Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
SPORTOPOLI
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA DELLE FRODI SPORTIVE,
OSSIA, IL FURBO E’ SEMPRE PRIMO
"La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui partecipano alle gare. Da ciò si può dedurre il trattamento riservato agli avversari. L’Italia dove, addirittura, lo sport è sporcato da truffe ed inganni ed è insito di dubbi sulla sua genuinità. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".
di Antonio Giangrande
SPORTOPOLI
LO SPORT E' PULITO ???
FRODI SPORTIVE. OSSIA, IL FURBO E’ SEMPRE PRIMO
"L’Italia dove, addirittura, lo sport e insito di dubbi sulla sua correttezza e lealtà. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
UNA SQUADRA DI PIPPE: SPECCHIO DELL’ITALIA.
PARLIAMO DELLO SPORT TRUCCATO.
DANZOPOLI.
A PROPOSITO DI SCHWAZER E PANTANI.
MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...
PARLIAMO DELL’ITALIA DEI BAGARINI. GLI AVVOLTOI DEL BIGLIETTO ONLINE.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
IL PALLONE PERDUTO IN UN MONDO DI LADRI.
I FURBETTI DEL 5 PER MILLE.
IL MISTERO DI MICHAEL SCHUMACHER.
VALENTINO ROSSI, LA SOLIDARIETA’ NAZIONALE E LA LEGGE DELL’INVIDIA.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
POLE DANCE: LO SPORT A LUCI ROSSE.
SESSISMO NEL CALCIO.
IL CALCIO A CASA TUA.
LEGA PRO: IL CALCIO IMPOSSIBILE.
SCANDALO CALCIOSCOMMESSE ANCHE IN LEGA PRO E SERIE D.
CALCIOPOLI: GLI SVILUPPI.
IL CALCIO: PEGGIO DI GOMORRA!
SOLDI E COMPLOTTI NELLO SPORT.
IL CALCIO FALLITO.
PARMA CALCIO: UN BEL RICORDO.
IL CALCIO ED IL BANCOMAT DEL CONSENSO.
PAY TV: SPORT E PIRATERIA.
CALCIOPOLI: UNA FARSA ED UNA PIOVRA.
CALCIOPOLI: PIRATERIA E SPORT.
TRUFFE DA SPORT. IL CONI NON PAGA I 13 AL TOTOCALCIO. IL CASO MARTINO SCIALPI.
FALLIMENTI TRUCCATI. IL MARCIO DOVE NON TE LO ASPETTI: NEI TRIBUNALI E NELLO SPORT.
IL PRESIDENTE DEL CONI, GIOVANNI MALAGO’ ED IL COLMO DEI COLMI.
LO SPORT DELLE EPURAZIONI, SCANDALI, SPRECHI E MALAGESTIONE.
GLI AFFARI SPORCHI DEL CALCIO.
GLI AFFARI SPORCHI DEL TENNIS.
FINE CARRIERA NELLO SPORT: NON E’ TUTTO ROSE E FIORI.
IL MISTERO DI DENIS BERGAMINI.
GIALLO PANTANI.
MARCO PANTANI. ASPETTANDO GIUSTIZIA.
IL CALCIO E PAZZIA: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL TIFOSO.
CORRERE FA MALE?
LA FIDAL ED I VERI ATLETI.
L’ITALIA DEGLI ABILITATI. ESAME DI ABILITAZIONE ANCHE PER CORRERE.
TIFO E POLITICA.
TIFO, POLITICA E GIUSTIZIA.
VITTIME DI SPORT. VITTIME DI TUTTO.
CHI PAGA GLI ARBITRI DI CALCIO?
LA JUVE E LE ALTRE. E BASTA!!! LA VOLPE QUANDO NON ARRIVA ALL’UVA DICE CHE E’ ACERBA.
FISE, LO SPRECO VA AL GALOPPO.
CALCIO. LIBERI DI GIOCARE?
ALLENATORI DI CALCIO. MAFIA O CASTA?
L’ENNESIMO CALCIOSCOMMESSE….PURE GATTUSO?
STADI. TIFO E RAZZISMO. I PICCOLI IMBECILLI CRESCONO.
IL GIOCATTOLO ROTTO.
IL PROCESSO AL PROCESSO SU CALCIOPOLI E L'ALTRA VERITA'.
PARLIAMO DELLA CASTA DELLO SPORT E DELLE SUE STORTURE.
LA BUROCRAZIA DEL CALCIO.
NON E' UN CALCIO PER GIOVANI.
CALCIO MARCIO: LE FALSE CITTADINANZE.
CALCIO MARCIO: LE FALSE FATTURAZIONI.
CALCIO MARCIO: LE SCOMMESSE.
ITALIA, IL PAESE DEGLI SCANDALI.
CALCIO, INFORMAZIONE, MAGISTRATURA ED..….IPOCRISIA.
CONI: LA CASTA ALLE OLIMPIADI.
PARLIAMO DELLA CASTA DEL CONI.
“CALCIOMERCATO, QUANTE TRUFFE”.
LE MAFIE NEL PALLONE.
LE CALCIOPOLI.
LA CUPOLA NEL PALLONE SECONDO PAPARESTA.
CALCIOPOLI NELLE GIOVANILI.
PARLIAMO DI SUDDITANZA PSICOLOGICA DEGLI ARBITRI: IL DOSSIER.
PASSAPORTI FALSI, DOPING NEL CALCIO E DOPING AMMINISTRATIVO.
BASKETTOPOLI.
DOPING NELLO SPORT.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
UNA SQUADRA DI PIPPE: SPECCHIO DELL’ITALIA.
«Eravamo il calcio migliore del mondo, ora siamo la Serie C dell'Europa». Il giornalista Marco Bellinazzo, esperto di calcio e economia e autore de “La fine del calcio italiano” (Feltrinelli), a poche ore dall'inizio dei Mondiali in Russia dipinge un ritratto agonizzante del movimento calcistico italiano: «Non è stato un suicidio, si tratta di omicidio», scrive Andrea Coccia il 14 Giugno 2018 su "L'Inkiesta". «Il calcio italiano è come un paziente che si trova in uno stato molto molto grave, ma che, nonostante la situazione, continua a voler rifiutare le cure». Non risparmia le parole, Marco Bellinazzo, giornalista del Sole24ore specializzato in economia del calcio, il cui ultimo libro La fine del calcio italiano, è appena stato pubblicato da Feltrinelli. Non le risparmia perché appare abbastanza evidente che il disastro del movimento calcistico italiano, per la prima volta quest'anno nemmeno qualificato ai Mondiali di Russia, vanno ben oltre la dimensione sportiva.
Qual è la malattia che lo sta uccidendo?
«L'incapacità di tradurre in investimenti industriali quel primato economico e sportivo che avevano fino alla fine degli anni Novanta. Come spiego nel mio libro, io individuo il 2000 come il millennium bug del calcio italiano, il momento in cui tutto inizia a cambiare, ma in peggio. Perché se pensi che all'inizio degli anni Duemila, Inter e Milan avevano lo stesso fatturato di Real e Barcellona e oggi sono un terzo, direi che l'entità del problema è di quelli grossi».
Cosa è successo?
«È successo che l'illusione di poter continuare a far crescere i diritti tv, ma soprattutto tutta una serie di miopie, lotte fratricide e intrecci di interessi, molto più che conflitti di interessi visto che ci siamo trovati di fronte a determinate persone che hanno fatto bellamente i propri interessi, hanno determinato la spoliazione delle risorse. È per questo che scrivo che più che un suicidio, siamo di fronte a un vero e proprio omicidio. L'Italia dai mondiali del 90 fino ad oggi avrebbe potuto godere di successi industriali, ancor più che sportivi, ma tutte quelle occasioni sono state perse per dinamiche industriali che si sono riversate sul calcio».
Per esempio?
«Be', al di là della questione degli stadi di Italia '90, che ormai è quasi banale raccontare, a un certo punto, nel 2000, noi ci siamo trovati nella situazione di essere tra i primi a poter creare una sinergia positiva tra l'industria delle telecomunicazioni e il calcio, incrementando per esempio la diffusione della banda larga nel paese, cosa che in Inghilterra e Germania British Telecom e Deutche Telekom hanno fatto dieci anni dopo».
In che modo?
«Investendo sui diritti del calcio, quindi incrementando gli abbonamenti sui diritti del calcio, e con quel cashflow fare investimenti sulla banda larga, perché la fruibilità delle partite ha chiaramente bisogno di reti di trasmissione importanti e all'avanguardia. In Italia invece, la Telecom di Tronchetti Provera era alleata con Stream e stavano per investire sui diritti del calcio, poi però a un certo punto evidentemente per salvaguardare altri che investivano in quel settore, quel mondo — che significa anche La7 — hanno deciso di investire sulle televisioni in chiaro, comprando le tv di Cecchi Gori e facendo esaurire quello slancio. Sempre restando nell'ambito dei diritti tv, a un certo punto in Italia arriva una pay tv internazionale che va sul digitale terrestre che si chiama Dahlia, ma che dopo appena due anni soccombe».
Come mai?
«L'idea di Dahlia era creare un canale di calcio di provincia, aveva le squadre di serie B e le squadre minori. Nel contratto di assegnazione di questi diritti c'era la possibilità, direi molto strana, per Mediaset Premium di prendersi le due squadre con più bacino di utenza della serie B, un diritto che Mediaset esercitò a due mesi dall'avvio del campionato mettendo Dahlia in grandissima difficoltà».
Dietro Dahlia chi c'era?
«C'erano vari azionisti, ma in particolare la famiglia Wallenberg, una famiglia svedese che, per capirci, era la proprietaria di Electrolux e Ericsonn, praticamente un terzo del PIL della Svezia, che avrebbero potuto tranquillamente investire. Però, quando ci fu questa possibilità, i Wallenberg vennero in Italia per capire se ci fossero delle garanzie su questo investimento. Lo chiesero a coloro che in quel momento governavano sia il calcio che il paese, ovvero al governo Berlusconi, in particolare al ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, e alla Lega Calcio e all’advisor Infront, che però nel frattempo valutava l’opportunità di rilevare la piattaforma per lanciare un suo canale specifico per la Serie A. A quel punto gli svedesi presero la decisione di tirarsi indietro».
Che cosa ha causato?
«Ha bloccato lo sviluppo del sistema radiotelevisivo intorno ai diritti tv, ha tolto risorse al calcio, perché poi i competitor, almeno sulla carta, sono diventati due. La dinamica della crescita dei diritti tv in Italia da quel momento è andata a rilento. Sono cresciuti pochissimo, mentre altrove aumentavano del 50 per cento ad ogni rinnovo triennale. Oggi paghiamo gli effetti di quelle dinamiche con il sostanziale monopolio di Sky».
È un problema che ha afflitto solo i vertici del calcio o ha riguardato tutto il movimento?
«No, per niente. Perché i diritti tv, attraverso il sistema della mutualità, va a tutta la catena. E impoverendo tutta la catena noi ci ritroviamo oggi con una Lega Pro in cui sono stati 80 punti di penalizzazione, squadre sospese, squadre in servizio provvisorio, altre in mano ad organizzazioni criminali, come il Foggia, per esempio, che è stata la prima squadra di calcio ad essere commissariata per infiltrazioni. O ancora, squadre che hanno passato più tempo in tribunale come il Frosinone o il Bari. Insomma, il sistema calcistico non ha più retto a causa di questa privazione di risorse».
A chi sono andate queste risorse?
«Le risorse sono arrivate abbondantemente nel calcio italiano a partire dalla metà degli anni Novanta, più o meno in contemporanea con il lancio della Premier League. Ma mentre in Inghilterra con quei soldi ci hanno pagato, oltre che ai giocatori e ai procuratori, anche lo sviluppo delle infrastrutture e sulla internazionalizzazione dei brand».
Cosa significa “internazionalizzazione dei brand”?
«Ora è una formula che sentiamo spesso, ma è una formula vuota, perché se non aggredisci i mercati commerciali con sinergie tra squadre, con uffici aperti in giro per il mondo, con strategie mirate ai diritti internazionali e all'organizzazione di tourné puntuali in certi paesi, questa formula diventa uno slogan e non vale più niente. E infatti guarda quanti sponsor internazionali abbiamo in Italia: pochissimi, a parte Emirates o Qatar Airways, ma lì ci sono stati problemi politici che hanno forzato la situazione».
Che effetti ha avuto sull'economia del calcio italiano?
«Di fatto ha depresso sia i ricavi da stadi si quelli commerciali. Pensa solo che il sistema calcio italiano, in media, ogni anno tra tutte le squadre può contare su circa 250 milioni di euro complessivi, mentre squadre come Barcellona, Real, Arsenal, Man City, incassano dagli 80 ai 90 milioni per singola squadra».
E la questione stadi?
«Negli ultimi 15 anni in Europa sono stati costruiti o ristrutturati 137 stadi, per un investimento totale di 15 miliardi di euro, in particolare tra Polonia, Turchia e Germania. In Italia sono stati inaugurati nel frattempo 3 stadi, per 200 milioni di investimenti».
Sono intelligenti gli altri e scemi noi o c'è qualcosa sotto?
«No, più semplicemente noi in Italia abbiamo una classe dirigente calcistico che è lo specchio di quella del paese e quindi c'è stata una miopia, una incapacità totale di guardare in un’ottica comune. La Premier, che nel frattempo è diventata una potenza da 5-6 miliardi di fatturato annuale, ci è riuscita perché ha saputo adottare criteri di ripartizione delle risorse molto americani».
Come funziona?
«I diritti tv, da cui incassano quasi 3 miliardi e mezzo, vengono divisi di fatto quasi al 70 per cento in parti uguali tra tutte le squadre. In Italia, invece, per vari motivi, anche attraverso tutti gli scandali che si sono ripetuti, questa visione di insieme non si è mai realizzata e si sono sempre tutelati interessi particolari. Forse è banale ricordare che siamo il paese dei campanili e dei comuni, però è così, la storia è questa: regole strutturate per far funzionare la Lega come un condominio, in cui ogni squadra ha il 5 per cento e può bloccare qualsiasi decisione e questo ha sempre bloccato qualsiasi tentativo di cambiamento, impedendoci di aggredire i mercati esteri e costruire un'industria calcistica moderna».
In questo contesto che mi stai raccontando, come valuti lo scandalo di Calciopoli?
«Sicuramente è andato a scoprire dei bubboni, ma il problema è che è nato all'interno di una guerra dinastica della famiglia Agnelli, che porta ad estromettere una parte a vantaggio dell'altra. Ma ci sono anche altre storie interessanti, per esempio, nel libro racconto una storia molto bella sui vivai, una norma bluff».
Cosa è successo?
«Sempre alla fine degli anni Novanta, quando vengono trasformati i club in società per azioni per permettere, giustamente, alle società di fare utili, in quella riforma si prevedeva anche una norma che imponeva di investire il 10 per cento degli utili nelle giovanili, nei vivai. L'unico problema è che quella norma non nacque per motivi sportivi, ma per motivi economici e più propriamente fiscali, di due gruppi, la Ifil, ora Exor, e Fininvest, che avevano l'esigenza di far trasformare i club in Spa per poter inserire le squadre nel consolidato e quindi abbattere l'imponibile. Giraudo e Galliani, che erano i rispettivi A.d. chiesero consiglio a Carraro e lui li indirizzò verso chi, nel governo, aveva la delega allo sport, ovvero Walter Veltroni. Quindi la norma venne fatta dalla sinistra per sostenere i vivai alla fine si ridusse a una norma bluff non per aumentare gli utili, ma per scaricare le perdite. E di fatto da quel momento la Serie A è diventato il campionato che investe di meno, in percentuale, sui vivai. Bastava prevedere una percentuale anche molto più bassa, ma non sugli utili, sul fatturato».
Alla luce di questo sistema che stai descrivendo, come dobbiamo valutare il fatto che negli ultimi anni squadre italiane come la Roma, l'Inter ma soprattutto la Juventus, che sono arrivate ai vertici del calcio europeo?
«Prima di tutto l'Inter ha vinto nel 2010, ormai 8 anni fa, ma soprattutto ha vinto grazie a degli investimenti di Moratti talmente grossi che lo hanno costretto a vendere la squadra. Ma in ogni caso la verità è che in Italia, tutte le squadre che hanno cercato di vincere o sono fallite o sono arrivate sull'orlo del fallimento, pensa anche alla Roma, alla Lazio, al Milan».
E la Juventus?
«La Juve ha una storia diversa perché ha una società diversa. E comunque è passata attraverso Calciopoli. In ogni caso, nell'assetto delle società italiane di oggi direi che soltanto tre di loro si stanno trasformando in quelle che chiamo SEC, ovvero Sport Entertainement Company, e sono la Juve, che è davanti a tutti, che ha cinquecento dipendenti e che ha fatto negli anni una serie di operazioni commerciali fondamentali per accrescere la propria situazione».
E le altre due?
«Le altre due sono proprio l'Inter e la Roma. L'Inter grazie a Suning e la Roma, dopo anni difficili, grazie alla proprietà americana, che ora sembra aver trovato la quadra, non investendo alla cieca, ma organizzandosi come una azienda. Non a caso la Roma è arrivata ad avere 300 dipendenti. Sono le uniche che vanno in quella direzione. Le altre hanno un modello che io definisco patriarcale, che fa seguito al modello mecenatistico antiquato che ha governato il calcio italiano negli ultimi decenni, portando il sistema calcio ad essere sempre in perdita di almeno 100 o 200 milioni di euro all'anno».
Quanto può durare questa situazione?
«È evidente che senza le opportune riforme e un cambio effettivo di passo, questa è una situazione che ci porterà ad essere la Serie C di Europa. Considera per esempio la questione dei diritti televisivi, che sta cambiando molto velocemente. La Ligue 1 francese ha appena venduto i diritti fino al 2024 sulla base di un canale tematico che dovranno fare, Mediapro».
Quindi ci ha superato anche la Ligue 1?
«Sì, e noi rischieremo di essere la periferia e di venire tagliati fuori da tutte le novità che stanno emergendo e in questo campo. Pensa all'ingresso di un gigante con Amazon, che dopo aver investito nei diritti di NFL, tennis e altro, ha appena comprato un piccolo pacchetto — 20 partite a stagione — della Premier Ligue. Ed è solo il banco di prova per un modello di business adeguato e da questo sistema noi per ora siamo fuori, e rischiamo di restarci visto la condizione del campionato italiano».
Cosa ci dobbiamo aspettare per il prossimo futuro?
«Mercoledì c'è l'assegnazione dei diritti per il triennio '18-'21, per la prima volta siamo arrivati a farlo a due mesi dall'inizio della stagione, senza che fosse stato risolto alcunché e mettendo in difficoltà molti club che su quei diritti potevano costruire crediti per il calciomercato e adempiere alle scadenze di fine stagione. Tra l'altro lo si sta facendo tutto di corsa, cambiando il modello di vendita, da quello a piattaforma a quello a prodotto, con il problema che ora a pagare saranno i tifosi e gli spettatori, visto che si rischia di tornare ai tempi di Tele+ e Stream e serviranno due abbonamenti per seguire tutte le partite della propria squadra».
Quali saranno le conseguenze se non si trova l'accordo?
«Io credo che l'accordo sarà trovato. Il problema è capire quanti soldi verranno messi sul tavolo, perché nella migliore delle ipotesi rischiamo di stare allo stesso livello degli ultimi tre anni, circa 1,3 miliardi, mentre tutte le altre leghe viaggiano con incrementi a doppia cifra. Rischiamo di rimanere nel medioevo del calcio, restando esclusi dallo sviluppo dell'industria del calcio moderna, legato al business e all'entertainement, un'industria che a livello europeo sta esplodendo, è passato da 11 a 20 miliardi di fatturato e l'Italia ha avuto incrementi da PIL, ovvero dello zero virgola».
Quanto ci costa non giocare questi mondiali?
«Ricadute molto molto importanti su tutta l'economia nazionale: dal punto di vista pubblicitario, ma anche da quello dei consumi, visto che i mondiali erano sempre stati un'occasione formidabile di marketing. C'è da dire che molti guardano solo a questa esclusione, ma dimentichiamo che negli ultimi due siamo usciti prima degli ottavi, e contro potenze calcistiche del calibro di Slovacchia, Nuova Zelanda e Costarica, con tutto il rispetto ovviamente. I danni di immagine al movimento sono enormi e le ricadute economiche anche nel mondo del calcio sono gigantesche, anche soltanto per le sponsorizzazioni della nazionale per i prossimi 4 anni. Difficile quantificare il danno complessivo, ma soltanto dal punto di vista dei premi, che quest'anno sono oltremodo ricchi con 400 milioni in tutto, perdiamo 20-30 milioni di premio minimo, più i danni futuri, diciamo che potremmo arrivare a 50 milioni, ma tutto quello che è indotto è praticamente incalcolabili, tutte le statistiche però ci dicono che per moltissimi settori, primi tra tutti i media, i periodi dei mondiali sono sempre stati dei volani».
Per chiudere con una visione positiva, cosa possiamo fare per invertire la debacle?
«Il titolo del mio libro è molto forte, ma non voleva essere un epitaffio. E infatti ci ho messo un sottotitolo che desse speranza. Io ritengo che ci sia un grandissimo talento calcistico nel nostro paese — la nazionale under 17 è ai vertici europei — ma che rischia di essere sprecato se non viene governato e tutelato da un sistema che funziona. Credo che per invertire la rotta potremmo prendere ispirazione da altre nazioni che hanno attraversato crisi simili, l'Inghilterra per esempio, che per far fronte ai tanti insuccessi e alla sempre più forte presenza di stranieri, per esempio, ha creato un centro unico per tutte le nazionali, dall'under 12 in su, costruendo addirittura un campo che riproduce il taglio dell'erba di Wembley. L'hanno fatto da 4 anni e stanno vincendo quasi tutte le competizioni europee. Lo stesso lo ha fatto la Germania quando è stata in difficoltà ed è stata eliminata dai mondiali: hanno fatto delle rivoluzioni. In Italia se ne parla ogni volta e non si fa praticamente nulla».
Nemmeno dopo il commissariamento della federazione?
«Ci hanno provato, con l'introduzione delle squadre B, togliendo il 2 per cento di voto agli arbitri, portando il calcio femminile, quanto meno dei vertici, sotto l'egida della FIGC. Ma sono misure spot, servono a poco, l'unico risultato che hanno avuto è stato quello di ricompattare le componenti che fino a due mesi prima avevano litigato senza riuscire nemmeno ad eleggere un presidente — ovvero dilettanti, lega pro, calciatori e allenatori — attorno a un nome, che è quello di Gianluigi Abete che, al di là di quel si può pensare di lui, è stato il presidente della Federazione dal 2007 al 2014, ovvero quando abbiamo vissuto le eliminazioni in Sud Africa e Brasile. Insomma, non è un grande segnale di rinnovamento. I nomi e le visioni sono importanti e in questo momento mancano sia gli uni che le altre».
È pazzesco perché mentre me lo racconti mi sembra che questo sfacelo sia più o meno lo stesso che affligge l'Italia ad altri livelli, come quello politico...
«Lo è, credo che il calcio non sia soltanto lo specchio del paese, ma che sia figlio diretto delle politiche di governance di questo paese, in tutti i settori».
Una squadra di “pippe”. Russia 2018, mister Pochesci attacca la nazionale: "Ce menano e piagnemo", video di Repubblicatv dell'11 novembre 2017. Parole forti in conferenza stampa per l'allenatore della Ternana Sandro Pochesci. Il mister, non nuovo a uscite "singolari", commenta la sconfitta subita dall'Italia contro la Svezia nell'andata dello spareggio che vale la qualificazione ai Mondiali 2018 in Russia: "Abbiamo perso contro una squadra di profughi e ci siamo fatti anche menare", ha detto Pochesci in dialetto romanesco. "Una volta l'Italia menava e vinceva, adesso ci menano e piangiamo".
Italia fuori dai Mondiali, chi non ha 70 anni non l’ha mai visto, scrive Lucio Fero il 14 novembre 2017 su “Blitz Quotidiano”. Italia fuori dai Mondiali, chi non ha almeno 70 anni non l’ha mai visto. Anzi nessuno ha mai visto da casa un Mondiale di calcio senza la nazionale italiana. Quando fu, l’altra volta che fummo eliminati, la televisione non c’era. Era il 1958, ci buttò fuori un’Irlanda. E per averlo in qualche modo saputo e vissuto bisognava allora avere diciamo almeno dieci anni, esser nati almeno dalle parti del 1945/1948. Quindi chi non ha almeno 70 anni un Mondiale senza l’Italia non l’ha mai visto. Italia fuori dai mondiali significa anche un po’ di soldi che non entrano e non girano. Soldi non solo loro, loro di quelli del calcio, allenatori, giocatori, dirigenti…Non entrano i soldi e non girano se sei fuori dai Mondiali i soldi dei premi, dei diritti televisivi, degli sponsor. Ad occhio almeno un centinaio di milioni gireranno in meno nell’economia italiana. E in più una quota di non calcolabile indotto. Insomma sarà uno zero virgola qualcosa in meno del Pil Italia 2.018. Un graffio minimo al Pil, ma pur sempre un graffio. Italia fuori dai Mondiali, una cosa mai vista e pure qualche soldo in meno che gira. Come è successo? Come succede che un allenatore, Giampiero Ventura, pagato 1,5 milioni di euro l’anno, non riesca a mettere in piedi e insieme una squadra? E come succede che una ventina abbondante di giocatori di serie A non riescano ad essere una squadra? E come succede che un intero paese viva a lungo nella falsa percezione di avere una squadra da Mondiali e anche di più? E come succede che a buttarci fuori dai Mondiali sono gli svedesi del calcio, cioè una squadra che con il calcio giocato non ha grande confidenza, insomma una squadra, per dirla in maniera più pedestre, con i piedi fucilati? Per avere un’idea di come succede, partire dall’ultimo atto dello spettacolo, l’Italia-Svezia di lunedì sera a San Siro. Spettacolo triste, presuntuoso e letal…La retorica boriosa e caramellosa della cronaca Rai tutta infarcita di inutili e patetiche “pelle d’oca” e “non ho parole” (sono pagati per ripetere “che dire” e “non ho parole” i commentatori, si fa per dire, ex giocatori?). I fischi di popolo all’inno nazionale svedese, tanto per segnalare il tasso altissimo di…nazionalismo? La superstizione discretamente idiota del segnalare come buon auspicio lo scendere in campo tra i bambini mano in mano coi giocatori del nipote di Giacinto Facchetti. Poi, subito dopo la consueta inversione dei pronomi (l’intera comunicazione calcistica ignora esista il “suo” e sempre e solo usa il “proprio”) ecco dopo 40 secondi la telecronaca lamenta la “provocazione degli svedesi” e invoca un rigore dopo otto minuti neanche…Spettacolo triste e presuntuoso quello di un allenatore che ha mandato in campo una squadra grottesca e improbabile nei ruoli e posizioni, che ci fa Florenzi là a centro campo più o meno? E chi lo sa. E che deve fare Gabbiadini? E chi lo sa…E chi mai può sapere perché Insigne non gioca ed El Shaarawy entra solo nei minuti disperati? L’unica cosa che si sa è che Ventura aveva secondo costume nazionale assicurato che tutto era a posto, che la vittoria era certa e che l’unica cosa che disturbava era, anzi erano i sabotatori interni e gli arbitri internazionali. Spettacolo triste e presuntuoso. E letal…letale perché toglie a milioni di italiani la prossima estate il piacere delle partite ai Mondiali con la squadra italiana (sceglietevi ciascuno altra cui tifare). Triste perché fa del 2.018 un anno in filo più mesto per milioni di italiani, un’estate senza i Mondiali abbassa l’umore pubblico e non è un sentimento da ultras, è una circostanza verificata anche sul piano dei consumi e dei comportamenti pubblici. E soprattutto è successo (questo il terribile e inconfessabile sospetto) che l’Italia del calcio sia fuori dai Mondiali anche perché l’Italia tutta è sempre più come si dice “fuori come un balcone”. Fuori come un balcone nel suo percepirsi scippata e tradita mentre è assistita e protetta anche quando e dove non si dovrebbe assistere e proteggere. Fuori come un balcone quando immagina se stessa l’Italia come abitata da classi, ceti e caste dirigenti. Classi, ceti e caste ci sono ma non dirigono un bel nulla, sono proprio come la Nazionale in campo. Fuori come un balcone l’Italia quando pensa che furbizia e predazione siano diritti acquisiti e inalienabili. Fuori l’Italia dai Mondiali e l’Italia fuori come un balcone quando, ad esempio (ma è solo uno dei tanti esempi purtroppo possibili) Matteo Salvini commenta l’eliminazione così: “Troppi stranieri mezze pippe nel campionato italiano”. No, le mezze pippe siamo noi, non gli stranieri. Sul campo di calcio, sui campi dell’economia, su quelli della vita associata, per non dire dei campacci della politica. Le mezze pippe siano noi e Italia fuori dai Mondiali di calcio 2.018 rischia grosso di essere presagio di Italia fuori come un balcone alle elezioni politiche 2.018.
Travaglio senza freni, sentite che dice: “Nazionale italiana una squadra di pippe…”, scrive il 15 novembre 2017 Sabrina Franzese. Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, fa un duro commento nel corso di Di Martedì, trasmissione in onda su La7, a proposito dell’eliminazione patita dalla Nazionale italiana per mano della Svezia. Ecco quanto ha detto: “E’ un momento in cui non abbiamo campioni ma pippe e quando mandi in campo una squadra di pippe allenata da una pippa (Ventura, ndr) e con un presidente federale (Tavecchio, ndr) superpippa e non riesci a fare nemmeno un gol contro le pippone della Svezia in due partite ci piò stare l’eliminazione. Se eravamo all’ultimo tuffo con la Svezia vuol dire che già prima avevamo fatto male per finire in questo spareggino tra sfigati…”
La Nazionale di Ventura è lo specchio dell’Italia. Mentre il mondo indica una strada completamente diversa, l’Italia – che vinto sempre così – decide di rimanere ferma. Anche se così non vince più, scrive il 10 novembre 2017 "Il Napolista". Ci siamo. Svezia-Italia si giocherà questa sera, veniamo da una settimana piena, ricca di commenti e analisi e racconti su questa partita. Giornali, tv, siti internet: sappiamo tutto, lo sappiamo prima e la sensazione è quella dell’assoluto deja-vù. Con la storia, con noi stessi. Ce l’ha spiegato José Altafini, oggi, in un’intervista a Repubblica: «A Mexico 70 l’Italia non schierò dall’inizio Mazzola e Rivera, il Brasile aveva cinque numeri dieci in campo». Si parlava di Insigne, su Repubblica, ma ovviamente il discorso va oltre. Basta leggere la Gazzetta o ancora Repubblica per renderci conto che siamo fermi. A un anno fa, che poi è come dire tre o quattro o anche cinque anni fa. Scrive così, Enrico Currò sul quotidiano romano: «Età media avanzata: sette titolari sopra i 30 anni. E il modulo 3-5-2, gradito allo spogliatoio, ai senatori». Non è molto diverso da Mexico 70, ma non perché ci sia fuori Insigne. Magari. Il punto è un altro. In questo modo, si fanno fuori Lorenzo, El Shaarawy, Florenzi, Bernardeschi. Si fanno fuori tutte le indicazioni del campionato italiano, che tatticamente è molto più avanti di quanto amiamo raccontare e raccontarci. Merito di Sarri, ma lui è solo una parte dell’atlante. Ci sono la Roma di Di Francesco, l’Inter di Spalletti, la Sampdoria di Giampaolo. C’è un intero paese calcistico che prova a parlare un’altra lingua, perché la retorica autocostruita della grinta, della difesa e del gioco speculativo funziona quando hai i calciatori più forti. Quando c’è il talento cui aggrapparsi. Vedi la Juventus, che è un’altra cosa rispetto ad altre squadre di Serie A eppure ha ripudiato (sta ripudiando) le marce basse. Perché se innesti le marce basse contro il Real Madrid, fai poco. Perdi, comunque. Come il Napoli, ma almeno il Napoli si è divertito a “giocare in faccia” a Sergio Ramos – fin quando gli è stato consentito. Ci si è messo anche Chiellini, ieri. «Il guardiolismo ha rovinato una generazione di difensori, Oggi tutti vogliono impostare, ma nessuno sa più marcare. Ed è un peccato, perché certe caratteristiche hanno permesso al nostro calcio di eccellere ovunque». Non che il buon Giorgio non abbia ragione, è tutto vero quello che dice. Però il gioco e il mondo si evolvono, vanno avanti, cambiano. Serve altro. Lo dice la storia, quella recente e quella meno recente. Il nostro calcio ha prodotto gioco e risultati d’élite quando ha potuto schierare calciatori d’élite. Non solo difensori e centrocampisti di rottura, ma anche grandi uomini offensivi. Mazzola e Riva e Boninsegna a Mexico 70; Rossi e Antognoni e Bruno Conti a Spagna 82; Totti e Del Piero e Toni e Pirlo a Germania 2006. Certo, anche Facchetti, Zoff, Scirea, Gentile, Cannavaro, Buffon e Zambrotta. Tutti insieme, una qualità spaventosa. Che oggi non appartiene all’Italia, a confronto con altre nazionali. Succede, questione di cicli e di programmazione. È il tempo che gestisce e andrebbe gestito. Proprio per questo, però, potrebbe essere un’idea cambiare le cose. Provare ad uscire da questa narrazione ormai anacronistica rispetto a (tutto) il calcio internazionale, che punta sui giovani e sul talento. La domanda è per Ventura, ma anche per tutti coloro che “credono” in questi valori calcistici dal sapore vagamente patriottico: noi siamo l’Italia e siamo così, non è giusto cambiare. Ci siamo. Però sono tutti scemi tranne noi? Sono scemi anche quelli che vincono? Cioè, per dire: della nazionale in campo stasera, Buffon, Barzagli e De Rossi sono gli unici ad aver vinto un titolo internazionale. Era il Mondiale 2006. Per il resto, si tratta di uomini di secondo piano nelle grandi stanze del calcio internazionale. Oltre i “senatori” di cui sopra, ci sarebbero Bonucci e Verratti. Entrambi, però, rappresentano quanto più di antitetico possa esistere alla concezione del calcio italiano: difensore che imposta e porta palla; centrocampista moderno, offensivo, un trequartista che agisce da mezzala in una squadra che schiera, accanto a lui, Neymar, Cavani, Mbappé e uno tra Di Maria e Draxler. Cioè, ci viene da sorridere: i nostri calciatori più riconoscibili a livello internazionale sono due simboli – più o meno lucenti – del gioco propositivo e noi li incastoniamo in una squadra basata sull’impermeabilità della difesa. Sulla forza di un trio difensivo che non gioca più insieme. E che insieme è riuscito a vincere solo quando (e dove) ha avuto la certezza di essere nella squadra più forte. Il punto finale: questa Italia potrebbe bastare per battere questa Svezia. Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini, Candreva, Parolo, De Rossi, Verratti, Darmian, Immobile, Belotti. Nove undicesimi di Euro 2016, ma neanche questo è il punto. Perché, ripetiamo: così la Svezia è battibile, eccome. Ma una volta ai Mondiali, si spera: cosa avremo costruito? Cosa resterà di questo biennio? Se la partita decisiva è (ancora) fondata sull’esperienza dei senatori e «sul modulo o modo di giocare che piace ai senatori», qual è stato il senso di questi due anni? Il puro e semplice risultato finale, verrebbe da dire. Ripensandoci, però, è il minimo auspicabile. Ventura, lungo il suo percorso, ha via via inserito calciatori nuovi e giovani e promettenti nella sua lista convocazioni. Almeno quello, viene da dire, perché c’era comunque la percezione di un cambiamento possibile. Nel modo di giocare, nei nomi, nel senso della nazionale. Poi, però, tutto è stato e sarà sacrificato. Sull’altare della nostalgia, sull’altare di un nonsense: noi vinciamo così, eppure sono undici anni che non vinciamo a livello internazionale. Ci crogioliamo nella nostra storia, anche quando è ormai preistoria calcistica. Siamo fermi. Qualcuno disse e dice: nessuna rappresentazione è più pregnante e precisa di una nazionale di calcio, rispetto alla sua nazione. Svezia-Italia conferma e confermerà questa visione delle cose, inevitabilmente. Nonostante il mondo normale, ma anche di quelli che vincono, vada da tutt’altra parte.
Ventura, Tavecchio e la Nazionale, specchio dell'italico vittimismo. In questo Paese non si trova mai un colpevole, nessuno con la decenza di dire: ho sbagliato, me ne vado. La colpa è sempre dell'arbitro, per dire il destino, il clima, il tempo, Iddio. Il solito melodramma, anzi la solita operetta, la farsa che non passa, scrive Massimo Del Papa il 14 novembre 2017 su "Lettera 43". Vai a dormire tranquillo perché, il pallone non è la tua tazza di tà e, specie di questi tempi, non è proprio la prima delle tue preoccupazioni, giusto un filo allegro, di quell'allegria un po' carogna di fronte allo spettacolo del melodramma, urla, disperazione, anatemi per l'eliminazione, Buffon che piange come un bambino, braccialettini di gomma inclusi, la Rai col suo esercito di giornalisti sportivi che scappa, non copre l'evento a suo modo storico, si rifugia nella ridotta di Che Tempo Che Fa, si fa parare le chiappe da Fabio Fazio, e poi l'immancabile servilismo dei servi che passano dalla saliva allo sputo, tracimano in odio, in gogna, il web che scoppia e rigurgita fiele, tutti a dare addosso al povero Ventura che, con la sua onesta faccia da pompista, forse l'hanno messo al posto sbagliato e non lo sa. Il Ct ricorda, parafrasiamo molto, una battuta di Groucho Marx, «quel tale sembra uno sprovveduto, ma non lasciatevi ingannare: lo è davvero», però, via, che sporco che è questo solito gioco di prendersela col capro espiatorio quando si sa che c'è tutto un sistema, una filiera di decisioni sbagliate da teste di paglia o di ponte, frutti di decisioni politiche sbagliate, e che a loro volta hanno preso le decisioni sbagliate. Insomma sorridi, tristallegro, un po' mesto un po' distaccato; non ti convince il solito psicodramma italiano, prendersela con l'allenatore in fama di idiota (dopo la fama di salvatore della patria), coi giocatori effemminati, tatuati, viziati, infingardi, quando sai benissimo che è assurdo distinguere in tempi di globalizzazione anche sportiva, anche calcistica, che fa disperare un ossessionato Salvini, che i giocatori coi loro tatuaggi e acconciature e smalto alle unghie sono più o meno gli stessi ovunque e ovunque giocano al limite dei vizi e dei compromessi più miseri.
AZZURRI SPECCHIO DELL'ITALIA. Questi nostri azzurri saranno più scarsi, d'accordo, senza personalità, va bene, l'ultimo ad avere una sorta di autorevolezza, un barlume di carisma era il Pirlo che pareva sempre dormisse, ma si può fare una colpa a una squadra mediocre di essere quella che è? Si possono odiare quando li hai visti sputare sangue senza risolvere niente, «poveri cani», come avrebbe detto Gianni Brera? No, non ti piace, non ti suona lo psicodramma della identificazione freudiana, uccidere la Nazionale come si uccide il padre, temerne lo specchio, la rappresentativa pallonara come il resto del Paese, gli stessi difetti, le stesse presunzioni, la stessa aria fritta. E lo stesso vittimismo. Forse è questo che i tifosi intuiscono con orrore, essere degni tifosi di una Nazionale degna di un Paese indegno.
NESSUNO DEI RESPONSABILI SI DIMETTE. E allora vai a dormire e non ci pensi più. Ma al mattino ti alzi e per prima cosa, la maledizione laica del mattino, scorri in modo compulsivo anzi malato le notizie della notte, le home page dei siti di informazione, scorri Twitter e t'imbatti in una dichiarazione di Ventura che va oltre Marx, Groucho e i suoi fratelli, e va anche oltre Achille Campanile: «Dimettermi io? Perché?». Allora ti sale un convulso di riso irresistibile, non ti tieni, vai a svegliare tua moglie - «ma lo sai cosa ha detto quello?» - solo per il gusto di vederla destarsi stravolta come quando si è usciti da un incubo e si fatica a capire di essere altrove. Ma sì, ti dico, ha detto proprio così, che prima di dimettersi vuole parlare con la Federazione, il che significa che anche quell'altro, Tavecchio, il degno compare, quello piccolotto, quello delle banane per i negri e delle calciatrici tutte lesbiche, anche lui non ci pensa proprio a schiodarsi, hic manebimus optime, e l'avverbio non è un singulto alcoolico. Dal terremoto reale, con macerie e vittime, a quello metaforico e pallonaro, non si trova mai un colpevole, nessuno con la decenza di dire: ho sbagliato, me ne vado. Debbono parlare, prima. Cioè chiedere garanzie. Cioè avere la sicurezza di altri posti all'altezza del disastro che hanno combinato: una piccola, simpatica catastrofe che mancava da 60 anni nei quali questo Paese ha visto tutto, le ha viste tutte, ha combinato il peggio del peggio, in tutti i campi, in ogni aspetto della vita associata, ma bene o male galleggiava, svolazzava malamente come il calabrone che non dovrebbe volare eppure vola, anche nel calcio, dove le disfatte venivano prima o dopo, in un modo o nell'altro riscattate da trionfi anche incredibili, anche illogici. Ma questo! Ventura e Tavecchio che «ci debbono pensare», non capiscono perché mai dovrebbero farsi da parte.
UN PAESE INCAPACE DI ASSUMERSI RESPONSABILITÀ. Neanche la dignità residua di togliersi dai piedi di «60 milioni di commissari tecnici», immigrati e naturalizzati inclusi, che giustamente non vogliono più saperne delle loro facce un po' da “oggi le comiche”. Ed è una comica infatti quella che vien fuori da una piccola fragilissima figura da cioccolatini nazionali. È la conferma che, da queste parti, si è incapaci perfino di assumersi le responsabilità più fisiologiche, più soggettive, più oggettive, più lampanti, più devastanti. E allora la serenità olimpica della sera prima non funziona più, perché appare chiara un'altra cosa, speculare ma più inquietante: non è la Nazionale che si identifica nel Paese, è il contrario, a cominciare dai dirigenti, per continuare con l'allentatore (non è un refuso), i giocatori, per finire con quelli che portano i borsoni.
NESSUNO CHE DICA «HO SBAGLIATO». Dal terremoto reale, con macerie e vittime, a quello metaforico e pallonaro, non si trova mai un colpevole, nessuno con la decenza di dire: ho sbagliato, me ne vado. La colpa è sempre dell'arbitro, per dire il destino, il clima, il tempo, Iddio, il problema sta a monte, signori miei, io sono una vittima, sono scomodo, vogliono farmi fuori ma non cederò senza combattere, ah!, se voi sapeste, ma prima o poi parlerò, racconterò tutto in un libro e allora rideremo! Già, il solito melodramma, anzi la solita operetta, la farsa che non passa. Il degno Paese per la degna Nazionale, non il contrario. «Siete pezzi di me..., pezzi di me..., pezzi di me», canterebbe Levante.
L'Italia senza Mondiali specchio di una nazione malata, scrive Leo Turrini il 14 novembre 2017 su "Quotidiano.net". C'era una volta mio padre. Io ero piccino e negli anni Sessanta lui mi ricordava l'onta della esclusione dell'Italia dal mondiale di calcio del 1958. Sono passati 60 anni. Papà non c'è più, come non ci sono più tanti testimoni di quel disastro sportivo. In compenso, ci siamo noi. Oggi. Senza Mondiale. Io credo che l'eliminazione sia giusta. Credo che Ventura, il Ct, abbia le sue colpe, ci mancherebbe. Ma qui non ci serve il capro espiatorio. Qui conviene aprire il cuore. Da quanti, da troppi anni il sistema calcio si interessa della Nazionale soltanto ogni quattro anni? Non è forse vero che il mondo della informazione in primis (e mi metto anche io tra i colpevoli) si esalta per il business, per i compratori cinesi, per le squadre di serie A farcite di stranieri, per tacere di quelle di serie B? Contro la Svezia potevamo anche passare, ma qui vorrei ricordare che nel 2010 in Sud Africa pareggiamo con Nuova Zelanda e Paraguay, perdendo dalla Slovacchia. E in Brasile nel 2014 fummo eliminati da Costa Rica e Uruguay. Qualcuno disse qualcosa? Questo è un dramma, per fortuna solo sportivo, che viene da lontano. Prendetevela con Ventura, se vi va. Ma questa disfatta è lo specchio di una nazione malata, insicura, fragile, ripiegata sulle sue debolezze. Siamo l'Italia. Purtroppo. E talvolta per fortuna.
La nazionale di calcio come specchio dell’Italia ma con più supporters, scrive Alessandro Falanga il 14 novembre 2017 su "Zon". L’Italia, con l’eliminazione per mano della modesta Svezia, mette in mostra le pecche di un Paese ormai alla deriva anche nello sport. È finita nel peggiore dei modi l’avventura per le qualificazioni ai Mondiali della nazionale di calcio guidata da Giampiero Ventura. La debacle contro la Svezia nello spareggio per approdare in Russia, infatti, ha totalmente estromesso gli azzurri dalla corsa al titolo internazionale iridato ma, in una visione più ampia di quanto accaduto, questa eliminazione permette – finalmente – di avere una visione più ampia di ciò che sta accadendo nel nostro Paese. Con il presupposto che senza la metafora calcistica lo Stivale non avrebbe alcuno stimolo ad affrontare la situazione che lo circonda – come dimostrano le vicende Jobs Act, Buona Scuola e Pensioni – si può dire che quanto mostrato da questa nazionale di calcio evidenzia due elementi che rappresentano, in tutto e per tutto, il disagio della nostra povera, cara, Italia. In primo luogo, facendo un parallelo con quanto sta accadendo nel mondo del lavoro in particolar modo, il mondo del pallone ha creato un circolo vizioso in cui si estromettono a prescindere le giovani generazioni, considerate inadeguate, e si punta sull’usato quasi sicuro che, pur non garantendo nulla in termini di merito, rimane l’unica alternativa. Con questa situazione – che come si è visto ha generato un mostro a livello sportivo – si inceppa totalmente un meccanismo di per sé bloccato da anni in cui l’unico appiglio è riposto in vecchie glorie, ormai incapaci di dare il proprio contributo, contrapposto ad una classe dirigente sempre più vecchia e poco qualificata per il mondo del domani. All’elemento generazionale se ne aggiunge un altro che è ancor più preoccupante: la comprensione generale della realtà solo perché coinvolto il gioco più amato del territorio. Si è sempre saputo che il calcio in Italia – e nel mondo – è stato la più grande arma di distrazione di massa, in grado di attribuire mano libera ai governanti di turno. L’eliminazione per mano della modesta Svezia, però, sembra in parte aver svegliato una fetta di connazionali che, guardando la situazione della nazionale di calcio di Ventura, si sono finalmente resi conto che qualcosa non va come dovrebbe. In un certo senso, quindi, la mancata partecipazione a Russia 2018 può essere vista come una manna dal cielo, in grado da un lato di porre maggiore attenzione – almeno si spera – sulle problematiche che attanagliano il nostro Stato ormai da quattro anni e dall’altro di affrontare con più attenzione una vita che, a causa proprio del calcio, è stata indirizzata su un binario morto data la disattenzione generale.
LA NAZIONALE AZZURRA E’ LO SPECCHIO DELL’ITALIA RENZIANA, scrive Francesco Erspamer il 14/11/2017 su "Alga news". La nazionale azzurra è lo specchio dell’Italia renziana: come il paese, il calcio è governato da dirigenti totalmente inetti, che hanno permesso alla serie A di diventare il campionato con più stranieri d’Europa a parte la Premier League e senza neppure la qualità degli stranieri che giocano in Inghilterra. Per non parlare della scelta di un allenatore senza carisma e senza idee come Ventura, confermato anche quando è diventato chiaro che non avesse il coraggio di liberarsi di una vecchia guardia ormai consunta e comunque mediocre, campioni di carta (carta di giornale e carta moneta) senza carattere, palloni gonfiati da media compiacenti. Mancanza di programmazione, di progetti, di serietà e di capacità, a ogni livello e soprattutto a quelli più alti. Devono andarsene tutti, a cominciare da Tavecchio, presidente della FIGC, a Malagò, presidente del CONI. Il declino dell’Italia è evidente e precipitoso, in ogni settore, e la causa è la superficialità, la corruzione e la drammatica incompetenza della sua (sedicente) élite, spalleggiata da una stampa completamente asservita. Vanno spazzati via, i colpevoli ma anche i loro fiancheggiatori e coloro che non sono stati capaci di opporsi o che facevano finta di non vedere; non è tempo di moderazione, in caso di dubbio meglio buttarli, i don Rodrigo insieme ai don Abbondio.
La Nazionale di Conte? Specchio dell'Italia che rinnega i leader. Un saggio del sociologo Marco Revelli “Dentro e contro” racconta il rancore degli italiani contro tutto ciò che viene avvertito come potere, non solo a livello politico, ma anche economico, burocratico, sportivo, scrive Simone Savoia, Mercoledì 15/06/2016, su "Il Giornale". Questa nazionale potrebbe entrare nel cuore degli italiani. Infatti nel Paese tira un’aria contraria ai leader, ai capi, alle istituzioni, a chi comanda, chiunque esso sia. Infatti, ad esempio, anche chi governa si affanna a presentarsi come estraneo alla politica o comunque distante dalla stessa, vedi il presidente del Consiglio Matteo Renzi che presenta l’Italicum come le forbici giustiziere sui costi della macchina statale, parlamento in testa. Ma anche i candidati a sindaco di diverse città tendono a presentarsi come persone che nella vita si occupano di altro. “Politico a me? Come ti permetti?” si sente spesso gridare nei sempre più rari e usurati talk-show. A Milano e a Napoli questo fenomeno è evidente nella campagna elettorale per le elezioni comunali. Un saggio del sociologo Marco Revelli “Dentro e contro” racconta in profondità questo rancore degli italiani contro tutto ciò che viene avvertito come potere, non solo a livello politico, ma anche economico, burocratico, sportivo. Proprio per questo la nazionale di calcio guidata da mister Antonio Conte può essere il nuovo oggetto dei desideri degli italiani. E se non la più amata dagli italiani, certo occupare un posto nella galleria storica del pallone. Il giorno dopo l’esordio vincente degli azzurri contro il Belgio si sentiva più d’uno dire, tra bar e metropolitana: “Mi piace questo gruppo senza leader! Ragazzi semplici, che lavorano!”. Stiamo parlando logicamente di emozioni, di sensazioni, di ragioni del cuore che magari la ragione calcistica non riconoscerebbe mai. Questa è una nazionale senza leader in campo e con un sergente di ferro in panchina. Cioè rappresenta in qualche modo l’Italia come oggi la vorrebbero molti italiani. Sembrano passati secoli dagli Europei del 2012, quelli in Polonia e Ucraina. L’immagine di quel torneo, che perdemmo in finale contro la Spagna “galattica”, resta la star Mario Balotelli che si toglie la maglietta e mostra i pettorali dopo aver steso la Germania a Varsavia (nemesi storica). Oppure del rigore a cucchiaio di Andrea Pirlo che fa impazzire l’insolente portiere degli inglesi, Hart. Stiamo parlando di Pirlo, l’eroe che tinse d’azzurro il cielo di Berlino e ci portò assieme agli altri eroi sul tetto del mondo. Era l’estate (l’unica, per fortuna) del governo tecnico di Mario Monti, e comunque i cittadini ancora volevano una leadership forte per vincere ai rigori e superare una devastante crisi economica. Volendo tornare indietro nel tempo, agli Europei del 2000, forse una delle nazionali più belle della storia, quella di Dino Zoff, punita dal francese Wiltord all’ultimo secondo di una finale crudele e subito dopo dal golden gol di Trezeguet. Quella era la nazionale delle stelle: Del Piero, Totti, Maldini, Cannavaro, Inzaghi, Nesta, Ferrara tanto per fare qualche nome. In Olanda e Belgio Zoff mise in campo una squadra bella, elegante, spumeggiante. Le vincemmo tutte, e anche quella maledetta sera a Rotterdam avevamo già più di una mano sulla coppa, ma i francesi ci ruppero le uova nel paniere. Anni rampanti della seconda Repubblica quelli, Romano Prodi e Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e Gianfranco Fini. Anni di maggioritario, di leadership forti, della politica “o di qua, o di là”. Oggi anche Gigi Buffon, quello che a Berlino nel 2006 fece piangere Zidane strozzandogli in gola l’urlo di un gol che sembrava praticamente fatto, sembra non si dica un esordiente ma comunque un giocatore qualsiasi, che festeggiando appeso alla traversa cade pure come nemmeno alla partita del giovedì scapoli contro ammogliati. E il mister Conte che festeggiando il gol di Giaccherini sbatte contro il capoccione di Zaza e si fa male al naso, con uscita di sangue? Uno di noi! Giaccherini, Parolo, Darmian, Pellè: questi ragazzi sono perfetti per l’Italia del 2016, che non vuole, non accetta e non riconosce leader. Ma chiede e pretende persone normali.
Un Paese che ha perso il suo cuore azzurro. Non è l'apocalisse, ma il sintomo di una Nazione che ha smesso di crederci. E che deve ricominciare da zero, scrive Vittorio Macioce, Martedì 14/11/2017, su "Il Giornale". Non è vero che non si può fare più scuro della mezzanotte. C'è un buio pesto, che fatichi ad immaginare, un azzurro che sprofonda ancora di più nelle tenebre e ti lascia a casa. Adesso, davvero, non ci puoi credere. Non c'è neppure la voglia di maledire. C'è solo un silenzio incredulo, che scivola nella rassegnazione. Facce sconfitte, meste, il pianto di Buffon, con lo sguardo che punta il vuoto. È quello che siamo, gente a cui hanno strappato il futuro. No, non è certo questa l'apocalisse. Non lo è la maschera messa e poi buttata via di Bonucci, il quasi palo in mezza acrobazia di Florenzi, le sostituzioni confuse, sacramentare per i rigori non dati, quel tempo che scorre senza che accada nulla. Non lo è la sventura di un uomo seduto su una panchina troppo grande per lui. Chi se ne frega del calcio. Solo che il pallone è uno specchio. È un sfera che guardi e in cui ti riconosci. Vedi quello che sei, come paese, come individui, come qualcosa che assomiglia a un popolo. Te lo ricordi quel luglio del 1982? L'urlo di Tardelli al Bernabeu era un sentimento che passava di bocca in bocca come una liberazione, con la rabbia di chi voleva scacciare via angosce, piombo e paure, per sentirsi leggero, ottimista, per uscire fuori di casa senza scannarsi tra rossi e neri, senza ideologie, senza sangue, senza rivoluzioni. Te la ricordi l'estate del 2006? L'ultima prima di questa crisi senza orizzonti, quando in pochi avrebbero pensato che ci si può abituare a tutto: al terrore islamico e quotidiano, alla pensione da moribondi, ai figli senza lavoro, alle clausole di salvaguardia, allo spread da bar, a una vita da facebook e a tirare a campare. Adesso pensa alla prossima estate. Non c'è neppure quel mese ogni quattro anni che ti regala una scommessa, un'illusione, una cavolo di speranza, un segno del destino. L'oracolo del pallone, come il fondo del caffè, ti dice che non c'è riscossa, che il cielo è sempre più grigio, che da questi anni micragnosi non si esce neppure con un tiro sbilenco e fortunato oltre il novantesimo, non si esce in zona Cesarini, quando tutto sembra perduto e puoi solo appellarti al rocambolesco spirito italico. Questa volta non c'è uno stellone che ti salva, non c'è il genio improvviso, non c'è quell'abitudine a cavarsela che straluna i tedeschi e fa girare le palle ai francesi. Niente, neppure una magia sporca e di sponda. Solo il vuoto e la rassegnazione. Sono mesi che si sta lì a dire che non è verosimile un mondiale di calcio senza l'Italia. Si, è successo nel 1958 in Svezia, eliminati dall'Irlanda del Nord, ma sono passati quasi 60 anni e di quella squadra sono rimasti vivi in pochi, come Gino Pivatelli, centrattacco del Bologna. Era l'Italia oriunda di Montuori, Da Costa (l'altro superstite), Ghiggia, Schiaffino. Era solo un lontano ricordo, un'anomalia, un cigno nero, qualcosa di imprevisto nel gioco delle probabilità. La regola è che l'Italia ci va, magari inciampa, carambola, ritorna in ciabatte, sfiora il miracolo e qualche volta vince. Giovanni Arpino raccontò la caduta del '74, di un'Italia cacciata al primo turno da polacchi e argentini. Era Azzurro tenebra. Non era un romanzo sul calcio, ma sulla vita, su come anche dentro una sconfitta ci sono personaggi che sanno essere uomini, su gente mediocre e palloni gonfiati, sulle guerre di potere di grassi burocrati e su come siamo bravi certe volte a farci del male. «La spedizione azzurra ai mondiali di calcio aveva affittato quella residenza imbottendola di giocatori, ruote di formaggio grana, unguenti e acque minerali patrie, orgogli e terrori, menischi pericolanti, isterie e berrettini multicolori, taciute diarree e illusioni muscolari, vaseline ideologiche ed omertà coi giornalisti amici, polemiche a fil di denti e onestà solitarie. E tutto un arcobaleno di diplomatici abbracci, frasi fatte, slogan, luoghi comuni, evviva, distinguo, alibi, euforie». Ce ne saranno altre di cadute. In Sudafrica e in Brasile, per esempio. Ma almeno uno spicchio di speranza lo abbiamo visto. Quelle notti erano meno scure. Quell'azzurro tenebra era comunque azzurro. Forse è questa allora la differenza. In questa notte manca l'azzurro. Non c'è più, svanito, evaporato, sbiadito. Non ci crediamo più. L'Italia è un'espressione geografica, qualcosa su cui non conviene scommettere, perché non si sa neppure bene cosa sia. È un battello alla deriva, dove ognuno pensa ai fatti suoi, dove non ti puoi fidare né dei ladri e né di chi grida onestà. È un vuoto a perdere. È vero. Non andare al mondiale non è certo l'apocalisse, ma vale come una premonizione: di questo passo ci aspettano altri anni di purgatorio.
Russia 2018: il disastro Nazionale, scrive Gianfranco Turano il 14 novembre 2017 su “L’Espresso”. E adesso andatevene tutti. Luca Lotti, ministro dello Sport. Carlo Tavecchio, presidente della Figc. Giampiero Ventura, commissario tecnico. Giovanni Malagò, numero uno del Coni. C'è bisogno di spiegare perché? No ma c'è bisogno di spiegare perché sarà difficile licenziare per giusta causa anche uno solo dei principali responsabili della disfatta storica della nazionale contro la Svezia, il 13 novembre 2017. La ragione è semplice. La classe dirigente italiana, in ogni campo nessuno escluso, è la più disastrosa d'Europa e si regge su un patto fra mediocri cementato da una serie infinita di fallimenti e passi falsi. Se ne cade uno, si rischia che cadano tutti. La sera di San Siro è il riassunto migliore di questo teatrino, con De Rossi che giustamente si rifiuta di entrare in campo, con Buffon lasciato solo a piangere davanti alle telecamere e con Fabio Fazio – ce lo meritiamo Fabio Fazio - che sorride nel post-partita perché bisogna smitizzare, bisogna sopire, bisogna troncare e, nel suo caso, guadagnare. Chi non guadagna, anzi perde a rotta di collo, sono i network televisivi che avevano scommesso su Russia 2018, Sky e Rai in testa, a conferma dell'adagio per cui in Italia non si può investire (per colpa dei sindacati e delle tutele ai lavoratori, si capisce). L'analisi tecnica della notte di San Siro non richiede grandi doti interpretative. Un allenatore giunto al suo massimo livello di incompetenza ha sistemato in campo un'Italietta sperimentale escludendo in modo sistematico ogni possibile traccia di talento perché è questo che un dirigente italiano fa. Perseguita il talento. Il talento è una minaccia. Il talento prende iniziative e rischia in proprio. Se va bene, diventa un eroe popolare e questo non può succedere. Se va bene, deve essere merito del dirigente. Tanto, se va male, è colpa di qualcun altro. Per esempio, del talento che non è abbastanza talento. Oppure degli stranieri che rubano il posto agli italiani. Infatti a San Siro ha giocato Jorginho, un brasiliano troppo scarso per vestire la maglia verdeoro. Insigne, seduto. De Rossi, seduto. Bernardeschi, prima seduto poi inutile. Per battere i volenterosi svedesi, una squadra al livello del Chievo o del Sassuolo, abbiamo tirato nello specchio della porta sei volte e crossato quaranta volte, quasi sempre palla alta dalla trequarti, per essere sicuri che la prendessero sempre loro. Non li abbiamo saltati in dribbling mai e non abbiamo preso gol soltanto perché l'arbitro ha deciso di non dare quattro rigori (due per noi e due per loro), favorendo l'Italia anche se non abbastanza. Ai mondiali l'arbitro ci vuole andare e, scarso com'è, ci andrà. Noi, invece, a casa. Dopo sessant'anni restiamo esclusi dalla più grande festa dello sport internazionale. Oggi i giornali diranno che i nostri giocatori sono inadeguati e che Antonio Conte aveva fatto un miracolo ad arrivare fino ai quarti agli Europei due anni fa. Non è vero. I giocatori non sono il problema. La politica è il problema. La cooptazione tra farabutti è il problema. Questo problema ha come soluzioni possibili il commissariamento o la rivoluzione. Di rivoluzione non è aria, a meno di andare verso una nazionale grillina con il cittì e i convocati scelti attraverso votazioni web. E il commissariamento non può certo essere affidato a un comitato olimpico che ai Giochi tira a campare con le medaglie della scherma, del nuoto e di quelli che sparano. Si farà come si fa nel calcio. Si caccerà Ventura e si prenderà un altro. I dirigenti opporranno la massima resistenza con buone probabilità di salvarsi, tanto adesso ci sono le politiche e abbiamo cose più serie da pensare. Perché esistono cose più serie del calcio. O no?
PARLIAMO DELLO SPORT TRUCCATO.
La giustizia nel pallone, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale" il 5 dicembre 2016. I pm scrivono libri sugli imputati sotto processo che poi vengono pure assolti. La giustizia, in Italia, finisce spesso in fuorigioco. Non ci voleva certo la storia di Paolo Dondarini per accorgersene. Di professione assicuratore, arbitro per passione, nel 2000 il fischietto emiliano viene mandato a dirigere in serie A. Nel 2005 diventa internazionale. L’anno dopo Calciopoli lo travolge. L’accusa: frode sportiva. La Procura di Napoli lo manda alla sbarra. Il mondo del calcio lo mette alla porta degli stadi. Per sempre. Ma le partite, diceva uno come Vujadin Boskov che di pallone e vita se ne intendeva, finiscono quando arbitro fischia. E il triplice fischio arriva nel 2015, quando la Cassazione chiude l’affaire, respingendo la pretesa di rimandare a giudizio Dondarini, già assolto in Appello nel 2012 dalla condanna rimediata in primo grado nel 2009. Serve insomma un decennio, o quasi, per definire un caso che intanto ha rovinato la carriera (e probabilmente l’esistenza) di un uomo: non la prima, non l’ultima vittima – sicuramente, purtroppo – della lentezza e dei difetti del sistema giudiziario italiano. Ma non è solo questione di burocratica e giudiziaria inerzia la vicenda del Dondarini vittima (e non artefice) di Calciopoli. C’è altro. C’è di più: il pm che lo inquisì, Giuseppe Narducci, ha scritto un libro. Intitolato “Calciopoli, la vera storia” e pubblicato proprio nel 2012, parla anche di “Donda”. Descrivendolo come colpevole di aver aggiustato alcune partite. Un racconto – a processo ancora aperto – dell’inchiesta che al processo, a quel processo, aveva dato origine e che alla fine ha svelato i tanti punti deboli dell’inchiesta poi fatta libro.
Tutto lecito. Anche opportuno? E normale? L’ex arbitro, che per un’intercettazione mal interpretata ha dovuto rinunciare alla carriera passando i guai, ha citato in giudizio per danni il pm scrittore. «Non cerco vendetta o soldi, cerco la verità», ha detto spiegando i motivi della causa di risarcimento promossa davanti al Tribunale di Bologna. «L’importo lo deciderà eventualmente il giudice. A me interessa ristabilire la verità dopo averlo già fatto in sede legale. Ho trovato incredibile che un pm scrivesse un libro su di un processo che non era ancora giunto al termine». Incredibile. Ma possibile. In Italia è possibile. Non è fallo da rigore e nemmeno da punizione. E poi, nel libro la prefazione era curata da Marco Travaglio. Molto meglio di Pelè, come cantano gli ultrà al ritmo delle manette.
GIUSTIZIA SPORTIVA: GIUSTIZIA SOMMARIA E SPESSO INGIUSTA.
LA SENTENZA LAMPRE «SENZA PROVE» E SENZA SCUSE. Oggi è la Gazzetta dello Sport a parlare di quelle 172 pagine, scrive Pier Augusto Stagi l'8 aprile 2016 su "Tuttobiciweb". Lo si è letto questa mattina, su «La Gazzetta dello Sport». La sentenza Lampre è un discreto libro di 172 pagine, che spiegano punto per punto la verità giudiziaria di uno dei processi più dolorosi del ciclismo degli ultimi anni. Ventotto imputati, con la figura di Guido Nigrelli il farmacista di Volta Mantovana al centro di tutto. E poi una serie di nomi di dirigenti, corridori e tecnici, ma su tutti quello del General Manager Beppe Saronni. La fine la conoscete, risale al dicembre scorso: uniche condanne per Nigrelli 8 mesi e Gilmozzi 5 per le sostanze dopanti al cicloamatore Messina. Tutti gli altri assolti. Dal primo all’ultimo. Il perché lo legge e lo riporta Luca Gialanella sulla Gazzetta, dopo aver letto attentamente le 172 pagine della sentenza depositata lo scorso 7 febbraio. «Niente prove». Scritta almeno 52 volte. Anche su Ballan: «Non è emersa alcuna prova della sussistenza della fattispecie contestata». E ancora: «Neppure dalla trascrizione delle conversazioni telefoniche e ambientali è emersa la prova dei reati contestati». Sarebbe stato bello che qualcuno avesse anche scritto in qualche modo o in qualche maniera, parole che assomigliassero vagamente e lontanamente a delle scuse. Ma anche questo è chiedere troppo. D'altronde «niente prove», niente scuse. Pier Augusto Stagi.
La Giustizia sportiva è l’alter ego della giustizia Ordinaria. La giustizia sportiva è veloce, sommaria e sistematica proprio perché tutela il Sistema e non l’individuo. Non ci sono garanzie.
Differenza fra giustizia SPORTIVA e ORDINARIA
Calciopoli:
-Sportiva: condannata la juve su presunzioni (si voleva garantire l'inizio del campionato, quindi si volevano garantire le tv. Se il campionato non fosse cominciato, si sarebbe creato un bordello. In pratica non hanno dato il giusto tempo alla causa).
-Ordinaria: prove non sufficienti, illecito tutto da dimostrare.
Caso scommesse:
-Sportiva: una persona (nei guai fino al collo per illeciti), può sparare a zero contro chiunque ed essere preso per "la santa voce della verità assoluta" (può anche essere). Al contrario, più di 20 persone che giurano il contrario sono considerate bugiarde.
-Ordinaria: il caso si sarebbe concluso subito per mancanza di prove (la mia parola contro la tua, alla pari, ci vogliono prove schiaccianti).
