Governo, potrebbero rendere non conveniente l'anticipazione del processo". La seconda condizione - seguendo la nota dei nostri servizi segreti dell'epoca pubblicata dai ricercatori - riguarderebbe l'esito del processo di appello. L'Fplp chiederebbe di "ottenere la riduzione a circa quattro anni della pena inflitta ai tre autonomi e l'assoluzione 'per insufficienza di prove' di Abu Saleh Anzeh". Una terza riguarderebbe il rinvio a giudizio per "partecipazione a banda armata": l'Fplp chiederebbe all'Italia di "adoprarsi affinché il relativo processo, di competenza della Magistratura di Roma, non abbia luogo". Quindi, la concessione ai condannati del "beneficio, previsto dalla legge, di cui hanno fruito l'ex Ministro Tanassi e gli avvocati Lefebvre". Infine, l'ultima richiesta, sarebbe la distruzione dei missili sequestrati "una volta concluso l'iter giudiziario" e "alla presenza di un rappresentante della difesa" e "il risarcimento del prezzo pagato (60.000 dollari)". Nel primo appunto poi il Sismi riferirebbe che "l'elemento contattato (l'esponente del Fronte, ndr) ha assicurato di aver ottenuto che sino al 15 maggio p.v. non verrà attuata alcuna azione contro gli interessi italiani ma che, improrogabilmente entro quella data, dovrà essere data, tramite il Servizio, una chiara risposta positiva o negativa da parte delle Autorità italiane" e che, "qualora la comunicazione da parte italiana, attesa entro il 15 maggio p.v., fosse negativa o non desse sufficiente affidamento circa l’accoglimento delle richieste avanzate, il Fplp riterrà definitivamente superata la fase del dialogo, passando all'attuazione di quelle iniziative già reiteratamente sollecitate dalla base e da una parte della dirigenza". "Dette iniziative - reciterebbe ancora l'appunto redatto dal Sismi e riportato dai ricercatori - potranno svilupparsi sotto forma di operazioni a carattere intimidatorio o 'di appoggio' alla organizzazione degli autonomi, nei cui confronti il 'Fronte' si sente moralmente impegnato". Ma c'è di più. Nella documentazione acquisita da Pacini e trasformata in un saggio confluito nel libro su Moro e l'Intelligence (edito da Rubettino) ancora più drammatici sarebbero i toni della nota del 12 maggio 1980, tre giorni prima della scadenza dell'ultimatum. Il rapporto del Sismi riferirebbe dell'incontro dell'11 maggio tra il colonnello Giovannone e un esponente del Fplp, che, tra l'altro, confermerebbe "la data del 16 maggio quale termine ultimo per la risposta da parte delle Autorità italiane alle richieste del 'Fronte'", facendo sapere che "in caso di risposta negativa, la maggioranza della dirigenza e della base del Fplp intende riprendere - dopo sette anni - la propria libertà d’azione nei confronti dell’Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti". A tal proposito, l'esponente palestinese, riferirebbe ancora la nota degli 007 scovata dal ricercatore Pacini, ha "lasciato capire che il ricorso all’azione violenta sarebbe la conseguenza di istigazioni della Libia, divenuta il principale 'sponsor' del Fplp, dopo la rottura di quest’ultimo con l’Iraq e per effetto delle incerte relazioni con la Siria". In ogni caso, avrebbe assicurato l'esponente del Fplp secondo quanto si legge nell'appunto, "nessuna operazione avrà luogo prima della fine di maggio e, probabilmente, senza che vengano date specifiche comunicazioni".
Strage Bologna, spuntano 2 note Sismi: "minacce palestinesi" prima della bomba. Adnkronos 3 agosto 2019. All'indomani della ricorrenza per la strage di Bologna spuntano due documenti del Sismi che riaprono quella "pista palestinese" sempre sconfessata dal presidente dell'associazione delle vittime, Paolo Bolognesi, e archiviata di recente dalla procura felsinea. Sono due note con classificazione "riservatissimo" che parlerebbero delle minacce di attentati all'Italia da parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) a ridosso delle stragi di Bologna e Ustica, e che potrebbero fare parte - il condizionale è d'obbligo - di quelle annotazioni del Sismi compulsate da alcuni parlamentari di vari partiti di cui è vietata la divulgazione perché coperte dal segreto. I parlamentari che hanno chiesto alla Camera l'immediata desecretazione di questi atti fanno capire di aver letto cose clamorose sulla bomba di Bologna ma di essere vincolati al segreto perché le massime istituzioni dello Stato, a quasi 40 anni dall'attentato alla stazione, ancora non si decidono ad aprire gli archivi. Uno di questi parlamentari, l'ex deputato Carlo Giovanardi, si è addirittura spinto oltre citando le date degli atti coperti dal segreto. Di fatto questi due documenti sono diventati improvvisamente "pubblici" perché finiti chissà come nei faldoni giudiziari di un'altra inchiesta per strage, quella per l'esplosione di Piazza della Loggia a Brescia avvenuta il 28 maggio 1974. A scoprirli, fra milioni di pagine depositate, lo storico-ricercatore Giacomo Pacini, autore di un saggio ("Il lodo Moro, l'Italia e la politica mediterranea, appunti per una storia") inserito nel libro "Aldo Moro e l'intelligence" (editore Rubbettino) dove per l'appunto affronta il tema del presunto accordo fra palestinesi e Italia per non compiere attentati nel nostro Paese in cambio di una libertà di movimento e di transito delle armi, ribattezzato "Lodo Moro". Ma cosa racconterebbero i documenti inediti del Sismi citati da Pacini nel libro e pubblicati integralmente sulle pagine Facebook di più ricercatori e studiosi degli anni di piombo? Riporterebbero i disperati tentativi del capocentro di Beirut dei nostri servizi segreti, colonnello Stefano Giovannone (nome in codice Maestro), di convincere i referenti italiani a soddisfare le richieste del Fronte popolare per la liberazione della Palestina onde evitare stragi e incursioni terroristiche in Italia. Le richieste/minacce dei palestinesi riferite dai nostri 007 - stando a quanto ritrovato nel fascicolo di Brescia da Pacini - vertevano sull'assoluzione del giordano Abu Saleh, residente a Bologna, capo della cosiddetta Sezione-Italia del Fplp, fiduciario dell'organizzazione palestinese in contatto proprio con il colonnello del Sismi, Giovannone. Il nome di Saleh venne fuori dopo che nel novembre 1979 i carabinieri, a Ortona in Abruzzo, fermarono tre esponenti dell'Autonomia operaia romana con due missili terra aria tipo Strela nascosti in un furgone. Uno di questi autonomi, militante del "collettivo policlinico" risultò infatti collegato a Saleh. Nelle due note del Sismi, l'Fplp chiederebbe energicamente la liberazione di Saleh e la riduzione della condanna inflitta agli autonomi pena ritorsioni. I due documenti degli 007 analizzati da Pacini e pubblicati dai ricercatori sui social (uno risalente al 24 aprile 1980 e l'altro al 12 maggio successivo) arrivano a riportare tra virgolette le minacce di ritorsioni gravissime da parte del Fronte, spiegando che qualora non fosse stata data risposta positiva al loro ultimatum l'Fplp "avrebbe ripreso dopo 7 anni la propria libertà d'azione nei confronti dell'Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti". A questi due documenti ne potrebbero seguire molti altri, se si dà per buona la rivelazione di Giovanardi che ha riferito d'aver visto note successive agli appunti in questione, l'ultima delle quali risalirebbe al 27 giugno 1980, giorno della strage di Ustica. La rivelazione da parte dei ricercatori di questi documenti segretissimi sì inserisce nelle polemiche scaturite dalla richiesta di una commissione d'inchiesta sui fatti del terrorismo avanzata l'altro giorno alla Camera da rappresentanti di vari partiti, da Forza Italia a M5S, da Fratelli d'Italia al Pd fino alla Lega. Polemiche scaturite dalle rivelazioni fatte da Gasparri, Giovanardi e Gero Grassi del Pd relativamente ai contenuti delle note del Sismi sulle quali è ancora opposto il segreto lasciando intendere che la verità su Bologna potrebbe non essere quella processuale. Le parole di Grassi, ex parlamentare del Pd, hanno scatenato la reazione di Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto. "Di nuovo viene tirata in ballo la pista palestinese per intralciare indagini e confondere l’opinione pubblica. Vuol dire che quelli che hanno intralciato la verità sono ancora attivi e in campo. E' normale - attacca Bolognesi - che lo facciano gli avvocati degli imputati, ma quando si cimenta in questa operazione gente che si dice di sinistra, ecco, sappiate che non guarderemo in faccia a nessuno e andremo avanti per la nostra strada, faremo in modo che nostri avvocati perseguano questi personaggi, di qualsiasi partito siano”. Bolognesi ha anche aggiunto di concordare con la desecretazione degli atti, purché fatta "in modo globale partendo da piazza Fontana, non separatamente, perché potrebbe essere un altro modo per depistare. La visione deve essere complessiva, perché una visione parziale non è utile”.
"NOTE SISMI TROVATE PER CASO IN ATTI PROCESSO PIAZZA DELLA LOGGIA" - "La nota 'riservatissima' del Sismi sull'ultimatum palestinese all'Italia del 1980? L'ho trovata per caso, insieme a un'altra, un appunto risalente al 24 aprile: faceva parte degli atti digitalizzati del processo di Piazza della Loggia, la strage compiuta a Brescia il 28 maggio 1974, un processo monstre in cui era entrato di tutto. Ci sono incappato per una fatalità e leggerli è stato sconvolgente: contengono un crescendo di minacce, sono chiari, sono espliciti" dice il ricercatore Giacomo Pacini, che all'Adnkronos racconta come è entrato in possesso degli appunti choc che sarebbero stati redatti dai nostri 007 a Beirut tra l'aprile e il maggio 1980. "Come questi appunti siano finiti agli atti è veramente un mistero, perché io li ho trovati in maniera assolutamente casuale - spiega Pacini - stavo facendo una ricerca sull'ufficio affari riservati, quindi su tutta un'altra cosa, alla Casa della memoria di Brescia, e in uno dei faldoni digitalizzati a un certo punto ho trovato questi documenti, che sicuramente facevano parte dei famosi documenti del centro Sismi di Beirut e che poi ho messo nel mio saggio. In uno dei due, il più importante, quello del 12 maggio, ci sono le minacce esplicite dell'Fplp all'Italia". "Si tratta di documenti pubblici, liberamente consultabili - tiene a sottolineare Pacini - Fanno parte del fascicolo del pm di Brescia relativo a un processo ormai chiuso, nel cd che mi hanno consegnato ci sono quasi due milioni di documenti depositati. Certo, non c'entrano niente ovviamente con la strage di piazza della Loggia, ma in quel processo, ripeto, è entrato davvero di tutto...".
LE REAZIONI - “La rivelazione dei documenti del Sismi di Beirut relativi all'estate del 1980 confermano la necessità e l'urgenza della desecretazione dei documenti relativi alla strage di Bologna e al 'Lodo Moro', l’accordo tra i servizi italiani e quelli palestinesi per uno scudo dagli attentati a tutela del nostro territorio, che sono stati analizzati nei lavori delle varie commissioni d'inchiesta" dichiara il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. "Alla ripresa dei lavori parlamentari - annuncia - chiederemo l'immediata calendarizzazione della proposta di legge per istituire una commissione bicamerale di inchiesta su dinamiche e connessioni del terrorismo interno e internazionale con la strage di Bologna del 2 agosto 1980 e le relative attività dei servizi segreti italiani ed esteri. Proposta promossa dai deputati di Fdi Federico Mollicone e Paola Frassinetti, promotori anche dell''Intergruppo 2 agosto. La verità, oltre il segreto sulla strage di Bologna', ha già incassato l'adesione di parlamentari di Lega, Fi e M5S". "Grazie alla commissione e all'Intergruppo contribuiremo alla ricomposizione della storia d’Italia, nel segno della ricerca della verità, storica e processuale. Lo dobbiamo alle vittime e ai nostri figli”, conclude Meloni.
"I clamorosi documenti del Sismi pubblicati da alcuni ricercatori sui social network - così come rivelato da uno scoop di Adnkronos - sono di vitale importanza per la ricerca della verità storica e processuale sulla strage di Bologna. La procura di Bologna acquisisca l'atto e, a fronte delle numerose fonti che confermerebbero sia l'esistenza del 'Lodo Moro' che la strage come ritorsione dei palestinesi per i fatti di Ortona, in caso di loro conferma, la tesi processuale sarebbe nulla e il processo da revisionare" dicono i parlamentari Federico Mollicone e Paola Frassinetti, promotori dell'Intergruppo '2 agosto. La verità, oltre il segreto sulla strage di Bologna'. "Il Parlamento, visti i riscontri - proseguono - approvi la nostra proposta di legge e istituisca a settembre la commissione d'inchiesta, come richiesto. Invitiamo i colleghi ad aderire all'Intergruppo e sottoscrivere la nostra proposta di legge, per trovare finalmente la verità per le vittime e i loro familiari". "Il documento in oggetto - concludono - è della serie classificata e venne visionato dai parlamentari componenti della commissione 'Moro 2'. Chiediamo che i documenti siano immediatamente desecretati, e per questo presenteremo un'interrogazione al Presidente del Consiglio Conte".
“I documenti del Sismi recentemente portati alla luce possono costituire un importante elemento per diradare le ombre che ancora oggi, a distanza di 39 anni, avvolgono la verità storica e processuale della strage di Bologna - dichiara il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida - Un tassello necessario al percorso di ricostruzione di quanto realmente accadde in quel tragico 2 agosto del 1980. La commissione d’inchiesta parlamentare proposta da Fratelli d’Italia, anche alla luce di quanto emerso proprio in queste ore, appare ancora più urgente e opportuna. Alla ripresa dei lavori di settembre chiederemo la calendarizzazione della nostra proposta di legge per la sua istituzione”. A intervenire, per Fdi, è anche Massimo Ruspandini: "Se i documenti del Sismi dimostrassero la pista palestinese ci troveremmo davanti a un punto di svolta e potremmo cancellare questa infamia storica della pista nera su Bologna e fare chiarezza anche su Ustica".
Per Elisabetta Zamparutti, ex parlamentare Radicale ed esponente di Nessuno tocchi Caino, è "sempre più necessario ed urgente togliere il segreto di Stato su quei documenti, visionati da parlamentari nelle Commissioni d’inchiesta sulle stragi ed il terrorismo, secondo i quali emergerebbe un movente diverso della strage di Bologna". “Da più parti - rileva Zamparutti - sentiamo parlare di elementi probatori e documenti che vanno in tal senso e rispetto ai quali penso che le forze parlamentari debbano sostenere l’Intergruppo '2 agosto - La verità, oltre il segreto sulla strage di Bologna' promosso da Federico Mollicone e Paola Frassinetti' e l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni di terrorismo interno ed internazionale connessi alla strage di Bologna. I segreti di Stato -conclude - rischiano di essere funzionali a verità di regime, con il rischio di far prevalere la Ragion di Stato contro lo Stato di Diritto, la giustizia e la verità”.
Scrive in una nota Carlo Giovanardi: "Non posso divulgare, per rispetto al giuramento di fedeltà alla Repubblica che ho prestato come ministro e sottosegretario di Stato, gli agghiaccianti contenuti delle minacce di rappresaglie tra il 1979 e il 1980 che gruppi radicali palestinesi rivolgevano al nostro governo per non aver rispettato il cosiddetto Lodo Moro che consentiva il passaggio indisturbato di armi ed esplosivi sul nostro territorio in cambio della garanzia che non ci sarebbero stati attentati nel nostro paese. Come noto a queste minacce si aggiungevano quelle libiche, per contrastare la firma della Alleanza Italia-Malta che avvenne proprio il 2 agosto 1980". "Giovedì scorso -prosegue - a Montecitorio ho nuovamente segnalato le date nelle quali reperire i documenti più importanti, purtroppo di nuovo riclassificati Segretissimo dopo che è stato tolto il Segreto di Stato, con pesanti sanzioni penali per chi li divulga. Dopo 40 anni sono davvero insopportabili le passerelle a Bologna di chi ha il potere di rendere pubbliche le carte e non lo fa, per permettere finalmente a storici, studiosi ed alla opinione pubblica di capire chi davvero in tutti questi anni ha depistato e mistificato la realtà", conclude Giovanardi.
Maurizio Gasparri (Fi) commenta che i documenti del Sismi relativi all’estate del 1980 "sembrano molto simili a quelli che sono ancora secretati e dei quali io e altri politici chiediamo da anni la desecretazione. Quei rapporti che arrivano dal Medio Oriente aprono degli squarci di verità sulle stragi del 1980, compresa quella di Bologna". "Chi si oppone alla ricerca di una verità completa sbaglia. Queste rivelazioni - aggiunge - che arrivano dai documenti di Brescia inducono a fare chiarezza su tutto, altrimenti avremo documenti che sono ritenuti segreti ma che in realtà non lo sono. Dicono la verità su quella stagione drammatica di stragi".
Michaela Biancofiore (Fi) evidenzia che "secondo quanto emerso dallo scoop dell’AdnKronos, a 40 anni dalla strage di Bologna di cui ho un nitido impressionante ricordo di bambina, sono venuti alla luce due documenti del Sismi che aprirebbero una pista giudiziaria diversa da quella emersa dai processi". "I documenti contengono infatti - aggiunge - precise e gravissime minacce al nostro Paese, negli stessi anni, da parte del Fronte per la liberazione della Palestina causa il mancato rispetto di un presunto accordo 'Stato-terrorismo internazionale', al quale non si sarebbe prestato fede. Se questa fosse la verità le vittime non troverebbero pace e si aprirebbe un nuovo squarcio inquietante sulla nostra democrazia". "Aderirò al comitato 2 agosto della collega Frassinetti, ma non basta - urge la commissione d’inchiesta anche per accertare se vi è stato attentato contro la Patria da parte di istituzioni deviate e/o infedeli. Mi auguro -conclude - che il governo dell’onestà desecreti immediatamente gli atti per far emergere la giustizia giusta".
"Sono stato nel 2008 oratore ufficiale della celebrazione del 2 agosto, destinatario come tutti dei rituali fischi al governo. Sono quindi vivamente colpito dalle novità odierne, e spero che vengano desecretati tutti gli atti riservati in modo da far luce sulla tragedia di Bologna oltre ogni verità di comodo" dichiara Gianfranco Rotondi, vice presidente dei deputati Fi e presidente della Fondazione Dc.
"I documenti del Sismi che stanno emergendo confermano la esigenza di una desecretazione totale dei materiali che sono stati visti anche da alcuni commissari della seconda commissione d'indagine Moro ma che sono legati a un vincolo di segreto - dice Fabrizio Cicchitto - E' interesse di tutti e in primo luogo dei parenti delle vittime che si faccia luce sulla verità di questa strage. E' singolare invece la linea seguita dall'on. Bolognesi secondo il quale la strage è per definizione di matrice fascista e quindi qualunque nuovo elemento che va in altra direzione è considerato a priori inattendibile".
Riguardo ai due documenti del Sismi, secondo Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione familiari delle vittime della strage del 2 agosto, "il problema per chi sta tirando fuori ste menate è uno solo: che adesso si sta facendo un'indagine seria sui mandanti che sta portando risultati di un certo tipo, di conseguenza saltano fuori queste storielle. Tutta questa roba è di nessun valore e viene fuori al momento opportuno". "Sono cose trite e ritrite, e Pacini dovrebbe fare lo storico non il mestatore, sarebbe ora che andasse a studiare, gli farebbe bene alla salute", dice Bolognesi all'Adnkronos. "La cosiddetta pista palestinese - conclude - è un insieme di carte e di ipotesi che non hanno neanche la dignità della pista".
Per Gero Grassi, ex deputato del Pd, già componente della commissione Moro, "non possiamo averne la certezza, ma gli atti venuti fuori dalle carte di Brescia mi sembrano attendibili. La questione però è un'altra - dice all'Adnkronos - Noi dobbiamo uscire dall'impasse, e l'unico modo per farlo è la desecretazione degli atti". "Siamo sempre allo stesso punto e dobbiamo cercare di uscirne - aggiunge Grassi - C'è un pezzo di politica che si muove per suffragare l'idea che a mettere a segno l'attentato del 2 agosto 1980 a Bologna siano stati i palestinesi, ed è la destra. Poi c'è un pezzo di politica, ed è la sinistra, che si è fatta l'idea che siano stati i fascisti. Noi non possiamo continuare a discutere sulle ipotesi". "Io chiesi la desecretazione di quegli atti - sottolinea l'esponente dem - già durante la commissione Moro, così come appoggiai l'idea che il presidente Gentiloni venisse a riferire in commissione. Torniamo al punto di partenza, bisogna desecretare gli atti perché sennò continuiamo a parlare di ipotesi invece che di fatti". D'altra parte, "se io dico che in quegli atti mi sembra di capire che non ci siano ipotesi che vanno nella direzione del processo, che potrebbe esserci qualcosa di diverso, e vengo accusato di essere un depistatore - si sfoga Grassi - allora vuol dire che si è superato il buon senso. Per chiudere la querelle, non resta che desecretare. Noi abbiamo il dovere di dare la verità ai giovani e la giustizia a chi è morto, tutto questo si raggiunge solo così. Conte se c'è batta un colpo".
Strage di Bologna, l’ira del Pd Bolognesi: insulti al ricercatore che ha trovato le carte del Sismi. Il Secolo d'Italia sabato 3 agosto 2019. È una furia l’ex-parlamentare Pd, Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage di Bologna. L’esponente dem, che ritiene di essere l’unico depositario della verità sull’attentato del 2 agosto ‘80, non ci sta, non accetta possibili verità alternative. Spiazzato dalle nuove carte del Sismi trovate per caso dal ricercatore Giacomo Pacini fra i fascicoli processuali del dibattimento sulla strage di piazza della Loggia a Brescia, Bolognesi non trova nulla di meglio che insultare lo storico: “Pacini dovrebbe fare lo storico non il mestatore, sarebbe ora che andasse a studiare, gli farebbe bene alla salute”. Un’aggressione, quella di Bolognesi al ricercatore, che tradisce la totale mancanza di equilibrio dell’esponente dem e la rabbia per le nuove rivelazioni sulla pista palestinese: “Sono cose trite e ritrite – prova a controbattere Bolognesi nel tentativo di ridurre a burletta la vicenda – La cosiddetta pista palestinese è un insieme di carte e di ipotesi che non hanno neanche la dignità della pista”. Peccato che perfino esponenti del suo partito, come il parlamentare Pd Gero Grassi la considerino molto più che una pista dopo aver visto le carte segretate in Commissione parlamentare Moro, carte di cui nessuno può parlare per non violare il segreto di Stato. Non è un caso che Bolognesi ieri abbia esplicitamente minacciato il suo collega di partito Grassi e chiunque parli di pista palestinese per la strage di Bologna avvertendo che gli avvocati dell’Associazione guidata dallo stesso Bolognesi sono pronti a denunciarli per depistaggio, il nuovo reato introdotto nel 2016.
Strage di Bologna, Rampelli: «Le note del Sismi sono una svolta, ora via tutti i segreti». Il Secolo d'Italia sabato 3 agosto 2019. Sono «atti dirimenti per la ricerca della verità». Il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, interviene sul caso dei due documenti del Sismi «riservatissimi» scoperti dal ricercatore Giacomo Pacini e collegati alla strage di Bologna e sottolinea che «potremmo essere di fronte a una clamorosa svolta nelle indagini». «Si lavori – chiede – per desecretare i documenti».
Una svolta «clamorosa». «In merito alla strage di Bologna, la notizia dell’esistenza di due documenti del Sismi – che parlerebbero delle minacce di attentati all’Italia da parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina a ridosso delle stragi di Bologna e Ustica – costituiscono oggi più che mai atti dirimenti per la ricerca di quella verità storica e processuale che l’Italia attende da 39 anni», sottolinea Rampelli. «Significa – aggiunge l’esponente di FdI – che potremmo essere di fronte ad una clamorosa svolta nelle indagini. Prima fra tutte la revisione del processo».
Rampelli: «Commissioni d’inchiesta chiave per la verità». «Si lavori quindi per desecretare i documenti», è l’esortazione di Rampelli, che ricorda come «a questo punto la proposta di legge promossa da Fratelli d’Italia per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti di Bologna, che si aggiunge alla pdl che presentai un anno fa per la richiesta di una commissione d’inchiesta su Ustica, diventa la chiave d’accesso per raggiungere la verità». «Lo dobbiamo alle famiglie delle vittime e – conclude il vicepresidente della Camera – a quella parte politica accusata per bugiarda estensione di un delitto incompatibile con i suoi principi».
LA VERITÀ SULLA BOMBA. Strage di Bologna, le carte segrete sui palestinesi. I telex dei nostri 007 a Beirut rimasti nascosti per quasi 30 anni. Parlavano di ritorsione palestinese per la rottura del "Lodo Moro". Gian Marco Chiocci su Il Tempo il 28 Luglio 2017. È giusto continuare a nascondere ai cittadini quanto accadde nel nostro paese nell’estate del 1980? A distanza di tanti anni, oggi che il regime di Gheddafi si è dissolto nel nulla e molti dei protagonisti politici italiani dell’epoca sono passati ad altra vita, sussistono esigenze di segretezza sul legame che legherebbe il terrorismo palestinese alla strage alla stazione di Bologna? Stando ai documenti del centro-Sismi di Beirut relativi al biennio ‘79-80 custoditi incredibilmente ancora sottochiave al Copasir verrebbe da dire di sì visto che la verità documentale stravolgerebbe completamente - e capovolgerebbe - la verità giudiziaria passata in giudicato. Verità giudiziaria, per quanto riguarda la pista palestinese, archiviata a Bologna dopo l’apertura di un’inchiesta a seguito di notizie rimaste coperte per più di vent’anni.