Generale:
-Sportiva: in un processo è l'imputato a dover dimostrare la propria innocenza. Sono ridotte, e non di poco, le possibilità di difesa dell'imputato e questo perchè in questo tipo di processi viene applicato il principio del "presto e bene". In pratica per non essere penalizzato ulteriormente, si è costretti a patteggiare perchè difenderti è impossibile. Ma l'articolo più assurdo della giustizia sportiva è l'art. 4 comma 5: "Le società sono presunte responsabili degli illeciti sportivi commessi a loro vantaggio da persone a esse estranee. La responsabilità è esclusa quando risulti o vi sia un ragionevole dubbio che la società non abbia partecipato all'illecito o lo abbia ignorato". Cioè, qui si condanna su presunzioni e ragionevoli dubbi. Ed è assurdo anche il fatto che una società può essere multata o addirittura penalizzata se in una partita è stata avvantaggiata per il fatto che l'avversario giocava a perdere (la colpevolezza è appunto presunta).
-Ordinaria: è la pubblica accusa a dover dimostrare la colpevolezza dell'imputato.
Calcio, scommesse e figuracce: giustizia (comica) sportiva. Serie A. Il reo confesso Andrea Masiello torna in campo con l'Atalanta, il ct azzurro Antonio Conte rischia il rinvio a giudizio per frode sportiva. E chi ha denunciato lo scandalo? Costretto a smettere di giocare e a emigrare all'estero. La credibilità del pallone italiano non rotola più: va a rotoli, scrive Lorenzo Vendemiale il 2 febbraio 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Atalanta-Cagliari 2-1. Nel tabellino, a disposizione per i padroni di casa: Avramov, Frezzolini, Scaloni, Migliaccio, Benalouane, D’Alessandro, Rosseti, Spinazzola, Bianchi, Masiello. Sì, proprio lui: Andrea Masiello, reo confesso dello scandalo Calcioscommesse colpevole di aver truccato diverse partite, torna in Serie A. Per adesso solo in panchina, presto probabilmente anche in campo. Ma non è l’unico avvenimento della settimana: secondo quanto anticipato da Repubblica, nei prossimi giorni la Procura di Cremona rinvierà a giudizio Antonio Conte, oggi ct della nazionale, all’epoca dei fatti allenatore del Siena, con l’accusa di frode sportiva. E mentre Stefano Mauri continua a giocare e segnare con la Lazio, dopo una squalifica soft e una posizione penale ancora da chiarire (anche per lui dovrebbe arrivare il rinvio giudizio), l’unico calciatore che ebbe il coraggio di ribellarsi al sistema non fa più il calciatore: Simone Farina oggi ha un incarico di community coach all’Aston Villa, in Inghilterra. Le contraddizioni della giustizia sportiva e del pallone italiano sono tutte nell’opposta parabola di questi due simboli del Calcioscommesse. In Italia c’è spazio per chi ha tradito i propri tifosi, per chi è arrivato anche a manipolare un derby (Bari-Lecce) con un autogol volontario. Ma non per chi ha denunciato le combine: Simone Farina era un discreto fluidificante mancino, arrivato anche a giocare in Serie B con il suo Gubbio. Dopo l’inchiesta non ha trovato più nessuna squadra che lo volesse, neanche un contrattino in una categoria minore. Si è ritirato dal calcio giocato nel 2012, a soli 30 anni. Certo, Andrea Masiello ha pagato: non poco, 2 anni e 5 mesi di inibizione per illecito sportivo, violazione dell’articolo 1 di lealtà sportiva e divieto di scommessa. E ha collaborato, confessando le sue colpe e aiutando gli inquirenti. Anche per questo è potuto tornare ad essere un calciatore. Giusto o sbagliato, difficile dirlo (ma se lo chiedete ai tifosi del Bari loro sì che non hanno dubbi). Sul capo di Masiello, però, resta pendente il fascicolo della Procura, in cui compaiono i nomi di circa 250 calciatori. Alcuni di loro potrebbero essere rinviati a giudizio, ma continuano a giocare. Come ad esempio Stefano Mauri. Il capitano della Lazio è indagato a Cremona per associazione a delinquere finalizzata alla truffa sportiva (per cui è stato anche arrestato nel maggio del 2012), è stato interrogato in Svizzera nell’ambito di un’inchiesta per riciclaggio di denaro. Ma dalla Corte Federale è stato squalificato solo per omessa denuncia, e solo per nove mesi (peraltro ridotti a sei dal Tnas, vero e proprio “scontificio” che oggi non esiste più). Per questo Mauri è tornato presto in campo, e vive una seconda giovinezza con la maglia biancoceleste. Anche il caso di Antonio Conte è emblematico. Indagato con l’accusa di frode sportiva, processato dalla Figc per omessa denuncia. Squalificato (senza troppe prove e convinzione) per dieci mesi (poi ridotti a quattro in appello), quindi assunto come commissario tecnico della nazionale dalla stessa Federazione che lo aveva ritenuto colpevole. E forse di nuovo al centro di un’inchiesta penale, adesso che da ct rappresenta tutto il movimento azzurro. La giustizia ordinaria è una cosa, quella sportiva un’altra: ma le differenze fra i due ordinamenti (che hanno tempi, regole e procedure diverse) non bastano a giustificare le troppe contraddizioni del nostro calcio. D’altra parte, il presidente della Figc, Carlo Tavecchio, governa la Federazione nonostante la sospensione di sei mesi ricevuta dalla Fifa per la famosa frase razzista su Optì Pobà. E il suo vice, Mario Macalli, è al centro di un contenzioso in Lega Pro, di cui non ha intenzione di mollare la presidenza pur essendo stato di fatto sfiduciato dalle sue società. In fondo è un po’ tutto il mondo del pallone italiano ad avere qualche problema con la giustizia.
IL VERO PROBLEMA: IL SISTEMA MARCIO DELLA “GIUSTIZIA” SPORTIVA. Scrive “IoJuventino” il 30/07/2012. Patteggiamento. Una parola improvvisamente sulla bocca di tutti. Un uomo solo al centro del mirino, come sempre in questi ultimi mesi. Antonio Conte, il capitano di mille battaglie e il condottiero dello scudetto dei record. Non voglio parlare dell’opportunità o meno di patteggiare, che stando alle voci sembra essere una scelta societaria imposta a Conte, dato che è già stato fatto da IoJuventino in un precedente articolo. Vorrei spostare l’attenzione su qualcosa che i media sembrano ignorare e a cui ben pochi danno peso. Basta vedere che al centro dell’ennesimo scandaloso processo mediatico è finita una persona che alla fine è stata accusata di omessa denuncia, peraltro senza prove, mentre chi vendeva e truccava le partite viene considerato un santo. Vorrei parlare dell’attuale modus operandi della “giustizia” sportiva. Usare la parola “giustizia” è una bestemmia comunque, un insulto alla dea Atena e all’intelligenza umana, per i pochi che possono vantarsi di possederne un briciolo. Non è possibile essere accusato, infangato, insultato, condannato mediaticamente e al 99% anche nel “processo” sportivo (rigorosamente tra virgolette, dato che un processo vero, della giustizia ordinaria, segue logiche ben diverse) senza una prova. Non è possibile che ci siano giocatori pentiti che in realtà sono solo ladri e truffatori, delinquenti che non meritano nulla dalla vita se non marcire in galera che vengono considerati credibili da chi indaga solo quando fa comodo, solo a sprazzi, traendo spunto da ognuna delle tante versioni diverse raccontate sullo stesso argomento. Non è possibile dover andare a un “processo” che dura un paio di giorni, davanti a tre giudici che neanche ascoltano e sono pagati per confermare le tesi dell’accusa, a difendersi su qualcosa che non hai fatto e su cui nemmeno l’accusa avrebbe le prove per condannarti. Non è possibile avere la sostanziale certezza di essere condannati in un “processo” sportivo quando con gli stessi elementi a disposizione verresti assolto senza problemi da un tribunale ordinario. Non è possibile, e qui parlo di Bonucci, essere accusato di illecito dalla “giustizia” sportiva quando per gli stessi fatti non risulti neanche indagato da quella ordinaria, che ti considera solo una persona informata sui fatti. Non è possibile che ci siano giornali, televisioni, predicatori, falsi moralisti e pseudogiornalisti che orientano l’opinione pubblica ignorante e scrivano a priori le stesse sentenze che poi vengono emesse da chi dovrebbe indagare in modo corretto. Non è possibile ritrovarsi ciclicamente ricoperti di fango e letame per far felici quei quattro poveri ignoranti che detengono il potere e tutto il popolino di pecoroni ignoranti antibianconeri. Volevamo fare la guerra a Palazzi, alla Figc, a chi ci infanga, a questo schifo di sistema marcio. A quanto pare non sarà così, ma non voglio che ci sia qualche tifoso bianconero che consideri Conte colpevole perché patteggia. Se lo fa, Antonio si umilia davanti a tutti per tornare il più velocemente possibile in panchina. Si espone per anni agli insulti dei tifosi avversari e alle paternali dei predicatori giornalai. Mette il bene comune, la Juve, davanti all’interesse individuale, la Giustizia con la “G” maiuscola. E nessuno dovrà prendersela con lui, anzi dovremo stringerci attorno al nostro mister e sostenerlo dato che verrà attaccato da tutti. Bisognerebbe chiedere spiegazioni alla società piuttosto, con tanto di più che sospetta improvvisa ricomparsa di John Elkann sulle pagine dei giornali nei giorni scorsi. Ma questa è un’altra storia. Riporto volentieri un estratto da un bell’articolo di Giuseppe Cruciani intitolato con un eloquente “Sei Conte, non devi consegnarti alla giustizia barbara”. Mi hanno colpito queste parole perché scritte da un giornalista dichiaratamente non juventino, che però dimostra come appaia marcio questo sistema a chi sappia un minimo ragionare. E soprattutto che è un sistema da ribaltare, da abolire, da rivoluzionare davvero: […] che non ti venga in mente di scendere a patti con una giustizia sportiva che è peggio dei processi staliniani dove ti spedivano in Siberia per niente. Non puoi difenderti. L’imputato deve portare le prove della sua innocenza. Basta la frase di un pentito, o presunto tale, per inchiodarti. I tempi sono talmente veloci, che ti trovi condannato prima di cominciare. Una barbarie che nessuno ha il coraggio di denunciare. Una roba che al confronto i tribunali del popolo erano all’acqua di rose. Almeno in Urss ti mandavano al confino e alla morte in nome dell’ideologia; c’era insomma un fine criminale ma c’era. Qui il processo sportivo serve solo a regolare i conti tra dirigenti, giocatori e addetti ai lavori. Se ne occupano una manciata di burocrati che prendono le carte dell’accusa e ti mandano al rogo. Assurdo che centinaia di milioni di euro, il business del pallone, possa venire compromesso in questo modo. Eppure nessuno dice niente. Nel mondo del calcio prevale l’omertà, i piccoli compromessi, le convenienze. Ecco perché, caro Conte, è il momento di ribaltare tutto. Devi andare davanti a questo signore che si chiama Palazzi e dire chiaro e tondo: io non sapevo nulla di questi trucchetti e di quello che dice Carobbio non me ne frega niente, siete voi che dovete provare il contrario. Se ci riuscite bene, altrimenti amen. E siccome di prove (quelle vere) non ce ne sono, puoi stare sicuro che ne usciresti alla grande. L’unica cosa che non mi convince è la frase finale di questo estratto. Perché dato che di prove non ce ne sono, non dovrebbe neanche esistere questo problema del patteggiamento. Conte avrebbe dovuto essere prosciolto da Palazzi, non deferito. E, in realtà, se condannato a processo, Conte ne uscirebbe alla grande solo per noi tifosi juventini o per i pochi che sanno ragionare. Per gli ignoranti sarebbe un ladro in ogni caso, sia che scelga il patteggiamento, sia che venga condannato a processo o persino assolto. Gli ignoranti ti infangano comunque, basta vedere che c’è gente che pensa ancora che Moggi abbia chiuso Paparesta nello spogliatoio o che fa finta di non sapere che il processo per doping è finito con un’assoluzione. Il fango e il letame ce lo tirano comunque, è sempre così. Dispiace patteggiare perché sembra di obbedire al volere di Palazzi, della Figc e del diktat rosa messo in prima pagina venerdì (“Sollievo Conte, può patteggiare”). Non vorremmo mai darla vinta a questi esseri ripugnanti ma è il sistema che è marcio fino al midollo. Ci sono già stati “processi” sportivi relativi al calcioscommesse in cui giocatori come Fontana, dopo essere stati deferiti senza prove, hanno preso anni di squalifica senza essere ascoltati dai giudici, senza avere la possibilità di discolparsi. O Locatelli, che racconta in modo agghiacciante come Palazzi ti prometta sconti di pena se tiri fuori altri nomi di gente, che ritieni coinvolta, ma se non ne sai nulla, ti butta sotto un treno. Siamo stanchi di un sistema che funziona così…vogliamo abbatterlo e questa poteva essere l’occasione giusta, ma sono anche consapevole che in questo momento la forza politica della Juve nei confronti del Palazzo, dei poteri forti del calcio, non è tale da riuscire a portare avanti una rivoluzione di questa portata e i continui torti subiti ne sono la prova. Se Conte andasse a processo verrebbe condannato di sicuro anche senza prove e non cambierebbe nulla in questo sistema marcio con l’attuale proprietà bianconera che ha già dato prova di cosa può fare nel 2006. Stringiamoci a Conte e agli altri ragazzi comunque vada. E continuiamo a lottare contro questo schifo e contro gli ignoranti che ci daranno contro in ogni caso. Come sempre del resto. È dura, siamo delusi e incazzati, ma noi tifosi non possiamo mollare. Siamo sopravvissuti a Farsopoli, non dobbiamo mollare adesso. Fino alla fine. La Giustizia sportiva va riformata da capo a piedi. L'apertura di un'indagine non significa colpevolezza, è vero, nella giustizia ordinaria. Ma se noi andiamo nella giustizia sportiva, purtroppo, è l'accusato che deve difendersi, è l'accusato che deve provare di non essere colpevole. La responsabilità oggettiva non va modificata, va abolita. Esistono delle responsabilità individuali che se vengono provate, devono essere punite a livello individuale".
Speciale Calciopoli, avv. D'Onofrio: "Indagine procura di Roma può aprire cono di luce. La Juventus potrebbe richiedere indietro gli Scudetti, c'è l'articolo 39 del CGS". Calciopoli e gli scudetti tolti alla Juventus l'argomento principale di questa sera 8 marzo 2013 a Calcio & Mercato su Sportitalia. Rivelazioni choc e spiegazioni su come la Juventus potrà avere in dietro gli scudetti. Rivelazioni anche su come la Procura di Roma sta indagando sulla Procura di Napoli. Il giallo del Dvd che manca. In studio Michele Criscitiello, Alfredo Pedullà, l'esperto di diritto sportivo Paco D'Onofrio e tanti altri ospiti.
La Juventus e i suoi tifosi possono ancora sperare di riavere indietro i due scudetti revocati nell'estate calciopoliana del 2006. Già, perchè "il processo sportivo si potrebbe riaprire", ha dichiarato sorprendentemente Paco D'Onofrio, legale di Luciano Moggi, intervenendo nella trasmissione radiofonica bianconera "Stile Juventus", in onda ogni lunedì, mercoledì, giovedì e venerdì alle 21 presso l'emittente privata Nuova Spazio Radio di Roma. Ecco le dichiarazioni più significative rilasciate dal legale dell'ex direttore generale della Juventus, che ha dialogato con lo speaker del programma Nicola De Bonis, e con l'opinionista Antonello Angelini, conduttore della trasmissione televisiva sulla Signora, "La Juve è sempre la Juve".
Angelini: "L'altro giorno navigando un po' su internet, ho trovato l'articolo 39 del codice di giustizia sportiva. E' molto lungo, ma dice in sostanza che qualora intervenissero fatti nuovi, nuove testimonianze, alcune cose che in qualche modo non sono state evidenziate in sede processuale, si può riaprire quello stesso processo e farne uno nuovo".
Avvocato D'onofrio: "E' la revisione".
De Bonis: "Facciamo chiarezza. Dunque si potrebbe addirittura riaprire il processo sportivo di Calciopoli?"
Avvocato D'Onofrio: "Certo. Questo è il presupposto che la federazione finora ha sempre negato. Ma in realtà ci è venuto in aiuto indovinate chi? Guardiola. E vi spiego perchè. Perchè la revisione è quell'istituto processuale che dice che quando la sentenza viene emessa sulla base di alcune circostanze e di alcuni fatti, e poi nel corso del tempo ne emergono degli altri che avrebbero dovuto portare a una sentenza diversa, c'è l'obbligo di riaprire il processo, di rivalutare in ragione delle nuove prove, dei nuovi elementi. Però la giustizia sportiva, su questo punto, ha sempre detto che un'eventuale assoluzione in sede penale non costituisce per la giustizia sportiva un fatto nuovo. Perchè dicono: 'Noi giudici sportivi apparteniamo ad un ordinamento autonomo", cioè non risente delle decisioni statali. Bizzarra come ricostruzione, ma hanno sempre sostenuto questo. Perchè dico che ci viene in soccorso Guardiola? Perchè in realtà due o tre mesi fa si è verificato questo precedente: Guardiola, vi ricorderete, quando giocava col Brescia, fu trovato positivo al doping. Si difese dicendo che non era vero, ma i giudici sportivi non vollero credergli e gli comminarono la sanzione. Lui non si è mai rassegnato ed è andato davanti alla giustizia penale, che ovviamente ha i suoi tempi. Guardiola nel frattempo ha smesso di giocare ed è diventato un brillantissimo allenatore come tutti sappiano. Successivamente il giudice penale di Brescia gli ha dato ragione e in base alla sentenza di assoluzione penale è tornato davanti alla giustizia sportiva italiana, la quale ha dovuto riconoscere la validità della pronuncia penale e ha annullato la sanzione sportiva. Una sanzione che ovviamente non era più - come dire - cogente, perchè nel frattempo Guardiola si era ritirato, ma lui chiedeva comunque che il suo curriculum restasse pulito. Non voleva chiudere con l'onta di una squalifica per doping. Tutto questo che cosa ha comportato? Che costituisce un precedente. In ambito federale hanno sempre detto che un'eventuale sentenza assolutoria da Napoli, non costituirebbe motivo di riapertura del processo sportivo. Ma adesso questo non lo possono più dire".
De Bonis: "Questo stravolge un po' tutto..."
Angelini: "Volevo aggiungere una piccola polemica. Il professor Sandulli ha spiegato in varie trasmissioni che la giustizia sportiva era una cosa e la giustizia penale era un'altra cosa, facendo l'esempio della cravatta al circolo. Io però faccio un altro esempio: al circolo, inteso come mondo calcio, è vietato calpestare le aiuole. Se in un processo di qualunque tipo viene fuori che io quelle aiuole non le ho calpestate, come fa il circolo a non riconoscere che davanti a un giudice ordinario io quelle aiuole non le ho calpestate? L'esempio di Sandulli è strumentale".
Avvocato D'Onofrio: "E' proprio questo il punto su cui la giustizia sportiva ha un grandissimo imbarazzo. E tutte le volte che io ho avuto dei confronti televisivi con loro, l'ho sempre spuntata. Non perchè io sia particolarmente brillante, ma perchè sono onesto intellettualmente. Il problema non è valutare un fatto in modo diverso, perchè lì convengo con loro: il giudice penale segue il codice penale, il giudice sportivo segue il codice di giustizia sportiva. Qui il problema è a monte. Cioè, se un giudice penale sentenzia che il fatto non si è proprio verificato, tu non mi puoi dire che mi condanni perchè la norma sportiva condanna quel fatto in modo diverso. Il fatto proprio non sussiste. Non l'ha detto chiunque. L'ha detto il giudice statale, lo ha detto un giudice in nome e per conto della Repubblica italiana. Non è affatto smentibile".
Angelini: "Vi faccio un esempio, accaduto nei circoli romani. C'è stata una rissa in un campo da calcetto, uno è stato espulso, è andato davanti alla giustizia ordinaria e ha dimostrato che il primo ad alzare le mani è stato l'altro. E hanno dovuto riammetterlo al circolo".
Avvocato D'Onofrio: "Volevo suggerirvi una riflessione legata al processo di Napoli, sull'ipotesi della possibile ricusazione del presidente del collegio del Tribunale che si sta occupando del processo penale: questa donna si è permessa, nel corso di un'udienza, rispetto ad una richiesta di testimonianze infinita, di dire: 'Io vorrei arrivare quanto prima a sentenza, anche perchè abbiamo altri processi e ben più importanti da fare'. Siccome non fa parte della Procura di Aosta, ma di quella di Napoli - dove è facile immaginare che ci siano processi legati alla criminalità organizzata, dove si parla di omicidi, traffico di stupefacenti - è giusto che si sia espressa in questo modo. Eppure, una formulazione lessicale così pacifica e condivisibile, è stata presa a pretesto dai pubblici ministeri per ricusare il giudice. Cioè stanno chiedendo al Tribunale di sottrarre la competenza a questo giudice, perchè, secondo loro, dietro questa frase, si potrebbe celare già un'anticipazione dell'assoluzione di Moggi. Capite com'è cervellotica? Sapete per quale motivo la cosa è così sottile? Perchè se un giudice viene ricusato, il processo deve ricominciare da zero, si deve ricominciare dalle udienze preliminari. E data la consistenza di questo processo si rischia la prescrizione. Allora, se io sono un pubblico ministero e, come dichiaro da tre o quattro anni, ho delle prove talmente schiaccianti che sicuramente l'imputato finirà in galera, secondo voi, di cosa avrò bisogno? Di un processo rapido o di un processo lento? Certamente di un processo rapido. E allora perchè chiedo la ricusazione?"
Angelini: "Non solo. Aggiungo una cosa. Innanzitutto hanno chiesto la ricusazione solo del presidente, mentre i giudici sono tre, e sono tre donne. Quindi, non è che decide lei da sola. Poi tra l'altro già è stata fatta una richiesta di ricusazione del giudice da parte delle parti civili proprio per le stesse motivazioni. Ed è stata già respinta dalla Corte d'Appello. Dunque, questo vuol dire che se per caso la Corte d'Appello decidesse in senso diverso, ci sarebbe da preoccuparsi della giustizia italiana....
Avvocato D'Onofrio: "Io che sono una persona dotata di malafede, ragiono in questi termini: "Ad certo punto un pubblico ministero si accorge che dopo tre anni tutto il castello accusatorio ha portato a tutta una serie di illazioni, e all'improvviso, piano piano, si sgretola, mettendolo di fronte al rischio di dover giustificare all'erario perchè ha speso decine e decine di migliaia di euro dei contribuenti per intercettazioni che non servono a nulla e non provano nulla. Andando in prescrizione, invece, il pm si avvantaggia di un dato, e cioè il dubbio, perchè la prescrizione lascia ovviamente il dubbio che una persona sia innocente. O colpevole. Certo si dirà, la prescrizione è un atto disponibile e Luciano Moggi potrebbe rinunciare alla prescrizione. Questo è anche vero. Ma non si può giocare al rialzo. Non puoi far gravare sull'imputato il rischio che il processo vada in prescrizione. Questo è paradossale. Cioè, per anni fai delle indagini, dici che hai delle super prove, che ormai sono imputato e non posso difendermi perchè ci sono argomenti in senso contrario e poi tu rallenti il processo, subentra la prescrizione e il dubbio deve rimanere su di me che non rinuncio alla prescrizione. E' singolare questo fatto".
Speciale Calciopoli, avv. D'Onofrio: "Indagine procura di Roma può aprire cono di luce. La Juventus potrebbe richiedere indietro gli Scudetti, c'è l'articolo 39 del CGS". Calciopoli e gli scudetti tolti alla Juventus l'argomento principale di questa sera 24 dicembre 2013 a Calcio & Mercato su Sportitalia. Rivelazioni choc e spiegazioni su come la Juventus potrà avere in dietro gli scudetti. Rivelazioni anche su come la Procura di Roma sta indagando sulla Procura di Napoli. Il giallo del Dvd che manca. In studio Michele Criscitiello, Alfredo Pedullà, l'esperto di diritto sportivo Paco D'Onofrio e tanti altri ospiti.
CRISCITIELLO: "Gli Scudetti tolti alla Juventus potrebbero tornare in ballo - spiega il conduttore Michele Criscitiello -. Le partite, infatti, già non risultavano alterate. L'unica cosa a tenere in piedi il castello accusatorio è questo famoso dvd sui sorteggi alterati. Non c'è dvd, non c'è la prova dei sorteggi alterati. La Juventus a breve potrà richiedere indietro gli Scudetti".
CRISCITIELLO: "Oggi perchè è stata una giornata chiave? E' mai successo che una procura come quella di Roma entrasse nel merito di un'altra procura, perchè scompare la prova chiave di un'accusa?"
AVV. D'ONOFRIO: "Provo a risponderti in ordine. Il punto degli Scudetti revocati che evidentemente la Juventus immagina di poter riottenere è il punto cruciale, perchè gli altri effetti di Calciopoli sono ormai irreversibili: la Juventus ormai la Serie B l'ha fatta, il parco giocatori fu smembrato, quindi sono effetti irreversibili. Gli Scudetti vengono revocati sul presupposto che i presunti illeciti fossero stati tali da aver condizionato l'esito di quei campionati e quindi i risultati: lo Scudetto è la sintesi di un risultato falsato. Il processo di Napoli è stato un processo molto complesso, un processo penale, nel quale accusa e difesa si sono scontrati apertamente. Oggi la notizia che Tuttosport riportata - una fonte piuttosto attendibile perchè chiaramente vicina alla società Juventus - è che la procura di Roma, probabilmente, vorrà affrontare alcuni temi rimasti oscuri nella precedente inchiesta, cioè le presunte prove che non sono state più trovate, prove che non sono emerse, prove che probabilmente avrebbero aiutato le difese e che riguardano i sorteggi arbitrali. Da questo punto di vista non ci sono soltanto Moggi e la Juventus, ci sono anche tanti arbitri che hanno visto le proprie carriere e le proprie vite interrotte ingiustamente e poi sono stati assolti. Uno di questi è per esempio l'arbitro Dondarini, egregiamente difeso dall'avvocato Bordoni. Questa iniziativa potrebbe fare chiarezza su alcuni punti. Uno di questi è che se non c'è stata l'alterazione del sorteggio, evidentemente non c'è stata nemmeno la possibilità di intervenire sulle griglie, di manipolarle, di condizionarle, di falsarle. Allora la prova degli illeciti, che portò alla revoca degli Scudetti, a questo punto dov'è? Questo è il primo interrogativo".
CRISCITIELLO: "Tra due-tre mesi, dopo che la procura di Roma avanzerà questa indagine, la Juventus potrà richiedere gli Scudetti. E con molta, molta probabilità, in assenza della prova-chiave, del famoso dvd che certificava l'irregolarità del famoso sorteggio arbitrale, la Juventus potrà riavere indietro i suoi Scudetti".
PEDULLA': "Avrei due-tre domande da profano. Come sarebbero sparite queste prove, il dvd? Quando? Perchè?".
AVV. D'ONOFRIO: "Per deontologia devo premettere che parlo del lavoro di magistrati e di colleghi nell'ambito di un processo che non ho seguito direttamente, perchè come sapete ho seguito Moggi nel momento sportivo, nei processi sportivi. Chiaro che il processo penale e quello sportivo erano collegati, però, faccio questa premesse perchè stiamo parlando di una notizia che Tuttosport ha evidenziato relativa ad un'azione di accertamento. Quindi le due domande restano sospese perchè sono proprio l'oggetto dell'accertamento, ovvero per verificare se veramente, come taluni difensori hanno avanzato, vi siano stati dei riscontri, delle prove, improvvisamente mancanti, oppure questo sia stato solo un argomento difensivo privo di qualsiasi sostegno. Che la procura di Roma abbia deciso di muoversi mi sembra già un grado significativo. Poi quelli che saranno gli esiti, le risposte alla tua domanda, si potrà valutarlo solo successivamente".
PEDULLA': "Ma le prove c'erano e non ci sono più? Non c'erano inizialmente? Questo mi sfugge...".
AVV. D'ONOFRIO: "Esistevano secondo i difensori delle prove che attestavano la regolarità del sorteggio. Alcune difese evidenziano che determinate prove, di cui hanno evidentemente notizia, probabilmente... si stupiscono di come mai non siano state portate al processo di Napoli e fossero presenti tra gli atti di prova. Quindi su questa assenza si incentra questa attività di indagine e di accertamento. Io non saprei a cosa porta, ma la notizia mi sembra significativa e ha una fondatezza sportiva rilevante, perchè la Juventus non subì soltanto la penalizzazione, cioè la comminazione di punti di squalifica, subì una serie di sanzioni, una somma di sanzioni, che derivava da una somma di illeciti. Cioè, non soltanto aveva tentato di manipolare, ma è riuscita a manipolare. Siccome la prova dell'effettività della manipolazione, quindi della non genuinità del risultato sportivo, non sembra esserci stata, a questo punto, il motivo e la domanda che immagino la società si porrà successivamente per rispondere anche ai tifosi - non voglio sostituirmi agli avvocati della Juventus -, è: ma a questo punto dov'è la legittimazione alla revoca degli Scudetti? Perchè un risultato sportivo su cui non c'è prova contraria circa la manipolazione è stato sottratto? Non bastavano soltanto i punti di penalizzazione?".
CRISCITIELLO: "Però ci sono comunque condanne che fanno parte della cronaca giudiziaria attuale e quindi bisogna anche capire....Ci sono state condanne, gente squalificata, processi....".
AVV. D'ONOFRIO: "Mi sento però di fare una precisazione: ridimensioniamo, perchè innanzitutto si tratta di una sentenza di primo grado che inoltre ha fatto chiarezza su un punto centrale e cioè non si è raggiunta la prova di un effettivo illecito, ma siamo fermi per ora all'accertamento di un tentativo, che è una cosa molto differente. Cioè, questo vuol dire che anche il processo penale, che comunque è stato un processo rigoroso, ha dimostrato che i risultati conseguiti da quella Juventus, in quelle stagioni, sono stati risultati non alterati da alcuni tipo di manipolazione. Questo è un dato molto significativo. Siccome rimaneva la questione del sorteggio, ecco, questo nuovo filone di indagine, avrà, probabilmente il merito e sicuramente l'effetto di aprire un cono di luce su quest'altra vicenda, che se - chiaramente come la Juventus auspicherà - determinerà un nuovo motivo di liberatoria a favore dei dirigenti della Juventus, potrà legittimare la richiesta degli Scudetti".
CRISCITIELLO: "L'estrema sintesi è abbastanza semplice: la Juventus quegli Scudetti li meritava perchè era la squadra in assoluto più forte, perchè giocava un calcio eccezionale, perchè meritava di vincere. Che poi determinati personaggi in quella Juventus, bravi capaci, abbiano capito che stavano esagerando in questa loro bravura e dalla bravura stava nascendo un potere eccessivo, allora di mezzo c'è stato un inserimento di terzi, fino ad arrivare a voler dimostrare, che si vinceva sì per bravura, ma anche per eccesso di potenza e consapevolezza".
AVV. D'ONOFRIO: "Sei stato chiaro, Diciamo che la potenza e la consapevolezza sono qualità e non sono demeriti. Se qualcuno dimostrerà che i risultati delle partite sono stati alterati da manipolazioni e da atteggiamenti deontologicamente e giuridicamente scorretti, allora probabilmente il disvalore giuridico, cioè la non meritevolezza di quei risultati, ha un senso. Ma oggi non mi sembra così...".
PEDULLA': "Pensavo fosse tutto finito alla luce di un lavoro affidato ad una procura. Questo mi inquieta".
AVV. D'ONOFRIO: "Sollevi un problema legittimo, ma in realtà è un meccanismo fisiologico e non patologico. In fondo il sistema giustizia perchè è articolato su tre gradi, Tribunale, Corte d'Appello e Cassazione? Perchè c'è un secondo giudice che valuta il lavoro del primo e c'è un terzo giudice, la Cassazione, valuta il lavoro del secondo.Quindi non è che un intervento successivo di un altro protagonista è qualcosa di anomalo, di sconvolgente o ingiusto, è probabilmente un sistema di garanzia. Per ora - questo lo diciamo per amore di verità - l'apertura di un'indagine non significa colpevolezza. Non sappiamo nulla. Ha un valore conoscitivo importante, vuol dire che quantomeno dei profili che meritano accertamento ci sono".
CRISCITIELLO: "Probabilmente la Juventus non ha pagato le proprie colpe, ha pagato chi dirigeva in quegli anni la Juventus, quindi i propri dirigenti, che oltre ad interessarsi della Juventus si interessavano di altre 5-6-10-12 squadre in Italia".
CLAUDIO ARRIGONI (giornalista): "Per questo la giustizia sportiva va riformata da capo a piedi. Quando l'avvocato diceva che l'apertura di un'indagine non significa colpevolezza, è vero, nella giustizia ordinaria. Ma se noi andiamo nella giustizia sportiva, purtroppo, è l'accusato che deve difendersi, è l'accusato che deve provare di non essere colpevole. Questa è la stortura grandissima. Non voglio dire che sicuramente la Juventus ha il diritto di andare a richiedere la restituzione degli Scudetti, ma vado anche oltre. E dico che se da quella indagine risultasse che vi erano delle prove alterate io credo che la Juventus abbia anche il diritto di andare a richiedere un risarcimento danni, quello fra l'altro che sta facendo Paolo Cannavaro con il Napoli. La responsabilità oggettiva non va modificata, va abolita. Esistono delle responsabilità individuali che se vengono provate delle reponsabilità individuali, devono essere punite a livello individuale".
CRISCITIELLO: "Cosa deve fare la Juventus per essere ancora parte attiva di questo processo e per riaprire i giochi?".
AVV. D'ONOFRIO: "Credo che la Juventus assisterà con interesse a quelli che saranno gli esiti di questa inchiesta, come credo anche al processo di appello nei confronti di Moggi. Poi credo che a questo unto assumerà una decisione formale, circa la richiesta di riassegnazione degli Scudetti. Evidenzio che la Juventus con la richiesta di risarcimento del danno per 444 milioni di euro, pendente presso il Tar di Roma contro la Figc, ha già significato una propria intenzione di non considerare chiusa la vicenda Calciopoli. Qui c'è una società che è stata fatta retrocedere, 15 milioni di tifosi che si sono sentiti quasi dei banditi per aver tifato una squadra che a questo punto ha vinto tutto regolarmente. Quindi la vita sportiva di taluno e la vita personale di qualche altro, merita questo accertamento".
ARRIGONI: "Se risultano queste anomalie, credo che la Juve possa richiedere la restituzione dei due Scudetti revocati. E credo sia anche corretto e giusto nei riguardi dei tifosi che questo accada. Poi è da valutare se la cosa possa esserci o meno, ma se risultano queste anomalie, su queste anomalie bisogna anche un po' riflettere, quindi chi è parte in causa può richiedere un risarcimento di questo tipo".
AVV. D'ONOFRIO: "La Juve potrà riavere i due Scudetti? Quello che succederà sarà una decisione della Federazione, quindi sarà difficile poterlo dire con certezza. Che la Juventus abbia la possibilità di richiederlo oggi e a maggior ragione all'esito di un eventuale accertamento favorevole alle sue ragioni, questo è indubbio. C'è peraltro uno strumento previsto dal codice di giustizia sportiva che è l'articolo 39, che dice che nonostante ci siano state sentenze definitive della Federazione, se emergono fatti nuovi, la stessa Federazione può, o d'ufficio o su istanza di un tesserato o di un soggetto affiliato come una società, riaprire il processo sportivo. Quindi effettivamente questa possibilità c'è".
AVV. D'ONOFRIO: "A proposito delle motivazioni del processo di Appello Giraudo, che è un processo tecnicamente differente - per una scelta processuale che qui non spieghiamo - rispetto alla scelta processuale fatta da Moggi. Ora il problema nasce dal fatto che la cosiddetta 'Cupola', cioè questo meccanismo che secondo l'accusa Moggi avrebbe ordito e messo in campo, si basava su un rapporto di colleganza illecita con gli arbitri. Arbitri che però tuttavia vengono assolti in questo processo. Quindi l'anomalia è: con chi si associavano visto che i sodali dell'associazione, cioè gli arbitri, vengono scagionati e discolpati? Giraudo sceglie un rito particolare, sceglie un rito abbreviato. E' una scelta processuale che ha visto i due dirigenti divergere profondamente. E' una scelta tecnica, non c'è una scelta migliore e una peggiore, sono scelte diverse. Questa motivazione richiama Moggi ma non può essere imputata a Moggi perchè è una scelta proprio differente".
CALCIOPOLI, PARLA L’AVVOCOATO PACO D’ONOFRIO: “NOVE ANNI PER DIMOSTRARE CHE NON C’ERA NESSUNA FAZIONE JUVENTINA FRA GLI ARBITRI”, scrive "SpazioJuve" il 28 marzo 2015. La Corte Suprema di Cassazione ha emanato la sentenza: Moggi prescritto per associazione a delinquere e assolto per due frodi sportive poiché il fatto non sussiste; Giraudo prescritto per frode sportiva; Bertini, Dattilo e Mattei assolti perché il fatto non sussiste; condannato De Santis, per il quale viene confermata la condanna, mentre per Racalbuto il reato era stato già prescritto in appello. Tuttavia, il verdetto lascia spazio a tanti, troppi dubbi: non ci sono arbitri minacciati o corrotti, il teorema delle sim svizzere si sta sgretolando come tutte le colonne portanti dell’intero processo, non sono state registrate ammonizioni o espulsioni mirate. La domanda, quindi, sorge quasi spontanea: la Cupola come alterava i campionati? Per fare chiarezza e analizzare la sentenza della Cassazione, noi di SpazioJuve.it abbiamo contattato in esclusiva l’avvocato Paco D’Onofrio, uno dei più brillanti e qualificati esperti di diritto sportivo, nonché legale di Luciano Moggi per quanto riguarda il settore della giustizia sportiva.
– Non ci sono arbitri minacciati o corrotti, non sono state registrate espulsioni o ammonizioni mirate, il teorema delle sim svizzere si è sgretolato passo dopo passo: ma la cosiddetta “Cupola” come avrebbe dovuto agire realmente?
La verità è che al di là del sensazionalismo giornalistico a tinte rosa e dei teoremi accusatori federali, così tanto frettolosi ed infondati, la Cassazione ha sancito che non c’è mai stata alcuna “Cupola” capace di alterare i risultati delle partite e condizionare interi campionati.
– Con la sentenza emanata dalla Corte di Cassazione, siamo giunti alla fine del procedimento penale. Per quanto riguarda il processo sportivo invece? Quali sono i margini d’azione della Juventus e come prevede debba muoversi la società di corso Galfer?
Ritengo, come sostengo peraltro da molto tempo e ben prima della conferma pervenuta dalla Cassazione, che la revoca degli scudetti, aggravata dalla grottesca assegnazione all’Inter di uno dei due, sia stata una sanzione ingiusta ed illegittima. Pertanto, la Juventus potrà ricorrere alla FIGC per la riassegnazione degli stessi, poichè i campionati in questione si sono svolti regolarmente.
– Fin quando è corretto dividere il percorso processuale di Moggi e quello della Juventus?
Per onestà occorre precisare che se oggi la Juventus ha la possibilità di reclamare legittimamente i due scudetti e di pretendere un consistente risarcimento del danno, deve tutto proprio a Luciano Moggi ed alla sua perseveranza nel ricercare ogni prova utile e nel far emergere la verità. Pensi che per qualcuno, Paparesta è stato davvero chiuso nello spogliatoio e sottoposto a sequestro!
– Solo un imputato tra i 37 inizialmente coinvolti, ossia De Santis, ha ricevuto una condanna definitiva. Un impianto accusatori che trova anche nei numeri deficit enormi…
Nove anni di indagini, tre gradi di giudizio per dimostrare ciò che era noto e palese sin da subito, cioè che non vi fosse alcuna “fazione” juventina tra gli arbitri. Sapete che con i c.d. arbitri “amici” secondo l’accusa, la Juventus conseguì una media punti addirittura inferiore rispetto alle partite dirette dagli altri? Questa sarebbe la famigerata Cupola?
– Poco più di un mese fa, Todosio de Cillis, il famoso rivenditore di Chiasso e fornitore delle schede svizzere, è stato rinviato a giudizio per falsa testimonianza. Sebbene questo non sia sinonimo di condanna, è sicuramente un duro colpo ad una delle colonne portanti dell’intero processo sportivo…
Una delle tante incongruenze emerse nel corso del processo. Qualcuno ha forse notizia del famoso video che avrebbe dovuto provare in modo incontrovertibile l’irregolarità dei sorteggi? Sparito nel nulla!
– Tra le 6 partite in cui si è realizzata la “frode sportiva”, figurano Juventus – Udinese e Bologna – Juventus, eppure Rodomonti e Pieri sono stati assolti sia in appello sia in Cassazione. Come sono state alterate quindi queste partite?
Un omicidio senza cadavere, un bel dilemma in effetti!
– La condanna in primo grado e successiva prescrizione del reato per Racalbuto può rappresentare un problema per la restituzione degli scudetti alla Juventus?
Assolutamente no, perchè, come ho già precisato, nell’ordinamento sportivo vige il principio dell’intangibilità del risultato fino alla prova che lo stesso sia stato il frutto di una dolosa alterazione. Nel nostro caso i campionati in questione si sono svolti regolarmente. Chi non accetta questa verità processuale o è ignorante o è in mala fede.
All’Avvocato D’Onofrio va un sentito ringraziamento da parte di tutta la redazione di SpazioJuve.it
«L'Inter commise illecito». Tre anni fa la relazione Palazzi. Il 4 luglio 2011 veniva reso pubblico il documento che ha riscritto ufficialmente la storia di Calciopoli..., scrive il 4 luglio 2014 Guido Vaciago. Sono passati tre anni da quando, nel mezzo di un pomeriggio estivo, venne reso pubblico un il documento che ha cambiato la storia di Calciopoli, certificando gli errori dell'inchiesta del 2006. Passata alla storia come "Relazione Palazzi" dal nome del procuratore federale che l'ha stilata, è in sostanza l'ideale requisitoria che avrebbe pronunciato durante un processo, se quel processo ci fosse stato. Invece, com'è noto, le telefonate che riguardavano l'Inter e le altre società coinvolte furono occultate dalle indagini e, una volta riemerse nel 2009, prese in seria considerazione troppo tardi per evitare la prescrizione. Da tre anni, tuttavia, c'è la Relazione di Stefano Palazzi che non ha consentito l'applicazione della giustizia, ma se non altro ha il merito di aver riscritto ufficialmente la storia, che era già cambiata durante l'udienza penale. Perché si può pensare quello che si vuole di quel pasticcio giudiziario denominato Calciopoli, ma dal 4 luglio del 2011 non si può più ignorare che per la giustizia sportiva anche l'Inter era passibile di un processo con l'accusa di "illecito sportivo" (violazione dell'articolo 6, per dire, non fu imputato alla Juventus nei processi del 2006). Piaccia o non piaccia, soprattutto a chi ritenne e ritiene Moggi e la Juventus gli unici colpevoli, Palazzi - lo stesso che chiese le condanne per il club bianconero - scrive: «E' il caso di rilevare che la società Internazionale F.C. di Milano, oltre che essere interessata da condotte tenute dal proprio Presidente che, ad avviso di questa Procura federale, presentano una notevole rilevanza disciplinare per gli elementi obiettivamente emergenti dalla documentazione acquisita al presente procedimento, risulta essere, inoltre, l'unica società nei cui confronti possano, in ipotesi, derivare concrete conseguenze sul piano sportivo, anche se in via indiretta rispetto agli esiti del procedimento disciplinare... ...Dalle carte in esame e, in particolare, dalle conversazioni oggetto di intercettazione telefonica, emerge l'esistenza di una fitta rete di rapporti, stabili e protratti nel tempo, intercorsi fra il Presidente della società INTERNAZIONALE F.C. ed entrambi i designatori arbitrali, Paolo BERGAMO e Pierluigi PAIRETTO, fra i cui scopi emerge, fra l'altro, il fine di condizionare il settore arbitrale. 57 La suddetta finalità veniva perseguita sostanzialmente attraverso una frequente corrispondenza telefonica fra i soggetti menzionati, alla base della quale vi era un consolidato rapporto di amicizia, come evidenziato dal tenore particolarmente confidenziale delle conversazioni in atti (....)» E ancora: «Pertanto, alla luce delle valutazioni sopra sinteticamente riportate, questo Ufficio ritiene che le condotte in parola siano tali da integrare la violazione, oltre che dei principi di cui all'art. 1, comma 1, CGS, anche dell'oggetto protetto dalla norma di cui all'art. 6, comma 1, CGS, in quanto certamente dirette ad assicurare un vantaggio in classifica in favore della società INTERNAZIONALE F.C., mediante il condizionamento del regolare funzionamento del settore arbitrale e la lesione dei principi di alterità, terzietà, imparzialità ed indipendenza, che devono necessariamente connotare la funzione arbitrale». Tutto questo (e altro ancora) scriveva Palazzi tre anni fa. E molti si chiesero se non fosse il caso di ripensare la questione dello scudetto del 2006, quello revocato alla Juventus e riassegnato all'Inter in «virtù dell'onestà» della società nerazzurra. Tre anni dopo lo scudetto del 2006 è ancora nell'albo d'oro ufficiale dell'Inter. E la relazione Palazzi negli archivi della Figc. Guido Vaciago
DALLA RELAZIONE PALAZZI SI DEDUCE CHE SENZA PRESCRIZIONE LO SCUDETTO VA RIASSEGNATO ALLA ROMA E L'INTER RETROCEDE IN SERIE C.
La Roma nel 2005-2006 concluse il campionato al 5° posto, ma aveva già scavalcato Juventus, Milan e Fiorentina dopo la sentenza Calciopoli, rimanendo alle spalle solo dell'Inter, scrive “Goal.com” il 5 luglio 2011. Juventus 91, Milan 88, Inter 76, Fiorentina 74, Roma 69. No, non stiamo facendo i pronostici per la prossima stagione, ma riportando invece la classifica finale del campionato 2005-2006, vinto in volata dai bianconeri poco prima che scoppiasse il terremoto Calciopoli. Quello Scudetto, qualche mese dopo, fu tolto alla Juventus per essere assegnato all'Inter e, date anche le penalizzazioni di Milan e Fiorentina, coinvolte nello scandalo, la Roma si ritrovò al secondo posto. Adesso, dopo che il procuratore Palazzi ha affermato che anche l'Inter, quell'anno, si macchiò di comportamenti illeciti per interessi di classifica, il primo pensiero che viene in mente in casa Roma è che, quello Scudetto, sarebbe potuto toccare alla Magica. Fu l'anno delle undici vittorie consecutive, del mercato bloccato per via dell'affare Mexes e dell'infortunio di Totti in Roma-Empoli. In panchina c'era Luciano Spalletti, il presidente era ancora Franco Sensi. A 5 anni di distanza, Bruno Conti commenta così: "Quello Scudetto lo avremmo meritato - si legge sul 'Corriere dello Sport' - I ragazzi lo avrebbero meritato per come si sono comportati, per quello che hanno fatto vedere sul campo. Per carità, si tratta di un argomento delicatissimo, si parla di una sentenza del procuratore federale e della questione si deve occupare chi di dovere. Ma per quello che la squadra ha fatto, per il messaggio che ha dato in quella stagione così difficile, avrebbe meritato di vincere".
Calciopoli: niente risarcimenti. Il Tar dice no alla Juventus. La società bianconera aveva presentato ricorso per la revoca dello scudetto 2006. I giudici hanno bocciato la maxi-richiesta di danni per 443 milioni di euro, scrive Arianna Ravelli il 7 settembre 2016 su “Il Corrirere della Sera”. Calciopoli è (forse) davvero finita. Dopo dieci anni il Tar del Lazio ha respinto la richiesta danni di 443 milioni 725 mila e 200 euro, esclusi gli interessi, avanzata dalla Juventus contro la Federazione (richiesta che era stata definita «strabiliante» dall’avvocato Figc Luigi Medugno) per l’assegnazione dello scudetto 2005-2006 all’Inter, e soprattutto, per la sua mancata revoca nel 2011, quando emersero — fuori tempo massimo per qualsiasi procedimento, visto che era intervenuta la prescrizione — le telefonate di altri dirigenti, tra cui quelli nerazzurri. Per questo mancato intervento il club bianconero, difeso dall’avvocato Luigi Chiappero, lamentava una «disparità di trattamento» rispetto all’Inter calcolando poi il preteso danno subito. Per la verità il club bianconero aveva un po’ indugiato, senza la voglia di brandire questa richiesta danni come vessillo di una battaglia troppo urlata, ma anche senza la volontà di sotterrare del tutto l’ascia di guerra. Alla fine la richiesta della Figc al Tar di fissazione dell’udienza, svoltasi quindi il 18 luglio davanti alla I sezione (presidente Germana Panzironi, relatore Alessandro Tommasetti), cui avevano partecipato da una parte la Juve e dall’altra la Figc e l’Inter. Ieri la sentenza. Il Tar ha definito il ricorso «in parte inammissibile e, per la restante parte, infondato». La Juventus, infatti, si era già rivolta al Tar nel 2006 per poi rinunciare. «La vicenda — si legge nella sentenza — era già stata trattata in un precedente ricorso, presentato sempre dalla Juventus nel 2006, e poi abbandonato dalla società, che preferì ricorrere al lodo arbitrale da cui uscì sconfitta». E il Tar «non può pronunciarsi se lo ha già fatto il collegio arbitrale». Non solo: l’assegnazione dello scudetto all’Inter, avvenuto per mero «scorrimento della classifica» non è illegittimo e la domanda di revoca della Juve «è inammissibile per carenza di interesse»: la Juve non ne ricaverebbe «alcun vantaggio» (a parte la soddisfazione). «È una sentenza molto completa che non si ferma alle eccezioni preliminari, ma entra nel merito della questione», il commento soddisfatto dell’avvocato Luisa Torchia che, assieme ad Angelo Capellini e Adriano Raffaelli, rappresentava l’Inter. Contro la decisione è ancora possibile il ricorso al Consiglio di Stato, ma la Juve deve ancora decidere: «I suoi legali analizzeranno le motivazioni e valuteranno i prossimi passi per tutelare le ragioni della società». Calciopoli, forse, è finita.
Calciopoli deve finire: Thohir, Zhang e Tavecchio invitino Agnelli vicino a loro, scrive il 7 settembre 2016 Gianluca Minchiotti su “Calciomercato.com”. Calciopoli finirà mai? Ieri il Tar del Lazio ha respinto la richiesta di indennizzo da parte della Juventus nei confronti della Figc. Subito dopo, i legali bianconeri hanno fatto sapere che "analizzeranno con attenzione le motivazioni e valuteranno i prossimi passi per tutelare le ragioni della società". La Juve ora ha tempo 60 giorni per ricorrere eventualmente al Consiglio di stato. Per quanto riguarda la Federcalcio, invece, il presidente Carlo Tavecchio si dice "soddisfatto" e aspetta: se Andrea Agnelli rinuncerà al Consiglio di stato, non gli chiederà i danni. Altrimenti, anche lui potrebbe decidere di andare fino in fondo, chiedendo a sua volta un risarcimento danni multimilionario alla Juventus. Intanto, sul web, si assiste a una recrudescenza dell'infinita polemica fra tifosi juventini e interisti. E a farla da protagonista è anche una foto, che ritrae Tavecchio seduto fra Erick Thohir e Zhang Jindong, lo scorso 28 agosto a San Siro in occasione di Inter-Palermo. In un paese normale e in un calcio meno avvelenato del nostro sarebbe una cosa normale, per il presidente della Figc, essere ospite alla prima casalinga della nuova proprietà (Suning) di un club dell'importanza dell'Inter. In Italia no, non è così: e Tavecchio, complice anche la sua dichiarata simpatia per i colori nerazzurri, finisce per apparire agli occhi dei tifosi bianconeri più partigiano di quanto dovrebbe essere chi ricopre la sua carica. Detto questo, e ricordando che la contesa in essere riguarda Juventus e Figc, con l'Inter spettatrice e non direttamente coinvolta, sarebbe bello se, in occasione di Inter-Juve del 18 settembre, Tavecchio, Agnelli e la dirigenza nerazzurra potessero sedersi gli uni accanto agli altri in tribuna per assistere alla partita. E' un'utopia, lo sappiamo, ma per tornare a competere con Premier, Liga e Bundesliga, il nostro calcio avrebbe bisogno di essere compatto e unito, dimenticando i veleni del passato. E avrebbe bisogno di un presidente federale e di un presidente di Lega capaci di unire più che dividere.
Mai stati (mandati) in B. Storia di una prescrizione, scrive il 2 febbraio 2014 Emiliano su I Faziosi. Internet e i social network hanno il pregio di metterti in contatto non solo con amici vicini e lontani ma anche con comunità di persone che condividono i tuoi stessi interessi. Purtroppo però talvolta si genera un certo isolamento all’interno di queste comunità o gruppi di interesse che, se da un lato rafforza le tue convinzioni, dall’altro non ti consente di conoscere quelle degli altri. Quando poi ti apri al mondo, dialogando, o litigando, con persone fuori dalle tue cerchie (dai tuoi amici, dai tuoi followers eccetera) scopri cose molto interessanti e comprendi quanto variegato sia il mondo. Questa lunga premessa per raccontarvi quanto accadutomi ieri sera quando, incautamente ma non troppo, ho risposto, in modo polemico, ad un tweet di @Ruttosporc, account parodia del quotidiano Tuttosport dietro al quale si cela un tifoso dell’Inter. In genere tendo a seguire qualcuno, non troppi, degli account illustri di tifosi delle squadre avversarie per curiosità e per scoprire cose interessanti come, ad esempio, il venire a conoscenza del fatto che la Juve domenica sera avrebbe “rubato” contro il Milan. Seguo, dicevo, questi account sapendo però di non dover rispondere: un po’ perchè ognuno ha il diritto di scrivere ciò che gli pare senza che il mondo che non la pensa come lui lo tempesti di messaggi (che spesso poi diventano insulti); un po’ perchè so che poi si scatenano le polemiche e io raramente riesco a non farmene risucchiare. Ma ieri sera forse ero meno sereno del solito e ci sono cascato. Ma è stato positivo perchè ho scoperto delle cose davvero interessanti a proposito dei tifosi interisti. Cose che fino a quando rimanevo confinato nella mia cerchia di amici tifosi della Juve (e del Toro) non potevo conoscere. In pratica ciò che riempie di orgoglio i tifosi di una delle tre potenze del calcio italiano è il fatto di non essere mai stati in Serie B. 105 anni di serie A rappresentano sicuramente un valore. Se, però, sei una società che, specie negli ultimi 40 anni, ha speso tantissimo (più di tutte), allora magari non può essere un valore soltanto il partecipare. Ogni tanto bisognerebbe anche vincere. E invece no. “Non siamo mai stati in B”; “Voi dove eravate dal 2007 al 2011“, “Non avete ancora digerito la B“… insomma, applicando a noi tifosi della Juve i loro curiosi parametri di valutazione dei risultati calcistici, gli interisti pensano che noi ancora siamo lì a soffrire per il fatto di essere stati mandati in Serie B. Cari interisti, fatevene una ragione, la Juventus è tornata a vincere e noi si vive proiettati nel presente e nel futuro, cercando la vittoria e basta. Partecipare a 105 campionati per vincerne 18 (di cui uno, è questo è record impareggiabile, vinto pur arrivando terzi! e un altro vinto con la Juve in B e tutte le altre fortemente penalizzate) spendendo più di tutti in allenatori e giocatori non mi sembra un risultato di cui vantarsi. Che poi il loro vanto “Mai stati in B” andrebbe cambiato in “Mai stati mandati in B”. Perchè la Juve in B non ci è finita per demeriti sportivi ma a causa di una vicenda squallida e priva di fondamento come “calciopoli”. La Juve è stata mandata in B a causa delle intercettazioni che dimostravano pressioni da parte dei dirigenti nei confronti di arbitri e dirigenti federali al fine di trarre vantaggi per la propria squadra, mentre l’Inter no perchè, come disse nel corso del processo il PM Narducci: “piaccia o non piaccia non ci sono telefonate di Facchetti o Moratti agli arbitri”. Poi la storia ha mostrato che quelle telefonate c’erano eccome e non solo, con Carraro che chiama Bergamo (qui l’intercettazione) e gli dice “assolutamente che non si sbagli a favore della Juventus, per carità di Dio che ci sono le elezioni in Lega e non possiamo permetterci casini”. Infatti, il Procuratore Federale Palazzi nelle conclusioni accluse al dispositivo sull’inchiesta relativa ai fatti del 2006, spiega che l’Inter è stata assolta per prescrizione nonostante “condotte finalizzate ad assicurare un vantaggio in classifica”. Di calciopoli ci sarebbe da scrivere e da parlare ancora a lungo ma non è questo il post adatto per farlo. Qui basta quanto abbiamo già detto (consiglio anche la lettura di questo post Andrea Agnelli, John Elkann e Calciopoli in cui analizzo anche il ruolo della proprietà della Juve nella vicenda calciopoli) e rimandando comunque a futuri post ulteriori analisi per una vicenda tipica dell’Italia dalla curiosa e atipica idea di giustizia. Ringrazio pubblicamente le persone che ieri sera mi hanno consentito di scoprire che se per la Juve “vincere è l’unica cosa che conta”, per l’Inter, invece è “mai stati (mandati) in B“. E ho tralasciato, volutamente e per non annoiare, il discorso sul famoso Triplete, quello di cui si parlerà per i prossimi 50 anni poichè quando il presente è grigio e il futuro è indonesiano allora è meglio guardare al passato. Ah, vero, ho anche tralasciato che per fregiarsi della patente di onesti occorre essere onesti sul serio (no chiamate agli arbitri, no passaporti falsi, no marchi ceduti fittiziamente, no pedinare e spiare giocatori propri e dirigenti avversari e molto altro ancora).
Quando l’Inter fu retrocessa ma non andò in B. La settimana del prescritto, scrive il 28 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. C’è una squadra, tra quelle che militano nel campionato di serie A, a non aver mai disputato neanche una stagione in Serie B. Quella squadra é l’Inter ed i suoi tifosi si vantano, giustamente, di non essere mai stati in B. La conosciamo, l’Inter, soprattutto attraverso le parole dei suoi tifosi, i quali sanno di fare il tifo per una squadra magari non delle più vincenti, ma sicuramente la più onesta e, come abbiamo detto, che mai ha conosciuto l’onta della retrocessione nella serie cadetta. Ma qui c’è già un errore piccolo ma non trascurabile: l’Inter in B non ha mai giocato, ma ciò non significa che non sia mai tecnicamente retrocessa. Torniamo indietro nel tempo. No, non fino al 1910, quando cioè l’Inter vinse, con l’inganno, il suo primo scudetto. No, basta tornare al 1922. Nel ’22 non si disputa un solo campionato ma due, come due erano le federazioni: la Cci e la FIGC. L’Inter gioca nel CCI e, purtroppo, arrivò ultima. Il regolamento prevedeva la retrocessione diretta per le squadre le ultime due classificate di ogni campionato. Pertanto, per il girone CCI, sarebbero dovute retrocedere il Brescia e l’Internazionale. Ma la situazione della compresenza delle due federazioni non era sostenibile, era necessario fare qualcosa affinché il campionato italiano di calcio fosse uno solo. Si dibatte a lungo sulla questione, ma è Emilio Colombo, commendatore milanese direttore, guarda un po’ i corsi ed i ricorsi della storia, della Gazzetta dello Sport a risolvere la questione, proponendosi come arbitro della vicenda. Così, tre mesi dopo la fine del campionato, si decise di riassorbire la CCI all’interno della FIGC, tornando al campionato unico. Per una logica incomprensibile allora come oggi, si decise di assegnare gli ultimi sei posti del successivo campionato attraverso degli spareggi tra squadre delle due federazioni. La CCI decise di far disputare un turno preliminare tra le sole squadre del nord Italia, retrocedendo automaticamente quelle del centro e del sud, compreso il Venezia, che pure si era salvata giungendo terzultima nel campionato. In questo modo, allo spareggio preliminare giunse l’Inter, che sconfisse a tavolino la Sport Italia Milano, squadra praticamente fallita che non riuscì a schierare una squadra da contrapporre ai milanesi. Il turno successivo venne disputato dall’Inter contro un’altra squadra in disarmo per problemi economici, la Libertas Firenze. Pertanto l’Inter, grazie al maggior quotidiano sportivo, venne salvato dalla serie B. (A onor del vero il campionato di Serie B come lo intendiamo oggi non sarebbe esistito fino al 1930, ma vi erano comunque le serie minori, a livello regionale). Nella settimana che precede Juve-Inter è doveroso raccontare questi episodi di storia, giusto per ricordare che la squadra che si ritiene unica depositaria dell’onestà, qualche piccolo scheletro nell’armadio ce l’ha. Dovremmo dunque correggere il “mai stati in B” con il più corretto “mai stati mandati in B”. Ieri abbiamo parlato del primo scudetto, vinto in modo non troppo limpido, oggi abbiamo sfatato, o almeno ridimensionato, il mito del mai stati in B, domani, sempre per il nostro dossier denominato “la settimana del prescritto”, parleremo della vicenda, molto triste, relativa a Ferruccio Mazzola e al presunto doping nell’Inter di Helenio Herrera.
Il primo scudetto dell’Inter vinto con il trucchetto. La settimana del prescritto, scrive il 27 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Dice un vecchio adagio che c’è sempre uno più puro di chi ti epura e a Milano dovrebbero saperlo. Capita in politica ma non solo: in ogni comportamento umano sarebbe bene sempre tenere a mente il fatto che fare della propria purezza, o onestà, la propria ragione di vita e vantarsene in modo da esaltare oltremodo le proprie, magari rare, vittorie così come per giustificare le proprie sconfitte, può essere un’arma a doppio taglio. Se, infatti, giustifichi quasi 30 anni di umiliazioni e sconfitte con la motivazione di essere unica onesta in un mondo di ladri, omettendo che per provarci, a vincere, hai dilapidato qualcosa come 1,2 miliardi di euro (di euro, eh, non di lire!), allora poi onesto lo devi essere sul serio, senza avere scheletri nell’armadio. E così, visto che questa è la settimana che precede la partita Juve-Inter, ho deciso di scrivere un articolo al giorno in cui racconto alcuni episodi curiosi relativi alla storia dell’Internazionale FC, una società che si vanta di non essere mai stata in B, di avere in bacheca l’unico “scudetto degli onesti” della storia, di essere, indiscutibilmente, l’unica società onesta della Serie A italiana e che non dovrebbe pertanto avere scheletri nell’armadio. In quella che definisco “la settimana del prescritto”, racconto alcuni episodi che non tutti conoscono, tifosi nerazzurri compresi. Il primo episodio poco chiaro nella storia centenaria dell’Inter è relativo, guarda un po’, proprio alla conquista del primo scudetto, nell’anno 1910. In quei remoti tempi, c’era una squadra, la Pro Vercelli, che faceva incetta di vittorie. Una cosa impensabile, oggi, ma quello era un calcio diverso, dove a trionfare era spesso la presenza di un vivaio organizzato e di una rete di osservatori capaci che era in grado di scovare potenziali campioni negli sperduti campi di periferia. In quel 1910 la Pro Vercelli arrivava da due titoli consecutivi vinti ed anche in quella stagione sembrava non avere rivali. Ma proprio nello scontro diretto contro l’Inter la marcia trionfale dei piemontesi si inceppa e i nerazzurri vincono per 2-1 a Vercelli, dando il via alla rimonta milanese che porterà le due squadre all’ultima giornata di campionato con gli stessi punti. Ilregolamento prevedeva lo spareggio e spareggio fu. Subentrò però subito un problema: delle tre date comunicate dalla Federazione come ideali per lo svolgimento dello spareggio, due erano fortemente svantaggiose per i piemontesi. Le date erano il 17 aprile, il 24 dello stesso mese o il primo di maggio. Il 17 aprile, come ricorda con dovizia di particolari il sito La Banda degli Onesti alcuni giocatori della Pro dovevano disputare un torneo universitario mentre il 24 altri tre giocatori dovevano giocare nella rappresentativa del 53° Reggimento Fanteria una partita valevole per la Coppa del Re. A quei tempi, non era possibile, per i giocatori convocati, non rispondere alle convocazioni neanche per un motivo piuttosto valido come quello della finale per l’assegnazione dello scudetto. Restava il primo maggio disponibile e quella gara fu scelta dalla Pro Vercelli. L’Internazionale non era dello stesso parere, stranamente per una società che fa dell’onestà la sua bandiera fin dalla notte dei tempi e fece pressione affinché la gara si disputasse il 24 aprile. La Federcalcio, rendendosi protagonista del primo episodio di quell’imparzialità all’italiana che poi si sarebbe manifestata in molte altre occasioni nei decenni successivi, sceglie proprio il 24 aprile. La Pro Vercelli, scandalizzata, decide così di manifestare il proprio disappunto schierando una squadra di ragazzini la cui età era compresa tra gli 11 ed i 15 anni. Non solo, il capitano dei vercellesi, quel Sandro Rampini che della squadra piemontese diventerà grande goleador, consegna, all’ingresso in campo, una lavagnetta al capitano dell’Inter, Fossati, in modo che questo potesse tener conto dei gol che realizzeranno contro i poveri ragazzini. Uno smacco. L’Inter infatti vinse per 10 a 3 e ottenne il primo scudetto della sua storia. Uno scudetto vinto in modo non proprio onorevole. Qualcuno, maliziosamente, direbbe che chi ben comincia è a metà dell’opera o, rischiando di abusare dei modi di dire, che se il buongiorno si vede dal mattino…Il prossimo articolo della rubrica “La settimana del prescritto” sarà dedicata alla mancata retrocessione dell’Inter nel 1922.
Il doping e l’Inter, una storia triste – La settimana del prescritto, scrive il 29 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Ci sono vicende talmente tristi per le quali risulta quasi difficile scrivere un articolo da pubblicare su un blog, come questo, chiaramente e dichiaratamente fazioso. Vicende nelle quali sono coinvolte persone che, purtroppo, non ci sono più o, se ci sono ancora, a lungo hanno sofferto. Stiamo parlando del doping e delle malattie che dall’utilizzo di droghe e sostanze varie atte a migliorare le proprie prestazioni sportive possono derivare. Di doping si parla spesso a proposito di sport quale il ciclismo mentre il nostro amato calcio sembra esserne immune. Ovviamente non è così. Di doping si parla a sproposito nel caso della Juve, che pure non ha subito alcuna condanna in tal senso (la vicenda sulla prescrizione meriterebbe un post a parte, consiglio questa lettura per un approfondimento) ed anzi è stata assolta dal Tasdi Losanna in modo definitivo; ma di un doping ben più grave, che ha causato e probabilmente causerà ulteriori vittime non se ne parla. C’era una volta una squadra, l’Inter di Angelo Moratti, guidata dal Mago Herrera in panchina, che vinceva in Italia e in Europa. Una squadra nella quale grandi campioni erano coadiuvati da onesti mestieranti che contribuivano alla causa. Dietro a quei successi, secondo l’accusa ben precisa di un ex giocatore di quella squadra, Ferruccio Mazzola, ci sarebbe però l’utilizzo di sostanze proibite e sconosciute, addirittura anfetamine. Mazzola, fratello del più noto Sandro (figli, entrambi, nel mitico Valentino, capitano del Grande Torino), è morto recentemente, ultima vittima di una serie di morti che hanno coinvolto giocatori di quella squadra. Questo l’agghiacciante elenco, che non tiene conto di altri ex giocatori, che sarebbero attualmente malati o che comunque hanno superato gravi malattie:
Armando Picchi, morto a 36 anni per tumore alla colonna vertebrale;
Marcello Giusti, morto per cancro al cervello nel 1999;
Carlo Tagnin, morto nel 2000 per osteosarcoma;
Mauro Bicicli, deceduto per un tumore al fegato nel 2001;
Ferdinando Miniussi, morto nel 2002 a causa di una cirrosi epatica;
Enea Masiero, morto di tumore nel 2009;
Giacinto Facchetti, morto per tumore al pancreas nel 2006;
Giuseppe Longoni, morto nel 2006 per vasculopatia cronica;
Ferruccio Mazzola, morto di cancro nel 2013.
La prima considerazione che occorre fare è che se si prende un gruppo di persone che han superato i 60 anni, è facile trovarne parecchi colpiti da mali terribili come quelli elencati. La circostanza triste e da considerare è che questi giocatori erano tutti appartenenti di un’unica squadra nello stesso periodo storico. In Italia, e forse nel mondo, non esiste altra circostanza simile. Mazzola ha raccontato tutto in un libro, “Il Terzo Incomodo”, in cui racconta di come i giocatori di quella squadra venissero invitati a prendere pillole sconosciute prima delle partite. Molti di loro, con il passare dei mesi, presero l’abitudine di sputare le pillole di nascosto ma il Mago Herrera se ne accorse ed iniziò a scioglierle in quelli che diventarono poi i famosi caffè di Herrera. Erano, stando al racconto di Ferruccio Mazzola, proprio le riserve a sperimentare nuove combinazioni o prodotti, in modo da poter poi dare ai titolari le sostanze che garantivano risultati migliori. Non è un caso, infatti, che la maggior parte dei giocatori dell’elenco di cui sopra erano proprio delle riserve…Il libro, quando uscì, destò scandalo. Uno scandalo tale per cui Facchetti, ancora in vita, decise di denunciare l’ex compagno autore del libro. Il processo però non fu favorevole all’Inter che dovette anche pagarne le spese processuali. Una testimonianza incredibile, che però precisa come non era solo l’Inter a ricorrere a certe usanze. Mazzola dichiarò di aver visto cose simili anche nella Fiorentina e nella Lazio. Nella Fiorentina di quegli anni morirono, in seguito, Bruno Beatrice, Ugo Ferrante, Nello Saltutti e Mattiolini e si ammalarono, fortunatamente in modo non mortale, anche Caso e De Sisti. Mazzola stupisce il lettore ricordando come in una delle tragedie più grandi che hanno colpito il calcio italiano, ossia la morte di Giuliano Taccola, 26 anni, giocatore della Roma, ci fosse una triste quanto curiosa coincidenza, ossia la presenza, come allenatore, di Helenio Herrera…Il libro è attualmente in vendita e noi ne consigliamo vivamente la lettura. Non me la sento, onestamente, di aggiungere altro nè, soprattutto, di trarre delle conclusioni che possano, in qualche modo, strumentalizzare la tragedia di così tante persone. L’unica cosa che mi sento di dire è che chi si riempie la bocca con accuse di doping mai verificate e lo fa solo per poter gettare fango sulle vittorie di una squadra (o di un altro atleta, come nel caso di Nadal nel tennis) forse dovrebbe informarsi meglio e tacere, anche solo per rispetto nei confronti di ex giocatori che hanno fanno una brutta fine. Da domani, per fortuna, si torna a parlare di cose più leggere con il quarto articolo della “settimana del prescritto”. Parleremo di quando l’Inter ha macchiato la propria gloriosa storia con tentativi di corruzione, lanci di lattine e taroccamenti di documenti in un torneo giovanile. Insomma, situazioni che non si confanno troppo ad una società che, Thohir docet, si è distinta, nel corso della sua storia per integrità e lealtà.
Corruzione, lattine e tornei giovanili col trucco – La settimana del prescritto, scrive il 30 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Esiste solo una squadra, in Italia, che si vanta in ogni occasione, e specialmente durante le non rare stagioni fallimentari, di essere l’unica depositaria di valori quali onestà, lealtà e correttezza. Questa squadra è l’Inter anche se la sua storia, come abbiamo visto nei post precedenti (vedi in basso l’elenco completo), racconta di qualche, non grave, caduta di stile o, se vogliamo, di qualche adattamento alla leggendaria arte tutta italiana di arrangiarsi. Non si può parlare della storia dell’Inter senza ricordare lo squadrone allestito negli anni ’60 da Angelo Moratti, capace di vincere tre scudetti, due Champions League e due Coppe Intercontinentali. Purtroppo, a provare a guastare la memoria e il ricordo di quel ciclo di grande successo ci pensano le malelingue degli avversari invidiosi, le tristi accuse e sospetti di doping da parte di ex giocatori purtroppo deceduti (Ferruccio Mazzola) e, come se non bastasse, anche presunte accuse di corruzione di arbitri. Nel 2003 The Times, quotidiano inglese, pubblicò un articolo a cura di Brian Glanville, che riportavano la confessione dell’arbitro Gyorgi Vadas, relativa al presunto tentativo di corruzione da parte del Presidente Moratti, in occasione della partita tra la squadra nerazzurra e il Madrid CF. Glanville, semifinale di ritorno della Coppa dei Campioni 1965/66. Nell’articolo c’è scritto che il Presidente Moratti aveva messo in piedi un vero e proprio sistema dedito alla corruzione dei direttori di gara portato avanti da due uomini di fiducia: Italo Allodi e Dezso Solti. Per ben tre anni consecutivi, prosegue l’articolo del giornalista inglese, l’Inter avrebbe cercato, e in due occasioni riuscendovi anche, di corrompere gli arbitri nelle semifinale di Coppa dei Campioni. Vincere quelle due semifinali fu molto importante per l’Inter perché poi, nelle successive finali, arrivarono le conquiste della prestigiosa coppa. Nel 1966 il tentativo di corruzione non andò in porto. La semifinale era quella contro il Real Madrid e l’arbitro era il già citato ungherese Vadas. Egli venne corteggiato con la promessa di un corrispettivo in denaro equivalente all’acquisto di 10 automobili Mercedes se avesse indirizzato la gara verso il successo dei nerazzurri, il doppio in caso di rigore allo scadere e cinque volte tanto per un rigore nei tempi supplementari. Vadas arbitrò in modo regolare e l’Inter perse. Quella fu l’ultima gara arbitrata da Vadas. Un altro episodio spiacevole prova a sporcare, ovviamente non riuscendovi, la linda storia dell’Inter. Siamo nel 1971/72, Coppa dei Campioni. L’Inter gioca negli ottavi di finale contro il forte Borussia Moenchengladbach. L’andata di gioca in Germania e la partita si mette male. I tedeschi vanno avanti per 2-1 quando Boninsegna si accascia a terra poco prima di calciare un corner. Pare sia stata una lattina a colpirlo. Il centrocampista tedesco Netzer trova a terra una lattina vuota e accartocciata e la spinge verso un poliziotto, il quale la raccoglie. Subito Mazzola prova a farsela consegnare, invano. Ma il capitano nerazzurro vede un tifoso italiano intento a bere una lattina. Mazzola se la fa consegnare e la consegna, a sua volta, all’arbitro. Boninsegna non si rialza pur non manifestando particolari danni. La gara riprende e i tedeschi, infastiditi e resi rabbiosi dalla sceneggiata degli italiani, finiscono per vincere 7-1. L’Inter, per mano dell’Avvocato Prisco, sporge reclamo alla Commissione disciplinare dell’Uefa. La quale, però, non può accoglierlo poiché ai tempi non era in vigore il principio della responsabilità oggettiva delle società per il comportamento dei propri tifosi. Ma Prisco è uno che non molla e, alla fine, riesce ad ottenere la non omologazione del risultato. Nonostante non ci sia un regolamento che prevedesse questo tipo di provvedimento. La partita è annullata e il campo del Borussia squalificato. Pertanto, si gioca a Milano come se fosse la gara di andata mentre il ritorno si sarebbe dovuto giocare in campo neutro. Peraltro, nel corso di quella gara Mario Corso venne squalificato per 14 mesi perché ritenuto colpevole di aver preso a calci l’arbitro al termine della partita. Una squalifica ingiusta perché autore dell’atto violento fu Ghio e non Corso. Ad ogni modo, la squalifica non venne confermata, Ghio giocò e realizzo anche la rete del 4-2 di Milano. L’Inter poi avrebbe pareggiato 0-0 a Berlino qualificandosi ai quarti. Tutto questononostante la sconfitta per 7-1 patita all’andata. Tra i miracoli dell’Inter, oltre a quello di vincere uno scudetto pur arrivando terzi, occorre annoverare anche questo…Nel 1981 l’Inter è chiamata a rappresentare l’Italia al torneo “Mundial Infantil de Football”, che si disputa in Argentina. Un trofeo di livello mondiale, e quindi prestigioso, aperto ai ragazzi di età inferiore ai 14 anni, nati cioè entro il 1967. L’Inter vinse il trofeo, con gran giubilo di tutti. Il calcio italiano era ai vertici mondiali, come poi avrebbero dimostrato i ragazzi della Nazionale maggiore l’anno dopo al Mundial in Spagna. Goleador, con otto reti, di quel torneo è Massimo Ottolenghi. Peccato però che un giornale, qualche giorno dopo, attribuisca al ragazzo un’età diversa da quella dichiarata. Non solo, il tal Ottolenghi si chiamerebbe Pellegrini, nato a Roma nel 1966! Lo scandalo divampa e toccò a Sandro Mazzola, già capitano dell’Inter dell’episodio della lattina, giustificare dinanzi al mondo il fattaccio, in quanto consigliere delegato della società nerazzurra. Si, abbiamo sbagliato, avrebbe detto Mazzola, ma quella di barare sull’età dei ragazzi è un’abitudine diffusa e chi è senza peccato scagli la prima pietra. Venne aperta un’indagine e molti dirigenti dell’Inter vennero sanzionati con pene dai 2 anni di inibizione (per il dirigente accompagnatore Migliazza) ad un anno per Mario Fiore, per l’allenatore Meneghetti oltre a sei mesi di squalifica per il giocatore Pellegrini ed il prestanome Ottolenghi. Inoltre, l’Inter venne punita con una multa di 5 milioni di lire. Anche in questo caso evitiamo di emettere giudizi. Nel caso della tentata corruzione stiamo parlando comunque solo della confessione di un arbitro a suo dire contattato per inscenare una manipolazione del risultato e della denuncia di un giornalista, magari abbastanza autorevole. Troppo poco perché se ne possano trarre conclusioni (oddio, poi i tempi cambiano e magari nel 2006 potrebbe bastare molto meno, ma questa è un’altra storia). Nel caso della lattina quasi sicuramente Boninsegna e l’Inter subirono un duro colpo, fisico e morale, che li ha impossibilitati dal poter concludere con la dovuta serenità la gara (perdendola poi per 7-1). Infine, per quanto concerne il taroccamento e lo scambio di persona al torneo giovanile, si sa, sono cose che fanno tutti e chi è senza peccato scagli la prima pietra…Domani, quinto giorno della settimana del prescritto, ossia la settimana che precede Juve-Inter, racconteremo di quando, ed è storia recente, un giocatore dell’Inter, Alvaro Recoba, venne tesserato come comunitario pur non essendolo…
Il passaporto di Recoba: si cambiarono le regole per non far retrocedere l’Inter – La settimana del prescritto, scrive il 31 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Cosa pensereste di una situazione nella quale esiste un regolamento ben preciso che viene rispettato senza alcun problema fino a quando, però, non vengono toccate persone che, diciamo così, godono di protezioni di un certo tipo e, piuttosto che vedersi colpite per la violazione di quelle norme, fanno pressione affinchè proprio quelle regole vengono cambiate? Assurdo, eh? Ebbene, è quanto accaduto al calcio italiano tra il 2000 e il 2001. Esisteva, allora, una regola, esattamente la 40 settimo comma delle NOIF della FIGC, che prevedeva che le squadre del campionato di calcio non potessero schierare più di 5 giocatori con passaporto extracomunitario. Accadde però che quella norma venne violata da alcune società, senza però che queste fossero punite come meritavano (ossia in base a quanto previsto dal regolamento), ma soltanto multate con la squalifica dei calciatori coinvolti e l’inibizione dei dirigenti coinvolti, oltre ad una irrilevante sanzione pecuniaria. Questo perché la regola che ne avrebbe decretato penalizzazioni a livello sportivo, fino alla retrocessione, venne abolita. Anzi, si fece peggio: il processo venne rimandato alla fine della stagione in modo da avere il tempo per cambiare la regola. Entriamo un po’ più nel dettaglio della vicenda in modo da capire quali siano i soggetti coinvolti. Recoba arriva all’Inter nel 1997, assieme al Fenomeno Ronaldo. Sembra essere promettente ma ancora acerbo. Viene mandato a Venezia a farsi le ossa e, in effetti, in laguna il Chino disputa un grande campionato. A fine stagione l’Inter lo richiama in squadra ma emerge un problema: l’Inter ha già in rosa 5 extracomunitari, ossia Ronaldo, Jugovic, Simic, Cordoba e Mutu. Come fare? Semplice, il 12 settembre del 1999 Recoba ottiene il passaporto comunitario. E dire che già nel 1997 venne cercato, invano, un qualche avo spagnolo per poter tesserare Recoba come comunitario…Recoba esplode e Moratti gli regala un contratto da record, addirittura di 15 miliardi di lire a stagione più bonus vari. Recoba disputa quell’anno 29 presenze realizzando 8 reti. Accadde però un fatto: durante una trasferta per una gara di coppa Uefa, il 14 Settembre del 2000, alla frontiera polacca due calciatori dell’Udinese, tali Warley e Alberto, vennero fermati perché in possesso di passaporti falsi. Scoppia lo scandalo passaportopoli, che coinvolge le società Inter, Lazio, Roma, Milan, Udinese, Vicenza, Sampdoria, i giocatori Recoba, Veron, Fabio Junior, Bartelt, Dida, Warley, Jorginho, Alberto, Da Silva, Jeda, Dedè, Job, Mekongo, Francis Zé e i dirigenti Oriali, Ghelfi, Baldini, Cragnotti, Governato, Pulici, Pozzo, Marcatti, Marino, Sagramola, Briaschi, Salvarezza, Mantovani, Arnuzzo, Ronca. Il 30 gennaio 2001 durante un’ispezione nella casa di residenza di Recoba venne accertato che anche il passaporto del Chino era falso. La prima reazione dei nerazzurri non può che essere di sdegno e una decisa presa di distanza dal fattaccio. Poi però si scopre che fu Oriali, dirigente interista, su suggerimento di un altro personaggio che ha sempre fatto della sportività e della correttezza il suo vanto, Franco Baldini, dirigente della Roma, a contattare tale Barend Krausz von Praag, oscuro faccendiere per risolvere la vicenda del passaporto di Recoba. Insomma, l’Inter del tutto estranea alla vicenda non era, al punto che Oriali andò a Buenos Aires proprio per ottenere il documento e, secondo Barend Krausz von Praag (lo ha dichiarato durante un interrogatorio), aver anche pagato 80 mila dollari per conto della società per il disbrigo della pratica. Siccome tante erano le società coinvolte nello scandalo ma ancor di più quelle del tutto estranee, ci si pose il problema di sanzionare i comportamenti illeciti. Già ma come? C’è il precedente, proprio in quei mesi, del medesimo scandalo che ha portato, in Francia e Spagna, alla sospensione dei giocatori e alla penalizzazione delle società coinvolte. Qualcuno, guarda un po’, spinge per il colpo di spugna ma la cosa è impraticabile, si perderebbe del tutto la faccia! Inizia il processo e le società, Milan e Inter in testa, hanno paura. Il rischio è quello di addirittura retrocedere (visto che andrebbe penalizzata la squadra per ogni partita in cui ha schierato il giocatore), la certezza sarebbe quella della non partecipazione alle coppe europee. Galliani si ribella e studia la scappatoia: se si riuscisse, contemporaneamente, a prolungare il processo fino al termine del campionato, per poi cambiare la regola (la famosa 40 NOIF), si potrebbero rendere meno gravi le sanzioni. Mica male, eh? Se una cosa che è reato non lo è più perché si cambia la regola ecco che tutto assume una dimensione diversa. Moratti dichiara: “Se squalificano Recoba e poi la giustizia ordinaria lo assolve, chi ci restituisce squalifiche e penalizzazioni?” per spingere affinchè sia preso il dovuto tempo prima di emettere le sentenze. Strano, qualche anno dopo fu ritenuto sacrosanto svolgere un processo sportivo in pochi giorni, comminando sanzioni assurde ad alcune squadre e ignorando le prove a danno di altre e ben prima che la giustizia ordinaria facesse il suo corso…Sta di fatto che poi anche la giustizia ordinaria condannerà Recoba e Oriali, ma l’Inter non avrebbe pagato con penalizzazioni in classifica per tutti i punti ottenuti in modo illecito. Il 3 maggio del 2001 arriva il provvedimento che tutti i coinvolti nella vicenda aspettavano: cambia la norma relativa al tesseramento e impiego dei calciatori extracomunitari. Mancano sei giornate alla fine del campionato. Il processo si svolgerà a campionato finito e le sanzioni saranno ben più leggere rispetto a quanto avrebbero dovuto essere, poiché la norma era cambiata e le violazioni del regolamento, pertanto, erano meno gravi. Il 27 giugno 2001 la Commissione disciplinare della Lega Calcio emette la sentenza di primo grado: tra le altre, Inter condannata ad una ammenda di 2 miliardi di lire mentre Recoba punito (come anche Dida e tanti altri), con un anno di squalifica. Tra i dirigenti, Oriali è stato condannato ad 1 anno di inibizione. La Commissione di Appello Federale conferma le sanzioni. Anche la giustizia ordinaria fece il suo corso e, il 25 maggio 2006 condannò, in via definitiva, Recoba e Oriali che ricorsero al patteggiamento, ottenendo una pena di 6 mesi di reclusione con la condizionale per i reati di ricettazione e concorso in falso, commutati in multa da 25.400 euro. Una vicenda che, esattamente come le altre raccontate fino qui (e come quelle che racconteremo in seguito), non può gettare ombre sull’onore dell’unica squadra onesta del campionato di calcio italiano. A volte, si sa, capitano certe cose, come, ad esempio, taroccare passaporti, evitare retrocessioni, vincere uno scudetto con l’inganno e vedere le proprie intercettazioni dimenticate nel processo più importante della storia del calcio italiano; sono cose che succedono ma che non possono assolutamente significare che anche l’Inter ha qualche scheletro nell’armadio, quasi fosse come la Juve (magari con qualche vittoria in meno). Per la settimana del prescritto, ossia quella che precede la partita Juve-Inter, domani si parlerà del famoso rigore di Ronaldo per fallo di Iuliano del 1998 che la leggenda vuole abbia fatto perdere lo scudetto ai nerazzurri.
Iuliano – Ronaldo vs West – Inzaghi, la storia raccontata a modo loro, scrive l'1 febbraio 2014 Emiliano su I Faziosi. In questi giorni sto leggendo il, fantastico, libro di Massimo Zampini intitolato “Il Gol di Muntari”, un saggio divertente e ironico che racconta in chiave bianconera la trionfale cavalcata della Juve nella stagione 2011-2012, conclusasi con la vittoria del 30° scudetto. Questa lettura è particolarmente stimolante poichè aiuta a far comprendere le modalità in base alle quali i media e i tifosi avversari attribuiscono le sconfitte della loro squadra alla logica, e dimostrabile, corruzione degli arbitri a favore, ovviamente, della Juve. Perchè ce l’abbiano tutti con la Juve è semplice e lo è per due motivi. Il primo è che inevitabilmente la squadra che più vince è quella più odiata. Lo dimostra il fatto che, dopo la Juve, in Italia, le squadre più odiate siano l’Inter e il Milan. Pochi odiano il Toro o il Parma anzi, suscitano una certa simpatia da parte di tutti i tifosi. In Italia, peraltro, c’è questa mentalità distorta e stupida secondo la quale se uno vince in modo continuo e ripetuto, nella vita come nello sport, sicuramente lo fa in modo non pulito. Nella retorica tipica dell’italiano medio, quello pigro, invidioso, rancoroso e un po’ frustrato, non si può emergere dall’anonimato se non truffando, corrompendo o, al limite ricorrendo a dosi da cavallo di fortuna. La Juve, peraltro, quando non vince lo scudetto arriva seconda. Infatti, a fronte di 31 piazzamenti al primo posto, la Juve è arrivata 21 volte al secondo posto (e 12 al terzo). Questo significa che quasi ogni volta che il Milan, l’Inter, la Roma, la Lazio, la Fiorentina eccetera hanno vinto lo scudetto, oppure l’hanno perso sul filo di lana, la loro avversaria era la Juve. Il secondo motivo dell’odio nei confronti della Juve deriva dalla parzialità e faziosità dei media italiani. Il calcio divide come solo la politica sa fare. Ma mentre nella politica c’è un certo equilibrio tra le parti a livello mediatico (grazie alla lottizzazione in Rai ci sono giornalisti e dirigenti di tutti gli schieramenti, Mediaset appoggia, velatamente, il partito del suo proprietario; di quotidiani di parte ce ne sono per tutti i gusti), nel calcio tale equilibrio non esiste. Intanto perchè le redazioni di giornali e televisioni sono tutte situate a Milano o a Roma, e, ad esempio, in Rai sono le squadre romane a godere di una “leggera” prevalenza di tifo da parte dei giornalisti che vi lavorano mentre in Mediaset e Sky sono le milanesi a vantare un maggior numero di estimatori. Inutile dire che Mediaset ha una “velata” prevalenza di giornalisti di fede rossonera (come mai? Boh). Tra i quotidiani, Gazzetta dello Sport e Corriere della Sera sono, anche in questo caso, lievemente vicine alle posizioni delle squadre milanesi mentre Corriere dello Sport e Repubblica sembrano e sottolineo il sembrano, avere tra i propri giornalisti parecchi simpatizzanti delle squadre romane, del Napoli e della Fiorentina. A Torino, peraltro di proprietà della famiglia Agnelli, c’è La Stampa nella cui redazione sportiva abbondano i simpatizzanti del Toro, come ha mostrato la vicenda relativa all’esultanza nella sala stampa dello Juventus Stadium, al goal del Chelsea nell’ultima Champion’s League, con tanto di cazziata di Antonio Conte. C’è Tuttosport, è vero, unico quotidiano sportivo spudoratamente dalla parte della Juve. Tuttosport però vende, all’incirca, un terzo delle copie della Gazzetta e la metà di quelle del Corriere dello Sport. La conclusione di tutto questo è che i tifosi della Juve sono soli e devono essere bravi a difendersi. Non devono, mai, pretendere di diventare simpatici, perchè simpatici sono quelli che perdono, nè possono sperare nella benevolenza dei tifosi avversari. Quel che devono fare è, semplicemente, essere informati e ribattere colpo su colpo. Noi cerchiamo di contribuire alla causa mostrandovi due video. Nel primo vedrete il famoso rigore non dato a Ronaldo contro Juliano. Quello che avrebbe determinato le sorti dello scudetto 1997-1998 (peraltro la Juve terminò il campionato con 5 punti di vantaggio). Tutti se lo ricordano. Ricordiamolo anche noi. Poi c’è questo video. E’ relativo alla partita di andata, a Milano, tra Inter e Juve. Il risultato finale fu di 1-0 per i neroazzurri. Nel video c’è un rigore non fischiato alla Juve per fallo di West su Inzaghi (che è ben più clamoroso di quello non concesso a Ronaldo) e, per non farsi mancare nulla, un goal regolarissimo di Inzaghi, clamorosamente annullato. Le immagini sono eloquenti eppure la maggior parte dei tifosi della Juve non ricordano questi episodi. Da oggi in poi, quando vi parleranno del rigore di Juliano su Ronaldo, rispondete con quello di West su Inzaghi e con il goal annullato allo stesso Inzaghi.
ESSERE DELLA JUVE, DEL MILAN, E DELL’INTER: NASCE “LA VOCE DELL’IDEOLOGIA”. Scrive "Il Giornale il 10 agosto 2016". Il fatto che parlare di calcio sia una delle attività preferite di ciascun maschio italiano medio che si rispetti è di per sé una cosa piuttosto assurda. Non tanto perché si tratti di argomento noioso e senza particolare dinamismo, anzi: considerazioni del genere tendenzialmente arrivano da coloro che morirebbero dalla voglia di essere come tutti ma ormai si sono costruiti il personaggio dal tipico snobismo anti-pallonaro e non possono più uscirne; piuttosto perché, fondamentalmente, è inutile. Provate a pensarci: quante discussioni con gli amici su questo o quel giocatore, quante diatribe su allenatori o sistemi di gioco, e cosa ne è mai venuto fuori? Nulla. Ognuno è sempre rimasto della propria idea, grazie e arrivederci. E allora perché lo facciamo? Perché perdiamo interi pomeriggi e mettiamo a rischio solide amicizie per scornarci su argomenti rispetto ai quali non ci smuoveremo mai e poi mai nemmeno di un millimetro? Semplice: perché è maledettamente bello. Perché è magnifico essere certi di qualcosa, e le certezze che ciascuno è convinto di avere sul calcio sono le più inossidabili che esistano, ed è ancor più magnifico perdere tempo a tentare di divulgare questi presunti assiomi ovunque e ogni volta che ne abbiamo occasione. Un principio che si fonda su una verità incontestabile, per quanto dura da ammettere: il tifoso di calcio è per sua stessa essenza un ideologico. La strenua convinzione con cui porta avanti le proprie tesi sul 4-3-3 o sul reale valore di Pogba non nascono certo da alcuna competenza tattica o sugli andamenti di mercato, ma dalla pura e genuina ideologia. Ed è straordinario come ciascun agglomerato di tifo si caratterizzi per impronte ideologiche assolutamente comuni. Prendiamo i tifosi delle tre principali squadre italiane, Juventus, Milan e Inter. Sono complessivamente svariate decine di milioni ma tutto sommato potrebbero benissimo essere anche solo tre, perché una volta che hai conosciuto uno juventino è come se li avessi conosciuti tutti, e lo stesso discorso vale per milanisti e interisti. Il topos letterario di bandiera non cambia, al massimo è leggermente sfumato di caso in caso, ma il sostrato è quello, non si scappa. Provate a pensare alle reazioni che questi tifosi solitamente hanno nei confronti, per esempio, delle sconfitte: lo juventino la vive come uno sfregio irreparabile, un accadimento che potrebbe minare la coscienza popolare del fatto che la Juventus sia la squadra più forte, qualcosa di intollerabile; il milanista si arrabbia, certo, ma lo fa comunque con una certa classe perché, al fondo, sa benissimo che qualsiasi cosa succeda nulla potrà mai intaccare il fatto che il Milan sia il più forte, glorioso e magnifico club di sempre, ed è ridicolo pensare che qualche annata storta possa mettere in discussione questo dato di fatto; l’interista invece, che fondamentalmente interiorizza come pochi altri sanno fare e personalizza ogni cosa, vive la sconfitta come un dramma personale, come se il mondo gli fosse caduto addosso, come se fosse la fine di tutto, nella continua altalena che di domenica in domenica lo porta a toccare le stelle come a raschiare le più ruvide terre. Di conseguenza, per lo juventino la vittoria è una sorta di liberazione, di avvenimento straordinario facente però parte (o che dovrebbe far pare, perlomeno) della più assoluta normalità: ecco perché quando la Juventus vince il suo tifoso vorrebbe correre per strada e fermare ogni passante per dirgli “Hai visto? Hai visto che i più forti siamo noi? Avevi dei dubbi, eh? Beh, ti sbagliavi!”, per fugare qualsiasi possibile pensiero che possa mettere in discussione che i migliori siano loro; il milanista, data l’impareggiabilità di cui gode il suo club, festeggia le vittorie con apparente tranquillità, quasi con nonchalance, andando in giro con stampata sul volto la frase “Massì che volete che sia, per noi è normale…”, beandosi di questo senso di superiorità; per il tifoso dell’Inter, infine, la vittoria rappresenta l’apoteosi, qualcosa di individuale e profondo, una sorta di ascesi da vivere quasi in solitaria, come se l’Universo avesse deciso finalmente di degnarlo di uno sguardo: non esiste niente e nessun altro, è una vittoria quasi più nei confronti del Cosmo che di una squadra avversaria. Da tutto ciò, le naturali controparti delle discussioni: gli juventini litigano con chiunque, i milanisti tendenzialmente non litigano, mentre gli interisti litigano soprattutto fra di loro.
Beccata al letto con Coppi: «Lei, è in arresto», scrive Lanfranco Caminiti il 5 ago 2016 su “Il Dubbio”. Si conobbero quando entrambi erano già sposati e scoppiò l'amore. Li perseguitarono, ma riuscirono lo stesso a sposarsi in Messico e ad avere un figlio, Faustino. Fu lei a pagare il prezzo più alto, attaccata soprattutto dalle altre donne in un Italia perbenista. La denuncia era ormai lì. Contro Occhini Giulia in Locatelli, di anni trentuno, casalinga, e contro Coppi Fausto, del fu Domenico, di anni trentaquattro, coniugato, di professione corridore. Era d'obbligo darvi seguito. E fu subito scandalo. «Ma chi crede al dolore di quella concubina, a chi lo vuol far credere? Non parlare più di questa grande peccatrice che ha tanto disgustato sarebbe un'ottima cosa per noi madri e mogli oneste che abbiamo sacrificato tanto per la nostra missione, per la nostra reputazione» (Eleonora, Padova). Un'altra: «Mi meraviglia l'arroganza e la crudeltà della signora Occhini. Chiama suocera la madre di Coppi e ha il coraggio di abitare nello stesso paese a poca distanza dalla moglie di lui» (Giovanna). E ancora: «Ma la Occhini avrebbe abbandonato marito e figli se Coppi fosse stato il garzone di un salumiere invece che il Campionissimo? » (Carmen, Piacenza). E ancora: «Non vi sembra che si esagera non poco nella stampa di oggi presentando la Occhini quale vittima di un tragico destino? In fin dei conti si tratta sempre di una donna che ha rovinato due famiglie» (Enrico, Firenze). È questo il tono di alcune delle tante lettere che Franco Pierini pubblicò in una lunga inchiesta sull'adulterio uscita su l'Europeo nel 1960, quando tutto sarebbe dovuto essere, letteralmente, morto e sepolto. Ma l'adulterio era il marchio peggiore in quegli anni. «Religione, codice e costume sono i tre elementi che congiurano per fare dell'adulterio il peggior reato che si possa commettere in Italia. Le sue conseguenze durano tutta la vita. Di fronte alla nostra società può riabilitarsi il ladro e perfino l'omicida, non l'adultera». Aveva scritto così il professore Mario Luzzatti, noto matrimonialista, che pure era stato uno degli avvocati del marito di Giulia Occhini al processo. Perché Giulia Occhini, e la sua storia con Fausto Coppi, il Campionissimo, erano il "concentrato" di tutte le storie adultere di quegli anni - storie adultere di necessità e non per scelta, perché non esisteva possibilità alcuna di interrompere il matrimonio -, per l'enorme visibilità che ebbe, data la straordinaria popolarità del ciclista, per l'accanimento dei media, per la complicata e intrigata realtà dei protagonisti, per l'aspetto drammatico che assunse e per il carattere tragico della sua fine. Coppi, allora, superava in popolarità qualsiasi altro campione di sport o anche un cantante o un attore: è inimmaginabile oggi, ma allora la fatica della bicicletta univa come nient'altro "nazione e popolo". Gliela fecero pagare amara, quella popolarità. Insomma, c'era una pancia della nazione che giudicava con ferocia Giulia Occhini, ed erano soprattutto donne. Lei, la moglie del dottore, bella, elegante, maliarda, aveva potuto scegliere, e meglio. Ma il matrimonio rappresentava per milioni di donne un fragile argine di sicurezza: la Occhini era una minaccia, era "l'altra donna" che poteva rubarti il marito, e con lui quell'argine all'insicurezza. E poi, le donne che lavoravano non erano molte, non avevano autonomia economica, badare a marito-padrone e figli rappresentava pur sempre un modo di sopravvivenza; la "dote" della reputazione era tutto il patrimonio spendibile. E mandare all'aria un matrimonio, essere esposta al giudizio morale di tutti, e all'emarginazione, a meno di non volere appositamente mettersi "su una brutta strada", era considerata una spudorata pazzia, di certo non un comportamento che si sarebbe potuto riprodurre con facilità e come via di liberazione. I tempi erano questi. Meschini. Settembre 1954. Quando il pretore, il brigadiere, l'appuntato e il medico di Novi Ligure vanno a mezzanotte a Villa Carla, dove vivevano i due concubini, per pescarli in "flagrante reato" dopo che il marito di lei, con tanto di due testimoni, ha presentato denuncia, superano un primo cancello, poi un secondo. È notte, e i due, ormai svegli, non si fanno beccare certo a letto insieme. Coppi li accoglie in vestaglia, lei - che da un po' figura come la sua segretaria privata, per salvare la faccia e il quieto vivere - è già in ordine: la flagranza non ci sarebbe. Però, l'appuntato - il mandato li autorizza a ispezionare ogni stanza - allunga la mano sul letto: è caldo, eccola, la prova. Su quella "prova", arrestano lei in nome della legge e della pubblica morale - trascorrerà tre notti in prigione e poi andrà in domicilio coatto da una zia a Ancona, a lui ritirano il passaporto; su quella prova nel 1955 verrà intentato il processo e saranno comminate le condanne, lui a due mesi, lei a tre. Molti anni dopo, ricordando quella sera del '54 la Occhini dirà che quella visita notturna se l'aspettavano, e che per quello avevano messo tutti quegli sbarramenti, per avere del tempo a non farsi trovare abbracciati; rivelerà, anche, che dentro l'armadio c'era un doppiofondo, che conduceva a un'altra stanza, un rifugio, insomma, dove scappare in casi estremi. Racconterà ancora che a Ancona, al domicilio coatto, quando usciva per fare la spesa, le donne sputavano al suo passaggio. Questi erano i tempi per l'amore: meschini. Tutto era cominciato nel 1948, quando il dottor Locatelli, medico condotto a Varano Borghi, comune del Varesotto, sfegatato tifoso del Coppi Fausto, l'Airone che volava sulla bici, si era fatto accompagnare dalla moglie al Tre Valli Varesine, che lui, il Campionissimo, aveva vinto, e dove lei gli aveva chiesto un autografo. Poi, le famiglie si erano frequentate, il medico e la moglie andavano a Novi Ligure, dove il Campionissimo viveva con la propria, di moglie, Bruna, una bella e modesta ragazza che conosceva da ragazzino, quando l'avevano mandato prima nei campi, come tutti i fratelli, e poi dal fornaio, che con quel fisico strano - magro magro, lungo lungo e con quel petto carenato - non era cosa sua la fatica della terra, a fare le consegne. Era lì che il Coppi, andando su e giù per valli e colline, aveva scoperto come si potesse andare veloce in bici, come potesse essere imprendibile. C'erano state lettere, tante lettere, fra il Fausto e la Giulia: lei spigliata, lui silenzioso, lei di mondo, lui un contadino nel cuore, lei elegante, lui vestito come uno che s'è appena comprato il doppiopetto per la vita. Lui un campione che il mondo ci invidiava, lei, forse, una che sentiva stretta la vita di provincia. Scoppia l'amore, è irrefrenabile. Lo tengono nascosto, come possono. Lui lascia la moglie e la figlia, lei lascia il marito e i figli: vanno a vivere a Villa Carla di Novi Ligure. Tutto rimane un po' così, sembra che il medico condotto se ne sia fatta una ragione, e pure Bruna forse - si sono separati, Fausto le ha lasciato la loro prima casa e cinquanta milioni, che allora erano un'enormità. Quando nel 1953 vince il campionato del mondo a Lugano, Fausto regala a Giulia, che gli sta vicino vicino, i fiori della vittoria. È il primo gesto scopertamente "pubblico". Prima, sullo Stelvio, mentre lui scollinava, qualcuno aveva colto il grido d'entusiasmo di Giulia e lo sguardo compiaciuto di Fausto - ma era ancora una "storia di ciclismo". Poi, al Tour de France del 1954, dopo la tappa di Saint Moritz, Pierre Chany, giornalista de l'Équipe, scrive: «Vorremmo sapere di più di quella dame en blanc che abbiamo visto vicino a Coppi» - lei indossava un montgomery color neve. È lì che nasce l'appellativo con cui Giulia Occhini passa alle cronache. La dama bianca. Forse, fu lì che il dottor Locatelli non ci vide più. E si presentò alla caserma di Novi Ligure. Giulia, nel 1955, l'anno del processo, è incinta. Con Fausto si sposano in Messico - matrimonio non riconosciuto dalla legge italiana - e poi lei va a partorire in Argentina, per poter dare il cognome del Campionissimo al figlio, Faustino. Partorisce mentre avviene la punzonatura del 38° Giro d'Italia, dove lui arriverà secondo tra entusiasmi e tifoserie divise. Lei non potrà rivedere i suoi figli per anni, e così lui per la sua piccola Marina. Coppi continua a correre e vincere, e la gente, lentamente, sembra voler dimenticare quella storia. Dimenticare, non perdonare. Quello, non accadrà più. Per Giulia e Fausto saranno anni quasi tranquilli - lui è "anziano" come ciclista ma, benché Ginettaccio Bartali, tra il serio e il faceto, al Musichiere, la famosissima trasmissione di Mario Riva, gli rinfaccerà di aver usato «eccitanti», ha un cuore che è un mantice e come quello d'un ragazzo, e continua a correre. E guadagnare. E cambia: veste più ricercato, sembra elegante quasi, impara i buoni modi, ha un'aria rilassata quando sta in mezzo agli altri e pure felice nelle foto con lei e Faustino - per come potesse esprimere la felicità un uomo solitario, timido e riservato. Quando, per insipienza dei medici, una malaria contratta in Africa, dove era andato per una battuta di caccia, nel dicembre del 1959 diventa mortale e se lo porta via in un amen, quasi quasi gliela rimprovereranno a Giulia, quella morte banale. Lui, da morto, diventò leggenda. Lei, la rovinafamiglie, da viva, Occhini Giulia in Locatelli, casalinga, restò colpevole.
Olimpiadi, quegli atleti Dei per un minuto. Medaglie d’oro. E poi miseria, malattie, oblio. Dalla Germania al Kenya, dagli Stati Uniti all’Italia, storie di sportivi dalla gloria durata molto poco, scrive Gianfranco Turano l'8 agosto 2016 su “L’Espresso”. Se lo ricordano in pochi. Nel 2012 a Londra ha vinto l’oro. Ai Giochi di Rio non si è qualificato ma una medaglia se la merita lo stesso. Si chiama Carlo Molfetta e il 12 luglio scorso ha twittato: «Io vinco le Olimpiadi e sono un pirla. Pellè è un pirla e prenderà 16 milioni di euro l’anno! Ergo nella vita meglio essere un pirla». Molfetta ha poi chiarito: «Il pirla era anche riferito all’errore dal dischetto agli ultimi Europei e al famoso gesto dello scavetto fatto a Neuer. Sarebbe come se io andassi dal mio avversario prima di un match e gli dicessi: ti faccio un culo così. E poi perdessi l’incontro». Molfetta, salentino come Pellè, è un campione di taekwondo, arte marziale coreana introdotta nel programma olimpico a Seul nel 1988 come sport dimostrativo. Se non fosse stato eliminato al preolimpico di gennaio, Molfetta avrebbe potuto puntare di nuovo al jackpot dell’oro, quotato dal Coni 150 mila euro (lordi, a differenza dello stipendio di Pellè). Quattro anni di sacrifici non si affrontano nella speranza di vincere 80 mila euro netti contro i più forti del mondo. L’unico movente è la passione sportiva. In questo, e solo in questo, le Olimpiadi sono rimaste dilettantismo nel senso etimologico del termine. Si compete per diletto o perché si è “amateur”, nella lingua del barone de Coubertin. La passione può abbinarsi alla gloria ma niente dura meno della gloria senza un giro d’affari adeguato. Lo sprinter giamaicano Usain Bolt o la stella della Nba Kevin Durant sono punte di diamante nell’entertainment business quanto Matt Damon o Jennifer Lawrence. La portabandiera Federica Pellegrini fa la pubblicità in tv. Idem il fidanzato Filippo Magnini. Molfetta e quegli azzurri che, a Rio come in ogni altra Olimpiade, contribuiranno in quota maggioritaria al medagliere italiano con la scherma, il tiro a segno, il tiro a volo, il tiro con l’arco, la lotta, sono destinati all’oblio in tempi brevissimi secondo il teorema dell’arciere Marco Galiazzo, due ori (2004, 2012) e un argento (2008). «Il brutto è che ora il nostro sport cadrà nel dimenticatoio per altri quattro anni». E perché poi non dovrebbe? Il mondo ha ignorato in vita Franz Kafka. Non c’è da meravigliarsi se l’epopea olimpica moderna è ricca di campioni sedotti e abbandonati dalla fama ai piedi del podio. I Giochi di Rio sono segnati in partenza dal doping sistematico, che avvenga sotto patrocinio statale (Russia e Cina) o sotto il segno dell’impresa privata (tutti gli altri). I nuovi test stanno consentendo di scoprire nuove positività risalenti ai Giochi del 2008 (Pechino) e del 2012 (Londra). Ma in Germania non si sono ancora spente le polemiche per i trionfi anabolizzati della Ddr, lo squadrone tedesco-orientale capace, con 17 milioni di abitanti, di piazzarsi al secondo posto nel medagliere a Montreal 1976 e a Seul 1988, davanti agli Stati Uniti, oltre che nell’edizione boicottata di Mosca 1980. I giochi coreani sono stati l’ultimo momento di una gloria truffaldina certificata dalle analisi antidoping che da Messico 1968 a Seul 1988 non hanno mai trovato positivo un solo atleta della Germania est, caso unico fra i paesi del socialismo reale. La verità è venuta fuori dopo la caduta del muro di Berlino (novembre 1989). Ancora più che in Unione Sovietica la macchina della propaganda imponeva agli sportivi della Ddr l’uso di sostanze dopanti a partire da un’età di 8 anni grazie al programma denominato14.25 in codice. Gli exploit degli araldi del compagno segretario Erich Honecker, erano sostenuti da dosi massicce di Oral-Turinabol, uno steroide prodotto dall’azienda di Stato Jenapharm, poi privatizzata e acquisita dalla Schering. Dopo la riunificazione della Germania, il doping di Stato è stato denunciato da molti olimpionici e negato da altri. Fra coloro che hanno chiesto un risarcimento all’ex Jenapharm ci sono la nuotatrice Rica Reinisch, la sprinter di atletica Ines Geipel, il martellista Thomas Gotze, oggi procuratore della Repubblica, e un gruppo di circa 200 atleti. Sono nomi che in alcuni casi sono poco conosciuti anche agli esperti. L’elenco delle nuotatrici tedesche che sono state private a posteriori del titolo simbolico di Nuotatrice dell’anno è lungo: Ulrike Tauber, Ute Geweniger, Petra Schneider, Kristin Otto, Barbara Krause, Silke Hörner e la grande Kornelia Ender, prima donna a vincere quattro ori in un’Olimpiade e prima nuotatrice dell’est a ottenere le copertine del gossip occidentale grazie al suo fidanzamento con il connazionale Roland Matthes che ha sempre negato ogni coinvolgimento nel programma orchestrato dalla Stasi, la polizia di Stato di Honecker. Il caso di scuola è quello della lanciatrice del peso Heidi Krieger che nella sua carriera ha assunto un totale di 2,6 chilogrammi di Turinabol (1 chilo in più dello sprinter canadese Ben Johnson). Qualche anno fa Krieger ha cambiato sesso. Si chiama Andreas e ha sposato un’altra sportiva del tempo, la nuotatrice Ute Krause. Sul fronte negazionista si trovano il pesista Ulf Timmermann, mentre il collega Udo Beyer ha confessato l’uso di steroidi. Non ha mai ammesso il doping neanche Marita Koch, detentrice del record mondiale dei 400 piani tolto nel 1985 all’arcirivale cecoslovacca Jarmila Kratochvílová che tuttora ha il miglior tempo di sempre sugli 800 metri, stabilito nel 1983. È il record più longevo dell’atletica all’aperto. Negli 800 a Rio correrà un’altra atleta molto discussa, la sudafricana Caster Semenya. Altrettanto negazionista è stata la casa farmaceutica Schering che a lungo ha addossato agli ex atleti in maglia blu la responsabilità di avere abusato del Turinabol. Nel 2005 il comitato olimpico tedesco ha versato 9250 euro di risarcimento a ogni atleta. Un anno dopo l’ex Jenapharm ha sborsato la stessa cifra a chiusura del contenzioso. Il martellista Detlef Gerstenberg non è arrivato a questo traguardo. È morto di cirrosi epatica a 35 anni nel 1993. Può sembrare strano inserire nella lista degli atleti dimenticati Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo sui 200 metri a Città del Messico nel 1968. Di sicuro, i due statunitensi hanno avuto infinitamente meno fama e riconoscimenti rispetto alla foto che li ritrae durante la cerimonia di premiazione con la testa bassa e il pugno guantato di nero teso verso il cielo in sostegno alle lotte dei neri americani. Erano passati sei mesi dall’assassinio di Martin Luther King e quattro mesi dall’omicidio di Robert Kennedy. Come replica, il vincitore dell’oro dei pesi massimi nella boxe all’Olimpiade messicana, l’afroamericano George Foreman, futuro campione del mondo, si presentò sul ring avvolto dalla bandiera a stelle e strisce dicendo che la protesta di Smith e Carlos era roba da “universitari”, pur essendo i due sprinter di origine molto povera e ammessi al college solo per le loro capacità atletiche. Carlos e Smith vennero immediatamente allontanati dalla squadra Usa e accolti in patria come due pericolosi estremisti vicini al movimento delle Pantere Nere. Con gli Stati Uniti in guerra in Vietnam certi atteggiamenti non erano tollerati. Nel 1967 era finita in castigo la medaglia d’oro dei pesi massimi leggeri di Roma 1960, Cassius Clay. Il futuro Mohammed Ali aveva rifiutato il servizio militare con la frase “I ain’t got no quarrel with those Vietcong” (“non ho motivi di lite con i Vietcong”). Era stato privato del titolo mondiale e condannato in primo grado a cinque anni, rimanendo fuori dal ring per tre anni e mezzo. Ai due sprinter andò peggio. Per un lungo periodo Carlos fece il facchino al porto della sua città, New York, e Smith lavò auto a casa sua, nel Texas della segregazione. “The Jet” Smith oggi ha 72 anni e ha allenato al Santa Monica College. Lo scorso maggio ha partecipato a una manifestazione al Mémorial Acte, il museo dedicato alla tratta degli schiavi alla Guadalupa. Carlos ha lavorato senza grande costrutto finché ha ricevuto una consulenza al liceo di Palm Springs. Il più dimenticato dei tre è il terzo della foto, l’australiano Peter Norman, argento di quei 200 metri. In segno di solidarietà si presentò sul podio con uno stemma dell’Olympic project for Human rights ricevuto da un altro atleta Usa. Norman non fu mai più convocato in squadra, pur essendo il più veloce del suo paese, e rimase a lungo disoccupato. Alla morte di Norman nel 2006, Smith e Carlos presero l’aereo fino a Melbourne per portare il feretro. Nel 2008 un atleta keniano ha stabilito il record olimpico della maratona correndo in 2 ore 6 minuti e 32 secondi, circa due minuti in più del mondiale di Hailé Gebreselassie, nonostante le condizioni ambientali rese proibitive dallo smog di Pechino. Solo i patiti di atletica leggera ricordano il suo nome. Samuel Wanjiru, keniano cresciuto in Giappone, aveva 21 anni ed era alla sua terza maratona. Un predestinato che da Pechino in poi ha continuato a vincere. Fino al 15 maggio 2011. Quella notte il fondista è stato trovato morto dopo un volo dal balcone della sua casa, una villetta a un piano nella sua città natale di Nyahururu. L’altezza dalla quale l’atleta è precipitato è di poco superiore al tettuccio del Suv di Wanjiru. Appena dopo la morte sono state riportate voci di una lite fra il campione, sua moglie e una donna che non avrebbe dovuto trovarsi nel letto coniugale della signora Wanjiru. Il corridore aveva avuto già problemi di ordine pubblico pochi mesi prima. La polizia keniana lo aveva denunciato perché aveva minacciato di morte la moglie e teneva a casa un Ak47, più noto come kalashnikov. L’atleta aveva ribattuto che era una montatura e aveva alluso a tentativi di estorsione nei suoi confronti da quando aveva iniziato a guadagnare i ricchi montepremi delle maratone di Londra e Chicago. Il processo è tuttora in corso. Finora i magistrati hanno escluso una delle tre ipotesi, il suicidio. Anche l’incidente è considerato improbabile. Ma nessuno finora è imputato di omicidio. Mentre a Rio si corre, in Kenya continuano le udienze. La tomba di Wanjiru è in stato di abbandono. Vincere un oro olimpico è un momento di celebrità che può durare un momento o in eterno. Ma vincere una gara ai Giochi e subito dopo ricevere una villa in regalo oltre a un viale e uno stadio intitolati a proprio nome sembra impossibile. A meno che il capo dello Stato si chiami Idi Amin Dada, tiranno dell’Uganda dal 1971 al 1979 passato alla storia per le sue stragi tribali e alla leggenda (forse) per i suoi gusti antropofagi. Villa, viale e stadio sono toccati in sorte a John Akii-Bua, primo vincitore olimpico per lo Stato centrafricano alle Olimpiadi Monaco del 1972 nella gara dei 400 ostacoli. La vittoria e il primo giro di pista con la bandiera nazionale al collo della storia delle Olimpiadi sono i fatti per i quali Akii-Bua è ricordato. I problemi iniziano poco dopo la vittoria ai giochi africani l’anno successivo, il 1973. Amin si rende conto che il corridore è troppo popolare nel paese e rischia di fargli ombra. Applica all’atleta una serie crescente di restrizioni e finisce per vietargli di gareggiare all’estero. Il gruppo tribale di Akii-Bua, l’etnia Lango, subisce l’ira del dittatore. Gli squadroni della morte di Amin uccidono tre fratelli dell’atleta. Solo nel 1978 il tiranno che si era proclamato re di Scozia sospenderà il divieto di uscire dal paese per Akii-Bua. Ma mentre l’atleta è all’estero, sua moglie e i suoi figli verranno tenuti in ostaggio a Kampala. Nel 1979, al momento dell’invasione delle truppe tanzaniane che farà cadere Amin, Akii-Bua scapperà con la sua famiglia nella parte occidentale del Kenya dove vivrà in un campo di rifugiati. Da lì raggiungerà la Germania e riuscirà a mantenersi con il sostegno finanziario della Puma, al tempo la maggiore concorrente dell’Adidas. Akii-Bua tenterà il miracolo sportivo ma sarà eliminato in semifinale a Mosca 1980, i giochi boicottati dagli Stati Uniti per l’invasione sovietica dell’Afganistan. Akii-Bua è morto in Uganda nel 1997 a 47 anni. Il lottatore di greco-romana faentino Vincenzo Maenza era chiamato Pollicino perché combatteva nella categoria dei 48 chili. Memorabili le sue diete per non superare il peso: saune massacranti, digiuni, allenamenti in vista di una gara che poteva essere compromessa da un sorso d’acqua di troppo. I risultati? Oro a Los Angeles (1984), oro a Seul (1988), argento a Barcellona (1992), più i titoli mondiali e le medaglie europee. Fino al 2008 Maenza, diventato allenatore, è stato una garanzia in chiave olimpica. A Pechino, il suo allievo Andrea Minguzzi è primo. Nel gennaio 2013, la catastrofe. Maenza è inquisito per molestie ad atleti al tempo minorenni. La prova sarebbe in un video girato da una telecamera nascosta in una palestra di Faenza nel 2000, oltre dodici anni prima. L’eventuale reato sarà dichiarato prescritto a settembre dello stesso anno. Nel frattempo, Maenza viene escluso dal suo incarico di allenatore federale. Oggi Maenza gira per l’Italia facendo stage nelle palestre che lo invitano. A Rio ci sarà un altro suo allievo, Daigoro Timoncini, già in gara a Pechino e a Londra. I pugili Leon Spinks e il fratello Michael hanno vinto prima l’oro olimpico e poi il titolo mondiale da professionisti, un risultato che poche famiglie dello sport possono vantare. Ma Leon, due anni dopo il trionfo a Montreal 1976, ha battuto per la corona dei massimi the Goat (the greatest of all times), l’acronimo usato da Muhammad Ali per definire se stesso con una notevole dose di esattezza. Per il maggiore dei fratelli Spinks, 63 anni, vincitore di borse per 5,5 milioni di dollari del tempo, tutti sperperati, il declino dopo la boxe è arrivato fino alla povertà estrema. Un po’ come è accaduto con i calciatori George Best o Paul Gascoigne, le cronache si occupano di lui solo in occasione di interventi chirurgici e di resoconti su una salute e una condizione economica sempre più precarie. Il campione del Missouri oggi vive in Nebraska dove si guadagna da vivere facendo il bidello in un Ymca di Columbus. Il cinema si è occupato spesso di sportivi realmente esistiti e dimenticati o malati o in lotta con una popolarità evanescente. Per restare in ambito olimpico ci sono l’inglese “Momenti di Gloria” (Giochi del 1924), “Unbroken” prodotto da Angelina Jolie (Giochi del 1936) sul mezzofondista italo-americano Louis Zamperini o ancora “Atletu”, dedicato ad Abebe Bikila, il maratoneta scalzo vincitore a Roma 1960. Premiato con il riconoscimento per la migliore regia al festival di Cannes, "Foxcather" è il film del regista Bennett Miller, appassionato di storie vere, che dopo "Capote" e "L'arte di vincere" ha scelto di raccontare la vera storia di due fratelli, medaglie d'oro olimpiche nella lotta nel 1984, divisi da un miliardario mecenate, John Du Pont che, affetto da schizofrenia paranoide, trasformò il loro rapporto in tragedia. Du Pont è interpretato da Steve Carell che per questo ruolo è stato candidato all'Oscar. Nel cast anche Sienna Miller e Vanessa Redgrave. Il più recente, e forse il più esemplare, è “Foxcatcher” che ha ottenuto cinque nomination agli Oscar del 2015. È la storia dello statunitense Max Schultz, oro della lotta a Los Angeles 1984, e del fratello Dave, anch’egli lottatore ucciso nel 1996 dal miliardario John du Pont, erede della dinastia farmaceutica du Pont de Nemours. Il film di Bennett Miller ha dato a Max Schultz, 55 anni oggi, una popolarità che lo sportivo non aveva conosciuto né ai tempi dei Giochi né dopo l’uccisione del fratello. E Max Schultz, naturalmente, ha detto che il Max Schultz del film non gli assomiglia per niente, che lui non è uno sfigato, non è mai stato timido, men che meno cripto-gay e, se incontra il regista, lo gonfia. Dimenticare, a volte, è giusto.
Olimpiadi Rio 2016, 41 preservativi a testa forniti dal Cio: “Ai giochi ho visto gente accoppiarsi sui prati”. “Si fa un sacco di sesso durante le Olimpiadi”, ha spiegato il bel ex portiere della nazionale statunitense femminile di soccer, la fanciulla Hope Solo. “Ai giochi di Barcellona si faceva tanto sport quanto sesso”, ha raccontato alcuni anni fa con entusiasmo l’ex campione britannico di ping pong, Matthew Syed. “Ho scopato di più in quelle due settimane che in tutto il resto della mia vita”, scrive Davide Turrini il 3 agosto 2016 su "Il Fatto Quotidiano". 41 preservativi a persona messi a disposizione dall’organizzazione. No, non siamo di fronte all’annuncio di uncasting per una gang bang californiana, ma alle Olimpiadi di Rio 2016. Il Comitato Olimpico Internazionale ha voluto omaggiare i quasi 11mila atleti provenienti da ogni angolo del pianeta che il 5 agosto inizieranno a gareggiare, con qualcosa come 450mila condom. Non si sa con precisione di quale spessore, materiale e fattura, dato sempre molto importante visto l’obiettivo medico-sanitario preposto. Come non si sa se qualche zelante funzionario del CIO abbia voluto accontentare le singole richieste su colore e profumo, visti i nazionalismi imperanti in ogni giardino del villaggio olimpico. Fatto sta che le notti magiche degli atleti olimpionici, tra un severo salto in lungo e un’emozionante, caldo e sexy match di beach volley durante il giorno, diventano un autentico inferno dantesco con accoppiamenti selvaggi che mostrano il vero significato del tanto decantato multicultiralismo. “Ai giochi di Barcellona si faceva tanto sport quanto sesso”, ha raccontato alcuni anni fa con entusiasmo l’ex campione britannico di ping pong, Matthew Syed. “Ho scopato di più in quelle due settimane che in tutto il resto della mia vita”. Non ricordiamo medaglie e finali all’ultimo net per Syed, ma sappiamo con precisione quanti preservativi inviò il Comitato Olimpico per le gare nella città delle ramblas: 90mila. Una cifretta da nulla, a quanto pare. “Si fa un sacco di sesso durante le Olimpiadi”, ha spiegato il bel ex portiere della nazionale statunitense femminile di soccer, la fanciulla Hope Solo. “Ho visto gente accoppiarsi furiosamente sui prati, nudi sull’erba, o nascosti in mezzo agli edifici”. Per questo incontrollabile desiderio alla maniera dei conigli dagli anni ottanta il CIO ha messo a disposizione una quantità sempre crescente, e alquanto sconcertante, di condom. Nel 1988 alle Olimpiadi di Seul vennero spediti al villaggio degli atleti “solo” 8.500 preservativi. Sedici anni dopo, quando i giochi si sono svolti ad Atene, il numero è salito a 130.000. Le Olimpiadi del 2012 sono arrivate ad una cifra che pareva record – 150.000 – ma con l’aggiornamento di Rio siamo probabilmente ad una vetta insuperabile. La grande novità è anche legata al fatto che sui 450mila condom,300mila saranno maschili, mentre i rimanenti 100mila saranno preservativi femminili (chi non ne ha mai visto uno si faccia una veloce googolata in rete ndr). Il CIO ha comunque pensato a tutto. Perché nel pacchetto sex&sport Rio 2016saranno distribuiti, sia dalle macchinette automatiche che da vere e proprie cabine dell’amore con tanto di hostess e stewart nel villaggio olimpico, ben 175mila confezioni di lubrificante. Non è chiaro, infine, se questo aumento spropositato di condom è legato alla virulenta e invasiva comparsa in Brasile del virus Zika. L’Associated Press ha posto la domanda direttamente agli addetti stampa del Comitato Olimpico ma non ha ricevuto risposta. Il virus Zika viene trasmesso principalmente dalle zanzare, ma può anche trasmettersi sessualmente. Prevenire, si diceva, è meglio che curare. Ma una domanda rimane senza risposta: allora fare sesso prima della finale degli anelli consente comunque di rimanere lassù appesi con i muscoli in tensione e la gambe parallele al corpo per parecchi secondi come nulla fosse? Se qualche atleta, italiano e non, volesse farci da gola profonda sul tema gliene saremmo grati.
Merzario: "Ho salvato la vita a Lauda ma non mi disse mai grazie". A distanza di 40 anni dal tragico incidente che coinvolse Niki Lauda sulla pista del Nurburgring, torna a parlare Arturo Merzario, il pilota italiano che per primo intervenne sul luogo dell'incidente, scrive Angelo Scarano, Sabato 30/07/2016, su "Il Giornale". A distanza di 40 anni dal tragico incidente che coinvolse Niki Lauda sulla pista del Nurburgring, torna a parlare Arturo Merzario, il pilota italiano che per primo intervenne sul luogo dell'incidente. In una intervista a Repubblica, Merzario racconta: "Ancora non ho capito che cosa mi spinse, quel giorno, a fermare la macchina. Voglio dire: non era il primo incidente drammatico che mi capitava di vedere in pista, e tutte le altre volte mi sono comportato in maniera diversa, ho continuato la mia corsa, come del resto facevano e fanno tutt'oggi i piloti. Quel giorno però ci fu qualcosa, e ancora non ho capito cosa, che mi suggerì, anzi mi impose di fare altro, di fermarmi, di scendere dalla macchina e correre verso Niki". Davanti all'incendio si fermarono pure Gui Edwards e Harald Ertl: "Con gli estintori mi aprono un varco in questo enorme falò. Niki cerca di uscire, ma forza la cintura e io non riesco a sbloccare la levetta, poi crolla, perde i sensi, così apro, lo tiro fuori. Le esalazioni di magnesio lo stavano ammazzando". "Tre settimane dopo - ha raccontato ancora Merzario - Niki venne a Monza. Ma non mi disse niente, né 'ciao', né 'grazie', né 'vaffanculo'. Ci rimasi male e lo dissi. Due mesi dopo, stavo gareggiando in Austria, vicino a casa sua. Venne a trovarmi e fece il gesto di togliersi l'orologio per regalarmelo. Io lo presi e lo lanciai via. I meccanici dell'Alfa lo raccolsero, vennero da me e mi fecero un sacco di paternali, forse avevo sbagliato, ma io c'ero rimasto male. Siamo rimasti molto amici, ci sentiamo spesso". Ma sull'orologio c'è ancora un mistero, soprattutto riguardo a chi lo prese: "Abbiamo promesso di non rivelarlo".
Lauda e i misteri del Nurburgring, Merzario ricorda: "Non so perché mi fermai ad aiutarlo". Lunedì ricorre il 40mo anniversario dell'indicente in Germania. Il pilota che salvò Niki e Montezemolo parlano di quel giorno, scrive Marco Mensurati il 30 luglio 2016 su “La Repubblica”. Del rogo del Nurburgring si sa ormai quasi tutto: sui fatti di quel 1 agosto 1976 sono stati scritti libri, realizzati documentari, inchieste; Ron Howard ha persino girato un film, Rush, un fumettone un po' controverso ma tutto sommato fedele ai fatti. E tuttavia, quarant'anni dopo, un mistero, un piccolo mistero, ancora c'è. E si agita da allora nella testa di uno dei protagonisti, Arturio Merzario, il pilota che quel giorno seguiva Lauda sul tracciato tedesco e che per primo arrivò sul luogo dell'incidente. È lui stesso a parlarne: "Ancora non ho capito che cosa mi spinse, quel giorno, a fermare la macchina. Voglio dire: non era il primo incidente drammatico che mi capitava di vedere in pista, e tutte le altre volte mi sono comportato in maniera diversa, ho continuato la mia corsa, come del resto facevano e fanno tutt'oggi i piloti. Quel giorno, però, ci fu qualcosa, e ancora non ho capito cosa, che mi suggerì, anzi mi impose di fare altro, di fermarmi, di scendere dalla macchina e correre verso Niki". Cosa? "Domanda da un milione di dollari. È stato un baleno, un lampo. Non pensai a nulla, sopraggiunsi all'uscita della curva e trovai quella roba lì, lamiere e fiamme. Dentro poteva esserci chiunque, Niki, Clay Regazzoni, Jackie Stewart. Vedo la macchina in mezzo alla pista, scendo e corro verso l'abitacolo. Dopo di me si fermano Guy Edwards, il cui figlio ha fatto la controfigura del papà in Rush ed è morto in un incidente stradale tre anni fa, e Harald Ertl: con gli estintori mi aprono un varco in questo enorme falò, Niki cerca di uscire ma forza la cintura e io non riesco a sbloccare la levetta, poi crolla, perde i sensi, così apro, lo tiro fuori. Le esalazioni di magnesio lo stavano ammazzando. "Per fortuna, nel '65, per guadagnarmi 7 giorni di licenza da militare, feci un corso di primo soccorso: gli feci il massaggio cardiaco e la respirazione artificiale. Rimase in vita così, finché non arrivarono i soccorsi". Il resto della storia la racconta Luca Montezemolo, allora giovane ds della Ferrari: "Il medico mi disse: "Noi non possiamo fare nulla: il problema non sono le bruciature ma le esalazioni, i gas che ha respirato che l'hanno bruciato dentro. Se vuole vivere, deve farlo lui. Deve cercare di restare sveglio e lottare". Mentre il medico diceva così, Niki, lo raccontò lui stesso in seguito, era cosciente e sentiva tutto. Fu allora che cominciò la sua lotta personale per sopravvivere e tornare in pista. "Dopo andai a trovarlo a casa. Era molto dimagrito. Lì per lì non pensammo che ce l'avrebbe fatta a tornare, così ingaggiammo Reutmann. Invece Niki tornò. E fummo costretti a far correre tre macchine. Ricordo ancora oggi le macchie di sangue che si allargavano piano piano nel sottocasco bianco, prima del via a Monza...". A dire il vero, un altro piccolo mistero, in questa vicenda di quarant'anni fa, c'è. Ed è legato a un Rolex. "Tre settimane dopo il rogo, Niki venne a Monza - racconta ancora Merzario - Ma non mi disse niente, né "ciao", né "grazie", né "vaffanculo". Ci rimasi male e lo dissi. Due mesi dopo stavo gareggiando in Austria, vicino a casa sua. Venne a trovarmi e fece il gesto di togliersi l'orologio per regalarmelo. Io lo presi e lo lanciai via. I meccanici dell'Alfa lo raccolsero, vennero da me e mi fecero un sacco di paternali, forse avevo sbagliato, ma io c'ero rimasto male. Per fortuna poi con Niki siamo rimasti molto amici, ci sentiamo spesso". E l'orologio? Alla fine chi l'ha preso? "Abbiamo promesso di non rivelarlo".
Niki Lauda: "Un miracolo, ma non ho mai ringraziato Merzario". L'ex pilota: "Se fossi pilota oggi avrei ancora il mio orecchio e guadagnerei molti più soldi che nel passato", scrive Stefano Zaino il 30 luglio 2016 su “La Repubblica”.
LAUDA, cosa ricorda dello schianto?
"Niente".
Come niente, è stato tra la vita e la morte.
"Dimenticato tutto dopo 42 giorni, quando sono tornato a correre. Cancellata ogni cosa dalla mia mente. Come se non fosse mai successo".
Si spieghi...
"Più l'incidente è terribile, più un pilota deve sforzarsi di eliminare ogni immagine, ogni sensazione. Se ricordi, entri in macchina e tremi e non puoi permettertelo. In quel caso è meglio smettere, ritirarsi".
Invece continuò, perse tre gare, sfiorò il Mondiale e lo vinse l'anno dopo.
"Avevo fiducia in me, sapevo di essere bravo a guidare, non potevo aver disimparato. Mi dicevo: se vai in macchina per strada, puoi anche tornare in pista. Se corri con la Ferrari a Fiorano, perché non potresti farlo in qualsiasi circuito?".
Così sei settimane dopo si presentò a Monza. Ritorno fulmineo e coraggioso, tutti le diedero del pazzo.
"Mi sentivo al meglio, solo che i medici non erano d'accordo. Mi convocarono, mi fecero un sacco di test, mi dissero di non fare il furbo, davano l'impressione di non fidarsi. Mi misero addosso una pressione enorme, ero confuso, e questo mi fece commettere l'errore più grave della mia vita".
Cioè?
"Non dissi mai grazie a Merzario per avermi salvato la vita, non andai mai da lui a stringergli la mano di persona, ad abbracciarlo. E' una cosa di cui mi pento ancora adesso, una ferita che brucia, più delle cicatrici che ho. Sbaglio imperdonabile, a cui, a distanza di anni, spero di porre rimedio".