Ma a 37 anni dal mistero dell’esplosione di Bologna escono dunque altre prove, clamorose, sulla «pista palestinese» opportunamente occultata dal nostro Stato e dai nostri servizi segreti per una indicibile ragion di Stato. Pista che si rifà alla ritorsione, più volte minacciata dai terroristi arabi, per la rottura del «Lodo Moro» (l’accordo fra i fedayn e l’Italia a non compiere attentati nel nostro Paese in cambio del transito indisturbato delle armi dei terroristi). Roba da far tremare i polsi. Seguiteci con attenzione e annotate i continui riferimenti alla città di Bologna. Tutto ha inizio nel novembre 1979 quando i carabinieri, a Ortona, in Abruzzo, sequestrano alcuni missili terra-aria «Strela» di fabbricazione sovietica. I militari arrestano i tre esponenti dell’autonomia operaia romana che quei razzi custodiscono all’interno dell’auto. Seguendo la traccia dei missili i magistrati abruzzesi arrestano a Bologna Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia dell’organizzazione terroristica Fplp (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina). Questo Saleh viene «individuato» e descritto già nella commissione Mitrokhin che indagava sulle spie del Kgb in Italia. Saleh risulta essere il dirigente della rete logistica palestinese in Italia. In alcune interviste Saleh ha confermato il suo ruolo rivoluzionario negando qualsiasi ruolo dei palestinesi con la strage di Bologna (lo stesso ha fatto, lo scorso 26 giugno, in commissione Moro Nassam Abu Sharif, già braccio destro di Arafat, ricordando che Saleh fu la persona contattata dai Servizi italiani il giorno dopo il sequestro Moro per chiedere che l’Olp mediasse con le Brigate Rosse per ottenere la liberazione del leader democristiano). Insomma, un personaggio cruciale, nevralgico, questo Saleh. Sconosciuti sono i risvolti internazionali della vicenda raccontata nei documenti ancora top secret in parlamento che Il Tempo è oggi in grado di rivelare. Il palestinese Saleh era persona protetta dal Sismi in ottemperanza all’accordo segreto di cui sopra. Con le manette dei carabinieri all’arabo residente a Bologna, l’accordo segreto fra Italia e Palestinesi, il cosiddetto «lodo Moro» era da considerarsi violato. A parte il governo in carica e l’intelligence a Beirut nessuno poteva immaginare che quell’arresto a Ortona rappresentava l’inizio della fine. Dietro il transito di quei missili c’era Gheddafi, il partner intoccabile della disastrata economia italiana che proprio in quel periodo aveva stretto una pericolosa alleanza con l’Urss. In ossequio alla ragion di Stato e all’accordo, il ruolo della Libia nella vicenda fu tenuto accuratamente nascosto, così come non venne mai identificato il giovane extraparlamentare di Bologna che aveva accompagnato il palestinese Saleh a Ortona nelle ore successive al sequestro delle armi. Perché quel ragazzo bolognese scomparve nel nulla? E perché i fatti occultati riguardavano e riguarderanno anche in seguito sempre Bologna? Il Sismi diretto dal generale Santovito sapeva bene che, dopo l’arresto di Saleh, i vertici dell’Fplp chiesero a un loro militante di restare in Emilia per mantenere i contatti con un terrorista del famigerato gruppo Carlos, dal nome del super terrorista venezuelano che intorno a se aveva raggruppato la crema criminale del terrorismo arabo marxista-leninista. Chi era il basista in Emilia di Carlos “lo Sciacallo” e perché non è stato mai localizzato il suo covo? I vertici palestinesi – stando ai telex top secret del novembre 1979 - temevano che, a distanza di un anno dall’omicidio Moro, potesse emergere la prova delle collusioni dell’ala oltranzista dell’Olp con il terrorismo italiano. La dirigenza dell’Fplp era spaccata. La parte vicina ai paesi arabi filosovietici (Siria e Libia), indispettita dal voltafaccia italiano, respinse l’invito alla prudenza dell’ala «moderata» e più violenta e reclamò un’azione punitiva. Poco prima del Natale 1979, esattamente il 18 dicembre, l’Fplp minacciò una rappresaglia contro il nostro paese. Le nostre «antenne» del Sismi a Beirut, legatissime al Fplp come peraltro confermato lo scorso 2 luglio alla Stampa dall’allora responsabile dell’informazione Abu Sharif («io personalmente siglai l’accordo con l’Italia attraverso il colonnello del Sismi Giovannone a Beirut») lanciarono drammatici Sos. Nelle carte si fa cenno a un interlocutore del Fplp (...) che minacciava durissime rappresaglie qualora finisse per essere formalizzato il rifiuto dell’Italia all’impegno preso con il Lodo. Saleh in cella è il prezzo dello strappo letale, Roma è disposta a pagarlo? Stando sempre alle corte riservate lo 007 Giovannone, o chi per lui, da Beirut insiste a non giocare col fuoco. Da gennaio a marzo le minacce salgono di livello. Arriviamo al 14 aprile 1980. Habbash, leader del Fplp, spiffera agli agenti segreti italiani che l’ala moderata del Fronte fa sempre più fatica a frenare lo spirito di vendetta contro Roma che alligna nell’anima più irriducibile del suo gruppo. Anche l’idea di rivolgersi ad Arafat cade nel vuoto perché non sarebbe in grado – così riportano le note coperte dal sigillo del segreto– di prevenire un attentato affidato a «elementi estranei al Fplp», comunque coperti da una «etichetta sconosciuta». Ma chi sono questi «estranei»? Quale sarebbe questa sigla non conosciuta? I servizi italiani lo fanno capire di lì a poco allorché annotano la presenza del ricercatissimo «Carlos lo Sciacallo» proprio a Beirut accostandola alla possibilità che proprio a Lui e al suo gruppo internazionale venga affidato l’attentato in Italia. Dunque i documenti tuttora segreti riscontrerebbero le dichiarazioni rese anni e anni fa al giudice Mastelloni da tale Silvio Di Napoli, all’epoca dirigente del Sismi preposto alla ricezione die messaggi cifrati provenienti dal centro Sismi di Beirut. Quando il capo degli 007 a Beirut, Giovannone, informa il direttore Santovito che il Fplp, preso atto della condanna di Saleh, ha subito contattato Carlos, in Italia scatta l’allarme rosso. I servizi tricolori di Beirut ribadiscono ancora come la sanguinaria ritorsione può essere compiuta da «elementi non palestinesi» o «probabilmente europei» per non creare problemi al lavorio politico-diplomatico per l’imminente riconoscimento della casa madre della causa palestinese: l’Olp di Araf. Sono giorni gonfi di tensione. A metà maggio scade l’ultimatum del Fronte. Il Sismi scrive al comando di Forte Braschi che la dirigenza del Fplp è pronta, dopo 7 anni di non belligeranza, a riprendere le ostilità contro il Paese non più amico, contro i suoi cittadini, contro gli interessi italiani nel mondo «con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti». La fonte del colonnello Giovannone confessa che è la Libia, ormai sponsor principale del Fplp, a premere. L’Italia, col sottosegretario Mazzola, è in bambola. Prende tempo con vane e finte promesse su Saleh. In un documento dove si ribadisce il ruolo istigatore di siriani e libici, la ritorsione del Fplp viene data per certa ed imminente. E’ l’inizio della fine. Il Sismi in Libano scrive che non si può più fare affidamento sulla sospensione delle azioni terroristiche in Italia decisa nel ‘73. Secondo i documenti ancora coperti dal segreto, insomma, la nostra intelligence fa sapere della decisione del Fplp di vendicarsi a seguito del mancato accoglimento del sollecito per lo spostamento del processo di Saleh. Mancano due mesi alla strage alla stazione di Bologna. Luglio passa veloce, i contatti dei nostri servizi col Fplp si fanno via via più radi. Non c’è più feeling.Ogni canale viene interrotto. E’ il silenzio. Spettrale. Inquietante. Prolungato. Sino alla mattina del 2 agosto quando una bomba devasta la sala d’aspetto della stazione di Bologna: 80 morti, 200 feriti. La più grave strage dal dopoguerra. E’ stato Carlos? Sono stati i palestinesi? Tantissimi indizi portano a pensarlo ma nessuno di questi vedrà mai la luce per oltre trent’anni, i magistrati mai verranno messi a conoscenza di questi clamorosi carteggi all’indomani dello scoppio nelal sala d’aspetto di Bologna. Fatto sta, per tornare a quel 1980, che l’estate successiva alla strage Saleh tornerà libero su decisione della Cassazione dopo le ennesime pressioni del Sismi sui magistrati abruzzesi. E non sembra poi un caso se fu proprio il capo dei servizi segreti dell’Olp, a cui gli oltranzisti del Fplp erano affiliati, a organizzare con l’avallo del Sismi uno scientifico depistaggio sulla strage di Bologna, e non è ovviamente un caso se la base del depistaggio fu proprio Beirut. Ma chi e come si prestò a sviare le indagini? La memoria giudiziaria ci riporta a Rita Porena, giornalista free lance, in seguito identificata come anica personale del capocentro Sismi a Beirut, collaboratrice remunerata, che riuscì a intervistare proprio a Beiurut un leader dell’Olp il quale, poco dopo la strage di Bologna, disse che noi loro campi di addestramento (frequentati assiduamente da brigatisti rossi) erano stati individuati ed espulsi dei neofascisti che progettavano e organizzavano un gravissimo attentato in Italia. Fu quella di Beirut la prima «rivelazione» (falsa) sulla pista neofascista, pista orchestrata da quello Stefano Giovannone da tutti considerato, anche con una certa ammirazione, il migliore e più fedele custode del Lodo Moro anche dopo la morte del politico che diede il nome al lodo segreto. Mettetela come vi pare ma l’escalation delle minacce e degli ultimatum sovrapposti alla coincidenza temporale della strage di Bologna non danno scampo a una ipotesi alternativa, che invece – all’epoca - diventa l’unica da seguire: perché la strage - si è detto per anni - è per sua natura fascista. «Fascista» senza alcuna prova, indizio, risconto. Dunque, senza alcun plausibile motivo (o forse i motivi erano ben chiari a chi non voleva rendere noto il risultato prodotto da un accordo che ci avrebbe delegittimato per sempre come Paese sponsor dei terroristi nemici di Israele che insanguinavano l’Europa) le indagini vengono indirizzate sugli ambienti neofascisti. Nessuna spia, a poche ore dalla bomba e nemmeno nelle settimane e nei mesi (e negli anni) a venire, si prenderà la briga di avvisare mai i magistrati di Bologna delle minacce palestinesi, dell’ingiustificata presenza a Bologna del gruppio Carlos, del ruolo delicatissimo di Saleh. Sulla scia dell’Olp anche il Sismi si attiverà per depistare l’inchiesta. Lo farà in mille modi, usando personaggi e storie diverse. Ma i documenti tuttora inaccessibili del Sismi, di cui Il Tempo ha scoperto l’esistenza, rivelano lo scenario di crisi conosciuto dalle nostre autorità e taciuto ai magistrati, e oggi consentono una lettura del depistaggio molto più grave e realistica anche perché solo dopo 20 anni, e per un caso fortuito (attraverso la ricerca dei consulenti della Mitrokhin) si è scoperta la presenza (sempre nascosta) a Bologna, il giorno della strage, di un certo Thomas Kram, che i servizi della Stasi, gli 007 della Germania Est, indicavano come membro del già citato gruppo terroristico di Carlo lo Sciacallo. Per la cronaca Kram era entrato nell’inchiesta sulla «pista palestinese», poi archiviata a Bologna nel 2015. Oggi gli unici che si ostinano a negare l’importanza di quelle carte sembrerebbero quelli strenuamente contrari alla loro divulgazione. Curioso paradosso. Ma ai giudici bolognesi non può essere opposto alcun veto perché le indagini per il reato di strage non lo consentono. Basterebbe una semplice richiesta al Copasir per illuminare a giorno il buio della strage del 2 agosto. Il buon senso porta ad augurarsi che sia la procura di Bologna a chiedere di sua iniziativa il carteggio esplosivo. La politica, per una volta, raddrizzi la schiena e non speculi per interesse. Lo deve agli 80 morti e ai familiari delle vittime che vogliono davvero la verità. Molti, già da 37 anni, con il loro silenzio si sono fatti compici degli assassini. Molti altri si sono messi a posto la coscienza sostenendo di non saperne abbastanza. Ora Il Tempo gli sta fornendo i necessari riscontri necessari. D’ora in poi, chi non agisce, è complice.
Strage di Bologna, ritrovato il probabile interruttore. Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. La conferma sulla composizione dell’esplosivo, l’eventualità di un’esplosione accidentale e il ritrovamento, tra le macerie, di quello che potrebbe essere l’interruttore che il 2 agosto del 1980 provocò la strage della stazione di Bologna. Ottantacinque furono le vittime, oltre 200 feriti. Sono questi alcuni degli elementi emersi nella perizia chimico-esplovistica disposta nel processo a Gilberto Cavallini (depositata, dopo varie proroghe, dagli esperti Danilo Coppe e Adolfo Gregori). L’ex membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar) è accusato di concorso nell’attentato. La bomba a tempo che esplose alle 10.25, e provocò la morte di 85 persone (e il ferimento di duecento) non ha mandanti. L’ex capo della P2 Licio Gelli, l’ex agente del Sismi Francesco Pazienza e gli ufficiali del servizio segreto militare Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte vennero condannati per il depistaggio delle indagini. Nel 2007 arrivò la condanna definitiva in Cassazione a 30 anni per Luigi Ciavardini (diventeranno poi 26, prima di ottenere nel 2009 la semilibertà), esponente dei Nar, minorenne all’epoca dei fatti. Oltre agli studi dell’epoca, sono stati analizzati i reperti rinvenuti su un cartellone affisso nella sala d’aspetto, su alcuni oggetti consegnati dai parenti delle vittime, su parti di terriccio conservate dall’epoca e nelle macerie rimaste per anni esposti alle intemperie ai Prati di Caprara, una vecchia caserma nella periferia. L’interruttore, in particolare, presenta una levetta simile a quelle usate nell’industria automobilistica che — dicono i periti — «in una sala d’attesa di una stazione ferroviaria non aveva ragione di esserci». Dispositivi simili vennero trovati anche nell’ordigno destinato a Tina Anselmi e in quello trasportato da Margot Christa Frohlich, la terrorista tedesca indagata e poi archiviata insieme a Thomas Kram nella cosiddetta «pista palestinese», arrestata a Fiumicino nel 1982. La perizia, infine, parla anche della composizione della bomba, «essenzialmente da Tnt e T4 di sicura provenienza da scaricamento di ordigni bellici e da una quantità apprezzabile di cariche di lancio (che giustifica la presenza di nitroglicerina e degli stabilizzanti rinvenuti)». Inoltre, »non si può escludere completamente la presenza di una percentuale di gelatinato a base di nitroglicerina».
Strage alla stazione di Bologna, forse trovato l'interruttore della bomba. Le indagini per il nuovo processo in Assise hanno portato al riesame dei detriti conservati ai Prati di Caprara. I difensori dell'ex Nar Cavallini sperano di far riaprire la pista palestinese. I familiari delle vittime: "Confermato il tipo di esplosivo usato dal terrorismo di destra". La Repubblica il 27 giugno 2019. Fra le macerie ai Prati di Caprara, dove per anni sono rimasti i detriti della stazione di Bologna esplosa il 2 agosto 1980, potrebbe essere stato trovato l'interruttore della bomba che provocò 85 morti e 200 feriti. Il nuovo particolare emerge dalla perizia disposta dalla Corte di assise nel processo a carico dell'ex Nar Gilberto Cavallini e depositata dal geominerario esplosivista Danilo Coppe e dal tenente colonnello Adolfo Gregori, del Ris di Roma. Con una levetta simile a quelle usate nell'industria automobilistica, "la sua deformità fa ritenere l'interruttore molto vicino all'esplosione". In una sala d'attesa di una stazione ferroviaria, spiegano, "secondo chi scrive non aveva ragione di esserci". Dispositivi simili, osservano poi i periti, risultano essere stati trovati nell'ordigno destinato a Tina Anselmi e in quello trasportato da Margot Christa Frohlich quando venne arrestata a Fiumicino nel 1982. Si tratta della terrorista tedesca indagata e poi archiviata insieme a Thomas Kram nella cosiddetta 'pista palestinese', ipotesi alternativa a quella accertata dalle sentenze passate in giudicato che si concentravano su una pista neofascista. Christa Margot Frohlich era una terrorista tedesca appartenente al gruppo di Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come Carlos o "Carlos lo sciacallo", e fu indagata e poi archiviata (nel 2015) assieme a Thomas Kram. L'interruttore viene citato nel capitolo della relazione in cui i periti scrivono che sicuramente "con l'esplosivo viaggiava almeno un detonatore". Nel descriverlo, Coppe e Gregori lo identificano come "un prodotto di qualità molto bassa" e rilevano che "la levetta on/off pare essere di tipo comune. Non riporta alcuna scritta identificativa ed è simile ad alcune usate nell'industria automobilistica per attivare, ad esempio, luci o tergicristalli", anche se "il fatto che sia montata su un supporto la rende meno automobilistica". Nella perizia si conferma, poi, che la bomba era costituita "essenzialmente da Tnt e T4 di sicura provenienza da scaricamento di ordigni bellici e da una quantità apprezzabile di cariche di lancio (che giustifica la presenza di nitroglicerina e degli stabilizzanti rinvenuti)". Inoltre, "non si può escludere completamente la presenza di una percentuale di gelatinato a base di nitroglicerina". Si tratta di un passaggio che ha colpito gli avvocati di parte civile: "È una conferma - dice Andrea Speranzoni, che assiste i familiari delle vittime - di quanto dichiarato dai pentiti, come Sergio Calore e Paolo Aleandri". La perizia parla di "congruenza" con queste dichiarazioni e che quindi potrebbe collegare l'esplosivo a quello utilizzato in quel periodo dal terrorismo di destra. Ma nelle conclusioni dell'elaborato si legge anche che su basi esclusivamente probabilistiche "si ritiene che, se c'era un dispositivo tra la sorgente di alimentazione e l'innesco, questo poteva essere un timer meccanico. Non si esclude però, in via ipotetica, che l'interruttore di trasporto fosse difettoso o danneggiato tanto da determinare un'esplosione prematura-accidentale dell'ordigno". Un elemento definito "significativo e innovativo" dall'avvocato Gabriele Bordoni, difensore di Gilberto Cavallini, come anche il fatto che secondo i periti, nella sala d'attesa della stazione di Bologna non c'erano le condizioni perché un corpo venisse completamente dematerializzato.
· La pista Libica.
Il ruolo della Libia e di Gheddafi nella strage di Bologna. Il paese africano era sempre più centrale nella politica italiana. Per le alleanze, il petrolio, la finanza e il commercio. filo di sangue che arriva ai neofascisti coinvolti nell’attentato. Miguel il 09 luglio 2020 su L'Espresso. Sul piano internazionale il biennio 1979-1980 fu assai significativo per le relazioni tra l’Italia e la Libia perché il colonnello Mu’ammar Gheddafi consolidò il suo passaggio nella sfera d’influenza dell’Unione sovietica che, nel dicembre 1979, invase l’Afghanistan. In quei mesi l’orso russo sembrava avere dato la zampata decisiva per modificare gli equilibri della guerra fredda in quanto, una volta conquistato l’Afganisthan, avrebbe potuto minacciare direttamente la sicurezza dei pozzi petroliferi dell’Arabia Saudita che alimentavano l’economia capitalistica da Tokio a New York. Per parte loro gli Stati Uniti apparivano sulla difensiva: ancora scossi dall’umiliazione militare subita in Vietnam e, dal novembre 1979, impelagati nella crisi degli ostaggi dell’ambasciata di Teheran, dove un nuovo regime sciita ostile all’occidente aveva preso il posto dell’accomodante scià di Persia. La decisione della Libia ebbe inevitabili ripercussioni anche sulla politica mediorientale dell’Italia. Il nostro Paese, infatti, per tutti gli anni Settanta, sotto la regia di Aldo Moro e di Giulio Andreotti, aveva rinsaldato i suoi rapporti con la Libia impegnandosi per una distensione delle relazioni di Gheddafi con Israele, che sarebbe però dovuta passare sotto le forche caudine di una soluzione ragionevole della questione palestinese.
I salvati e i prescelti. Sulla strage di Bologna preferiamo recitare la parte degli scemi pur di non sapere la verità. Flavia Perina su linkiesta.it l'1 Agosto 2020. Giovanni Spadolini sapeva del ruolo della Libia, ma la pista nera degli estremisti di destra era più comoda da servire all’elettorato. A nessuno però interessa più conoscere la storia fino in fondo e, come per molti altri casi, si è finiti per accontentarsi di una spiegazione calata dall’alto.
Un ricordo personale. Il giorno della strage di Bologna mio padre era in Grecia, a giocare al Casinò insieme a due suoi amici avvocati, entrambi missini. Tornarono di corsa appena sentita la notizia, spaventati per le famiglie, col timore oscuro che fosse il primo atto di chissà che cosa. Il 3 agosto l’Unità aveva già il titolo sulla strage fascista. Il 4 agosto tutti i ventenni con una qualche esposizione a destra (tipo un paio di denunce per rissa o affissione abusiva) erano latitanti. Il 28 agosto arrivarono ottanta mandati di cattura emessi a caso (praticamente tutti furono poi scagionati). I “salvati” tornarono a casa. I “prescelti” si nascosero meglio: una parte di loro finirà a fare rapine per finanziare fughe senza data di scadenza. Intanto, anche se nessuno lo sapeva, Giovanni Spadolini sulla base di confidenze raccolte era così certo che la pista fosse mediorientale e specificamente libica da presentare un’interrogazione sul punto, datata 4 ottobre 1980. Anche il procuratore Domenico Sica ne era convinto, ma la cosa finì lì anche perché coinvolgere la Libia, in quel momento, sarebbe stato un disastro per gli interessi economici italiani. L’altra verità, quella della pista nera, sopravvisse a tutto. Persino all’autodafè del ministro dell’Interno dell’epoca, Francesco Cossiga, che nel ‘92, da Presidente della Repubblica – quindi dal massimo vertice delle istituzioni democratiche – chiese scusa per aver orientato le inchieste verso destra dicendosi vittima di false informazioni: «Fui fuorviato, intossicato. Ho sbagliato». Quarant’anni dopo la mitologica ricerca della verità interessa solo pochi appassionati, e ovviamente i condannati per l’eccidio – Francesca Mambro e Giusva Fioravanti – che si sono sempre proclamati innocenti pur avendo ammesso molti altri delitti. Se ne parlo è perché oggi mio padre mi ha raccontato questa storia di lui che gioca in Grecia, e all’improvviso sente al telegiornale la notizia, e immagina il ciclopico disastro che sta per abbattersi sulla sua parte (era dirigente del Msi), forse sulla sua famiglia e sui suoi figli (i mandati di cattura alla bell’e meglio erano scontati), e mi è tornato alla mente il tipo di Italia nel quale abbiamo vissuto: un Paese dove, fino ai Novanta e oltre, metà della politica era convinta dell’incombenza del golpe fascista e l’altra metà di una possibile annessione all’impero del male comunista tramite una vittoria elettorale del Pci. Lì c’è la genesi del nostro bipolarismo muscolare, lì la madre delle nostre innumerevoli anomalie e della radicata convinzione che gli italiani siano un popolo bambino, da governare attraverso opposti terrori, troppo emotivi e suggestionabili per meritarsi la verità. Lì c’è il nocciolo del fallimento di ogni tentativo di fare dell’Italia un Paese adulto. Nel 2014, durante il governo di Matteo Renzi, fu emessa una direttiva che avrebbe dovuto declassificare gli atti relativi alle stragi di Ustica, Peteano, Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Gioia Tauro, e ovviamente Bologna. Immagino che il ragionamento sia stato: la guerra fredda è finita, chi ricorda di persona l’impatto di quei fatti ormai è nella terza età, dovrebbe essere abbastanza maturo per reggere l’urto con la verità. E invece no, non siamo abbastanza grandi neanche adesso. Le molte carte arrivate al Copasir hanno tutte il bollino top secret: possono essere lette dai membri del Comitato per i Servizi ma non trascritte o raccontate, e infatti molti hanno letto, riferito dell’esistenza di dettagli nuovi e illuminanti, taciuto sulla loro natura. «Ci vogliono far passare tutti per allocchi» titolava qualche giorno fa un giornale, riferendosi allo scandalo dei camici lombardi. Ecco, quel titolo si applica a molte faccende italiane ben più gravi. Di storie per allocchi la vicenda delle indagini su Bologna è piena, e bisogna continuare a bersela così. Bisogna continuare a credere alla confessione in articulo mortis del superteste Massimiliano Sparti, che poi – scarcerato grazie alla collaborazione e ufficialmente moribondo – campò altri vent’anni. Bisogna continuare a credere che tutti i morti della stazione siano stati identificati, anche se una recente perizia ha rivelato che i resti attribuiti a Maria Fresu sono di qualcun’altra, forse un’ottantaseiesima vittima mai riconosciuta. Bisogna continuare a credere ai verbali di Angelo Izzo, il massacratore del Circeo, che a suon di confidenze ai pm della pista nera si guadagnò la semilibertà per poi ammazzare altre due donne, madre e figlia. Continuare a recitare la parte degli scemi è l’unica possibilità che ci si offre per essere bravi cittadini. Anche per questo, davanti alla scadenza del quarantennale, forse è meglio rifugiarsi nelle storie personali. La mia è quella di un padre che compare all’improvviso, impietrito, sulla porta di casa a metà di una vacanza, di molti conoscenti che scompaiono altrettanto all’improvviso, dell’orrore davanti alle immagini in bianco e nero dei telegiornali e della paura più confusa – che sta succedendo? Chi saranno i prossimi? Cosa vogliono? – oltreché del senso di soffocamento davanti alla consapevolezza (che ci fu fin dall’inizio, dai primissimi giorni) che mai avremmo saputo il chi e il perché, che Bologna sarebbe stata la nostra Dallas, il nostro 11 settembre in miniatura, e avrebbe inghiottito non solo le vite dei morti ma moltissime altre, forse un pezzo intero di vita del Paese. In questo 2020 funesto ci si guarda indietro e si dice: sì, quella prima sensazione fu esatta, è finita proprio così.
L’ultimo segreto nelle carte di Moro: “La Libia dietro Ustica e Bologna”. Da Beirut i servizi segreti avvisarono: “Tripoli controlla i terroristi palestinesi”. I parlamentari della Commissione d’inchiesta: “Renzi renda pubblici i documenti”. Francesco Grignetti il 5 Maggio 2016 su La Stampa. Tutto nasce da una direttiva di Matteo Renzi, che ha fatto togliere il segreto a decine di migliaia di documenti sulle stragi italiane. Nel mucchio, i consulenti della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno trovato una pepita d’oro: un cablo del Sismi, da Beirut, che risale al febbraio 1978, ossia un mese prima della strage di via Fani, in cui si mettono per iscritto le modalità del Lodo Moro. Il Lodo Moro è quell’accordo informale tra italiani e palestinesi che risale al 1973 per cui noi sostenemmo in molti modi la loro lotta e in cambio l’Olp ma anche l’Fplp, i guerriglieri marxisti di George Habbash, avrebbero tenuto l’Italia al riparo da atti di terrorismo. Ebbene, partendo da quel cablo cifrato, alcuni parlamentari della commissione Moro hanno continuato a scavare. Loro e soltanto loro, che hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, hanno potuto visionare l’intero carteggio di Beirut relativamente agli anni ’79 e ’80, ancora coperto dal timbro «segreto» o «segretissimo». E ora sono convinti di avere trovato qualcosa di esplosivo. Ma non lo possono raccontare perché c’è un assoluto divieto di divulgazione. Chi ha potuto leggere quei documenti, spera ardentemente che Renzi faccia un passo più in là e liberalizzi il resto del carteggio. Hanno presentato una prima interpellanza. «È davvero incomprensibile e scandaloso - scrivono i senatori Carlo Giovanardi, Luigi Compagna e Aldo Di Biagio - che, mentre continuano in Italia polemiche e dibattiti, con accuse pesantissime agli alleati francesi e statunitensi di essere responsabili dell’abbattimento del DC9 Itavia a Ustica nel giugno del 1980, l’opinione pubblica non sia messa a conoscenza di quanto chiaramente emerge dai documenti secretati in ordine a quella tragedia e più in generale degli attentati che insanguinarono l’Italia nel 1980, ivi compresa la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980».