Di essersi fermato al Fuji, lasciando il mondiale ad Hunt, invece si è mai pentito?
"No. Lo rifarei anche adesso. E non c'entra niente con il mio incidente al Nurburgring. Non si poteva correre, troppa pioggia. Dopo tanti rinvii il direttore di corsa, alle 5 del pomeriggio, decide: tutti in macchina, si corre. Io, furioso, vado a chiedere e mi risponde: esigenze televisive, è la prima volta che siamo in mondovisione. Gli dico che è matto e che non sarà una telecamera a decidere della mia vita. Mi sono fermato, e lo avrei fatto comunque: anche se non mi fossi schiantato al Nurburgring. Non si gioca con le persone".
Le costò un Mondiale.
"No, ho perso perché dopo il Nurburgring ho saltato tre gare".
Avesse corso oggi?
"Magari fossi un pilota oggi. Avrei ancora il mio orecchio e guadagnerei molti più soldi. Sono salvo per miracolo".
La Fia vuole imporre l'Halo a tutti i piloti, per sicurezza.
"Imporre è sbagliato, ma ridurre i rischi è una buona causa. Salva la vita e non toglie nulla allo spettacolo".
PERCHÉ LO SPORT NON AMA LE DONNE. Trattate economicamente peggio dei maschi, poco rappresentate ai vertici delle federazioni, inseguite dai soliti stereotipi e pregiudizi. La carriera delle sportive italiane è tutta in salita e anche le "star" del nuoto, del tennis o della pallavolo sono costrette a fare i conti con un vecchia legge che impedisce loro di essere professioniste. E poi c'è lo scandalo delle clausole antimaternità: "Molte sono costrette a sottoscrivere scritture private in cui si vieta esplicitamente di rimanere incinta", scrive il 20 luglio 2016 “La Repubblica”.
Non si salvano neppure le campionesse, scrive Alice Gussoni. La fotografia che immortala il paradosso forse meglio di qualsiasi altra è quella datata 12 settembre 2015. A conclusione della finale degli Usa Open Flavia Pennetta e Roberta Vinci si abbracciano attraverso la rete del campo di Flushing Meadows. Il mondo del tennis applaude la bravura delle due atlete italiane, ma forse non sa di inchinarsi al cospetto di due dilettanti. Sì, perché se è vero che il conto in banca delle due campionesse non è certo quello di un qualsiasi sportivo amatoriale, formalmente sia Pennetta che Vinci non sono delle professioniste. Colpa di una legge che di fatto vieta alle donne, anche alle più brave e apprezzate dal pubblico, una carriera nello sport. Josefa Idem, ex canoista e campionessa olimpica, ora senatrice e per brevissimo tempo anche a capo del Dipartimento allo sport della presidenza del Consiglio, la spiega così. "Non importa se ti alleni per una o dieci ore al giorno per preparare una gara, la fatica è la stessa dei nostri colleghi uomini ma a differenza di loro restiamo solo delle dilettanti". Secondo la legge 91/81infatti, che in Italia regola il professionismo sportivo, esclusivamente chi pratica calcio, golf, pallacanestro, motociclismo, pugilato e ciclismo viene riconosciuto - e tutelato - come professionista. Ma interessa solo gli uomini, perché nessuna di queste discipline ha una categoria femminile. Non solo, ora anche federazioni di motociclismo e pugilato hanno abolito la categoria "pro". Spesso si attribuisce questa mancanza all'assenza di grandi numeri. Ma non è sempre così. Se consideriamo sport come la pallavolo, dove una categoria pro non esiste affatto, le donne tesserate sono molte più degli uomini: 279.893 contro gli 88.050 maschi (dato Legavolley 2014). Il caso è esemplare. Il campionato femminile infatti è diventato un appuntamento fisso sui canali tematici, con un largo seguito di pubblico: la serie A1 è trasmessa su Rai Sport e la media di audience nella stagione 2014-15 è stata pari a 146mila spettatori, con punte di 240mila in occasione delle finali scudetto. Mentre la semifinale Italia-Cina (Mondiali 2014), trasmessa su Rai 2, registrò addirittura 4 milioni 436mila spettatori, pari al 17,88% di share. Eppure ancora non si parla di professioniste. Nel nuoto il numero di tesserati uomini e donne è quasi pari (su 149.411 atleti il 45% sono donne, dati Fin 2016) senza contare il successo mediatico raggiunto da alcune star come Federica Pellegrini o Tania Cagnotto. Caso a sé, invece, quello della Ginnastica dove su 117mila tesserati l'89% sono donne, anche se qui la storia insegna che non bastano gli ori per guadagnarsi un passaggio in televisione – chi ricorda la vittoria ai World Cup di Pesaro tenutasi questo aprile che ha qualificato ben 12 delle nostre atlete azzurre a Rio 2016? Per gli sport considerati più maschili i numeri sono ancora, ovviamente, favore degli uomini, ma davvero basta? Consideriamo la situazione del calcio in Italia, dove la presenza di giocatrici è esigua: solo 22.564 contro 1.087.244 uomini (dati Figc 2016). Ma dal 2010 il numero delle donne tesserate è in costante crescita, +5% annuo, contro il crescente disamore del dilettantismo maschile, che negli ultimi 6 anni ha perso circa il 17%. "Da quando ho iniziato a lavorare non è cambiato molto e le disparità sono rimaste le stesse", conferma Donatella Scarnati, voce storica della Rai che dal 1978 segue il calcio per la tv pubblica. Nella sua lunga carriera che l'ha portata ai vertici di Rai Sport, dove ora è vice direttore, ha dovuto affrontare spesso la questione del dilettantismo: "Il problema è più ampio direi. Sui campi da calcio, come nelle cabine di regia, le donne sono ancora viste come mosche bianche. Se c'è maschilismo? Purtroppo sì, ma questo è un problema che riguarda un po' tutto il mondo del lavoro". Secondo la senatrice Idem, firmataria di un disegno di legge presentato in Senato per modificare l'attuale 91/81, per superare almeno in parte questa disparità basterebbe aggiungere una parola: "Nel testo si dovrebbe fare riferimento ad atleti ed 'atlete', per aprire la possibilità anche alle donne di accedere alle categorie pro". Una possibilità che finora rimane esclusa. Mancanza attribuibile forse anche al fatto che il governo dello sport nazionale è saldamente in mani maschili. Nonostante negli anni sia cresciuto il numero di campionesse sui podi internazionali, ai vertici delle varie federazioni non si trova traccia di quote rosa. Su 45 sigle infatti non c'è n'è una che sia presieduta da una donna. L'Italia è messa male insomma, ma una volta tanto non è molto distante dal resto del mondo. All'estero la situazione migliora infatti solo leggermente: attualmente il 17% dei dirigenti Cio sono donne, mentre in media su 70 federazioni sportive internazionali sono meno del 10% (dati Uisp 2016). Secondo Evelina Christillin, manager che ha avuto l'onore di presiedere il Comitato Olimpico di Torino 2006, la questione si potrebbe superare proprio attraverso l'inserimento delle famigerate quote rosa: "Posto che non sono il mio ideale, resta il fatto che le federazioni quando si tratta di votare scelgono sempre il criterio della cooptazione. Mentre guarda caso quando si tratta di decidere chi porti avanti un progetto bene e in fretta, come è stato per Torino o adesso per il Comitato Olimpico di Roma, allora si sceglie una donna". Il tema quote rosa al momento non trova però grandi consensi. "Non metto in dubbio la necessità di introdurre dei cambiamenti - spiega il presidente del Coni Giovanni Malagò - ma fino ad oggi le candidature delle donne nei consigli federali sono state pochissime. In ogni caso non siamo noi che legiferiamo. Possiamo solo dare delle indicazioni e in questi anni ci sono state delle evoluzioni, soprattutto in materia di tutela della maternità. Purtroppo c'è ancora molta strada da fare".
Lo scandalo delle clausole anti-mamma, continua Alice GUssoni. In questa vicenda, quello della maternità è in realtà un nervo scoperto, visto che la pratica di pretendere dalle atlete la firma di "clausole anti-gravidanza" non è stata ancora debellata. "Non sono poche le denunce delle atlete a riguardo - dice Luisa Rizzitelli di Assist, il sindacato delle sportive - In molte sono costrette a sottoscrivere scritture private in cui si vieta esplicitamente di rimanere incinta, pena l'espulsione immediata dalla società e il rischio non poter più tornare a gareggiare". Sullo stesso chiodo batte anche la Idem: "Esiste tutto un sommerso di cui veniamo a conoscenza solo quando la gravidanza viene portata avanti. Io ho fatto le Olimpiadi incinta e da puerpera e per non saltare le gare ho messo in piedi un'organizzazione molto articolata, perché c'è un vuoto di norme. Il Coni dà delle direttive per quanto riguarda la maternità delle atlete, ma solo poche federazioni le hanno recepite, ad esempio congelando il ranking nel periodo in cui un'atleta è ferma per gravidanza o maternità". Il caso di cronaca più recente è quello di Nikoleta Stefanova, campionessa italiana di tennis tavolo, che per essersi assentata dai ritiri previsti dalla Federazione italiana tennis tavolo in seguito alla maternità ha subito l'esclusione dalle Olimpiadi di Rio. Con il risultato che l'Italia non avrà atleti in gara per questa disciplina. Risolvere il problema non si presenta però affatto facile. Sono in molti a credere che il sistema sportivo, per come è oggi strutturato, non avrebbe le risorse necessarie per garantire un contratto per tutti. Il professionismo porta con sé oneri a volte insostenibili per le piccole società sportive, che però al momento sono aggirati con pagamenti fuori busta, spesso spacciati per rimborsi spesa. Secondo Luisa Rizzitelli il nodo è proprio quello del non considerare lavoro quello che invece lo è di fatto: "Pagare o meno i contributi non è una questione di genere femminile o maschile. Questo vale per tutti e non può essere lasciato a discrezione di chi gestisce le società".
Compensi "in nero" e inferiori ai maschi, scrive Alice Gussoni. Una questione di genere è invece quella dei compensi. Mediamente i guadagni delle atlete sono inferiori di circa il 30% rispetto a quelli dei loro colleghi uomini. Situazione che non riguarda solo il movimento di base, ma anche l'elite: nella classifica di Forbes fra i cento atleti più pagati al mondo si trovano solo due donne (Serena Williams 28,9 milioni di dollari, 40° posto, e Maria Sharapova, 21,9, 88° posto). Discriminazione favorita spesso da regole federali obsolete. Per il calcio, ad esempio, il tetto massimo per il dilettantismo è di 22mila 500 euro annui. Il che significa che tutte le donne che giocano a calcio, anche in serie A1, non possono guadagnare di più. Resta comunque difficile quantificare gli stipendi medi delle giocatrici, soprattutto perché non trattandosi di una lega professionistica i club non sono tenuti a depositare i contratti e l'abitudine ai pagamenti in nero è nota anche nei corridoi della Figc. L'unica alternativa è quindi quella di trovare degli sponsor, ma per quelli non basta la bravura. "A parità di carriera sportiva alla fine quello che conta è la bellezza", afferma Josefa Idem. Dal calcio alla pallacanestro, il quadro non cambia. "La passione per lo sport si paga cara", dice Silvia Gottardi, ex nazionale di basket femminile: "E pensare che in Turchia la pallacanestro arriva a stipendiare le giocatrici con cifre a sei zeri". All'estero le donne sembrano godere di maggior fortuna. Nel calcio made in Usa la loro carriera sportiva in serie A porta a guadagni oltre i 150mila dollari a stagione. Stesso trattamento in Francia, dove il record lo stabilisce Marta Vieira da Silva, considerata la miglior giocatrice di sempre, con un ingaggio di 220mila euro. Katia Sera, ex campionessa di calcio ora commentatrice di Rai Sport, non usa mezzi termini: "Io sono diventata più famosa ora che lavoro come commentatrice che per le mie 25 presenze in Nazionale e ancora oggi si guarda con sospetto a una donna che parli di calcio. Addirittura è successo che mi dessero deliberatamente le formazioni delle squadre sbagliate per mettermi in difficoltà. La frustrazione deriva da questo continuo essere messe alla prova: si deve lavorare il doppio per avere la metà dei riconoscimenti e comunque non basta mai".
Se iniziare è difficile, smettere è pericoloso, scrive Arianna Di Cori. Breve ma intensa. La carriera sportiva agonistica è imprescindibilmente legata a questi due aspetti e per qualsiasi atleta arriva, molto prima che nelle altre categorie professionali, il momento del ritiro. Certamente appendere gli scarpini al chiodo non sarà stato così traumatizzante per David Beckam, secondo solo a Michael Jordan nella classifica di Forbes degli atleti "in pensione" più pagati del 2016: rispettivamente 65 milioni e 110 milioni di dollari tra sponsor e business a loro legati. Anche in Italia basta accendere la televisione per ritrovare volti noti dello sport prestarsi a spot pubblicitari di ogni tipo, con una netta predominanza di uomini. Ma tolte le eccezioni, il problema legato alle tutele previdenziali per gli atleti e, soprattutto, per le atlete, non è da poco. "Quando si è giovani si pensa solo ad allenarsi e a vincere, nessuno pensa alla pensione", spiega Manuela Di Centa, ex campionessa olimpica di sci di fondo, una delle prime donne a spiccare con la maglia azzurra in uno sport considerato "maschile" ed ex parlamentare del Pdl (dal 2008 al 2013) oltre che membro onorario del Cio. Che il problema esista e sia di una certa rilevanza lo conferma anche la recente presa di posizione del presidente dell'Inps, Tito Boeri, che ha parlato della necessità di estendere il contributo previdenziale obbligatorio a tutti gli sport. La proposta di Boeri muove soprattutto dal caso calcio e dalla piaga dei pagamenti in nero in LegaPro "Il 75% dei calciatori della Lega Pro ha retribuzioni nette di 30.000 euro l’anno e carriere brevi con una durata di circa 12 anni - ha sottolineato Boeri - questo dà diritto a una pensione di vecchiaia di 10.000 euro". Di certo non sono pensioni d'oro. Ma il calcio, ammette Boeri, è il male minore. "Ci sono tantissimi altri sportivi per cui non esistono forme di contribuzione obbligatoria, come nella pallavolo". La pallavolo, come già detto, non rientra tra i sei sport per cui esiste la categoria del professionismo e il conseguente obbligo per le società a versare contributi. Come fanno dunque tutti gli altri sportivi e, soprattutto, il vasto oceano di atlete che, a prescindere dal livello e dai successi raggiunti, restano formalmente delle dilettanti e potrebbero dover anticipare la fine della carriera da un'eventuale maternità? "La risposta è molto semplice: ad oggi non ci sono soluzioni", taglia corto la Di Centa. Le alternative dunque non sono molte: o gli sportivi sono dipendenti pubblici, ad esempio coloro che fanno parte di un corpo militare, e dunque hanno diritto ad una copertura previdenziale indipendentemente dalla carriera sportiva, oppure continuano a lavorare in qualità di tecnici (ma questo sbocco per le donne è fortemente osteggiato). L'ultima opzione, infine, è quella di riciclarsi completamente, trovando un lavoro del tutto diverso. Scelta non facile però di cui dal 2001 si occupa l'Athlete Career Programme, un’iniziativa di carattere internazionale per aiutare gli atleti ritirati nel reinserimento lavorativo. Per tutti gli altri si spalancano invece le porte della povertà. Di sportivi un tempo celebrati e oggi indigenti ne esistono tantissimi. La legge 86 del 15 aprile 2003 ha istituito il fondo "Giulio Onesti", che porta il nome del primo presidente Coni e che rappresenta la "Bacchelli" dello sport. Ogni anno a massimo viene assegnato un vitalizio che si aggira tra i 7 e i 17mila euro ad un massimo di 5 tra gli "sportivi italiani che nel corso della loro carriera agonistica hanno onorato la Patria, anche conseguendo un titolo di rilevanza internazionale in ambito dilettantistico o professionistico [...] qualora sia comprovato che versino in condizioni di grave disagio economico". Dal 2003 su 29 beneficiari solo due donne compaiono nella lista: Nidia Pausich, ex cestista, 136 gare con la Nazionale Italiana, e Bina Colomba Guiducci, campionessa del mondo di tiro al piattello nel 1969, e prima donna a vincere un titolo mondiale. Ma chi dovrebbe farsi carico di queste atlete e atleti? Lo sport è sotto il Dipartimento degli Affari Regionali, in delega dal 2014 al 2015 a Graziano Delrio. Ma oggi non è il ministro Enrico Costa ad occuparsene, bensì il capo dipartimento Antonio Naddeo, un funzionario. A detta di fonti interne al dipartimento "è una situazione nebulosa, perché non si sta facendo politica dello sport". Lo Stato, aggiungono "può fare poco o niente". Fino alla riforma Fornero i contributi degli sportivi professionisti confluivano nelle casse dell'Enpals, dunque sportivi e lavoratori dello spettacolo ricevevano lo stesso trattamento. "Ma certo un attore può lavorare fino agli 80 anni, la situazione per noi sportivi che lavoriamo con il nostro corpo è molto diversa", conclude Di Centa.
Il modello francese e le proposte italiane, continua Arianna Di Cori. Come avviene in molti altri campi, anche il ritardo italiano nelle "pari opportunità sportive" può essere misurato sulle indicazioni che arrivano dall'Europa. Risale infatti al lontano 2003 una risoluzione con cui il Parlamento di Strasburgo chiedeva agli Stati membri; di assicurare alle donne pari accesso alla pratica sportiva; sostenere lo sport femminile, sollecitando a sopprimere la distinzione fra pratiche maschili e femminili nelle discipline ad alto livello; di garantire, da parte delle federazioni sportive nazionali, gli stessi diritti in termini di reddito, di condizioni di supporto e di allenamento, di accesso alle competizioni, di protezione sociale e di formazione professionale, nonché di reinserimento sociale attivo al termine delle carriere sportive. Gli Stati membri e le autorità di tutela venivano sollecitate infine a condizionare la propria autorizzazione e il sovvenzionamento delle associazioni sportive a disposizioni statutarie che garantiscano una rappresentanza equilibrata delle donne e degli uomini a tutti i livelli e per tutte le cariche decisionali. Parole al vento, come abbiamo visto, ma una volta tanto siamo in buona compagnia. Tra i pochi paesi che hanno preso queste raccomandazioni alla lettera c'è la Francia, dove riservare posti per le donne nel sistema dirigenziale dello sport è un sistema consolidato. Le quote sono stabilite nelle regole federali (federazioni, leghe, società sportive), mentre a livello nazionale il numero delle donne nei comitati esecutivi deve essere proporzionale al numero di donne tesserate. Altro modello positivo, stavolta extra Ue, è quello della Norvegia. Nello Stato scandinavo la regolazione sulle pari opportunità di genere dichiara che ogni sesso deve essere rappresentato con almeno il 40% quando un organismo pubblico elegge comitati, direttivi, consigli, ed entrambi i sessi devono essere presenti in comitati sopra le due persone. In Italia siamo fermi invece ad un lungo elenco di proposte di legge bloccate da anni in Parlamento. La più recente è quella presentata nel novembre 2014 dalla deputata del Pd Laura Coccia per modificare gli articoli 2 e 10 della legge 91 del 1981 in materia di applicazione del principio di parità tra i sessi nel settore sportivo professionistico. Prima di lei a cambiare le cose ci aveva provato nel 2011 la collega Manuela Di Centa del Pdl, con la proposta di istituire un contributo obbligatorio per creare una cassa previdenziale dello sport, in grado, tra le altre cose, di tutelare le atlete in maternità.
Le icone artefatte della sinistra. Ali prima di Ali, come nasce un mito. Lo scrittore. Intervista del 4 giugno 2016 su “Il Manifesto” di Guido Caldiron a Alban Lefranc, autore de «Il ring invisibile» sulla vita romanzata del campione da giovane: «Non si può capire l’intera traiettoria esistenziale di Clay se non si tiene conto di questo: per tutta la vita ha cercato di ribellarsi alla miseria e all’abbandono in cui era cresciuto, ma soprattutto all’ingiustizia che aveva intorno». «Nei momenti di maggiore intensità, la boxe pare contenere un’immagine della vita così completa e potente – la bellezza della vita, la vulnerabilità, la disperazione, il coraggio inestimabile e spesso autodistruttivo – che è davvero vita, e nient’affatto gioco», scrive Joyce Carol Oates nel suo saggio Sulla boxe. Un grumo di sentimenti e di emozioni, di forza e di fragilità che Alban Lefranc, scrittore, traduttore e poeta francese, nato a Caen nel 1975, e che vive da tempo tra Parigi e Berlino, già autore di diverse biografie narrative dedicate a personaggi della cultura come dello spettacolo, ha cercato di cogliere ne Il ring invisibile, il suo libro dedicato a Muhammad Ali uscito da qualche anno per la casa editrice romana 66thand2nd. Un volume affascinante dove è il pugile stesso a raccontare la propria biografia, ricostruita in realtà da Lefranc a metà strada tra realtà e finzione narrativa, come un lungo e inesorabile corpo a corpo con la storia.
La sua scomparsa non aggiunge nulla alla figura di un uomo che è divenuto un mito quando era in vita. Lei perché ha scelto di raccontare in forma narrativa una parte della vita di Muhammad Ali?
«Sono partito dall’icona che ha rappresentato, per me come per il resto del mondo, per poi cercare di scoprire le fragilità dell’uomo, la sua anima, se così si può dire, proprio oltre il mito che era diventato, in qualche modo oltre e nonostante la sua maschera pubblica. Frequento una palestra di boxe da alcuni anni e ciononostante continuo a chiedermi perché non sia vietata e cosa ci affascini così tanto nel vedere due persone che si prendono a pugni fino a farsi davvero male. Volevo cercare di ricostruire attraverso la scrittura gli stati d’animo estremi che caratterizzano i campioni del pugilato. Ali è stato questo, elevato all’ennesima potenza, ma è stato anche uno dei simboli più forti e duraturi della comunità afroamericana, amico di Malcom X e dei Black Muslims. Un uomo che ha combattuto, sul ring come fuori, che ha vinto e che a perso ma che si è sempre messo in gioco, a cominciare da quel corpo che lo ha reso celebre ma che da tanto tempo minacciava ogni giorno di abbandonarlo a causa della malattia.
«Il ring invisibile» non parla tanto di Muhammad Ali, del campione ribelle che ha fatto sentire la sua voce ovunque, quanto piuttosto del giovane Cassius Clay, del ragazzo che sceglie la boxe per cercare di cambiare la sua vita, perché?
«Perché il mito di Alì, la sua leggenda dorata, è già stata raccontata, è già nota a tutti noi. Mentre invece il modo in cui tutto è cominciato per il giovane Cassius Clay è praticamente ignoto ai più. Diciamo che sono partito alla scoperta di “Ali prima di Ali” proprio per cercare di decifrare l’origine di quello chi si trasformerà poi in una sorta di icona pop, cogliere le sue contraddizioni, la sua fragilità così ben mascherata da un fisico possente. Volevo comprendere e cercare di raccontare il modo in cui il suo giovane corpo si è definito, plasmato, fino a diventare a un tempo la fortezza e la prigione di quest’uomo.
Nel libro, Cassius Clay, ancora ragazzo, decide di diventare un pugile dopo che un suo coetaneo di 13 anni, Emmett Till, un giovane nero di Chicago in vacanza nel Mississippi viene linciato dai razzisti, che ne sfigurano anche il volto, perché aveva osato guardare una donna bianca, era il 1955. Questa drammatica vicenda fu davvero decisiva?
«Senza dubbio, è quello che lui stesso ha raccontato più volte in seguito. Nello scrivere la sua storia ricordo come fu suo padre, in uno dei rari momenti in cui non era ubriaco, a raccontare l’accaduto a Cassius e come lui avesse reagito con rabbia e disgusto, identificandosi del tutto con la vittima. Così, gli faccio dire: «Ascolta la mia promessa Emmett: a te che non hai più la faccia, io darò la mia. Andrai nel mondo con i miei occhi e la mia bocca, sotto la protezione dei miei pugni». Credo non si possa capire l’intera traiettoria esistenziale di Clay se non si tiene conto di questo: per tutta la vita ha cercato di ribellarsi alla miseria e all’abbandono in cui era cresciuto, ma soprattutto all’ingiustizia che aveva visto, e ha continuato a vedere fino ad oggi, intorno a sé.
Alì: libri film e gallerie, mito anche nell'arte. Ispirò premi Oscar e Pulitzer: "Il combattimento" opera storica, scrive "L'Ansa" il 04 giugno 2016. La farfalla non vola più, l'ape non punge. Ma a testimonianza di cos'è stato Cassius Clay/Muhammad Ali, il campione della gente, rimarrà la quantità innumerevole di libri, documentari e anche film che lo hanno celebrato come eroe dei tempi moderni. Una mole di 'documenti' che è stata riservata a pochi grandi personaggi del Ventesimo secolo. Ali è stato scrittore di se stesso, con l'autobiografia "Con l'anima di una farfalla" scritta assieme ad Hana Yasmeen Ali, una delle sue figlie. Il libro più celebre su di lui rimane invece, probabilmente, "Il Combattimento", che il premio Pulitzer Norman Mailer scrisse sul mitico match che oppose Ali e George Foreman a Kinshasa. Lo stesso evento venne immortalato nel memorabile film-documentario "Quando eravamo Re" che vinse un meritato Oscar. Un altro libro che ha decantato il mito dell'ex campione del mondo e' stato "Il Re del Mondo" dell'altro premio Pulitzer David Remnick, emozionante testimonianza della vita e delle idee del Più Grande. Altra perla è sicuramente "Facing Ali", "Affrontare Ali", per scrivere il quale l'autore Stephen Brunt, altro documentatissimo cantore del pugile, è andato a intervistare quindici fra coloro che avevano affrontato il Piu' Grande sul ring. Il concetto che ne emerge è che praticamente tutti, da Hunsaker a Cooper, da Chuvalo a Frazier, da Foreman a quel Wepner che ispirò a Stallone la storia di Rocky, diventarono più noti, e la loro vita cambiò drasticamente, per il semplice fatto di essere entrati in contatto "con la forza che era Muhammad Ali". E per questo ancora oggi gli sono grati. Nel lungo elenco di libri su Ali ci sono poi "His life and times" di Thomas Hauser e l'edizione celebrativa "monumentale", uscita per la prima volta nel 2003 e poi ripubblicata, "Greatest of All Time" della casa editrice Taschen. L'edizione "De Luxe", autografata dall'ex campione del mondo, e la cui prima copia è stata donata allo stesso Ali, costava 3.000 euro. Questo libro, anche nella sua versione meno costosa, ma comunque di notevoli dimensioni, è stato definito un capolavoro assoluto nel campo dei libri fotografici. In copertina c'è la celebre foto del Ko inflitto da Clay a Sonny Liston. Sul sito ufficiale di Ali veniva invece venduto "The Official Treasures of Muhammad Ali", altra chicca da non perdere che conteneva riproduzioni identiche agli originali di contratti firmati dall'ex fuoriclasse, biglietti e volantini dei suoi incontri. Fece epoca anche il fumetto della DC Comics, quelli di molti Supereroi, "Superman vs. Muhammad Ali" in cui i due si affrontavano per salvare il mondo dagli Alieni. Ebbe un successo planetario vendendo milioni di copie e per via delle richieste è stato ristampato anche pochi anni fa, in Italia dalla De Agostini. Una curiosità: nel celebre disegno della copertina, con i due superuomini sul ring, fra il pubblico viene raffigurato anche Pelè. Pure in Italia Clay/Ali ha avuto molti cantori, primo fra tutti l'amico Gianni Minà. Sul grande schermo va invece ricordato il film "Ali" in cui la parte del Più Grande" è stata interpretata da Will Smith, che poi ha più volte ricordato di quanto si sia sentito orgoglioso per essere stato scelto per un ruolo del genere.
Mohammed Alì, un mito ma non "il più grande", scrive Roberto Marchesini il 05-06-2016 su “La Nuova Bussola Quotidiana”. A causa delle conseguenze del morbo di Parkinson, malattia che lo affliggeva dagli anni Ottanta, è morto a settantaquattro anni Mohammed Alì (nato Cassius Marcellus Clay Junior), il pugile autoproclamatosi «il più grande». Se i media hanno accettato di incoronare Alì con questo titolo (the greatest), qualche perplessità resta a chi di pugilato se ne intende. Fisicamente molto dotato (alto, agilissimo, con braccia esageratamente lunghe), l'unico pugno che ci abbia mai fatto vedere in tutta la sua carriera è, sostanzialmente, il jab, con il quale martellava gli avversari per tutta la durata dell'incontro tenendoli a distanza. Quando l'avversario si avvicinava, lo abbracciava impedendogli di boxare e costringendo l'arbitro a fermare l'azione. Ogni tanto, quando l'avversario era poco lucido (per la rabbia di non aver potuto boxare), esausto per i continui attacchi fermati dall'arbitro e con il volto massacrato, si esibiva in una serie di «sventole», schiaffoni dati con l'interno del guantone – proibiti dal regolamento – che solo un profano può scambiare per dei ganci (per un approfondimento sulla boxe di Mohammed Alì e sul suo significato clicca qui). E qui la faccenda si fa interessante. Come mai Alì è stato così protetto e vezzeggiato dai media, dal mainstream e dagli arbitri? Com'è possibile che un nero, nell'America dei conflitti razziali, che si era per di più rifiutato di partecipare alla guerra del Vietnam, sia divenuto quella icona che abbiamo conosciuto? Tutti, probabilmente, abbiamo visto il documentario Quando eravamo re, che racconta lo straordinario incontro tra Muhammed Alì e George Foreman tenutosi nel 1974 in Zaire. In questo documentario compare una intervista al giornalista e scrittore Norman Mailer. In realtà Mailer è più di una comparsa: egli è l'autore del libro The fight, che ha dato il tono epico all'incontro ed è stato sostanzialmente la sceneggiatura del documentario. Si potrebbe addirittura affermare che Norman Mailer sia l'uomo che ha costruito il mito Muhammad Alì. E chi sarebbe questo Mailer? Fu forse uno dei più importanti spin doctor americani, responsabile di molti stati d'animo degli Stati Uniti dell'epoca. Crebbe all'interno della comunità ebraica di Brooklyn, dove rimase fino a quando non divenne il portavoce della beat e della hipster generation, contribuendo ad esempio alla creazione del mito del Greewich Village, la comunità hippy di New York. Nel 1965 scrisse il saggio Il negro bianco, che può essere considerato il punto d'inizio del movimento per i diritti civili delle minoranze nere negli USA. In questo saggio Mailer descrive – non senza una punta di involontario razzismo – il negro come un concentrato di sessualità disordinata e prorompente, emarginazione insolubile, violenza bestiale; e accomuna l'hipster bianco al negro. Da questo momento l'emarginazione del negro americano divenne un punto d'orgoglio, di opposizione all'America tradizionalista e conservatrice. È più o meno nello stesso periodo che a Cassius Clay, vincitore della medaglia d'oro per i pesi mediomassimi alle olimpiadi di Roma nel 1960, viene affiancato l'allenatore (e ghost-writer) nero ma ebreo Drew Bundini Brown. Da quel momento Clay cessa di essere uno sportivo e diventa un simbolo. Nel 1964 divenne campione del mondo battendo Sonny Liston, implicato con la mafia e le scommesse. Il giorno seguente si convertì all'islam, assunse legalmente il nome di Muhammed Alì e aderì alla Nation of Islam di Malcolm X (associazione che si è autodefinita «setta islamica militante»). Fu immediatamente fissata la rivincita con Liston, che Alì mise ko al primo round senza nemmeno averlo colpito (il famoso «pugno fantasma»). Nel 1967 rifiutò l'arruolamento per il Vietnam adducendo motivi religiosi. In seguito a questa presa di posizione fu privato del passaporto e della licenza di pugile professionista ma, sorprendentemente, nel 1971 la Corte Suprema degli Stati Uniti annullò all'unanimità la condanna. Ottenuta nuovamente la licenza, Alì sfidò il campione Joe Frazier. Nonostante Frazier l'avesse sostenuto anche economicamente durante il periodo di sospensione della licenza, nei giorni precedenti l'incontro Alì lo insultò con epiteti razzisti simili a quelli che aveva riservato a Liston: scimmione, gorilla. Frazier vinse l'incontro. Alla ribalta del pugilato mondiale stava però salendo un giovane atleta dal fisico impressionante, George Foreman. Così venne organizzato l'incontro più mediatico della storia del pugilato, The rumble in the jungle, tra Alì e Foreman, che si tenne a Kinshasa il trenta ottobre 1974. Alì, il ricco e famoso nero razzista, convertitosi all'islam, che piaceva all'establishment WASP (white anglo-saxon protestant) statunitense, fu immediatamente identificato come «il buono», «l'eroe» della battaglia che i media avevano trasformato in epica; il giovane, povero e altrettanto nero Foreman era il cattivo che doveva essere sconfitto. Non solo per il mondo bianco occidentale, ma anche per gli zairesi, tra i quali cominciò a diffondersi l'orripilante slogan «Alì, bomaye»: Alì, uccidilo. Slogan ancora più spaventoso se si pensa che lo stadio di Kinshasa, dove si tenne l'evento, era il posto dove il sanguinario dittatore Mobuto eseguiva le condanne a morte dei suoi oppositori...Comunque sia, Alì vinse un incontro che sembra tratto da un copione hollywoodiano. Quello fu l'apice della sua carriera pugilistica e della sua fama. Da allora combatté ancora diversi incontri dal valore e dall'esito piuttosto controverso, e anche il suo status di simbolo della lotta per l'emancipazione nera cominciò a declinare. I media cominciarono a proporre un nuovo modello di nero americano: non più il giovane attivista, comunista e musulmano, orgoglioso della propria origine e del colore della pelle che lotta per i diritti civili; bensì il pappone. Intorno alla metà degli anni Settanta, infatti, Hollywood cominciò a diffondere una serie di film (il filone fu chiamato Blaxplotation) il cui protagonista era un uomo violento, dedito al crimine, al sesso e alla droga, che si fa mantenere dalle donne: Shaft, Superfly eccetera. Alì cessò così di essere il simbolo dei neri americani, sia per i ricchi liberal bianchi che per i giovani neri (con le conseguenze che conosciamo). Nel 1984 gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson. Nel 1996 commosse il mondo quando, ultimo tedoforo, accese tremante la fiaccola olimpica alle olimpiadi di Atlanta. Ora Muhammed Alì è morto. Dubito che sul ring sia stato davvero «the greatest». Fuori dal ring, per i media e per coloro che li governano, è sicuramente stato molto importante.
Il vero Alì. Per gentile concessione di Edoardo Perazzi, erede di Oriana Fallaci, il 5 giugno 2016 “Libero Quotidiano” pubblica ampi stralci dell’intervista con Mohammed Alì che la scrittrice fiorentina realizzò per L’Europeo. Il testo uscì il 26 maggio 1966, col titolo “Che aspettano a farmi presidente di uno Stato dell’Africa?”. L’intervista è contenuta nel volume antologico “Le redici dell’odio. La mia verità sull’Islam”, uscito per Rizzoli nel 2015 e appena ristampato in edizione economica.
"Un pagliaccio simpatico, allegro, e innocuo. Chi non ricorda con indulgenza le sue sbruffonate, le sue bugie, i suoi paradossi iniziati alle Olimpiadi di Roma quando mise in ginocchio ben quattro avversari, un belga un russo un australiano un polacco, e la medaglia d' oro non se la toglieva neanche per andare a letto, imparò per questo a dormire senza scomporsi, Dio me l'ha data e guai a chi la tocca. Nei ristoranti, nei night-club, entrava avvolto in una cappa di ermellino, in pugno uno scettro: salutate il re, io sono il re. Per le strade girava guidando un autobus coperto di scritte inneggianti alla bellezza, la sua bravura, o una Cadillac color rosa salmone, i cuscini foderati in leopardo. Sul ring combatteva gridando osservate come mi muovo, che eleganza, che grazia, e se lo fischiavano rideva narrando che il primo pugno lo aveva tirato alla mamma a soli quattro mesi, sicché la poveretta cadde knock out mentre i denti schizzavano via come perle di una collana. Un'altra menzogna, s'intende, dovuta al suo primitivo senso dell'humour; non avrebbe fatto torto a una mosca. Da quell' humour e dalla sua vanagloria fiorivano poesie divertenti: «La mia storia è quella di un uomo / nocche di ferro, di bronzo la pelle / Parla e si gloria d' avere / il pugno possente, ribelle / Son bello, son bello, son bello / il più grande di tutti, io / nel duello». La boxe aveva trovato con lui un nuovo astro, un personaggio quasi degno di Rocky Marciano, Joe Luis, Sugar Robinson. Era il simbolo di un'America fanfarona e felice, volgare e coraggiosa, priva di lustro ma piena di energia. Si chiamava, a quel tempo, Cassius Marcellus Clay. Ora si chiama Mohammed Alì ed è il simbolo di tutto ciò che bisogna rifiutare, spezzare: l'odio, l'arroganza, il fanatismo che non conosce barriere geografiche, né differenza di lingue, né colore della pelle. I Mussulmani neri, Neri, una delle sette più pericolose d' America, Ku-Klux-Klan alla rovescia, assassini di Malcom X, lo hanno catechizzato ipnotizzato piegato. E del pagliaccio innocuo non resta che un vanitoso irritante, un fanatico cupo ed ottuso che predica la segregazione razziale, maltratta i bianchi, pretende che un'area degli Stati Uniti gli sia consegnata in nome di Allah. Magari per diventarne capo: il sogno che quei mascalzoni gli hanno messo in testa approfittando del fatto che non capisce nulla, sa menar pugni e basta. Bisognava vederlo, mi dicono, quando a Chicago partecipò al raduno di cinquemila Mussulmani neri e, il pugno alzato, gli occhietti iniettati di sangue, malediceva Lincoln, Washington, Jefferson, altri bravissimi morti, strillava: «Entro il 1960 tutti i neri d' America saranno con noi, pregate per l'anima e il corpo dei nostri nemici, chi non è con noi è nostro nemico». (...) I Mussulmani neri, che hanno bisogno di un martire nella stessa misura in cui cercano pubblicità, lo istigano continuamente al litigio e sarebbero molto contenti di vederlo in prigione. Dove prima o poi finirà se si ostina a non fare il soldato con la scusa che lui appartiene ad Allah, non agli Stati Uniti. E questa sarebbe la patetica fine di un uomo che l'ignoranza e la facile fama distrussero mentre cercava di diventare un uomo. Ciò che segue è la cronaca bulla ed amara di due giorni trascorsi a Miami nell' ombra di Cassius Clay, alias Mohammed Alì, campione mondiale dei pesi massimi, eroe sbagliato dei nostri tempi sbagliati. Con l'aiuto del magnetofono e del taccuino ve la do così come avvenne. Era la vigilia del suo incontro con l'inglese Henry Cooper. La palestra dove si allena il pugile oggi più famoso del mondo è situata a Miami Beach, non lontano dal mare, sopra un negozio per pulire le scarpe. Il pubblico è ammesso per mezzo dollaro quando lui non c'è, un dollaro quando lui c' è. Lui c'è di solito all' una: seguito da una scorta di Mussulmani neri come un torero dalla sua quadrilla. Prima d' essere rinnegato per le sue idee non sufficientemente estremiste, lo seguiva ogni tanto anche Malcom X che nell' estate del 1963 gli donò il suo bastone d' avorio nero. (…)
Non le dispiacque, Mohammed, di cambiar il suo nome?
«Al contrario era duro avere il nome che avevo perché il nome che avevo era il nome di uno schiavo Cassius Marcellus Clay era un bianco che dava il suo nome ai suoi schiavi ora invece ho il nome di Dio. Mohammed Alì è un bel nome Mohammed Alì che bel nome Mohammed vuol dire Degno di Tutte le Lusinghe Alì vuol dire Il più Alto è il minimo che merito e poi gli uomini dovrebbero chiamarsi così mica signor Volpe signor Pesce signor Nonsocché gli uomini dovrebbero avere il nome di Allah. Sicché io mi arrabbio quando la gente mi ferma e mi dice signor Clay posso avere il suo autografo signor Clay io rispondo non Clay, Mohammed Alì. [...]».
Ma se è tanto cambiato, Mohammed, perché continua ad insultare i suoi avversari e ad odiarli?
«Io non li odio come esseri umani li odio come individui perché tentano di farmi del male tentano di mettermi knock out tentano di rubarmi il titolo di campione dell'intero mondo, io sono campione dell'intero mondo e non sta a loro pugili levarmi il titolo di campione dell'intero mondo a me che ho sempre tirato pugni capito? [...] E poi li odio perché hanno i nervi di salire sul ring sapendo che sono bravo come sono, grande come sono questo mi fa imbestialire così li insulto. E poi li insulto perché così perdon la testa e quando un uomo perde la testa diventa più debole e casca giù prima come accadde con Liston al quale Liston dicevo che è brutto, brutto come un orso, bè non lo è? E poi gli dico vigliacco coniglio crepi di paura fai bene ad avere paura perché da questo ring tu esci morto, hai voluto sfidarmi vigliacco vedrai cosa ti tocca. Loro non lo sopportano e vinco [...]
Ma non le prende mai il dubbio che un giorno qualcuno le possa suonare a lei?
«Io non ho dubbi perché non ho paura e non ho paura perché Allah è con me e finché Allah è con me io rimango il campione dell'intero mondo, solo Allah può mettermi knock out ma non lo farà. Io non ho dubbi perché l'uomo che batterà Mohammed Alì non è ancora nato [...]. Io durerò ancora per quindici anni e poi a quarant' anni mi ritirerò nella campagna perché ho trecento acri di terra vicino a Chicago e ho anche comprato due trattori e con quelli ci coltivo i cavoli e i pomodori e le galline [...] E con quel cibo diventerò molto ricco e comprerò un aereo da seicentomila dollari e poi voglio una limousine in ogni città d' America per ricevermi all'aeroporto e poi voglio uno yacht da duecentomila dollari ancorato a Miami e poi voglio una di quelle case che ho visto sulle colline di Los Angeles a centocinquantamila dollari perché il paradiso io non voglio in cielo da vecchio io lo voglio sulla terra da giovane. [...]
Mohammed, ha mai letto un libro?
«Che libro?»
Un libro.
«Io non leggo libri non ho mai letto libri io non leggo nemmeno i giornali ammenoché i giornali non parlino di me io ho studiato pochissimo perché studiare non mi piaceva non mi piace per niente si dura troppa fatica e non è affatto vero che io volevo diventare dottore ingegnere. Gli ingegneri i dottori devono lavorare ogni giorno ogni notte tutta la vita con la boxe invece uno lavora per modo di dire in quanto si diverte e poi con un pugno si fa un milione di dollari all' anno. [...] Come quando mi chiamarono alle armi e mi fecero l'esame della cultura mi dissero se un uomo ha sette vacche e ogni vacca dà cinque galloni di latte e tre quarti del latte va perduto quanto latte rimane? Io che ne so. [...] E così dicono che sono inabile ma d' un tratto scoprono che non sono inabile affatto per morire nel Vietnam sono abilissimo eccome ma io questo Vietnam non so nemmeno dov' è io so soltanto che ci sono questi vietcong e a me questi vietcong non hanno fatto nulla sicché io non voglio andare a combattere coi fucili che sparano io non appartengo agli Stati Uniti io appartengo ad Allah che prepara per me grandi cose».
Quali, Mohammed?
«[...] Magari divento il capo di un territorio indipendente oppure il capo di qualche Stato in Africa magari di quelli che hanno bisogno di un leader e così pensano abbiamo bisogno di un leader perché non prendiamo Mohammed che è bravo e forte e coraggioso e bello e religioso e mi chiamano perché sia il loro capo. Perché io non so che farmene dell'America degli americani di voi bianchi io sono mussulmano...».
Mohammed, chi le dice queste cose?
«Queste cose me le dice l'onorevole Elijah Mohammed messaggero di Allah ma ora basta perché voglio andare a dormire io vado presto a dormire perché la mattina mi alzo alle quattro per camminare».
N.B. Elijah Mohammed è il capo dei Mussulmani neri. Lo divenne dopo l'assassinio di Malcom X. Abita a Chicago, in una villa di diciotto stanze, viene dalla Georgia. Ha studiato fino alla quarta elementare ed è stato in carcere più volte, per crimini e infrazioni diverse. Suo figlio è il vero manager del Campione e si fa pagare dal Campione, per questo, non so quante centinaia di dollari la settimana. (...)
Le è dispiaciuto, Mohammed, divorziar dalla moglie?
«Nemmeno un poco è stato come voltare la pagina di un libro le donne non devono andare in giro mostrando le parti nude del corpo come i selvaggi come le vacche come i cani come fa lei è un vero scandalo. Un uomo deve avere una moglie che gliela guardano con ammirazione rispetto lo dice anche Elijah Mohammed apri la TV e cosa vedi, vedi le donne nude che cantano che reclamizzano le sigarette vai nei negozi e che vedi, vedi le donne nude che comprano le cose non è decente le donne hanno perso tutta la morale non è decente non è decente non è decente».
Mohammed, perché non mi guarda negli occhi? È arrabbiato?
«Non sono arrabbiato nella mia religione ci insegnano a non guardare le donne noi le donne le avviciniamo in modo civile parlando prima coi genitori per chiedergli se ci danno il permesso di guardar la ragazza come in Arabia come nel Pakistan come nei paesi dove si crede al Dio giusto che si chiama Allah non si chiama Geova o Gesù. E poi non mi piace questo mischiarsi coi bianchi lei cosa ci fa qui con me cosa vuole da me come prima cosa è una donna come seconda cosa è una bianca io se fossi in Alabama voterei per il governatore Wallace che non mischia i bianchi coi neri, io non voto per quelli che dicono oh io voglio bene ai neri io non voto pei neri come Sammy Davis che si sposan la bionda, cobra, serpenti, la gente dovrebbe sposare la gente della sua razza. Lo dice anche Elijah Mohammed i cani stanno coi cani i pesci stanno coi pesci gli insetti con gli insetti i bianchi coi bianchi è la natura è la legge di Dio è scritto perfin nella Bibbia che a voi piace tanto e questa integrazione cos' è? [...] Io non sono americano io non mi sento americano io non voglio essere americano io sono asiatico nero come la mia gente che voi bianchi avete portato qui come schiavi e si chiamavano Rakman e Assad e Sherif e Shabad e Ahbad e Mohammed e non John e George e Chip e pregavano Allah che è un dio molto più antico del vostro Geova o del vostro Gesù e parlavano arabo che è una lingua assai più vecchia del vostro inglese che ha solo quattrocento anni, ed ora queste cose le so per via di Elijah Mohammed che amo più della mia mamma».
Più della mamma, Mohammed?
«Certo sicuro più della mamma perché la mia mamma è cristiana Elijah Mohammed mussulmano e per lui potrei anche morire per la mia mamma no che a voi bianchi piaccia o non piaccia».
N.B. Eppure v' è qualcosa su cui meditare in questo ignaro al quale fanno credere che la lingua inglese abbia solo quattrocento anni, che Maometto sia nato prima di Cristo, che Elijah Mohammed vada amato più della mamma colpevole d' esser cristiana. V' è qualcosa di commovente, di dignitoso, di nobile in questo ragazzo che vuole sapere chi è, chi fu, da dove venne, e perché, e quali furono le sue radici tagliate. Nel suo fanatismo v' è come una purezza, nella sua passione v' è qualcosa di buono. Vorrei essergli amica. (...) Scrivo questi appunti sull' aereo che mi riporta a New York dove spero di sfuggire ai Mussulmani neri che sono arrabbiati con me. E quando i Mussulmani neri sono arrabbiati con te l'unica cosa è darsela a gambe al più presto e più lontano che puoi. Perbacco che corsa. [...]
Alì, ne hanno fatto un santino...ma era un «bastardo islamico», scrive “Piero Sansonetti” su “Il Dubbio” il 6 giugno 2016. È morto Alì, il più grande pugile di tutti e tempi. Il mondo intero in questi giorni lo sta celebrando, con frasi bellissime e tanta ammirazione. «Era un genio, era un uomo buono». Gli intellettuali in prima linea. I grandi giornali. Non è vero: non era buono. Per usare una espressione che recentemente ha fatto fortuna nel dibattito politico italiano, Alì era un «Bastardo islamico», era un picchiatore selvaggio che infieriva su tutti e soprattutto sul suo paese. Era un nemico dell’America. E l’America lo trattò da nemico. Lo condannò a cinque anni di prigione, lo mandò in esilio, gli tolse il titolo mondiale dei massimi. Muhammad Alì, lo sapete tutti, si chiamava Cassius Clay, e ripudiò il suo nome il 6 marzo del 1964, a 22 anni, un paio di settimane dopo aver spedito al tappeto Sonny Liston, un toro nero di dieci anni più grande, che sembrava invincibile, eterno. Decise di chiamarsi Muhammad Alì e divenne un sostenitore di Malcolm X, rivoluzionario separatista afroamericano, che predicava la religione musulmana, non voleva l’integrazione e chiamava i neri alla lotta violenta. Alì quel giorno, sfoderando il suo ghigno - dolce, certo, ma ferocissimo - disse ai giornalisti: «Sono un guerriero della causa musulmana». Beh, pensate un po’ se oggi un campione sportivo dichiarasse qualcosa del genere, come lo tratterebbero i giornali e i capi della politica! Allora non fu molto diverso. Né lì in America né in Italia. Il ‘68 doveva ancora venire e anche il movimento pacifista americano era agli albori. Alì fu un precursore del movimento pacifista. Era un pacifista violento. I giornali non lo avevano per niente in simpatia. Non potevano ignoralo, certo, perché al mondo non era ancora apparso, né apparirà, un pugile bravo come lui. Combatteva senza mai alzare la guardia, si difendeva schivando, danzava con una grazia incredibile, era uno spettacolo vederlo sul ring, e poi, a un certo momento, vibrava un colpo micidiale e mandava giù l’avversario. Era rarissimo che Alì prendesse lui un colpo, nei primi anni della sua carriera, fin quando, a 25 anni appena, fu costretto a interromperla per via del suo rifiuto di andare a sparare ai vietcong. I giornali ne parlavano, ma continuavano a chiamarlo Cassius Clay. Un po’ perché il nome era più semplice - e più breve nei titoli - un po’ perché erano razzisti. Allora il razzismo contro i neri era davvero molto diffuso. Specie in America, naturalmente. Un po’ come è oggi il razzismo, qui da noi, contro gli immigrati. Era senso comune tra i bianchi e nell’establishment. Alì, che era un ragazzetto che veniva dal Kentucky, da Louisville, trasformò la sua incredibile abilità di boxer in strumento politico. E iniziò una battaglia furibonda, un corpo a corpo contro il razzismo. Parliamo dei primi anni ‘60, quando in Alabama un governatore democratico si rifiutava di far entrare nell’università gli studenti neri. E quando un giovane ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti, che si chiamava Colin Powell (ed era destinato dopo qualche anno a diventare il capo delle forze armate) si sentì dire, entrando in un bar: «Non serviamo i negri, ragazzo. Se vuole può accomodarsi alla porta di servizio». E’ in quel clima lì che Alì si unisce a Malcolm X, capo della “Nazione Islamica”, e fonde boxe e politica. Non parte per il Vietnam, come sapete, spiegando che a lui «i vietcong non lo hanno mai chiamato nigger». E paga, paga cara questa sua impuntatura. Milioni e milioni di dollari al vento. E poi la condanna a 5 anni di prigione. E l’esilio. E il titolo perduto. E la più fantastica carriera che mai un pugile abbia avuto, bloccata a 25 anni, quando era ancora un ragazzino. Capite che vuol dire? Voi credete che c’è molta gente disposta a rischiare tutto - patrimonio, fama, successo, agiatezza - per un’idea pacifista? Così fece Alì, che tutti chiamavano Clay. E così costruì la sua fama, creando provocazioni, sfidando i bianchi, e sfidando l’America, perché l’America era guerra, era potere bianco, era conformismo, ipocrisia. Oggi lo commemorano, con tanta retorica, molti di quelli che lui odiava. Se la prendeva anche coi neri, spesso, se erano integrati. Li chiamava zio Tom. Si riferiva al personaggio del celebre romanzo della scrittrice antischiavista Harriet Stowe, il quale era un negro che amava il suo padrone, e si sottometteva. Alì ballava sul ring, sempre con le braccia basse, lungo i fianchi, e gridava all’avversario: «coraggio, zio Tom, vieni avanti!». E quello allora avanzava e provava a colpirlo, ma Alì, con un balzo, non c’era più. Spuntava da un altro angolo del ring e di nuovo ringhiava e rideva: «Avanti, zio Tom, vieni... vieni qui che ti uccido». La Capanna dello zio Tom era un romanzo ambientato in Kentucky. Giusto nella terra di Alì. Cioè nello Stato dove nacquero le leggi del Jim Crow. Le conoscete queste leggi? Erano un pacchetto di norme che - dopo la liberazione degli schiavi e la fine della guerra civile - erano riuscite, in una grande svolta reazionaria, a ristabilire la discriminazione razziale, al Sud, e la sottomissione dei neri. Si chiamavano così per via di uno spettacolino, molto famoso, proprio a Louisville, dove un certo Jim Crow era il ridicolo personaggio, sgrammaticato e da tutti umiliato, che rappresentava la figura del nero-standard. Ne ha parlato anche Bob Dylan di quelle leggi, in una canzone molto nota del 1965, dedicata ad Emmet Till, un ragazzino di 14 anni ucciso a frustate e poi annegato dai razzisti, in Mississippi: «La giuria ha detto che sono innocenti/ che se ne posso andare/ Mentre il corpo di Emmett fluttua nella schiuma orrenda/ del Jim Crow, giù, giù fino al mare... ». A proposito di frustate, ne aveva prese tante anche Sonny Liston, il toro, e cioè il primo grande avversario di Clay - perché si chiamava ancora così - che lo affrontò nel ‘64 e lo rese grande. Clay vinse alla settima ripresa e fece impazzire le scommesse, perché tutti erano convinti che avrebbe vinto Liston. Ne aveva prese tante di frustate, Sonny, quando era un bambino e faceva il raccoglitore di cotone in Missouri. Lo pagavano qualche cents al giorno e se lavorava male il padrone lo frustava, perché si usava ancora così, perché lo schiavismo in alcuni stati del Sud è durato almeno fino agli anni sessanta, o forse anche settanta. Il razzismo se ne è infischiato di Roosevelt e di Kennedy. Quando gli hanno fatto l’autopsia, a Sonny, hanno trovato i segni, indelebili, sulla schiena. Alì disse delle parole di vera ammirazione verso Liston, quando Liston morì. Era così forte, Liston, che da ragazzetto faceva le rapine senza armi: a cazzotti. Lo presero subito e si fece tre anni di galera. Poi uscì e salì sul ring. Vinse tutti gli incontri. Capite che vuol dire tutti? Tutti. Finché non incontrò Clay, e allora perse. Poi lo incontrò di nuovo l’anno dopo, quando già si chiamava Alì, e finì al tappeto alla prima ripresa. Dicono che il pungo di Alì lo avesse appena sfiorato. E che lui si sia buttato giù per fare i soldi con le scommesse. Non credo che sia così. Alì era proprio forte, e quel pugno, che pure non era dinamite, prese Sonny alla tempia e lo tramortì. Poi li conoscete tutti i grandi incontri affrontati dopo l’interruzione di cinque anni. Nel ‘71, in appello, vinse il processo sull’obiezione di coscienza e potè tornare negli Stati Uniti e riprendersi la licenza da boxer. Non era più allenato, e neanche più giovanissimo. Ma era sempre lui, Alì. Tornò a combattere, subito: fu un errore. Sfidò Joe Frazier che si era preso il suo titolo quando lui era all’estero. Alì diceva che era l’usurpato. Però fu sconfitto, per la prima volta nella sua vita, ai punti, dopo 15 riprese da incubo. Si riprese il titolo tre anni dopo, nel ‘74, nella famosa battaglia di Kinshasa contro Foreman che aveva battuto Frazier ed era diventato lui campione dei pesi massimi. Fu grandioso quella volta, Alì. Nessuno scommetteva un dollaro sulla sua vittoria. Lui invece era certo. Foreman lo pestò. Alì tirò un solo pugno vero. Uno solo. Ma così forte che stese Foreman e vinse la partita. Quante frasi feroci, in quei giorni. Contro i bianchi, contro i neri traditori, contro l’America. E la gente, lì in Africa, che gridava impazzita per lui: «Alì, boma ye», cioè Alì, uccidilo. Durante tutto l’incontro gridava: «Uccidilo, uccidilo». E lui riprendeva il grido, gridava pure lui, appena Foreman gli lasciava qualche secondo di respiro: «boma ye, boma ye». Che ipocrisia i santini che scrivono ora i giornali. Era proprio un «bastardo islamico», altroché. Era un gigante del pugno e un gigante della politica, e della lotta dei neri, e dei diritti dei musulmani. Era un moderato, Alì? Ma non dite sciocchezze: era un radicale, era con Malcolm X e con le pantere nere, con Stokley Carmichel, con Huey Newton e con Bobby Seale. Non era del gruppo gandhiano di Luther King. L’orazione funebre la terrà Bill Clinton. E’ giusto così? Bill Clinton nel 1968 aveva 22 anni, studiava legge. Anche a lui arrivò la cartolina e doveva partire per il Vietnam. Una volta ha raccontato di avere passato la notte, insieme a un suo amico, che si chiamava Haller, per decidere che fare. Partire o disobbedire? Alla fine Haller decise di bruciare la cartolina e scappare in Canada. Clinton invece chiamò il suo amico William Fulbright, icona della politica americana, senatore dell’Arkansas e padre putativo, politicamente, di Bill. Chiese il suo aiuto. Fulbright riuscì a farlo riformare. Il giovane Haller visse un pessimo esilio. Per tre anni. Poi si suicidò. Clinton lo seppe mentre stava facendo campagna elettorale per George McGovern, sfidante di Nixon. Per un mese, per via del rimorso, dovette interrompere il suo impegno politico. Clinton ha sempre detto che Haller era un politico molto migliore di lui. E allora, è giusto che parli Clinton ai funerali di Alì? Si forse è giusto. Toni Morrison, che è una delle più importanti scrittrici afroamericane, qualche anno fa – durante il caso Lewinsky, quando Obama ancora non era all’orizzonte – scrisse che Clinton è stato il primo presidente nero degli Stati Uniti. Nero? Perché nero? Perché dice bugie - rispose la Morrison - suona la tromba, mangia gli hamburger con le patatine fritte e il ketchup, è appassionato, onesto e imbroglione. Come noi negri...
DANZOPOLI.
Giustizia sportiva, si dimette il superprocuratore Coni: «Non si può lottare con la lobby delle federazioni». Enrico Cataldi, ex generale dei Carabinieri, rimette il mandato: «All’interno del Coni c’è una lobby potente contraria al progetto Malagò». L’ultima goccia? Danzopoli, scrive Marco Bonarrigo il 18 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Ha gettato la spugna ieri mattina alle 8 appena arrivato, puntuale come ogni giorno, nel suo ufficio a Palazzo H del Coni, a Roma. Il generale Enrico Cataldi, chiamato tre anni fa da Giovanni Malagò a guidare una riforma storica della giustizia sportiva italiana, ha rassegnato le sue dimissioni da procuratore generale proprio nelle mani del presidente del Coni, che aveva scelto questo alto graduato dell’Arma, in pensione dopo una carriera dedicata alla lotta al terrorismo, per un compito difficile: evitare che la giustizia sportiva restasse affidata a «giudici» scelti, nominati e spesso «orientati» dagli stessi presidenti federali. «Dimissioni irrevocabili» spiega Cataldi, che ha istruito decine di processi davanti al Collegio di Garanzia (con altissima percentuale di condanne) avocandoli a procure federali pigre o inerti che tenevano gli atti chiusi in un cassetto. E affrontando temi forti e scomodi come il match fixing, le molestie sessuali, le compravendite di voti, la vicenda «Paga per correre» nel ciclismo. Cataldi agiva invitando con le buone le procure federali a istituire procedimenti (spesso già trattati sul piano penale) o avocandoli a chi non sentiva ragioni e diventando di fatto «pubblico ministero» nei processi. Il progetto, in sintesi, di trovare un giudice naturale, terzo e imparziale in un sistema in cui, ancora oggi, un presidente federale messo sotto accusa risponde a procuratore e giudici da lui designati. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la sentenza con cui due giorni fa, il tribunale di appello della federazione danza sportiva, ha concesso una grazia/indulto all’ex presidente Ferruccio Galvagno, radiato per la vicenda di «Danzopoli» e di nuovo sotto accusa (sportiva) per aver favorito, secondo la procura generale, l’elezione di un suo uomo proprio per ottenere la cancellazione della sanzione e tornare al vertice. A Galvagno è stata concessa la riduzione dalla pena dalla radiazione a cinque anni ammettendo automaticamente l’indulto. «Una decisione – spiega Cataldi – frutto di un patto scellerato che vanifica il progetto di riforma della giustizia. Ma non me ne vado per questo: all’interno del Coni c’è una lobby potente, contraria al progetto di Malagò, che è arrivata ad ottenere un pronunciamento dell’avvocatura dello stato che giudica il mio ruolo incompatibile con la legge Madia (quella che vieta a chi ha una pensione statale di avere un ruolo dirigenziale retribuito, ndr) pur non essendo io un dirigente e pur godendo della carica da prima dell’applicazione della legge. Malagò mi ha scongiurato di restare, perché sono in ballo procedimenti importanti anche nel calcio, col campionato alle porte. Ma non ci sono le condizioni. Sapevamo, io, il presidente e i miei sostituti, che la riforma avrebbe incontrato resistenze procurandoci molti nemici. Ma qui c’è un muro che si oppone a ogni cambiamento: la giustizia è e deve restare cosa delle federazioni e nessuno super partes deve poter metterci il naso. Ho passato la vita a lottare cercando di fare giustizia e seguendo casi difficilissimi, ora mi rendo conto nello sport l’impresa è superiore alle mie forze».
La danza sportiva va alla sbarra: giudici intimiditi, combine nelle gare, elezioni truccate. Le elezioni per acclamazione contrarie al regolamento. Il dirigente «pentito» che filma le irregolarità e denuncia tutto. Il Coni: azzerare i vertici federali. La replica: siamo autonomi. Su «Danzopoli 2» deciderà l’Alta Corte guidata dall’ex ministro Frattini, scrive Marco Bonarrigo il 2 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". C’è il settantenne (mai indossate scarpette da danza in vita sua) tesserato all’ultimo secondo come ballerino (finto) per poter concorrere alle elezioni federali. C’è l’ex presidente (radiato) che continua a dirigere nell’ombra, pilotando le elezioni del suo successore e il suo operato. C’è un nuovo presidente, eletto per acclamazione ma subito rimosso perché qualcuno denuncia la procedura bulgara. Ci sono maestri di ballo e giudici intimiditi, c’è un dirigente preso dai rimorsi che registra ore di conversazioni telefoniche compromettenti e le consegna ai giudici sportivi. Così, all’inizio di quest’anno, nasce Danzopoli 2. Avvelenata da scandali a ripetizione, «corvi», pentiti, complotti e minacce, la danza sportiva italiana offre un’immagine un po’ diversa da quella delle coppie di leggiadri ballerini che incantano giurie e telespettatori sul parquet degli studi televisivi. Una saga che nel pomeriggio di martedì 7 novembre troverà, forse, una svolta definitiva (o forse no) nell’aula del Collegio di Garanzia del Coni, la «cassazione» del nostro sport. Dietro alla Federazione italiana danza sportiva (Fids) ci sono 120 mila iscritti che amano davvero volteggi e piroette e si allenano con fatica e passione per riuscirci. Ma anche, ai vertici, una serie d’interessi non esattamente olimpici: dalla designazione dei maestri di «Ballando con le Stelle» (proposti proprio dalla Fids, che organizza anche road show in tutta Italia per la trasmissione condotta da Milly Carlucci) a quella dei giudici delle gare nazionali. Scelte che possono fare — o disfare — la fortuna di una delle centinaia di scuole di ballo nazionali o di un maestro preferito a un altro da selezionatori inappellabili. La Fids è già finita nei guai in passato. Le vicende di Danzopoli 1 (era il 2010), una clamorosa serie di combine nella designazione dei vincitori dei concorsi più importanti, portarono alla radiazione dei vertici e al commissariamento federale. Sette anni dopo tutto si ripete. Alla fine del 2016 le nuove elezioni federali sono state annullate: invece di votare a scrutino segreto (secondo le inderogabili norme del Coni, che elargisce alla Fids 750 mila euro l’anno per la sua attività, pure non olimpica) il presidente venne acclamato dai consiglieri, roba che nemmeno in un talent. Altro commissariamento, altro presidente: vince Michele Barbone che come primo atto dispone un’amnistia tombale per i tesserati — recidivi compresi — col nobile scopo di «riconciliare tutte le componenti e rilanciare definitivamente tutto il movimento». Per la Procura Generale del Coni, che ha scavato nel muro di omertà e timori tra giudici e maestri di danza, riconciliazione è restaurazione del vecchio sistema. Barbone, è l’accusa, sarebbe una sorta di prestanome dell’ex presidente radiato Ferruccio Galvagno, che con una lunga serie di riunioni segrete avrebbe ripreso il controllo della federazione. A documentare i casi sono dei «pentiti», tra cui il dirigente uscente Christian Zamblera, che chiede il patteggiamento consegnando ai magistrati sportivi le prove della combine: ore e ore di registrazioni, a dire dei magistrati inequivocabili. La Procura Generale, premettendo che «definire illecita la situazione della danza è riduttivo», prima intima di mandare a processo tutto il Consiglio Federale e poi si sostituisce al procuratore federale, inerte, chiedendo lunghe squalifiche (da due a cinque anni) per l’attuale presidente e dodici dirigenti. Ma il tribunale interno, che di processare i propri dirigenti non se la sente, tira fuori un asso dalla manica: dichiara «incompetente» la Procura Federale, l’organismo super partes voluto dal presidente del Coni Giovanni Malagò per evitare che i panni sporchi le federazioni se li lavino in casa. Se martedì prossimo l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, presidente del Collegio di Garanzia, non troverà ragioni giuridiche sufficienti per smontare la decisione autoassolutoria del tribunale della danza, tutto il processo di rinnovamento della giustizia sportiva potrebbe entrare in crisi.
Quel pasticciaccio brutto del ballo sportivo italiano Danzopoli. Lo storico presidente radiato per aver truccato competizioni, i tre successori a processo, dodici dirigenti deferiti e gli imbarazzi del Coni, scrive Lorenzo Vendemiale su "Il Fatto Quotidiano" Domenica 14 Maggio 2017. La danza italiana balla alla sbarra. Quella del tribunale, però: uno storico presidente radiato per aver truccato delle competizioni e che ora potrebbe tornare in ballo grazie ad un’amnistia, i suoi tre successori a processo per aver avuto contatti con lui. E ancora: elezioni farsa, rifatte due volte nel giro di un mese con due diversi vincitori, veleni pre e post elettorali, registrazioni segrete, denunce incrociate. Una tarantella che si trascina tra una gara di valzer e due passi di salsa cubana, e di cui anche al Coni si sono stufati come dimostra il maxi-deferimento a 12 dirigenti apicali. Forse qualcuno si chiederà cosa c’entrino la bachata o la mazurka col Comitato olimpico presieduto da Giovanni Malagò, appena riconfermato: ballerini, per lo più in coppia, che si sfidano sulla base di figure prefissate, sotto l’occhio attento di giudici inflessibili che danno voti e decretano i vincitori. Un po’ come nel noto programma televisivo Ballando con le stelle (per altro legato alla Fids da diversi rapporti di collaborazione), solo con meno folklore. Si dà il caso, però, che la Danza sportiva dal 2007 sia anche una delle 44 federazioni riconosciute dal Coni. E pure discretamente finanziate: nel 2017 quasi 750mila euro di contributi pubblici per l’attività sportiva e la preparazione olimpica (pur non essendo presente la danza alle Olimpiadi), che salgono ad oltre un milione e mezzo di euro se aggiungiamo i costi del personale. Soldi preziosi per un movimento sconfinato, che supera i 100mila tesserati, spaziando dall’agonismo ipercompetitivo al dilettantismo più amatoriale.
LA STORIA della Fids, però, è stata quantomeno travagliata. Nel 2010 scoppiò lo scandalo ribattezzato “danzopoli”, versione danzerina della più nota “calciopoli”: un sistema volto a “predeterminare o quantomeno fortemente condizionare” i campionati nazionali di ballo, scoperto dalle indagini che portarono alla radiazione a vita dell’allora presidente federale, Ferruccio Galvagno. Il suo nome ritorna anche nell’ultima vicenda giudiziaria che sta investendo il movimento: la procura del Coni ha deferito 12 dirigenti, fra cui l’attuale numero uno Michele Barbone e i suoi predecessori Giovanni Costantino e Cristian Zamblera, per aver avuto dei contatti illeciti con l’ex presidente radiato, che continuerebbe a spostare voti e decidere le sorti della Federazione. Uno dei primi atti della nuova gestione è stato concedere una grande amnistia per tutte le infrazioni commesse prima del 31 dicembre 2016. Un provvedimento che avrebbe dovuto pacificare il movimento ma ha finito per spaccarlo ulteriormente, visto che tra i beneficiari potrebbe esserci proprio Galvagno.
LA STRANEZZE, del resto, non sono mai mancate in questa Federazione, che a lungo ha confuso maestri e giudici: per anni chi allenava gli atleti era anche chi li giudicava, in barba ad ogni principio di terzietà sportiva. Una sovrapposizione di ruoli da cui non potevano che derivare guai. Ora il nuovo presidente Barbone ha finalmente approvato un regolamento che separerà le carriera. Ma potrebbe non fare a tempo a godersi la riforma, travolto dai veleni delle ultime (doppie) elezioni: a ottobre alle urne Costantino aveva sconfitto il presidente uscente Zamblera, il Coni ha disposto la ripetizione per alcune irregolarità nell’assemblea e quando si è tornati al voto dopo qualche settimana a sorpresa c’è stato un altro vincitore ancora. Il tutti contro tutti che ne è derivato (e che è finito sul tavolo della Procura, tra registrazioni nascoste e delazioni) rischia di non risparmiare nessuno. Nemmeno la Federazione: qualcuno vuole fare pulizia, qualcun altro forse spera in un “repulisti” generale per togliere di mezzo buona parte della classe dirigente presente e passata. Ma a rimetterci potrebbe essere proprio la Danza sportiva. Barbone ha negato le accuse, sostenendo che i pochi contatti con Galvagno non possono considerarsi come “attività federale”. Ma se la vicenda dovesse concludersi con una condanna e un altro commissariamento (il terzo in cinque anni), al Coni potrebbero anche decidere di sbarazzarsi della Fids. Al Foro Italico cominciano a interrogarsi sulla scelta di aver concesso lo status di Federazione, che in futuro potrebbe addirittura essere revocato. Finirebbero benefici e contributi. E allora ci sarebbe davvero poco per cui ballare.
Dopo lo scandalo “Danzopoli 2010”, nella Danza Sportiva il cosiddetto “Sistema” è riapparso con Michele Barbone? Scrive Foglio Verde Fonte Prima Pagina News. Anche la danza sportiva sotto la lente distorta della corruzione iniziata da un passato lontano e profondo. L’inchiesta attuale (avviatasi in gennaio) è della Procura Generale dello Sport guidata dal dottor Enrico Cataldi, ex-generale dell’Alto Comando dei Carabinieri, e ha portato al deferimento del Presidente Federale Michele Barbone e di 9 fra consiglieri e dirigenti. La vicenda è anche oggetto di due distinte interrogazioni parlamentari al Ministro dello Sport Lotti, una a firma di Paolo Grimoldi della Lega Nord e l’altra da Lara Ricciatti di Sinistra Ecologia Libertà. Le due interrogazioni concordano sulle «gravi irregolarità accertate dalla Procura» e puntano entrambe sulla necessità di comprendere «quali iniziative si intendano adottare da parte del Ministero e del CONI». Una storia che parte da lontano, che accusa in particolare Michele Barbone – attuale Presidente Federale eletto il 15 dicembre 2016 – di aver consentito a una persona radiata a vita nel 2012, Ferruccio Galvagno, di svolgere attività nella Federazione Italiana Danza Sportiva, condividendo con lui “iniziative, interessi e strategie”. Nei confronti di Barbone, si legge in dettaglio nell’interrogazione (qui sotto riportata integralmente), la Procura Generale dello Sport presso il CONI, concluse le attività di indagine, muove accusa di falsa testimonianza (art. 372 cp) anche per “aver dichiarato il falso in sede di audizione alla Procura Generale dello Sport, negando a più riprese di aver espressamente mai avuto contatti, incontri o rapporti con il Signor Ferruccio Galvagno”. Questo il punto focale. Ma chi è Ferruccio Galvagno? Facciamo alcuni passi a ritroso; in occasione dei Campionati Italiani del 2010 partì una denuncia/esposto alla Procura della Repubblica di Rimini, circostanziata con tanto di prove rappresentate da intercettazioni ambientali, che portò alla ricostruzione di un meccanismo ben congeniato che creava un vero e proprio business: favoritismi e piazzamenti garantiti in pista a favore degli atleti delle società sportive “amiche” che erano tenuti a lezioni ben pagate, una vera e propria “frode organizzata”, appunto il “Sistema”. L’inchiesta della magistratura ha visto infine i suoi effetti con la sentenza che ha provveduto e disposto sulla negativa e triste vicenda denominata “Danzopoli”: Tra i vari protagonisti condannati, con la radiazione a vita per alcuni, tra questi troviamo, appunto, l’ex Presidente Federale Ferruccio Galvagno, lui insieme ad altri radiati a vita per illecito sportivo, mentre alcuni altri protagonisti sono stati inibiti dalle attività federali da uno a cinque anni (ora però con Barbone, guarda caso, alcuni sono già riapparsi nella scena federale con incarichi tecnici all’interno dell’organigramma federalenazionale). A “Danzopoli” si accompagnarono poi una serie di irregolarità/omissioni amministrative e gestionali della FIDS e in febbraio 2011 arriva il commissariamento da parte del CONI con la nomina a commissario dell’Avv. Pancalli (già Presidente del CIP). Il commissariamento termina in luglio 2012, con l’elezione a Presidente Federale del Cav. Christian Zamblera di Bergamo, per il mandato 2012-2016. Con l’avvicinarsi della scadenza di tale mandato – emerge dall’inchiesta guidata da Cataldi – il Galvagno riappare sulla scena federale, grazie alla compiacenza di alcuni dirigenti federali e non – ora deferiti con gravi accuse appunto dalla Procura Generale dello Sport – avviando un’intesa campagna politica contro Zamblera e sostenendo l’amico di lunga data, già proprio Vice Presidente FIDS nel mandato 2004-2008 e 2009-2011, Michele Barbone di Bari. Il copioso materiale a sostegno dell’accusa conferma che le interferenze e le imposizioni “guida” del Galvagno sono continuate anche dopo l’elezione del 15 dicembre e quindi in pieno mandato olimpico. Una storia che si presterebbe ad una lunga serie televisiva, che è nata a Rimini nel 2010 con l’esposto denuncia sopra riportato e che trova oggi un nuovo capitolo (seconda stagione si direbbe?) anche grazie all’interesse della politica con le citate interrogazioni parlamentari (riportiamo quella del deputato Grimoldi della Lega Nord presentata il 28 aprile 2017).D’altronde non potrebbe essere altrimenti, visto che la FIDS conta ben 120.000 tesserati e oltre 2.000 società affiliate (dati dal sito federale). Nelle more del procedimento dianzi agli organi di giustizia, restano ora da comprendere le iniziative cautelari del CONI e, segnatamente, della nuova Giunta Nazionale che sarà eletta l’11 maggio prossimo, nell’ambito delle proprie funzioni di controllo e vigilanza, per riportare a normalità una situazione che Cataldi ritiene che “definire illecita è riduttivo”.
L’interrogazione è qui riprodotta: “si apprende che, in data 31 marzo 2017, la procura generale dello Sport presso il CONI ha concluso le attività di indagine in ordine ai procedimenti disciplinari rubricati ai nn. 3/2017 e 6/2017 nei confronti del Dottor Michele Barbone, dal 15 dicembre 2016 presidente federale della Federazione italiana danza sportiva, Federazione sportiva nazionale (FSN) riconosciuta dal Coni, e di altri tesserati meglio identificati negli atti menzionati, con l’accusa di (si cita testualmente):
1) aver consentito ad un soggetto radiato (segnatamente l’ex presidente federale Signor Ferruccio Galvagno) di continuare a svolgere attività federale, condividendo con lui iniziative, interessi e strategie;
2) aver convocato e preso parte a una o più riunioni e incontri nei quali, in presenza e con l’attiva partecipazione del Galvagno, sono state assunte decisioni di fondamentale importanza per il futuro della Federazione sportiva in previsione e nell’imminenza delle elezioni federali per il rinnovo delle cariche che si sarebbero poi tenute il 22 ottobre 2016 e, successivamente rifatte il 15 dicembre 2016;
3) aver dato esecuzione, in qualità di presidente federale neo eletto, agli accordi presi nel corso delle riunioni alle quali Ferruccio Galvagno ha preso parte e, in particolare, aver condiviso nel consiglio federale del 22 gennaio 2017 l’intenzione di concedere provvedimenti di clemenza sportiva (amnistia), incluso al Galvagno, come pattuito nelle riunioni/incontri pre-elettorali svolti;
4) aver, dopo l’elezione a presidente federale del 15 dicembre 2016, omesso di riferire e denunciare al Procuratore Federale le interferenze esercitate da Ferruccio Galvagno;
5) aver dichiarato il falso in sede di audizione alla procura generale dello sport, negando a più riprese di aver espressamente mai avuto contatti, incontri o rapporti con il Signor Ferruccio Galvagno, inerenti attività, strategie e programmi federali;
in pari data, 31 marzo 2017, alle ore 19,02, è stata resa nota la deliberazione del consiglio federale (delibera n. 2017/48) con la quale si concede l’amnistia per tutte le infrazioni disciplinari commesse fino al 31 dicembre 2016;
questo provvedimento si applica anche ai provvedimenti di radiazione, quindi a favore del Galvagno, e a tutti gli attuali indagati – componenti il consiglio federale presieduto dal Dottor Michele Barbone – per le infrazioni disciplinari contestate dalla procura generale dello sport sopra elencate – :
se siano a conoscenza di eventuali iniziative adottate dal Coni (Comitato olimpico nazionale italiano), nell’ambito delle funzioni di controllo e vigilanza di cui al decreto legislativo 8 gennaio 2004, n. 15, per un immediato commissariamento della federazione italiana danza sportiva, accertate le gravi irregolarità nella gestione e le gravi violazioni dell’ordinamento sportivo da parte dell’attuale consiglio federale, già compiutamente documentate dalla procura generale del Coni all’esito dell’attività inquirente (Protocollo 1967 del 31 marzo 2017). (4-16425)
Testo INTERROGAZIONE A RISPOSTA IN COMMISSIONE
Atto a cui si riferisce: C.5/02211 la danza sportiva italiana comprende oggi oltre 100.000 iscritti, 5.000 maestri e 1.000 scuole di ballo con un fatturato che si aggira intorno ai 2 milioni di euro l'anno; la Federazione...
Atto Camera. Interrogazione a risposta in commissione 5-02211 presentato da VALENTE Simone testo di Giovedì 20 febbraio 2014, seduta n. 177
SIMONE VALENTE, BATTELLI e BRESCIA. — Al Ministro per gli affari regionali e le autonomie. — Per sapere – premesso che:
la danza sportiva italiana comprende oggi oltre 100.000 iscritti, 5.000 maestri e 1.000 scuole di ballo con un fatturato che si aggira intorno ai 2 milioni di euro l'anno; la Federazione italiana danza sportiva (FIDS) è l'unica Federazione riconosciuta dal CONI per organizzare e disciplinare lo sport della danza; tale riconoscimento è stato ottenuto con delibera 1355 del 26 giugno 2007, ai sensi dell'articolo 6, comma 4, punto c dello Statuto del Coni nonché in applicazione a quanto previsto dall'articolo 15 comma 3 e 4 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242 e successive modifiche e integrazioni;
nel febbraio 2011 la Fids viene commissariata dalla Giunta nazionale del Coni a causa di una serie di inchieste avviate in seguito ad una denuncia con la quale veniva segnalata una serie di irregolarità avvenute in una competizione di danza sportiva svolta a Rimini tra il maggio e il giugno 2010; le persone coinvolte (tra queste si segnalano l'ex presidente federale della Fids, un consigliere federale, giudici e tecnici di gara) furono accusate di associazione a delinquere finalizzata ad alterare in maniera fraudolenta le competizioni di danza agonistica su tutto il territorio nazionale attraverso la manipolazione delle gare federali. Si trattava di un vero e proprio sistema criminoso (definito danzopoli) perfettamente strutturato e basato su competizioni truccate, risultati manipolati e giudici corrotti che tendeva a favorire determinati atleti a svantaggio di altri;
a seguito di quanto accaduto, la federazione è stata protagonista secondo gli interrogati di una condotta omissiva e dilatoria che si è manifestata, in particolare, in un mancato adempimento delle normative contenute negli articoli 79 e 66 dello Statuto federale i quali contemplano rispettivamente l'incompatibilità al contestuale esercizio di insegnante tecnico e ufficiale di gara e le modalità nonché i criteri di nomina del personale arbitrale sia nelle gare federali che in quelle autorizzate;
ma ciò che desta maggiore preoccupazione è quella che agli interroganti appare un'inspiegabile inerzia da parte del Coni che in simili evenienze avrebbe dovuto applicare l'articolo 23, comma 3, del proprio statuto che disciplina l'attività di indirizzo e controllo sulle federazioni sportive nazionali;
si rileva che durante la gestione commissariale della Fids, avvenuta dall'8 febbraio 2011 al 14 luglio 2012, i rappresentanti degli organi di gestione hanno continuato a regolamentare la nomina degli ufficiali di gara designando giudici ad libitum, nonostante l'allora commissario straordinario Luca Pancalli avesse invitato gli ufficiali di gara a sottoscrivere una «dichiarazione d'impegno etico deontologico», sottoponendo gli stessi al rispetto degli articoli 75 e 76 del decreto del Presidente della Repubblica n. 445 del 2000 relativamente al rilascio di false attestazioni e dichiarazioni mendaci. Sulla stessa linea, Pancalli si è adoperato al fine di favorire la corretta composizione delle giurie per ogni singola categoria e classe di gara, stilando una serie di principi comportamentali cui erano sottoposte le giurie; al fine di assicurare, infatti, la massima trasparenza nelle procedure relative alle competizioni veniva previsto, tra le altre cose, l'impegno dei giudici a non giudicare propri allievi ed effettuare, ove possibile, la rotazione delle giurie nei diversi turni di gara;
tuttavia, nonostante la predisposizione di questi atti ad opera del commissario straordinario ben poco è cambiato;
durante il suo periodo di amministrazione, il commissario ha preso in considerazione solo la separazione delle carriere (disposta nella delibera del commissariamento per risolvere il problema del conflitto di interessi di cui all'articolo 80 dello statuto) senza considerare la regolamentazione della designazione del personale arbitrale, che invece era all'epoca ed è ancora oggi la chiave di volta per abbattere le irregolarità esistenti e conseguentemente risolvere il problema fondamentale della correttezza e genuinità dei risultati di ogni gara;
nel mese di ottobre 2013 è stata, inoltre, costituita una Commissione paritetica composta da due membri consulenti del Coni e due membri rappresentanti del Fids con lo scopo di verificare la conformità dello statuto e dei regolamenti Fids ai princìpi fondamentali del Coni e di valutare complessivamente l'attuale normativa statutaria e regolamentare della Fids: ad oggi non risulta che l'operato della Commissione abbia generato dei particolari benefici;
la grave condotta dilatoria ed omissiva di Fids e Coni di non aver voluto sanare la situazione esistente in tutte le gare ha leso e continua a ledere l'interesse giuridicamente tutelato di tutti gli atleti; ed il Coni che avrebbe dovuto vigilare rigorosamente, (ignorando le ripetute contestazioni e denunce) ha espresso invece parere di conformità del nuovo Rasf (Regolamento attività sportiva federale) alla normativa Coni dando il via al Regolamento Gare Fids per la stagione sportiva 2013-2014 che proroga per l'ennesima volta la regolamentazione della nomina del personale arbitrale di cui all'articolo 66 dello Statuto federale, al 31 dicembre 2015 per le gare federali e al 31 dicembre 2018 per le gare autorizzate;
al fine di pervenire, pertanto, al riassetto dell'intero sistema attraverso l'emanazione da parte della Fids e l'approvazione del Coni di una serie organica di provvedimenti, tra i quali quelli relativi al regolamento tecnico, al regolamento arbitrale e alla separazione delle carriere di cui rispettivamente agli articoli 65, 66 e 79 dello statuto, è necessario non ricadere negli stessi errori di valutazione;
posta l'importanza nonché il ruolo che riveste tale disciplina sportiva è necessario assicurare un sistema sano di garanzie, privo di condizionamenti e idoneo a tutelare tutti gli atleti che in ogni competizione sportiva hanno il diritto di essere giudicati secondo criteri di responsabilità, trasparenza ed imparzialità;
per abbattere tale gravissima situazione (che si protrae ormai da anni pur in presenza di provvedimenti disciplinari, di radiazione, di un procedimento penale e di un commissariamento durato 18 mesi) occorre un intervento forte e risolutivo. Coni e Fids in questi anni sono stati sommersi da richieste di ottemperanza, denunce e diffide e da ultimo anche i loro rispettivi presidenti, Malagò e Zanblera sono stati investiti della questione da più atleti che reiteratamente gli hanno rappresentato la grave situazione di illegalità di tutte le gare –:
in che maniera intendano i Ministri interrogati richiamare il Coni, nella persona del suo Presidente Giovanni Malagò, al rispetto rigoroso dell'articolo 23, comma terzo, dello stesso statuto Coni in situazioni come quella descritta in premessa. (5-02211)
A PROPOSITO DI SCHWAZER E PANTANI.
"Le urine di Schwazer furono manipolate". Una rivelazione riapre il giallo doping. Nei due campioni ri-analizzati trovate differenze abnormi nella quantità di dna, scrive Benny Casadei Lucchi, Sabato 28/07/2018, su "Il Giornale". «Io marcio» ha detto un giorno, «io marcio per me stesso» ha concluso la frase dopo aver ripreso fiato. Una pausa in mezzo. Come a separare volutamente l'«io marcio» che sa di confessione ed evoca il giallo, i dubbi, lo sporco che ne hanno accompagnato a tratti la carriera, dall'«io marcio per me stesso» che rappresenta invece l'amore con cui ha comunque affrontato quella carriera. Anche se l'amore, si sa, talvolta distrugge. Alex Schwazer è questo. È una frase spezzata in due come la sua vita agonistica e non solo agonistica. Prima l'oro olimpico di Rio e la gloria, poi la vergogna grande e la confessione di Londra 2012. Prima la vita da reietto dello sport seguita alla squalifica, poi il ritorno vincente del 2016 alla vigilia dei Giochi di Rio accudito dal professor Sandro Donati, simbolo della lotta al doping e diventato per Alex patente e certificato di pulizia. Prima la vittoria al rientro, seguita da redenzione e applausi, poi il nuovo sprofondo alla vigilia delle olimpiadi brasiliane. E ancora: prima la nuova squalifica a otto anni e la fine della carriera, poi la voglia di vederci chiaro, i dubbi su quel controllo delle urine effettuato dagli ispettori su incarico Iaaf e deciso proprio nel giorno in cui l'atleta aveva testimoniato contro un medico della Federazione internazionale. Una provetta rimasta troppe ore in mano agli ispettori prima di arrivare al laboratorio di Colonia e mai veramente anonima come invece dovrebbe, fecero subito notare i difensori di Schwazer. Un campione di urina che al primo controllo era risultato a posto e al secondo con una concentrazione di valori dopanti talmente minimi da non poter aiutare la prestazione atletica. Un giallo. O Schwazer stupido all'inverosimile da doparsi per non aver alcun beneficio o Schwazer al centro di un qualche complotto. Anche per questo l'atleta, che nel primo caso di doping, a Londra, aveva subito confessato, la seconda volta aveva urlato la propria innocenza chiedendo di vederci chiaro «perché credo che lì dentro ci siano anche le urine di altri» aveva detto, «e allora voglio l'esame del dna, non servirà per la mia carriera ormai finita, ma per il mio onore sì...». Ed è proprio dell'esame del dna che si è saputo ieri. Ultimo e più importante tentativo di ricomporre i cocci dell'esistenza di questo altotesino di 34 anni. La notizia è stata data dal quotidiano altotesino Tageszeitung e da Nando Sanvito sul il sussidiario.net, giornalista che non ha mai smesso di voler far luce sulla vicenda: «L'esame delle urine ha rivelato che le urine di Alex Schwazer sono state manipolate» ha scritto dopo essere venuto a conoscenza del risultato delle analisi svolte, su richiesta del tribunale di Bolzano, sul campione di urine. Ovviamente non sono state trovate le tracce di altri dna, ma di quello dello stesso Schwazer in quantità così abnormi da far sospettare il tentativo di nasconderne altri. Il dna col tempo va infatti riducendosi in modo vistoso, per cui è anomalo che nel primo campione, quello negativo, ci fosse un quantitativo inferiore al secondo. Da qui la decisione del Ris di Parma e del suo comandante Giampietro Lago (anche perito del tribunale di Bolzano) di monitorare il dna separato in due campioni di un centinaio di volontari. Per capire se difformità simili siano possibili. I risultati definitivi a settembre. Per ricominciare di nuovo a ricomporre i cocci di un uomo discusso. O per buttarne via l'ultimo e dimenticarlo per sempre.
Doping Schwazer, anomalie nelle analisi: ora un test su 100 dna. Le analisi sui campioni A e B risultati positivi alla vigilia di Rio de Janeiro effettuate dal Ris rilevano discrepanze «abnormi» nella concentrazione di dna nelle due provette, scrive Giuseppe Toti il 27 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Se non siamo di fronte al passo decisivo, poco ci manca. La vicenda di Alex Schwazer, secondo le clamorose rivelazioni di giovedì scorso di Tageszeitung, quotidiano altoatesino in lingua tedesca, è giunta a un momento cruciale grazie al lavoro che da molti mesi sta portando avanti il Ris di Parma del colonnello Giampietro Lago, su incarico del gip di Bolzano, titolare dell’inchiesta penale, Walter Pelino. Per prima cosa, le analisi di laboratorio sui campioni A e B di urina del marciatore azzurro — fermato per doping nel 2016, alla vigilia dei Giochi olimpici di Rio de Janeiro, in seguito al controllo a sorpresa di gennaio di quell’anno, dopo essersi affidato alle cure del professor Sandro Donati, memoria storica dell’antidoping italiano — hanno evidenziato un’anomalia incredibile: la concentrazione di dna di Schwazer nel campione B è tre volte superiore a quella presente nel flacone A: 1.187 nanogrammi contro 437. Una discrepanza «inspiegabile» scientificamente, che potrebbe nascondere ciò che l’entourage di Schwazer ha sempre sostenuto con forza: la manomissione delle provette (faticosamente ottenute dopo una battaglia durissima dal laboratorio di Colonia, che il 7 febbraio scorso aveva addirittura consegnato un campione aperto) per incastrare l’atleta e realizzare il «delitto perfetto». La Iaaf si è già affrettata a dichiarare che quella differenza abnorme non ha valore, il Ris invece continua spedito: il comandante Lago ha infatti ordinato una maxi test sul dna di 100 individui, scelti tra sportivi e persone comuni, che hanno dato l’assenso. Le conclusioni del Ris saranno presentate entro il 5 settembre sul tavolo del gip Pelino: se la «discrepanza» dovesse rimanere solo per Schwazer e non riguardare nessuno di quei cento, allora molti altri dubbi verrebbero spazzati via.
CASO SCHWAZER. L'esame del Dna rivela la manipolazione delle urine (esclusiva). Le urine di Schwazer sono state manipolate. Così si evince dall'analisi del Dna che il Ris di Parma ha effettuato sui campioni di Colonia. Una novità che cambia tutto, scrive Nando Sanvito il 27 luglio 2018 su "Il Sussidiario". La ostinata e disperata resistenza della Iaaf e del Laboratorio di Colonia a non cedere le urine di Schwazer al Tribunale di Bolzano aveva una ragione più che valida: quelle provette erano state manipolate. Così almeno si evince dall'analisi del Dna che il Laboratorio del Ris di Parma ha effettuato su quei campioni nelle scorse settimane. Cosa è stato trovato in quelle urine? Un Dna estraneo a quello di Schwazer? No, non siamo più ai tempi del caffè messo nella provetta della Di Terlizzi allenata da Sandro Donati, roba casereccia da peracottari anni 90. Nel caso Schwazer invece si è dato per scontato che se mai tarocco ci fosse stato, sarebbe stato fatto a regola d'arte, da professionisti del ramo e che tracce di Dna esogeno non ne avrebbero lasciate. Allora cos'ha trovato il colonnello Lago? Una concentrazione spaventosamente anomala del Dna di Schwazer. Bastano pochi numeri: 437 picogrammi microlitro nel campione A, addirittura 1187 nel campione B. Se la letteratura scientifica – prodotta dagli stessi laboratori accreditati presso la Wada – dice che le urine conservate a -20 gradi dopo una settimana riducono a 1/7 il valore quantitativo del Dna, dobbiamo pensare che dopo 26 mesi debbano contenere ancora al massimo qualche picogrammo, che si possa contare su qualche dita di una mano. Il Dna di Schwazer presenta invece una concentrazione centinaia (campione A) o migliaia (campione B) di volte superiore alla norma. Di fronte a questi valori assolutamente fuori-scala, i casi sono due: o Schwazer è un alieno oppure qualcuno ci ha messo mano. E qui sta il punto. Cosa vuol dire che ci ha messo mano? Vuol dire che ha "pompato" nelle urine di Schwazer una quantità sproporzionata di Dna dello stesso marciatore altoatesino. Che bisogno aveva di farlo? Questa operazione di solito la si fa quando si vuole nascondere un altro Dna presente nelle urine, perché se è vero che centrifugando urina contaminata da doping e congelandola e riscaldandola (coi raggi Uv) più volte, il Dna scompare al 99,9%, in realtà quello 0,1% inquieta il manipolatore e dunque il metodo più sicuro per non lasciare traccia è pompare altro Dna del proprietario delle urine da inquinare. Così si elimina ogni rischio di essere scoperti. Colpisce poi quella discrepanza tra campione A e campione B: 437 contro 1187. La Iaaf ha incaricato a Ginevra uno studio scientifico per dimostrare che questa discrepanza non ha alcun valore, ma se così fosse perché allora il laboratorio di Colonia e l'avvocato della Iaaf a febbraio tentarono di spacciare per campione B il liquido contenuto in una provetta di plastica non sigillata? Su questa discrepanza, da parte sua il colonnello Lago (carabiniere del Ris e perito del tribunale di Bolzano) invece sta monitorando il Dna di un centinaio di volontari a cui è stata prelevata urina, separata in due campioni: daranno differenze? E nelle proporzioni di quella di Schwazer? Lo sapremo ai primi di settembre quando presenterà il risultato completo della sua perizia al Gip di Bolzano Walter Pelino. Ma queste anticipazioni suggeriscono doverose riflessioni. Chi, come e dove ha operato la manomissione delle urine di Schwazer? A chi potrebbero toccare gli avvisi di garanzia che il Gip di Bolzano presumibilmente invierà una volta letta la perizia? Di questo ne parleremo nella puntata di domani.
Atletica, doping; caso Schwazer: condannati i medici Fidal. Il tribunale di Bolzano ha condannato a due anni ciascuno Pierluigi Fiorella e Giuseppe Fischetto, nove mesi per Rita Bottiglieri. Per tutti e tre l'accusa è di essere a conoscenza dell'uso di sostanze da parte dell'ex marciatore e di non aver denunciato i fatti. Una sentenza storica, scrive Eugenio Capodacqua il 25 gennaio 2018 su "La Repubblica". Sapevano ed hanno taciuto. E non hanno fatto nulla per impedire che Alex Schwazer si dopasse prima delle Olimpiadi di Londra 2012. E adesso, a sei anni dai fatti, il tribunale di Bolzano per bocca della giudice Carla Scheide, ha stabilito che il loro comportamento era colpevole quanto il doping dell'atleta. Favoreggiamento del doping: così i due medici della Fidal (federazione atletica italiana), Pierluigi Fiorella e Giuseppe Fischetto sono stati condannati rispettivamente, a due anni di reclusione e ad una multa di 10.000 euro ciascuno. Una sentenza storica. La prima in cui vengono sanzionati due massimi dirigenti sportivi italiani. Per i due c'è anche l'interdizione dalla pratica della professione medica per due anni e l'inibizione perpetua da incarichi direttivi al Coni e in società sportive. Per Rita Bottiglieri, all'epoca impiegata nella segreteria federale, invece, la condanna è stata di 9 mesi di reclusione e 4.000 euro di multa. Anche per lei l'inibizione perpetua da incarichi direttivi al Coni e in società sportive. Secondo la sentenza tutti e tre erano a conoscenza dell'uso di sostanze dopanti da parte di Alex Schwazer, prima dei Giochi 2012 ma non hanno denunciato i fatti. Inoltre, è stato stabilito un risarcimento di complessivi 15.000 euro nei confronti della Wada: 12.000 euro dovranno essere pagati da Fiorella e Fischetto (6.000 a testa), e i restanti 3.000 sono a carico della dirigente Bottiglieri. I tre, infine, sono stati condannati al risarcimento delle spese legali sostenute dalla Wada. La sentenza contro cui, ovviamente gli interessati hanno già detto di voler ricorrere in appello, è stata più severa delle richieste del pm che per la Bottiglieri aveva chiesto l'assoluzione. Era attesa anche perché costituisce una anteprima assoluta. E' la prima volta che due medici sportivi, inseriti nella dirigenza di una federazione, vengono condannati per favoreggiamento nel doping. "La prima volta in cui per questo reato vengono sanzionate persone diverse dall'atleta ed è molto importante, perché l'atleta spesso è l'ultimo anello della catena", dice Sandro Donati, da sempre in prima fila nella lotta alla farmacia proibita, che Schwazer ha seguito come tecnico quando, scontata la prima squalifica, si è ripresentato per gareggiare. "Cosa farà adesso la Iaaf, la federazione internazionale? Ignorerà la sentenza?". Fischetto è ancora medico del settore sanitario ed ora si trova interdetto a frequentare ambienti sportivi. "Ricordo - aggiunge Donati - che fui proprio io a indicare alla Wada l'11 e 12 luglio del 2012 la necessità di un controllo su Alex. Lui era colpevole per quel doping. Ed ha pagato con la squalifica (tre anni e nove mesi in tutto, n.d.r.). Ora questa sentenza mette in luce anche le responsabilità dell'ambiente e fa inquadrare in una prospettiva ben chiara la presunta seconda positività dell'atleta riscontrata il 1° gennaio 2012".
Una storiaccia. Con coincidenze talmente assurde da far pensare ad un complotto, come lamentano da mesi Schwazer e il suo staff difensivo capeggiato dall'avvocato Brandstaetter. Come, ad esempio, l'incarico dato dalla Iaaf alla ditta tedesca che poi ha svolto il test del 1° gennaio a Racines, avvenuto, secondo le tesi dei difensori di Alex, immediatamente dopo la testimonianza di Schwazer a Bolzano nella quale, svelando tutti i retroscena chiamava in causa proprio i medici federali. Una intercettazione durante l'inchiesta, rivelò tutta la rabbia di Fischetto: "Ha da morì ammazzato questo crucco di merda": la frase, resa pubblica nel docufilm di Repubblica di qualche mese addietro, dice tanto dell'atmosfera che circondava Schwazer all'epoca. Una storiaccia che ancora non si è chiusa. E ancora una volta mentre lo sport assolve (i protagonisti erano stati scagionati dalla Procura antidoping del Coni) la magistratura condanna. Il che deve far riflettere sul ruolo e le capacità di organismi che non hanno alcuna credibilità, perché assolutamente autoreferenziali. Lo sport che controlla se stesso non può funzionare con gli interessi in ballo. "Bella giustizia! - commenta Donati - C'è sempre stata ostilità nei confronti di Schwazer al quale il Tribunale Nazione Antidoping non ha mai dato la possibilita', per il presunto secondo caso (quello del gennaio 2016 per cui il marciatore altoatesino sta scontando una condanna a otto anni, n.d.r.), di un'udienza sportiva in Italia davanti al TNA. Nessuna autorità italiana dell'antidoping italiana è mai intervenuta per difendere Schwazer rispetto alle vessazioni imposte dalla Iaaf e che il Tribunale Arbitrale Sportivo ha subito passivamente come quando ha costretto Alex all'udienza a Rio in piene Olimpiadi e non a Losanna. E' stata colpita vigliaccamente la persona a terra".
Alex Schwazer, il laboratorio antidoping di Colonia nega i campioni di urina al Ris di Parma, scrive Eugenio Capodacqua il 24 Dicembre 2017 su "Libero Quotidiano". Dalla Germania le stanno provando tutte per rinviare un nuovo esame che potrebbe portare una nuova svolta sul caso controverso di doping sul marciatore azzurro Alex Schwazer. Da un anno i campioni di urina prelevati dall'atleta a Vipiteno il 1 gennaio 2016 sono sotto sequestro, conservati e sigillati a 20 gradi sottozero nel Manfred Donike Institut di Colonia. Lo scorso ottobre, come ricorda il Corriere della sera, il Ris di Parma per mano del colonnello GiampieroLago ha chiesto ai responsabili del laboratorio di accertare che in quelle provette ci fosse davvero l'urina di Schwazer, dopo che la rogatoria internazionale del magistrato ri Bolzano, Walter Pellino, era stata trasformata in ordinanza da un giudice tedesco. Con quella comunicazione, il colonnello Lago aveva formalizzato la richiesta di consegna, negata solo tre giorni fa dal direttore del laboratorio di Colonia perché dal punto di vista tecnico quella richiesta è risultata "troppo vaga". La lettera del colonnello dei carabinieri è tutt'altro che vaga, la procedura per l'esame del campione è ben descritta nella disciplina internazionale, quindi ci sono pochi margini di interpretazione da parte dei tecnici tedeschi. La vicenda del marciatore azzurro vira sempre di più verso il mistero dalle torbide venature di politica sportiva. Il laboratorio di Colonia è sotto la Wada, l'agenzia internazionale antidoping, non dovrebbe temere nulla da un nuovo esame di quei campioni e potrebbe dimostrare ancora una volta la propria imparzialità. La stessa Wada però da mesi si è opposta alla richiesta della magistratura italiana e sulla stessa linea si è schierata anche la Iaaf, la federazione mondiale di atletica. Gli interrogativi trovano una risposta tanto chiara quanto amara nella parole dell'allenatore di Schwazer, Sandro Donati: "Il laboratorio di Colonia ha ricevuto l'ordinanza due mesi fa. Perché non ha manifestato subito i suoi dubbi? Perché questo muro di gomma contro una richiesta che non dovrebbe suscitare nessun problema? Cosa nascondono le autorità sportive?". Le domande retoriche di Donati insinuano l'ennesimo dubbio sulla trasparenza degli organi internazionali, c'è qualcuno che teme quelle nuove analisi. E qualche indizio su nomi e cognomi comincia emergere. Come un'email dello scorso febbraio del capo dell'ufficio legale Iaaf, Ross Wenzel, diretta al presidente della commissione medica federale, Thomas Capdevielle, grande accusatore di Schwazer, che confessa la sua preoccupazione per l'eventuale spostamento di quei campioni e spera di riuscire a convincere i responsabili del laboratorio di Colonia a tenerli dove sono. Già la scorsa estate la Wada e la Iaaf impedirono il sequestro di tutte le provette, ma non il prelievo di due campioni. Di norma è una procedura concessa a tanti atleti che tentano un ricorso, in questo caso invece per opporsi alla richiesta dei magistrati italiani sono stati spesi migliaia di euro in cause legali. La faccenda deve stare loro particolarmente a cuore, qualcuno che non ha nessuna intenzione di far emergere la verità contro ogni ragionevole dubbio.
Caso Schwazer, 17 mesi di melina: il test Dna ancora rimandato, scrive il 20 dicembre 2017 “La Repubblica". Diciassette mesi di melina e ancora non si vede giorno. Il test sul dna da cui dipende tanto del futuro di Alex Schwazer non viene ancora fatto, nonostante ci sia un verdetto chiarissimo della Corte di appello di Colonia. E il caso della discussa seconda positività del marciatore altoatesino, (squalificato prima dei Giochi 2016) resta ancora senza soluzione definitiva. Tutto rimandato all’anno prossimo, se non verranno posti altri incomprensibili intoppi. Cosa pensare? Che l’evidente strategia dilatoria della Iaaf, la federazione atletica internazionale, stia producendo i suoi effetti?La misero in evidenza mesi addietro alcune email svelate dagli hacker di Fancy Bear, riprese da molti “media”. Si trattava di 23 messaggi di posta telematica scambiati tra il manager dei controlli antidoping della Iaaf Thomas Capdeville e il consulente legale Ross Wenzel, oltre avvocati e altri dirigenti. Il tema era evidente: identificare la strategia difensiva nei confronti del sequestro richiesto ed ottenuto da parte del Tribunale di Bolzano delle provette del test del 1° gennaio 2016, la cui positività è stata contestata dalla difesa dell’atleta azzurro, che ha apertamente parlato di complotto. Per dirimere la questione si sarebbe già dovuto procedere al test del dna, risolutivo per entrambe le parti. Colpevole o innocente. Definitivamente. Ma le provette sono ancora bloccate in Germania presso il laboratorio di Colonia. In Italia tutto sarebbe pronto, ma quei “benedetti” 6 millilitri del campione B e 9 di quello A ancora non arrivano nel laboratorio dei Ris di Parma. Nonostante il Gip Walter Pelino abbia fatto tutti i passi necessari, nominando il colonnello Giampiero Lago, responsabile del Ris di Parma come perito super partes. Questa volta c’è un evidente ritardo nel coordinamento con Iaaf e Wada che dovrebbero essere presenti a tutte le operazioni di prelievo, sigillatura e trasporto del liquido da analizzare. Così siamo arrivati a Natale tra ricorsi, appelli e sentenze della magistratura tedesca che ha stabilito alla fine la legittimità delle procedura nel rispetto dei diritti della difesa. Ma difficilmente la vicenda vedrà una soluzione prima di gennaio-febbraio prossimi. Eppure sarebbe interesse delle parti risolvere il prima possibile per mettere fine alle ovvie e scandalose polemiche che hanno coinvolto fin qui l’atletica mondiale. Dall’analisi dei fatti emerge come Iaaf e Wada abbiano più o meno seguito la stessa strada. Ma è una circostanza sconcertante. Infatti, se da una parte la Iaaf risulta controparte dell’atleta e di fatto si è opposta ferocemente alle nuove analisi sulle provette; la Wada, almeno, dovrebbe essere “neutra”. Cioè esercitare quella terzietà che è l’elemento più discusso e mancante nel sistema antidoping mondiale. E questo sconsolante quadro, che mina i fondamentali della giustizia, è complicato da fatto che la Corte d’appello di Colonia non ha fissato, nella sua ordinanza, una data precisa per la consegna delle urine da parte del laboratorio. Favorendo così chi la vuole tirare per le lunghe. Ora si attendono ulteriori contromosse da parte della Procura di Bolzano.
Quelle strane mail del caso Schwazer. (Un articolo importante di Sarah Franzosini, per Salto.bz del 6 luglio 2017). Il vento fa il suo giro. La parabola discendente di Alex Schwazer potrebbe ora subire una svolta. I fatti: il 29 giugno scorso il colpo di scena, gli hacker russi di “Fancy Bear” si impossessano di 23 e-mail sottratte alla Iaaf, la Federazione internazionale di atletica leggera. Le mail vengono scambiate nel corso di tre mesi (da gennaio a marzo 2017) fra l’antidoping senior manager della Iaaf Thomas Capdevielle e il consulente legale Ross Wenzel, membro dello studio di Losanna Kellerhals Carrard (che insieme a Huw Roberts, dello studio londinese Bird & Bird, si occupa del caso Schwazer), con il coinvolgimento di altri avvocati e dirigenti della Iaaf e del laboratorio di Colonia, dove ancora si trovano le provette “incriminate” con i campioni di urina. Occorre infatti ancora accertare se l’urina dell’esame sia effettivamente quella di Schwazer e se non ci sia stato un inquinamento “esterno” o altri tipi di alterazione. Il marciatore, infatti, sostiene che qualcuno gli abbia dato la sostanza di nascosto o modificato la provetta. Le e-mail in questione avvalorerebbero l’ipotesi di un complotto ordito per mettere fuori dai giochi l’atleta, come da tempo denuncia il suo ex tecnico Sandro Donati. Il 10 agosto 2016 Alex Schwazer viene squalificato per 8 anni dal Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) di Losanna – dopo aver scontato tre anni e nove mesi per il doping all’epo (abbreviazione di eritropoietina, un ormone che controlla la produzione di globuli rossi nel sangue) del luglio 2012 -, una sentenza che gli impedirà di partecipare alle due discipline della marcia previste alle Olimpiadi di Rio, e cioè i 20 e i 50 chilometri; e che porrà di fatto fine alla sua carriera agonistica. Sono i contorni di una storia lacunosa che sfumano ulteriormente alla luce delle ultime rivelazioni.
La prima e-mail è datata 17 gennaio 2017, giorno in cui il giudice per le indagini preliminari di Bolzano, Walter Pelino, stabilisce che l’esame del DNA di Schwazer si farà, complice una rogatoria internazionale, presso il laboratorio dei Ris dei carabinieri di Parma. L’incarico viene conferito al colonnello Giampietro Lago e al professor Marco Vincenti, chimico dell’università di Torino e presidente del laboratorio antidoping piemontese. Katherine Brown, legale della WADA (l’Agenzia mondiale antidoping) di Losanna, scrive ai vertici del laboratorio di Colonia, Wilhelm Schänzer e Hans Geyer, inviando loro una lettera del direttore antidoping della WADA Julien Sieveking e il verbale dell’incidente probatorio chiesto dalla difesa di Schwazer. Schänzer e Geyer prendono tempo – suscitando una certa insofferenza da parte di Losanna – e dopo 10 giorni rispondono che contatteranno il loro avvocato, il dottor Sartorius. Scattano i primi dubbi sulla neutralità della WADA: l’Agenzia starebbe tentando di condizionare il laboratorio di Colonia, accreditato peraltro dalla stessa WADA, al fine di accontentare la Iaaf che vuole impedire l’esame del DNA di Schwazer in un circuito neutro, a Parma, ovvero in un laboratorio che non sia controllato dalla WADA. Come evitare allora che le analisi vengano svolte in Italia? L’idea è quella di procedere rivolgendosi al tribunale di Colonia ma sorge un problema. La sede della Iaaf è a Montecarlo e il Principato di Monaco non fa parte dell’Unione europea e perciò non può intercedere presso i giudici di Colonia. Dopo diverse ipotesi vagliate nel successivo febbrile scambio di e-mail fra i legali della Iaaf, Wada e Colonia per cercare una soluzione, si alza bandiera bianca.
Un primo, clamoroso, espediente emerge nell’e-mail del 9 febbraio.Ulrich Leimenstoll, avvocato della Iaaf di Colonia che si occupa del caso Schwazer insieme al collega Björn Gercke, scrive a Ross Wenzel: “Se sei d’accordo darei il testo della memoria al Dr. Sartorius, cosicché il laboratorio possa lavorare su una dichiarazione ‘armonizzata’ [con la nostra]”. In sostanza il laboratorio della città della Renania viene “imbeccato” allo scopo di sottoscrivere una linea quanto più possibile coincidente con quella della Iaaf. Se non è collusione questa. Il 10 febbraio Ross Wenzel contatta Thomas Capdevielle e cita i punti principali della memoria che sarà inviata al tribunale di Colonia. Per la Iaaf l’analisi della provetta deve avvenire nell’ambito sportivo e dunque per evitare l’entrata in scena del Reparto Investigazioni Scientifiche (Ris) dei carabinieri di Parma ecco il colpo di genio: fare riferimento al fatto che Schwazer sia stato un ex carabiniere e abbia gareggiato per l’Arma in diverse occasioni, insinuando dunque un presunto conflitto di interessi e la minaccia di eventuali manipolazioni dei campioni. Nel passaggio successivo della mail, tuttavia, la stessa Iaaf arriva a ritenere difficile la condanna di Schwazer per doping intenzionale in sede penale, in quanto “tutti gli esperti del caso concordano che non è possibile distinguere fra uso volontario e involontario” di certe sostanze.
Ma ce n’è per tutti. Il prossimo malcapitato finito sulla lista nera della Iaaf è il professor Donati. Ancora un botta e risposta fra Leimenstoll e Wenzel Ross: un altro motivo per allontanare l’incubo Ris di Parma è alludere al fatto che l’allenatore di Schwazer abbia uno stretto contatto con la polizia italiana definita uno “sponsor”, tanto che “la scritta ‘Carabinieri’ appare regolarmente sulla maglia dell’atleta”. Qualcosa scricchiola in casa Iaaf. Il tentativo di dimostrare una oscura connessione fra i carabinieri, Schwazer e Donati suona quasi disperato, tanto che il legale Huw Roberts sconsiglierà di seguire questa strategia. E infatti il passaggio in cui si fa riferimento al presunto legame fra l’ex coach Donati e i carabinieri verrà tolto dal testo della memoria presentato dalla Federazione per il ricorso presso la Corte d’Appello di Colonia. Non solo. L’avvocato Sergio Spagnolo (per la Iaaf di Milano) mette in guardia, in una mail del 14 febbraio, il nostro Ross Wenzel: se la Iaaf continua a fare ostruzionismo circa lo spostamento delle provette la magistratura, oltre che la stampa, potrebbe giudicare “negativamente questo tipo di approccio”, e concludere che “i sospetti di Schwazer possano essere in qualche modo confermati o che la Iaaf stia cercando di ‘nascondere qualcosa’”. Ross Wenzel risponde prontamente: “Invierò senz’altro la vostra e-mail alla Iaaf ma è escluso che la Federazione non faccia tutto quanto è in suo potere per evitare che i campioni non sigillati vengano consegnati al laboratorio dei carabinieri”. Poco dopo il consulente legale avverte Capdevielle: “Comincio a chiedermi se [gli avvocati italiani] siano dalla nostra parte…”.
Nel cast dell’ingarbugliata pièce fa la sua comparsa Luciano Barra, ex segretario della Fidal ed ex membro del Coni già noto alle cronache, come noto è il suo risentimento nei confronti di Schwazer e Donati. Nell’aprile 2016 Barra manda una lettera aperta al numero uno della Fidal Alfio Giomi implorandolo di non iscrivere l’atleta altoatesino alla Coppa del Mondo di Marcia che si sarebbe tenuta a Roma l’8 maggio successivo. In quell’occasione Schwazer vince la 50 chilometri con un tempo di 3 ore e 39 minuti qualificandosi per i Giochi di Rio. Un trionfo effimero, visto che a giugno verrà ancora sospeso dalla Iaaf dopo essere risultato positivo a un nuovo test antidoping. In una e-mail di Capdevielle del 14 febbraio indirizzata al suo interlocutore preferito, Ross Wenzel, si prospetta l’eventualità di inviare il testo della memoria presentata ai giudici di Colonia, guarda caso, a Barra. Il motivo? Non pervenuto, ma non è difficile intuirlo data la sua avversione per il duo Donati-Schwazer. Il 20 febbraio l’ennesimo, significativo, “carteggio” fra il consulente legale e Capdevielle: “Il laboratorio di Colonia sta cercando di restare neutrale, ma sarebbe utile se fosse disposto a sostenere in una certa misura la nostra posizione”, afferma il consulente svizzero. La replica di Capdevielle: “Non si rendono conto di essere parte della trama contro AS [Alex Schwazer, ndr] e delle potenziali conseguenze per loro? Hans [Geyer] ha probabilmente bisogno di ulteriori informazioni base”. E infine il cliffhanger. Scrive Ross Wenzel: “Credo di essere riuscito a convincerli”.
“L’antidoping e l’arroganza del potere”. L’ex allenatore di Schwazer Sandro Donati sulle e-mail hackerate dai russi, il plausibile complotto, l’impudenza della IAAF, le colpe dei media e i conti che non tornano. L'intervista di Sarah Franzosini del 7.07.2017 su salto.bz:
Professor Donati, le e-mail hackerate dai russi di “Fancy Bear” che sembrano aver svelato il cosiddetto trappolone in cui è caduto il suo protetto, Alex Schwazer, danno nuova linfa alla vostra instancabile ricerca della verità, qual è stata la sua reazione quando ha letto il contenuto di questa corrispondenza?
«Mi piacerebbe innanzitutto capire quanto è stato difficile per i media reperire queste e-mail».
Non lo è stato affatto.
«Ecco, sono sicuro che i giornali che le hanno ricevute si siano autocensurati perché è piuttosto singolare che non siano state ancora pubblicate su larga scala. Ma ciò non mi stupisce».
Che intende?
«Il giornalismo sportivo è del tutto satellitare alle istituzioni sportive. Ricordo che la Gazzetta dello Sport fu invece la prima a dare la notizia della sentenza del TAS di Losanna che comminò a Schwazer 8 anni di squalifica, trattando quella sentenza come l’oro colato mentre sul Corriere della Sera, lo stesso giorno, venne pubblicato un articolo che quantomeno evidenziava i punti oscuri della vicenda ai quali la sentenza non aveva dato risposta. Il punto è che chi questa manipolazione l’ha attuata la difende, mentre le Istituzioni sportive che non l’hanno messa in pratica difendono la IAAF, per tutelare loro stessi e il sistema sportivo, e qui sta la perversione».
Cosa rappresentano queste e-mail in termini di strategia difensiva, a questo punto?
«Senza dubbio un contributo nuovo. Intanto mettono in evidenza questo affannoso assemblaggio delle forze che la IAAF ha attuato - probabilmente anche con un forte intervento della WADA - per poter fare pressione sul laboratorio di Colonia perché le provette con l’urina di Schwazer rimanessero dov’erano, e credo che questo genererà nei giudici una pessima impressione su tali organismi. È chiaro che se verrà fuori che c’è stata una manipolazione dei campioni, l’intero sistema antidoping andrà in crisi. Il punto è che chi questa manipolazione l’ha attuata la difende, mentre le Istituzioni sportive che non l’hanno messa in pratica difendono la IAAF, per tutelare loro stessi e il sistema sportivo, e qui sta la perversione. Quando gli stessi avvocati della IAAF riconoscono nelle email che con quelle prove a disposizione non è possibile dimostrare il doping volontario siamo già di fronte a un’ammissione che stride in maniera incredibile con quegli 8 anni di squalifica che sono stati dati a Schwazer. E poi c’è quel nome, che non è un nome qualunque».
Si riferisce a Luciano Barra, presumo. Ma che ruolo ha avuto lui in tutta questa storia?
«Barra è stato il segretario generale della Federazione di atletica negli anni ’70-’80, fino al 1987, quando venne sollevato dal suo incarico proprio in seguito alla mia denuncia riguardo la manipolazione della gara di salto in lungo di Giovanni Evangelisti nel campionato del mondo di atletica del 1987 di Roma. In quella circostanza la Federazione di atletica decise che bisognava, come dire, rimpinguare il bottino dei trofei inventandosi delle medaglie. Evangelisti (peraltro all’oscuro della trama) era un grande campione ma quel giorno non era nelle condizioni fisiche di offrire una prestazione di alto livello. La competizione venne quindi truccata, con i giudici che decisero la misura da assegnare a Evangelisti in modo che vincesse la medaglia di bronzo senza disturbare il primo posto, che fu conquistato dall’americano Carl Lewis, e il secondo, agguantato dal sovietico Robert Emmyan. Le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, dunque, non erano state toccate e l’Italia si era “accontentata” di occupare il terzo posto. Io denunciai e dimostrai l’avvenuta manipolazione della gara e ne nacque uno scandalo internazionale di gigantesche proporzioni. La Federazione internazionale fu costretta ad annullare il risultato, il Coni nominò una commissione d’inchiesta e Barra perse il suo incarico e quindi anche la sua posizione di potere all’interno della Federazione. Anche se è passato molto tempo da allora, è evidente dai fatti che questo signore nutre ancora risentimenti e motivi di rivalsa nei miei confronti».
Ritiene che l’ex segretario della Fidal sia stato un interlocutore abituale nella vicenda Schwazer?
«Sì, è chiaro dalla serie di atti ostili diretti a Schwazer che ha esplicitato dal settembre 2015 fino all’aprile 2016 e credo che la sua opinione sia stata tenuta in grande considerazione in determinati ambienti. Il suo nome nella e-mail, se non sarà smentito o spiegato adeguatamente, diventa inquietante perché, come detto, Barra si era speso molto per impedire in tutti i modi possibili il ritorno alle gare di Schwazer. All’inizio aveva parlato di un’operazione di marketing, successivamente, una volta fatto fare ad Alex un test di allenamento in cui era andato fortissimo, vestì i panni del tecnico e divulgò urbi et orbi alcuni fotogrammi per dimostrare che Schwazer non marciava ma correva, salvo poi essere smentito dai fatti, quando Alex tornò da dominatore nelle gare con una tecnica di marcia valutata dai giudici come perfetta. E poi ancora Barra è intervenuto il 28 aprile 2016 presso il presidente della Fidal supplicandolo di non mettere l’atleta in squadra per i campionati del mondo. Quali elementi a sua conoscenza gli consentivano di attuare una simile pressione?»
Come commenta questa insinuazione, poi di fatto depennata dalle carte ufficiali, della sua presunta connessione con i carabinieri?
«È grottesco e gli stessi avvocati della IAAF hanno avuto poi il buonsenso di ometterla nella loro memoria indirizzata al giudice. Quanto all’altra insinuazione secondo la quale i Carabinieri sarebbero pronti ad aiutarlo in quanto ex carabiniere è piuttosto penosa e dimostra anche un’ignoranza crassa dei fatti. Ricordiamoci che Schwazer è stato immediatamente allontanato dall’Arma dopo la positività all’epo del 2012. Mentre altri atleti che hanno avuto problemi di doping, come per esempio il maratoneta Alberico Di Cecco, sono rimasti carabinieri. Se questa è una dimostrazione di favoritismo… L’impressione è quella di un’istituzione sportiva autoreferenziale, abituata a decidere per conto proprio con i cosiddetti organi di giustizia sportiva che in molti casi è assolutamente sommaria e che quando si deve misurare con la giustizia ordinaria mostra insofferenza, volontà di sottrarsi al giudizio, ritenendosi al di sopra o al di fuori di quel circuito».
Come se ne esce, allora?
«Credo che su questi organismi sia il caso di riflettere anche perché, muovendosi su scala internazionale, rischiano di porsi al di sopra degli ordinamenti giudiziari degli Stati. È indicativo che nel presentare le loro argomentazioni la IAAF abbia scritto qualcosa come “le provette sono di nostra proprietà, inoltre è il sistema sportivo che ha le competenze per fare le valutazioni del caso”, omettendo di precisare che quelle competenze se le sono auto-attribuite. Sarò ancora più chiaro: i laboratori antidoping, che sono 25 in tutto il mondo, hanno competenza specifica per ricercare le sostanze doping. Ma nel caso Schwazer si tratta di analizzare il DNA, che è un’altra cosa. E il DNA non è compreso nelle ricerche dei controlli antidoping, salvo rarissimi casi, perciò vantare la competenza esclusiva anche su questo aspetto è un’affermazione autoreferenziale che non ha alcun riscontro con la realtà. Al contrario, nei laboratori delle forze di polizia impegnati come sono nelle analisi relative a fatti criminali, l’esame del DNA è una consuetudine consolidata. È chiaro dunque che il gip di Bolzano si sia rivolto al Ris di Parma che è il principale laboratorio italiano per l’accertamento di fatti criminali. Tornerò prima o poi sul mio passato rapporto con la WADA, perché se pensano che sia finita qui si sbagliano di grosso».
Ma il laboratorio di Colonia non aveva nessuno motivo per opporsi all’esame del DNA delle provette in Italia, non è così?
«Non ne aveva. E di fatto inizialmente Colonia non si è espressa contro un eventuale prelevamento dei campioni. Ciò significa, a mio parere, che il laboratorio di Colonia è estraneo a qualsiasi manipolazione ma nel contempo è diventata sciaguratamente allarmante questa pressione eseguita dalla IAAF. Va anche precisato che il laboratorio non è in una posizione di autonomia finanziaria sia perché dipende dal lavoro che gli viene commissionato proprio dalle federazioni internazionali, sia perché è coordinato e finanziato dalla WADA. Quella di Schwazer è una storia emblematica che fa capire che l’antidoping non è ormai più un’attività da portare avanti per il senso dell’etica e delle regole, ma è potere, e a seconda di come questo potere viene gestito si favorisce l’uno o l’altro, e si ‘eliminano’ a piacimento gli avversari scomodi. In ogni caso, vede, io tornerò prima o poi sul mio passato rapporto con la WADA, perché se pensano che sia finita qui si sbagliano di grosso».
Cioè?
«Fornirò tutti i dettagli su ciò che io ho fatto in 13 anni per la WADA e sul fatto che improvvisamente l’Agenzia abbia preso le distanze da me e allora la storia la racconteremo tutta, ma adesso non è il momento perché dobbiamo portare avanti la nostra battaglia per la verità».
Come ha vissuto quest’ultimo anno?
«In modo terribile, essere vittime di un atto infame come questo è orrendo. Molti dimenticano che è la seconda volta che vengo coinvolto in uno “strano” caso di doping. Nel 1998 una mia atleta, Anna Maria Di Terlizzi, fu dichiarata positiva alla caffeina, positività che venne contraddetta nelle controanalisi. E fu smentita solo perché alcuni tecnici di laboratorio mi avvertirono di una possibile manomissione del campione di urina e mi dissero di nominare per la controanalisi un chimico che non si allontanasse mai dalle apparecchiature. Il risultato che emerse fu clamoroso: non c’era caffeina nel campione B dell’atleta».
Basta avere un po’ di memoria storica per collegare i fatti, dice.
«Esatto. Non è strano che l’unico caso, nella storia dell’antidoping, in cui ci si è trovati di fronte a un campione B risultato diverso dal campione A perché manipolato, abbia riguardato me? E che per la seconda volta, con l’oscuro caso Schwazer, capiti di nuovo proprio a me? Pensi che il caso di Anna Maria Di Terlizzi vorrebbero derubricarlo a un incidente, cercando di accreditare la tesi secondo la quale il medico durante il prelievo abbia involontariamente contaminato un campione. Guarda caso il campione di un’atleta allenata dalla persona che aveva denunciato la scellerata collaborazione tra il CONI, le Federazioni sportive e il professor Conconi. Questa è l’arroganza della gestione del potere da parte dell’antidoping. Mi viene da pensare che ormai da tempo o forse da sempre i media non facciano il loro lavoro di osservazione critica delle istituzioni».
Non ha più allenato nessuno dopo Schwazer, come aveva annunciato lo scorso anno?
«No, per me non è possibile mettere a repentaglio la carriera sportiva di un altro atleta per il fatto che io sono stato preso di mira. Ma è chiaro che se la vicenda Schwazer si concluderà con l’emersione della verità cambieranno molte cose nel sistema antidoping».
Per esempio?
«Farò capire a tutti gli atleti che devono tutelarsi, hanno diritto ad avere una terza provetta che poi potranno consegnare a un laboratorio di loro fiducia, perché ora è tutto nelle mani di questo potere dell’antidoping che evidentemente non dà alcuna garanzia assoluta di correttezza una volta prelevati i campioni. Quella della IAAF è la storia recente di un presidente e di un responsabile antidoping a libro paga dei russi e anche da questo punto di vista i media dello sport hanno fatto una figura penosa».
Per quale motivo?
«Perché hanno omesso di raccontare o hanno minimizzato la descrizione di questo sistema di corruttela e le sue conseguenze. Hanno disgiunto il caso Schwazer dallo scandalo dell’alta dirigenza della IAAF corrotta dai russi e allora mi chiedo, il problema sono i russi o le istituzioni corrotte? Questo è il punto di vista sul quale ho fatto ruotare tutta la mia vita, perché fin dall’inizio mi sono reso conto del marcio che c’era nel sistema. Ma anche di questo parlerò in futuro. Mi viene da pensare che ormai da tempo o forse da sempre i media non facciano il loro lavoro di osservazione critica delle istituzioni, e se questo cerca di farlo una singola persona succede che viene bersagliata e si tenta di distruggerla anche sul piano della credibilità, come dimostra la vicenda Schwazer. Ma hanno sottovalutato il fatto che io non avrei mollato la presa. Del resto avevo in mano tutti gli elementi chiave per essere certo che Alex non si era dopato, non ne aveva bisogno, perché è un fuoriclasse e perché era ben allenato. È uscito sempre pulito da quella miriade di controlli a sorpresa che gli hanno fatto da ottobre 2015 a giugno 2016; perché mai avrebbe preso micro-dosi di testosterone, ininfluenti ai fini della prestazione, solo durante le vacanze di Natale? Chiunque avrebbe dovuto capire dall’inizio che questa storia non reggeva. Alex per me non è stato una gallina dalle uova d’oro, è un ragazzo che mi ha chiesto aiuto e io gliel’ho fornito e continuerò a fornirglielo in futuro se ne avrà necessità».
Vede finalmente una possibilità di riscatto per Schwazer?
«Me lo auguro. Alex è un ragazzo meraviglioso che nel 2012 ha commesso un errore e questo gli rimane come responsabilità. Ma c’erano anche molte persone intorno a lui che sapevano e hanno fatto finta di non vedere, tant’è vero che a Bolzano è in corso un procedimento giudiziario in cui due medici sono imputati per favoreggiamento. Schwazer si è dopato in un periodo in cui era sotto cura con degli anti-depressivi e invece di preoccuparsi di capire le cause di questo suo disagio chi gli stava attorno ha continuato a vederlo soltanto come un produttore di risultati e medaglie. Ho scoperto poi, seguendolo come allenatore, che era stato allenato in maniera ridicola ed era peggiorato al punto da perdere ogni speranza. Nel momento in cui ho iniziato a seguire questo atleta ho capito che aveva un potenziale e delle doti fuori dal comune. Alex per me non è stato una gallina dalle uova d’oro, è un ragazzo che mi ha chiesto aiuto e io gliel’ho fornito e continuerò a fornirglielo in futuro se ne avrà necessità. Il colmo è che io stesso ho segnalato alla WADA i miei sospetti su di lui prima di Londra 2012 con due precise email che sono in grado di esibire in qualsiasi momento. E grazie a queste due mail è scattato il controllo che ha portato alla sua positività. Non bastava questa credenziale per ascoltare almeno un poco le mie parole quando, dopo l’ultimo scandalo, ho affermato con forza che era pulito e che in questa putrida storia si sarebbe dovuto scavare molto più a fondo?»
Io mi schiero con Alex. Schwazer ha avuto il coraggio di cadere e di risorgere con le proprie forze. Ecco perché non crederò mai alla sua nuova colpevolezza, scrive Susanna Tamaro il 15 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Sono stata una praticante di atletica e l’atletica, fra tutti gli sport, è forse quello che seguo con maggiore passione, per questo la vicenda di Alex Schwazer mi ha colpito in modo particolare. Ricordo ancora le sue lacrime durante la conferenza stampa del 2012, mentre ammetteva pubblicamente la sua colpevolezza. Vedendole avevo pensato subito che quelle lacrime non avevano nulla di mediatico, c’era una vera disperazione in quei singhiozzi fuori controllo, la disperazione di chi si rende conto di aver tradito la parte più profonda e vera di se stesso. La parabola di Alex era quella di un ragazzo onestamente fragile. Aveva vinto l’oro olimpico a ventiquattro anni, con il conseguente peso di un’improvvisa fama mondiale. Non è facile reggere la fama, bisogna essere molto forti, molto distaccati, circondati da persone che ti amano e sono in grado di proteggerti, ed è molto difficile esserlo a ventiquattro anni. La tensione dei media, gli sponsor, la continua attesa di un risultato sempre eclatante possono provocare in una persona sensibile uno stato di enorme stress. E con lo stress cresce l’ansia. L’ansia di non farcela, di non essere all’altezza. Ed è su quest’ansia che facilmente si insinuano i cattivi consiglieri. Quattro anni fa Alex Schwazer dunque ha sbagliato per ragioni umanissime. Ammesso il suo errore, si è ritirato con dignità dalla scena pubblica. In quel silenzio, in quell’ombra deve aver sceso tutti i gradini della dannazione; toccato l’ultimo, ha preso la decisione che solo i grandi sono capaci di prendere: la sfida di risalire contando solo sulle proprie forze. Sono stata felice quando ho saputo che si allenava anonimamente per le strade di Roma, in solitaria, senza sponsor, carico solo del grande furore che alimenta le sfide con se stessi. E sono stata ancora più felice quando, ai Mondiali a squadra di marcia del 2016, ha vinto la 50 chilometri, ottenendo la qualificazione per i giochi olimpici di Rio. In questi tempi proni al cinismo, al menefreghismo, alle continue scorciatoie dell’opportunismo, in questi tempi che sbeffeggiano ormai anche il minimo barlume di coscienza e che ritengono la nobiltà d’animo nient’altro che un antico orpello, la parabola di Alex Schwazer era un meraviglioso esempio di come una persona degna di questo nome potesse essere in grado di cadere e di risorgere facendo leva soltanto sulla sua forza d’animo. Per questa ragione, quando è stata sventolata sotto gli occhi avidi dei media quella anomala provetta giramondo — che vorrebbe ributtare l’atleta nell’arena del lerciume — ho avuto una reazione di assoluto rifiuto. Non per Schwazer, ma per il mondo sordidamente sinistro che sta cercando di fagocitarlo, un mondo senza scrupoli legato evidentemente a una complessità di interessi molto lontani dall’appassionato candore dell’atleta. E i media ci si sono tuffati con la potenza degli avvoltoi, il becco uncinato già pronto a dilaniare le carni. Avete visto? Anche questo non era altro che un bluff, fumo negli occhi per coprire tutto il marcio che c’era sotto. Vi eravate illusi che ci fossero le persone per bene? Ricredetevi! Non c’è altro che finzione sotto il sole! Grazie alle provette, grazie alle intercettazioni, tutti prima o poi sono costretti a mostrare il loro vero volto, che altro non è che quello della corruzione. Vite distrutte, carriere rovinate, con il conseguente dilagare ormai inarrestabile dell’impoverimento delle competenze in ogni campo. Nel nostro Paese, l’essere appassionati alla propria vocazione è una condizione estremamente rischiosa. Più energia uno mette nella propria attività infatti, meno ne mette negli intrallazzi, e quando si accorge di questa grave carenza è spesso troppo tardi perché, intanto, coloro che appassionati e talentuosi non sono hanno lavorato alacremente con un unico scopo, quello di fare cadere l’incauto distratto. Questa consorteria comprende in sé un’estesissima varietà che va dal mediocre vicino di scrivania fino alle grandi organizzazioni opache che ormai controllano capillarmente tutto ciò che succede nel mondo. Penso, tanto per citare qualche esempio recente, al vergognoso caso della virologa Ilaria Capua, accusata di essere una trafficante di virus per biechi motivi commerciali, vituperata, insultata sui giornali, per poi venire, dopo due lunghi anni, totalmente assolta. Naturalmente la lista di vittime è lunga e nei tempi a venire — in questo mondo che non sa che cosa sia la giustizia ma è sempre più giustizialista — diventerà lunghissima. I forni manzoniani mediatici forniranno sempre nuovo e più attraente materiale da gettare in pasto agli affamati cultori del disgusto. Perché Alex avrebbe dovuto fare una cosa così idiota? Personalmente non crederò alla nuova colpevolezza di Schwazer neanche se mi si sventolasse sotto il naso un ettolitro di sangue in provetta sfavillante di testosterone. Per quale ragione una persona come lui, che avuto il coraggio di cadere e di risorgere, avrebbe dovuto fare una cosa così totalmente idiota? So che ormai è una cosa piuttosto fastidiosa da dire, ma esiste una complessità della persona e dunque, se vogliamo usare una parola grossa, dell’anima, che non è piegabile all’onnipotente forza del rendiconto, della doppiezza, della manipolazione. Da questa complessità nascono la poesia, la letteratura, l’arte. Da questa stessa complessità nascono gli eroi. E gli atleti — quando sono tali — appartengono nel nostro immaginario proprio a questa categoria. Di solito non twitto, se non con i miei canarini, ma per gli appassionati del genere sono pronta a lanciare un hashtag: #IostoconAlex.