L’AVVERTIMENTO - Ecco il messaggio destinato al ministro degli Interni, ai servizi italiani e a quelli alleati in cui si segnala che George Habbash, capo dei guerriglieri palestinesi del Fplp, indica l’Italia come possibile obiettivo di un’«operazione terroristica». Va raccontato innanzitutto l’antefatto: nelle settimane scorse, dopo un certo tira-e-molla con Palazzo Chigi, i commissari parlamentari sono stati ammessi tra mille cautele in una sede dei servizi segreti nel centro di Roma. Dagli archivi della sede centrale, a Forte Braschi, erano stati prelevati alcuni faldoni con il marchio «segretissimo» e portati, con adeguata scorta, in un ufficio attrezzato per l’occasione. Lì, finalmente, attorniati da 007, con divieto di fotocopiare, senza cellulari al seguito, ma solo una penna e qualche foglio di carta, hanno potuto prendere visione del carteggio tra Roma e Beirut che riporta al famoso colonnello Stefano Giovannone, il migliore uomo della nostra intelligence mai schierato in Medio Oriente. Il punto è che i commissari parlamentari hanno trovato molto di più di quello che cercavano. Volevano verificare se nel dossier ci fossero state notizie di fonte palestinese per il caso Moro, cioè documenti sul 1978. Sono incappati invece in documenti che sorreggono - non comprovano, ovvio - la cosiddetta pista araba per le stragi di Ustica e di Bologna. O meglio, a giudicare da quel che ormai è noto (si veda il recente libro «La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973» di Gabriele Paradisi e Rosario Priore) si dovrebbe parlare di una pista libico-araba, ché per molti anni c’è stato Gheddafi dietro alcune sigle del terrore. C’era la Libia dietro Abu Nidal, per dire, come dietro Carlos, o i terroristi dell’Armata rossa giapponese. Giovanardi e altri cinque senatori hanno presentato ieri una nuova interpellanza. Ricordando le fasi buie di quel periodo, in un crescendo che va dall’arresto di Daniele Pifano a Ortona con due lanciamissili dei palestinesi dell’Fplp, agli omicidi di dissidenti libici ad opera di sicari di Gheddafi, alla firma dell’accordo italo-maltese che subentrava a un precedente accordo tra Libia e Malta sia per l’assistenza militare che per lo sfruttamento di giacimenti di petrolio, concludono: «I membri della Commissione di inchiesta sulla morte dell’on. Aldo Moro hanno potuto consultare il carteggio di quel periodo tra la nostra ambasciata a Beirut e i servizi segreti a Roma, materiale non più coperto dal segreto di Stato ma che, essendo stato classificato come segreto e segretissimo, non può essere divulgato; il terribile e drammatico conflitto fra l’Italia e alcune organizzazioni palestinesi controllate dai libici registra il suo apice la mattina del 27 giugno 1980». Dice ora il senatore Giovanardi, che è fuoriuscito dal gruppo di Alfano e ha seguito Gaetano Quagliariello all’opposizione, ed è da sempre sostenitore della tesi di una bomba dietro la strage di Ustica: «Io capisco che ci debbano essere degli omissis sui rapporti con Paesi stranieri, ma spero che il governo renda immediatamente pubblici quei documenti».
Per gli attentati agli aerei la Libia pagò la Francia e la GB, ma per Ustica e Bologna…. L’incidente aereo al DC-9 Itavia in volo su Ustica il 26 giugno 1980 o la Strage di Ustica? Perché Gheddafi pagò per molti dei suoi crimini, ma mai all'Italia? di Antonino Arconte su lavocedinewyork.com il 29 Giugno 2020.
Antonino Arconte, autore di saggi su politica internazionale e servizi segreti, è stato un agente della Gladio “Stay Behind”, con il nome in codice di G71. Il dittatore libico Gheddafi per aver organizzato attentati terroristici contro aerei civili fu obbligato a pagare miliardi ai francesi (Air France in Niger) e anche agli inglesi (Pan Am a Lockerby), ma per la verità sulla strage di Ustica (e di Bologna) si può ancora aspettare, senza più sperare ...L’incidente aereo al DC-9 Itavia in volo su Ustica il 26 giugno 1980 o la Strage di Ustica? Come definire quel tragico avvenimento rimasto senza colpevoli come tanti altri coperti dai cosiddetti “misteri d’Italia? Ha ragione chi si dice concorde con i periti tecnici balistici che hanno identificato le prove di un’esplosione a bordo, indicando esattamente la toilette di bordo come posizione dell’ordigno esplosivo, rinvenendo anche tracce dell’esplosivo TNT-T4 anche detto Semtex, tra i rottami dell’aereo inabissatosi nel Tirreno, oppure chi tira in ballo le portaerei: prima quella americana, la Saratoga, fino a quando non fu provato incontrastabilmente che, il 26 giugno 1980, era tranquillamente in rada a Napoli e nessun caccia si era levato in volo quella mattina, si da colpire, sia pure per errore, con un suo missile, il DC-9 Itavia, poi quelle francesi, Clemenceau e Foch, nonostante fossero risultate molto lontane da lì nel mediterraneo settentrionale. Insomma, nonostante troppi si siano impegnati strenuamente per incolpare i Francesi e/o gli americani, in primis Francesco Cossiga che nel 1980 era stato nominato Primo Ministro, nonostante il disastroso default della sua gestione del Ministero degli Interni nel 1978, durante i 55 giorni successivi alla strage di Via Fani e al sequestro e omicidio di Aldo Moro da parte delle BR. Dopo decine d’anni di inchieste, perizie e controperizie, costate pare circa trecento miliardi di lire di spese processuali e recupero dei rottami, processi e contro processi, ancora oggi le massime istituzioni nazionali Italiane, continuano a sollecitare che sia fatta piena luce sulla strage di Ustica! Proprio la scorsa settimana il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che in Italia è anche Capo del CSM, ha ricordato che si dovrebbe fare luce su quella strage. Gli organi di governo della Magistratura sono nel pieno della bufera Palamara, scatenata dall’inchiesta della Procura di Perugia che ha reso pubblico quello che già tutti sapevano sulla deviazione politica delle correnti della Magistratura, dell’ANM e del CSM, suscitando più di un sospetto che proprio questa situazione, davvero incresciosa per una democrazia, sia all’origine della dimostrata incapacità di fare luce sui misteri d’Italia, tutti caratterizzati da posizioni politiche ben definite; oltre che responsabili di sentenze davvero da triplo salto mortale con piroetta per quanto risultano aberranti rispetto al solco del diritto tracciato dalle prove di cui troppo spesso manca totalmente la valutazione. In manifesta violazione del diritto comunitario e della stessa Costituzione e dal numero altrettanto abnorme di condanne dello Stato Italiano, da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, proprio per il modo in cui viene gestita la giustizia in Italia. I sondaggi odierni dicono che solo il 25% degli Italiani hanno ancora fiducia nella magistratura! Ovvio considerare, infatti, che se un istituzione così importante per una Repubblica democratica, anziché garantire la sua indipendenza da ogni condizionamento politico si dimostra, invece, completamente succube e controllata dalle sue correnti interne, tutte connesse a parti politiche rappresentate in Parlamento e che in forza di questo sottopongono i magistrati al loro ferreo controllo per carriere e trasferimenti, come dimostra anche l’inchiesta di Perugia, essa non sia in grado di fare giustizia sui crimini efferati commessi in Italia, sempre a sfondo politico e usati per la lotta politica mai interrotta tra “Guelfi e Ghibellini”, in primis la cosiddetta strategia della tensione della quale le stragi del 1980 fanno parte a pieno titolo. Qui voglio offrire una mia opinione basata su fatti certi e non deviati da alcuna ideologia politica, (io non ne seguo nessuna). Non entro nel pantano delle inchieste interne Italiane, un guazzabuglio ormai inestricabile, ma ripercorro alcuni punti certi già resi pubblici con la mia intervista a Stefano Vaccara, subito dopo la mia deposizione all’INS del giugno 1998, all’epoca redattore di America Oggi e del Magazine Oggi7 di New York, che la pubblicarono il 26 luglio 1998. L’intervista fu successivamente ripresa e completata nel Capitolo l’Affaire Maltese della mia opera autobiografica L’Ultima Missione pubblicato nel 2001. E’ vera la connessione franco americana e libica con le stragi del 1980 in Italia, ma non nei modi fuorvianti dichiarati da personaggi come Francesco Cossiga che, è giusto ricordarlo, nel 1999 era stato dichiarato persona sgradita dal governo francese e dovette rinunciare ad un viaggio in Francia perché risultato a inchieste francesi e informative dei loro servizi segreti contiguo ai terroristi dell’ETA Basca che commettevano attentati anche in Francia. L’ETA era notoriamente, fin dai tempi della Guerra civile Spagnola, un movimento armato filosovietico che perseguiva l’indipendenza dei paesi Baschi e collaborava attivamente con la Separat affidata dal KGB Sovietico alla guida dello Sciacallo, alias Carlos Ilic Ramirez Sanchez, attualmente condannato all’ergastolo in Francia anche per la strage di Marsiglia, che provocò tre morti e cinquanta feriti, unicamente perché in quel momento, Dicembre 1983, in sala d’attesa, dove esplose la valigia con l’esplosivo T-4, non c’era la stessa folla che si trovava nella sala d’attesa della Stazione di Bologna due anni prima. La Magistratura francese non fu deviata verso piste nere francesi da seguire, come accadde in Italia proprio ad opera di Francesco Cossiga che da Primo Ministro in carica, subito dopo l’esplosione, quando ancora non era certo che fosse esplosa una bomba piuttosto che una caldaia, indicò la strage fascista! Cosa poteva saperne lui in quel momento è tra i “misteri d’Italia”. Qual era il movente per il quale lo sciacallo avrebbe messo una bomba nella stazione di Marsiglia? Era stata arrestata dalla polizia francese la sua compagna, Magdalena Kopf, dalla quale ha avuto anche un figlio e uno dei suoi uomini della Separat Luca Berenguer. Lo sciacallo in un delirio di onnipotenza minacciò i francesi che se non li avessero liberati avrebbero “conosciuto il significato della parola terrore”. Frase cara al Colonnello Gheddafi che la ripeteva ad ogni anniversario della sua rivoluzione dell’Agosto 1969 e che, in quel periodo, finanziava e commissionava attentati ai gruppi palestinesi e non solo. Carlos aveva uno dei suoi covi proprio a Tripoli, dove poteva stare al sicuro da chi lo ricercava. Cominciarono così ad esplodere i treni TGV “Train Grand Vitesse” francesi, esattamente come quelli italiani. Poi la stazione di Marsiglia, esattamente come quella di Bologna. Qualche anno dopo, il 19 settembre 1989, esplose un DC-10 (charter) Air France, in volo sul Niger, un centinaio di morti. I Francesi non sono andati cazzeggiando su servizi deviati, trame nere, massoneria, sparatracchete e castagnole. Hanno fatto indagini vere non deviate da nessun politico corrotto e sono arrivati ad identificare i veri autori delle stragi. Gheddafi e Jalloud Capo di Stato Libico e capo dei suoi servizi segreti, hanno avuto l’ergastolo e Gheddafi, per evitare di ricevere la Legion Etranger a Tripoli col mandato di cattura, ha pagato l’equivalente di 170 miliardi di vecchie lire per risarcire l’Air France e i parenti delle vittime. La stessa cosa accadde per la strage dell’aereo a Lockerbye, anche in quel caso pagò Gheddafi: somme per cifre esorbitanti, circa duemila-ottocento-settanta miliardi di lire del vecchio conio, ma valide ad evitare alla Libia incidenti internazionali con Nazioni che sanno difendere i propri diritti, la sovranità e i loro cittadini. Danni pagati dagli assassini stragisti, non dal popolo francese o inglese! … E Carlos ha una collezione di ergastoli da scontare. Thomas Kramm, membro della Separat come Kopf, Berenguer e Carlos, la mattina che esplose la bomba era alloggiato in un hotel di fronte alla stazione, ma guarda un po’ quando si dice il caso! Era uno degli uomini di punta che formavano la Separat e probabilmente con gli altri era anche in Via Fani, travestiti da piloti dell’aviazione civile. Il Capo della Polizia dell’epoca, Parisi, non l’ha nascosto, l’ha segnalato, ma che fa lo Stato italiano? Niente! Cossiga era andato da Primo Ministro in piazza della stazione a sbraitare che era una strage fascista e tutti a correre dietro alle lepri di pezza nera! Chi ha letto il capitolo L’affaire Maltese, sull’Ultima Missione e online dal 1996, sa bene di cosa scrivo e chi ha letto Bengasi e dintorni è ben informato di tutto questo, sono decine di migliaia di italiani, ma niente in confronto ai milioni indottrinati da questi media. Diceva nel 1785 Thomas Jefferson, padre fondatore della Costituzione degli Stati Uniti d’America e autore del primo emendamento sulla libertà di stampa: “I governi dispotici hanno bisogno di un esercito di giornalisti che scriva il falso, in modo che il popolo non sappia più distinguere ciò che è vero da ciò che è falso!” Attuale più che mai in Italia. Il mondo intero sa che in Italia la libertà della stampa, intesa come media in genere, è agli ultimi posti, vicini in classifica al Ruanda Burundi! Ecco perché lo definisco Stato canaglia. Perché è controllato da canaglie e, dunque, agisce come una canaglia… Come altro potrebbe agire? Ovviamente senza dimenticare i tanti che vi si oppongono, anche internamente alle istituzioni, spesso pagando con la vita la loro lealtà alla Patria tradita da questo Stato. Non è tutto qui, non c’è mai limite al peggio quando un popolo abdica il potere che gli viene dalla democrazia alle bande bassotti! Le definisco ironicamente così, proprio quelle di Walt Disney. Jalloud, l’ex capo dei servizi segreti libici, autore anche di parecchi omicidi di dissidenti che noi avevamo esfiltrato in Italia sotto falsi nomi, rivelati dagli onnipotenti Cossiga e Andreotti ai libici in cambio di qualche cisterna in nero di sano petrolio, è scappato in Italia dai suoi compagni di merende per sfuggire alla rabbia dei ribelli insorti quando fu defenestrato e linciato Gheddafi. Lo stesso Cossiga, ma anche il senatore Pellegrino, presidente della Commissione stragi degli anni ’90, ammise che erano a conoscenza che i suddetti Ministri in carica diedero ordine al Generale Jucci di consegnare a Jalloud l’elenco dei rifugiati a Roma che furono tutti torturati e uccisi! … tanto, chi ci fa caso in Italia che si tratta di alto tradimento e di crimini contro l’umanità? Appena arrivato in Italia, alla caduta del regime di Gheddafi di cui faceva parte, è stato preso in custodia dagli agenti dei servizi segreti, su ordine dei governi italiani che si preoccupano che non gli succeda niente, soprattutto che gli scappi di dire qualcosa sulle stragi cui hanno partecipato con i traditori della Patria e da allora è sparito nel nulla, sicuramente ben mantenuto con i soldi delle nostre tasse. In Italia si può fare e dire di tutto che tanto il popolo continua a ruminare come se niente fosse … poi, agli anniversari lo svegliano e si agita chiedendo la verità. Ormai… non ci resta che ridere! La situazione conflittuale tra la Francia e la Libia ebbe origine allorquando Gheddafi decise di invadere il Ciad che chiese aiuto alla Francia che mandò la Legion Etranger che costrinse l’armata libica a fare marcia indietro e liberare le terre già invase del CIAD. Gheddafi perseguiva il suo improbabile progetto egemonico di unità Africana e si legò al dito l’ingerenza francese. La sua risposta fu la bomba sul DC-10 Air France esploso in volo sul Niger. Le prove raccolte in loco dimostrarono che era esplosa una bomba e identificarono anche la valigia che la conteneva e da li fu facile risalire ai responsabili che furono condannati all’ergastolo. Gheddafi reclamò la sua immunità di capo di Stato ma i francesi la disconobbero accettando, però, in cambio della mancata esecuzione del mandato di cattura che sarebbe costato una guerra, il pagamento alle vittime di 170 miliardi di vecchie lire dell’epoca, era il 1999. La stessa cosa accadde per la strage di Lockerbye per il volo della Pan Am, esploso in volo in Gran Bretagna. Fu identificato l’autore, un agente segreto della Libia di Gheddafi, condannato all’ergastolo. La Libia dovette risarcire i danni alla compagnia aerea e alle vittime dell’attentato con il corrispondente di duemilaottocento miliardi di lire Italiane dell’epoca, per evitare i bombardamenti della US Air Force.
Quale connessioni con le stragi del 1980 di Ustica e Bologna? Nell’affaire Maltese ripercorro quei giorni e quei mesi, a cominciare dalla riconsegna a Gheddafi degli elenchi dei dissidenti che avevamo rifugiato a Roma in attesa di tornare a Tripoli il 6 Agosto 1980, quando ribelli al Regime Libico avrebbero spodestato il Colonnello Gheddafi riportando la Libia alla democrazia. Quei rifugiati, alcuni uccisi a Roma, altri portati in Libia, torturati e costretti a parlare, provocarono la morte di millecinquecento ribelli e non ci fu nessuno spodestamento del regime di Gheddafi, già nell’Agosto 1980. A Malta in quella primavera la Libia cercava di annetterla forte del favore di una gran parte della popolazione di origine libica e del fatto che, dopo la fine del trattato con gli Inglesi, richiesto da Dom Mintoff, la base navale Inglese era libera di ospitare un’altra flotta e dietro a Gheddafi c’era l’URSS in cerca di una base per la Sovmedron, la flotta sovietica del Mediterraneo confinata a Sebastopoli, nel Mar Nero. Erano i sovietici a spingerlo alle operazioni di annessione di Malta. Avevano bisogno di una base nel Mediterraneo e Malta era perfetta. Il progetto Libico e Sovietico non riuscì, ostacolato dalla diplomazia Italiana e dalla NATO che offriva a Dom Mintoff aiuti per 90 milioni di dollari all’anno per mantenere la neutralità Maltese e li ebbe.
La stazione di Bologna il due agosto 1980. Il trattato fu firmato dal Ministro degli esteri Zamberletti, Bolognese, proprio la mattina del 2 Agosto 1980, esattamente alla stessa ora dell’esplosione della stazione di Bologna! Lo stesso Ministro Zamberletti scrisse un libro, La Minaccia e la Vendetta descrivendo la minaccia nell’attentato di Ustica, dal movente simile a quello del DC-10 Airfrance di qualche anno dopo, e la vendetta nell’attentato di Bologna, contemporanea alla firma di quel trattato che escludeva per sempre Gheddafi dal controllo dell’Isola. E’ innegabile che l’unico movente valido a quelle stragi sia questo! Quale motivo potevano avere Mambro e Fioravanti e gli altri imputati condannati per commettere un simile crimine contro l’umanità? Nessuno ne ha mai potuto formulare alcuno e questo rende il tutto ancora più inverosimile. Quale movente potevano avere i depistatori dalla vera pista libica? Semplice, i traffici di petroli con Gheddafi che scaricava navi cisterne da decine di migliaia di tonnellate di greggio ad Agusta in Sicilia, senza richiedere alcuna ricevuta e che volevano continuare indisturbati. Fu chiamato “Scandalo dei petroli”, ma l’inchiesta non approdò mai a nulla … Quando si dice il caso!
Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi.
41ª SEDUTA, martedì 29 settembre 1998. Presidenza del Presidente PELLEGRINO.
Indice degli interventi:
PRESIDENTE
NEBBIOSO
ROSELLI
SALVI
FRAGALA' (AN), deputato
GUALTIERI (Dem. di Sin.-l'Ulivo), senatore 1 - 2 - 3
MANCA (Forza Italia), senatore
TARADASH (Forza Italia), deputato
La seduta ha inizio alle ore 19,35.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta. Invito la senatrice Bonfietti a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.
BONFIETTI, segretario, dà lettura del processo verbale della seduta del 22 luglio 1998.
PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato. E’ approvato. Approfitto dell'occasione per dare il benvenuto alla collega Li Calzi, che vedo per la prima volta ai nostri lavori, con l'augurio di vederla spesso, perché - come lei potrà constatare - questa Commissione non è molto frequentata.
COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE. PRESIDENTE. Comunico che il consulente, dottor Libero Mancuso, ha depositato un elaborato contenente una cronologia sui depistaggi relativa al periodo 1969-1975.
INCHIESTA SULLE VICENDE CONNESSE AL DISASTRO AEREO DI USTICA: AUDIZIONE DEI DOTTORI SETTEMBRINO NEBBIOSO, VINCENZO ROSELLI E GIOVANNI SALVI, SOSTITUTI PROCURATORI DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'audizione dei dottori Nebbioso, Roselli e Salvi. Ricordo che nell'ultima seduta abbiamo ascoltato il dottor Salvi, il quale si è soffermato in particolare sulla ricostruzione delle indagini sul relitto e ancor più sull'esame compiuto dall'ufficio della Procura di tutte le perizie radaristiche per spiegarci la prima parte della loro requisitoria. Quindi, in questa seconda parte noi attendiamo di conoscere una sintesi delle ragioni che hanno indotto la Procura, pur nell'impossibilità di accertare l'eziologia del disastro del DC9, a formulare gravi imputazioni nei confronti del vertice dell'Arma aeronautica. Ovviamente, questo profilo molto più dell'altro interessa la nostra Commissione. Mi sembrerebbe difficile, infatti, che una Commissione d'inchiesta parlamentare possa andare più in là dell'autorità giudiziaria in un'indagine di carattere tecnico, come quella sul relitto o quella sui tracciati radaristici. Invece, inserire in una prospettiva d'insieme - anche perché l'oggetto dell'inchiesta di questa Commissione è amplissimo - una valutazione dei comportamenti dell'amministrazione rientra proprio nei compiti della Commissione d'inchiesta. Pertanto, do la parola al dottor Salvi, il quale voleva concludere l'esposizione iniziata la volta scorsa.
SALVI. Signor Presidente, volevo terminare il mio discorso su un punto che può essere interessante per la Commissione in relazione alle questioni tecniche e poi affrontare il tema delle imputazioni relative ai servizi di sicurezza. Sulle altre imputazioni, poi, interverranno i colleghi. Per ciò che concerne le questioni tecniche, mi premeva sottolineare che la difficoltà maggiore incontrata per l'interpretazione dei dati radaristici, sia dalla commissione Luzzatti (cioè la commissione tecnico-formale costituita dal Ministero dei trasporti per l'individuazione delle cause del disastro) sia successivamente dai diversi collegi peritali, fu costituita da quella che noi abbiamo indicato come l'opposizione "di fatto" del segreto, cioè la non comunicazione di informazioni relative alle interpretazioni dei dati radaristici. Ciò ha rappresentato, quindi, come la commissione Luzzatti ed i periti nel tempo hanno indicato, uno degli ostacoli più gravi. In altri termini, il fatto che per esempio all'interno dei nastri di Marsala fosse possibile ottenere informazioni ulteriori rispetto a quelle che erano state fornite nel 1980 è stato frutto di un lavoro investigativo. Man mano che si arrivava a conoscere qualcosa di più del funzionamento del sistema che era coperto dal segreto di Stato si formulavano delle domande e si ottenevano delle risposte. Naturalmente, per poter formulare delle domande bisogna sapere che vi sono delle cose che possono essere chieste. Tali informazioni essenziali non furono fornite e questa è la ragione per cui nella requisitoria parliamo di una opposizione di fatto del segreto a fianco di una opposizione formale. Con ciò termino la parte relativa alla questione tecnica; mi sembrava importante fornire questo elemento ulteriore di riflessione sul nostro lavoro. Il lavoro non più tecnico, invece, ha riguardato sia le ipotesi di connessione possibile con la strage di Bologna e quindi l'individuazione di una causale collegabile con quella di Bologna, sia le condotte mantenute verso gli organi di informazione (questi due aspetti sono strettamente intrecciati). Al riguardo è stato compiuto un lavoro molto intenso, quanto meno a partire dal 1990, in stretto collegamento con le Procure della Repubblica di Firenze e di Bologna, soprattutto, e con gli uffici istruzione, per esempio di Venezia, che continuavano in istruzione formale. E’ stato svolto un lavoro molto intenso, come dicevo, per cercare di ricostruire elementi di collegamento a partire da un dato di fatto, cioè che questo collegamento non era meramente ipotetico, cioè non era prospettato solo come ipotesi investigativa, ma risultava almeno da un dato di fatto obiettivo e cioè l'indicazione di Affatigato per tutte e due le stragi, del 2 agosto e del 27 giugno, come persona coinvolta, implicata. Quindi, noi abbiamo lavorato molto a partire da questo primo collegamento oggettivo. Un secondo collegamento oggettivo è l'identità degli esplosivi. Anche questo è un elemento importante e non si tratta di una mera ipotesi investigativa. E’ un dato di fatto che, però, non ha un valore univoco, perché i quantitativi infinitamente bassi di esplosivo rinvenuti sui reperti del DC9, a parte quegli elementi di perplessità di cui parlavo prima, coincidono almeno in parte con quelli di Bologna. Per Bologna probabilmente vi erano delle addizioni, che probabilmente però dipendevano dai meccanismi di innesco e quindi vi è una possibile compatibilità ipotetica. Non è però assolutamente possibile determinare le quantità relative, in considerazione dei nanogrammi individuati nei reperti del DC9. Quindi, a partire da questi due elementi obiettivi sono state fatte delle indagini accurate per verificare se vi fossero prove dirette di un collegamento e, una volta individuate le prove dirette, vedere quale fosse la priorità logica delle due stragi, al di là di quella temporale e cioè se l'una fosse causa e movente dell'altra e quale ne potesse essere la ragione reciproca. Sono stati individuati molti elementi - e noi ne diamo conto dettagliatamente nella requisitoria -, molti principi di prova e di collegamenti. Nessuno però ha raggiunto la dignità della prova dell'esistenza di un collegamento che andasse al di là di quei due che ho indicato. Vi è un altro collegamento interessante, che è quello di Del Re, che abbiamo sottolineato, quel soggetto coinvolto in un tentativo di colpo di Stato in Libia. Al di là di ciò che egli afferma nelle sue dichiarazioni, egli è risultato in stretto contatto con Roberto Rinani - cioè una delle persone imputate per la strage di Bologna e assolte in secondo grado, se non sbaglio (non ricordo bene, ma comunque è scritto nella requisitoria) - persona a sua volta indicata come in stretto collegamento con Massimiliano Fachini. Del Re non è un estremista di destra, non è coinvolto in movimenti di estrema destra. Sta di fatto che era a queste persone strettamente collegato. Quindi abbiamo individuato un ulteriore elemento di collegamento obiettivo, che però è di per sé ambiguo, in quanto non ci dà nessuna spiegazione - ancora una volta - sulla priorità logica eventuale dei due fatti. Sempre in relazione al golpe di Tobruk abbiamo avuto delle indicazioni di un possibile coinvolgimento libico nella perdita del DC9, questa volta però come frutto dell'abbattimento del DC9 da parte di un pilota libico. Non è stato possibile verificare neanche questa indicazione, anche a causa della mancanza di collaborazione della Libia che non ha mai risposto alla nostra richiesta di collaborazione internazionale. Un ulteriore elemento di collegamento possibile tra i due episodi è venuto dalle dichiarazioni di Francesco Di Carlo, un esponente di Cosa Nostra di alto rilievo, che ha collaborato. Egli ha affermato che durante la sua detenzione in Inghilterra ha ricevuto informazioni da Hindawi, soggetto coinvolto in vari attentati terroristici, tra cui il terribile attentato fallito nei confronti di un aereo israeliano consumato addirittura consegnando una radio bomba alla propria fidanzata, incinta di lui. Hindawi aveva consegnato alla sua compagna, che ne era inconsapevole, una bomba affinché la portasse sull'aereo ed esplodesse con lei mentre era a bordo. L'attentato non riuscì solo perché fu scoperto nel momento in cui la ragazza saliva sull'aereo. Quindi si tratta di un soggetto veramente impressionante. Hindawi, secondo Di Carlo, gli aveva confidato di essere un agente dei servizi segreti dei paesi arabi, in particolare anche libico, e che il DC9 era stato abbattuto nel corso di una battaglia aerea e che la successiva strage di Bologna era da ricollegarsi a questo episodio. Quindi erano estranei i soggetti che poi erano stati condannati. Interrogato per commissione rogatoria, Hindawi ha assolutamente negato di aver mai fatto confidenze a Di Carlo; ha anche oltraggiato i magistrati che si erano recati ad interrogarlo. Sta di fatto che parlando con gli agenti della polizia britannica che lo avevano interpellato sulla sua disponibilità a rendere l'interrogatorio, e che poi ne hanno fatto relazione, contrariamente a quanto aveva detto all'autorità italiana, ha invece ammesso di essere un agente dei servizi segreti di paesi arabi e in particolare di essere stato addestrato in Libia. Però anche questo elemento non ha potuto avere alcuno sviluppo. Va tenuto presente che Di Carlo - non entro nei particolari, ma cerco di farvi comprendere la difficoltà di tutti questi accertamenti - ha anche errato nel fare un riferimento a Sebastiano Mafara come soggetto che si trovava a bordo dell'aereo, mentre invece il Mafara si trovava a bordo dell'aereo che è precipitato nel 1979 a Palermo e non ad Ustica. Il complesso delle investigazioni molto approfondite non è andato oltre un quadro di compatibilità in cui è possibile sia l'ipotesi del collegamento (Bologna commesso per coprire Ustica, Ustica episodio di battaglia aerea) sia l'interpretazione opposta: Ustica messaggio non avvertito, quindi attentato terroristico, e Bologna messaggio finalmente compreso. Questo ci ha portato ad esaminare il problema dei rapporti italo-libici, che abbiamo esaminato nei limiti di nostra competenza, quelli di verificare se vi fosse una ragione di un intervento libico nel giugno-agosto 1980. Abbiamo individuato una fortissima situazione di tensione, episodi di contrasto-appoggio, a seconda dei momenti, tra il nostro servizio di sicurezza militare e gli apparati libici, la consumazione di attentati in Italia, il crescere di una situazione di tensione che va a maturare a fine giugno e che proprio il 2 agosto ha un momento di sanzione importante, appunto la firma del trattato Italia-Malta, con un elemento anche suggestivo, che è quello dell'ora della firma che coincide con quella dell'esplosione della bomba di Bologna. Anche in questo caso vi è un quadro di compatibilità, che però rimane abbastanza aperto, circa l'effettiva riconducibilità all'attentato di Bologna e al collegamento effettivo con l'episodio del 27 giugno. Avviandomi rapidamente alla conclusione per lasciare la parola ai colleghi, vorrei spiegare perché dicevo che il collegamento Bologna-Ustica ci porta subito alla questione dei servizi di informazione. Ciò accade perché in realtà noi non sappiamo se vi è un collegamento obiettivo al di là dei due che ho indicato. Certamente un collegamento viene costruito dal centro SISMI di Firenze, dal colonnello Mannucci Benincasa, utilizzando Ustica nel contesto di un'operazione di gravissima interferenza con le indagini di Bologna. Abbiamo ricostruito questo episodio anche ricollegandoci alle indagini che sono state fatte a Bologna sul complesso di queste condotte e abbiamo individuato quello che ritengo un elemento molto significativo per una valutazione sul modo in cui questi apparati hanno operato nel 1980 e negli anni seguenti. Abbiamo individuato modalità assolutamente scorrette, al di là di qualunque valutazione di carattere penale, consistenti nel fornire indicazioni molto spesso false attraverso lettere anonime, attraverso telefonate anonime, attraverso la formazione di false informative, attraverso il fatto di aver fornito ai giornalisti delle informazioni false che poi venivano utilizzate per essere riciclate all'interno del servizio come informazioni che venivano avvalorate e nuovamente ripresentate. Circostanze queste che, al di là dell'elemento soggettivo, sono acclarate anche per essere state in buona parte ammesse dalle persone che le hanno poste in essere. Si è trattato di un'attività che non ha riguardato solo Bologna e Ustica. Nello stesso periodo vengono poste in essere per l'omicidio di Pecorelli con le stesse modalità, cioè telefonate anonime fatte agli organi inquirenti per indirizzarli in una maniera piuttosto che in un'altra, fornendo falsa documentazione di vario genere e informazioni che portano gli inquirenti su determinate piste, non ha importanza se giuste o sbagliate, ma su delle piste che vengono fornite in questa maniera assolutamente scorretta. Mentre c'è un'intensa attività di carattere informale, tutto ciò che noi abbiamo di formale dagli archivi del servizio di informazione è poco di più di una rassegna stampa. In questo caso il SISMI, ma soprattutto il SISDE, ha poco più che una rassegna stampa. Abbiamo anche quantificato il numero dei ritagli stampa presenti negli archivi del SISDE sulla vicenda di Ustica e quindi possiamo verificare che per esempio in un arco di tempo di molti anni, durante i quali si verificano tutte le più importanti controversie anche pubbliche sulla vicenda di Ustica, il SISDE ha nel suo archivio esclusivamente ritagli di stampa o poco di più. Così abbiamo il dubbio, anche se naturalmente non lo possiamo provare, che in realtà vi sia un'attività non documentata in alcuna maniera. Mentre per il SISDE non è stato possibile provarlo, credo che questo sia stato documentato e provato per ciò che riguarda il SISMI. Per quest'ultimo siamo riusciti ad arrivare anche al sequestro sia di un archivio occulto, il cosiddetto archivio Cogliandro, sia a ricostruire, attraverso le tracce di protocollo, l'esistenza presso il raggruppamento centro CS di Roma di un ulteriore archivio, diverso da quello Cogliandro, di cui abbiamo parlato. Anche questo in parte è stato versato nell'archivio principale, ma non sappiamo in quali termini, con quale completezza, in quale maniera. Quindi abbiamo potuto verificare che in realtà, parallelamente alla produzione ufficiale di documentazione di attività informativa, aveva luogo un'attività molto ampia di raccolta di informazioni, che addirittura ha seguito una catena di fedeltà - anche questa parallela e diversa da quella istituzionale - che ha continuato, nonostante i mutamenti nei vertici dei servizi, cioè quando per esempio Lugaresi diventa direttore del Servizio la catena di solidarietà lo scavalca e segue il suo corso; quando Martini non è più direttore del Servizio la catena di solidarietà continua e il rapporto dell'ex capocentro Cogliandro continua direttamente con l'ammiraglio Martini che utilizza personalmente (per questo fatto è pendente attualmente un procedimento davanti alla settima sezione del Tribunale di Roma) queste informazioni senza riversarle all'archivio del Servizio. Devo anche dire, perché questo è giusto in quanto non sarebbe altrimenti completa la mia analisi, che abbiamo invece notato un profondo mutamento nell'atteggiamento sia del Servizio di informazioni per la sicurezza militare, che ha collaborato fornendo documentazioni e facendo ricerche nei propri archivi, sia anche da parte degli altri organismi internazionali, che negli ultimi anni hanno sicuramente modificato quell'atteggiamento che indicavo poc'anzi. Un aspetto particolare della difformità tra il documentato e ciò che si è verificato noi abbiamo ritenuto di individuarlo in ciò che si verifica nel luglio-agosto del 1980. C'è un'intensa attività di raccolta di informazioni che solo in parte viene documentata e che in parte viene individuata nei rapporti tra SIOS e SISMI attraverso appunti informali e ricostruzioni di incontri che si verificano tra rappresentanti del SISMI e del SIOS intorno a possibili ipotesi di collegamento tra il rinvenimento del MIG-23 e il fatto del DC9. Anche in relazione a queste condotte noi abbiamo ritenuto che vi fossero dei reati strumentali, diciamo dei reati di falsa testimonianza, per i quali abbiamo chiesto alcuni rinvii a giudizio. Quindi, in conclusione, e poi parleranno i colleghi sia del MIG-23 sia della questione relativa alle imputazioni principali, quelle che riguardano l'articolo 289 del codice penale e reati collegati, il quadro complessivo intorno a questo fatto è un quadro di attività informativa condotta in maniera scorretta e con una documentazione solo parziale e di un atteggiamento non cooperativo di alcuni esponenti di queste istituzioni che ha comportato l'elevamento di tali imputazioni. Ripeto, si tratta di condotte che poi a un certo punto hanno avuto termine e che si sono trasformate in una collaborazione fattiva rispetto alla quale non abbiamo da muovere rilievi, ma anzi apprezzamenti.
PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Salvi per il completamento della sua esposizione e do la parola al dottor Roselli.
ROSELLI. Non è seriamente contestabile che nell'ambito delle singole imputazioni contestate dalla procura della Repubblica di Roma l'accento logico cada soprattutto sull'imputazione ex articolo 289 del codice penale, l'attentato agli organi costituzionali, sub specie soprattutto del Governo, che, come è noto, è stata contestata a quelli che erano all'epoca i vertici dell'Aeronautica militare, il Capo di Stato Maggiore, il sottocapo, il capo del SIOS, il capo del Terzo Reparto che è quello addetto soprattutto al controllo della sicurezza del volo. Ciò che preme sottolineare in questa sede, anche per replicare a talune polemiche apparse sulla stampa nell'immediatezza del deposito della requisitoria del pubblico ministero, è che non vi è contraddizione tra il fatto che il nostro ufficio non abbia dato una risposta esaustiva, quantomeno allo stato, in ordine alle cause della perdita del DC9 e la richiesta di rinvio a giudizio in ordine al grave delitto ex articolo 289 del codice penale. E ciò perché, come ampiamente puntualizzato all'inizio della parte terza della requisitoria, ma come già detto nel lontano dicembre 1991, quando questo ufficio esercitò l'azione penale per l'articolo 289 del codice penale, vi è proprio autonomia sia sul piano logico che su quello giuridico tra la configurabilità di siffatto delitto e l'accertamento preciso della causa della perdita dell'aereo. In altri termini, una volta ritenuta la sussistenza di condotte omissive devianti da parte di alcuni esponenti dell'Aeronautica militare, condotte volte a limitare anche in parte l'attività di Governo, il reato persiste lo stesso quale che sia poi la causa - ripeto, allo stato non si è potuta individuare precisamente - della caduta dell'aereo. Sul punto va qui ricordato che la requisitoria ampiamente si diffonde, quindi parlo ovviamente per rapida sintesi. Come noto, sin dalla stessa notte tra il 27 e il 28 giugno 1980, nell'ambito dell'Aeronautica militare tutte le sedi periferiche, ma anche a livello degli uffici dello Stato Maggiore preposte alla raccolta dei dati immediati (parliamo soprattutto della sala operativa che è ovviamente in strettissimo contatto con i vertici dello Stato Maggiore) si determina una situazione di allarme. Si avanza l'ipotesi non solo della collisione ma anche dell'esplosione, anche di carattere esterno. Si ha da più fonti la netta percezione della presenza di traffico militare americano nella zona del sinistro e si avviano immediatamente contatti con organi americani e con alcune basi - si cerca, ad esempio, a Sigonella - ma soprattutto con l'addetto militare dell'ambasciata americana, per poter avere conferma di siffatta presenza. Si parla espressamente di una possibile presenza di una portaerei. Sul punto abbiamo fonti testimoniali e registrazioni delle telefonate, quelle che si è potuto recuperare e, come vedremo in seguito, dati peritali.Questa situazione di allarme e incertezza persiste nei giorni successivi, anche quando le autorità alleate danno poi risposte rassicuranti circa la mancanza di traffico militare e circa la presenza nelle basi di tutti gli aerei, in quanto, come già accennava il collega nella seduta scorsa, l’interpretazione dei dati radar immediatamente acquisiti legittima questo forte dubbio sulla presenza di un secondo aereo. Quindi, questa situazione di ricerca e di grossa perplessità e di allarme continua a persistere: poi, come vedremo tra poco, trae ulteriore linfa dalla di poco successiva vicenda del rinvenimento del MIG libico sulla Sila. Coevamente a siffatta situazione di allarme, si determinano poi tutta una serie di carenze documentali estremamente gravi che questo ufficio ha lumeggiato ampiamente nelle prime pagine della terza parte della requisitoria, delle quali ampiamente si è detto sulla stessa stampa. Carenze che sono troppo estese, numerose e convergenti per ritenere che, quanto meno in parte, non siano frutto di sciatteria, dimenticanza o trascuratezza, ma di soppressione dolosa. Basti pensare, ad esempio, che presso la sala operativa dello Stato Maggiore dell'Aeronautica, che quella notte era punto nevralgico di raccolta di tutte le informazioni, manca il brogliaccio delle telefonate del sottufficiale di servizio che pure, dalle poche telefonate da altri siti che abbiamo raccolto, risulta che ne abbia avute moltissime quella notte. Inoltre, il registro dell'ufficiale di servizio - la persona immediatamente sovraordinata, che è quella che poi è a diretto contatto con i maggiori esponenti dell'Aeronautica - appare chiaramente redatto in un successivo contesto. Tracce d'alterazione di registri le abbiamo alla base di Marsala e anche - se non sbaglio - a Poggio Renatico: vi sono proprio dei fogli strappati in corrispondenza di fogli attinenti alle registrazioni di quella notte. Per non parlare dei nastri delle telefonate, alcuni dei quali - non si tratta ovviamente d'intercettazioni e questo è un equivoco sorto spesso; si tratta in realtà delle registrazioni normali che sono effettuate dalle telefonate tra le varie basi dell'Aeronautica e anche quella di Ciampino, che era ancora sotto il controllo dell'Aeronautica militare, oppure tra le basi e gli aerei - sono stati recuperati, ma non nella loro integralità. L'esempio più eclatante è Ciampino, che aveva ben otto piste. Ebbene, di queste otto piste sono stati poi consegnati all'autorità giudiziaria solo tre nastri, benché vi sia prova che gli altri furono quantomeno letti dalla Commissione nominata dal Ministro dei trasporti Luzzatti. Questi altri cinque nastri mancanti, che sono importanti perché concernono soprattutto i rapporti tra Ciampino e le varie basi dell'Aeronautica militare, non sono mai stati consegnati all'autorità giudiziaria. Da un frammento non del nastro, ma del testo della trascrizione di una conversazione acquisita dalla commissione Luzzatti che attiene alle telefonate tra Ciampino e Siracusa, si evince che dovevano essere conversazioni interessanti, perché si parla - ad esempio - di traffico militare avvenuto circa mezz'ora dopo il sinistro. Mancano le telefonate di Licola, che pure quella notte - per quel poco di telefonate che abbiamo da altri siti - ebbe un ruolo molto importante nella vicenda; erano telefonate che, a parte i decreti di sequestro della magistratura, dovevano comunque essere conservate perché attenevano al traffico, ad un incidente aereo (anche in base alla normativa interna avrebbero dovuto essere conservate). Dico questo solo per ricordare i casi più eclatanti. Termino parlando dei nastri di Poggio Ballone, che è un sito estremamente importante perché segue il traffico del DC9 poche decine di minuti prima del sinistro; se non ricordo male, il suo raggio d'azione arriva circa a Ponza. Ebbene, sulla base delle posizioni testimoniali acquisite, risulta che i nastri di Poggio Ballone furono poi inviati all'autorità giudiziaria (al centro di raccolta). Tuttavia, ad un certo punto detti nastri si perdono per strada e non vengono più ritrovati (questo è oggetto di specifici capi d'imputazione, anche se in parte prescritti). Lo Stato Maggiore - riprendo il discorso di prima - si attiva e fa anche un'inchiesta formale interna, della quale non è rimasta traccia, e sente i controllori di volo. Tuttavia, a fronte di questo suo intenso attivismo, nulla emerge sul piano ufficiale. In altri termini, non dico all'autorità giudiziaria ma a quella governativa, che ne faceva espressamente richiesta, di tutta questa situazione d'allarme e di perplessità, di questa intensa inchiesta interna effettuata, nulla viene assolutamente segnalato.In particolare, non viene segnalato il fatto che questa sollecitazione alle autorità alleate in ordine alla presenza o meno di aerei, di traffico militare americano, sia venuta dall'interno stesso dell'Aeronautica, che ha sollecitato le autorità americane, e non si sia trattato di risposte di routine date di proprio impulso dalle autorità straniere. Nulla di questo è stato comunicato. I più importanti esponenti politici sentiti al riguardo - l'allora ministro Lelio Lagorio e l'allora Presidente del Consiglio Cossiga - hanno espressamente detto, e più volte in sede di deposizioni testimoniali, che, se il Governo fosse stato reso edotto di questo stato di fatto, cioè di questa situazione di allarme determinatasi quella notte, nei giorni e nelle prime settimane successive all'interno dell'Aeronautica, diversa sarebbe stata ovviamente la reazione. Si sarebbero attivati dei canali diplomatici e non vi sarebbe stato, invece, quell'allinearsi sull'ipotesi - inizialmente ritenuta più credibile - del cedimento strutturale che determina una sostanziale situazione di inerzia da parte del Governo. Orbene, che cosa in realtà da parte di taluni esponenti dell'Aeronautica militare si intendeva coprire? Sul punto, il nostro ufficio è stato piuttosto chiaro nelle parti finali di questa parte della requisitoria relativa all'articolo 289 del codice penale (pagine 555 e seguenti della requisitoria). Riteniamo, in primo luogo, che siano stati acquisiti elementi sufficientemente validi per giustificare un'adeguata istruttoria dibattimentale, per ritenere che vi fosse quella notte una situazione che non possiamo definire di guerra nascosta o di guerra informale, ma certamente di movimenti militari non riconducibili a delle mere esercitazioni non segnalate (prassi che era piuttosto diffusa, soprattutto da parte degli americani); un qualcosa di più inquietante che si poteva benissimo collocare in quel contesto internazionale piuttosto agitato e tormentato, del quale ha già parlato il collega Salvi. Nell'ambito di circa tre ore, prima, durante e dopo l'incidente - per questo argomento rimando alla requisitoria - emerge la presenza di traffico militare non segnalato, ma sia ben chiaro: non necessariamente americano. Faccio un esempio per tutti, che da questo punto di vista è il più significativo e fa ritenere che bisogna andare - a giudizio dell'ufficio - al dibattimento per poter fare finalmente chiarezza e vedere soprattutto se certe rogatorie internazionali, che fino adesso - malgrado l'intervento del Governo - non hanno avuto esito, possano da un rinvio a giudizio avere un rinnovato impulso: il nostro ufficio ritiene ormai probatoriamente acquisito il fatto che quella notte nel Mediterraneo operasse una portaerei. Esiste una pluralità di fonti: dalle telefonate alle deposizioni testimoniali, dai dati radaristici fino al sia pur tardivo, ma utilissimo, intervento della NATO; quest'ultima, grazie anche alle sollecitazioni a livello internazionale intervenute da parte della Presidenza del Consiglio, ha collaborato nel corso di tutto il 1997, concludendo con il suo pool di esperti che c'era la presenza di un traffico volatile indicativo della probabilissima presenza di una portaerei nel Mediterraneo. Tutte le fonti ufficiali non solo italiane, ma soprattutto internazionali, allertate sul punto, avevano sempre negato l'esistenza di un portaerei. Sulla Saratoga il nostro ufficio, ma soprattutto quello del giudice istruttore, ha svolto un'intensa attività ed ha appurato che la Saratoga non poteva certamente essere, perché era in rada a Napoli. Sappiamo che erano operative altre portaerei; per quanto riguarda quelle francesi, come per esempio la Clemenceau, c'è sempre stato categoricamente detto che erano nei rispettivi porti francesi. A questo punto è chiaro che questa totale negazione contro queste evidenze probatorie circa una presenza di portaerei nel Mediterraneo lascia aperto un grande interrogativo in merito all'esistenza di un qualcosa di militare, che non può ricondursi ad una mera esercitazione, a rivelare la quale - sia pure non segnalata - non vi sarebbe stato alcun ostacolo; e ciò vale anche per quelle presenze di altri aerei militari. Tuttavia, questa esistenza è stata sempre negata. In secondo luogo, anche a voler ritenere astrattamente che non sia assolutamente probabile, ma costituisca mero sospetto, la presenza di operazioni militari occulte, il reato è ugualmente configurabile, in quanto - per quanto detto in precedenza - il solo fatto che nell'ambito dell'Aeronautica si fosse radicato il sospetto che c'era qualcosa di irregolare, e che questa convinzione sia stata occultata al Governo, implica il reato. Basti pensare, per fare un esempio unico tra tutti, quale sarebbe potuto essere l'atteggiamento del Governo per ciò che attiene la famosa questione dell'Itavia, se subito fosse stata rivelata questa situazione di allarme - che certamente non avrebbe consentito di parlare di cedimento strutturale, ma che avrebbe ricondotto certamente la causa del sinistro ad ipotesi più gravi - ben diverso sarebbe stato l'atteggiamento del Governo in ordine ad un fatto che aveva rilevanza nazionale, quale il fallimento o la messa in liquidazione dell'Itavia. Per ciò che concerne le altre imputazioni, che sono essenzialmente falsa testimonianza, falso per soppressione e favoreggiamento personale, esse sono in gran parte, tranne alcune, maturate in epoche più recenti, prescritte oppure, parlo per falsa testimonianza, estinte per quella speciale causa di non punibilità rappresentata dalla ritrattazione. Su queste vorrei mettere in luce un unico dato che è...
PRESIDENTE. Dottor Roselli cronologicamente si situano molto dopo?
ROSELLI. Sì, in gran parte maturano tra il 1986 fino a dopo il 1990.
PRESIDENTE. Sono quindi una conseguenza del reato "padre"?
ROSELLI. Sostanzialmente direi di sì. Dicevo quindi di un unico dato che è comune e che in qualche modo si ricollega al reato di cui all'articolo 289 del codice penale. Tutti i protagonisti di questa vicenda, a diverso titolo e diverso livello di responsabilità, dagli avieri e sottufficiali di Licola e Marsala fino a salire al gradi maggiori, richiesti di notizie o di informazioni su questa vicenda, si caratterizzano innanzi tutto per una sostanziale negazione di sapere alcunché della vicenda. In taluni casi, si arriva a negare di essere stati presenti quella notte al posto di lavoro. Quando poi l'autorità giudiziaria man mano, faticosamente, contesta (in base, ad esempio, alle telefonate finalmente trascritte) che quanto da loro affermato non era vero, fanno faticosamente un'ammissione, ma solo nei limiti di ciò che emerge da quanto gli è stato contestato. L'autorità giudiziaria continua nella sua ricerca, acquisisce nuovi elementi, nuove contestazioni e nuovi interrogatori e anche qui faticosamente, ma non sempre, si ammette, ma solo ciò che viene contestato. C'è un sostanziale atteggiamento di chiusura che non può giustificarsi sempre o soltanto con un vuoto di memoria. Ci sono addirittura casi in cui questo atteggiamento persiste contro ogni evidenza: il capo controllore di Ciampino il quale, pur a fronte delle telefonate che evidenziano chiaramente che egli sta tentando disperatamente di mettersi in contatto con l'Ambasciata americana, nega. Una circostanza che non dovrebbe dire nulla, ma è gravemente sintomatica di quel terrore, di quella paura di ammettere circostanze che di per se stesse non sarebbero state neanche indizianti. Ultimo riferimento, e mi avvio alla conclusione, è quello relativo alla singolare vicenda del MIG libico, oggetto di un piccolo processo nel processo nella nostra requisitoria, che inizia a pagina 507. Ciò che preme sottolineare in questa sede non è tanto, anche se ha la sua importanza, l'individuazione della data precisa della caduta del MIG, che noi sappiamo formalmente essere stato rinvenuto ufficialmente tre settimane dopo la caduta del DC9 (anche se, come il nostro ufficio chiarisce bene nella requisitoria, pur non essendovi prove allo stato in qualche modo indicative di una caduta contestuale a quella del DC9, vi sono numerosi elementi che rendono plausibile, anche se non con la certezza della prova, che il MIG sia caduto qualche giorno prima, probabilmente intorno al 14 luglio. Si tratta di un elemento certamente meritevole di un approfondimento in sede dibattimentale). Ciò che rileva, ai fini dell'imputazione ex articolo 289 codice penale, è che certamente sia esponenti dell'Aeronautica militare sia, per ricondurci a quanto diceva il collega Salvi, esponenti del SISMI, vennero in possesso di tutta una serie di conoscenze e di dati relativi alla caduta del MIG libico e a possibili collegamenti con la caduta del DC9. Di questo patrimonio di conoscenze non è stata assolutamente edotta l'autorità governativa. Esempio, un verbale informale (acquisito tramite appunti sequestrati a taluni degli imputati) di una riunione svoltasi appena il 21 luglio 1980, soltanto tre giorni dopo il rinvenimento del MIG libico presso il Capo di Stato Maggiore della difesa, dimostra come si facessero chiari commenti e chiare indicazioni su collegamenti tra le due cadute e di cui non viene assolutamente comunicato nulla al Governo. Per non parlare del fatto che il giorno dopo il rinvenimento del MIG libico, il 19 luglio, l'allora capo di gabinetto del Ministro della difesa prende appunti circa la circostanza del rinvenimento di un presunto testamento addosso al pilota, di cui non c'è traccia negli atti ufficiali, fatto che poi trova conferma anche in un’ulteriore testimonianza. Elemento certamente da verificare, ma che in se stesso è chiaramente sconvolgente. Di tutto ciò non viene data alcuna notizia. Per non parlare di strettissimi collegamenti che si verificano sin dai primi giorni successivi al rinvenimento del MIG tra il SIOS e il SISMI (si parla ad esempio del progetto Tascio-Notarnicola, in ordine al quale nessuno degli interessati ascoltati in sede di interrogatorio ha saputo dire nulla) ma che comunque anche solo a livello di ipotesi non vengono mai portati a conoscenza dell'attività governativa. Al massimo, come dicevo, rimangono a livello di capo di gabinetto, allora un alto ufficiale dell'Aeronautica militare. Ripeto, quale che sia la data precisa della caduta del MIG libico, è comunque certo che l'Aeronautica da un lato e il SISMI dall'altro, avevano un patrimonio di conoscenze che non fu assolutamente esteso al Governo, che pure sarebbe stato tale, se comunicato allo stesso Governo, di consentire un diverso indirizzo all'attività governativa Da ciò la paralisi. Ove il Governo fosse stato reso edotto di quello che si andava agitando, anche solo ipotizzando, in ordine alla vicenda del MIG libico non c'è dubbio che l'impostazione data all'attività della commissione italo-libica, sarebbe stata diversa e il risultato di tale commissione non sarebbe stato così tranquillizzante; così come il "taglio" dato alla stessa commissione mista, almeno da parte italiana, sarebbe stato diverso. Sempre sulla questione attinente alla data della caduta del MIG: sulla base di che cosa si arriva fortemente a dubitare della versione ufficiale? Non solo su un dato peritale (la perizia fatta che ha detto che la traiettoria del volo così come riferita del MIG libico non coinciderebbe con gli elementi acquisisti in sede peritale e anche con deposizioni testimoniali) ma anche su dati più inquietanti emersi molto tardi - perché l'istruttoria ha carattere molto faticoso, ed è durata molti anni incontrando difficoltà enormi, è andata vanti proprio grazie all'enorme tenacia, in particolare del giudice istruttore - dai quali emerge che uno dei testi americani, il responsabile della CIA di Roma, Claridge, sentito per ben due volte (ma la prima solo nel 1994, perché inizialmente non si era potuto reperire) dichiara che parla con il Generale Tascio della caduta del MIG libico alcuni giorni prima che l'evento sia reso pubblico dai giornali. E sappiamo che la notizia dell'evento sui giornali è immediata, la notizia viene data poche ore dopo la caduta e il rinvenimento "ufficiali" del MIG libico. Questa deposizione trova un singolare riscontro esterno, per usare un termine di procedura penale, in appunti (poi sequestrati, anche questi, solo nel 1996) nell'agenda del generale Tascio che parlano di rapporti con Claridge relativi alla caduta di un MIG 21. Il fatto che sia un MIG 21 o 23 non ha molto rilievo, perché emerge da varie fonti di prova che dopo il 18 e ancora fino al 19 c'era incertezza sulla precisa natura del MIG libico caduto. A fronte di queste contestazioni, l'atteggiamento del generale Tascio in sede di interrogatorio è illuminante: prima, negazione assoluta di aver avuto mai qualsiasi rapporto con la CIA su questa vicenda; poi, a contestazione delle dichiarazioni di Claridge, accuse di falsità nei confronti del Claridge; poi, a contestazione dell'emergere dei dati della sua agenda, "non ricordo" fino ad ipotizzare, infine, in un ultimo interrogatorio, che forse tramite il responsabile militare di Bianchino gli era stato detto qualche giorno prima di una diserzione di un pilota di MIG libico. Ritengo con questo, sia pure in rapida sintesi, di aver completato l'esposizione del collega Salvi. Siamo a disposizione della Commissione per tutte le domande che vorrete porci.