Atletica e doping, quelle telefonate per fermare Schwazer. "Lasci vincere i cinesi". Verso Rio 2016. Prima delle gare, pressioni sul marciatore poi sospeso. Sandro Donati registrò tutto: "Era un giudice vicino ai Damilano". La procura di Roma ha aperto un fascicolo, scrive Attilio Bolzoni il 27 luglio 2016 su "La Repubblica". I Misteri del "caso Schwazer" non si inseguono solo lungo i tortuosi percorsi che portano una provetta nei laboratori di Colonia. Alla vigilia delle Olimpiadi di Riosi scopre che qualcuno ha tentato di "aggiustare" due gare molto importanti, la Coppa del Mondo di Roma dell'8 maggio e il Gran Premio di La Coruna di venti giorni dopo. Quel qualcuno è un giudice internazionale di marcia. Le paure denunciate due settimane fa dal maestro dello sport Sandro Donati ("Sono minacciato, temo per me e anche per la mia famiglia") intorno alla nuova e assai sospetta "positività" di Alex Schwazer e alle manovre di "consorterie criminali " legate ad alcuni dirigenti della Federazione Internazionale di Atletica, prendono forma in alcune telefonate che sono state segnalate all'autorità giudiziaria e alla commissione parlamentare antimafia. Sono due conversazioni in particolare, ricevute da Donati e nelle quali il suo interlocutore - un personaggio molto noto nel mondo dello sport - lo "consigliava" di tenere a freno il suo atleta nelle competizioni dove sarebbe ricomparso dopo la lunga squalifica per il doping all'Epo del 2012. La prima è del 7 maggio scorso, a poche ore dalla Coppa del mondo di marcia di Roma sui 50 chilometri. Sono le 6,05 del mattino. Donati sta dormendo, lo squillo del telefono lo sveglia. Sente la voce di un giudice internazionale di marcia "molto vicino a Sandro Damilano". L'uomo si scusa per l'ora, parla della serata precedente passata "con tutte le vecchie glorie" poi gli sussurra: "La prego, glielo dica (ad Alex Schwazer, ndr) ancora una volta fino a prima della gara, possibilmente lasci vincere Tallent, mi capisce?". Jared Tallent è il marciatore australiano che appena un paio di settimane prima - il 28 aprile, giorno della fine della squalifica di Schwazer, aveva dichiarato: "Lui è la vergogna d'Italia, ora rientra lui e poi i russi: così è come ridere in faccia agli atleti puliti". Il giorno dopo la telefonata mattutina - e dopo 3 anni e 9 mesi di squalifica - Alex Schwazer trionfa alle Terme di Caracalla. Seconda prestazione mondiale stagionale con 3h39'00, dietro di lui Tallent a più di tre minuti e mezzo. La seconda telefonata ricevuta da Sandro Donati è del 23 maggio, cinque giorni prima della gara di La Coruna sui 20 chilometri. È sempre lo stesso giudice internazionale di marcia che richiama l'allenatore di Schwazer. Questa volta gli suggerisce di non rispondere agli attacchi di alcuni atleti, "e di non andare a cercare disgrazie con i due cinesi che sono da 1 ora e 17 minuti...". A La Coruna il marciatore altoatesino arriverà secondo dietro il cinese Whang Zhen. Avvertimenti e pressioni. C'era molta agitazione intorno al rientro alle gare di Schwazer e ce n'è ancora di più oggi dopo la scoperta - comunicata solo il 21 giugno - di una nuova positività a "lievi tracce di testosterone". Un campione di urina partito il 1° gennaio 2016 da Racines - a pochi chilometri da Vipiteno, dove l'atleta abita - e arrivato 26 ore dopo in un laboratorio di Colonia. Un itinerario fantasma della provetta, una documentazione approssimativa, un ritardo estremo nella notifica del risultato. E una difesa incomprensibilmente negata ad oltranza dalla Federazione internazionale di atletica. Alex Schwazer e i suoi avvocati non hanno mai potuto discolparsi davanti ai giudici, fornire controprove, rappresentare le proprie ragioni. Lo faranno soltanto il 4 agosto prossimo a Rio, luogo e data imposti dalla stessa Federazione Internazionale di Atletica che si è sottratta all'udienza che si sarebbe dovuta svolgere a Losanna proprio oggi. Un processo senza processo. Un vero intrigo, per i tempi e le modalità di esecuzione. Che ha convinto la presidente della commissione antimafia Rosi Bindi a convocare il 14 luglio scorso Sandro Donati a Palazzo San Macuto - audizione integralmente secretata - e che ha portato lo stesso allenatore di Schwazer a presentarsi qualche ora dopo nelle stanze del procuratore capo Giuseppe Pignatone e del suo aggiunto Lucia Lotti. Aperto un fascicolo. Ma non sono soltanto quelle due telefonate a rendere maleodorante questa vicenda di sport che si presenta ogni giorno di più come una storia di malaffare, incrocio fra interessi economici e criminali tenuti insieme da una piccola grande Cupola di burocrati e faccendieri. È lo spaccato di un mondo che alla vigilia delle Olimpiadi di Rio vi racconterà Repubblica in un documentario dal titolo Operazione Schwazer, le trame dei signori del doping, 20 minuti che ricostruiscono tutte le stranezze del controllo di Capodanno effettuato a Racines, il fondo melmoso dove si muovono alcuni personaggi dell'atletica italiana, i clamorosi casi di corruzione che coinvolgono i loro amici che erano ai vertici della federazione internazionale. E poi medici "supervisori" per l'antidoping sotto processo per avere favorito il doping, data-base con i nomi di tutti quelli in fila alla farmacia proibita, clan familiari dove spudoratamente si ritrovano controllori e controllati. Maurizio Damilano, presidente della commissione marcia della Iaaf. Sandro Damilano, allenatore della nazionale cinese. Due fratelli.
Atletica, caso Schwazer; Donati: "Dal mondo dello sport un silenzio assordante". L'allenatore del marciatore altoatesino è stato ascoltato presso la Commissione Antimafia della Camera. Il precedente: "Diciannove anni fa seguivo una ostacolista pugliese, Annamaria Di Terlizzi, e fu manipolata la sua urina. Stavolta, probabilmente, l'hanno fatta in maniera un po' più professionale". Tas: "L'atleta ha il 20% di chance di andare a Rio", scrive "La Repubblica" il 14 luglio 2016. Sandro Donati va all'attacco. Il tecnico di Alex Schwazer, coinvolto nel noto caso di doping e sospeso dalla Federazione internazionale di atletica leggera, è stato ascoltato presso la Commissione Antimafia della Camera dei Deputati. Al termine le sue parole sono dure: "Il sostegno è venuto dalle procure della Repubblica e dalla Commissione parlamentare antimafia, ma sul caso Schwazer dalle istituzioni sportive ho sentito un silenzio assordante o ironie di pessimo gusto. Schwazer è stato descritto come un bipolare, un uomo dalla doppia personalità. Io lo conosco da oltre un anno e chi lo frequenta lo trova un ragazzo semplice, coerente, che non ha nulla di strano, eppure è stato creato un quadretto: 'Se lo ha fatto in passato lo avrà fatto di nuovo'. In questo modo si cerca di coprire l'enormità di questo controllo antidoping assurdo, con una tempistica che da sola rappresenta la firma dell'agguato". Donati ha poi replicato a chi gli chiedeva perché le istituzioni sportive italiane non difendano Schwazer: "Perché non vogliono mettersi contro la Iaaf -ha spiegato- una istituzione internazionale. Mi sono rivolto pubblicamente a Sebastian Coe affinché dia una spallata per il cambiamento: non può lasciare all'interno gente compromessa, gente che ha preso dei soldi per nascondere i casi di doping. Io con questa schifezza non ho niente a che vedere e invece mi ritrovo mail intimidatorie: non mi rendevo conto che allenare Schwazer, un fenomeno assoluto, farlo andare così forte senza doping sarebbe diventata una esperienza esplosiva, destabilizzante. Una iniziativa rivoluzionaria che è stata stroncata". L'iniziativa parlamentare nasce da un vasto gruppo di deputati e senatori che vogliono appurare "la veridicità delle affermazioni rese a mezzo stampa dal professor Donati circa la sequela di minacce, intimidazioni e diffamazioni ricevute telefonicamente, via mail e attraverso alcuni media, prima e dopo la gara di Schwazer del 9 maggio scorso, e successivamente all'avvio della segnalazione alla Wada". In merito anche i Ros hanno aperto un'indagine. "Credo ci sia un interesse di più procure sull'argomento - ha aggiunto Donati - Tutti hanno ormai capito il fatto inusitato su una positività a un controllo fatto a gennaio, una sorta di bomba a orologeria riscossa a giugno. Tutto ciò è assurdo. Per me è il secondo agguato perché ne ho subito un altro 19 anni fa quando seguivo una ostacolista pugliese, Annamaria Di Terlizzi, e fu manipolata la sua urina. Stavolta, probabilmente, l'hanno fatta in maniera un po' più professionale". Schwazer spera ancora di partecipare all'Olimpiade di Rio ma è una corsa contro il tempo vista la sospensione inflittagli dalla Iaaf. "Abbiamo incaricato un avvocato svizzero per il ricorso al Tas di Losanna, ci ritroveremo con un dossier nostro che arriva stamattina - ha concluso Donati - e verrà esaminato tra oggi e domani da qualcuno in fretta e furia. Quello sarà il giudizio sul quale si deciderà la sorte di un grande campione". "Il professore Donati ci ha raccontato il lavoro fatto in questi anni ed è emerso un quadro abbastanza imbarazzante. Ci ha parlato molto marginalmente della vicenda Schwazer: il punto non è la nuova squalifica ma il modo in cui questa vicenda si inserisce in un contesto assai opaco, ambiguo, vischioso. Di questo è bene farsi carico". Queste le parole del vicepresidente della Commissione Antimafia, Claudio Fava, al termine dell'audizione. "Ci sono molti elementi di opacità in questa vicenda - ha aggiunto Fava - Non solo in Italia. Curvature strane che sfuggono alla nostra comprensione. Oltretutto ci sembra che la vicenda Schwazer possa essere un pedaggio che sta pagando Donati per il lavoro e le denunce fatte nel tempo. Oggi abbiamo ascoltato Alessandro Donati, ora parleremo della vicenda doping in ufficio di presidenza e ragioneremo su quanto può essere fatto - aggiunge Fava - Penso ci siano funzioni e cariche che possono occuparsene: dal ministro della Giustizia a quello della Cultura e delle attività sportive, alla Sanità. E' una questione trasversale che attraversa più campi di interesse, funzioni e responsabilità: occorre uno sguardo più attento e vigile". "Non sembra ci sia criminalità organizzata dietro tutto questo - ha aggiunto Fava - Sembra ci siano invece poteri forti, interessi e menzogne nel modo con cui le inchieste di doping vengono usate per premiare o per colpire: questo è un sospetto più che legittimo e sul quale occorre muoversi sul piano istituzionale. Il problema del doping è un tema che pesa come una cappa, che ricatta, costringe, occlude e condiziona il mondo dello sport, non soltanto nel nostro Paese. Ci sono organismi internazionali che possono farsene carico, ma per quanto riguarda il Coni, la Procura antidoping e la vicenda degli atleti italiani c'è una responsabilità e un dovere di vigilanza". "Io penso che per Schwazer ci siano poche possibilità che il Tas decida di bloccare la sospensione della Iaaf e lo faccia gareggiare a Rio. Se devo dare una percentuale direi non più del 20%". Lo ha dichiarato l'avvocato Guido Valori, membro del Tas. "Il giudice - spiega Valori - dovrà decidere tra due pesi differenti. Da una parte c'è una positività che ha un peso enorme e dall'altra ci sono una serie di irregolarità procedurali. Penso sia difficile che il Tas ritenga che i vizi di procedura abbiano invalidato il controllo risultato positivo, onestamente è una ricostruzione difficile da fare anche per il poco tempo a disposizione. La difesa ha qualche punto a suo favore e tra questi c'è sicuramente il mancato rispetto dell'anonimato ma mi sembrano pochi per far gareggiare un atleta positivo e che oltretutto ha anche grandi possibilità di vittoria. C'è poi il forte rischio di dovergli togliere la medaglia. Per essere chiari per bloccare la sospensiva decisa dalla Iaaf, Schwazer dovrebbe avere buone possibilità di vincere poi il processo che ci sarà dopo l'estate" conclude il membro Tas.
Caso Schwazer, quelle strane provette e il 5 luglio è vicino. In cinque punti, tutti i misteri sul caso in attesa delle risposte della Iaaf. Fra 7 giorni le controanalisi, l'11 luglio scade il termine di iscrizione per i Giochi, scrive Nando Sanvito su "Sport Mediaset" il 28 Giugno 2016. Quello che si sta muovendo attorno alla Procura di Bolzano comincia a dare qualche elemento in più sulla vicenda Schwazer e i dubbi invece di scemare purtroppo aumentano. Riepiloghiamo alcuni di questi elementi.
1 - Un prelievo di urina da parte di due Doping Control Officers tedeschi il 1° gennaio finito alle 8.35 di mattina a Calice di Racines finisce con le provette portate a destinazione quando il laboratorio antidoping di Colonia è chiuso per festività e dunque rimangono nell'ufficio degli ispettori dalle ore 15 fino alle 6 di mattina del giorno seguente. Che succede in quelle 15 ore? Come mai, inoltre, contrariamente alla prassi quel giorno Schwazer è l'unico atleta controllato?
2 - Correttamente viene indicato il nome del luogo del prelievo sul formulario, ma perché tale dato arriva al laboratorio di Colonia? Come si può garantire l’anonimato in queste condizioni, dato che a Racines abita un solo atleta?
3 - La negatività del test viene pubblicizzata sul sistema Adams e dopo due ulteriori prelievi (24 gennaio e 1 febbraio) il profilo ormonale è completato, eppure per un paio di mesi nulla si muove e solo il 14 aprile arriva l’ordine al laboratorio di Colonia di effettuare il test IRMS. Il 13 maggio viene comunicato alla IAAF che il test ha dato esito positivo stabilendo la presenza di 2 metaboliti del testosterone sintetico. Perché la IAAF aspetta fino al 21 giugno a dare la notizia della positività e perché rifiuta di anticipare le controanalisi previste per il 5 luglio sapendo che l’11 si chiudono le iscrizioni per le Olimpiadi?
4 - Alla obiezione che un paio di metaboliti del testosterone sintetico non bastano a giustificare un’attività dopante l'accusa potrebbe rispondere tirando in ballo le cosiddette microdosi, ma allora perché negli altri 14 test antidoping non c'è traccia della sostanza?
5 - Si può escludere che un set di provette possa essere preventivamente contaminato di metaboliti del testosterone sintetico se la stessa Azienda che li produce (Berlinger) in un comunicato del mese scorso riconosce (a proposito della denuncia di Grigory Rodchenkov della Rusada sulla manipolazione di provette alle Olimpiadi di Sochi) che “il caso è la prova di un atto criminale condotto da professionisti, pianificato dietro le quinte, con un coinvolgimento dei Servizi Segreti Russi, che ha implicazioni non solo sulle provette, ma anche sull'intera catena di custodia e procedure collegate”?
Vedremo se la risposta della IAAF alla memoria difensiva dei legali di Schwazer darà risposte a queste domande. La beffa finale sarebbero delle scuse per un test antidoping invalido per vizio procedurale, riconosciuto tale quando i termini di iscrizione alle Olimpiadi saranno già scaduti. Alla buona fede della IAAF non crederebbe nessuno e dopo essere stata decapitata dei vertici che mercanteggiavano sull’antidoping non potrebbe sopportare un altro colpo mortale alla sua credibilità.
Caso Schwazer: la Iaaf, i sospetti e i chiarimenti attesi. Procedure insolite e un accanimento anomalo sul marciatore altoatesino, scrive Nando Sanvito su "Sport Mediaset" il 24 Giugno 2016. Schierati e divisi: i media italiani -a volte anche testate dello stesso gruppo editoriale- hanno posizioni molto diverse sul caso Schwazer. C'è chi ipotizza un disturbo bipolare della personalità del marciatore altoatesino, dando per scontata la trasparenza della procedura antidoping utilizzata nei suoi confronti. C’è chi invece ha seri dubbi su quest’ultima. Se infatti, come trapela dalla Iaaf, la Federazione internazionale di atletica, il ricontrollo della provetta incriminata di urina è avvenuto per un automatismo del sistema informatico antidoping, perché allora -si chiedono costoro- a differenza di ogni altro campione d’urina testato in pochi minuti al momento del prelievo quello del marciatore viene invece lavorato per tre giorni? E perché viene di nuovo analizzato quattro mesi dopo senza la presenza di un prelievo fatto in competizione da incrociare? Ad aprile infatti Schwazer non era ancora tornato a gareggiare. Dunque il minimo che si può dire è che la procedura sia stata oggettivamente anomala. Tanto accanimento poi autorizza sospetti se la Iaaf è la stessa che delega il controllo antidoping della gara dell'altoatesino a Roma proprio al medico indagato dalla Procura di Bolzano per il caso Schwazer. Insomma sia in caso di innocenza che di colpevolezza la Iaaf deve comunque spiegare perché Alex sia stato trattato in modo anomalo rispetto alla procedura standard. Senza chiarimenti ogni sospetto è autorizzato, specie per una Iaaf già pesantemente screditata in questi mesi da corruzioni e scandali anche sull'antidoping.
La conferenza stampa, scrive Ezio Azzollini il 22 giugno 2016 su “Io gioco pulito. Il fatto Quotidiano”. La Conferenza Stampa di Alex Schwazer e del suo avvocato e di Sandro Donati in merito al nuovo scandalo legato al doping che ha coinvolto il marciatore italiano.
PER IL LEGALE NON C’E’ COINVOLGIMENTO – Ecco le parole dell’Avvocato di Alex Schwazer: “Notizia incredibile, impossibile, devastante, che non possiamo accettare. Alex con questa vicenda non ha nulla a che vedere, nessuna responsabilità. Noi adesso cercheremo di acclarare la verità anche per un interesse di giustizia. Per noi inconcepibile tutta la vicenda, strano che una prova che a gennaio era negativa, 5 giorni dopo che Alex vince a Roma, venga riaperta e classificata positiva a sostanze anabolizzanti che nulla hanno a che vedere con uno sport di resistenza. C’era una pressione enorme, a causa di chi ostacolava il rientro di Alex alle competizioni: vicenda brutta e sporca, faremo una denuncia penale contro ignoti. Alex spera ancora e confida di poter andare alle olimpiadi, e Donati spiegherà quale è stato negli ultimi due anni il percorso olimpico trasparente. Alex ha segnalato alla Wada di essere disponibile ai controlli 24 ore su 24, e i controlli sono stati tantissimi. Vedere a 4 mesi dal 1 gennaio, dopo un controllo negativo, vedersi confutato un test positivo agli anabolizzanti ci lascia furiosi. Alex ha fatto un percorso esemplare, non può accettare di essere rimesso in discussione. Combatteremo con tutte le nostre forze. Ha sbagliato Alex, ma ha fatto un percorso di umiltà, di riabilitazione, non se lo merita, non pensavo che ci fossero tali prove di cattiveria umana.
LE DICHIARAZIONI DI SCHWAZER – “Sarò sintetico per non essere accusato di nuovo di fare teatro. Sono di nuovo qua a metterci la faccia per rispetto a chi mi è stato vicino. Ma stavolta non devo scusarmi perchè non ho fatto nessun errore. Da un anno e mezzo ho fatto il contrario dello sbagliare, allenandomi con Donati, per fare l’impossibile per dimostrare che il mio ritorno è pulito. Oggi non ci sarà nessuna scusa perchè non c’è nessun errore. Informato ieri di questa positività, è un incubo per me perchè è la peggiore cosa che poteva succedere, ma posso giurare che si andrà in fondo, perchè ho investito troppo in questo ritorno. So che molti non mi volevano alle Olimpiadi, così come non volevano che vincessi a Roma. Io so benissimo che un atleta già trovato positivo ha poca credibilità, so che per qualcuno le mie parole lasciano il tempo che trovano, ma a fianco a me c’è Donati, che ha impegnato una vita contro il doping, io spero che ci pensiate due volte prima di attaccare lui e altre persone che mi sono state di fianco.
LE PAROLE DI SANDRO DONATI – “Considerando il passato, Alex è l’identikit perfetto di chi disillude, tradisce, si dopa all’insaputa dell’allenatore. Quale pretesto migliore avrei avuto per lasciarlo adesso, per chiamarmene fuori? Ma io non lo farò mai. Con Alex abbiamo intrapreso un progetto unico al mondo. Abbiamo messo a disposizione delle istituzioni sportive più di trenta controlli presso la sanità pubblica, non abbiamo mai ricevuto risposta. La mancata risposta non è una volontà di mantenere l’ambiente pulito, ma una provocazione. Mi sono reso conto che l’atleta positivo per doping diventa la preda su cui il sistema sportivo può dimostrare la propria durezza e inflessibilità. Peccato che avvenga solo sui soggetti più deboli. Passava il tempo e mi rendevo conto che attiravo su Alex l’odio che hanno nei miei confronti per le mie battaglie. Ci vuole un bel fegato per far passare Alex come un soggetto anabolizzato, che avrebbe un braccio quanto due delle cosce di Schwazer. Se quell’urina avesse destato sospetti, avrebbero provveduto a fare immediatamente quello che invece hanno fatto mesi dopo. Forse aveva a che vedere con il risultato di Roma. Non serve che vi dica quanti dirigenti della Iaaf in passato sono stati sospesi per faccende legate alla compravendita di positività e negatività. Olimpiade? I tempi della giustizia sportiva appaiono rapidi rispetto alla giustizia ordinaria, ma sono tremendamente lenti per una preparazione che già sarà condizionata in maniera pesante. La settimana che ha preceduto i campionati del mondo è stata un calvario, hanno tentato di dimostrare che anzichè allenarsi Alex avesse sostenuto una gara, cosa contraria alla squalifica. E’ stata una settimana passata nell’angoscia che venisse fermato, anzi di vedersi reiterare la squalifica, una specie di profezia”.
I lati oscuri, scrive Andrea Corti il 24 giugno 2016 su “Io gioco pulito. Il fatto Quotidiano”. Sono passate poco più di 24 ore dalla deflagrazione del caso riguardante Alex Schwazer: il marciatore altoatesino, rientrato trionfalmente alle gare a maggio dopo la squalifica per 3 anni e 9 mesi in seguito a una positività all’Epo nel 2012, non ha superato un controllo antidoping effettuato lo scorso 1 gennaio in seguito ad una nuova analisi di un campione che era stato inizialmente classificato come negativo. L’allenatore di Schwazer, da più di un anno a questa parte, è il Professor Alessandro Donati, il guru dell’antidoping italiano, che ha accettato di fare da garante nel percorso di Alex verso l’obiettivo dichiarato, quelle Olimpiadi di Rio per le quali un mese fa il marciatore aveva strappato il pass. Donati ha spiegato la sua opinione su questa spinosa vicenda a ‘Io gioco pulito’: “Il lato più oscuro è senza dubbio la tempistica, e la decisione di rianalizzare il campione. E’ un qualcosa di incredibile, perché il primo campione è stato analizzato dal più importante laboratorio antidoping, quello di Colonia. Ho studiato il report e il campione è stato sotto analisi per tre giorni: non parliamo dunque di un’analisi superficiale. Quel campione è stato giudicato negativo, al punto che la Iaaf lo ha inserito tra i vari documenti che le hanno poi permesso di dare l’ok al rientro di Schwazer alla Federatletica. A questo punto è subentrata una volontà esterna, che ha fatto riaprire questo campione e andare a cercare il pelo nell’uovo, ammesso che ci fosse visto che ciò che è emerso è un valore di testosterone bassissimo, di pochissimo superiore alla norma. Bisognerà chiarire anche altri lati oscuri, come anche la tempistica della fine delle analisi, avvenuta cinque giorni dopo la vittoria di Alex a Roma. Poi mi chiedo: perché questa analisi non è stata resa nota? Perché Fidal e federazione internazionale di atletica non sono state informate? Perché l’atleta continuava a gareggiare? Non posso poi parlare di altri lati oscuri, che saranno inseriti in una denuncia penale, per ora contro ignoti”. Poi Donati ha raccontato un retroscena relativo alle due gare a cui Schwazer ha partecipato nel mese di maggio, che gli hanno consentito di ottenere la qualificazione per le Olimpiadi: “Personaggi molto importanti con un ruolo importante mi hanno suggerito che sarebbe stato un bene che Schwazer a Roma avesse fatto vincere Tallent. Poi a La Coruna mi è stato detto che sarebbe stato bene non seguire l’attacco di due atleti cinesi. La persona che mi ha dato questi consigli la conosco: può darsi che abbia captato il clima dell’ambiente e giudicato inopportuno e pericoloso battere Tallent e il cinese. Nella peggiore delle ipotesi, invece, questa persona è stato un messaggero degli interessi di altri. Si tratta di una persona interna all’organizzazione italiana, ma tutti i particolari verranno inseriti nella denuncia. Interessi legati al mondo delle scommesse? Non credo nella maniera più assoluta. Ma un atleta come Schwazer, con un potenziale atletico enorme che ne farebbe l’uomo da battere a Rio e non solo nei 50 km, che subentra quando nessuno se lo aspettava sposta degli equilibri. E’ logico che ci siano interessi economici: dietro gli atleti ci sono contratti, allenatori e interi Paesi che investono dei soldi”. Ma Donati non vuole parlare di complotto: “Come carattere non faccio riferimento a complotti, anche quando subii un’imboscata ad Anna Maria Di Terlizzi nel 1997, quando l’urina di questa atleta fu manipolata in un controllo antidoping. Anche in questo caso non parlo di complotto, ma di una successione di avvenimenti inquietanti. Con queste tempistiche ci ritroviamo alla vigilia delle Olimpiadi con un atleta bombardato psicologicamente. Sono assolutamente convinto che Alex non sia colpevole: perché ce lo avevo sempre davanti e perché non aveva assolutamente nessun interesse ad assumere un dosaggio così ridicolo e minimo di un anabolizzante. Se si sceglie di prenderlo lo si fa in quantità decisamente superiori. Questo dosaggio minimo può derivare da varie situazioni. Non capisco perché ci sia stata questa grande attenzione, questo sforzo fatto all’esterno del laboratorio di Colonia. Dico che Colonia non ha lavorato da sola, c’è stata una ‘manina’, una volontà esterna che ha chiesto al laboratorio tedesco di rianalizzare un campione. Non so nemmeno se a Colonia sapessero che si trattativa di un campione precedentemente classificato come negativo”. Al termine dei mondiali di 50 km di marcia vinti da Schwazer a Roma l’8 maggio scorso Donati si era sfogato con i giornalisti presenti a Caracalla, assicurando di essere stato protagonista con l’atleta di una vera lotta contro l’odio: “Non parlavo a vanvera. Non si tratta di odio personale, ma di contrapposizione di interessi. Io da nostalgico vorrei delle istituzioni sportive che difendano la correttezza e le regole e che non facessero solo finta. D’altra parte si desidera che non venga disturbato il manovratore. E’ un odio che non ha nulla a che vedere con l’emotività di noi esseri umani”. Infine Donati ha voluto evidenziare un qualcosa che non si aspettava: “Con sorpresa ho notato che dei giornalisti che in passato hanno attaccato me e Schwazer anche pesantemente e in maniera cattiva hanno scritto manifestando la loro perplessità di fronte alla positività di Alex. Ciò mi ha fatto enormemente piacere e dimostra come in questa vicenda ci siano tanti, troppi, lati oscuri”.
Atletica, doping: Donati, un uomo contro tra polemiche e molti nemici. Sullo sfondo del caso Schwazer i rapporti tempestosi con la Iaaf e la Wada. Ieri il tecnico italiano ha puntato l'indice contro la mancanza di credibilità della Federatletica internazionale, scrive il 23 giugno 2016 “La Gazzetta dello Sport”. Lo scontro fra Sandro Donati, la Wada e la Iaaf non nasce ora con la positività di Alex Schwazer al testosterone. Viene da lontano. Ieri, il tecnico italiano ha puntato l'indice contro la mancanza di credibilità della Federatletica internazionale, citando il caso dell'ex presidente Lamine Diack e della sua famiglia, impegnati nella "truffa e compravendita di positività, insieme con l'ex capo dell'antidoping", alludendo a Gabriel Dollè, coinvolto anche lui nello scandalo russo su cui indaga anche la giustizia francese, mentre altri tre funzionari Iaaf sono stati di recente sospesi per aver avuto un ruolo nella corruzione. Sulla Wada, ha invece sottolineato i "suoi meriti per molte iniziative", ricordando però l'articolo del New York Times che ha rivelato una denuncia rivolta all'Agenzia Mondiale Antidoping da una discobola russa, Darya Poshchalnikova, medaglia d'argento a Londra, che fu lasciata cadere. Prima dello scoppio dello scandalo dovuto all'inchiesta giornalistica della tv tedesca ARD. Un'inchiesta, quella guidata dal giornalista Hajo Seppelt, che è stata la madre della vera e propria rivoluzione antidoping di questi mesi, con le istituzioni sportive costrette a dare risposte finalmente categoriche al problema, fino alla clamorosa esclusione dell'atletica russa, confermata negli ultimi giorni, dall'Olimpiade di Rio de Janeiro. Ma dove tutto è cominciato? Non va dimenticato che le denunce di Donati non si sono concentrate soltanto sull'Italia dai tempi del salto allungato di Evangelisti e del doping degli anni '80, ma hanno guardato anche all'estero, ai tempi in cui la Federatletica internazionale era diretta da Primo Nebiolo. Più recentemente, nei suoi rapporti con la Iaaf, è chiaro che l'inchiesta di Bolzano ha avuto un ruolo importante. La federazione internazionale, sin dal primo momento successivo all'epo di Schwazer, è sempre stata solidale con il suo medico Giuseppe Fischetto, finito sotto processo per favoreggiamento nell'inchiesta condotta dal pm Giancarlo Bramante. Un processo in cui Donati è stato citato come teste dell'accusa e della stessa Wada, costituitasi parte civile. Fischetto si è autosospeso, all'inizio dell'inchiesta giudiziaria, da medico della Fidal, ma ha continuato a esercitare il suo ruolo di delegato antidoping in grandi manifestazioni internazionali, Mondiali a squadre di marcia di Roma compresa, senza però far parte della struttura di intelligence che ha lavorato in queste ultime settimane su alcuni casa scottanti, e sull'analisi bis del campione di Alex Schwazer, che ha portato alla nuova positività. Diverso è il discorso che riguarda la Wada. Sandro Donati ha collaborato con l'agenzia mondiale antidoping per anni con una numerosa serie di lavori che sono tuttora rintracciabili sul sito ufficiale. Ma negli ultimi mesi si è acceso uno scontro sulla sua qualifica di "consulente", negata dal nuovo direttore generale Olivier Niggli, che ha sostituito proprio in questi giorni nella carica David Howman. Sulla vicenda si è trovata poi una composizione con un comunicato condiviso. Ma che non ha riempito la distanza fra Donati e la "nuova" Wada, che, in particolare, non ha gradito l'impegno del tecnico a fianco di Schwazer, accusato, in maniera neanche troppo nascosta, di non aver detto tutta la verità sui suoi rapporti con Michele Ferrari. La stessa Wada, insieme con la Iaaf, si è poi opposta allo sconto di pena per Schwazer in base alla sua collaborazione. Un no che ha lasciato quindi la squalifica intatta fino al 29 aprile scorso. Prima che il caso testosterone riaprisse per l'ennesima volta la storia.
Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera”. «Il laboratorio di Colonia ha lavorato bene. Non contestiamo il suo operato. E non ricorriamo alla fantapolitica: non c' è nessun complotto, nessuno ha messo questa o quella polverina nelle bevande o nel cibo di Alex per incastrarlo. La sua positività all' antidoping è il frutto di un accanimento mirato sui campioni biologici che ha deformato il risultato delle analisi. L' obiettivo era colpire lui per colpire me. Ci sono dei mandanti. Lo dimostreremo». A 48 ore dall' esplosione del caso Schwazer, Sandro Donati tiene fede alla promessa e resta a fianco del suo atleta in Alto Adige: «Alex è provato ma vivo. Abbiamo parlato a lungo. Adesso è a fare una sgambata di una decina di chilometri nei prati dietro casa». La difesa del marciatore prepara le prime scadenze: a fine giugno il deposito delle memorie, il 5 luglio le controanalisi. L' obiettivo è più che ambizioso: far valere l'articolo 5.1 del Codice Wada, l'unico in grado di annullare la squalifica. Il solo modo per farlo è invalidare la procedura con cui il laboratorio di Colonia ha trovato testosterone sintetico nelle urine del marciatore. Lo staff di Schwazer mostra i referti del controllo che smentirebbero le tesi procedurali fatte trapelare dalla Iaaf: la positività come primo clamoroso successo del passaporto steroideo (adottato solo nel 2015) su un atleta di vertice. Si sarebbe trattato di un ricontrollo mirato, lo scorso maggio, del campione prelevato il 1° gennaio. Questo sulla base di un allarme automatico lanciato dal sistema informatico. Caro recidivo hai cercato di fregarci: ma noi ti abbiamo beccato. I referti in mano a Schwazer indicano però una verità diversa: il suo campione di urine di Capodanno sarebbe stato invece «torturato» per tre giorni subito dopo il prelievo (dal 2 al 4 gennaio) quando il test ormonale standard dura pochi minuti. Alla fine dei tre giorni, sulla base del referto di Colonia («Nulla da segnalare: atleta rieleggibile»), la Iaaf ha dato il via libera alle competizioni. Poi l'altra anomalia: lo stesso campione di urine viene rimesso sotto torchio il 10 aprile, quando il passaporto biologico ancora non era validabile per l'assenza dal primo controllo in competizione. Perché? E perché la procedura, anormalmente lunga, resta aperta fino al 13 maggio, quando viene accertata la positività. E perché a Schwazer viene permesso di gareggiare a La Coruña a fine maggio notificandogli la squalifica solo il 21 giugno? Che tesi utilizzerà la difesa? Alcune sono ipotizzabili. Le apparecchiature per la spettrometria di massa avrebbero una potenza così elevata da rilevare anche tracce infinitesimali di steroidi. Quelli dovuti a una banale contaminazione alimentare, ad esempio. O quelli, sostengono altri, rimasti «fissati» nell' organismo a lunghissimo termine: Schwazer ammise di aver assunto testosterone nel 2010. Quante probabilità ci sono di vincere una battaglia del genere, scardinando l'antidoping mondiale?
STAVOLTA NIENTE SCUSE di Benny Casadei Lucchi per “il Giornale” il 23 giugno 2016. Maglietta bianca. Sguardo a pezzi. Nessuna lacrima. Ore 18 e una manciata di minuti. Alex ancora lì. Dietro una scrivania a Bolzano. Quattro anni dopo. A parlare di doping. Il suo doping. O siamo di fronte a un grande coglione o siamo di fronte a un grande complotto. Stavolta non ci sono vie di mezzo. Alex Schwazer positivo a uno steroide anabolizzante dopo aver chiesto e ottenuto, unico al mondo, di poter essere controllato a sorpresa 24 ore su 24. Per dire. Trentacinque test in pochi mesi, uno su due dedicato agli anabolizzanti, controllato anche ieri mattina a Vipiteno, ore sette, dopo notte insonne seguita alla cartella ricevuta con l'esito degli esami, toc toc, sono un ispettore della Iaaf, prego pipì. Ci sarebbe da ridere, c' è solo da piangere. Ma Alex non piange. «Stavolta non devo chiedere scusa di niente, perché non ho fatto niente. Se sono qui a metterci la faccia è per rispetto di me stesso e di chi mi è vicino». Con lui la manager Giulia Mancini, con lui l'allenatore e paladino della lotta antidoping Sandro Donati, con lui i legali che annunciano battaglia e denuncia penale contro ignoti «perché qui c' è stata cattiveria, è una vicenda profondamente ingiusta e vogliamo la verità». Contro di lui, invece, c' è il mondo. Martedì 21 giugno, ore 18 e 50, gli ispettori antidoping della Iaaf notificano tutto ad atleta e allenatore. L' esame sangue e urine effettuato a Vipiteno la mattina del primo gennaio, negativo all' epoca, riesaminato in maggio, il 12, è diventato positivo. La Gazzetta dello Sport pubblica tutto. È un risveglio traumatico. Per i sognatori e quelli del partito diamogli un'altra chance, per gli scettici e quelli del via per sempre dallo sport. Visibilmente scosso appare anche il presidente del Coni Giovanni Malagò che nel giorno della consegna della bandiera a Federica Pellegrini, si ritrova nel mezzo di una bufera, col cerino acceso, «certo che c'è qualcosa di molto particolare sulla tempistica...» dirà. La sequenza è infatti sotto gli occhi di tutti: la bomba che scoppia nel giorno del Quirinale, la bomba che deflagra al secondo controllo, il 12 maggio, quattro giorni dopo la bella vittoria di Schwazer nella 50 km mondiale di marcia e pass per Rio conquistato, la bomba che scheggia i buoni sentimenti tredici giorni dopo la fine della squalifica per doping di tre anni e mezzo. Alex è positivo a scoppio ritardato. A un anabolizzante sintetico che serve a chi vuole muscoli e non contro la fatica dei marciatori. Questo spiega Donati, questo sottolineano i legali, questo racconta il ragazzo a cui non dobbiamo credere perché, come dice lo stesso Alex levandoci dall' imbarazzo, «capisco che credere a un ex dopato sia difficile, però Sandro Donati che ha dedicato la vita contro il doping è ancora qui accanto a me... E poi io quella stessa sostanza l'ho anche provata, prima dei Giochi di Londra, in quell' anno in cui ho provato di tutto e l'avevo messa da parte, non mi dava effetti. E allora ditemi voi, perché mai dovrei da una parte rendermi disponibile a controlli a sorpresa 24 ore su 24 e poi doparmi con qualcosa che non mi serve e che non mi aveva dato effetti?». Un grande coglione o un grande complotto. Non se ne esce. Perché «tra l'altro la quantità rilevata è minima» precisa Donati, e perché «sarebbe stato facile presentarmi qui davanti a tutti voi e fare la figura di quello che si leva di torno e che non sapeva niente. Invece io non lo lascio, Schwazer paga le mie lotte, l'odio nei miei confronti per quanto fatto contro il doping doveva trovare una vendetta. Eccola». Ancora: «E le incongruenze sono tante, la tempistica è anomala e ci era stato chiesto da persone importanti di non vincere a Roma e La Coruña (2° nella 20 km), forse questo ha dato fastidio. E ricordo la settimana prima della 50 km, la Procura Antidoping aveva cercato di dimostrare che una prova su strada era stata una gara e non un allenamento e Alex ha rischiato che la squalifica s'allungasse... Abbiamo toccato molti interessi...l'indagine sul doping russo è partita anche da Bolzano». Parole pesanti, che più pesanti diventano e più, incredibilmente, lasciano aperto uno spiraglio: che davvero ci sia del losco, un complotto, roba brutta e alla fine Rio non salti. «È un incubo per me, è la peggior cosa che mi potesse succedere - confida Alex -, ma andrò fino in fondo. Probabilmente qualcuno non vuole che vada alle Olimpiadi, a Roma c' erano state pressioni perché non vincessi. Però credo ancora di potercela fare, darò il 100% per chiarire e farcela» e se poi vogliono, fa capire, mi levo di torno.
LA PIPÌ AL QUIRINALE E IL WATERBOARDING DELL' ANTIDOPING di Maurizio Crippa per “il Foglio” il 23 giugno 2016. Visto come ragionano gli organi di giustizia, ci aspettiamo che prima o poi qualcuno incrimini la marciatrice Elisa Rigaudo - come quel famoso professore di Bergamo - per essere stata sorpresa a fare pipì nei giardini del Quirinale. Paradosso, ma neanche troppo. Ieri gli ispettori dell'Associazione internazionale delle federazioni di atletica leggera, in pratica la spectre delle Olimpiadi, si sono presentati a casa Mattarella per effettuare un controllo antidoping a sorpresa sulla Rigaudo, mentre partecipava alla consegna del tricolore ai portabandiera italiani in partenza per Rio 2016. I corazzieri li hanno gentilmente mandati a cagare, e il test su sangue e urine rimandato a quando l'Elisa è rientrata con gli altri alla Casa delle armi al Foro Italico. Ma il vulnus resta. E va bene che con gli olimpionici non si sa mai, e che Alex Schwazer dopo le lacrime e la riabilitazione l'hanno beccato (l'avrebbero) positivo un'altra volta. E va bene che le squalifiche per doping sono rimaste l'unico tipo di sanzioni che l'occidente riesca ad applicare a chicchessia, ad esempio alla Russia di Putin. Ma al Quirinale? Durante una cerimonia ufficiale? Gli energumeni della Iaaf affermano di essersi mossi in base al whereabout, il protocollo che impone agli atleti di essere sempre reperibili per i controlli a sorpresa (provassero un po' con le centrali iraniane). Ma detta così, sembra il waterboarding applicato allo spirito olimpico. A meno che sia il nuovo protocollo -trasparenza della luminosa epoca Raggi.
L’ANTIDOPING AL QUIRINALE LA FA FUORI DAL VASO di Filippo Facci per il “Libero Quotidiano” il 23 giugno 2016. Drogarsi prima di parlare con Mattarella, o subito dopo averlo fatto: c' è una logica, proprio volendo. Ma l'idea di fare un controllo antidoping proprio al Quirinale, come ha cercato di fare ieri la Federazione internazionale di atletica, beh, andrà giustamente archiviata come una gaffe o come una smaliziata prova di stupidità: roba che l'antidoping andrebbe fatto a loro, quelli della Federazione internazionale. Forse la notizia già la conoscete: ieri, giorno in cui iniziava ufficialmente la spedizione italiana di Rio, giorno in cui appunto era prevista la cerimonia di consegna del tricolore da parte del Presidente della Repubblica, giorno in cui peraltro scoppiava un altro caso di doping legato ad Alex Schwazer, ieri, insomma, la International Association of Athletics Federation (Iaaf) ha pensato di presentarsi al Quirinale per controllare le urine di una marciatrice presente alla cerimonia, Elisa Rigaudo. Al Quirinale, sì. E li hanno messi alla porta, ovvio, anzi, non li hanno neanche fatti entrare. Nota: l'estate scorsa, durante una spedizione sul Monte Bianco, il campione del mondo di karate Stefano Maniscalco continuava a dire allo scrivente che, anche a 4000 metri, doveva sempre rendersi disponibile alla Federazione in base al "whereabout", cioè una sorta di indicazione che gli atleti devono lasciare per essere reperibili per eventuali controlli antidoping; a me e agli altri pareva una pazzia, ma probabilmente aveva ragione. Gli ispettori non andarono sul Monte Bianco, ma sul Colle ieri ci sono andati. Fine della nota. E, ieri, era bellissima l'espressione del presidente del Coni, Giovanni Malagò, mentre un corazziere lo avvertiva: ci sono i commissari con le provette, sì, proprio qui nei giardini del Quirinale, sì, proprio mentre c'è la cerimonia che precede la partenza per le Olimpiadi. Va da sé: agli ispettori hanno risposto che la raccolta di sangue e urine, forse, potevano andarsela a fare da un'altra parte, per esempio al Foro Italico dove più tardi hanno intercettato la povera Rigaudo. La quale, intervistata da Repubblica online, più tardi ha detto: «L' ispettore non sapeva che il Quirinale era un posto molto importante». Era un tedesco: l'orgoglio di Mattarella ne avrà avuto nocumento. La Rigaudo, invece, pare abbia detto al tizio della Federazione: «Scusi, ma è come se lei volesse fare il test a degli atleti mentre sono a casa della Merkel». Incidente diplomatico? Ma no, niente, figurarsi: the sport must go on, il Doping controller officer (Dco) successivamente ha potuto officiare in una sala igienicamente idonea negli uffici del Coni. Così, nella giornata di ieri, si sono registrate tre notizie. La prima: Alex Schwazer è risultato positivo al controllo antidoping. La seconda: Elisa Rigaudo è risultata negativa al controllo antidoping. La terza: Sergio Mattarella è risultato.
DUE TECNICI SPECIALIZZATI, 48 ORE DI LAVORO, UNA PROCEDURA COSTOSA E SPECIALIZZATA: LA ... di Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2016. Due tecnici specializzati, 48 ore di lavoro, una procedura costosa e specializzata: la spettrometria di massa per rapporto isotopico. Lo scorso 13 maggio, per dichiarare positive le urine di Alex Schwazer, i biologi del laboratorio Wada di Colonia hanno utilizzato lo stesso metodo che smaschera chi adultera il whisky per vendere al prezzo dei pregiati «single malt» i banali «blended». Hanno ionizzato la pipì del marciatore bombardandola con un fascio di elettroni per poi spararla all' interno di un analizzatore di massa. Il risultato? La percentuale di carbonio-13 ha dimostrato la presenza di precursori del testosterone sintetico estranei all' organismo. Per i tedeschi è il risultato esemplare dell'efficacia della più avanzata arma contro il doping: il passaporto steroideo, complementare a quello sanguigno per accerchiare i bari. In vigore dal 1° gennaio 2015 (quando Alex era fermo per squalifica) il passaporto di Schwazer è nato con il primo controllo a sorpresa fuori competizione, lo scorso dicembre a Roma. Per validarlo servivano dai tre ai sei test, di cui uno in competizione: quello della vittoria in Coppa del Mondo a Roma dello scorso 8 maggio. In ogni esame si valutavano parametri diretti e indiretti (testosterone assoluto, rapporto con epitestosterone) per costruire una «curva di normalità» sempre più raffinata. L'aggiunta del tassello dell'8 maggio ha messo fuori range il controllo dell'1 gennaio a Vipiteno: i test a sorpresa nei giorni festivi non sono rari, perché chi si dopa li considera strategici. L' ipotesi di complotto durante la procedura di esame sarebbe smentita dal rigoroso protocollo operativo. L' analisi di gennaio è stata fatta a Colonia su campioni «ciechi». Accertata la negatività, i parametri steroidei sono stati trasferiti alla Iaaf per costruire un profilo ormonale anonimo. Il 13 maggio, ricevuto l'ultimo esame, il sistema Iaaf ha segnalato in automatico l'anomalia a Colonia, che con Roma e Montreal è la struttura più avanzata al mondo sul fronte ormonale. Allarme rosso. A quel punto è scattato il bombardamento ionico che ha isolato (in quello che restava della provetta A) il testosterone sintetico su un'urina sempre anonima: positività netta - non massiccia - e impossibile da contestare. Ok, ma cosa ha fatto Alex Schwazer per risultare positivo? Nessun tecnico o dirigente di laboratorio si sbilancia. Ma le possibilità sono sostanzialmente tre. La prima è la più drammatica per chi in Alex ha creduto. Quantità e qualità dei precursori del testosterone sono compatibili con un micro dosaggio continuativo: un piano organizzato di doping. Steroidi in un atleta di endurance, con masse muscolari ridotte? Farsi di testosterone aumenta la resistenza agli allenamenti duri e migliora il recupero. L'ipotesi è agghiacciante perché presuppone un tradimento totale dell'allenatore Donati e dello staff medico e un supporto medico e farmacologico parallelo. La seconda ipotesi, non meno agghiacciante per ragioni opposte, è la contaminazione dolosa: i tecnici ammettono che le quantità ritrovate sono compatibili con un'assunzione unica anche involontaria - avvenuta in un range temporale di alcuni giorni prima del controllo - di testosterone per via orale. Insomma, qualcuno potrebbe aver piazzato il farmaco in un alimento o una bevanda per incastrare Alex. La terza ipotesi è la contaminazione. Non alimentare (ci sarebbero altri precursori) ma piuttosto da integratori, che però Schwazer ha sempre detto di non utilizzare. Ora la palla passa alla giustizia sportiva. Analisi del campione B entro il 5 luglio o prima, se la difesa riuscirà a chiedere un anticipo. Se la positività fosse confermata, come accade sempre nella giustizia sportiva tocca all' atleta l'onere di provare con fatti concreti la sua innocenza. Una sfida al cui confronto la 50 chilometri olimpica è una passeggiata.
Doping Schwazer, perché serve essere garantisti. Se si è dopato va radiato. Ma il test che lo inchioda è sospetto. E va chiarito, scrive Gabriele Lippi su “Lettera 43” il 22 Giugno 2016. Déjà vu. A pochi metri dal traguardo più ambito, il marciatore si ferma. A colpirlo non è una crisi di fame o la disidratazione dopo quasi 50 chilometri sotto il sole, ma un test antidoping che fa piombare su di lui la più infamante delle accuse che possano esistere per un atleta. Ad Alex Schwazer era già successo prima di Londra 2012, ed è ricapitato a 45 giorni dalla cerimonia di inaugurazione di Rio 2016. Epo, allora, anabolizzanti adesso. Sembra di vedere un film già visto, eppure le differenze tra le due situazioni sono più delle analogie. Allora, scoperto, Alex si presentò in conferenza stampa, da solo, senza un solo membro della Fidal a fargli compagnia. Pianse lacrime amare, ammise ogni responsabilità, raccontò di essere andato a spese proprie fino in Turchia per acquistare 1.500 euro di eritropoietina e assumerla poi a casa sua per mesi, ingannando anche la fidanzata Carolina Kostner, che per quel peccato di ingenuità/negligenza/amore avrebbe pagato con una squalifica di 16 mesi (poi ridotti a 12). Spiegò di averlo fatto perché «tutti lo facevano, e mi sentivo impotente». Apparì come un uomo solo, schiacciato dalla pressione, un atleta che si sentiva costretto a vincere e unico baluardo di un'atletica italiana con poco talento e un livello di programmazione inferiore agli altri. Qualcuno provò compassione, altri no, ma sulla sua colpevolezza non potevano esserci dubbi. Oggi è tutto diverso. La provetta che incastra Schwazer è stata prelevata a gennaio e, la prima volta, ha dato esito negativo. A maggio, poco dopo la sua vittoria nella 50 km del Mondiale a squadre di Roma, a pass olimpico strappato, un nuovo test sullo stesso campione. Positivo, stavolta, con valori di testosterone 11 volte superiori alla media. Non uno scarto minimo, ma qualcosa di enorme, passato inosservato al primo controllo e trovato solo con le contro-analisi. In mezzo, tra quei due esami, Schwazer ha ricevuto 15 visite degli ispettori Iaaf (la federazione internazionale di atletica leggera), Wada (l'agenzia mondiale antidoping) e Nado (l'agenzia italiana antidoping). Tutti rigorosamente negativi. In un anno, da quando nel maggio 2015 ha deciso di tornare a gareggiare, affidandosi alle cure di Sandro Donati, ha subito 47 controlli antidoping, senza risultare mai positivo. Ora è facile cadere nella tentazione della gogna mediatica e invocare la radiazione. Chi scrive ha sempre sostenuto la tesi della 'seconda chance', l'ideologia della redenzione. Eppure, la prima tentazione nella notte del 22 giugno, è stata quella di fare mea culpa, scagliarsi contro Schwazer, chiedere scusa a Gianmarco Tamberi e a chi, come lui, aveva espresso pareri durissimi sulla sua possibile partecipazione a Rio. Perché chi gli aveva concesso un'apertura di credito si sente ancora più tradito di chi, al contrario, non l'ha mai perdonato e mai lo perdonerà. Ci si sente persino un po' sciocchi ad averci creduto. Ma in un mondo giusto, Schwazer merita la sospensione di un giudizio che stavolta potrebbe essere quello finale. La merita non per le lacrime versate nel 2012, non per l'oro di Pechino 2008, non perché a lui ci si aggrappa per una medaglia in più in un'Olimpiade destinata a dare poche gioie all'Italia. La merita in quanto essere umano. La storia dello sport è tristemente piena di truffatori dopati, ma conta anche drammi umani legati a giudizi sommari e vittime innocenti di casi tuttora irrisolti. La fine di Marco Pantani, morto da solo in una camera d'albergo dopo esser stato trattato come un paria per un ematocrito sopra il limite che ancora oggi è velato dall'ombra del complotto, dovrebbe far riflettere. Così come quella, fortunatamente con esito diverso, di Andrea Baldini, fiorettista italiano costretto a fermarsi mentre si preparava all'Olimpiade di Pechino 2008 da favorito assoluto perché nelle sue urine fu trovato del furosemide, un diuretico non dopante ma usato anche come coprente di altri farmaci. Baldini sostenne di non aver mai assunto quella sostanza, gli esami approfonditi non trovarono traccia di doping, e pochi mesi dopo fu riabilitato. Tornò e si laureò campione del mondo, ma quei Giochi di Pechino, nessuno glieli ha mai potuti restituire. Schwazer, a differenza di Pantani e Baldini, ha già sbagliato una volta, è vero, ma quel conto l'ha già pagato. Ora va giudicato per questo nuovo caso, e la lezione migliore, in queste ore, nel mucchio di chi lo chiama «stupido» e invoca la sua radiazione, arriva dal silenzio di Tamberi, dal richiamo al garantismo di Filippo Magnini, o dalle parole dello spadista Paolo Pizzo, un altro che non è mai stato soft nei giudizi sul marciatore e su chiunque si dopi. «Se fosse vero, sarebbe molto molto grave». Se fosse vero, appunto. Occorre andarci piano, ascoltare le spiegazioni del marciatore, che ha convocato una conferenza stampa per le 18 del 22 giugno, e del suo avvocato Gerhard Brandstaetter, che parla di «accuse false e mostruose». In gioco non c'è solo la carriera di un atleta, ma la vita di un ragazzo di 31 anni e la credibilità di un allenatore come Sandro Donati, che su Schwazer si è giocato tutto. Se non volete farlo per Alex, fatelo almeno per lui. Aspettate. Poi, se tutto sarà confermato, radiazione a vita sia. Altrimenti chiederemo conto alla Iaaf di come un test negativo a gennaio possa risultare con valori 11 volte più alti della norma a maggio.
Donati: “Ho combattuto la mafia del doping sono minacciato e vivo nella paura”. L’allenatore di Schwazer: “Racconterò tutto ai pm”, scrive Attilio Bolzoni l'11 luglio 2016 su "La Repubblica". Sempre più solo e sempre più accerchiato, questa mattina ha parlato con "qualcuno che gli sta intorno" e l'inquietudine che l'ha accompagnato nei suoi ultimi drammatici giorni è diventata paura. Confessa Sandro Donati: "Sì, ho paura che possa accadere qualcosa di molto brutto a me o alla mia famiglia". Paura di cosa, professore? "Anche di perdere la vita". Non è soltanto una storia di qualificazioni olimpiche e di record, di allori e di medaglie. Una vicenda che è stata rappresentata come uno scandalo dello sport in realtà fa tanto odore di mafia, di clan, di soldi. E mistero dopo mistero si sta trasformando in un affaire internazionale dove le provette di urina s'intrecciano con grandi affari e grandi interessi, appetiti di consorterie criminali, intrighi e vendette. Sandro Donati esce allo scoperto, non si arrende, attacca. E denuncia: "Non mi sono piegato ed ecco perché adesso temo il peggio. Già la mia carriera di allenatore è stata stroncata 29 anni fa quando feci le prime denunce sul doping, ma oggi le contiguità fra alcune istituzioni sportive e ambienti malavitosi sono ricorrenti e dimostrabili". Da Vipiteno, il ritiro scelto per allenare Alex Schwazer per le Olimpiadi di Rio e suo quartiere generale anche dopo l'assai sospetta positività al doping del marciatore che è finito in un gorgo fangoso, svela i suoi timori e annuncia: "Andrò al più presto alla procura della repubblica di Roma a rappresentare certe situazioni, ho molte cose da dire ma nei dettagli preferisco informare prima i magistrati. Per colpire me è stato macellato un atleta innocente che in passato ha sbagliato, ma che è un campione immenso che avrebbe sicuramente vinto a Rio la medaglia d'oro sia sui 20 chilometri che sui 50".
Chi l'ha voluto fermare?
"Questa storia porta con sé un messaggio molto chiaro: chiunque parla va messo fuori gioco, chi rompe il muro dell'omertà che c'è sul doping deve comunque pagarla cara".
Ci spieghi meglio: da dove provengono queste minacce per la sua vita?
"Più persone mi hanno sottolineato come sia stato un grande azzardo da parte di Alex Schwazer accusare gli atleti russi di doping. Ed è evidente il rapporto di corruttela reciproco che ha contrassegnato la relazione fra alcuni dirigenti della Iaaf (la Federazione internazionale di atletica) e le autorità sportive russe, finalizzato ad insabbiare o a gestire in maniera addomesticata i casi di doping".
E cosa c'entra tutto questo con la sua paura?
"Io ho avuto un ruolo fondamentale, collaborando con la procura della repubblica di Bolzano e con il Ros dei carabinieri, nell'individuazione di un gigantesco date base che era nelle mani di un medico italiano che collaborava e collabora ancora con la Iaaf. Nel date base c'erano centinaia di casi di atleti internazionali con valori ematici particolarmente elevati. E, tra questi, un gran numero di russi. Ho portato all'attenzione della Wada (l'agenzia mondiale antidoping) quel data base e nel frattempo la magistratura francese ha aperto un'indagine per riciclaggio e corruzione nei confronti del vecchio presidente della Iaaf Amine Diack che è stato arrestato ".
Lei sta dicendo quindi che la sua azione contro il doping ha provocato una rappresaglia?
"Ne sono sicuro. E ho cominciato a ricevere strane telefonate e anche strane mail che ho già consegnato alla magistratura. Una mi diceva: "Ho da comunicarti informazioni che ti riguardano, un accademico tedesco possiede documenti che dimostrano il tuo coinvolgimento nella vicenda del doping dei russi". Era firmata da una certa Maria Zamora, un nome e una persona che non conosce nessuno. Ho fatto le mie ricerche e sono arrivato alle conclusioni che la parte corrotta della Iaaf e i russi sono un tutt'uno".
Ma perché questo accanimento contro di lei?
"Perché c'è un sistema che non tollera che l'antidoping venga fatto da soggetti esterni alla sua organizzazione, in questo caso la Iaaf. La vicenda è stata in questo senso un'operazione quasi "geometricamente perfetta". Che lancia un avviso a tutti: di doping non si deve parlare, ce ne dobbiamo occupare solo noi istituzioni sportive e chi ne parla fuori fa sempre una brutta fine".
È una legge molto mafiosa, quella del silenzio.
"Il silenzio è la legge in quel mondo. C'è anche una complicità politica, ma non solo in Italia, in tutti i Paesi. Le manovre di isolamento nei miei confronti sono iniziate fra marzo e aprile di quest'anno quando hanno messo in circolo alcune informazioni false, secondo le quali io avrei avuto un ruolo marginale nella Wada. Un tentativo di delegittimarmi, il mio rapporto con la Wada è sempre stato intensissimo fin dal 2003. Eppure qualcuno ha scritto che io ero "un millantatore". Poi è arrivato il resto. L'8 maggio - il giorno prima che Alex vincesse a Roma la gara dei 50 chilometri per la qualificazione a Rio - qualcuno mi ha telefonato dicendomi "che sarebbe stato meglio che Alex arrivasse secondo". Una ventina di giorni dopo lo stesso personaggio mi ha ritelefonato consigliandomi di "non rispondere all'attacco dei marciatori cinesi" nella 20 chilometri. C'è gente che vuole condizionare i risultati, gente che ha interessi altri. Io, dopo 35 anni di attività, posso dire che non ho mai visto tanta coalizione di forze e tanti segnali inquietanti come in questa vicenda di Alex".
Professor Donati, lei è da una vita che combatte contro il doping. Ma davvero l'hanno lasciato sempre solo?
"Qualche mese fa alcuni deputati della Commissione Cultura della camera mi avevano invitato per un'audizione. Mi sono preparato, poi le istituzioni sportive hanno lavorato per depennare il mio nome. Silenzio. Vogliono solo il silenzio".
Come sta Alex Schwazer?
"È un ragazzo serio. È aggrappato a una piccola speranza che vede in me. Ma è così sereno che l'altro giorno mi ha detto: " Prof, se non mi vogliono, io farò altro". Io però non mi arrendo anche se vivo nel terrore. Ho paura ma non piego".
"Cosa ho visto in quella stanza...": Lo sfregio, l'avvocato spiega come hanno umiliato Schwazer, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Una notte da incubo, per Alex Schwazer, volato a Rio de Janeiro per l'incontro con il Tribunale arbitrale dello sport di Losanna che dovrà decidere se concedergli la possibilità di partecipare ai giochi dopo il - controverso - caso di doping che lo ha coinvolto. Il Tas ha deciso di non decidere: il verdetto slitta a venerdì, il giorno in cui Alex dovrebbe affrontare la sua prima gara, la 20 chilometri. Un nuovo sfregio contro l'azzurro, arrivato al culmine di un tesissimo incontro, durante il quale l'allenatore, Sandro Donati, avrebbe dato in escandescenza, urlando, abbandonando la stanza sbattendo la porta, per poi tornare, sempre più scorato. "Il verdetto pare già scritto", hanno detto da ambienti vicini ad Alex. E a tratteggiare il clima che si respira, ci ha pensato l'avvocato dell'atleta, Gerhard Brandstaetter, che spiega che cosa ha visto nella stanzetta dove hanno "processato" il suo assistito: "Il clima è un po' da santa inquisizione, ma noi siamo convinti di aver ragione. Adesso speriamo di trovare un giudice che ce la dia". L'udienza è durata quasi 10 ore, un'eternità. "Alex era molto stanco e provato, ha preferito tornare in hotel. Domani si allenerà e aspetterà fiducioso". Ma la fiducia, purtroppo, è pochissima: la Iaaf, la federazione internazionale di atletica, avrebbe chiesto otto anni di squalifica per il marciatore. Un piano perfetto per farlo fuori. Tanto che la difesa di Schwazer al Tas, si è appreso, ha assunto i contorni di un attacco totale proprio alla Iaaf. Nel mirino della difesa i macroscopici vizi procedurali relativi ai controlli del campione positivo, prelevato lo scorso primo gennaio. Inoltre, per dimostrare che la sostanza trovata nelle urine di Alex fosse stata piazzata, la difesa ha presentato un modello logico-matematico che si basa sui tempi di dimezzamento del testosterone sintetico nella quantità rilevata. L'obiettivo è dimostrare che i controlli subiti da Schwazer subito dopo il primo gennaio avrebbero dovuto rilevare sostanze dopanti. Ma in un clima da "santa inquizione", giusto per ripetere le parole dell'avvocato, ogni dimostrazione potrebbe rivelarsi inutile.