PRESIDENTE. La ringrazio, dottor Roselli, per la sua esposizione che fa emergere l'aspetto della vicenda che probabilmente più da vicino riguarda la competenza di questa Commissione, insieme a ciò che il dottor Salvi ha dichiarato nel completamento della sua requisitoria. Ho già diverse richieste di intervento, ma vorrei, con il permesso dei colleghi, come sempre, porre io inizialmente un quesito ai nostri ospiti. Leggendo la requisitoria, penso di aver percepito l'autonomia della contestazione del reato di attentato agli organi costituzionali rispetto all'indagine sulle cause del disastro. In fondo, per l'attentato e l'ipotesi di reato che viene formulata non è tanto importante ciò che è accaduto, quanto ciò che l'Aeronautica ha supposto che potesse essere accaduto. C'è però un dato, anche se in una vicenda come questa tutte le ipotesi sono possibili: direi che è fuori dalle ipotesi probabili, sulla base di quello che è stato accertato, una responsabilità diretta dell'Aeronautica italiana nel prodursi dell'evento. Vorrei avere in merito una prima risposta: è così? E’ difficile infatti pensare che il DC9 sia stato abbattuto da un aereo italiano; vedo un cenno di assenso del dottor Salvi. Malgrado questo, emerge un insieme di condotte omissive e devianti che attengono al segreto che circonda questa situazione di allarme e di incertezza che immediatamente si accende nei vertici dell'Aeronautica subito dopo la notizia del disastro e a cui si collega nei giorni successivi, anche dopo risposte tranquillizzanti ricevute dall'ambasciata americana, quella massa di carenze documentali, come avete detto, così vasta da sembrare almeno in parte procurata. Nel corso successivo del tempo abbiamo poi, direi a cascata, i reati di falsa testimonianza e di favoreggiamento. A questo punto però una domanda a me viene spontanea: perché? Per quale ragione, visto che il reato, la condotta illecita consiste nel non aver informato il Governo? Perché l'Aeronautica tace tutto questo al Governo, perché non vengono date informazioni? Teniamo presente che questa situazione di allarme e di incertezza non riesce a restare segreta, viene percepita all'esterno abbastanza presto. A parte la telefonata al giornalista Purgatori, noi abbiamo sentito qui in Commissione Martini e Cogliandro e abbiamo avuto la netta impressione, da messaggi espliciti e da messaggi subliminali che ci sono stati mandati, che la valutazione del servizio era che ci fosse stato l'incidente aeronautico. Quindi l'Aeronautica doveva anche fidare sulla discrezione (richiesta illecita) del servizio militare, che avrà percepito questa situazione di allarme; però nemmeno Martini, nemmeno i vertici del servizio debbono aver informato l'autorità di Governo. In altre parole, la mia domanda è: perché in questo caso credete agli uomini di Governo, perché credete ai politici? Nel panorama giudiziale italiano normalmente c'è un certo sfavore rispetto alle dichiarazioni del Governo. Vorrei aggiungere che faccio questa osservazione anche con riferimento alla vicenda del MIG libico. Tutte le cose che avete detto confermano valutazioni preliminari non formulate con il vostro approfondimento, ma che questa Commissione sotto la Presidenza del senatore Gualtieri aveva già fatto sul comportamento dell'Aeronautica; non formulò ipotesi di reato, ma la percezione di una serie di comportamenti, diciamo, non approvabili dell'Aeronautica nelle relazioni Gualtieri emerge con grande chiarezza. Sotto la mia Presidenza invece questa Commissione ha svolto una serie di audizioni e di atti di indagine con riferimento al MIG libico. E qui formulo una conclusione personale (perché su questo la Commissione non ha mai concluso): la mia netta impressione fu quella di un teatrino, cioè che tutta la ricostruzione che emergeva dalle carte della vicenda del MIG libico fosse chiaramente una vicenda costruita a posteriori. Se uno legge i verbali di accertamento di questo incidente che pure riguardava un aereo straniero, sembra una specie di happening, a chi più entra ed esce dalla forra; c'è perfino uno - vado un po' a memoria - che dice: arrivai per primo e vidi un militare che risaliva la "forra" portando in mano un pezzo dell'aereo, il che ci dava la certezza che per lo meno era arrivato secondo. Ma io ebbi la netta sensazione che lì tutto sommato la vicenda poi si fosse chiusa con un agreement, nel senso che la conclusione a cui giunse la Commissione speciale italo-libica era una specie di sistemazione amichevole di una situazione che evidentemente era stata di contrasto. Perché se è probabile che l'aereo era caduto qualche giorno prima, chiaramente i libici ce ne avranno chiesto informazione e notizia, noi per alcuni giorni avremo negato che l'aereo era caduto e poi, quando invece abbiamo detto "è caduto oggi", loro invece sapevano che era caduto qualche giorno prima perché qualche giorno prima lo avevano perduto. Il segno classico della conclusione di questo accordo è il verbale di restituzione dell'aereo; perché c'è un verbale di restituzione dell'aereo che però sta a Pratica di Mare. Se uno legge il verbale, vede che sono state restituite due chiavi inglesi, qualche pezzo di aereo, eccetera, ma il grosso dell'aereo e il cadavere del pilota no. Anche tutto questo sicuramente è stato percepito. Allora io dico: è pensabile che al Governo non sia stato riferito mai niente, e se sì perché? Teniamo presente che l'inconfessabilità dello scenario avrebbe potuto comunque consentire da parte del Governo l'opposizione del segreto di Stato. Il Governo avrebbe potuto dire: è probabile - oppure è sicuro - che c'è stato un incidente aereo; quale era la situazione generale però non lo possiamo dire, è segreto. E allora mi domando - e faccio questa domanda perché ciò ci lega molto ad un rapporto fra autorità politica, strutture militari e strutture di sicurezza che riguarda tanti altri eventi oggetto dell'inchiesta della Commissione -: è un'attività di volontaria abdicazione del potere politico che, se mai sa, finge di non sapere e lascia fare, o è invece un volontario bypass dell'autorità politica da parte degli apparati, o perché non si fidano o perché ci sono vincoli di carattere gerarchico sovraordinati che gli impongono o gli consigliano di non riferire all'autorità di Governo? Per esempio, possono esserci alla base di questa mancata informativa del Governo clausole specifiche di trattati che noi non conosciamo, per cui l'Aeronautica riteneva di dover non riferire al Governo e di dover invece prendere contatto con l'attaché dell'ambasciata americana? Questo mi colpisce, che si telefoni all'attaché dell'ambasciata americana, e non si faccia una telefonata al Ministro o al Sottosegretario per dire: non sappiamo bene cosa sia successo però vi sono tracce, indizi che qualcosa sta avvenendo. Vorrei una risposta su questo perché riguarda non solo Ustica ma anche una valutazione di carattere generale che dobbiamo compiere anche per altre vicende oggetto della nostra indagine.
SALVI. Signor Presidente, anzitutto bisogna distinguere i dati di fatto dalle interpretazioni.
PRESIDENTE. Scusi se la interrompo. La mia domanda, in termini giuridici, riguarda il movente: quale è il movente dell'attentato?
SALVI. Infatti, lì stavo arrivando: il movente in sé è un elemento in più che noi possiamo portare per la prova del reato, ma non è un elemento necessario della prova del reato. In questo caso però si può dire - ed è questo quello che noi abbiamo sostenuto - che certamente un principio di elemento soggettivo deve essere individuato non sotto il profilo del movente ma della condotta stessa, cioè come elemento costitutivo della condotta della fattispecie di attentato. Quindi, ci siamo anche posti questo problema. Allora, ripeto, mi rendo conto della complessità della domanda e della sua importanza per la Commissione, però è anche bene rendersi conto dei limiti e delle difficoltà che abbiamo a rispondere adesso delle implicazioni processuali. Però non voglio nascondermi dietro un dito. Posso dire questo: quello che è accertato, a nostro parere naturalmente, salva la verifica dibattimentale, è che si sono verificate queste condotte, cioè che vi è stata la convinzione che fosse successo qualcosa e che il canale scelto per l'informazione è quello indicato dal presidente Pellegrino. Certo, qualcuno ha detto, ma non tra gli imputati: non è neppure immaginabile che in un sistema come quello italiano il militare non abbia immediatamente informato il referente politico. Per quale ragione voi credete che i politici abbiano detto la verità dicendo di non saperlo? Ma per una ragione molto semplice: noi abbiamo ripudiato nel nostro lavoro qualunque ipotesi (ma non solo per questo, per qualunque parte del nostro lavoro) dell'atteggiamento investigativo del "non poteva non sapere che". Pertanto, noi non abbiamo ritenuto che fosse lecito sostenere che vi fosse qualcuno che "non poteva non sapere che". Se i politici sono stati informati, ebbene chi doveva dire all'autorità giudiziaria come, quando e in quali termini aveva informato l'autorità politica erano coloro che disponevano di queste informazioni: ora costoro hanno detto di non avere informato l'autorità politica perché nulla era successo. Quindi, di fronte a questa negazione, si ferma l'accertamento giudiziario, sempre che non si trovino per altra via prove che consentano di superare questa negazione doppia, sia di coloro che avrebbero avuto l'informazione, sia di coloro che avrebbero dovuto darla. Vorrei però fare un passo ulteriore, ed è il passo che mi crea qualche difficoltà ma ritengo sia giusto che la Commissione valuti il nostro percorso mentale interiore: noi abbiamo immaginato una situazione di fatto, abbiamo cercato di calarci in quella che poteva essere la situazione del 27 giugno 1980, anche vista in un'ottica non accusatoria. Noi sappiamo che l'Aeronautica militare non era coinvolta in un eventuale episodio che avesse determinato la perdita del DC9. Allora abbiamo cercato di capire cosa può essere successo: può essere successo che quella sera si sia raggiunta l'ipotesi, ritenuta ragionevole, che si fosse verificato un episodio coinvolgente potenze straniere, probabilmente statunitensi. Si è ritenuto però che tali elementi fossero in contrasto con altri, in particolare con il fatto che non vi fosse nel terzo ROC una situazione di allarme determinata dalla visione diretta di un episodio di questo genere; che anche questo non risultasse direttamente dal radar di Marsala e che quindi si sia deciso di prendere tempo per evitare di innescare, nella situazione particolare della fine di giugno 1980, una speculazione di carattere politico. Si deve tenere presente che il giugno 1980 è significativo per molti aspetti: vi è una forte agitazione dei controllori di volo che vogliono diventare civili e che utilizzano la possibilità di incidenti in volo per supportare la loro richiesta di diventare civili; vi è una situazione politica internazionale che si è molto modificata e che è diventata molto più grave di una forte tensione; vi è la preoccupazione, che nei mesi successivi diventerà ancora più forte, che l'opposizione possa utilizzare questi elementi per innescare una politica nei confronti dell'autorità militare. Io quindi penso, cercando di mettermi nella testa di chi poteva trovarsi in quei giorni nelle posizioni di comando, che si sia deciso di non informare l'autorità politica in attesa della raccolta di informazioni che consentissero di compiere una scelta più decisa. Si vuole sapere perché non siano state mai portate all'autorità politica le informazioni che pure erano state raccolte, così determinando nel tempo quella necessità di accumulare informazioni scorrette, che poi portano nel dicembre 1980 a modificare la data del telex del 3 luglio 1980, e ad allegarlo quindi all'informativa inviata dall'autorità giudiziaria all'autorità politica al fine di evitare una ricostruzione di ciò che si era verificato il 27 giugno. Questa è l'ipotesi più benevola che possiamo fare in relazione a questi comportamenti: noi ci siamo messi nell'ottica non accusatoria, più benevola possibile, per interpretare queste condotte, ma nonostante questo riteniamo che queste condotte integrino l'ipotesi di reato che abbiamo contestato. Però seguendo ancora un percorso mentale, che è diverso quindi dalla prova raggiunta, possiamo anche ritenere che vi siano delle catene di fedeltà diverse da quella istituzionale che abbiano in qualche maniera imposto una scala di priorità nell'informazione. Forse le due ipotesi non sono nemmeno alternative; sono due ipotesi graduali, a formazione progressiva. Di questa doppia fedeltà, noi abbiamo raggiunto prova, a nostro avviso, nel procedimento che riguarda la struttura Gladio, indipendentemente da qualunque assetto di responsabilità penale. Non vi è dubbio che per un lungo periodo di tempo il rapporto diretto, e con un'informazione politica estremamente limitata, è stato tra il servizio di informazione italiano e il referente dominante statunitense, con una catena di fedeltà quindi parallela e diverso rispetto a quell'interna. Però, ripeto, questi sono percorsi che per poter fondare una prova giudiziaria in ordine al movente richiederebbero prove di cui noi non disponiamo.
PRESIDENTE. Prima di dare la parola ai colleghi vorrei fare solo un approfondimento per quanto riguarda l'episodio - non centrale ma comunque di una certa importanza - del MIG 23. Se il MIG è caduto qualche giorno prima, sicuramente c'è stato un accordo con la Libia, perché la Commissione dà per certo che è caduto il 18 luglio. Allora, la controparte dell'accordo può essere solo militare o era necessariamente politica? E se la controparte era politica, può essere che tutto sia stato gestito dalla nostra parte militare senza informare le autorità di Governo?
SALVI. Torniamo ancora al discorso fatto precedentemente, nel senso che noi non abbiamo raggiunto quella prova proprio perché manca qualunque documentazione o testimonianza di rapporti informali che possano fornirci la prova della caduta del MIG in giorni antecedenti. Abbiamo forti elementi per ritenere questo. Nell'ipotesi che fosse vero, indubbiamente dovremmo ritenere che vi è qualcosa di più di un accordo meramente militare. Però di tutto questo non c'è alcuna traccia. Dal punto di vista processuale non siamo assolutamente in grado di dire nulla. Occorre anche tenere conto di una questione importante. La commissione d'inchiesta italo-libica non ha il compito di stabilire le cause della perdita del MIG sotto il profilo dell'accertamento di responsabilità o di quello dell'accertamento della verità fattuale. La commissione d'inchiesta, per quello che ci è stato detto, ha più di un compito. Innanzitutto, si occupa della sicurezza del volo, cioè di valutare se vi sono state cause che possano avere in qualche maniera contribuito alla perdita dell'aereo e che possano avere rilievo in altre circostanze, ma soprattutto è incaricata di definire una possibile modalità del sinistro, accettando quello che le varie parti riferiscono. Quindi, secondo le prospettazioni che sono state fatte e la ragione che ha portato al proscioglimento in istruttoria dei componenti della commissione d'indagine della parte italiana, il compito della commissione era quello di accettare le spiegazioni offerte da parte libica, verificarle con le informazioni da parte italiana e giungere ad una situazione di accertamento delle cause. Di conseguenza, abbiamo ritenuto che il personale della commissione che ha operato questo accertamento non fosse necessariamente a conoscenza dell'ipotesi che l'aereo fosse caduto prima e non abbia fatto delle indagini specifiche a tale proposito.
PRESIDENTE. Se fosse cosi, la commissione avrebbe consacrato un accordo che era stato raggiunto in altra sede.
SALVI. Esattamente. E’ proprio ciò cui volevo arrivare, cioè che la commissione tecnica in questo caso avrebbe consacrato un accordo raggiunto in altra sede, del quale non abbiamo il benché minimo riferimento né dal punto di vista documentale né dal punto di vista testimoniale. Ci si arriva esclusivamente attraverso quegli elementi indiziari.
PRESIDENTE. Sempre parlando in termini ipotetici, ebbi l'impressione, proprio durante l'audizione del generale Ferracuti, che egli cominciasse a sospettare di essere stato il notaio di un accordo raggiunto altrove.
GUALTIERI. Le 700 pagine della requisitoria mi hanno impegnato per tre giorni interi e vorrei che tutti i membri della Commissione avessero fatto altrettanto. Si tratta di una requisitoria molto importante, alla quale rendo omaggio per lo spessore, per il taglio e per la profondità. Tra l'altro, posso capire qual è stata la difficoltà di una ricerca così importante, proprio perché nel corso degli anni, nelle commissioni da me presiedute, ho dovuto operare con grande scarsità di mezzi, senza avere tanto materiale informativo, venuto fuori solo successivamente. Nel 1980 avvennero due fatti di eccezionale gravità: il 27 giugno cadde un aereo ad Ustica e morirono 81 persone; il 2 agosto, poi, fu fatto saltare in aria un pezzo della stazione di Bologna (ci furono un centinaio di morti e circa quattrocento feriti). Il 18 luglio, intanto, sulla Sila era stato abbattuto un aereo, che era precipitato senza che fosse stato avvistato dal nostro sistema di controllo (ciò quindi lascia l'insicurezza sulla data precisa). Quindi, a 18 anni da questi fatti, dopo inchieste e ricerche di ogni tipo che hanno impegnato tanto, non si è in grado di rispondere a questi interrogativi: chi è stato a fare le tre cose e perché lo si è fatto (poco fa anche il Presidente ha posto domande sul perché). Ma sono senza risposta anche altre domande, circa il "quando" (a proposito del MIG) e il "come" (non sappiamo se la caduta dell'aereo ad Ustica è stata provocata da un missile, da una bomba o altro). Allora, ci troviamo di fronte ad un fallimento totale nell'individuazione della responsabilità di questi tre fatti gravissimi. La lettura congiunta delle requisitorie dei pubblici ministeri, che essi adesso ci hanno consegnato su Ustica, e delle acquisizioni della magistratura di Bologna sulla strage alla stazione (infatti, a mio giudizio vanno lette insieme) ci consente oggi di rispondere a quest'ultimo interrogativo. La verità, cioè, ci è stata negata per il prolungato e sistematico depistaggio portato avanti da settori istituzionali preposti alla tutela e alla sicurezza dello Stato. I pubblici ministeri descrivono una situazione terrorizzante, cioè quella di una nazione, l'Italia, che per molti e molti anni è stata governata da un gruppo di persone che ha compiuto un'attività pericolosa e delittuosa senza che i sistemi di sicurezza, di controllo e di vigilanza se ne rendessero conto e provvedessero a fermare le deviazioni. Questa è la situazione che emerge. Leggendo le requisitorie - e questo è l'elemento più intollerabile - sembra che per almeno quindici anni l'Italia non abbia avuto un Governo e che Presidenti del Consiglio (i quali, fra l'altro sono i responsabili diretti dei servizi di informazione) e Ministri dell'interno, della difesa e della giustizia abbiano governato senza accorgersi di ciò che succedeva nei settori a loro affidati. Tutto sarebbe passato sulla loro testa, senza che se ne accorgessero. A dire il vero i P.M. in parte si pongono questo problema, ma mi permetto di dire che se lo pongono poco. A pag. 551 della vostra requisitoria vi chiedete se le autorità militari tacquero all'autorità politica il loro patrimonio di conoscenza sui fatti o se invece l'input per tale silenzio non gli venne proprio dall'ambiente politico. Per escludere che ci sia stato un input dell'autorità politica è sufficiente che il Presidente del Consiglio e il Ministro della difesa dell'epoca abbiano escluso di aver avuto a qualsiasi livello, formale o informale, notizia di ciò che accadeva. Mi domando se basta che queste due persone abbiano fatto tale dichiarazione o che altri facciano dichiarazioni dello stesso tipo. Di Ustica il Consiglio dei ministri se ne interessa per la prima volta, sei mesi dopo il fatto e, come evidenzia il verbale, in una parentesi della discussione. Lagorio esclude che un missile delle Forze armate italiane o della NATO abbiamo potuto provocare il disastro. Poi tutto tace, fino al 1986; cioè passano sei anni da quella riunione del Consiglio dei ministri. Di Ustica il Consiglio dei ministri non se ne occupa più, nemmeno per dieci minuti. Poi se ne occupa solo per stanziare, con difficoltà enormi, sotto la pressione delle famiglie delle vittime e della Commissione stragi di allora, i fondi per i recuperi. I P.M. a pag. 560 concludono dicendo: "I poteri costituzionali in materia di controllo sulle Forze armate e in materia di relazioni internazionali furono gravemente compromessi. Gravi e durevoli nel tempo furono anche di conseguenza le condotte delittuose dei vari responsabili delle deviazioni sulle istituzioni del paese e vengono per questo rinviati a giudizio i generali Bartolucci, Ferri, Tascio e Melillo". I politici rimangono assolutamente fuori. Vi prego di leggere con attenzione il capitolo riguardante il periodo delle tensioni fra l'Italia e la Libia, cioè da pag. 433 a pag. 438. La Libia pone un ultimatum all'Italia e chiede che i libici suoi dissidenti, i fuoriusciti residenti in Italia, gli vengano consegnati entro il 10 giugno 1980, altrimenti sarebbero scattate minacciose rappresaglie. Attorno a quella data si apprende che cinque di questi oppositori di Gheddafi vengono uccisi a Roma e in altre parti d'Italia e che altri due sfuggono miracolosamente agli attentati. L'Italia si piega, perché i massimi livelli politici - come scrivono i P.M. - sono pienamente informati degli atteggiamenti ricattatori della Libia e della possibilità di esplorare una composizione cedendo su qualche punto. Il SISMI, informando il Governo italiano, dà al Servizio segreto libico l'elenco dei dissidenti con tre date precise, e questi dissidenti vengono uccisi. Se tutto ciò accade con la piena informazione data dal SISMI ai massimi vertici del Governo, come si può dire che il potere politico non è informato di fatti di questo tipo? Ma lo stato di gravità della situazione con la Libia in quel momento era drammatico, perché le Forze aeree americane si stavano spostando in quei giorni dall'Inghilterra per recarsi negli aeroporti dell'Egitto, dal momento che si preparava il colpo di Stato al quale partecipavano elementi dei nostri Servizi. Quindi il Sismi nel 1979 consegnò al Governo libico un elenco di libici residenti in Italia e che i libici stessi volevano fossero uccisi. Altre liste furono consegnate da Santovito nei mesi di febbraio ed aprile 1980. Due dei libici segnalati dal SISMI ai libici stessi furono uccisi a Roma nei mesi di aprile e giugno, in base agli indirizzi forniti dal Sismi. Dello stato di grave tensione il Governo fu informato ai massimi livelli. Il CIIS, il Comitato interministeriale, fu riunito il 21 maggio e il sottosegretario Mazzola fu incaricato di affrontare questo problema. Quindi vi fu una riunione del CIIS alla presenza del Presidente del consiglio e del sottosegretario Mazzola, che in quel giorno venne incaricato del problema di pagare un certo prezzo per liberare il paese dalla pressione della Libia. Si devono anche rileggere i verbali delle sedute - non so se i P.M. lo hanno fatto, ma penso di sì perché il loro approfondimento è stato minuzioso - in cui abbiamo interrogato il Capo della polizia Parisi. Quest'ultimo ci ha raccontato che mentre di giorno i Servizi consideravano la Libia uno Stato nemico dal quale guardarsi, durante la notte proteggevano gli inviati della Libia che venivano in Italia a trattare con uomini del nostro Governo.
PRESIDENTE. Martini ci ha detto anche di più. Addirittura lui sapeva dai Servizi libici quello che succedeva in Italia.
GUALTIERI. Dobbiamo ricordare che Parisi è venuto in questa sede due volte a parlarci del collegamento tra la strage di Ustica e quella di Bologna, dicendoci chiaramente che Ustica era un messaggio che non fu capito, mentre Bologna fu il messaggio ripetuto affinché si capisse. Parisi non era l'ultimo arrivato, era stato il Capo dei Servizi e in quel momento era il Capo della polizia, e ci disse che questo collegamento c'era, tanto che di quel periodo ci offrì anche la seguente lettura: non erano l'Italia, gli Stati Uniti e la NATO contro la Libia, ma l'Italia e la Libia di nascosto contro gli Stati Uniti e la NATO. Noi in quel periodo facevamo un gioco alle spalle degli Stati Uniti sulla situazione libica. Quindi, se descrivete una situazione di così grave tensione, non si può dire che il Governo non fosse informato. Se in quel periodo era informato di tutto ciò, come si fa a dire che non era informato del resto. E’ mai possibile che non esistono verbali del Consiglio dei ministri o del CIIS che trattino delle stragi di Ustica e di Bologna e della caduta del MIG libico? Non esiste niente? Il Governo dice di non essere informato, ma un governo esiste per essere informato, e nel momento in cui non si fa informare bisogna capire perché non vuole farsi informare. Questo è un altro dei problemi da affrontare, ed è un problema grosso. Trovo perfetta la dimostrazione del sistematico depistaggio e dell'altrettanto sistematica distruzione delle prove della documentazione che voi descrivete lungo tutte le vostre 700 pagine e vorrei suggerire al Presidente - che ha affermato che avrebbe firmato insieme a me - di fare una denuncia contro ignoti adoperando quell'articolo del codice sui soggetti che distruggono documenti riguardanti la sicurezza dello Stato. Una volta queste persone erano persino condannate a morte, adesso sono condannate ad otto anni o più. Ma, se non sbaglio, le persone che hanno sottratto e nascosto i documenti non ricadrebbero nella prescrizione. Quindi, è un problema; qui sistematicamente non si trova una carta. L'ho provato io su Ustica per quattro anni e lo avete provato voi; non ci hanno mai passato una carta, si è sempre dovuto procedere con sequestri e con interventi di ogni tipo. Insomma, la collaborazione non c'è stata, il depistaggio è sistematico. Quindi, è giusto il rinvio a giudizio dei vertici istituzionali dell'Aeronautica e dei Servizi ed è giusto indicare le responsabilità, anche se prescritte, dei vertici dei Servizi, salvo le preesistenze tuttora esistenti. Ad esempio, un caso come quello del colonnello Mannucci Benincasa è drammatico, espressione di una situazione che in nessun paese del mondo può essere tollerata: un capo servizio che non so per quanti anni, credo 14 o 18, è a capo di un servizio a Firenze e sistematicamente viene adoperato per imbrogliare Ustica e Bologna. Poi adesso si trova che non può essere rinviato a giudizio perché il reato è caduto in prescrizione.
SALVI. E’ stato rinviato a giudizio, ma non in questo procedimento.
GUALT1ERI. Chiedo scusa, non sono sempre molto preciso in materia giudiziaria. Voi avete fatto benissimo a rinviare a giudizio anche i presidenti dei collegi peritali; se non sbaglio, due dei presidenti sono stati rinviati a giudizio. Mi permetto di dire un'altra cosa. Avete ad esempio descritto benissimo il semi-imbroglio che ha fatto la Selenia, che prima imbrogliò noi e poi, soltanto dopo molti anni, con la stessa persona che aveva fatto l'imbroglio ha corretto i dati e ha permesso di fare un'altra ricostruzione del quadro radaristico. Ma il comportamento della Selenia e gli interessi che aveva nel fare ciò andavano a mio giudizio approfonditi ancor di più. La requisitoria dei pubblici ministeri, di grande spessore e, ripeto, di enorme portata mi soddisfa completamente. Vorrei chiudere ricordando solo il problema del MIG libico, che è stato affrontato da me e dalla mia Commissione. Credo di aver già ricordato che quella del MIG libico fu una delle vicende che più mi ha tormentato. Prima di tutto perché quando vedemmo come avevano fatto le perizie necroscopiche sul cadavere constatammo che si trattava di cose delle più allucinanti; io chiamai qui i tre maggiori esperti italiani in materia e loro dissero che doveva essere tolta la laurea a chi aveva compiuto quelle perizie.
PRESIDENTE. Non viene nemmeno redatta una piantina della forra e del posto dove si trovavano i vari reperti; meno di ciò che accade quando uno va a sbattere con il motorino contro il pilastro di una strada.
GUALTIERI. Alla sera del giorno stesso in cui si trova l'aereo con il cadavere, quest'ultimo viene interrato perché era in disfacimento; quindi nelle prime dodici ore. Quando interroghiamo il medico che ha fatto gli accertamenti peritali lui ci dice: "Ma come in disfacimento, era così bello che gli ho portato via le mutandine". Pensate se si possono rubare le mutande ad un cadavere in decomposizione! Ora, il sospetto che l'aereo non fosse caduto in quel giorno l'abbiamo sempre avuto e crediamo di averlo anche dimostrato. Ricordo che il mio amico Spadolini, che in quel periodo era Ministro della difesa, mi diceva sempre quando mi incontrava che la chiave di volta di Ustica stava nel MIG libico; poi Spadolini oltre questo non andava. Io ho cercato di capire la storia del MIG libico. Il MIG libico non è caduto il giorno 18, questo è sicuro; che poi sia stato visitato giorni prima da Tascio e dagli americani è altrettanto vero. Quindi, questa storia del MIG libico è un'altra delle cose che va in tutti i modi approfondita. Noi andammo a vedere a Pratica di Mare l'aereo di Ustica. Quando stavamo visitando il relitto, che era stato montato su un traliccio, ad un certo punto abbiamo visto degli altri relitti accanto a quello principale ed abbiamo domandato che cosa fossero. C'è stato risposto che si trattava del MIG libico. Ma come, il MIG libico non era stato restituito a Gheddafi? C'era poi un verbale dal quale risultava che il motore era stato preso per fare degli studi da quelli dell'Aeronautica. Lì c'era l'80 per cento dell'aereo: a Gheddafi cosa avevano restituito? Non si sa, il MIG era lì. C'era il casco con la scritta "Drake" del pilota, era un casco americano, tra il materiale ritrovato con il MIG. Insomma, l'impressione è quella di uno Stato che veramente ha portato avanti con una Commissione d'inchiesta italo-libica... Viene data comunicazione della caduta del MIG libico il giorno 18 ed il giorno 19 c'è un comunicato congiunto Italia-Libia con il quale la Libia dichiara che un suo pilota si era sentito male, eccetera, e viene nominata una commissione mista d'inchiesta italo-libica, che fa una decina di riunioni e poi scompare. Questi sono gli elementi che abbiamo sui tre disastri del 1980. Io devo dire che accetto totalmente la vostra requisitoria per quelle che sono le ricostruzioni della parte radaristica che avete fatto; non sono per niente convinto che le autorità politiche possano chiamarsi fuori da questo disastro della conoscenza che si è verificato sui fatti del 1980.
NEBBIOSO. Intervengo per rispondere brevemente al senatore Gualtieri. Ovviamente abbiamo scritto la requisitoria di un procedimento penale. Non rilevo per la verità - al di là del riconoscimento, di cui la ringrazio, che ha fatto nel confronti della requisitoria del nostro ufficio - un'illogicità della requisitoria, perché in fondo lei, nel sollevare le sue obiezioni, ha sostenuto che quella requisitoria sarebbe illogica laddove, citando alcuni episodi che erano stati portati a conoscenza del Governo e delle istituzioni, non si pone il problema dell'eventuale responsabilità di vertici politici. La domanda ce la siamo posta, ma credo che questo sia il riscontro del rigore logico con il quale abbiamo lavorato nell'ambito della nostra requisitoria. Abbiamo accertato una serie di fatti: di quelli di cui il Governo era stato informato ne abbiamo dato atto; laddove - come per Ustica - elementi per concludere in tal senso non vi erano, non abbiamo potuto darne atto. Il percorso logico - non voglio ripetermi - è quello che ha illustrato il collega Salvi nella sua precedente risposta.
PRESIDENTE. Vi è un'evidente connessione, poiché l'attentato vede proprio nella parte politica la parte lesa; nel momento in cui dovessimo, invece, decidere che la parte lesa sapeva, l'attentato non c'è più. Questo è il nodo e giustamente la risposta del dottor Salvi mi è sembrata puntuale. Spettava all'Aeronautica dire di aver informato la parte politica. Una volta che non lo dice, i pubblici ministeri hanno le mani legate; non possono non collegare i fatti accertati a questa impostazione, che è difensiva. Il processo nasce anche dalla dialettica fra la posizione dell'accusa e la posizione della difesa e questa dialettica ne può condizionare gli esiti. SALVI. Posso aggiungere a quello che lei ha detto solo una considerazione. Diversa è ovviamente la responsabilità politica da quella giudiziaria e so bene che questa è una banalità. Tuttavia, nel caso concreto, se il Governo non ha voluto essere informato, non escludo che ci sia una responsabilità di carattere politico, che però non è assolutamente di nostra competenza. Vorrei rimarcare che proprio l'episodio dei libici è stato per noi importante, perché un episodio così grave come quello di una contrattazione con una controparte che sta in Italia e nel resto del mondo uccidendo gli oppositori (questo, oltre che in Italia, si verificava anche a Londra); una cosa così grave come quella di decidere di venire a patti fornendo addirittura delle informazioni sui libici, è una decisione che viene presa informando il Governo, e di questo vi è traccia. Abbiamo ritenuto che il fatto che non vi sia traccia di una vicenda per certi aspetti - intendetemi bene - meno grave (nel senso che non determinava delle scelte future che potevano portare alla eliminazione addirittura di soggetti che vivevano nel nostro paese) fosse un elemento probatorio a contrario da utilizzarsi circa il fatto che non vi fosse stata un'informativa. Per quanto riguarda l'ultima considerazione, forse è ingeneroso dire che per Bologna non si sa nulla.
PRESIDENTE. C'è un giudicato.
SALVI. C'è un giudicato che addirittura ha passato il vaglio delle sezioni unite.
GUALTIERI. Ci sono degli accertamenti successivi.
SALVI. Sì, però c'è un giudicato. Io dico che mi sembra ingeneroso affermare che su Bologna non si sa nulla. Su Bologna c'è un giudicato definitivo.
PRESIDENTE. C'è anche il problema della valutazione negativa che voi fate della Commissione Pratis.Vorrei sapere se avete indagato su come sono stati scelti i commissari.
SALVI. No.
PRESIDENTE. Perché questa è una scelta del Governo. Quindi, loro erano mandatari del Governo e, dalle vostre valutazioni negative, sembrerebbe che il mandatario sia stato infedele.
SALVI. Sì.
FRAGALA’. Innanzi tutto ringrazio gli auditi e mi unisco all'unanime apprezzamento che è stato loro rivolto per la chiara esposizione. Tuttavia, ben tenendo separato il piano giudiziario, che naturalmente si nutre di elementi probatori, con il tipo di indagine della nostra Commissione, che ha l'obiettivo di capire quali siano stati i motivi per i quali su alcuni fatti - come quello gravissimo di Ustica e poi aggiungerò, dottor Salvi, su Bologna, nonostante il giudicato - non si siano potute accertare le vere responsabilità, vi pongo il seguente problema. Questo problema scaturisce proprio da una vostra dichiarazione scritta nella requisitoria; mi riferisco, cioè, al problema che questa inchiesta è durata 18 anni ed è costata circa 300 miliardi al contribuenti. A pagina 16 del documento che ci avete consegnato avete scritto: "II reale problema che la Commissione si trovò di fronte fu costituito dall'incertezza dei dati radaristici, dalla frammentarietà delle informazioni ricevute dall'Aeronautica militare, dall'impossibilità di procedere al recupero del relitto". Ebbene, vi pongo la seguente domanda. E’ vero che ci sono stati questi problemi, che c'è stata l'incertezza dei dati radaristici, però a 18 anni di distanza con i resti del DC9 recuperati al 94 per cento - come avete scritto - e con la NATO che ha aperto i cassetti ed ha fornito tutto il fornibile sul piano dei dati radar, siamo più o meno allo stesso punto di quanto voi affermate a pagina 16 della requisitoria. Siamo, cioè, a un risultato sempre di incertezza assoluta. Vorrei sapere come mai non sia cambiato niente rispetto a quando i frammenti del relitto o non erano stati recuperati o solo parzialmente; quando mancavano i dati radaristici; quando in pratica le indicazioni utili erano assolutamente parziali e limitate. Come mai non è cambiato niente a 18 anni dal punto di vista dell'incertezza dei risultati dell'istruttoria?
SALVI. Rispondo io perché mi sono occupato maggiormente della parte tecnica. Innanzi tutto, vorrei sapere da dove ha ricavato il dato dei 300 miliardi.
FRAGALA’. Questo lo dico io.
SALVI. Infatti a me non risulta. Non so quanti siano, ma credo non siano superiori a quelli che Starr ha speso in un anno per il procedimento relativo ai suoi accertamenti...
FRAGALA’. Il nostro bilancio è diverso da quello degli Stati Uniti.
SALVI. Onorevole, le faccio semplicemente presente, poiché fa una citazione precisa, che a me ciò non risulta; ripeto che so che in un anno, per un'indagine meno complessa (è riportato da fonti di stampa, che forse saranno sbagliate), sono stati spesi 40 milioni di dollari. La giustizia costa e, quindi, si paga. Per quanto riguarda i risultati, abbiamo impiegato 400 pagine a spiegare le ragioni per le quali riteniamo che, nonostante il recupero del 94 per cento del relitto, non sia possibile giungere ad un risultato definitivo. Abbiamo anche impiegato queste 400 delle 700 pagine ad illustrare specificatamente ciascuno degli elementi che hanno introdotto degli elementi di dubbio su questi. Come lei potrà ben vedere (perché risultano non dalle valutazioni del pubblico ministero, ma da quelle dei collegi peritali che si sono succeduti) questi elementi riguardano anche in maniera sostanziale l'incertezza sulle modalità con le quali sono stati raccolti e valutati i primi dati materiali - per esempio le indagini sui frammenti e quelle sugli esplosivi - che non sono stati condotti da laboratori dell'autorità giudiziaria, e per altro aspetto, l'estrema difficoltà di ottenere dati radaristici affidabili. Le faccio poi presente che si tratta di un evento che si è verificato a 400 metri di profondità; quindi, gli oggetti sono stati recuperati con grande difficoltà e alcuni di essi solo pochi anni fa.
FRAGALA’. Mi ponevo il problema di come, in base a quanto da voi affermato a pagina 16, fosse mutato il quadro probatorio tra quando i frammenti erano pochi e i dati radaristici rari e quando tutto questo materiale è venuto alla luce.
PRESIDENTE. Onorevole Fragalà, la sua è una valutazione ex post. Nel momento in cui si è deciso di spendere per condurre indagini, si sperava che il risultato fosse diverso. Anche noi spendiamo soldi dei contribuenti e su molti punti della nostra inchiesta non siamo riusciti a raggiungere una verità. Aggiungo che oggi di AIDS si muore come dieci anni fa, ma non per questo tutti i denari spesi per la ricerca sono stati inutili. Aggiungo ancora che il più bel romanzo giallo italiano, dal titolo "Quel pasticciaccio brutto di via Merulana", si chiude senza un colpevole.
FRAGALA’. A pagina 15 avete scritto: "La procura della Repubblica di Roma scelse nella prima fase di questa istruttoria di non avvalersi di propri esperti, ma di utilizzare il lavoro della commissione appositamente costituita dal Ministero dei trasporti che fu presieduta da Carlo Luzzatti". Vorrei che mi spiegaste come interpretare questa vostra affermazione.
SALVI. Esattamente nei termini indicati, cioè non fu nominato un collegio peritale dalla procura della Repubblica che allora in fase di istruttoria sommaria seguiva le indagini. La nomina del primo collegio peritale avvenne solo successivamente. Siccome per le investigazioni sui disastri aerei è prevista la costituzione di una commissione tecnico-formale, formata dai migliori esperti (o almeno così dovrebbe essere) in grado di interpretare quel genere di disastri, credo, non essendo io il pubblico ministero che allora fece questa scelta, che il collega valutò che essendo già in corso una indagine svolta dalla commissione tecnico-formale composta da esperti radaristici forniti dall'aeronautica militare, da tecnici del Ministero dei trasporti, (quest'ultimo si avvaleva dei laboratori dell'Aeronautica stessa, dei rapporti con la ditta costruttrice e di esperti delle agenzie di altri paesi che si occupavano di disastri aerei e che per di più seguiva un protocollo di indagine, quello fissato dalle norme in materia di disastro), fosse opportuno aspettare il risultato di questa indagine. Purtroppo, questa scelta si rivelò, ancora una volta con giudizio ex post, non soddisfacente perché la commissione non giunse ad alcun risultato e quindi solo con quattro anni di ritardo fu possibile nominare un collegio peritale. Vi dico con sincerità, questo problema del rapporto tra autorità giudiziaria e autorità amministrativa - ossia se quando vi sono competenze tecniche la prima si debba necessariamente sostituire alla seconda, in quali termini e in quale maniera - è molto interessante. Certo, l'esperienza successiva ci dice che probabilmente sarebbe stato meglio nominare subito un collegio peritale. D'altra parte se in qualunque incidente di volo si nominasse subito un collegio peritale invece di seguire il lavoro della commissione di indagine tecnico-formale, si potrebbero determinare problemi di interferenza. Sono scelte delicate, il collega allora ha fatto quella e forse l'avrei fatta anch'io.
FRAGALA’. Ecco, desideravo sapere se questa affermazione aveva il senso di una critica oppure di una presa d'atto.
SALVI. No, assolutamente. Non mi sembra che sia espressa in senso critico. Si dice: "La procura della Repubblica scelse di utilizzare nella prima fase di questa istruttoria ... ". Anzi, viene spiegato: "Nel nostro paese infatti non esisteva nel 1980 e non esiste tuttora un organismo deputato stabilmente ad indagare sui disastri aerei come invece avviene in altri paesi". Segue poi tutta l'indicazione sul rapporto corretto che ha continuato ad esistere fino al 1984. Non vi era alcuna volontà polemica e mi dispiace che sia stata questa l'impressione. Ripeto, forse quella scelta l'avrei fatta anch'io.
FRAGALA’. Vorrei ci chiariste, se possibile, un aspetto alquanto oscuro della vicenda che riguarda la prima fase delle indagini, quella diretta dal giudice istruttore Bucarelli. Immagino sappiate che davanti a questa Commissione, presieduta dal senatore Gualtieri, sono stati auditi sia il sottosegretario dell'epoca, prima che si facesse la campagna per il recupero, Giuliano Amato, sia il dottor Bucarelli. Durante l'audizione sono venuti fuori, naturalmente ho qui tutti gli estremi, ma cito a memoria, due contrasti, il primo riguardava anzitutto il problema delle fotografie che il sottosegretario Amato sostiene che il dottor Bucarelli avesse in suo possesso e che gli avrebbe mostrato, quelle di una precedente operazione condotta dagli americani per la ripresa fotografica del fondale ove erano adagiati i pezzi del relitto. Addirittura, di una traccia di una specie di sottomarino cingolato che camminava sul fondo. Su questo aspetto, e proprio in relazione ad una affermazione che Amato ha più volte ribadito in questa sede, il dottor Bucarelli dinanzi alla Commissione ha tenuto una ferma chiusura di diniego. Il secondo contrasto riguardava questa vicenda: il direttore del servizio di sicurezza, ammiraglio Martini, ci ha posto, e aveva posto anche al sottosegretario Amato, il problema della scelta che si fece allora della società IFREMER per il recupero, sostenendo che questa società fosse controllata dai servizi segreti e che il servizio di sicurezza italiano poneva molte riserve su tale scelta. Il sottosegretario Amato, venuto in questa sede, ha dichiarato che la scelta fu fatta dal dottor Bucarelli, che non l'avevano fatta loro, ma che l'avevano subita. Poi voi sapete che nel sequestro delle carte Cogliandro vi è un ulteriore elemento su una informativa dei servizi che per la scelta della società IFREMER, fu pagata una tangente di un miliardo di lire. Ora, rispetto a questi tre problemi, che non sono di piccola portata per il depistaggio e per i motivi dei depistaggi di cui noi ci occupiamo, gradirei sapere, al di là anche della questione strettamente giudiziaria, o del fatto di dire che se ne occupa Perugia o Milano, qual è la vostra opinione su questi tre delicatissimi momenti dell'indagine precedente.
SALVI. Innanzitutto nella requisitoria abbiamo dato conto anche dei due aspetti da lei indicati. Effettivamente dal video del lavoro effettuato dalla nuova società, sono emerse tracce non attribuibili né ad eventi naturali né ad eventi umani conosciuti (o, almeno, non siamo riusciti ad attribuirli). Quindi ci sono in zone particolarmente delicate del recupero delle tracce che sono diverse da quelle lasciate dai trattorini della IFREMER e che appaiono tracce non naturali; non vi è però nessun elemento di prova relativo a quando, come e da chi possano essere state effettuate. Considerate che le conoscenze necessarie per scendere alla profondità di 3.400 metri - che poi con il tempo naturalmente sono cresciute, perché in questa materia ci sono degli sviluppi continui e rapidi - nel 1980 erano a disposizione di pochissimi organismi e comunque si richiedevano (abbiamo potuto verificarlo) presenze sul posto molto lunghe, molto complesse, con avvisi ai naviganti, con rischi per la navigazione, il che fa ritenere molto difficile che sia stato possibile effettuare queste operazioni di individuazione del punto sottomarino e poi di ricerca senza che ciò in qualche maniera affiorasse. Però c'è questo dato di fatto, che è un dato di fatto obiettivo.Anche sulla IFREMER è stata condotta una attività di indagine nei limiti in cui è possibile, perché certamente non è possibile pretendere di chiedere la collaborazione della Francia per accertare quale sia l'attività dei loro servizi segreti. Comunque è stata svolta un'attività di indagine da cui non è risultato nulla di anomalo nella modalità di condotta della Ifremer, a parte alcuni aspetti relativi alla modalità di conduzione in alcuni giorni delle ricerche; in ogni modo, nulla di significativo. Successivamente, però, ammaestrati dall'esperienza delle polemiche sull'IFREMER, la scelta del sistema utilizzato per effettuare il recupero è stata molto condizionata dalla possibilità di controllo continuativo delle attività che avvenivano sott'acqua. Quindi si è scelto il sistema del mezzo non presidiato, cioè senza uomini a bordo, proprio perché questo operava dalla nave, quindi sotto il diretto controllo del personale dell'ufficio, e attraverso una registrazione assolutamente continuativa di tutte le operazioni che era indispensabile, perché essendo guidato dalla nave non poteva essere interrotta da parte di chi stava sopra la visione e quindi la contestuale registrazione. Questo elemento è stato, insieme a quello della sicurezza del personale operante e a ragioni di costo, uno di quelli che ha portato a scegliere quest'altra ditta rispetto alla prima. Per quanto riguarda Cogliandro, dovete tenere conto che in generale quelle informative - che sono molto brutte; le avrete lette sicuramente - il Cogliandro ha detto di averle avute da una seconda persona che sarebbe il giornalista Senise, il quale ha detto di aver raccolto queste voci in ambienti vari. La mia impressione è che più che una vera e propria raccolta di informazioni, quindi di materiale utile dal punto di vista informativo vero e proprio, fosse una raccolta di materiale utile per attività di tipo diverso.
FRAGALA’. Come è normale.
SALVI. Come può capitare. Ripeto, noi non siamo competenti a valutare questi aspetti. Circa le notizie riferite a vari fatti di nostra competenza, abbiamo potuto verificare che si trattava più che altro di attività di disinformazione, cioè si fornivano elementi che poi potevano essere utilizzati...
PRESIDENTE. Basti pensare che sulla dinamica di Ustica ci sono almeno tre versioni diverse.
SALVI. Quindi Cogliandro rientra in quella vicenda di cui parlavo prima, molto preoccupante, ma per ragioni diverse, per il fatto che un servizio di informazioni innanzitutto avesse un capocentro che lavorava in quella maniera, un capocentro di Roma, che vuol dire il punto nodale dell'attività informativa, e poi che una volta andata in pensione, questa persona, che evidentemente aveva delle sue fonti informative, continuasse a lavorare non per conto dello Stato, ma per conto di un soggetto singolo.
FRAGALA’. E sul contrasto Amato-Bucarelli?
SALVI. Come le ho detto, le fotografie non risultano, però certamente le tracce risultano.
FRAGALA’. Quindi ha ragione Amato.
SALVI. Non lo so, perché non so che cosa Amato abbia visto. Quelle fotografie non ci sono, né risulta che qualcuno le abbia prese, però certamente delle tracce anomale (che non so se corrispondano a quelle cui si riferisce Amato) nel fondo ci sono.
FRAGALA’. Voi avete esaminato lo scenario internazionale, il problema della pista libica e il problema dei depistaggi. Adesso vorrei chiedervi se avete esaminato un altro aspetto che riguarda questo tema, quello legato al fatto che in un altro grande delitto politico o di matrice politica del 1980 (il primo dei tre delitti) vi fu un clamoroso depistaggio di un certo tipo. Sto parlando del delitto Mattarella del 6 gennaio del 1980, allorché una telefonata arrivò al giornale "L'Ora" di Palermo dicendo: abbiamo vendicato i camerati uccisi ad Acca Larentia. Naturalmente, era una telefonata che allora né il giornalista de "L'Ora" di Palermo né altri a Palermo capì, perché nessuno capiva che cosa era Acca Larentia e che cosa poteva essere un'azione di vendetta rispetto ad un episodio di terrorismo politico ai danni di due giovani del Fronte della gioventù avvenuto a Roma due anni prima. Ebbene, voi sapete che quel depistaggio - che poi è stato accertato essere un depistaggio - serviva ad attribuire un delitto di natura politica, come l'uccisione del presidente Piersanti Mattarella, ad estremisti di destra, guarda caso a Fioravanti, che addirittura - secondo depistaggio di quel delitto - il servizio segreto rappresentò in un identikit, tramite il quale poi si convinse la vedova Mattarella che quell'identikit, che corrispondeva a Fioravanti, fosse effettivamente quello dell'assassino del marito che aveva sparato in quella mattina del 6 gennaio. Questo depistaggio è identico a quello fatto per Ustica sull'altro estremista, Affatigato, ed è identico al terzo depistaggio su Bologna, sempre ai danni di estremisti di destra. Soltanto che per questi ultimi due depistaggi, come voi avete scritto, si sono individuati dei responsabili nei servizi segreti militari che sono stati addirittura sottoposti ad inquisizione giudiziaria; il primo depistaggio invece andò avanti per anni ed anni e addirittura convinse anche il giudice Falcone a mettere la firma su quella famosa requisitoria con cui si chiedeva il rinvio a giudizio per Fioravanti e soltanto nel dibattimento di primo grado si poté appurare che Fioravanti non c'entrava niente con il delitto Mattarella, come doveva essere chiaro fin dall'inizio. Quindi, vi sono stati tre depistaggi tutti identici come metodologia e come attribuzione di responsabilità ad una determinata area politica; addirittura quello di Bologna e quello di Mattarella individuavano entrambi nel Fioravanti l'autore di questi delitti. Ebbene, la Commissione stragi rispetto a questi depistaggi ha esaminato una serie di atti. Il primo di essi è quello che il giudice Priore è riuscito a sequestrare a Forte Braschi: il famoso verbale supersegreto riservatissimo del CIIS, della riunione del Comitato interministeriale di sicurezza del 5 agosto 1980 - tre giorni dopo la strage di Bologna - in cui l'onorevole Bisaglia, l'onorevole Formica, Zamberletti, eccetera, sostengono di aver avuto delle informative precise da parte di servizi segreti stranieri (addirittura dal Ministro degli interni socialdemocratico tedesco, Baum) secondo cui l'attentato di Ustica e quello di Bologna avevano la stessa matrice, e cioè erano stati i libici; tesi che poi fu ripresa da Zamberletti nel suo famoso libro e che fu ripresa altresì in una audizione della Commissione stragi dal prefetto Vincenzo Parisi, già capo dei nostri servizi di sicurezza. Ebbene, questo verbale segretissimo fu tenuto tale per 16 anni e addirittura, alla fine di questo verbale, si disse tra i presenti: non se ne deve parlare al magistrati. Voi sapete che abbiamo chiamato tutti i presenti a quella riunione e tutti hanno detto di non ricordare nulla, di avere dimenticato tutto, di non sapere e di non ricordare nulla su quel problema della pista libica. Quindi, noi abbiamo acquisito tutta una serie di elementi: un rapporto stilato per il giudice Salvini dal capitano Giraudo in cui si descrive come il Ministero dell'interno avesse organizzato la costituzione fittizia di una fantomatica associazione segreta eversiva di destra denominata "Ordine nero" proprio allo scopo di mettere delle bombe e fare delle provocazioni. Inoltre, abbiamo ritrovato una pagina dell'agenda di Santovito, anche lui direttore del Servizio di sicurezza, in cui si parla di organizzare dei depistaggi.
PRESIDENTE. Scusi, "Ordine nero" nel 1980?
FRAGALA’. No, lo abbiamo trovato adesso.
PRESIDENTE. Quello è del 1974.