Il campione che l'Italia ha abbandonato. "Libero Quotidiano" per Schwazer: "Preso per il culo", scrive di Fabrizio Biasin
il 10 agosto 2016. Noi ancora non lo sappiamo, ma Alex Schwazer ha ammazzato qualcuno. Non c’è altra spiegazione. Tra l’altro non deve avere ucciso «uno qualunque», un povero cristo, semmai il parente di qualcuno che conta: un bis-nipote del presidente Iaaf (federazione internazionale di atletica leggera), lo zio di un capoccione della Wada (l’agenzia mondiale antidoping). Viceversa non si spiega l’accanimento, il trattamento ai limiti della presa per il culo (e perdonateci il «culo», ma quando ci vuole ci vuole) che il mondo dell’atletica sta riservando al nostro marciatore e, di riflesso, anche a noi italiani. Schwazer conoscerà il suo destino - ovvero la decisione sul farlo o non farlo gareggiare a Rio - «entro venerdì», che poi è il giorno della 20 km, una delle due gare alle quali vorrebbe partecipare (per provare a vincerle, tra l’altro). L’ha deciso il Tas (Tribunale Arbitrale dello Sport), chiamato a trovare una risposta al seguente domandone: è Alex un dopato recidivo e quindi figlio di buona donna? Si è effettivamente «strafatto» di anabolizzanti l’1 gennaio scorso e merita quindi pernacchie e radiazione (8 anni, richiesta della Iaaf)? Avremmo dovuto scoprirlo nella notte italiana di lunedì ma, «chi comanda», ha scelto di rimandare ulteriormente ogni decisione (il primo rinvio senza senso è del 27 luglio, firmato dai «soliti» responsabili Iaaf). Non vi sentite parte in causa? Son fattacci del marciatore e peggio per lui? Forse avete ragione, ma perdete due minuti dietro a questa vicenda allucinante e vediamo se cambiate idea. Alex Schwazer - 31 anni, altoatesino, faccia da sberle - è uno sculettatore con i fiocchi e, infatti, marcia che è una meraviglia. La «povera» atletica leggera italiana se ne accorge ben presto, si attacca alla gallina dalle uova (e dalle medaglie) d’oro e ben fa. Non stiamo ad annoiarvi con l’elenco dei trionfi, ci limitiamo a citare il 1° posto di Pechino 2008, conquistato triturando gli avversari. Quattro anni dopo, alla vigilia dei Giochi di Londra, il «patinato» fidanzato della pattinatrice Carolina Kostner, viene giustamente sputtanato sulla pubblica piazza: è dopato, si fa di Epo, deve essere fermato. Così accade: Schwazer si becca, tra una cosa e l’altra, 45 mesi di squalifica, gli amici gli girano le spalle, la fidanzata lo molla. Praticamente è solo come un cane. Solo un tale gli tende la mano, Sandro Donati, paladino della lotta al doping, tecnico capace, uomo di sport che non piace al mondo dello sport per la sua petulante denuncia contro un sistema sporco e corrotto. «Ti alleno io», gli dice. «Grazie», risponde Alex. I due si fanno un mazzo così marciando lungo le strade provinciali, ben lontano dai campi di gara a loro preclusi. Schwazer viene guardato dagli altri come «sozzo e imperdonabile», ma se ne frega, ritrova forma e tempi, quindi alla prima occasione dopo la riabilitazione (Roma, Mondiale a squadre dell’8 maggio scorso) conquista vittoria e crono utile per volare a Rio. Una favola straordinaria? Neanche per idea. Il 21 giugno salta fuori una provetta, quella relativa alle analisi a sorpresa dell’1 gennaio scorso: il test che a suo tempo diede esito negativo, improvvisamente si trasforma in positivo. Alex viene sospeso. E fa niente se gli altri 19 controlli a cui si è sottoposto negli ultimi due anni hanno certificato la sua «purezza»: Alex, per chi comanda, è come il lupo che perde il pelo e bla bla bla. In conferenza stampa il marciatore, Donati e l’avvocato Brandstaetter sono incazzati come iene e gridano la loro innocenza. Spuntano telefonate registrate in cui si «consiglia» a Schwazer di non vincere «perché è meglio così». Come se non bastasse, l’ennesimo test (quello del 22 giugno) è negativo: Alex chiede e ottiene udienza al Tas. Il resto è storia di oggi: il-rinvio-del-rinvio-della-sentenza-sulla-vera-o-presunta-positività-relativa-a-un-test-che-era-negativo-ma-poi-è-risultato-positivo. Una situazione grottesca, un trattamento indegno. Il tutto condito da un silenzio bestiale: non tanto quello dei tifosi (c’è chi grida al complotto, chi semplicemente denuncia «l’indecenza» del trattamento riservato al nostro marciatore), quanto quello dei nostri «comandanti», dei capi-spedizione, dei responsabili del Coni. Nessuno tra quelli «che contano» che alzi un dito e dica: «Squalificarlo è vostra facoltà, umiliarlo proprio no». Niente di niente: vince l’indifferenza, il mutismo rotto solo da Donati che, lunedì, dopo 7 ore di udienza, se n’è andato dall’aula di Rio sbattendo la porta. «Hanno già deciso», ha detto a mezza bocca. Sul volto la smorfia di chi inseguiva un sogno. Fabrizio Biasin
Doping, Schwazer: il Tas ha deciso otto anni di squalifica: «Sono distrutto, chiedo più rispetto per me». La sentenza ai danni del marciatore azzurro notificata alle parti, accolta la richiesta della Federazione internazionale per la positività di inizio gennaio, scrive Gaia Piccardi, inviata a Rio de Janeiro, il 10 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. La lunga marcia finisce qui, sul lungomare scintillante di Copacabana dove Alex Schwazer sparisce nel buio pesto della notte brasiliana con il morale a pezzi («Sono distrutto»), inseguito dai fantasmi di un verdetto impietoso: otto anni di squalifica per doping-bis. Ha gli occhi scavati, le labbra serrate, nessuna voglia di parlare: «Dovreste avere più rispetto per me come persona». Sale in taxi, destinazione sconosciuta. In mattinata si era allenato sotto la pioggia, 40 km inseguito da Sandro Donati in bicicletta e aggrappato alla certezza che il Tas lo avrebbe riammesso ai Giochi di Rio, che avrebbe potuto indossare una maglia della nazionale italiana ed entrare in una stanza del villaggio, parte integrante della spedizione olimpica, di nuovo atleta e non più reietto. L’udienza fiume (9 ore) di lunedì, dopo due giorni di camera di consiglio, invece ha prodotto il verdetto più scontato in presenza di positività al testosterone. La fine della carriera. La fine di tutti i sogni. Gliel’ha detto la manager storica, Giulia Mancini. Alex si è seduto e ha fissato il pavimento per un’ora, livido. Poi ha rotto il silenzio: «Potete andare?». Si è fatto una doccia, ha indossato pantaloncini e maglietta. È uscito per correre. Non è più tornato. Solo nella notte raggiunto dall’agenzia di stampa Agi ha detto: «Non mi sembrava che l’udienza fosse poi andata così male, per questo ho voluto crederci fino alla fine. Non conosco ancora le motivazioni ma mi pare si siano limitati ad una semplice cosa tecnica. Credevo di poter partecipare alle Olimpiadi di Rio, è da oltre un anno che lavoro e facendo parecchi sacrifici, soprattutto economici». Il miracolo di ribaltare il risultato già scritto di una partita in trasferta, contro avversari enormi - la Iaaf con il direttore del suo laboratorio antidoping, Thomas Capdeville, presenza del tutto irrituale in una procedimento che di rituale non ha avuto nulla sin dall’inizio, a partire dallo spostamento dell’udienza da Losanna a Rio -, è fallito. Le spiegazioni di coach Sandro Donati, argomentate con dati/tabelle/istogrammi relativi al monitoraggio antidoping a cui Alex è stato sottoposto ogni 15 giorni dall’anno scorso («Un’iniziativa destabilizzante per un ambiente corrotto e una federazione, la Iaaf, priva di credibilità»), non sono state accolte. La veemenza con cui sono state esposte, forse scambiate per la furia iconoclasta con cui questo professore di Monte Porzio Catone da tutta la vita sta cercando di combattere un sistema che è convinto sia malato nel midollo, respinte al mittente. La tesi della Federatletica internazionale è accolta in toto: Alex Schwazer si è dopato per la seconda volta dopo la positività all’epo del 2012, nelle sue urine il primo gennaio scorso c’era il testosterone sintetico che gli costa otto anni di squalifica, la pena applicata di default a un recidivo. Le incongruenze sulla conservazione del campione, la comunicazione tardiva, l’accanimento con cui è stato esaminato più volte? Inesistenti. La tesi del complotto ipotizzata a gran voce da Donati in questo ultimo, drammatico, mese? Fantasia. La marcia s’interrompe, questa volta per sempre, nel luogo che più stride con la costernazione profonda della coppia di fatto Alex&Sandro, saldati dalle circostanze e abbattuti all’ultimo assalto alla diligenza. Dietro l’hotel Best Western dove si consuma il dramma sportivo e umano di Schwazer e Donati, le mille luci del lungomare più glamour di Rio e dell’Olimpiade, il luogo dei tanga, delle infradito e delle caipirinhe. Dentro, nella stanzetta che atleta e allenatore dividono in questa trasferta per risparmiare le spese, solo rabbia, lacrime e tristezza. Se Alex, a 30 anni, può inventarsi un’esistenza tra Calice e Vipiteno («È scioccato ma adulto, affronterà la vita fuori dall’atletica» dice il prof, stravolto), magari puntellandosi all’affetto della nuova fidanzata (Carolina Kostner tace, sullo sfondo), non c’è dubbio che Donati non si darà pace fino all’ultimo dei suoi giorni: «È una vicenda grottesca, umiliante per Alex e chi gli sta accanto. La battaglia ora passa sul piano giudiziario: ci sono già due Procure, Bolzano e Roma, che indagano». Doveva finire sul traguardo dell’Olimpiade, magari già nella 20 km di marcia di domani. E invece il sipario cala così, come una pietra tombale su questa tragedia shakespeariana. Mai finita anche adesso che è finita.
Doping, il Tas ha deciso: Schwazer condannato a 8 anni. "Sono distrutto". Il Tribunale di arbitrato sportivo ha emesso il proprio verdetto: non correrà la marcia 50km venerdì 19 agosto. La sentenza arriva dopo la positività a uno steroide sintetico rilevata in un controllo del 1 gennaio scorso. Donati: "Gli hanno stroncato la vita". Tamberi lo attacca di nuovo, scrive il 10 agosto 2016 “La Repubblica”. Il Tas demolisce la carriera di Alex Schwazer. Il Tribunale di arbitrato sportivo ha condannato il marciatore altoatesino a una squalifica di 8 anni per la nuova positività a uno steroide sintetico rilevata in un controllo del 1 gennaio scorso. Il verdetto arriva dopo l'udienza fiume di due giorni fa in cui Schwazer aveva esposto le proprie ragioni, chiedendo l'audizione di alcuni testimoni via skype e producendo una importante documentazione attraverso schede powerpoint e test. Il Tas ha accolto tutte le richieste che la Iaaf aveva fatto e quindi non ha concesso alcuna attenuante al marciatore altoatesino che sognava le Olimpiadi di Rio de Janeiro, obiettivo che si era prefissato da oltre un anno, quando aveva iniziato la collaborazione con Sandro Donati, il paladino della lotta al doping. "Sono distrutto", è la prima frase con cui Schwazer commenta il verdetto. Per poi aggiungere: "Non mi sembrava che l'udienza fosse poi andata così male, per questo ho voluto crederci fino alla fine. Di quelle dieci ore che abbiamo parlato dove Donati ha presentato il suo power point, non è rimasto nulla, solo una grande amarezza. Non conosco ancora le motivazioni ma mi pare si siano limitati ad una semplice cosa tecnica. Credevo di poter partecipare alle Olimpiadi di Rio, è da oltre un anno che lavoro e facendo parecchi sacrifici, soprattutto economici". Il tecnico Sandro Donati, in conferenza, lo difende con convinzione: "E' evidente un fine persecutorio nei confronti si Alex. Di riffa o di raffa dovevano eliminare Schwazer. Non parlerò della mia persona, ho una certa età. Ad Alex hanno stroncato la vita. Stamattina ha marciato per una quarantina di km a una velocità che tolti uno o due marciatori nessuno saprebbe tenere nemmeno in gara. E' evidente che era facile incolpare uno con un precedente. Poi avete visto con quale tecnica, anche medici interessati da procedimenti giudiziario, si siano affrettati a definirlo persino "bipolare". Alex è lineare, coerente, semplice, affidabile. Ha sbagliato una volta, con sua quota di responsabilità coinvolgendo anche la Kostner in una cosa in cui non entrava niente. Ma in quel periodo è stato abbandonato a sé stesso. Non gli è stato dato un allenatore adeguato. Qualcuno gli ha prescritto un antidepressivo per email. Sapevano che aveva incontrato il dott. Michele Ferrari e nessuno è intervenuto. Gli hanno permesso di andare in Germania per un mese. Tutti si sono sottratti, il Coni e la federazione". Ora cosa sarà di voi? "Alex è cresciuto tanto in questi anni e ha l'equilibrio per affrontare la vita anche fuori dall'atletica. Lui dopo Rio l'avrebbe abbandonata comunque dopo Rio. C'è stata un'opera di delegittimazione di Schwazer appena ha iniziato a lavorare con me, con foto mandate in giro. Ex miracolati di Conconi. Alex marcia alla grande, non gli è mai stato alzato un cartellino rosso. Si è pagato tutto di tasca sua, e lo hanno accusato di fare marketing". Chi invece è tornato ad attaccare Schwazer è Gianmarco Tamberi, a Rio per seguire le gare nonostante l'infortunio che gli ha impedito di essere tra i protagonisti del salto in alto: "Mi chiedete se 8 anni sono giusti? Non sono io a dovermi esprimere, ma Schwazer è stato trovato positivo due volte, e questo non sono io a dirlo...". L'atleta azzurro ribadisce la sua posizione: "Mi ero espresso prima di questa nuova positività, ho sempre pensato che un'atleta pizzicato per doping non debba più vestire la maglia azzurra perché non rappresenta più i valori della nazionale". Anche Elisa Di Francisca, argento nel fioretto a Rio, non è tenera con l'altoatesino: "Non ho mai barato, non ho mai pagato nessuno per farmi vincere. Ho la coscienza pulita perché non mi sono mai dopata in vita mia. Questa è la mia linea e lo sarà sempre, i risultati li voglio ottenere solo attraverso i miei sacrifici. Sta a ognuno di noi comportarsi bene". L'ultima chance, ma ormai i Giochi saranno passati, sarà quella di andare fino all'ultimo grado di giudizio che è la Corte Federale svizzera. Il 31enne marciatore di Calice di Racines farà richiesta di esame del Dna. Alex Schwazer era stato trovato positivo all'esame antidoping del primo gennaio 2016 solamente a seguito di un test di laboratorio effettuato oltre tre mesi dopo l'esame che inizialmente aveva dato esito negativo. Gravi - secondo la difesa - sono stati i ritardi nella comunicazione all'atleta da parte della Iaaf. Infatti, sono trascorsi oltre 40 giorni dal momento della positività riscontrata, il 13 maggio, alla notifica, avvenuta il 21 giugno. "Siamo delusi ma andremo avanti a trovare la verità con l'esame del Dna e quant'altro. Otto anni perché è recidivo. Non sappiamo ancora le motivazioni". Così all'Agi l'avvocato Thomas Tiefenbrunner, legale di Alex Schwazer, alla notizia della squalifica di otto anni inflitta al marciatore altoatesino.
LO HANNO FOTTUTO. "Sotto shock", paura per Schwazer: nella notte, la sua tragica reazione, scrive “Libero Quotidiano” l’11 agosto 2016. Carriera e Olimpiadi cancellate, con un metaforico tratto di penna. Fottuto. Fregato. Massacrato. Otto anni di squalifica per Alex Schwazer, che era volato a Rio de Janeiro per il ricorso al Tas e per sperare in queste Olimpiadi. La situazione in cui lo avevano cacciato era disperata, ma lui ci credeva ancora. Ancora un pochino. Ma niente da fare. La caccia alle streghe si è conclusa così, con una punizione esemplare che lo uccide sportivamente e che arriva per un caso molto, troppo sospetto. E Alex ha reagito male. Nel peggiore dei modi, rinchiudendosi in se stesso. L'unica frase pubblica che gli è uscita dalla bocca è stata: "Sono distrutto". È un ragazzo fragile, Schwazer, lo dimostra quella sua tragica e indimenticabile conferenza stampa in cui, nel 2012, ammise tutte le porcherie di doping che aveva fatto. Porcherie che oggi, probabilmente, non ha fatto. Per nulla. Sono in pochi a credere che si sia dopato ancora, sotto lo sguardo attento di mister Sandro Donati, per giunta, l'uomo che ha lottato tutta la vita contro il doping e che proprio per questo, forse, oggi ha pagato. Nella notte italiana, Schwazer ha anche disertato la conferenza stampa convocata nella terrazza dell'albergo dopo lo squalifica. Se ne è andato via da solo, cercando il mare, un luogo in cui nessuno lo guardasse. Secondo il racconto della Gazzetta dello Sport si è seduto a un tavolo alla Casa dos Marujos, senza consumare nulla, guardando fisso la tv che proiettava Svizzera-Usa di beach volley. Solo, per più di un'ora, con la maglietta azzurro indosso, come se dovesse iniziare ad allenarsi, da un momento all'altro. Poi si è alzato e si è infilato in un taxi insieme alla sua manager, Giulia Mancini. Poi c'è mister Donati, che racconta: "Ho informato io Alex della squalifica, è rimasto in silenzio per venti minuti, senza parlare". Dunque una nuova rivelazione, che aggiunge ulteriore puzza di marcio al marcio di questa storia: "Nell'udienza del Tas, abbiamo scoperto che il famoso controllo antidoping a sorpresa era stato pianificato e comunicato agli ispettori del prelievo 15 giorni prima. Una situazione incredibile, mettendo a rischio la riservatezza del controllo. Perché controllarlo il primo gennaio e non il 28 dicembre? Perché l'obiettivo era quello di effettuare tutto il primo gennaio, con il laboratorio chiuso, e con la possibilità di tenere la provetta un giorno intero prima di portarla a Colonia". Un complotto, appunto. Gli indizi sono tanti, troppi. Una carriera bruciata, finita, calpestata, umiliata. Schwazer aveva pagato tutto quello che doveva pagare. Ora dovrà pagare anche un conto che forse non gli spetta. Gli resta solo la giustizia penale, dove dovrà dimostrare che ci sia stato un sabotaggio o una sottomissione. Impresa ardua. Si inizierà col test del Dna. Ma sarà sempre troppo tardi. Per le Olimpiadi di sicuro, e forse anche per tutto il resto.
Schwazer senza scampo: 8 anni di squalifica. Accolta la richiesta della Iaaf, l'azzurro chiude con la marcia. Ma i sospetti restano, scrive Benny Casadei Lucchi, Giovedì 11/08/2016, su "Il Giornale". Il Tas, nel tardo pomeriggio di Rio, ha comunicato la propria decisione e, anche se prevista, è choc. Alex Schwazer è fuori da tutto. Otto anni di squalifica. Senza se, senza ma, uno schiaffo all'uomo e ai suoi uomini, in primis Sandro Donati, paladino della lotta al doping finito anche lui in queste sabbie mobili del sospetto. Ricaduto, coinvolto, fregato, gli estremi del giallo e del due pesi e due misure resteranno per sempre perché questa seconda positività di Alex, fin dalla tardiva comunicazione a giugno, dopo mesi a rimpallarsi provette e controlli, è e resterà tinta di giallo. Il controllo del 1° gennaio, la presenza minima di anabolizzanti riscontrata, la provetta non anonima, con indicato il paese di Alex, Racines, unico atleta al mondo a vivere lì, per cui persino negato l'anonimato nei controlli. E poi l'incredibile tempistica che ha portato la Iaaf a comunicare la positività solo a fine giugno, quando ormai i tempi per appelli, difese, tentativi di far valere le proprie posizioni erano, e infatti si sono rivelati, vani. Inutile il viaggio a Rio, inutile la presenza dei suoi legali, di specialisti, di video che avevano monitorato giorno per giorno l'assenza di doping nel suo sangue. Inutile allenarsi con tristezza e la pena nel cuore lungo le vie di Copacabana. Schwazer torna a casa, ma questo è solo l'inizio di una lunga marcia verso altro. Domani avrebbe potuto correre la 20 km, la settimana dopo giocarsi tutto nella sua 50. Ora dovrà iniziare ben altro allenamento: reggere il peso di un simile epilogo. Perché la vicenda ha dell'incredibile. Squalificato alla vigilia della marcia di Londra 2012, risqualificato definitivamente alla vigilia di quella di Rio. Quattro anni più tardi, dopo averne scontati tre di fermo, dopo essere tornato alle competizioni lo scorso 8 maggio, dopo aver vinto la marcia mondiale di Roma, dopo aver fatto capire al mondo che avrebbe ipotecato la medaglia d'oro ai Giochi. Niente Giochi, invece. Vicenda surreale perché non ci si può sbilanciare da una e dall'altra parte. Perché Alex era stato trovato positivo e in più aveva mentito la prima volta. E perché la positività agli anabolizzanti riscontrata il 1° gennaio dai controllori della Iaaf è emersa solo dopo un secondo controllo il 12 maggio, quattro giorni dopo la marcia vittoriosa di Roma, ma comunicata a fine giugno. Per cui c'è tanto di cui sospettare. Da una parte e dall'altra.
Però poi, nonostante i dubbi, ci sono loro. Quelli che, comunque, stanno dalla parte della ragione. Posti esauriti, dato il gran numero.
Rio 2016, la russa Efimova in lacrime: vince l'argento ma piovono insulti, scrive Mario di Ciommo il 9 agosto 2016 su “La Repubblica”. Yulia Efimova ha vinto la medaglia d'argento nei 100 metri rana, ma ad attenderla fuori dalla vasca non c'erano applausi e complimenti: solo fischi e insulti. La nuotatrice russa, riammessa in extremis ai Giochi dopo il ricorso al Tas, ha vissuto una serata surreale dopo la conquista della sua seconda medaglia olimpica. "Non c'è medaglia che possa cancellare l'amarezza del vedere che tutto il pubblico è contro di te, - ha dichiarato tra le lacrime la Efimova - ho commesso degli errori nella mia vita e la prima volta ho pagato con la squalifica di sedici mesi, ma la seconda volta non è stata colpa mia. Sono pulita". Anche Lily King, medaglia d'oro nella specialità, non è stata molto indulgente con la russa e durante la semifinale le ha mostrato il dito medio in vasca. "Che giorno triste per lo sport. Permettere ai dopati di gareggiare è una cosa che mi spezza il cuore e mi fa letteralmente incazzare", è stato invece il commento di Michael Phelps alla medaglia della Efimova, diventata un vero e proprio caso. Il clima di tensione ha richiesto l'intervento del Cio. Il Comitato Olimpico Internazionale ha chiesto agli atleti di rispettare gli avversari non solo con i comportamenti sui campi di gara, ma anche nelle loro dichiarazioni.
Pubblica gogna (dei perdenti) per i dopati. Altro che tregua olimpica. Rivolta di tifosi e atleti con i riabilitati dal doping. Dotto duro: "Li guardi e vorresti dargli un pugno", scrive Benny Casadei Lucchi, Mercoledì 10/08/2016, su "Il Giornale". Per la città olimpica, per il parco olimpico, nei palazzetti olimpici, ovunque si aggira uno spettro che non è solo il doping, ma anche il modo in cui atleti puliti e pubblico lo stanno vivendo. Monta l'amarezza, c'è tensione, e siamo ai fischi, agli insulti. Nel nuoto i casi Sun Yang ed Efimova e Morozov, ieri in batteria e semifinale nei 100 stile con il nostro Luca Dotto, hanno trasformato il bordo vasca in un'arena di cose brutte. S'insultano fra loro gli atleti divisi tra puri o al momento puri e sporchi o al momento ex sporchi. Caricando a pallettoni i tifosi sugli spalti. Per dire. Luca Dotto dopo le batterie dei 100 ha detto: "Le Federazioni che dovevano prendere delle decisioni stanno perdendo la faccia e hanno stancato noi e il pubblico. E poi quando ci sono un paio di ex dopati che tolgono un posto in semifinale o finale a persone pulite, che lottano tutta la vita per quel posto... ecco... quando li guardo in camera di chiamata, mi viene da prenderli a ceffoni. Però sono ormai qui, non gli si può sparare alle gambe altrimenti l'avremmo già fatto, per cui cerchiamo di batterli perché vale doppia soddisfazione". Per dire: il Cio ieri ha saputo solo uscirsene con un inutile e ovviamente inascoltato "gli avversari vanno rispettati". Luca infatti non fa nomi, ma è ovvio che si riferisca a Sun Yang argento davanti a Detti nei 400, o al russo Morozov, finito nel rapporto Wada e però riammesso dal Tas e ieri in batteria con lui nei 100 stile. Per dire: con cruda schiettezza australiana, Mack Horton, l'altro giorno ha vinto l'oro dei 400 davanti al cinese misterioso e sospetto e "non stringo la mano a un ex dopato". O come il caso Efimova, trovata positiva al meldonium e poi riammessa dal Tas e ieri notte seconda tra i fischi e gli insulti nei 100 rana. E il morso di Phelps l'ha accolta appena uscita dalla vasca: "Triste che i positivi siano stati autorizzati a gareggiare di nuovo. Mi si spezza il cuore e mi fa letteralmente incazzare". E il francese Lacourt sul cinese Sun Yang: "Ma se fa la pipì viola...". Questo nel nuoto. L'atletica si prepara ad ugual cosa perché lo sport più rappresentativo della rassegna a cinque stelle è anche e purtroppo il più rappresentativo del doping. Per dire: Justin Gatlin velocista duro a invecchiare e soprattutto duro a darsi per vinto dopo i malanni del doping, è l'uomo che più di tutti, sulla carta e crono alla mano, può rendere difficile la vita a re Usain Bolt. E non a caso il re, un giorno sì e l'altro pure, se ne esce con frasi contro i dopati. Ieri ha detto "stiamo estirpando l'erba cattiva". Per cui anche qui ci si chiede come atleti e spalti accoglieranno l'americano trovato positivo due volte. Ugual cosa ci si domanda per Asafa Powell, anche lui finito nelle maglie dell'antidoping per uso di stimolanti. E che dire di Sandra Perkovic, fuoriclasse del disco, dopata nel 2011 e campionessa olimpica nel 2012 e oggi qui a difendere quella medaglia? O della cinese Li Yong che a Roma, tre mesi fa, ha stravinto la 20 km di marcia e poi l'ha persa perché squalificata un mese per positività e tutto è stato fatto di fretta ed eccola qui mentre Schwazer si sta dannando l'anima per essere riammesso? Già, la triste e lunga e logorante vicenda del marciatore. Ieri notte, appena usciti dall'interminabile audizione con Alex davanti al Tribunale di arbitrato sportivo in trasferta a Rio, i suoi legali hanno detto sconsolati "Alex proseguirà con gli allenamenti, la sentenza verrà comunicata entro venerdì, termine massimo per consentirgli di prendere parte alla 20 km di marcia". Il suo allenatore, Sandro Donati, si è lasciato scappare un preoccupante "pronti a una sentenza già scritta". Gli avvocati hanno comunque fornito tutte le evidenze a sostegno della tesi difensiva: vizi di forma, la provetta etichettata con il nome del paese, Racines, dove vive un solo atleta al mondo, cioè Alex, per cui diritto all'anonimato violato. Quindi prove video che illustrano l'andamento ormonale monitorato spontaneamente per mesi, anche nel periodo in questione (il test del 1 gennaio scorso). Il problema, visto lo spettro che s'aggira per l'olimpiade, è però un altro. Comunque vada a finire, Alex ha perso. Perché se i giudici confermeranno la decisione Iaaf, addio olimpiade e carriera. Dovessero invece dargli ragione e riammetterlo in tempo utile per la 20 km e, soprattutto, per la sua 50, andrà scortato mentre marcia. Il pubblico di Rio ha scelto: la squadra degli ex dopati non ha bandiera e non ha casa.
Ricostruiti in un docufilm tutti i misteri dell'incredibile marcia di Alex Schwazer. Un instant movie firmato da Attilio Bolzoni e Massimo Cappello con la regia di Alberto Mascia che contiene inedite intercettazioni telefoniche. Su tentativi di pilotare gare internazionali di atletica e sui segreti del doping russo.
I signori del doping alla prova di una vera inchiesta, scrive il 4 agosto 2016 Elisa Marincola su "Articolo 21". Il docufilm pubblicato oggi sul sito di Repubblica aiuta a capire meglio non solo la vicenda del marciatore Alex Schwazer, ma anche il funzionamento, o non funzionamento, della macchina dell’antidoping nazionale e mondiale. Che alla fine sembra ora rivedere anche i propri stessi risultati, ridimensionati dal risultato pubblicato sempre oggi del test a sorpresa sull’atleta effettuato lo scorso 22 giugno, che dimostra ancora una volta l’assoluta assenza di sostanze nel suo fisico. Il ventesimo esame in poco più di un anno, con uno solo, curiosamente, risultato positivo. La cronaca è nota ai più, ci limitiamo a ricordare che Alex Schwazer era stato già sospeso per tre anni e nove mesi complessivi dopo essere stato trovato positivo a un test alla vigilia dei giochi di Londra. Colpa ammessa pubblicamente e scontata in silenzio e in solitudine. Ma non del tutto abbandonato, perché presto accanto a lui si è schierato una figura indiscussa dello sport pulito: l’allenatore Sandro Donati che proprio per la sua inflessibile battaglia contro le pratiche di doping diffuse molto oltre l’immaginabile ha sacrificato la sua carriera, messo praticamente al bando da incarichi prestigiosi che pure proprio per le grandi capacità tecniche avrebbe meritato. E proprio grazie al sostegno tecnico e umano di Donati, Alex ha ripreso ad allenarsi fuori dai circuiti ufficiali che gli erano vietati, ha ricostruito il suo fisico ma soprattutto la sua anima e la sua autostima, sempre sotto stretto controllo del suo mister, che lo ha costretto a marce forzate e analisi continue. Fino all’8 maggio, quando, finita la squalifica, corre sui 50 km alla Coppa del mondo di Roma e vince indiscutibilmente. E poi, all’improvviso, a un mese e mezzo da quella bella medaglia d’oro, la rivelazione di quel famoso prelievo la mattina di capodanno, con due risultati contrastanti usciti a distanza di mesi, con percorsi sospetti, ma in tempo per fermare la sua partecipazione a Rio. Fino a far arrivare avvertimenti che sanno anche di criminalità organizzata a Donati, tanto da muovere la commissione parlamentare antimafia a convocarlo per raccogliere la sua denuncia. Firmata da Attilio Bolzoni e Massimo Cappello (già autori insieme del docufilm Silencio sulla mattanza di giornalisti in Messico), “Operazione Schwazer. Le trame dei signori del doping” è un’inchiesta giornalistica che rivela una serie di falle, incongruenze, intrecci d’interessi macroscopici nel sistema dell’antidoping nazionale e mondiale, ma anche nella gestione occulta di risultati di gara forse non sempre così limpidi e meritati. Non vogliamo dare giudizi su settori e vicende che non conosciamo e su cui la magistratura italiana ha da tempo aperto diversi fascicoli d’indagine. Notiamo semplicemente che non sono serviti mesi e mesi di polemiche, inchieste interne alle autorità sportive internazionali, scandali pubblici e privati, denunce e scontri persino tra governi, a mettere in fila i pezzi di una realtà malata (se anche criminale lo dimostreranno gli inquirenti) come è riuscito a fare in appena 20 minuti di video un bel prodotto giornalistico realizzato praticamente a costo zero, con il lavoro da inviato di Bolzoni, i rimborsi spese per trasferte e poco altro coperti dal quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, e l’impegno a titolo praticamente volontario dello stesso Massimo Cappello e del regista Alberto Mascia e di quanti in questi mesi sono stati al fianco di Schwazer e di Donati e da anni denunciano con loro la marea incontrastata del doping, che sta avvelenando un mondo che per sua natura dovrebbe esaltare lo stato fisico più sano. Sembra un ossimoro, ma lo sport, vissuto sotto i riflettori in ogni momento della giornata e delle carriere di chi lo pratica soprattutto da professionista, lussuosamente finanziato da sponsor che tutto sanno e nulla dicono, raccontato fin nelle alcove da giornali, tv, siti web che pagano miliardi di diritti per pochi secondi o anche solo per un solo scatto, si rivela oggi forse la periferia più oscura e volutamente dimenticata, dai media, dalle istituzioni internazionali, e anche dalla politica che tanto severa invece appare verso chi si fuma in santa pace una cannetta senza far male a nessun altro se non a se stesso (meno comunque dei milioni di fumatori di sigarette che inquinano anche noi). Ora, dopo aver sentito le intercettazioni e visto documentazioni e testimonianze messe in fila da Bolzoni e Cappello, resta da chiedersi: i giudici sportivi che faranno? La Iaaf avrà qualcosa da dire? E tutti quei colleghi di Schwazer pronti a crocifiggerlo? Senza voler giudicare nessuno, ma qualche dubbio su intrecci di conflitti d’interesse e dossier già noti da almeno tre anni (sempre ascoltando gli intercettati) e insabbiati fino ad oggi dovrebbe averlo chiunque. L’udienza finale del Tas (il Tribunale arbitrale sportivo) sul caso Schwazer, decisiva per la sua partecipazione alle competizioni delle Olimpiadi di Rio, è ora spostata all’8 agosto nella città brasiliana, ad appena quattro giorni dalla 20 km di marcia, prima gara a cui il marciatore potrebbe partecipare se fosse riconosciuta la sua innocenza. Per chi non lo sa, il ricorso di Schwazer ha un costo: 40mila euro tra spese legali, controanalisi e viaggi. Naturalmente senza sponsor. Cercare la verità è cosa per ricchi, ma né Alex e né il suo allenatore Sandro Donati lo sono.
Caso Schwazer: le intercettazioni delle telefonate del giudice Maggio a Donati, scrive il 4/08/2016 Luca Landoni. Oggi è uscito l’atteso docufilm di Repubblica a cura di Attilio Bolzoni. Una ricostruzione minuziosa del caso legato ad Alex Schwazer a partire dalle irregolarità del modulo del controllo antidoping del 1° gennaio 2016 (quello da cui risultò l’ultima positività) e che riportava la scritta Racines (luogo di residenza di Schwazer, NdR) rendendolo di fatto non anonimo, fino alle famose intercettazioni che per la prima volta possiamo anche ascoltare. Potete vedere il docufilm in versione integrale subito sotto. Intanto però vi trascriviamo il contenuto delle intercettazioni di quello che Donati aveva definito “un giudice internazionale di marcia vicino al Damilano” e che da oggi ha il nome che molti immaginavano ma non potevamo ancora mettere nero su bianco per ovvi motivi: Nicola Maggio, già al centro di un caso clamoroso di sospette decisioni secondo le accuse del collega Robert Bowman. Ecco il testo. Telefonata Uno: ore 6 di mattina giorno della gara di Roma (7 maggio), rintracciabile al minuto 7:30 del docufilm: «Buongiorno sono Maggio. Disturbo, immagino, a quest’ora.Ieri sera stavamo qui alla cena con tutte le vecchie glorie. Allora lei per cortesia stia calmo. L’unica cosa, la prego, glielo dica ancora una volta (immaginiamo ci fosse stato un precedente contatto a voce, NdR) fino a prima della gara, possibilmente lasci vincere Tallent, mi capisce?» Telefonata Due, 23 maggio, 20 giorni prima della gara di La Coruna, minuto 8:38 del docufilm: “Gli dica di fare una gara bella tecnicamente, di non andare a cercare disgrazie con i due cinesi che sono da 1 ora e 17 perché non ha senso”. Dunque alla fine Donati i nomi li ha fatti. Passiamo ora alle intercettazioni del dottor Giuseppe Fischetto, medico della Federazione Italiana, che parla “con un amico”. Fischetto, grande accusato da Schwazer nel processo di Bolzano, cionondimeno è stato responsabile antidoping alla Coppa del Mondo di Marcia di Roma, e secondo le parole di Donati gestiva e aggiornava il database gigantesco con tanti nomi dei russi, e sempre in Russia veniva inviato a svolgere una grande quantità di missioni.
Ecco il testo. Telefonata Uno, 18 giugno 2013, ore 21:40, al minuto 10:55 del docufilm. Interlocutore un amico.
– Sono Giuseppe Fischetto, come stai?
– O Giuseppe ciao come stai?
– Un po’ incazzato con la giustizia, avrai sentito che sono venuti a sequestrarci i computer, di tutto di più. Son venuti da me, da Rita (Bottiglieri, NdR), prima a casa da Fiorella (l’altro medico al centro del caso, NdR) sempre per la vicenda Schwazer. Hanno fatto un sequestro di tutto il materiale informatico che abbiamo a casa e in Fidal alla ricerca dell’idea che qualcuno possa aver sostenuto Schwazer
– Ma questo su iniziativa di chi, Giuse’?
-Del giudice di Bolzano, Va be’ so’ una rottura di palle perché m’han tolto tutti gli hard disk e ci sono anche tante cose confidenziali internazionali eh… che io spero non ci siano fughe di notizie perché succede un casino internazionale: sai metti che vengon fuori dei dati dei russi più che non dei turchi più che non degli altri, perché io sono nella commissione mondiale, tu lo sai, della Iaaf.
L’ex procuratore capo di Bolzano Guido Rispoli spiega che il database cui si accenna conteneva dati ematici sospetti di molti atleti russi ed è stato poi usato come materiale probatorio centrale nelle indagini seguenti che hanno portato ai noti fatti culminati nell’esclusione paventata della Russia dai prossimi Giochi Olimpici.
Telefonata Due, 18 giugno 2013, minuto 13:32 del docufilm, interlocutore Rita Bottiglieri:
GF: Ciao, ‘ndo stai?
RB: Sono a (?). Ora evidentemente la Procura di Bolzano vuole cercare riscontri riguardo alle (ambizioni?) del marciatore.
GF: Io son preoccupato del materiale informatico di tutta un’attività internazionale riservata, capito?
RB: E va be’, Giuseppe…
GF: Questo crucco comunque addamorì ammazzato, devono incularsi la Kostner.
Da segnalare che nel video segue la telefonata del giornalista Bolzoni a Fischetto che però non risponde dicendo di essere all’estero. Gli si chiedeva se gli sembrava normale che lui fosse giudice nella gara di Schwazer, dopo che il marciatore lo aveva accusato.
Telefonata Tre, 27 giugno 2013, minuto 15:15 del docufilm, interlocutore un impiegato della Fidal:
GF: La sai l’Ultima? Ho appena chiuso il telefono, sai chi ma ha chiamato? Lamine Diack(ex-Presidente della Iaaf che nel 2015 sarebbe stato arrestato per corruzione, NdR) dandomi il massimo supporto, dicendomi di andare avanti.
Impiegato Fidal: Anche qui c’è la solidarietà di tutti, di chiunque.
Donati chiosa: “E questo è l’ambiente da cui è partito l’ordine di rifare il controllo antidoping a Schwazer.
"Forse non ci vedremo più" Schwazer saluta l'allenatore. Dopo la squalifica a 8 anni, per Alex Schwazer è il momento della riflessione. Il marciatore ha deciso di lasciare Copacabana, scrive Claudio Torre, Venerdì 12/08/2016, su "Il Giornale". Dopo la squalifica a 8 anni, per Alex Schwazer è il momento della riflessione. Il marciatore ha deciso di lasciare Copacabana e di rientrare in Italia. Ma dietro le spalle si lascia amarezza e quella sensazione di impotenza di chi voleva gareggiare e adesso si ritrova a dover restare fermo e probabilmente a rinunciare alla sua carriera. E così ha salutato il suo allenatore Sandro Donati, l'uomo che lo aveva fatto rinascere. Lo ha guardato in aeroporto e gli ha detto: "Mi sa che è l'ultima volte che ci vediamo...". Una frase che, forse, più della sentenza del tas lascia intender quanto sia ormai definitiva la decisione di Schwazer di mollare tutto. "Alex è cresciuto, saprà cosa fare", ha affermato Donati. "Al momento - spiega Schwazer dopo il suo arrivo in Italia - non ho ancora le idee chiare su cosa farò, fino a mercoledì speravo, perché sono innocente. Ho dato tutto per essere qui sperando di gareggiare. Sinceramente non pensavo alla conferma della squalifica. Adesso tornerò a casa e farò i miei dovuti ragionamenti, ma è ancora presto".
Doping, Alex Schwazer sfida la paura del vuoto: «Con Kathia cambio vita». Il marciatore dopo la mega squalifica: «Non so cosa farò, ma lei è il mio esempio. Appena arrivato a Vipiteno scalerò il passo Giovo in bici: non so stare fermo», scrive Marco Bonarrigo il 11 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il taxi per l’aeroporto è arrivato, Alex no. È uscito presto a camminare sulla spiaggia di Copacabana, quella dove mercoledì mattina ha svolto l’ultimo allenamento della carriera: 36 chilometri sotto il diluvio con Sandro Donati a ruota in bici. Dodici ore dopo la sentenza di squalifica Alex Schwazer ha ancora occhiaie profonde e viso scavato, ma è più sereno.
Come sta?
«Come uno che deve chiudere un capitolo della sua vita in fretta per non farsi male. Non voglio scappare, devo cambiare. Spero di essere capace».
Lei ha un precedente, una lunga squalifica per doping. Non le ha indicato delle vie di uscita?
«È diverso. Nel 2012 è stato faticoso ma più facile: ero colpevole, imbroglione, dopato. Mi sono salvato tornando nel mio mondo, che adesso non esiste più. Ora sono una vittima. Dopo la positività ho passato una settimana allucinante. Mi ha salvato la lotta per la verità che abbiamo iniziato con Sandro Donati. Ma abbiamo perso. Lui continuerà a lottare, con tutto il mio appoggio. Io devo cambiare vita. Subito».
Non era preparato? Come poteva pensare di sconfiggere la federazione internazionale?
«Sono — anzi ero — un atleta, mica un avvocato. Quando affronti una gara lo fa sempre per vincere, anche se hai poche speranze».
Cosa farà adesso?
«Non lo so. Durante la squalifica ho provato col ristorante, gli anziani, l’università. Ho sempre fallito e mi spaventa fallire ancora. Allenamento è massacrarsi di fatica per un obiettivo altissimo. La maggior parte dei lavori è routine, allenamento di scarico. Non riesco a immaginarlo».
Ci sarà un progetto che aveva in mente per il fine carriera.
«Un lavoro nello sport. Ma mi viene da ridere: che mestiere può fare un dopato nel mondo dello sport? Allena i ragazzi?».
Nel 2012 il doping le costò anche la fine del rapporto con Carolina Kostner. Oggi al suo fianco c’è Kathia.
«In questi mesi di allenamento a Roma e poi in queste settimane di angoscia lei è stata un riferimento fondamentale. È una relazione importante, vorrei fosse quella della vita. Amore a parte, ammiro la sua indipendenza: si è costruita un’attività e l’ha portata avanti da sola fin da ragazza. Vorrei essere capace di fare così: inventarmi un mestiere normale con l’entusiasmo che ci mette lei ogni mattina. Kathia non sa nulla di sport, di controlli, di doping. Con Carolina era tutto in comune. Solo vivendo in mondi diversi riesci a non impazzire».
Continuerà a marciare?
«Continuerò a correre e pedalare. Non posso stare fermo, mi viene troppo da pensare. Quando Sandro mi ha detto che avevamo perso, sono andato a camminare sulla spiaggia. Non sono scappato dalle telecamere, io posso dominare i pensieri solo muovendomi. Marciare no: mai più, nemmeno per un metro. La marcia non è libertà, ma controllo maniacale dei movimenti del corpo: le gambe, le braccia, le spalle. La marcia è dolore e agonismo. Non sarò mai più un marciatore».
Scrittori e intellettuali la sostengono, la maggior parte dei suoi colleghi la odia.
«Non ricambio il loro odio, anzi lo capisco. L’atletica è tutti contro tutti. Dare del dopato a un collega è il miglior modo per giustificare che vai più piano di lui o sei meno popolare. Non odio Tamberi: lui non sa chi sono, cosa ho vissuto. Non può capire, per lui e per gli altri sono solo un dopato. Pazienza».
La prima cosa che farà arrivato in Italia?
«Prenderò un treno per Bolzano e il bus fino a Vipiteno. Poi salirò in bici e scalerò il Passo Giovo».
Resterà a Vipiteno?
«È la mia terra, ci sono i miei genitori. Non potrei mai lasciarla».
Guarderà le gare olimpiche di marcia?
«Le ho cancellate dalla mente».
Alex Schwazer è innocente (ma non ho le prove). Dubbi, perplessità e qualche riflessione sulle accuse che hanno portato alla squalifica del marciatore italiano, scrive Gianluca Ferraris l'11 agosto 2016 su "Panorama".
Io so, ma non ho le prove.
Io so che Alex Schwazer è innocente.
Io so che Alex non prendeva più nemmeno un’aspirina, terrorizzato com’era da qualsiasi traccia di farmaci nel suo sangue.
Io so che Alex una notte ha urlato per un banale ascesso, perché l’oppiaceo con cui noi comuni mortali sediamo il nostro mal di denti lui non volle vederlo nemmeno da lontano.
Io so che Alex, dopo l’annuncio di voler tornare in attività, ha passato indenne oltre 40 controlli, la maggior parte dei quali a sorpresa.
Io so che non ha senso assumere «una lieve quantità» di testosterone il 31 dicembre senza esserti dopato né prima né dopo, e con il ritorno in pista lontano più di quattro mesi.
Io so che prelevare un campione di urina l’unico giorno in cui i laboratori dell’antidoping sono chiusi (permettendo così a mani ignote di trattenere la provetta con sé per 24 ore) è quantomeno strano.
Io so che mancano alcuni documenti di viaggio della fialetta. E che quando questa ricompare in un laboratorio di Colonia, invece di un codice numerico che dovrebbe rendere anonimo l’atleta, sopra c’è scritto Racines, Italia. Maschio che gareggia su lunghe distanze, superiori a 3 km. A Racines ci sono 400 abitanti. E un solo marciatore.
Io so che il primo controllo su quella fialetta fu negativo.
Io so che qualcuno, mesi dopo, suggerì al laboratorio una seconda analisi, che risultò lievemente positiva.
Io so che la Wada, l’agenzia mondiale antidoping che ha stanato Lance Armstrong e gli olimpionici russi, la più alta autorità del pianeta in materia, non ha partecipato ai controlli e alle analisi su Alex, interamente gestiti dalla Federazione internazionale di atletica.
Io so che i vertici vecchi e nuovi della Federazione internazionale di atletica sono stati a lungo chiacchierati per aver chiuso un occhio nei confronti dei tesserati russi, gli stessi che Alex e il suo coach Sandro Donati hanno contribuito a denunciare.
Io so che Donati è un mago delle tabelle di allenamento e un eroe della lotta al doping.
Io so che negli anni Novanta, quando Donati scoperchiò il cosiddetto sistema Epo, due degli atleti che allenava furono vittima di un caso di provette manipolate.
Io so che Alex, nonostante tre anni e mezzo di lontananza dalle piste, marciava ancora più veloce di tutti.
Io so che alla vigilia di una gara a La Coruna Donati ricevette pressioni perché Alex non infastidisse i marciatori cinesi candidati alla vittoria.
Io so che Alex in quella gara arrivò secondo, e che gli ispettori controllavano da vicino ogni suo passo per cogliere una qualsiasi irregolarità stilistica che lo avrebbe fatto squalificare.
Io so che l’allenatore dei cinesi è Sandro Damilano, fratello dell’ex marciatore Maurizio. E che prima della 50 chilometri di Roma, lo scorso maggio, qualcuno a lui vicino chiese a Donati di «lasciare vincere Tallent», l’atleta australiano che più aveva contestato il ritorno in pista di Alex.
Io so che Liu Hong, altra marciatrice cinese allenata da Damilano, dopo quella stessa gara fu trovata positiva all’higenamine, un vasodilatatore naturale, ma venne squalificata solo per un mese. Adesso lei è a Rio per gareggiare mentre Alex no.
Io so che subito dopo questa imbarazzante fila di coincidenze saltò fuori la presunta positività di Alex. Che però gli venne comunicata oltre un mese dopo, in piena preparazione preolimpica e con un margine davvero ristretto per organizzare una difesa tecnico-legale decente.
Io so che non assistevo a una simile solerzia investigativa, e a un simile tentativo di sobillare i media, dai tempi dell’incendio del Reichstag o dell’arresto di Lee Harvey Oswald. O per restare in ambito sportivo, da quel mattino cupo a Madonna di Campiglio che spezzò per sempre la carriera di Marco Pantani.
Io so che colpire Pantani e Schwazer, sportivi amati dal pubblico ma ragazzi fragili dentro, è facile. Troppo.
Io so che in molti avevano bisogno di punire in maniera esemplare chi ha avuto il coraggio di sfidare il sistema. Quello stesso sistema che poi si ripulisce la coscienza in favor di telecamera con il Refugee Team e i palloni regalati alle favelas.
Io so che Alex si è pagato da solo la preparazione, le divise, gli scarpini, il viaggio per Rio. Che ha finito i risparmi e che ha lavorato come cameriere per mantenersi gli allenamenti. Che dormiva in un tre stelle dietro al raccordo anulare e si faceva testare i tempi su una pista comunale, accanto a runner della domenica e anziani che portavano a passeggio il cane.
Io so che ha confessato i suoi errori del passato, e li ha pagati tutti.
Io so che si stava rialzando senza chiedere aiuti o riguardi, ma solo una seconda possibilità.
Io so che a Rio 2016 quella seconda possibilità è stata data ad atleti dal curriculum sportivo molto più «stupefacente» del suo.
Io so che nessuno di quelli che contano, dal Coni alla Fidal passando per i buonisti a gettone del mondo politico e degli editoriali qualunquisti, ha ancora speso una parola se non di difesa almeno di umana solidarietà per Alex.
Io so che Alex non ha la forza misurata per disperarsi restando saggio. Come non la ebbe Pantani.
Io so che a Rio 2016 Alex sarebbe arrivato sul podio nella 50 km e forse anche nella 20 km.
Io so che su quel podio Alex avrebbe pianto di gioia. Che sarebbe stato disposto a dimenticare.
Io so che invece oggi piange di rabbia in un bar fuori dal villaggio olimpico, come un emarginato. E che sarà condannato a ricordare.
Io so che qualcuno dovrebbe vergognarsi per aver rovinato una vita.
Le Iene show. Puntata del 3 ottobre 2018, ore 21,00 in diretta Alessia Marcuzzi e Nicola Savino, tra informazione ed intrattenimento, tornano con lo storico programma di Italia 1, scrive Simone Lucidi Mercoledì, 3 Ottobre 2018 su maridacaterini.it. Si parla della morte di Marco Pantani. Ci sono molte incongruenze nella ricostruzione della scomparsa del ciclista, prima tra tutte le pallina di cocaina presente per terra accanto al cadavere. La madre di Pantani sostiene che sia stato ucciso. Già prima di morire, Pantani aveva denunciato di essere stato incastrato e di non essersi mai dopato. Qualcuno avrebbe scambiato o modificato le fialette di sangue analizzate. La morte di Pantani fu archiviata come “overdose”, ma la stanza del campione era totalmente in subbuglio. Cosa è successo davvero? La pallina di cocaina e le varie dosi trovate nella stanza non erano presenti, secondo i testimoni ascoltati, ma sono visibili nel filmato della polizia. Le cose erano spostate, non lanciate. Persino il lavandino era stato smontato e posizionato all’ingresso, mentre nel video risulta integro ed al suo posto. Pantani quel giorno aveva telefonato alla reception dell’albergo per chiedere di chiamare i carabinieri perchè c’erano “alcune persone che gli davano fastidio”. La cocaina rilevata nel corpo di Pantani è 10-20 volte superiore rispetto alla dose letale. Marco avrebbe dovuto mangiare diversi boli di droga o berli. Si sospetta dunque che qualcuno gli abbia sciolto la cocaina nell’acqua senza che lui se ne accorgesse. Secondo il medico intervistato dalle Iene il corpo sarebbe stato spostato ed i segni e le ferite presenti in faccia, sulla schiena e sulle braccia sarebbero stati provocati da qualcun altro. L’inviato Alessandro De Giuseppe intervista Pietro Buccellato, usciere che aprì la porta della stanza di Pantani con la forza e trovò il corpo. Anche lui conferma di non aver trovato la pallina di cocaina e che il lavandino era stato divelto. C’era un secondo ingresso nell’albergo e qualcuno poteva essersi introdotto ed essere andato via da lì. Le telecamere non funzionavano e la porta era aperta ed agibile. L’Ispettore di polizia, Daniele Laghi, interrogato non risponde. La scomparsa di Pantani rimane avvolta nel mistero.
Marco Pantani, come è morto veramente? Video Iene, infermiere 118: “Non c'erano tracce di cocaina”. Nella puntata de Le Iene Show, Alessandro De Giuseppe si occupa della morte di Marco Pantani, avvenuta la sera del 14 febbraio 2004 in un residence di Rimini, scrive il 4 ottobre 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". A tredici anni dalla morte di Marco Pantani restano i dubbi sull'ipotesi di suicidio accreditata dai vari processi sul caso. Sono molti i punti oscuri della vicenda. A dare voce ai dubbi della famiglia del ciclista è stato il programma “Le Iene” che ha intervistato il titolare dell'albergo in cui Pantani è stato trovato morto, oltre a uno degli operatori del 118 che per primi hanno trovato il corpo del campione di ciclismo nella camera di albergo, Anselmo Torri. Quest'ultimo ad esempio ha smentito la presenza di una pallina di cocaina che è presente nei filmati della polizia. «Ero in servizio quella notte, ci hanno detto di un'urgenza. Abbiamo trovato tutto in disordine, siamo saliti sul soppalco e abbiamo trovato il corpo di Pantani riverso per terra. Abbiamo trovato dei farmaci, intorno al cadavere non c'era niente, neppure la pallina di coca. Mi sono confrontato anche con i miei colleghi». Nelle riprese della polizia ci sono tante tracce di cocaina, non trovate invece dagli infermieri. I sanitari del 118 presenti quando fu trovato il corpo affermano di non averla vista. Anche per questo la madre di Pantani sostiene: «Marco è stato ucciso». Clicca qui per visualizzare il video del servizio delle Iene sulla morte di Pantani. (agg. di Silvana Palazzo)
Marco Pantani e lo scandalo doping. Che cosa è davvero avvenuto al campione di ciclismo, che ancora oggi occupa un posto d'onore nel cuore degli italiani? Nel corso di questi numerosi anni di distanza dalla sua morte, ancora si indaga su quanto avvenuto davvero quel giorno. I familiari del Pirata non hanno mai creduto alla tesi di suicidio, individuata invece dalle autorità nazionali. Secondo la famiglia ed alcuni amici infatti ci sarebbero dei punti oscuri tutti ancora da chiarire. Lo scorso maggio infatti i Pantani si sono rivolti all'avvocato Sabrina Rondinelli per fare luce sul caso, per risalire a quanto avvenuto anche il 5 giugno del '99. Si tratta del penultimo giorno del Giro d'Italia, data in cui il sangue di Pantani avrebbe dimostrato la presenza di sostanze dopanti. Le Iene ripercorrono ancora una volta il caso di Marco Pantani nella puntata in onda questa sera, mercoledì 3 ottobre 2018. Non si tratta della prima volta che il programma di Italia 1 si fa carico della vicenda, dato che lo scorso maggio ha affrontato alcuni punti chiave legati alla presunta positività del ciclista. Secondo l'ex massaggiatore del campione, Roberto Pregnolato, la sera precedente alla tappa di Madonna di Campiglio il valore dell'ematocrito di Pantani sarebbe stato di 48, ovvero due punti al di sotto del valore massimo previsto dalla legge. "Uno che è primo in classifica e viene controllato in ogni momento, si prepara in tempo se è fuori norma, ma Marco non lo era", ha sottolineato infatti ai microfoni delle Iene. Alcune ore più tardi invece il valore è schizzato fino a 53, ma a danneggiare ulteriormente lo stato d'animo del Pirata è stato il processo in diretta subito all'istante dai giornalisti, che lo avrebbero aspettato all'esterno dell'hotel.
La battaglia legale della famiglia Pantani. Il sangue delle provette di Marco Pantani è stato alterato. Ne è convinta la famiglia del ciclista, che a vent'anni di distanza dalla sua morte cerca ancora di riabilitare il suo nome. Un'ipotesi confermata da Renato Vallanzasca, che ha riferito alle autorità come la camorra avrebbe minacciato un medico perché alterasse il test del sangue. L'avvocato Sabrina Rondinelli, incaricato quest'anno di svolgere le pratiche per la riapertura del caso, ha infatti sottolineato come in realtà la morte di Pantani risalga a Madonna di Campigno ed all'anno 1999. Si parla di un decesso morale, dato che la scomparsa del Pirata è avvenuta solo cinque anni più tardi. Secondo il legale tra l'altro all'epoca dei fatti non sarebbero stati fatti gli accertamenti utili per appurare l'omicidio volontario, mentre alcuni rilievi sulla scena del crimine escluderebbero l'ipotesi di suicidio. Al centro delle indagini anche quel viaggio misterioso proposto ai genitori di Marco Pantani, il giorno precedente al ritrovamento del corpo del ciclista. "La nostra famiglia non si è mai fermata", afferma Tonina, la mamma di Pantani, a Panorama. "Sono convinta che con l'avvocato Rondinelli riusciremo, finalmente, a portare all'attenzione della magistratura le troppe stranezze che circondano la morte di mio figlio", ha aggiunto.
GIALLO PANTANI: 200 ANOMALIE, IL J’ACCUSE DI DE RENSIS. Scrive il 31 luglio 2016 Andrea Cinquegrani su “La Voce delle Voci”. “Un caso che presenta almeno 200 anomalie, la morte di Marco Pantani. Un’archiviazione costruita su macroscopiche illogicità. Come credere alla storia dei poliziotti che mangiano un cono Algida durante il sopralluogo e inconsapevolmente gettano la carta nel cestino? O dei tre giubbotti che qualcuno ha a sua insaputa lasciato nel residence? Poi le analisi di Marco a Madonna di Campiglio: come può un gip non trasferire gli atti a Napoli quando ci sono le verbalizzazioni di camorristi che parlano espressamente di corruzione per taroccare quelle provette? Ma si sa, la camorra non corrompe, minaccia di morte…”. Un fiume in piena, l’avvocato Antonio De Rensis, ai microfoni di Colors Radio per puntare l’indice contro un mare – è il caso di dirlo – di anomalie nella tragica vicenda del campione, scippato di quel Giro già stravinto nel 1999, per via delle scommesse di camorra che avevano puntato una montagna di soldi sulla sua sconfitta (e quindi il Pirata “doveva perdere”, a tutti i costi); e poi “suicidato” nel residence “Le Rose” di Rimini, perchè, con ogni probabilità, dava fastidio, “non doveva parlare”, su quel mondo nel quale non dettano legge solo le scommesse della malavita organizzata (capace, a fine anni ’80, di “far perdere” uno scudetto già vinto al Napoli di Maradona), ma anche quella del doping, come dimostra il fresco “caso Schwazer”, con il suo manager, Sergio Donati, minacciato di morte per il timore che possa alzare il sipario su colossali traffici e affari innominabili che costellano il “dorato” mondo sportivo. E’ attesa in questi giorni – la previsione era per fine luglio, prima settimana di agosto – la decisione del gip di Forlì circa il destino dell’inchiesta sul giro d’Italia ’99 taroccato e la sconfitta del Pirata decisa “a tavolino” dalla camorra per via dell’enorme giro di scommesse, come hanno descritto prima Renato Vallanzasca, poi svariati “uomini di rispetto” dei clan campani, a cominciare dal collaboratore di giustizia Augusto La Torre, leader delle cosche di Mondragone abituate a grossi affari esteri (già ad inizio anni ’90 investivano in alberghi e ristoranti scozzesi, epicentro Aberdeen: i “deen don”, come scriveva già allora la stampa britannica) e in vena di riciclaggi spinti. Il legale del pentito La Torre – che ha raccontato per filo e per segno i colloqui con altri tre big boss – è Antonino Ingroia, l’ex magistrato di punta del pool di Palermo, poi passato, con poca fortuna, in politica (quindi avvocato e consulente per la Regione Sicilia targata Rosario Crocetta). Una decisione, quella del gip di Forlì, che a non pochi addetti ai lavori pare scontata: la trasmissione degli atti alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli per competenza, visto che sono in ballo i clan di camorra, la regia del giro taroccato è made in Campania, non pochi boss hanno già verbalizzato su quelle storie e ancora possono farlo (insieme ad altri collaboratori). C’è tutto un bagaglio di conoscenze & competenze, quindi, alla Dda di Napoli, per poter agire al meglio e far luce sul giallo Pantani. Un’archiviazione “tombale”, a questo punto, suonerebbe non solo come una schiaffo alla famiglia Pantani, ma a tutti gli italiani e a quel minimo di Giustizia che – pur ridotta a brandelli – ancora esiste. E soprattutto affinchè non venga un’altra volta calpestata, come è già capitato e continua a capitare in tanti misteri e buchi neri della nostra “democrazia” altrettanto taroccata, proprio al pari di quel maledetto Giro. L’intervista con l’avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, è stata rilasciata a Colors Radio, l’emittente romana diretta da David Gramiccioli, in vita da un anno ma già con indici d’ascolto molto elevati, con solo in Italia, ma anche all’estero. Impegnata soprattutto sul fronte dei diritti civili, dei diritti spesso e volentieri negati e calpestati nel nostro Paese, per dar voce a chi è in attesa di giustizia, o di quella salute portata via dagli interessi di baronie e case farmaceutiche. Uno stupendo spettacolo, diretto e interpretato da Gramiccioli, “Vorrei avere un amico come Rino Gaetano”, dedicato alla musica e all’arte civile di un artista al quale l’allora mainstream dichiarò guerra (in tutti i sensi, fino ad ammutolirlo nel senso letterale del termine), è appena andato in scena a Napoli, nella prestigiosa sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, altro avamposto che lotta non solo per la sua sopravvivenza, ma per fare cultura nel deserto partenopeo, sempre più cloroformizzato dal neomelodismo “arancione”. Uno spettacolo che seguendo il fil rouge di poteri, mafie & massonerie, legava storie e misteri d’Italia, dal caso Montesi al giallo Moro, passando per il Vajont, con una serie di rivelazioni da novanta, autentico regalo per la memoria collettiva: una risorsa da coltivare come pianta sempre più rara. Ecco, di seguito, l’intervista a De Rensis, che potete ascoltare direttamente dal sito di Colors Radio, cliccando fra i programmi sulla casella Voce on Air.
PARLA L’AVVOCATO DELLA FAMIGLIA PANTANI:
“Marco Pantani non era forse il più forte. Ma certo il più amato, mai uno più di lui nella storia del ciclismo. Ogni pomeriggio 10 milioni di italiani davanti alla tivvù a vedere il Giro o il Tour. Forse ha cominciato ad essere un problema anche allora. Il ciclismo forse non era abituato a digerire un fenomeno del genere. Paradossalmente anche questo può essere stato un problema…”.
“Stiamo aspettando le decisioni del gip di Forlì, per fine mese, primi di agosto. Ma è una vicenda che si descrive da sola, nel suo percorso giudiziario”.
“Qui ci sono dichiarazioni scritte, nero su bianco, in cui boss della camorra, come Augusto La Torre, citato da Roberto Saviano nel suo Gomorra, dice espressamente che i medici incaricati delle analisi, quella mattina, furono corrotti. Specifica, non minacciati, ma corrotti. Come se non ci fosse intimidazione, quindi estorsione. Lo sanno tutti, tu non puoi difenderti, dalle richieste della camorra, se non rischiando la vita. La camorra vive di intimidazioni: o lo fai o ti ammazzo”.
“Queste carte, queste verbalizzazioni non sono le uniche. C’erano anche quelle di Rosario Tolomelli, che fu intercettato, dichiarazioni riportate anche in tivvù, e poi quelle di Renato Vallanzasca. E adesso noi, di fronte a questi elementi così chiari, siamo in attesa di capire se il procedimento potrà essere trasmesso alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Se il suo vicino di casa dice di lei appena un decimo di quello che è stato detto, lei viene ovviamente indagato. Qui abbiamo un capoclan che dice che chi ha fatto i controlli quella mattina a Madonna di Campiglio è stato corrotto, e noi stiamo ancora a chiederci se dobbiamo archiviare o andare avanti! Io mi chiedo, non tanto come avvocato quanto come cittadino: ma noi cittadini possiamo andare avanti così?”.
“Ci sono dei camorristi che dicono questa roba? Tu, Forlì, mandi le carte a Napoli e poi vediamo che cosa succede. Stiamo scherzando? Ma si può sapere in che Stato viviamo? E’ proprio qui che la vicenda di Pantani ci fa capire a che punto siamo arrivati. Fa capire che tutto ciò che dovrebbe essere normale, da noi diventa difficile, quasi impossibile”.
“Domanda. Perchè? Perchè io ho dovuto leggere nell’archiviazione per i fatti di Rimini (la “morte” di Marco nel residence “Le Rose” di Rimini, ndr), nero su bianco, che un gip della procura dice ‘può darsi che la carta del gelato Algida è stata gettata inconsapevolmente da un poliziotto nel corso del sopralluogo’? Ma è possibile pensare che quel 14 febbraio il poliziotto fosse impegnato a mangiare un cornetto durante il sopralluogo? Ecco, io mi chiedo: questa roba qui è normale?”.
“Possibile leggere, nell’archiviazione del gip, ‘può darsi che i tre giubbotti siano stati portati inconsapevolmente nel residence dal marito della manager di Pantani’, il quale ha negato di aver mai visto quei giubbotti in vita sua? E’ una roba normale? Siccome secondo me non lo è, la vicenda Pantani si descrive da sola”.
“Quello che posso dire è una sorta di promessa che ho fatto e che ora rinnovo. Io mi sento un uomo libero, non ho scheletri nell’armadio, quel poco che ho fatto come avvocato me lo sono sudato, per questo posso fare una promessa: che farò tutto quello che è umanamente possibile per raggiungere la verità. Non ho poteri speciali perchè non solo un avvocato, ma tutto quello che sarà possibile io lo farò. E sa perchè? Non perchè sono fanaticamente convinto di avere ragione io. Ma perchè se mi si dice che facendo l’ispezione il poliziotto ha buttato nel cestino la carta del gelato, allora vuol dire che ho ragione io!”.
“Se mi avessero confutato con ragioni logiche, io avrei detto a me stesso ‘amico mio, ti sei sbagliato'; ma se uno mi vuol confutare dicendo che uno ha portato i giubbotti inconsapevolmente – come quelli che pagavano le case a loro insaputa – che la carta gelato l’hanno buttata inconsapevolmente nel cestino mentre facevano il sopralluogo, allora vuol dire che ho ragione io! E vado avanti. Perchè quando una spiegazione non è logica, e tale spiegazione viene data da una persona che deve per forza usare la logica nel suo lavoro, vuol dire che le tue argomentazioni l’hanno messa in difficoltà. Se lei mi mette in difficoltà e io le rispondo fischi per fiaschi… La questione è tutta lì”.
“La gente è tutta con noi. Tutti ricordano Marco con enorme affetto. Il ciclismo forse non era preparato per un impatto così forte, una tale passione anche per chi non seguiva quello sport. E forse tutto ciò ha creato problemi collaterali. Ci sono tante sfaccettature, nella vicenda di Marco, che con ogni probabilità non lo hanno aiutato”.
“Ma chi lavora per la giustizia deve estraniarsi da tutti questi condizionamenti ed esaminare esclusivamente i fatti. I fatti ci dicono che verosimilmente quel giorno a Madonna di Campiglio le provette delle analisi vennero alterate. E che nella vicenda della morte di Marco a Rimini molti fatti devono ancora essere approfonditi”.
“Probabilmente quella mattina nel residence la situazione è sfuggita di mano a quelli che erano con Pantani. Non mi voglio addentrare ora in dettagli, ma può darsi che l’evento morte non fosse previsto. Ma l’intera vicenda giudiziaria è stracolma di anomalie. Una per tutte. Alle 10 e 30 Marco telefona alla reception e dice ‘in camera ci sono delle persone che mi danno fastidio, per favore chiamate i carabinieri’. Che poi arrivano alle 20 e 30. Mi chiedo: se io vado in un qualunque albergo a Roma, telefono alla reception e chiedo l’intervento dei carabinieri, scommetto che arrivano prima delle 20 e 30!”. “Questa è solo una delle oltre 200 anomalie del caso Pantani”. “Le risposte a tutti i quesiti? Sono solo e unicamente nei fatti”.