FRAGALA’. Sì, è comunque precedente al 1980. Abbiamo ritrovato, come dicevo, una pagina dell'agenda di Santovito sui depistaggi organizzati ai danni della Destra. Poi il capo di un Servizio sostiene di inviare delle veline alla stampa per attribuire le stragi, le bombe, eccetera, al mondo dell'eversione di destra in modo da far passare la cosa più facilmente nell'opinione pubblica e nella stampa. Ancora: abbiamo letto il famoso rapporto del generale Roberto Jucci sul noto caso, che è lo scenario ultimo prima della strage di Ustica. Jucci sostiene cioè che per un anno, su mandato dell'allora presidente del Consiglio Cossiga, era stato a Tripoli presso i suoi amici dei servizi libici, Jallud e compagni, e aveva cercato di bloccare la reazione dei libici rispetto a due richieste fondamentali che il dittatore libico voleva imporre all'Italia: la visita ufficiale e l'autoattribuzione o comunque la richiesta di sopportare l'attribuzione da parte delle autorità italiane della scomparsa dell'Iman e della sua uccisione, di cui era stato chiaramente autore Gheddafi. Ancora Jucci ci parla di quello che ha riferito poco fa il presidente Gualtieri: i nostri Servizi, su pressione dei Servizi libici, avevano dato la lista dei fuoriusciti che erano stati uccisi a casa fra l'aprile, il maggio e i primi di giugno del 1980. Poi dice Jucci: alla fine non ho potuto più resistere su questa posizione e ho dovuto abbandonare il campo, e succede quello che succede. Ora, rispetto a tutto questo pongo un quesito che ha un preciso significato politico, al di là di questi elementi che sono anche elementi probatori dal punto di vista giudiziario. Voi non avete pensato al delitto Mattarella, altrimenti ne avreste parlato.
SALVI. Sì, ci abbiamo pensato.
FRAGALA’. Sì, ma non avete analizzato il tipo di depistaggio per fare il raffronto o il confronto con i due depistaggi di Ustica e di Bologna. La mia domanda è la seguente: rispetto a tutti questi dati, è possibile ritenere che il Governo italiano sapesse tutto. Abbiamo appreso, sempre da Martini, da Parisi e da tutti gli altri, che il Governo aveva "l'amante libica la moglie americana", che aveva la politica estera del doppio binario, che addestrava i piloti libici e addirittura forniva ai libici le attrezzature di elusione del sistema radar italiano, eccetera. Mi chiedo: è possibile, alla luce di questa politica del doppio binario, che il Governo italiano sapesse tutto, come risulta dal verbale del CIIS del 5 agosto 1980, e avesse invece dato ordine ai Servizi di organizzare e creare i depistaggi una volta per il delitto Mattarella sul solito Fioravanti, una volta su Affatigato, un'altra volta su Bologna, ancora su Affatigato e Fioravanti, perché non potevamo rischiare una compromissione, ma soprattutto il Governo italiano non poteva confessare questi rapporti economici intensissimi con la Libia. Il problema della FIAT, quello dei denari prestati, e via dicendo, che avevamo con la Libia, e quindi scoprire il fianco rispetto ad una censura gravissima della comunità occidentale, della comunità NATO e degli stessi Stati Uniti d'America.
SALVI. Signor Presidente, noi abbiamo esaminato la vicenda dell'omicidio di Piersanti Mattarella e l'abbiamo anche posta in correlazione con un'altra operazione di depistaggio, che lei, signor Presidente, non ha citato, che è quella che va sotto il nome di "terrore sui treni", che si svolge successivamente. Certo, abbiamo anche valutato la possibilità, anche se in maniera del tutto incidentale, delle indicazioni di Fioravanti e Mambro, tenuti presenti anche gli spostamenti fatti da Palermo, Roma, Bologna, in quel periodo. Non abbiamo affrontato espressamente la vicenda Mattarella perché prima di tutto è ancora sub judice, ed è molto complessa. Certamente, qualora quelle fornite fossero indicazioni false, quella cioè del coinvolgimento di Fioravanti nell'omicidio, dovrebbe riflettersi molto seriamente sui collegamenti con l'operazione "terrore sui treni" successiva, nonché su tutto quanto si verifica in quel periodo. Questo però - ripeto - è ancora sub judice. Allora furono individuati, a parte quegli elementi che lei indica, furono individuati elementi diversi, anche documentali, come la presenza di De Francisci a Palermo in quei giorni, e altri elementi. E’ una vicenda estremamente complessa, indubbiamente però la nostra ottica era quella di valutare se fosse possibile da questo dedurre elementi utili per l'individuazione delle cause e dei responsabili del disastro aereo. Quindi, questo ragionamento va ricompreso in quello che abbiamo fatto più in generale sull'attività di depistaggio su Affatigato, in genere su questi soggetti di estrema Destra, in particolare su quello che lei riferiva a proposito di Bologna come anche sull'operazione successiva "terrore sui treni". Però, occorre tenere presente che di questi aspetti si è lungamente occupata l'autorità giudiziaria di Bologna che li ha affrontati anche sotto il profilo delle ragioni del possibile depistaggio. Per ciò che concerne poi gli accertamenti sulla condotta delle autorità politiche, non posso che rifarmi a quello che abbiamo già detto, cioè indubbiamente non vi fu un'attenzione sui fatti di Ustica, se non per quella annotazione in un verbale della riunione del Consiglio dei ministri. La nostra valutazione è che, qualora vi fosse stata un'informazione completa delle autorità politiche, questo sarebbe risultato non solo dai verbali della riunione del Consiglio dei ministri ma anche da altri documenti. Vorrei fare poi una sola osservazione incidentale, che non riguarda questo fatto e della quale sono a conoscenza per altra via, per le indagini che ho svolto in passato. La vicenda di Ordine Nero sin da allora pose dei gravi dubbi, tanto che ci fu anche un'inchiesta interna all'estrema destra sugli attentati di Ordine Nero. Non va però sottovalutato, se si vuole avere una visione reale della situazione dell'epoca e di come si inseriscono gli eventuali fatti di depistaggio, che contemporaneamente agli attentati dubbi, cioè rivendicati con sigle varie, ce ne sono altri dello stesso tipo compiuti sicuramente da soggetti dello stesso ambito. Questo è molto importante, anzi a mio parere è indispensabile per capire l'eventuale interazione che può esservi stata fra fenomeni disinformativi e di condizionamento della vita politica con la situazione reale. Questo ci porta subito a Bologna 1980, ed in particolare alla sentenza delle sezioni unite della Cassazione, che ha annullato la sentenza della Corte d'appello di assoluzione di Fioravanti e Mambro, proprio nel riconoscimento dell'esistenza nel 1980 di un progetto stragista all'interno dell'estrema destra ricavabile da elementi processualmente accertati.
PRESIDENTE. E’ un punto che esponete nuovamente nella requisitoria.
SALVI. Noi vi prendiamo spunto perché è molto importante sotto il profilo della motivazione del nostro provvedimento. Riteniamo che dobbiamo affrontare alcuni aspetti che appaiono non di competenza dell'autorità giudiziaria, come la ricostruzione di un momento politico, però pensiamo che possiamo farlo non con lo strumento dello storico, ma esclusivamente con quello del giurista, quindi utilizzando la sentenza delle sezioni unite, che ha ritenuto utilizzabile quella ricostruzione di contesto perché effettuata con quegli elementi. Io penso che ciò sia molto importante per il lavoro svolto.
FRAGALA’. Comunque, il nostro codice di rito prevede anche l'istituto della revisione, che per ora è di grande attualità, quindi non attacchiamoci a "maniglie" deboli! Ad un certo punto, come lei ha detto adesso, come punto di correlazione a favore dell'ipotesi del collegamento tra l'abbattimento del DC9 e la strage di Bologna, a pagina 458 della requisitoria, arrivate a questa - secondo me singolare - conclusione: "nella parziale coincidenza del tipo di esplosivo rilevato sui reperti del DC9 con quello confezionato per utilizzare l'ordigno fatto esplodere a Bologna e per il quale sono stati condannati con sentenza definitiva Valerlo Fioravanti ed altri". Poi, in un secondo punto, scrivete ancora: "in quanto è risultato in diversi procedimenti" (segue la citazione delle sentenze) "circa l'esistenza nel 1980 di un'area della destra eversiva che ricomprendeva tra gli strumenti di lotta politica anche il ricorso a stragi indiscriminate. Si badi che questi elementi non sono di ricostruzione storico-politica ma basati saldamente su fatti aventi dignità di prova"; cioè sulla sentenza - concludo io - più che sui fatti.
PRESIDENTE. Non ho capito perché lei afferma che si basano più sulla sentenza. Si basano su fatti riportati dalla sentenza.
FRAGALA’. No, perché qui si dice: "è ben riepilogato nella sentenza di primo grado e in quella delle sezioni unite della Corte di cassazione". Quindi non indicano i fatti ma la sentenza. Ho letto la sentenza e non ho ritrovato questi fatti. Allora, voglio rivolgere ai nostri ospiti la seguente domanda: questo tipo di accostamento sembra voler dire, fra le righe, che se è stata una bomba ad aver abbattuto l'aereo ad Ustica, allora il fatto è da ascriversi all'estrema destra, poiché storicamente in quel periodo questa aveva progetti stragisti. Mi domando quale sia il senso tecnico-giuridico di questa affermazione dal punto di vista del riferimento probatorio e vi chiedo di spiegarmelo.
SALVI. Mi pare di aver già risposto. Non lo diciamo tra le righe, ma in modo palese, che una delle possibili ipotesi su cui abbiamo lavorato è questa. Poi abbiamo lavorato anche su altre ipotesi e in varie direzioni. Certamente lei non può sottovalutare il fatto, innanzitutto, che c'è una sentenza emessa dalle sezioni unite (anche se poi potrà essere sottoposta a giudizio di revisione, per carità). Inoltre, ricordo molto bene, per la verità, la ricostruzione che la sentenza fa di tutti i passaggi relativi alle ragioni per le quali si ritiene che vi fosse questo progetto stragista.
FRAGALA’. Sono l'autore dell'interrogazione sul famoso tumore del testimone d'accusa contro Fioravanti. Dopo quindici anni il Ministro ha ammesso che quel tumore era inesistente e che quel signore, Massimo Sparti, fu liberato.
PRESIDENTE. Onorevole Fragalà, noi abbiamo fatto un lungo seminario e abbiamo acquisito una serie di elaborati dei nostri consulenti, uno dei quali, preparato dal dottor Galli, addirittura criticava una mia proposta di relazione nella parte in cui - secondo il dottor Galli - avevo sottovalutato il quadro indiziario che reggeva quella sentenza. Quindi, abbiamo documenti interni alla Commissione che nell'ambito dell'opinabilità...
FRAGALA’. Abbiamo anche la consulenza del magistrato De Paolis.
PRESIDENTE. Nella relazione mi ero riferito a quella consulenza; in questa legislatura ne ho acquisita una di segno in parte diverso.
SALVI. Per concludere, vorrei chiarire che noi abbiamo condotto l'indagine pensando ad Ustica.
FRAGALA’. Gli accostamenti che sto citando li avete fatti voi, non io.
SALVI. Sì, ma gli accostamenti li abbiamo fatti pensando ad Ustica e partendo da quello che riteniamo probatoriamente accertato. Non credo che si possa poi partire da questo per rivedere gli altri fatti, perché non l'abbiamo fatto con quell'ottica. Quindi, penso che se ciò si dovesse fare, bisognerebbe partire con ben altro approfondimento rispetto a quello che noi abbiamo dedicato alla revisione del giudizio su Bologna. Noi abbiamo - e non possiamo fare diversamente - considerato una sentenza della Cassazione che afferma dei fatti che per noi costituiscono prova.
FRAGALA’. Un'ultima domanda. A pagina 229 della requisitoria avete scritto: "l'ipotesi che il DC9 sia stato colpito da missili è dunque priva di supporto probatorio per ciò che concerne gli elementi desumibili dall'esame del relitto". Allora, è vero che il relitto parla, cioè è vero che avere il 94 per cento dei residui del relitto vi porta a questa affermazione, che mi pare categorica, nel senso che esclude l'ipotesi del missile. A pagina 404, poi, avete scritto: "l'esplosione all'interno dell'aereo in zona non determinabile di un ordigno è dunque la causa della perdita del DC9 per la quale sono stati individuati i maggiori elementi di riscontro. Certamente, invece, non vi sono prove dell'impatto di un missile o di una testata". Queste due affermazioni portano a rilevare, dalla vostra intera requisitoria, alcune certezze ferme che potrebbero portare ad una conclusione univoca. Perché, invece, nella vostra esposizione, sia della settimana scorsa sia in questa occasione, la rappresentazione è di assoluta incertezza su tutte le cause possibili del disastro?
SALVI. Onorevole Fragalà, noi abbiamo diviso l'esposizione in due parti: i dati ricavabili dal relitto e quelli ricavabili dal radar. Come ho detto la volta precedente il problema è quello dell'integrazione dei due diversi tipi di informazione. Quindi se dovessimo badare ai dati radar avremmo una certezza di tipo opposto: se dovessimo badare ai soli dati del relitto avremmo quella. E’ per questa ragione che sia la volta precedente che questa ribadiamo questo elemento di incertezza, che d'altra parte - ripeto - abbiamo lungamente e dettagliatamente rappresentato.
FRAGALA’. Per quanto riguarda i dati radar, siete in grado di affermare che al momento del disastro non vi erano tracce di aerei attorno al DC9-Itavia per almeno 50-60 miglia? C'è il problema dei famosi nove minuti.
PRESIDENTE. La conclusione a cui loro giungono è molto probabile: sulla base dei tracciati radar, nel luogo e nel momento del collasso, la traccia del DC9 è interferita da una traccia ortogonale di un aereo molto veloce che lascia i due plots noti e probabilmente qualche altro plot all'interno dello sciame. Ho capito bene?
SALVI. Sì, è la nostra ipotesi.
FRAGALA’. Siccome quando c'è stata l'audizione sui tracciati radar è stato affermato dai consulenti che negli ultimi 8-9 minuti di volo non vi sono tracce di aerei secondi o terzi rispetto alla traccia dell'aereo dell'Itavia, volevo sapere da quali elementi nasce questa diversa interpretazione.
SALVI. Non è una diversa interpretazione. I periti che voi avete audito avevano avuto un incarico diverso da questo e hanno espressamente rifiutato - come è scritto nella loro relazione - di esprimere una posizione su questo aspetto. Loro hanno esclusivamente esaminato i dati relativi agli altri elementi, diversi da questi. Siccome noto - mi dispiace dirlo - una sorta di pregiudizio riflesso rispetto al nostro lavoro, posso anche dire che quel periti che lei ha citato hanno affermato la presenza di aerei, o meglio l'interpretabilità di tracce intorno al DC9, come derivanti dalla presenza di aerei reali. Invece noi l'abbiamo escluso nella requisitoria; noi invece abbiamo ritenuto, rispetto a quei periti (il cui lavoro evidenziava due tracce correlabili con i punti meno 17 e meno 12, a formare la traccia di un aereo che si andava a riconnettere con la vicenda del DC9, che loro affermavano essere generati da un aereo), che quelle tracce fossero dipendenti da effetti dei lobi laterali.
FRAGALA’. Questo è quanto lei ha affermato la volta precedente e da qui nasce la mia domanda: com'è possibile che su elementi che non dovrebbero avere più opinabilità invece vi è questo contrasto netto?
SALVI. Se volete lo rispiego, sarei molto contento di farlo, ma abbiamo spiegato in 200 pagine le ragioni per le quali riteniamo che è possibile interpretare i plots meno 17 e meno 12 e quelli successivi come derivanti da anomalie del radar soltanto a prezzo di forzare, molto oltre i limiti teoricamente individuati dai periti, le modalità di funzionamento del radar. Abbiamo anche individuato le ragioni per le quali riteniamo che quei limiti, individuati in via teorica, siano sbagliati, perché è stata considerata della documentazione incompleta; se si fosse considerata la documentazione completa alcuni di quei dati sarebbero stati ancora più anomali. Ciò nonostante noi accettiamo per buona tale ricostruzione, accettiamo per buoni i parametri teorici che sono stati fissati, ma questi parametri teorici sono violati nell'interpretazione di questi dati. Abbiamo anche scritto che siccome noi non siamo dei tecnici radaristici non sappiamo se quelle interpretazioni sono giuste o sbagliate; sappiamo solo che dal punto di vista logico non sono coerenti, perché violano i presupposti di fatto e i presupposti logici che erano stati indicati nelle premesse.
PRESIDENTE. Tutto ciò è scritto con grande chiarezza e lo avete ben spiegato. Volevo ora fare un'osservazione: data la dinamica del collasso, se ci fosse stata un'esplosione interna, il luogo più probabile sarebbe stato la toilette, perché è il posto più vicino all'attacco del motore destro. Voi invece escludete un'esplosione della toilette.
SALVI. Ciò lo riteniamo non soltanto sulla base di valutazioni nostre, ma perché tutti i collegi serventi rispetto a quello principale, compreso quello esplosivistico che ha avuto un incarico specifico, escludono che nella toilette vi sia stata un'esplosione.
FRAGALA’. Poi c'è la questione della bambola nella cabina pilotaggio.
SALVI. Esattamente. Quindi ci sono contrasti che noi non riusciamo a superare.
MANCA. La maggior parte delle mie domande è superata sia dai quesiti posti dal senatore Gualtieri sia da quelli posti dall'onorevole Fragalà. Comunque, prima di porre qualche domanda, vorrei partecipare ai pubblici ministeri alcune considerazioni da me fatte quando ho finito di leggere - le ho lette tutte, senatore Gualtieri - le 800 pagine della requisitoria. In primo luogo ho riconosciuto e continuo a riconoscere che al di là di tutto, della quantità o della qualità del lavoro, delle difficoltà di acquisire familiarità con un mondo non solo molto tecnico ma per certi versi anche atipico come quello del volo, bisogna certamente sottolineare e riconoscere con favore soprattutto l'impegno e - può darsi che voi non lo accettiate - il coraggio giuridico che ha caratterizzato tutta l'opera. Infatti, dobbiamo riconoscere (perché siamo tutti uomini) che nella vicenda di Ustica non era facile non essere influenzati, anche se si è giudici esperti, dalle tesi portate avanti in tanti anni dai mass media e dalle convinzioni, che sembravano assolute, da parte di una larghissima parte dell'opinione pubblica. Mi riferisco, ad esempio, alle certezze che sembravano acquisite sull'esistenza di un cielo infuocato di altri aerei, quasi da far invidia alla battaglia di Inghilterra, oppure alla sicura connessione tra il giorno del disastro di Ustica e quello della caduta del MIG libico, oppure alla manomissione - data per certa - dei dati radar del sito di Marsala, oppure all'ipotesi del missile (ho quintali di giornali che dicono che certamente l'aereo è caduto per effetto del missile quando ciò è adesso escluso, lo si voglia dire direttamente o indirettamente, quasi al 100 per cento). Detto questo, debbo riconoscere che bisogna avere capacità, forza d'animo e coraggio per poter scrivere quella requisitoria in cui praticamente si abbattono tutti questi miti e questi teoremi che hanno convinto il 99 per cento degli italiani, compresa mia figlia, che la causa della perdita del DC9 fu un missile; tutti gli italiani per 18 anni sono stati convinti, per effetto dei mass-media, che si è trattato di un missile.
GUALTIERI. L'Aeronautica per prima ha contribuito a creare questa situazione!
MANCA. Qui non siamo in Commissione difesa, presidente Gualtieri; in quella sede tra me ed il presidente Gualtieri è istituzionalizzato un simpatico dibattito, qui invece qui c'è una situazione un po' diversa, altrettanto simpatica. Veniamo ora alla prima domanda e cercherò di fare in fretta anche se vorrei soddisfare esigenze che si accumulano da mesi; d'altra parte il caso è così clamoroso e per certi versi scandaloso che è bene che un commissario approfondisca dei dubbi. A pagina 15 della parte prima della requisitoria si legge che i pubblici ministeri hanno guardato con spirito aperto ai contributi delle parti private, rilevando che molto spesso proprio dagli elaborati tecnici dell'una o dell'altra parte sono venuti aiuti molto rilevanti, pur dopo le perizie disposte dall'ufficio. Ecco, ci potete dare qualche esempio di questi contributi? Direi che quelli più significativi sono venuti dalla parte imputata, cioè mi riferisco al perito Giubbolini.
SALVI. Lei citava Giubbolini che ha fatto un lavoro molto interessante sui dati radaristici. Però, ad esempio, le parti civili hanno fatto un lavoro altrettanto interessante sulla ricostruzione del punto di caduta del DC9, ricostruendo al contrario la rotta di caduta dei frammenti a partire dal punto di rinvenimento in mare e utilizzando una strumentazione a mio parere più sofisticata rispetto a quella impiegata dai periti. Quindi, effettivamente dei contributi vi sono stati da una parte e dall'altra. Devo dire che qualche osservazione siamo riusciti a tirarla fuori persino noi, ad esempio quella sull'errata localizzazione spaziale delle coordinate del radar rispetto al nord geografico e non al nord magnetico che abbiamo individuato attraverso l'esame delle carte e dei documenti.
MANCA. Ricordo male oppure Giubbolini ha dato un notevole contributo per interpretare quegli echi che sono comparsi attraverso Siena?
SALVI. Su questo c'è stata una forte divergenza interpretativa tra parti civili e consulenti degli imputati. I periti del giudice istruttore si erano orientati per una interpretazione nettamente favorevole alla presenza di un secondo aereo nella rotta del DC9. Noi abbiamo ritenuto che molte delle anomalie individuate dai periti non fossero interpretabili come echi di un aereo effettivo.
PRESIDENTE. Di un aereo che volava nascosto.
SALVI. Sì, però purtroppo non è tutto così semplice, perché dobbiamo anche dire che nonostante l'interpretazione fosse più favorevole agli imputati, per dirla in termini molto semplici, rimangono alcuni dati non interpretabili. Per alcuni di questi è stata offerta da parte dei consulenti degli imputati una prospettazione che va però veramente molto al di là dei limiti teorici ammissibili. In particolare, l'allungamento dell'impulso che dovrebbe ammettersi per poter riconoscere che alcuni punti paralleli alla rotta del DC9 non sono generati da un altro aereo ma da riflessi anomali dello stesso derivanti appunto dal meccanismo particolare di funzionamento del radar Marconi. Si richiede cioè di superare di molto questi limiti. Poi rimane un dato di fatto: almeno uno di questi plot risulta visto anche dai radar militari. Qui allora dovremmo avere una coincidenza, e qui purtroppo le coincidenze sono tante, di un'anomalia del radar di Ciampino che determina un'eco in un certo punto, che però viene visto anche da radar che sicuramente quell'anomalia non hanno. Quindi, in conclusione, per rispondere alla sua domanda, riteniamo che la rotta del DC9 presenti anomalie molto superiori rispetto a quelle di qualunque altro aereo che vola quella sera. E’ possibile interpretare la maggior parte di queste secondo i meccanismi di funzionamento del radar quali ipotizzati dai collegi peritali che si sono succeduti, però solo a prezzo di forzarne gli strumenti interpretativi; ciò nonostante alcuni fatti rimangono inesplicati.
MANCA. Mi si consenta solo una constatazione tecnica: di tre radar si da più rilevanza a quello più vecchio e meno ai due più nuovi; il radar Marconi era il più vecchio, il Selenia e quello di Marsala i più nuovi. Non mi riferisco solo al fatto di Siena, perché Marsala non vedeva fino a Siena.
SALVI. Anche su questo ci siamo posti il problema del perché il radar Selenia non dovrebbe aver visto le cose che ha visto il radar Marconi. Per questo dicevo l'altro giorno che è importante la relazione Pratis. Innanzi tutto, vi sono delle ragioni per le quali il Selenia potrebbe non aver visto e sono relative alla diversa portata sia in altezza che in distanza dei due radar. Per esempio, noi sappiamo con certezza che una delle tracce cosiddette "PR", cioè quelle che non hanno la risposta del transponder, del secondario, e che si è cercato di interpretare come tracce anomale del radar di Ciampino, quindi Marconi e Selenia assemblate, corrispondono invece ad un aereo reale che è poi atterrato a Pratica di Mare. Ora questa traccia viene vista in prevalenza dal Marconi e in maniera molto saltuaria dal Selenia e cioè dal radar più moderno, per cui evidentemente dipende dal luogo e dalle condizioni in cui si trova l'aereo, l'oggetto o il bersaglio rispetto al radar, se l'uno o l'altro dei due radar lo vede di più. Dicevo che la relazione Pratis è importante per capire questo, perché nella Pratis, nella parte omessa della documentazione, quella cioè che non abbiamo mai avuto e che come pubblici ministeri abbiamo visto a giugno di questo anno, si riproduce una situazione molto simile a quella del 1980. Ciò non è irragionevole perché voi dovete sempre tener presente (cosa cui noi siamo arrivati con molta difficoltà a capire con il tempo) che il radar di Marsala funziona con una logica completamente diversa da quella di Ciampino, per cui se la visione che, al limite massimo di portata, il radar di Marsala ha avuto dell'aereo ipotizzato attaccante è stata tale da non consentire la correlazione - secondo i parametri automatici di correlazione di cui il radar dispone, e che sono diversi da quelli di Ciampino, di un aereo non dotato di transponder - questo aereo non è stato registrato perché non ha dato luogo ad una traccia ma soltanto a dei ritorni radar che potevano essere visti dagli operatori ma che non necessariamente erano registrati. Di questo avremo, secondo la nostra ipotesi, una conferma nei dati radaristici della Pratis che non sono allegati alla relazione, perché ci sembra di capire che l'aereo attaccante simulatamente nel 1989 viene visto e considerato una traccia da Marsala solo perché vi sono delle azioni manuali a consolle da parte degli operatori che correlano, da parte loro, dei ritorni radar che altrimenti non sarebbero correlati. Pertanto, abbiamo ritenuto che, se non vi fossero state queste azioni manuali a consolle e se non ci fosse stata la trasmissione in automatico da Licola dei dati - non c'era nel 1980 - visti da Licola stessa, Marsala non avrebbe visto se non dei punti, dei ritorni singoli, saltuari e non correlati tra di loro: non avrebbe registrato la traccia. Di conseguenza, molta importanza avrebbe assunto il disporre del DA1 di Licola, cioè del documento di Licola nel quale gli operatori manuali del sito fonetico manuale di Licola stessa annotavano ciò che avevano visto, perché loro dovrebbero aver visto. Purtroppo, il DA1 è stato soppresso e i dati che furono trasmessi con il telex successivamente sono diversi da quelli che risultano dalle conversazioni telefoniche; da esse risulterebbe la presenza di un altro aereo. Anche di ciò abbiamo dato ampia contezza nella requisitoria, cercando di ricostruire anche la traccia sulla base di plots che vengono indicati nei plottaggi inviati telefonicamente e che sono diversi da quelli inviati con la trascrizione del DA1 soppresso. Vi è una traccia di un aereo parallelo al DC9, che non è correlabile all'Air Malta, che segue a dieci minuti di distanza e che invece veniva poi correlato a questo. Spero di essere stato chiaro.
MANCA. E’ stato chiarissimo e ciò conferma tutto l'aspetto tecnico. Comunque, questo avrebbe soltanto attinenza con la semicollisione, perché la traccia del missile sul relitto non c'è.
SALVI. Onorevole senatore, anche su questo siamo al solito; il nostro compito sarebbe quello di dare certezza ma purtroppo, se non siamo riusciti, non possiamo inventarci le cose. La ragione del turbamento nel dare la risposta è data dal fatto che riteniamo non ci sia nessuna traccia d'impatto di missile sulla fusoliera del DC9. Ribadiamo che - secondo tutte le sperimentazioni fatte e secondo i modelli elaborati al computer e via dicendo - se vi fosse stata un'esplosione, per la quantità di materiale che abbiamo dovrebbero esservi delle tracce sulla fusoliera del DC9. D'altra parte, è anche vero che le tracce ricostruibili dal radar porterebbero a ritenere una traiettoria di attacco missilistico sia pure anomala, non di quelle di tipo tradizionale che vengono scelte, per cui rimane un contrasto di fondo tra i dati radaristici e quelli del relitto, che "parlano" ma non ci dicono tutto.
GUALTIERI. Se utilizziamo la requisitoria perché una parte di noi dica con sicurezza che è stata una bomba e un'altra parte dica che è stato invece un missile, contraddiciamo in questo modo tutto quello riportato dalla requisitoria. Il mio amico generale sta dicendo che è escluso categoricamente questo. La relazione che c'è stata portata non ci dà certezze.
TARADASH. E’ l'unica certezza che ci dà.
PRESIDENTE. Mi scusi, senatore Gualtieri, le devo dire che la requisitoria è chiara. Dall'esame del relitto sembrerebbe in prevalenza da escludere che sia stato un missile; i tracciati radar darebbero invece un'indicazione di senso contrario. Questo è il punto.
MANCA. No: la presenza di un aereo e non del missile. Sono due cose diverse.
PRESIDENTE. Ho capito: è una quasi collisione. Se dobbiamo ritenere, nell'ambito del calcolo delle probabilità, che sia scoppiata la bomba mentre l'aereo passava ortogonale sotto il DC9, mi sembrerebbe di dover ritenere che era un aereo che si trovava...
GUALTIERI. Il nostro compito non è questo.
PRESIDENTE. Lo so, ma non posso impedire al senatore Manca di rivolgere delle domande, dal momento che ho lasciato all'onorevole Fragalà la possibilità di chiedere agli auditi una revisione della sentenza di Bologna!
MANCA. D'altra parte, sulle stranezze delle domande che ho sentito in questa e in altre sedute potrei scrivere un romanzo. Ho lasciato perdere, perché è la dialettica della democrazia. Io stesso approfitto della sede istituzionale, dal momento che non posso andare a trovare gli auditi in privato per chiarire i dubbi che ho. Per quanto riguarda le tesi, devo dire che non hanno importanza perché abbiamo capito adesso la piega presa. Non c'entra niente la causa. Se vuole essere accontentato, signor Presidente, l'attenzione della Commissione si poggerà su altri settori e non tanto sulla causa. Più che domande di chiarimento sulla requisitoria, ciò che sto per ricevere appartiene alla categoria dei pareri. Questo c'entra, perché alla fine la Commissione stragi dovrebbe indicare al Parlamento il da farsi per evitare in Italia il ripetersi di depistaggi o di quelle situazioni verificatesi che hanno portato alla vicenda di Ustica. Vorrei sapere dai pubblici ministeri, i quali dopo anni di lavoro hanno molta confidenza con il problema relativo agli incidenti aerei civili, se non ritengano in particolare che la vicenda di Ustica avrebbe avuto uno sviluppo molto più semplice e soprattutto più rapido se nel nostro paese fosse stata presente - peraltro non lo è ancora - un'organizzazione o un organismo deputato stabilmente e in forma autonoma (quindi, non dipendente da politici o da istituzioni) ad indagare sui disastri aerei civili. Oltre questo, su cui peraltro c'è stato un accenno sia questa sera che in sede di presentazione del documento, vorrei conoscere il loro parere in merito al fatto che il Ministero dei trasporti, dopo la rinuncia della Commissione Luzzatti a proseguire i lavori, non ha provveduto a nominare un'altra Commissione - come previsto peraltro dalla legge - lasciando poi tutto e solo nelle mani della magistratura.
PRESIDENTE. La domanda mi sembra pertinente.
ROSELLI. Si tratta ovviamente di pareri del tutto personali. Mi sembra, come già ha accennato il collega Salvi, ovvia la risposta alla prima domanda. Sarebbe sicuramente augurabile la presenza di un organismo, quale quello indicato dal senatore Manca, anche se bisogna tenere presente che - grazie a Dio - in Italia fino al 1980 non si sono verificati tanti incidenti aerei da dover giustificare l'istituzione di quest'organismo. La maggior parte degli incidenti si è verificata proprio negli anni immediatamente antecedenti al 1980 e soprattutto a Palermo. Quanto alla seconda questione, se non sbaglio, lo scioglimento della Luzzatti precedette di poco l'affidamento degli incarichi di carattere peritale da parte della magistratura, determinando così un problema di coordinamento che poteva facilmente sfociare in un intralcio. Soprattutto è da tenere presente che la commissione Luzzatti non si sciolse per mancanza di volontà di lavorare (anzi sotto vari profili la sua attività fu encomiabile e utilizzata dalle perizie successive) ma proprio per l'impossibilità di avere strumenti operativi, primo tra tutti, come detto chiaramente dalla commissione stessa, quello rappresentato dall'aereo (tra l'altro difficilmente recuperabile). Il relitto, infatti, fu recuperato solo vari anni dopo. Per non parlare del rilievo di certi strumenti di indagine, quali audizioni testimoniali, sequestri, perquisizioni, che sono strumenti tipici dell'autorità giudiziaria e che la commissione amministrativa non poteva avere.
MANCA. Dottor Roselli, ho fatto la domanda non per farmi dire i motivi per cui la Luzzatti rinunciò al suo mandato, ma soprattutto per portare il discorso sul fatto che ci potrebbero essere responsabilità anche al di là del settore aeronautico, mi riferisco a responsabilità istituzionali, alle quali tuttavia non accennerò. Veniamo ad un'altra domanda. Le conclusioni cui è giunto il collegio peritale Santini sono riportate a pagina 18 della requisitoria come non del tutto unanimi. Possiamo sapere dove e perché non si è verificata una identità di parere? Le chiedo questo perché sul punto ci sono delle forzature interpretative e perché secondo me una spaccatura non c'è stata. Vorrei sapere veramente come è andata in quel collegio.
SALVI. Senatore Manca, lei ha ragione, non c'è stata una spaccatura del collegio. Abbiamo infatti distinto tra la spaccatura del collegio Blasi e la non unanimità del collegio Santini, perché due componenti molto stimati del collegio, Casarosa e Held, arrivarono a conclusioni diverse circa la possibilità di ricostruire come ipotesi possibile, non necessaria, la dinamica e quindi la causa del sinistro. Quello che invece abbiamo rilevato con maggior forza è il netto contrasto, questa volta sì lo scriviamo, che si è venuto a determinare tra il collegio principale e quelli sussidiari. Questi ultimi sono infatti giunti tutti a conclusioni che quanto meno non corroborano quelle del collegio Santini.
MANCA. Non mi riferivo a quello, bensì solo al fatto che due componenti abbiano detto di sottoscrivere le conclusioni, ma anche che se un domani fossero uscite fuori le prove della presenza di altri aerei, allora la cosa sarebbe stata diversa. Ma forse è una sfumatura.
SALVI. Senatore Manca, non è solo una sfumatura, perché quello che noi scriviamo in un'altra parte della relazione è la risposta ai quesiti a chiarimento. Quando fu depositata la relazione peritale noi pubblici ministeri già da allora manifestammo la nostra preoccupazione per l'orientamento espresso dal collegio peritale perché ci sembrava ci fossero cose non ben spiegate, così chiedemmo al giudice istruttore di chiedere ai periti alcuni chiarimenti. Formulammo in tal senso 20-25 richieste sugli accertamenti fatti dal collegio peritale. Ci fu proprio una separazione nelle risposte, perché mentre la parte principale del collegio forse si limitò a trasformare le risposte dubitative, sulle quali noi avevamo delle perplessità, in assertive, e quindi si limitò a dire che riteneva che quel tale pezzo doveva essere considerato prova di esplosione, mentre in precedenza aveva utilizzato un percorso logico molto più incerto, Casarosa e Held accettarono il contraddittorio e in qualche maniera, supportarono le nostre preoccupazioni (tanto è vero che poi quando abbiamo ripreso quelle risposte ai chiarimenti, abbiamo utilizzato quel lavoro). Lei ha ragione nel dire che Casarosa e Held hanno condiviso la relazione peritale e che non vi è stata alcuna spaccatura: non vi è dubbio però che il loro contributo, non solo nella relazione, ma anche nel lavoro successivo, sia stato molto più problematico e abbia fornito elementi di valutazione che sono quelli che poi in parte hanno contribuito a fondare il convincimento negativo rispetto alla conclusione della perizia Santini.
MANCA. Quindi, su undici, due avevano una certa visione e nove un’altra.
ROSELLI. Sì, è così.
MANCA. E tra i nove c'era Taylor, considerato come uno delle massime autorità sugli incidenti aerei.
SALVI. Anche Protheroe (ausiliario molto bravo nonché collaboratore di Taylor), che non faceva parte del collegio peritale, sostanzialmente condivise questa impostazione. Non c'è dubbio che per noi è stato molto difficile esaminare questi aspetti, però mi farebbe piacere se lei mi indicasse, visto che lei ha anche delle competenze tecniche, se ci sono state delle valutazioni errate o non condivisibili, perché sarei pronto a discuterne con lei. Nel nostro lavoro abbiamo utilizzato cognizioni tecniche non in nostro possesso, ma tutto il materiale dei periti. A volte ci sono dei meccanismi, anche mentali, che scattano in noi come in tutti quanti, e lo credo che la volontà di dare una risposta positiva, a volte possa portare a forzature interpretative. Credo, per esempio, che l'esperienza dell'Istituto, nel quale lavoravano alcuni dei periti, che aveva esaminato il caso Lockerbie, sia stata determinante per il giudizio del collegio peritale perché si è ritenuto di dover utilizzare lo stesso meccanismo logico e gli stessi elementi utilizzati per il caso citato per dare una risposta ai nostri quesiti. Per esempio, Protheroe individua il fenomeno del quilting, e cioè delle deformazioni che si determinano nei punti di incrocio tra le ordinate e i correnti e le deformazioni che la lamiera presenta, come sicura individuazione della presenza di una sovrapressione interna. Ciò probabilmente in analogia con quanto si verificò nel caso Lockerbie dove l'effetto disastroso, e cioè l'improvvisa apertura dell'aereo, derivò dalla canalizzazione della forza dell'esplosione, avvenuta nel portabagagli, nei condotti di aerazione dell'aereo, che determinò lesioni in luoghi completamente diversi da quello da dove era situata la bomba. Quindi, l'ipotesi che fu fatta sulla base delle analisi delle deformazioni strutturali riportate dall'aereo, aveva portato in un primo momento alla ferma convinzione di questi esperti della localizzazione dell'esplosivo all'interno della fusoliera in una determinata posizione. Quando furono recuperati gli altri pezzi della fusoliera, fu necessario riconsiderare questa ipotesi. Noi abbiamo valutato attentamente questo percorso logico che poi si è riprodotto, esattamente nella stessa maniera, per ciò che concerne l'interpretazione degli elementi tecnici derivanti dall'esame della toilette, ed abbiamo concluso che questo metodo di indagine, che sicuramente è molto importante e corretto e che è fondamentale per la ricostruzione, non è di per sé sufficiente; deve portare dei riscontri di carattere diverso, come nel caso di Lockerbie fu il rinvenimento di tracce dirette di esplosivo - perché l'aereo cadde a terra e quindi fu possibile trovarle - e che invece, lo ripeto, sono escluse nella toilette da tutti coloro che hanno effettuato degli accertamenti tecnici. Abbiamo anche valutato una cosa che il collegio peritale non aveva valutato: che l'unico caso per il quale abbiamo avuto nozione di una esplosione nella toilette di un ordigno in una posizione che poteva essere corrispondente a quella ipotizzata dal collegio peritale su di un aereo di tipo diverso, ma di struttura analoga (perché la toilette si trovava collocata in corrispondenza del motore destro che a sua volta si trovava collocato, così come quello del DC9, sulla fusoliera) reca all'interno della toilette e sul motore esattamente quel tipo di danno che era stato ipotizzato nelle simulazioni all'elaboratore e verificato nel corso degli esperimenti effettuati facendo esplodere una vera toilette posta vicino ad un simulacro di motore. Abbiamo quindi ritenuto di avere un ulteriore elemento, per così dire, sperimentale delle valutazioni fatte dal collegio peritale. E’ vero dunque che siamo andati in direzione di un avviso contrario rispetto alle opinioni espresse da alcuni dei maggiori esperti mondiali in materia di aeronautica; riteniamo di averlo fatto sulla base di elementi che ci sono stati forniti da persone altrettanto esperte, come il collegio chimico, quello metallografico, quello frattrografico e quello esplosivistico, nonché sulla base degli elementi che sono stati forniti anche dal R.A.R.D.E. (che poi ha cambiato denominazione), che a mio parere per ciò che concerne la localizzazione nel posto indicato dal periti, e cioè nei pressi del lavandino del DC9, ha fornito delle interpretazioni contrastanti. Quindi abbiamo fatto questa verifica della coerenza logica interna, abbiamo posto a confronto questi risultati con quelli di persone altrettanto qualificate e ne abbiamo tratto le nostre conclusioni.
MANCA. La ringrazio per questa abbondanza di informazioni, però debbo chiederle ancora qualcosa. A pagina 18 della vostra requisitoria si accenna alle difficoltà molto gravi - così sono definite - avute a motivo dell'opposizione formale ed informale, cioè di fatto, del segreto su elementi molto importanti dei dati radar. Vorrei sapere da chi era operata detta opposizione del segreto e comunque se era una opposizione arbitraria oppure era dovuta a regole che vigono in campo nazionale ed alleato sul grado di riservatezza da attribuire ai dati radar. In poche parole, sono da biasimare o al limite da lodare uomini che hanno opposto il segreto? Sempre a proposito di opposizione di segreto, da più parti si è parlato, e anche questa sera se ne è fatto cenno, di una opposizione di fatto di un segreto di Stato oltre a quello formalmente opposto e con modalità diverse da quelle legittimamente previste. Ricordo che un simile modo di procedere in una materia di estrema delicatezza quale quella oggetto dell'indagine aveva come destinatari o alti funzionari dello Stato (quelli che facevano parte delle commissioni peritali) oppure addirittura magistrati che erano tutti, per la preparazione posseduta, in grado di apprezzare compiutamente la correttezza o meno di simili anomali comportamenti. Desidererei avere al riguardo qualche puntualizzazione o chiarimento. A proposito dell'atteggiamento dei militari, come valutate - lo avete accennato nella requisitoria, ma vorrei sentirvelo dire in questa occasione - la collaborazione offerta dall'Aeronautica militare, specialmente negli ultimi anni? Si è parlato di una simulazione, e io ricordo che la simulazione fu fatta a seguito di richiesta da parte dell'Aeronautica: mandiamo un F104 a ripercorrere la rotta. Questo per inciso, perché tutto si inserisce in un quadro complessivo.
SALVI. Rispondo sempre io perché le domande riguardano questi aspetti tecnici. Anzitutto, sopprimeremo la pagina 18... ( ( ( Ilarità ).
MANCA. Le chiedo scusa, ho cercato di fare presto, volevo porre le mie domande con più grazia. (Interruzione del senatore Gualtieri).Senatore Gualtieri, l'Aeronautica ne ha avute tante di medaglie ed ha un medagliere che lei non può neanche immaginare!
PRESIDENTE. Sentiamo la risposta del dottor Salvi.
SALVI Innanzitutto abbiamo ripreso le osservazioni formulate dalla Commissione Luzzatti e dalla perizia Blasi, che hanno osservato che i dati a loro comunicati erano stati incompleti e che non avevano potuto effettuare con chiarezza il loro lavoro per tale mancanza di dati. Sono convinto che il segreto politico-militare sia uno degli elementi fondamentali della vita dello Stato, quindi non ho dubbi sul fatto che sia giusto opporre il segreto: ritengo però che ci siano meccanismi, che sono previsti dalla legge, tali per cui l'opposizione del segreto sia sottoposta a controllo di carattere politico. Quello che noi lamentiamo è che non vi è stata sempre l'opposizione formale del segreto di Stato, ma vi è stata quella che noi chiamiamo una opposizione di fatto, informale, intesa nel senso di non comunicare l'esistenza di informazioni che noi non potevamo conoscere. E’ vero che siamo persone avvertite, che abbiamo studiato e possiamo sapere che esistono delle informazioni; però, siccome queste informazioni non sono a disposizione della collettività e nemmeno dei nostri periti, a volte non era possibile sapere che tali informazioni esistevano né era possibile domandarlo, perché la domanda presuppone la conoscenza: se lei non sa che esiste una certa cosa non la può nemmeno domandare. Noi abbiamo espressamente indicato in una pagina della nostra requisitoria che quando, per le note vicende, il dottor Priore divenne giudice istruttore e noi diventammo i sostituti procuratori addetti al procedimento, una delle prime cose che facemmo fu cercare di capire come funzionavano questi dati radar. Ci recammo in una sede dell'Aeronautica militare, mi pare a Mortara, dove - risulta a verbale, lo abbiamo citato - chiedemmo se le trascrizioni fino a quel momento fatte, la stampa delle informazioni contenute nei nastri di Marsala effettuata fino a quel momento era tutta, oppure se vi fossero altre informazioni. La risposta fu: è completa, non esistono altre informazioni. Abbiamo dovuto imparare - con il tempo, con molto tempo, perché nessuno ce l'ha detto e lo abbiamo scoperto noi, passo dopo passo - che quei nastri contenevano moltissime altre informazioni la cui pertinenza al processo non toccava valutare a chi faceva la stampa di quei radar, ma esclusivamente all'autorità giudiziaria. La risposta corretta sarebbe stata: esistono altre informazioni che sono coperte dal segreto militare. Al che, noi avremmo interpellato il Presidente del Consiglio e gli avremmo chiesto se si assumeva la responsabilità politica dell'opposizione del segreto. Tra queste informazioni nascoste ve ne erano alcune che sono state importanti. Certo, non c'è l'informazione dell'esistenza o meno di un altro aereo, ma per esempio c'è lo stato di allarme delle diverse basi, la prontezza degli intercettatori, l'armamento dei singoli intercettatori sulle diverse basi; ci sono le operazioni a consolle dei diversi operatori, c'è la possibilità di localizzare in punti geografici le operazioni che vengono effettuate attraverso la ball tab, la palla che si trova sul desco dell'operatore e con la quale egli posiziona sullo schermo il suo puntino. Questa informazione, per esempio, che per noi è molto importante, l'abbiamo appresa, se non ricordo male, nel 1997, ed esclusivamente attraverso l'attività effettuata presso la NATO, la quale ha collaborato in maniera molto seria perché ci ha detto quello che ci poteva dire e quello che non ci poteva dire, così noi abbiamo saputo quello che potevamo sapere e quello che non potevamo sapere. Non abbiamo dovuto lavorare anni per capire che esistevano ancora delle informazioni che nessuno ci aveva dato. Io vorrei sapere sulla base di quale scienza infusa avremmo potuto chiedere all'Aeronautica militare se sul nastro era registrata la posizione geografica del movimento della palla effettuato dall'operatore. L'informazione non è irrilevante perché attraverso quell'informazione, ad esempio, noi abbiamo potuto verificare che prima del momento in cui altri avevano la cognizione del luogo in cui era caduto il DC9, un operatore di Marsala posiziona sul punto esatto di ultima battuta del DC9 il suo strumento, e noi ci chiediamo: da dove ha avuto la cognizione precisa del punto dove posizionare la ball tab? Forse se avessimo avuto questa informazione nel 1980 anziché nel 1997, avremmo potuto fare qualche domanda più pertinente.
MANCA. Certe volte colloquiare con i magistrati non è facile per uno che non ha mai vissuto certe esperienze. L'atteggiamento iniziale nei riguardi della magistratura da parte di un'istituzione cambia con il tempo, tant'è che alla fine si esagera a dire tutto. Quindi, vi è da prendere in considerazione questo atteggiamento mentale di individui che per una vita sono stati abituati a vivere il segreto, ovattati, a non avere mai contatti con un magistrato, per cui non sanno neanche loro perché dicono o non dicono. Di qui a dire che c'è del dolo... ce ne passa, da qui a dire che c'è stata una congiura, un complotto, tutte queste cose...
SALVI. Non ho ancora risposto alla seconda parte della sua domanda, sulla collaborazione. Effettivamente, in seguito abbiamo avuto una collaborazione molto diversa e molto buona. Il limite è stato comunque quello di cui ho parlato prima. Alcune cose probabilmente si sono trascinate perché forse nessuno aveva cognizione di ciò che ci era stato detto e di ciò che non ci era stato detto. Una collaborazione molto importante è intervenuta anche nei rapporti con la NATO. Per esempio, la possibilità di fare domande puntuali a quest'ultima ci è venuta anche dalle informazioni che ci sono state fornite dall'Aeronautica militare prima che potessimo porre i quesiti. Quindi in quel caso, ad esempio, vi era un segreto, l'Aeronautica non poteva superarlo perché era un segreto sovranazionale però ci ha messo nelle condizioni di porre le domande giuste, alle quali sono state date delle risposte.
MANCA. E’ di importanza strategica considerare questa affermazione perché l'istituzione Aeronautica non c'entrava. A tale proposito ho i necessari riferimenti; sarà stato un lapsus? Mi chiedo perché nella requisitoria, in più pagine, vi è scritto: l'Aeronautica militare ha un atteggiamento ostruzionistico e delittuoso. Che c'entra l'istituzione con il comportamento di alcuni individui? Forse per brevità hanno scritto così perché non credo che lor signori possano credere che in 70.000 siano indiziati di reato. Era un'espressione da considerare in un certo contesto.
ROSELLI. Si è sempre cercato di distinguere e riferire i comportamenti a singoli esponenti dell'Aeronautica. Va peraltro sottolineato che taluni comportamenti vengono comunque attribuiti a quelli che in quel momento erano i vertici dell'Aeronautica. Quindi, se qualche volta si è parlato dell'Aeronautica, si intendeva dire in quel momento i vertici dell'Aeronautica per cui l'accostamento non era del tutto peregrino.
MANCA. A pagina 404 si fa riferimento agli effetti derivanti dall'incompletezza dei documenti e delle informazioni trasmessi dall'Aeronautica militare. A pagina 610 si richiama l'atteggiamento contorto tenuto dall'Aeronautica militare; si fa riferimento all'atteggiamento ostruzionistico dell'Aeronautica militare. Ho capito il senso di certe affermazioni però volevo essere preciso.
ROSELLI. Non si è mai parlato dell'Aeronautica come istituzione.
MANCA. Mi sembrava comunque doveroso chiarire questo punto in ossequio alle istituzioni. Ricordo le pagine 404, 610 e 621, ma non volevo riaprire il dibattito. Vorrei fare un'ultima domanda sulla responsabilità dei politici che in parte è stata brillantemente esposta - lo riconosco - dal presidente Gualtieri. La faccio pure io perché peraltro ho ritrovato elementi che suffragano la mia idea, contenuta in un'appendice alla relazione del 1992 del senatore Gualtieri redatta da due deputati della sinistra ed esattamente il deputato De Julio ed il senatore Macis. Premesso che ritengo di poter concordare con il giudizio formulato dal presidente Pellegrino secondo il quale l'esposizione che è stata fatta l'altra volta della prima parte della requisitoria sia stata abbastanza estesa, insieme a quella scritta, e si sia basata su una serie di dati che hanno una loro oggettività. Nella seconda parte ho avuto modo di rilevare come essa sua assai meno ampia con riferimento ad altri aspetti riguardanti soggetti comunque coinvolti nella vicenda, nonché alla trattazione della responsabilità dei politici. Se non vado errato, nella seconda parte della requisitoria, ai politici sono dedicate solo due o tre pagine (pagina 506 e 507). In altri termini, per usare un termine già usato dal presidente Gualtieri, il "conto" viene presentato solo ad esponenti dell'Aeronautica. Ho avuto modo di leggere in atti ufficiali riguardanti Ustica, in particolare nella nota integrativa alla relazione Gualtieri 1992, pagine 55, 56 e 57, che le responsabilità a livello governativo hanno costituito un elemento portante e decisivo di copertura della verità su Ustica; che "i ministri Formica e Lagorio tennero per sé l'ipotesi del missile di cui erano a conoscenza fin dall'indomani del disastro; che gli stessi elementi forniti sin dal 1980 dal ministro Formica sono andati dispersi sulle nebbie calate sulla vicenda; che vi era stata una preventiva denuncia di iniziativa, di inchiesta e di accertamento; che da parte di responsabili politici era mancata l'attenzione a causa dell'impressionante concomitanza con altre vicende terroristiche quali la strage di Bologna del 2 agosto 1980 e del sequestro D'Urso". Mi sono chiesto e chiedo a lor signori: è possibile affermare concordemente che, se inerzia vi fu, tutto sia dipeso unicamente dalla disinformazione reale o presunta, posta in essere da alcuni esponenti aeronautici, quando invece numerosi erano gli inputs di varia natura, tutti ben tesi a verificare la causa del disastro e provenienti da organi degli apparati statali, dai mass-media e dalle numerose interrogazioni parlamentari. La stessa natura delle spese di recupero del relitto, come rientranti tra quelle a carattere obbligatorio dello Stato essendo spese per la giustizia, da taluni è stata definita come nozione elementare: perché ciò è potuto sfuggire a politici titolari di alte cariche istituzionali? In definitiva, mi sembra che la posizione dei politici e cioè la sofferta disinformazione cui è correlata in modo determinante l'ipotesi della gravissima accusa ex articolo 289 del codice penale - che poi è l'alto tradimento - sia meritevole di un ulteriore adeguato approfondimento. Mi domando comunque, e lo chiedo anche al presidente Pellegrino, se non sia il caso che la nostra Commissione si assuma questo compito anche per dare più spazio e più corpo a questa parte non trascurabile dell'inchiesta su Ustica.
ROSELLI. Mi pare che sul punto si sia già ampiamente risposto. Vorrei solo sottolineare due aspetti. Innanzitutto, la nostra attività è rimasta bloccata dall'assoluta negazione da parte di esponenti dell'Aeronautica militare che si fosse riferito qualcosa all'autorità politica perché nulla vi era stato. Comunque, nonostante le dichiarazioni di tutti gli esponenti politici sentiti che nulla era stato detto da parte di esponenti dell'Aeronautica militare, il nostro ufficio non si è accontentato ed ha svolto anche numerose attività di ricerca, di perquisizione e di sequestri a carico di imputati e presso uffici pubblici. Mentre sono state trovate, a livello di appunti e di agende, tracce di notizie acquisite da parte di esponenti dell'Aeronautica militare e dei servizi e rimaste occulte, mai comunicate, nulla invece si è rinvenuto a proposito di notizie altrettanto riservate comunicate all'autorità politica: di rapporti tra Sismi e rappresentanti dell'Aeronautica militare ne sono stati trovati tanti; di appunti relativi ad informative fatte ai Ministri, mai. In particolare, molte notizie importanti (ricordo per tutte solo quella relativa al capo di gabinetto sul MIG libico) risultano essersi fermate al livello del gabinetto della difesa, retto in quel momento da due esponenti dell'Aeronautica militare (rispettivamente, il capo gabinetto ed il vice capo gabinetto).
PRESIDENTE. Ringraziamo i magistrati per la loro disponibilità e la loro pazienza.
Rinvio il seguito dell'audizione dei dottori Nebbioso, Roselli e Salvi alla seduta di martedì 13 ottobre.
La seduta termina alle ore 23,15.