5 GIUGNO 1999. Pantani e il mistero di Campiglio. L’Antimafia sentirà i pm di Forlì. Una commissione d’inchiesta sul Giro 1999? Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare: «Sentiremo i magistrati e faremo le nostre valutazioni». Il procuratore Sottani: al corridore «minacce credibili», scrive Alessandro Fulloni il 31 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «Pantani è un simbolo dello sport italiano che merita verità e giustizia. Sentiremo i magistrati di Forlì e faremo le nostre valutazioni. Del resto si sa che le mafie hanno sempre avuto grande interesse per il mondo dello sport e la gran mole di denaro che ruota intorno alle scommesse clandestine». Non si sbilancia, la presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi: ma non è improbabile né lontano il via a una commissione d’inchiesta mirata a fare luce su ciò che accadde il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, quando Marco Pantani venne fermato prima del via della tappa del Giro perché trovato con un ematocrito più alto di quello consentito. Che la camorra lo abbia stoppato, con «reiterate condotte minacciose e intimidatorie» nei confronti «di svariati soggetti a vario titolo coinvolti nella vicenda del prelievo ematico» del corridore, è uno scenario che al procuratore di Forlì Sergio Sottani e al pm Lucia Spirito che hanno coordinato l’inchiesta -la seconda, avviata nel settembre 2014 dopo che una prima era stata archiviata a Trento nel 2001 - «appare credibile». Ma il movente di queste minacce resta «avvolto nel mistero, anche se qualche squarcio, nonostante il tempo trascorso, si intravede». «Tuttavia gli elementi acquisiti non sono idonei a identificare gli autori dei reati ipotizzati». Quelli di truffa ed estorsione e non la corruzione - di cui ha parlato un pentito - cancellata dalla mannaia della prescrizione che ha indotto la procura a chiedere l’archiviazione di un procedimento pur condotto con scrupolo dai due pm, dal loro nucleo di polizia giudiziaria e dai carabinieri della tutela della salute di Roma. A stabilire che destino avrà l’inchiesta - i cui atti sono stati trasmessi da Sottani alla Direzione distrettuale antimafia di Bologna - sarà la decisione, attesa a giorni, del gip di Forlì Monica Calassi. Che potrebbe percorrere tre strade: accogliere la richiesta d’archiviazione, fissare un’udienza per la raccolta di nuovi elementi, o chiedere un’indagine della Procura antimafia. Intervento, questo, rilanciato dalle novità investigative presenti nelle carte firmate da Sottani. Su tutte, le dichiarazioni di un pentito di camorra, Augusto La Torre, in passato braccio destro di «mammasantissima» campani come Antonio Bardellino, prima, e Francesco «Sandokan» Schiavone, poi. Agli inquirenti il collaboratore di giustizia racconta di una conversazione avuta nel carcere di Secondigliano con altri capi clan detenuti al 41 bis, vale a dire il carcere duro. Il pentito parla del caso Pantani - ma non ricorda se prima o dopo i fatti di Campiglio - con Francesco Bidognetti (al vertice dei Casalesi), Angelo Moccia (a capo dell’omonimo clan di Afragola) e Luigi Vollero (detto il Califfo, numero uno a Portici). Dal terzetto arriva la conferma che Pantani è stato fatto fuori dal Giro per volere dei clan operanti su Napoli. Punta il dito sui Mallardo di Giugliano: solo loro «possono averlo fatto. I tre mi dissero che il banco, se Pantani vinceva, saltava e la camorra avrebbe dovuto pagare diversi miliardi in scommesse clandestine. Come quando si verificò con Maradona e il Napoli degli anni Ottanta». La Torre ricorda quella sua delusione dopo la squalifica al Giro: ma come, pure lui «aveva preso la bumbazza»... E gli altri, di rimando: «Ma quale bumbazza e bumbazza... L’hanno fatto fuori sennò buttava in mezzo alla via quelli che gestivano le scommesse...». A verbale usa peraltro parole che avvicinano chirurgicamente la prescrizione: «Escludo nella maniera più assoluta che i medici siano stati minacciati: si tratta unicamente di corruzione». In quelle carte (leggi il documento della procura di Forlì) c’è pure quanto ribadito da Rosario Tomaselli, affiliato ai clan recluso nel 1999 a Novara con Renato Vallanzasca - il primo a parlare di interessi della camorra sul Giro - che al telefono con la figlia, senza sapere di essere intercettato nell’ambito di un’altra indagine dei carabinieri di Napoli, sostiene che «la camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani, cambiando le provette e facendolo risultare dopato». E quando la ragazza insiste - «ma è vera questa cosa?» - lui ribadisce: «Sì, sì, sì, sì, sì». Un sì categorico, ripetuto cinque volte. Quanto al prelievo ematico vero e proprio, i carabinieri del Nas parlano, in un’informativa, di condotta «tutt’altro che trasparente e lineare» dei tre medici che fecero l’accertamento. Non ci sono solo quelle discrepanze sugli orari i cui tempi renderebbero possibile - sono le tesi degli ematologi ascoltati dagli investigatori - l’alterazione dei risultati. Piuttosto, quelle parole sono motivate dal fatto che gli investigatori hanno accertato la presenza, nella stanzetta in cui venne fatto il prelievo, di una quarta persona, il responsabile del team medico: l’olandese Wim Jeremiasse, commissario Uci e istituzione al Tour, alla Vuelta e alla corsa rosa. Che l’olandese facesse parte del gruppo - circostanza mai emersa nella prima indagine su Campiglio - lo rivela il suo autista, Simone Cantù, mai sentito prima del 2014. Ma i tre medici ascoltati dagli investigatori e direttamente coinvolti nel prelievo o non ricordano la sua presenza o addirittura non lo conoscono. Circostanza che insospettisce i carabinieri. Che chiedono al gip di intercettarli in vista dell’interrogatorio. Richiesta però bocciata dal gip che «non ravvisa la sussistenza dei gravi indizi» del reato su cui si indaga: appunto l’estorsione. Ma torniamo al 5 giugno. Ore 9 e 15. Cantù avvicina l’olandese nella hall dell’hotel in cui sonno stati fatti i prelievi per ricordargli l’imminente avvio della tappa. Jeremiasse si volta in lacrime: «... oggi il ciclismo è morto...». E poi prosegue: «Marco Pantani ha valori non regolari». Impossibile che il commissario Uci possa spiegare altro: sei mesi dopo morirà - «in circostanze non proprio chiare», scrivono i carabinieri - in un incidente in Austria. Dov’era andato per fare da giudice in una gara di pattinatori su ghiaccio. Sprofondò con l’auto in un lago ghiacciato, il Weissensee, su cui stava spostandosi alla testa di un piccolo corteo di macchine. La sua auto giù per 35 metri nell’acqua gelida, inghiottita dal cedimento improvviso della superficie: Wim venne trovato cadavere dai sommozzatori che lo recuperarono circa un’ora dopo. La donna che era con lui, Rommy van der Wal, sopravvisse miracolosamente dopo avere cercato invano di estrarlo dall’abitacolo. Nel frattempo sono le Camere a interessarsi di ciò che accadde a Madonna di Campiglio. Se l’approfondimento parlamentare dovesse decollare, avrebbe certo un passo differente da quello giudiziario. «È opportuno che venga chiarito se, effettivamente, le indagini devono fermarsi per la prescrizione oppure se ci sia modo di appurare i fatti anche a distanza di tanti anni. Se la magistratura non può andare avanti, è opportuno - riflette Ernesto Magorno, deputato Pd - che il parlamento verifichi l’esistenza di altri percorsi giudiziari da seguire». «Altrettanto inquietante è il ruolo della criminalità organizzata - osserva un altro parlamentare pd, Tiziano Arlotti - che emergerebbe nell’ambito delle scommesse sportive: un quadro già confermato in molte altre inchieste, che però merita di essere approfondito dalla commissione». Daniela Sbrollini, responsabile nazionale Sport del Pd, incalza: «bisogna fare di tutto perché emerga la verità». Non sono solo queste sollecitazioni ad aver indotto Bindi a chiedere l’audizione dei pm forlivesi: la presidente dell’Antimafia da tempo sta pensando ad approfondimenti su sport, criminalità organizzata e doping. Intrecci attorno ai quali ruota, appunto, «una gran mole di denaro». A opporsi all’archiviazione è Tonina Pantani, la mamma del Pirata. Che attraverso Antonio De Rensis, il battagliero legale della famiglia, ha depositato l’opposizione alla richiesta della procura di Forlì. Lo stesso atto che pende davanti al gip di Rimini, chiamato a decidere sul destino dell’indagine bis sulla morte del vincitore di Giro e Tour 1998: archiviazione o supplemento di indagini.
Pantani, il caso doping e il mistero dei valori del sangue. Al di là dell’ipotetico complotto, una certezza: per 10 anni i dati del corridore presentano anomalie, scrive Marco Bonarrigo il 29 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". La parola fine a quel romanzo tragico che è la vita di Marco Pantani è questione di giorni. I tribunali di Rimini e Forlì stanno per archiviare (su richiesta dei piemme) le inchieste sugli episodi chiave della vicenda del ciclista: la morte (14 febbraio 2004) e l’espulsione dal Giro d’Italia del 5 giugno 1999. E se il procuratore di Rimini Giovagnoli non ha dubbi (overdose di cocaina), quello di Forlì Sottani si arrende a un «movente avvolto nel mistero con elementi acquisiti non idonei a identificare eventuali colpevoli». Ma ritiene «credibile» che qualcuno abbia minacciato chi eseguì il controllo del sangue di Campiglio inducendolo a truccare le provette per incassare i soldi delle scommesse. Questo qualcuno sarebbe la Camorra. Nelle 30 pagine di motivazioni l’ipotesi è costruita da alcuni ex fedelissimi del Pirata (massaggiatore, fisioterapista), da due tifosi che avevano orecchiato minacce in una pizzeria, da Renato Vallanzasca e da quattro camorristi piuttosto confusi. Quanto basta però a risollevare l’eterna ipotesi del complotto. Intanto dagli archivi dei tribunali di Trento e Forlì escono i faldoni dei due processi penali subiti dal Pirata: per l’ematocrito alto alla Milano-Torino e per Madonna di Campiglio. In entrambi i casi Marco fu assolto in appello perché il reato ipotizzato (frode sportiva) non era sostenibile. Ma le carte dimostrano come il sangue di Pantani sia stato un profondo, costante mistero in 10 anni di carriera. Lo dicono i file dell’Università di Ferrara (dominus Francesco Conconi) dove Pantani si recò regolarmente dal 1992 al 1996. Conservati a suo nome o con curiosi pseudonimi (Panzani, Panti, Ponti, Padovani...) mostrano oscillazioni impressionanti: l’ematocrito passava dal 41-42% al 52-56% con una coincidenza perfetta tra qualità dei risultati ottenuti e valori alti. E quando Pantani viene ricoverato alle Molinette dopo lo spaventoso incidente alla Milano-Torino, il suo 60,1%, fisiologicamente inspiegabile per i periti, costringe i medici a somministrargli litri di diluente per scongiurare una trombosi. Del controllo di Campiglio ora a tutti vengono in mente dettagli inediti. Ma, interrogato dagli inquirenti, il medico di Pantani, Roberto Rempi, ammise che l’atleta si controllava da solo il sangue, che l’ematocrito la sera prima era altissimo (tra 48 e 49) e Marco totalmente fuori controllo dal punto di vista sanitario. Su Campiglio rispunta l’accurata e documentata perizia dell’Università di Parma: il Dna del sangue era di Pantani, il diluente nella provetta non ebbe effetto sul risultato mentre «l’assunzione esogena di eritropoietina artificiale» spiegava «virtualmente i parametri modificati nel campione di sangue 11.440». A completare il quadro, ecco la lettera «personale e non protocollata» che nel settembre 2000 Pasquale Bellotti, responsabile Commissione Scientifica Antidoping, inviò al segretario generale del Coni e alla Federciclismo alla vigilia dei Giochi di Sydney, dove Pantani fu convocato a dispetto di una salute non buona e di un percorso inadatto. Scriveva Bellotti: «Il quadro ematologico di Pantani, verificato ieri a Salice Terme, è estremamente preoccupante. Il regolamento attuale non ci consente di bloccarlo, ma 3 dei 5 parametri sono fortemente alterati e pongono a rischio la sua salute». Pantani aveva ematocrito al 49% e ferritina da malato: 1.019 ng/mL. La federazione rispose affermando che l’atleta aveva superato tutti i controlli antidoping. Il Coni, risentito, invitò Bellotti a occuparsi di altro. Marco Pantani, lui, mentalmente era forse già un ex atleta.
Campiglio 1999, la svolta. Il p.m.: “La camorra fermò Pantani? E’ credibile”, scrive Luca Gialanella il 14 marzo 2016 su “La Gazzetta.it" Confermate le anticipazioni, dalle parole di Vallanzasca in poi: fu un clan camorristico a intervenire per arrivare all’alterazione del controllo del sangue del Pirata la mattina del 5 giugno 1999. E’ tutto scritto nelle pagine dell’inchiesta della Procura di Forlì, che l’ha chiusa con la richiesta di archiviazione: gli autori dei reati non possono essere identificati. Ma la storia dello sport? Una “cimice” nell’abitazione di un camorrista, le indagini della polizia giudiziaria della Procura della Repubblica di Forlì, guidata dal procuratore Sergio Sottani. Le intercettazioni ambientali e finalmente i riscontri, nomi e cognomi, che svelano, secondo la ricostruzione degli inquirenti, quanto avvenne la mattina del 5 giugno 1999 nell’hotel Touring di Madonna di Campiglio, alla vigilia della penultima tappa con Gavia, Mortirolo e arrivo all’Aprica. Il controllo del livello di ematocrito di Marco Pantani in maglia rosa. L’esclusione del Pirata dal Giro d’Italia per ematocrito alto, 51,9% contro il 50% consentito allora dalle norme dell’Uci, la federciclismo mondiale. L’inizio della fine sportiva e umana dello scalatore di Cesenatico. “Un clan camorristico intervenne per far alterare il test e far risultare Pantani fuori norma”: è l’ipotesi che segue il pm di Forlì. Parole che in questi anni avevamo sentito più volte, dalla famosa frase del bandito Renato Vallanzasca in carcere (“Un membro di un clan camorristico in carcere mi consigliò fin dalle prime tappe di puntare tutti i soldi che avevo sulla vittoria dei rivali di Pantani. ‘Non so come, ma il pelatino non arriva a Milano. Fidati’) al lavoro di indagine della Procura di Forlì, che il 16 ottobre 2014 riaprì l’inchiesta sull’esclusione di Pantani da Campiglio con l’ipotesi di reato “associazione per delinquere finalizzata a frode e truffa sportiva”. Indagine già svolta nel 1999 a Trento dal pm Giardina, e archiviata. Scommesse contro Pantani, scommesse miliardarie (in lire) che la camorra non poteva perdere. Da qui il piano di alterare il controllo del sangue. La Procura di Forlì ha ricostruito tutti i passaggi, ha sentito decine di persone, in carcere e fuori. Ha avuto la prova-regina da cui partire, con l’intercettazione ambientale di un affiliato a un clan che per cinque volte ripete la parola “sì”, alla domanda se il test fosse stato alterato. Ma i magistrati sono andati oltre, hanno ricostruito la catena di comando, sono arrivati ai livelli più alti dell’associazione criminale. “Sono emersi elementi dai quali appare credibile che reiterate condotte minacciose ed intimidatorie siano state effettivamente poste in essere nel corso degli anni e nei confronti di svariati soggetti che, a vario titolo, sono stati coinvolti nella vicenda del prelievo ematico”, scrive il pm Sottani. “Tuttavia gli elementi acquisiti non sono idonei ad identificare gli autori dei reati ipotizzati”. Ecco la richiesta di archiviazione. Eppure forse uno dei più grandi misteri dello sport mondiale ha trovato una verità, almeno parziale. A distanza di 17 anni. E i legali della famiglia Pantani stanno lavorando per capire se possano esserci spiragli per qualche azione in campo civile e sportivo.
"Fu la Camorra a far perdere il Giro a Pantani". Esclusiva di Davide Dezan per Premium Sport del 14 Marzo 2016. Un detenuto vicino alla Camorra e a Vallanzasca, una telefonata intercettata e l'indiscrezione esclusiva raccolta per Premium Sport dal nostro Davide Dezan. Sono i nuovi ingredienti del "caso Pantani" e di quanto, mano a mano, sta uscendo sul Giro perso dal Pirata nel '99, quando fu fermato per doping a Madonna di Campiglio. Riportiamo qui sotto il testo dell'intercettazione. L’uomo intercettato è lo stesso che, secondo Renato Vallanzasca, confidò in prigione al criminale milanese quale sarebbe stato l’esito del Giro d’Italia del ’99, ovvero che Pantani, che fino a quel momento era stato dominatore assoluto, non avrebbe finito la corsa. Dopo le dichiarazioni di Vallanzasca, e grazie al lavoro della Procura di Forlì e di quella di Napoli, l’uomo è stato identificato e interrogato e subito dopo ha telefonato a un parente. Telefonata che la Procura ha intercettato e che Premium Sport diffonde oggi per la prima volta, in esclusiva assoluta.
Uomo: “Mi hanno interrogato sulla morte di Pantani.”
Parente: “Noooo!!! Va buò, e che c’entri tu?”
U: “E che c’azzecca. Allora, Vallanzasca ha fatto delle dichiarazioni.”
P: “Noooo.”
U: “All’epoca dei fatti, nel ’99, loro (i Carabinieri, ndr) sono andati a prendere la lista di tutti i napoletani che erano...”
P: “In galera.”
U: “Insieme a Vallanzasca. E mi hanno trovato pure a me. Io gli davo a mangià. Nel senso che, non è che gli davo da mangiare: io gli preparavo da mangiare tutti i giorni perché è una persona che merita. È da tanti anni in galera, mangiavamo assieme, facevamo società insieme.”
P: “E che c’entrava Vallanzasca con sto Pantani?”
U: “Vallanzasca poche sere fa ha fatto delle dichiarazioni.”
P: “Una dichiarazione...”
U: “Dicendo che un camorrista di grosso calibro gli avrebbe detto: ‘Guarda che il Giro d’Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine. Perché sbanca tutte ‘e cose perché si sono giocati tutti quanti a isso. E quindi praticamente la Camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato. Questa cosa ci tiene a saperla anche la mamma.”
P: “Ma è vera questa cosa?”
U: “Sì, sì, sì… sì, sì.”
Tonina Pantani: «È stata ridata la dignità a Marco». La madre parla dell'intercettazione secondo la quale la Camorra avrebbe fatto risultare positivo il ciclista di Cesenatico al controllo antidoping: «Finalmente tutti sapranno che l’avevano fregato», scrive “Tutto Sport” lunedì 14 marzo 2016. «Non mi ridanno Marco, logicamente, ma penso gli ridiano la dignità, anche se per me non l’ha mai persa». Tonina Pantani parla dell'intercettazione di un detenuto che sostiene che la Camorra abbia fatto perdere il giro al figlio, Marco. «Le parole di questa intercettazione fanno male, è una conferma di quello che ha sempre detto Marco, cioè che l’avevano fregato. Io mio figlio lo conoscevo molto bene: Marco, se non era a posto quella mattina, faceva come tutti gli altri. Si sarebbe preso quei 15 giorni a casa e poi sarebbe rientrato, calmo. Però non l’ha mai accettato, non l’ha mai accettato perché non era vero. Finalmente la gente ora potrà dirlo, anche se tanta gente sapeva che l’avevano fregato. Io sono molto serena oggi: finalmente sono riuscita e sono riusciti a trovare queste cose».
Legale famiglia Pantani: «A Madonna di Campiglio non doveva essere fermato». Antonio De Rensis, legale della famiglia del ciclista di Cesenatico: «Noi speriamo anche che si giunga a delle responsabilità ma in ogni caso ritengo che la storia di quella mattina verrà ridisegnata». Scrive “Tutto Sport” martedì 26 gennaio 2016. Marco Pantani a Madonna di Campiglio, al Giro d'Italia, nel giugno del 1999, non doveva essere fermato. Lo ribadisce l'avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia del ciclista di Cesenatico, in una intervista andata in onda stamane durante la trasmissione Rai della Tgr Emilia-Romagna 'Buon Giorno Regione'. "Credo - sottolinea il legale - che siano emersi dei fatti che in ogni caso disegnano gli avvenimenti di quel giorno a Campiglio in maniera diversa. Ricordo che Marco nel pomeriggio tornando a casa si fermò all'Ospedale Civile di Imola. L'ematocrito era tornato a 48.2 ma soprattutto le piastrine che a Campiglio (dove il pirata venne sottoposto ad un controllo Uci, ndr) erano 100.000, all'Ospedale di Imola erano 170.000. I due esami sono totalmente incompatibili, dobbiamo solo capire se è più attendibile quello fatto in una stanzetta di un hotel a Campiglio o in un Ospedale Civile della Repubblica italiana". La Procura di Forlì sta ancora indagando su quello che è accaduto a Madonna di Campiglio, indagine della quale anche la Direzione distrettuale antimafia di Bologna si occupa per la presunta interferenza della Camorra e di un giro illegale di scommesse nell'esclusione di Marco Pantani nel Giro d'Italia. "Credo anche con grandissimo impegno - sottolinea De Rensis - lo dico da spettatore esterno. La sensazione che noi abbiamo sempre avuto quando abbiamo colloquiato con il Procuratore Capo e il Sostituto, è stata sempre quella di essere ascoltati, non siamo mai stati un elemento di fastidio per loro e questo ci ha dato una grande soddisfazione". Da questa indagine ribadisce l'avvocato della famiglia Pantani "noi ci aspettiamo che il Procuratore Capo e il Sostituto con il loro lavoro intenso e molto serio, ridisegnino i fatti. Noi speriamo anche che si giunga a delle responsabilità ma in ogni caso ritengo che la storia di quella mattina verrà ridisegnata perché Marco Pantani, noi sosteniamo e ne siamo fermamente convinti, non doveva essere fermato". Nel filone di indagini che riguarda la Procura di Rimini sulla morte di Marco Pantani, riaperto un anno e mezzo fa, il legale della famiglia Antonio De Rensis, nell'intervista Rai ribadisce che "l'indagine non è chiusa, anzi - aggiunge - devo dire che dopo la richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero sulla quale deciderà il Giudice delle indagini preliminari, che dovrà fissare un'udienza, abbiamo avuto ancora più conforto, perché leggendo le carte di quell'indagine abbiamo capito che forse abbiamo ragione noi". Sul caso, il legale ha ricordato che "non soltanto qualche giorno dopo la riapertura, il Pubblico Ministero incaricato si è chiamato fuori (il 9 settembre ha chiesto di astenersi da quell'indagine) ma anche il Gip che era stato nominato per decidere sulla richiesta di archiviazione, ha chiesto di astenersi per cui adesso è stato nominato un altro Gip che mi risulta essere arrivato a Rimini da poco e che speriamo abbia la forza di fare chiarezza su questa indagine che ha decine di punti da chiarire: uno per tutti, ricordo che il consulente del Pubblico Ministero ha detto nella sua relazione, ma addirittura anche a un quotidiano nazionale, che le sue conclusioni potrebbero essere completamente smentite facendo ulteriori esami e dice anche quali, e che si può fare molto di più. Davanti a queste cose faccio fatica a pensare che si possa archiviare questa indagine". "Ho molta fiducia nelle indagini - ha concluso De Rensis riferendosi a entrambi i filoni di indagini - in particolar modo ho grande fiducia sul fatto che la Procura di Forlì possa ridisegnare gli avvenimenti di quella mattina".
Caso Pantani, il legale: «Ora assegnino a Marco il Giro d’Italia 1999». L’avvocato Antonio De Rensis: «Ci opporremo alla richiesta di archiviazione e cercheremo di agire anche in funzione di una riscrittura della storia di quel Giro», scrive “Tutto sport” martedì 15 marzo 2016. Come l'inchiesta riaperta sulla sua morte a dieci anni di distanza, anche quella sulla fine sportiva di Marco Pantani si è conclusa con una richiesta di archiviazione. Come i colleghi di Rimini, i Pm di Forlì hanno definito gli accertamenti ritenendo di non aver elementi per sostenere un processo. L'ombra di un intervento della camorra sul Giro d'Italia del 1999 è rimasta tale, un sospetto, forse anche credibile, ma non percorribile, né perseguibile penalmente. Come avvenuto a Rimini, anche a Forlì la famiglia potrà opporsi alla decisione, che spetterà infine ad un Gip. L'inchiesta bis sul complotto nella corsa rosa era nata dall'idea che Pantani il 5 giugno a Madonna di Campiglio fosse stato incastrato dalla criminalità organizzata: bisognava, secondo questa ipotesi, eliminare chi stava dominando il Giro e per farlo si sarebbe alterato il valore dell'ematocrito nel sangue del ciclista di Cesenatico, favorito nelle puntate degli scommettitori. E' su questo che ha insistito l'avvocato Antonio De Rensis, il legale della madre di Pantani, Tonina Belletti. Ha ottenuto prima la riapertura in Romagna dell'indagine archiviata dalla Procura di Trento, quindi che della vicenda si interessasse anche la Dda di Bologna con il Pm Enrico Cieri, tenuto informato periodicamente dai magistrati forlivesi, il capo Sergio Sottani e la sostituta Lucia Spirito, sugli sviluppi degli accertamenti. E' lo stesso legale a spiegare che i Pm hanno "sì ritenuto credibile" che ci sia stata un'alterazione dei test, "ma forse non si può andare oltre". Risultato, richiesta di archiviazione nel merito, conferma il legale. Sul punto la procura non ha fatto commenti. A quanto si è appreso, nell'atto si farebbe riferimento ai reati di estorsione e minacce a carico di ignoti e di questi però non è stato possibile individuare gli eventuali responsabili e pertanto se ne è chiesta l'archiviazione, nel merito. La procura nella richiesta aggiunge che, rispetto ad altri reati teoricamente ipotizzabili, essi sarebbero comunque prescritti. Nell'indagine sono state sentite varie persone, tra cui la mamma del Pirata, giornalisti e medici. Uno snodo poteva arrivare a ottobre 2014, quando fu convocato Renato Vallanzasca. Agli inquirenti l'ex 'bel René' riferì che nel 1999 fu avvicinato in carcere da un esponente della camorra che, visto il ruolo di prestigio di Vallanzasca all'interno della mala italiana, era desideroso di fargli un 'regalo', e cioè di non farlo scommettere, come stavano facendo tutti, sulla vittoria di Pantani, perché il Pirata quel Giro "non lo avrebbe finito". Anche questa persona è stata sentita dagli investigatori. E c'è, agli atti dell'inchiesta, una telefonata intercettata in cui il detenuto, dopo l'interrogatorio, parla con un parente. Racconta di Vallanzasca e di quando dichiarò che "un camorrista di grosso calibro gli avrebbe detto: guarda che il Giro d'Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine" e che "quindi praticamente la camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato". E quando il parente domanda, "Ma è vera questa cosa?", la risposta è un sì, ripetuto cinque volte. Parole che "fanno male", a Tonina Pantani, secondo cui "è una conferma di quello che ha sempre detto Marco, cioè che l'avevano fregato. Io sono molto serena oggi: finalmente sono riuscita e sono riusciti a trovare queste cose". Ma non è bastato. L'uomo sarebbe stato riconvocato per chiarire, ma quel poco che ha detto non avrebbe convinto chi indagava sulla possibilità concreta di fare passi in avanti. Sulla richiesta di archiviazione, l'avvocato della famiglia Pantani Antonio De Rensis ha commentato: «È una grande sconfitta - spiega a Sportface.it - per chi all’epoca non è riuscito a capire che ci fosse qualcosa di strano, che i controlli antidoping fossero alterati. E poi questa seconda richiesta di archiviazione rappresenta comunque un atto di accusa, perché conferma la presenza dell’infiltrazione camorristica. Non ci sono più dubbi. Futuro? Ci opporremo alla richiesta di archiviazione. In secondo luogo cercheremo di agire anche in funzione di una riscrittura della storia di quel Giro d’Italia 1999, perché Marco Pantani non l’aveva vinto, l’aveva stravinto. Possibilità che a Marco venga assegnato quel Giro? Io penso di sì, o almeno noi combatteremo per avere almeno una co-assegnazione ad honorem postuma (dopo la squalifica di Pantani fu Ivan Gotti a vincere quell’edizione maledetta della Corsa Rosa, ndr). D’altronde, i fatti sono chiari. Non c’è solo l’intercettazione che sta girando in queste ore, ma una serie di dichiarazione univoche di altre persone informate sui fatti. Novità sull'indagine relativa alla morte di Pantani? Anche qui siamo in fiduciosa attesa: stiamo aspettando la decisione del Gip e anche su questa indagine attendiamo risposte che ad oggi non sono ancora arrivate».
Pantani: 17 anni per avere giustizia, è grama la vita degli avvoltoi. Onore ai giudici di Forlì e un abbraccio fortissimo a Tonina e Paolo Pantani: non hanno mai smesso di difendere Marco dalle palate di fango piovutegli addosso da chi non gli chiederà mai abbastanza scusa, scrive Xavier Jacobelli su “Tutto Sport” lunedì 14 marzo 2016. Ci sono voluti diciassette anni, perché la verità su quel giorno a Madonna di Campiglio venisse a galla ed è merito dei magistrati della Procura di Forlì se, finalmente, è venuta a galla. Così come le parole di Tonina Pantani non hanno bisogno di nessun commento, tanto ammirevoli sono stati la tenacia e il coraggio con i quali la mamma di Marco e Paolo, il papà, in tutto questo tempo, per tutto questo tempo, hanno gridato al mondo che Pantani non avesse mai barato in quel Giro che stava dominando. Diciassette anni aspettando giustizia. E, se riascoltate Marco parlare durante la conferenza-stampa susseguente l’esclusione dalla corsa, leggete nella sua voce tutto lo choc che ha provato, il dolore immenso che l’ha squassato, infilandolo nel tunnel della depressione che l’ha portato alla morte il 14 febbraio 2004, a Rimini, Hotel delle Rose. In attesa di avere giustizia anche per questa vicenda, il pensiero corre a tutti quelli che il giorno dopo Campiglio e nel tempo che è venuto dopo, hanno sputato fango su Marco. Quelli che il giorno prima Marco pedalava nella leggenda e il giorno dopo veniva scaricato come un pacco postale. Dovunque siano, non chiederanno mai abbastanza scusa. E’ grama, la vita degli avvoltoi.
Ciclismo. «Paga e corri», trema il mondo del pedale italiano. Rischiano la radiazione 3 team manager che chiedevano soldi agli atleti: Viviani testimone chiave, scrive Marco Bonarrigo il 16 settembre 2016. Il 6 novembre 2015 l’inchiesta del Corriere ha raccontato la realtà di ciclisti e calciatori che pagano per lavorare. Da qui parte il lavoro della Procura del Coni. Se lo stipendio te lo devi pagare da solo, che mestiere diventa il ciclista (o il calciatore)? Sono passati dieci mesi da quando un’inchiesta del Corriere della Sera ha dato alcune risposte inquietanti a questa domanda. Nel calcio l’omertà è ancora più forte di tutto, anche se i casi di giocatori di Lega Pro che accusano questa pratica non mancano. Il muro nel ciclismo è crollato grazie al lavoro della nuova Procura generale del Coni (potenziata dal presidente Malagò) che ha approfondito il tema, archiviato due volte dalla disciplinare della Fci. E il risultato di testimonianze e interrogatori fa tremare l’ambiente: sono arrivati i deferimenti ai team manager delle tre principali squadre Professional italiane, ovvero Bardiani (Bruno Reverberi), Androni (Gianni Savio) e Southeast (Angelo Citracca). Rischiano da un anno di squalifica fino alla radiazione. La picconata definitiva a un sistema vergognoso che dura da anni è d’autore: a darla è stato Elia Viviani, due mesi prima di diventare campione olimpico nell’Omnium a Rio. L’azzurro non ha certo dovuto pagare per correre, ma ha confermato con la sua testimonianza del 14 giugno che la Bardiani ha chiesto soldi a Marco Coledan, suo amico e da lui «scelto» per seguirlo alla Liquigas. Coledan, che di primo acchito aveva negato l’episodio (confermato anche dall’agente), è stato a sua volta deferito. Almeno altri 6 corridori invece hanno ammesso di aver pagato o di aver procurato sponsor che pagassero per il loro ingaggio. Se non è l’azienda di famiglia, a tirare fuori i soldi necessari è il nonno che sogna un nipote forte come Moser o magari il papà del compagno più debole, in una sorta di trattativa «2 al prezzo di 1», documentata per due atleti veneti. Nell’inchiesta «Paga e corri» spicca il ruolo anche di alcuni procuratori di ciclismo. O presunti tali, dato che percepire una percentuale sui soldi pagati dal proprio assistito per lavorare è solo uno dei risvolti grotteschi dell’intera vicenda, che dà un quadro sconfortante del movimento. Il capo d’accusa per i tre manager deferiti — violazione dell’articolo 1 del Regolamento della Giustizia sportiva della Federciclismo — è chiarissimo e in poche righe fa capire anche il risvolto tecnico, niente affatto secondario, della vicenda. Citracca, Savio e Reverberi rischiano grosso «per aver condizionato il passaggio al professionismo di atleti non sulla base di meriti sportivi acquisiti, bensì al reperimento di uno sponsor che garantisse un utile per la società ed in particolare per aver richiesto, per tramite del procuratore x al corridore y un importo in denaro a titolo di sponsorizzazione, quale condizione per il suo ingresso in squadra». «Ricordo — dice Viviani davanti al Procuratore del Coni — che per Coledan fu una sorpresa sapere che per svincolarsi dalla Bardiani si sarebbe dovuta versare una penale. Anche perché mi disse che percepiva il minimo dello stipendio e nessuno gli aveva detto che per svincolarsi avrebbe dovuto versare una somma di denaro. L’aspetto anomalo era che non risultava indicato in maniera certa e numericamente precisa l’importo di questa cosiddetta penale (…)». Così, nel discusso contratto 2+1, i soldi per liberarsi erano passati dai 10/15 mila euro iniziali, fino a 35/40 mila. Chi ci perde alla fine è soprattutto il ciclismo.
Ciclismo: scarsi, ma coi soldi di papà Così cala il livello e l’arrivo è miraggio. La difesa: abbiamo ingaggiato in passato corridori che portavano sponsor, ma l’Uci non ha mai contestato il valore sportivo dei nostri atleti, scrivono Marco Bonarrigo e Paolo Tomaselli il 15 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «In passato abbiamo ingaggiato corridori che avevano lo sponsor e non mi vergogno a dirlo. Ramon Carretero? Certo che l’avevo preso per i soldi, c’era un progetto con Panama e la Cina che mi salvava la squadra. Ha fatto una str… si è dopato. Ma che c’entra col fatto che era sponsorizzato dal padre?». Così parlò al Corriere Angelo Citracca, team manager del Team Southeast, uno dei tre deferiti dalla Procura del Coni al Tribunale della Federciclismo. Carretero, figlio di un facoltoso imprenditore panamense, arrivò in Italia nel 2014 con palmares ciclistico nullo ma accompagnato dal cospicuo assegno di papà che lo voleva professionista a tutti i costi. Maglia nera fin dal primo metro al Giro 2015, si ritirò prima di farsi beccare dall’antidoping. Anche per arrivare ultimo aveva bisogno di Epo. Nella memoria difensiva depositata al Coni per difendersi dalle contestazioni, Angelo Citracca spiega: «Il valore sportivo di una squadra è condizione sine qua non per ottenere la licenza internazionale e fino ad oggi l’Uci non ha contestato alcuna carenza di valore ai nostri atleti». Ha ragione: per la Federazione internazionale quando ci sono i soldi il merito passa in secondo piano. Puoi ingaggiare chi credi e anche se perdi tutte le partite non retrocedi mai. Nel professionismo delle due ruote non c’è la serie C. E a fronte di un Carretero «pagante» capita che il toscano Matteo Mammini, dilettante di gran valore, non passi professionista perché, stando alle sue dichiarazioni, avrebbe respinto la richiesta del manager Androni Gianni Savio di raccogliere 50 mila euro per sponsorizzarsi da solo. Indebolito da atleti non all’altezza del compito, il ciclismo italiano di seconda fascia vince poco o nulla. Nel palmares 2016 dei quattro team Professional azzurri (75 corridori stipendiati, almeno formalmente) i terreni di conquista sono Albania, Romania, Turchia, Malesia. Da gennaio ad oggi — in oltre duemila giorni di gara individuali — totalizziamo la miseria di 40 vittorie, quasi tutte in Asia o Europa orientale. Battuti spesso da dilettanti però selezionati per meriti sportivi. Già, ma come si determina il valore atletico in uno sport dove tempi e misure hanno valore relativo? Uno degli indici è la percentuale di ritiri durante le corse che in alcuni team Professional italiani è la più alta del mondo: tolti i capitani (spesso gli unici pagati decorosamente) molti altri si fermano a metà strada in una corsa su tre: ritirati cronici. Appena la testa del gruppo apre un po’ il gas o la strada si impenna, salgono in ammiraglia e tornano a casa. Per poter fare bella figura vengono spediti a correre in Cina o Azerbaigian.
Diritti tv: Infront e i soldi alle squadre. Brescia, «Nel cda uno di fede giurata». Nelle intercettazioni gli scambi e i favori con mezza serie A. Il sospetto è che la compagnia abbia giocato contro Sky, ma anche contro la Lega Calcio, scrive Giuseppe Guastella il 31 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un torneo virtuale di calcio si gioca nell’inchiesta della Procura di Milano sui diritti tv, ed anche se tutti farebbero volentieri a meno di partecipare, il numero delle squadre aumenta. Per gli investigatori esiste un ristretto giro di società e persone in grado di condizionare il mondo del calcio. A partire dalla Infront di Marco Bogarelli, advisor Lega calcio di serie A nell’assegnazione dei diritti, che gestisce anche le sponsorizzazioni di molte squadre. Come il pericolante Cagliari, con il quale a marzo, però, decide di rescindere il contratto pagando ben 10 milioni. La Gdf non dà interpretazioni, si limita a riportare una telefonata, in cui si parla di un incontro tra Bogarelli e il presidente Tommaso Giulini, tra Giuseppe Ciocchetti (socio di Bogarelli) e il legale di Infront Antonio D’Addio che pensa che ci sia «qualcosa che noi non sappiamo con Lotito» (Claudio, presidente Lazio e consigliere federale Lega) perché «un club che sta andando in serie B conta il due di picche». Sotto indagine anche un finanziamento da due milioni andato dal Gruppo di Antonio Percassi, proprietario dell’Atalanta, a Infront, che ha problemi perché non raggiunge i ricavi previsti, e che torna all’Atalanta. Tra Infront e le società ci sono legami e scambi di favori. La Gdf annota che Bogarelli vuole un suo uomo nel cda del Brescia, ma l’ad Rinaldo Sagramola ne cerca uno «non facilmente riconducibile a voi, ma di fede giurata». Soccorsi anche per l’Hellas Verona. «Gli servivano 700 più iva», dice Bogarelli. «Orca trota! Gli ho pagato sette… seicento e qualcosa. Va bene, allora gli metto in pagamento anche l’altra», risponde il socio. Lo stesso avviene con il Bari che non può pagare i calciatori e per il quale interviene Lotito che a Ciocchetti dice: «Me devi risolve quel ca… de problema del Bari, porca…», che «questo pija la penalizzazione». Analoghi problemi nel Genoa, che deve anche iscriversi alla Uefa ma mancano 5 milioni. Interviene Riccardo Silva, presidente della Mp& Silva Group, che detiene i diritti tv del calcio italiano per l’estero, e le Fiamme gialle intercettano un vortice di telefonate con il presidente Enrico Preziosi preoccupato: «Ho perso tutto, anche l’iscrizione Uefa» perché «non ho ricevuto niente, porca pu…..!». Quando i soldi arrivano, Preziosi, secondo quanto dice Ciocchetti, è così contento da proporre il 3% della Giochi preziosi per 10mila euro che quando la società sarà quotata ad Hong Kong, varrà 10milioni. «A noi non costa un c…. È un regalo che ci fa», commenta Ciocchetti. Nella partita dei diritti tv, i pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini sono convinti che Infront abbia giocato contro Sky, che oltre al satellite doveva avere anche il digitale terrestre, andato a Rti-Mediaset. Si gareggia anche per il pacchetto «C» (interviste a fine partita) con Galliani che vorrebbe «fare pressione sulle altre squadre...che abbiamo noi... come diritto di marketing», mentre Ciocchetti è preoccupato per l’intera asta: «Ci mettono tutti in galera», «in un’asta pubblica ti ingabbiano». Infine i diritti sulla Serie B. Bogarelli è attento alle esigenze di Rti che, anche qui, è in concorrenza con Sky. Parla con Andrea Abodi, presidente Lega B, che sottolinea le «criticità» avvertendo: «A me interessa che nessuno abbia da dire», anche se la Gdf è convinta che Lega A e B siano «assoggettate alla volontà dell’advisor». Ultima grana, le scommesse online durante le partite. La Juventus protesta perché Silva avrebbe ceduto i diritti a siti stranieri, ma la preoccupazione di Infront è che se ci sono soldi da recuperare non devono tornare alla Lega. Sarebbe «uno spreco».
Diritti tv, intercettazioni e Guardia di Finanza: “Ecco il sistema Infront per favorire Mediaset”. Secondo gli investigatori nel 2014 è stata truccata l'asta per l'assegnazione delle dirette televisive del triennio 2015-2018 dove l'offerta migliore era stata fatta da Sky: "Non c'era trasparenza ed equità". Adriano Galliani al telefono: "Bisogna fare pressione sulle altre squadre", scrive Andrea Tundo il 30 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Centinaia di intercettazioni telefoniche, alcune inequivocabili, a supporto di un’indagine che va avanti dalla primavera dello scorso anno, disegnano quello che gli investigatori non esistano a definire “un vero e proprio sistema” imperniato sul ruolo diInfront nel calcio italiano. Due relazioni della Guardia di finanza, anticipate da La Repubblica, descrivono in maniera limpida quanto l’advisor della Lega Serie A pesi nelle decisioni prese dalla Confindustria del calcio italiano, grazie alle numerose attività svolte per conto dei club e alla vicinanza dei suoi manager, Marco Bogarelli in primis, con il mondo Mediaset e in particolare con Adriano Galliani, ad del Milan e vice presidente della Lega. Nei primi mesi dell’inchiesta – che ha subito una nuova accelerazione negli scorsi giorni con il sequestro di tutti i contratti che legano Infront ai club di A per i quali cura il marketing – gli inquirenti si sono imbattuti nell’ultima trance di assegnazione dell’asta dei diritti tv del giugno 2014. La Lega era infatti chiamata a piazzare il pacchetto C, quello che dà la priorità per le interviste nel pre e post partita, oltre all’accesso delle telecamere negli spogliatoi e ai commenti dei bordocampisti accanto a entrambe le panchine. Un ramo apparentemente insignificante ma comunque appetitoso per le emittenti per fornire un’esperienza completa ai loro clienti. Tanto che – stando alle relazioni delle fiamme gialle – Mediaset prova a forzare la mano per vincere la gara. La proposta del Biscione è infatti più vantaggiosa, ma sarebbe “assolutamente non valida” perché legata a un accordo di sub licenza, secondo quanto riportato da Repubblica. Di conseguenza il reale vincitore sarebbe Sky, che ha imbustato un’offerta più bassa. Ma le intercettazioni telefoniche ci sono alcuni passaggi che chiarirebbero come in quelle ore sia stata indirizzato l’esito. Da Rti infatti chiamano subito Bogarelli: “Adesso devi convincerli tua eseguire la sub licenza”, ordinano. E il presidente di Infront Italy risponde: “Va bene, va bene, va bene, va benissimo (…) date un colpo anche ad Adriano Galliani”. E l’amministratore delegato rossonero, sempre in un’intercettazione riportata da Repubblica, a riguardo dice: “Bisogna fare pressione sulle altre squadre… che abbiamo noi come diritto di marketing”. Un passaggio chiave perché i soldi che arrivano da Infront alle squadre per la gestione del marketing sono un tesoretto importante per la loro sopravvivenza e verrebbero usati come leva per convincere i club a votare ciò che interessa a Infront. E le società sono tante, praticamente tutte tranne Juventus e Roma. Che spesso si mettono di traverso, provocando apprensione all’advisor. Riporta ancora La Repubblica un’intercettazione tra il direttore generale dell’azienda Giuseppe Ciocchetti e il legale della stessa, Antonio D’Addio: “Dopo il precedente dello scorso luglio, che abbiamo molto forzato la mano, io sconsiglierei di forzarla ancora”. Un’opinione condivisa da Ciocchetti, eppure quel pacchetto finisce Mediaset. Gli investigatori allora annotano: “Atteso il ruolo di advisor, Infront dovrebbe agire garantendo ai partecipanti assoluta equità, trasparenza e non discriminazione, garanzia che, dalla lettura delle intercettazioni, non è ravvisabile non solo per il pacchetto C ma anche per i pacchetti A, B, D, E”. Aggiungendo che “risulta significativo che nello stesso periodo non ci sono stati contatti con Sky”. Uno strapotere al quale, come anticipato giovedì da IlFattoQuotidiano.it, ora anche la politica vuole mettere un freno con una revisione della legge Melandri-Gentiloniche impedisca a Infront di occupare più settori, scardinando così il suo grado di influenza. Che arriva, e questo è un altro filone d’indagine già noto, al ‘salvataggio’ di società in difficoltà. Sarebbe accaduto, ipotizzano i pm, con il Genoa di Enrico Preziosi. Illuminante un dialogo tra Ciocchetti e Bogarelli: “Gli abbiamo salvato la vita perché non ha preso sei punti di penalizzazione, per quello che abbiamo fatto, ricordatelo”. “Quello” sarebbe un prestito da 15 milioni di euro arrivato dallo stesso Bogarelli e da Riccardo Silva, numero uno di Mp&Silva, tra i leader mondiali nella commercializzazione dei diritti tv, compresa la Serie A all’estero. Secondo gli inquirenti i soldi arrivati a Preziosi sarebbero provenienti “dalle disponibilità di Silva” accreditate “presso un rapporto bancario estero riferibile a un veicolo Infront”. Una ricostruzione smentita da Mp&Silva che definisce Infront “un competitor con cui capita spesso di intrattenere normali rapporti economici”, specificando che “cosa poi loro facciano dei soldi che prendono da noi, non ci riguarda”.
Diritti tv, le intercettazioni. Il numero due di Infront: “Finiamo tutti in galera”. In una conversazione con l’avvocato della Lega, il manager Giuseppe Ciocchetti si mostra spaventato. E Bogarelli tira in ballo un possibile turno di Tim Cup in Qatar: “Metterebbero un sacco di soldi...”, scrive la “La Gazzetta dello Sport" il 31 gennaio 2016. Grazie ad alcune intercettazioni, emergono novità nell’inchiesta sui diritti tv del calcio, origina dall’arresto per riciclaggio, lo scorso ottobre, del fiscalista Andrea Baroni in un cui filone parallelo i pm di Milano hanno iscritto nel registro degl indagati Marco Bogarelli, presidente di Infront, con l’ipotesi di turbativa d’asta e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Per i presunti finanziamenti ai club sono indagati anche i presidenti di Genoa, Bari e Lazio, Preziosi, Paparesta e Lotito. Ecco il testo di alcune intercettazioni. La prima è quella tra l’avvocato della Lega Calcio Ghirardi e il manager di Infront Ciocchetti. I due parlano di trattativa privata.
G.: «Ma domani il primo, cioè, voglio dire, il legale della Juve, che evidentemente spinge da un’altra parte, solleva il problema e io a questo punto devo rispondere. Allora, io rispondo in coscienza, ma anche nell’interesse di tutti…».
C.: «Però, scusami, si può andare per via privata… Non è che la tesi può essere nulla quella di Mediaset, e deve essere accettata quella di Sky?».
G.: «No, assolutamente, no. Allora, io vado a trattativa privata. Allora, le due offerte che ho ricevuto non sono per me accettabili: una perché comunque, in ogni modo, non mi dà una soddisfazione economica che io mi aspettavo, e quindi ho tutto il diritto del mondo di poterla rifiutare, l’altra perché magari mi dava un’aspettativa economica che a me poteva anche piacere, però purtroppo è condizionata. Allora a questo punto andiamo a trattativa privata, nell’ambito della trattativa privata rimuoviamo quelli che sono i problemi. Ma così io non posso andare a dire: “Allora, l’accetto a condizione che tu la tolga”, cioè io sto modificando un’offerta eh?».
C.: «Facciamo la trattativa privata, così rimuoviamo gli ostacoli, riformulino le offerte, ma che siano loro a riformulare…».
C. osserva: «Ci mettono tutti in galera».
BOGARELLI-GALLIANI — Colloquio tra Bogarelli e Galliani. Per commentare gli esiti delle offerte considerati i quali gli esprime il suo orientamento.
B.: «Senti… invece lì… il pacchetto C lo aggiudicherei…».
G.: «Uh! Tre mi… Cos’è? Più di 3 milioni, assolutamente!».
B.: «Sì, via… Alla grande…».
G.: «Perché tu pensi che il secondo giro si porta a casa ancora qualcosa di più?».
B.: «No, no, no, no… ma poi, dammi retta… andiamo così».
G.: «No, ma non nel C, no, sto parlando diritti esteri».
B.: «Ah, sì, quelli sì, sì, secondo me sì, perché sono tempestato… poi in Qatar, Aspire è interessatissimo a fare la partita del turno di Tim Cup a gennaio…».
B.: «…Metterebbero un sacco di soldi...sono».
G.: «Dai, dai, dai, dai va bene».
CIOCCHETTI-SILVA — Ciocchetti parla con Silva (presidente della MP&Silva Group) del 3% della Giochi Preziosi offerto dal presidente del Genoa.
C.: «e diceva: guarda siccome siete stati gli unici che mi avete dato retta che ogni volta che chiamavo...voglio ricompensarvi di questo vostro sacrificio, quindi ora la società vale 300 milioni, però lui è convinto, poi non so se è così, in quotazione varrà almeno il doppio, se non ancora di più... quindi io sono disposto a darvi il 3% della GIOCHI PREZIOSI, facciamo un contratto di opzione, io l’ho già visto tutto, un contratto d’opzione che voi potete esercitare a 10mila euro, una cagata...5 mila euro, che voi potete esercitare quando volete, quando si sa che la quotazione certa ha un valore di 300 milioni, per il 100%, fino.. che quindi vale 10 milioni... cioè, voi lo esercitate, acquistate 10 milioni, lo fate soltanto se la società vale di più, fino a 25 milioni di guadagno... scusa fino a 25 milioni di valore se ve li tenete tutti voi, quindi più 15, dopodichè dividiamo fifty fifty...».
LA REPLICA — In serata la replica di Infront affidata all'Ansa: l'advisor della Lega calcio per i diritti tv parla di «Gravi e fantasiose illazioni frutto di un'analisi incompleta con effetti suggestivi».
Diritti tv, Infront: "Gravi e fantasiose illazioni". L'advisor della Lega calcio interviene dopo la pubblicazione delle intercettazioni della Guardia di Finanza, oggetto dell'inchiesta della Procura di Milano. "Quanto contenuto negli articoli sono frutto di un'opera di analisi incompleta con effetti suggestivi", scrive "La Repubblica" il 31 gennaio 2016. "Gravi e fantasiose illazioni frutto di un'analisi incompleta con effetti suggestivi". E' la dichiarazione all'Ansa di Infront, l'advisor della Lega calcio per i diritti tv e del marketing di molti club di serie A, dopo la pubblicazione su alcuni giornali delle intercettazioni della Guardia di Finanza, oggetto dell'inchiesta della Procura di Milano. "Con riferimento agli articoli di stampa recentemente divulgati in particolare dal quotidiano La Repubblica e da La Gazzetta dello Sport, Infront - sottolinea la nota - nella sua qualità di advisor della Lega Serie A, ritiene imprescindibile precisare alcuni dei gravi errori di fatto in cui sono incorsi i giornalisti nella ricostruzione e interpretazione degli accadimenti. Non è infatti vero che l'invito a presentare offerte per il Pacchetto C fosse stato "truccato" per agevolare la società Mediaset, come sostiene alcuna stampa. Anzi basta esaminare il reale svolgimento dei fatti per rendersi conto che Sky ha avuto un anno di tempo per aggiudicarsi il pacchetto C, avendo concorso senza la partecipazione di Mediaset, per ben tre volte alla sua assegnazione. Senonché, in ciascuna di queste occasioni, Sky offrì importi o inferiori al prezzo minimo, oppure sempre inferiori al prezzo precedentemente già ritenuto incongruo e per ciò rifiutato dalla Lega". Per l'advisor della Lega calcio "le gravi e fantasiose illazioni contenute negli articoli di stampa, liberamente evinte da stralci di brogliacci di intercettazioni telefoniche, sono frutto di un'opera di analisi incompleta con effetti suggestivi. Non hanno peraltro tenuto in nessun conto - prosegue Infront - come si potrà agevolmente dimostrare nelle sedi a ciò deputate, la circostanza che i regolamenti, i ruoli e il reale andamento dei fatti sono rimasti indenni da ogni tentativo di influenza diretta o indiretta, da chiunque proveniente, sull'esito dell'assegnazione, e semmai intesi a favorire la libera concorrenza tra gli operatori. Negli articoli di stampa - prosegue la nota - si travisa anche il ruolo di Infront, che è un mero advisor della Lega e, come tale, non assume le delibere in capo all'Assemblea di Lega Serie A. Nella sua qualità di advisor si limita dunque a effettuare ricognizioni di mercato, intrattenendo rapporti direttamente con gli operatori del settore, al fine di calibrare in favore della Lega la propria attività di consulenza, che la stampa ha frainteso come attività di interferenza". Infront elenca poi "i fatti". Il pacchetto 'C' - i diritti di trasmissione di interviste della serie A - "è stato oggetto di 3 inviti a presentare offerte sin dal 19 maggio 2014", occasioni in cui partecipò sempre e solo Sky, Mediaset non formulò mai offerte"; dopo che la prima gara non fu aggiudicata perchè "Sky non aveva superato il prezzo minimo, la Lega operò un ribasso del prezzo minimo" per agevolare la rapida assegnazione del pacchetto "accessorio rispetto a quelli principali già aggiudicati, circostanza che - ricorda Infront - lo rendeva assegnabile solo ai soggetti già aggiudicatari dei pacchetti A e B". Sky - ricostruisce Infront - dopo aver offerto zero arrivo a 6 milioni senza mai modificare la cifra, anche in assenza di offerte Mediaset". Il quarto invito fu del 17 marzo 2015, e la Lega vi specificava che l'offerta doveva essere congrua al contenuto, o non sarebbe stata accettata. Il 9 aprile di quell'anno, sottolinea Infront, Sky offrì 6,6 mln euro per 3 anni, Mediaset 8,55 mln per lo stesso periodo ma con la condizione di poter di poter "sub-licenziare i diritti all'aggiudicatario del pacchetto A, ovvero Sky. Condizione, sottolinea Infront, "strumentale a sopportare insieme i relativi costi, non a sottrarli a Sky". Ma il giorno dopo le offerte, "a differenza da quanto lasciato intendere dai giornalisti, veniva deciso di non assegnare il pacchetto nè a Sky nè a Mediaset" perchè la prima non aveva cambiato l'offerta, mentre RTI aveva presentato offerta più alta ma "con la condizione di sub-licenziare, proposta irricevibile". Si proseguì con una trattativa privata, sottolinea ancora l'advisor, e l'8 maggio Sky offrì 7.2 mln per i tre anni, Mediaset 9.34: "nessuno dei due offerenti, pur conoscendo le precedenti offerte del competitor, modificò di fatto la propria. In particolare Sky non aumentò l'offerta per superare quella, a loro già nota, formulata precedentemente da Mediaset (8,55 mln euro). Il pacchetto C venne aggiudicato a Mediaset/RTI il 10 maggio 2015 in quanto miglior offerente". "Non è dunque conforme al vero che siano giunte a segno le ipotizzate pressioni su rappresentanti di Infront o della Lega, finalizzate a sottrarre il Pacchetto C a Sky e assegnarlo a RTI/Mediaset - è la conclusione della nota - E' invece vero che Sky, avendo avuto molteplici occasioni per aggiudicarsi il pacchetto ha nei fatti rifiutato tale opportunità, che non ha dunque colto come conseguenza di una sua autonoma e libera decisione. Si ribadisce pertanto la correttezza dell'operato dell'Advisor Infront e il pieno rispetto delle regole previste dalle procedure di invito e di trattativa privata".
Perché la Bbc e Buzzfeed scrivono che il tennis è uno sport truccato, scrive il 19 gennaio 2016 “Bergamo Post. È un calcio malato. No, aspettate. È un tennis truccato. Nemmeno i belli&dannati della racchetta se la cavano, stavolta. Anche loro sono finiti in mezzo a uno scandalo torbido. Secondo la Bbc eBuzzfeed news, il sito americano di informazione, i tennisti ci truffano dal 2003. Match di Wimbledon, del Roland Garros, e di tutti gli altri tornei del Grande Slam, un sacco di partite truccate da 16 campioni, addirittura dai primi 50 del mondo, e se nemmeno il tennis è al sicuro allora vuole dire che corriamo il rischio di sporcizia in ogni sport. E quel che è peggio è che ci saremmo di mezzo anche noi italiani. «I documenti che abbiamo ottenuto – afferma la Bbc – mostrano come le indagini abbiano trovato cartelli di scommettitori in Russia, Italia settentrionale e Sicilia che hanno guadagnato centinaia di migliaia di sterline con scommesse su partite truccate, tre delle quali giocate a Wimbledon». L’indagine fu avviata nel 2007 in seguito a sospetti sull’incontro tra Nikolay Davydenko e Martin Vassallo Arguello. Il report del 2008. Fu un match non troppo combattuto, oggi lo definiremmo sospetto. I due tennisti non risultarono colpevoli di alcuna violazione, ma l’inchiesta si sviluppò rilevando una rete di scommesse illegale. Il lungo braccio della legge che fa il suo corso. E ci è voluto un bel po’ per arrivare qui. In un report confidenziale del 2008, il gruppo che investigava sul caso affermò che 28 giocatori erano stati monitorati, ma che non era emersa alcuna prova a loro carico. Perché? Il mondo del tennis ha introdotto un nuovo codice anti-corruzione nel 2009, ma è stato deciso che non potessero essere perseguiti i reati compiuti precedentemente. E se non lo avessero fatto da un’altra parte, giureremmo che il finale è il tipico tarallucci e vino. A segnalare i reati è la Tennis Integrity Unit (Tiu), un’agenzia che si occupa di monitorare i match e verificare quelli in modo sospetto. Come? Con tutta una serie di dettagli che fanno scattare degli allarmi (troppi doppi falli, troppe palline gettate al vento eccetera). Questo sistema esiste anche nel calcio.
Tutta colpa di Federer (o quasi). Il tennis delle disuguaglianze dove si scommette per vivere. Oltre ai campi prestigiosi di Wimbledon e Roland Garros, dove una ristrettissima cerchia di giocatori si divide una torta in costante espansione, il tennis vive anche sui campi spelacchiati di tornei con montepremi bassissimi. Ed è lì, tra quei giocatori che non vanno in pari a fine anno, che la tentazione di aggiustare le partite si fa quasi irresistibile, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera” del 19 gennaio 2016. Il paradiso delle scommesse esiste, e si chiama tennis. Lo disse bene Richard Ings, ex giudice di sedia: era quel signore vagamente somigliante all’attore Richard Harris che arbitrava le finali di Wimbledon degli anni Novanta, oggi dirigente affermato, responsabile anche del settore antidoping della Federazione internazionale. «Se volessimo inventare uno sport fatto apposta per truccare gli incontri, questo si chiamerebbe tennis». Era già tutto nero su bianco, ben prima dell’inchiesta di Bbc e Buzzfeed — la trovate sfiorando l’icona blu — che senza rivelare nulla di nuovo ha il merito indiscusso di sollevare il velo su una realtà troppo spesso taciuta per convenienza e in omaggio al Dio denaro che tutto muove e decide nello sport professionistico. A questo paradiso dell’azzardo non manca nulla, davvero. A cominciare da un microclima ideale, reso possibile dalla fame dei comprimari e dall’egoismo delle stelle. Tutta colpa di Federer. Sarebbe un bel titolo, contenente una parte di verità, magari non direttamente addebitabile al campione svizzero, ma di certo al sistema che anche lui ha contribuito a creare. Nel nome dello star system, oggi il tennis è una piramide dove chi sta in vetta gode di privilegi da sogno, e si può dividere il 95 per cento del montepremi dei principali tornei. Agli altri, briciole (sfiorando l’icona blu, l’articolo di Forbes sui tennisti più pagati al mondo: in testa c’è proprio Roger Federer). È un sistema paragonabile a quello dei diritti televisivi delle squadre di calcio: la gente paga per vedere Federer, Nadal, Djokovic, non i loro avversari, i numero 50-60 della classifica. E quindi la torta appartiene quasi per intero ai più forti, che custodiscono gelosamente il loro privilegio. In questa specie di casta sportiva i posti sono limitati. Cinquanta, al massimo settanta. Ci sono giocatori così forti da entrare direttamente in tabellone degli Slam, ma così «poveri» da non riuscire e essere in pari alla fine di ogni stagione. Per loro, i soldi delle scommesse non sono solo una tentazione, ma possono anche essere una necessità. Quale Futures? Ad alzare lo sguardo oltre i cancelli del circolo esclusivo, c’è una realtà fatta di oltre duemila sopravvissuti e sopravviventi che affollano il gradino più basso del circuito Atp, quello dei Futures, i tornei con montepremi collettivi da diecimila dollari al massimo. Dimenticate il Roland Garros, Wimbledon e le lounge eleganti popolate da modelle e industriali di vaglia, con annesso buffet a tre stelle. L’altro tennis, quello dei peones della racchetta, va in scena in località del globo improbabili e neppure troppo esotiche, difficili da raggiungere, dove l’ospitalità è a carico del giocatore, dove spesso manca tutto, dagli spogliatoi alle palline, a campi di gioco decenti. Il montepremi dei Futures è fermo dal 1998, quando già appariva ai più troppo basso. Nello stesso periodo, la cifra scritta sull’assegno destinato al vincitore degli Australian Open, la prima prova degli Slam, si è moltiplicata per 5, arrivando fino a 2,4 milioni di euro. Nei Futures, una vittoria dopo cinque turni viene pagata nei casi migliori 1.400 dollari, ai quali vanno sottratte le tasse. Chi ha la sventura di perdere al primo turno ne incassa soltanto 100-110, di dollari. E per tornei che si disputano in posti sperduti dell’Africa centrale o nel cuore dell’Amazzoni, con quella cifra è impossibile rientrare delle spese di viaggio e di soggiorno. In questa specie di Cayenna con racchette dove la tentazione è più forte e sempre più conveniente della retta via, si aggirano i diavoli tentatori delle scommesse, gli aggiustatori di incontri sempre con computer in mano, pronti a tessere tele e costruire rapporti che resteranno anche in caso di passaggio di categoria del malcapitato giocatore. Si limitano a sfruttare una disuguaglianza divenuta ormai sistema anche a causa dell’ingordigia dei giocatori più forti che fa del tennis un caso unico di oligarchia sportiva. D’accordo, non ci sono le classifiche individuali negli sport di squadra. Ma è certo che il cinquecentesimo calciatore o cestista del mondo non fa certo la fame e una volta finiti gli anni d’oro non dovrà certo preoccuparsi di come tirare a campare, a differenza del suo corrispettivo tennistico. Infine c’è il dettaglio più importante, quello che rende questo scenario ancora più ideale per chi vuole guadagnarci sopra in maniera illecita. Perdere apposta a tennis è facile, mentre invece è ben difficile vederlo a occhio nudo, al netto di qualche svarione terrificante e non casuale filmato appunto a livello Futures e rintracciabile su Youtube, ma lì siamo davvero ai Fantozzi e Filini della scommessa. Nessuno potrà mai dimostrare che quel rovescio tirato fuori di tre centimetri sia davvero indizio di una combine. E davanti a questo, neppure la rivelazione dei nomi coinvolti nell’inchiesta può nulla. La prova è proprio nella pietra dello scandalo dalla quale origina l’inchiesta dellaBbc, quel match Davydenko-Vassallo Arguello che gli aficionados ormai conoscono a memoria, manco fosse un Borg-McEnroe d’annata. Non ci sono colpi che fanno saltare sulla sedia, non si vede la pistola fumante. La partita divenne famosa per l’incredibile quantità di puntate, che all’improvviso raggiunse i quattro milioni di euro, e per la pessima fama di Davydenko. Ma pochi sanno che al termine dell’inchiesta il tennista russo non solo fu assolto, ma chiese e ottenne anche le scuse dell’Atp. Nel tennis le scommesse sono imparabili. Nel circuito Atp è ben nota la lista dei 140 spettatori indesiderati che non possono mettere piede nei palazzetti dove si giocano tornei importanti. Sono i campioni della scommessa in tempo reale, che puntano sul singolo game del primo turno del torneino dei bassifondi, che fanno incetta di informazioni sullo stato di salute dei giocatori. Sono un male incurabile e quindi tollerato nel silenzio generale, come testimonia il non lavoro delle Tennis Integrity Unit, che in questi giorni di rivelazioni si straccia le vesti, ma finora non si era mai lamentata dei poteri meramente simbolici che le sono stati assegnati. Chi invoca come unica panacea possibile l’intervento della magistratura ordinaria fa bene. Con una sola avvertenza: il tennis è il più internazionale degli sport. Mettersi sulle tracce di un illecito per cinque diversi continenti è faccenda complicata. Ci sono problemi di competenza, di tempi soprattutto. Decidere di perdere un game, o un set, o un match, è molto più semplice. Basta far scommettere l’amico o il semplice conoscente, o il vicino di casa. E poi prendimi, o dimostra la frode, se puoi.
Chi dirigeva l’atletica è sotto inchiesta in Francia, Platini e Blatter sono squalificati, la Russia dell’atletica è sospesa e non si sa se andrà ai Giochi di Rio, su calcio e tennis c’è l’ombra delle scommesse. Si sono ammalate le discipline più polari e quelle più redditizie. Va bene, il paradiso non esiste. Ma questo è ancora sport?..., scrive Emanuela Audisio per “la Repubblica” del 19 gennaio 2016. Ma che razza di roba è diventata lo sport? Un giallo, un romanzo criminale, horror, un road-movie poliziesco mondiale. Con Fbi, Dea, Interpol in azione. Da calciopoli a racchettopoli, per dirla alla banda Bassotti. Era il caro vecchio romantico sport, magliette sudate e fango vero, ora è un susseguirsi di irruzioni, di intercettazioni, di agenti, di polizie che indagano su illeciti e riciclaggio. Era malato lo sport, si sapeva. Ma questa non è malattia, è un’infezione all’osso. Si può ancora voler bene a un quasi cadavere portatore insano di malavita, malaffare, scommesse? Cosa devi pensare quando un tennista russo perde un torneo in Polonia (Sopot) con un giocatore che in classifica è 82 posizioni sotto, in una finale con 7 milioni di dollari di scommesse? Cosa devi intuire quando alla maratoneta russa Lylia Choboukhova, vincitrice di Londra 2012, viene estorta una mazzetta di 450 mila euro per tacere sulla sua positività, e dopo le vengono rimborsati 300 mila da una società fantasma con sede a Singapore? Ciclismo, calcio, atletica, tennis. Si sono ammalati tutti. I giochi più romantici, quelli più popolari, quelli più universali, quelli più elitari. Ma anche quelli più redditizi. E soprattutto sono mancati i dottori, quelli che intervengono subito e non dicono: aspettiamo. Quando la velocista tedesca Katrin Krabbe, oggi commessa, nel ’92 risultò dopata, le circostanze erano già da giallo: si era fatta prestare l’urina dalla moglie (incinta a sua insaputa) del suo allenatore, l’aveva messa in un profilattico, che si era introdotta in vagina prima del controllo. Però che stratagemma, pensarono tutti. Il ciclismo spostò quei confini e si arrivò alle sacche di sangue congelato, all’operacion Puerto, ai sequestri, alle irruzioni all’alba. E si disse: ma c’è proprio bisogno di questi golpe? Poi arrivarono i 7 Tour dell’amerikano Lance. Prima magici, poi misteriosi. Non a caso nello sport il titolo «L.A. Confidential» non si riferisce al libro di James Ellroy ma a quello sul ciclista Lance Armstrong. Grande bandito su due ruote. I malviventi erano gli sportivi. Loro prestavano le vene alla grande truffa. Quando l’americano Jeff Novitzky, agente speciale delle tasse (Irs) che lavora in collaborazione con Fbi e Dea su riciclaggio e narcotraffico, indaga su un’azienda appena fuori San Francisco che si chiama Balco, scopre che tanti campioni la frequentano (in segreto), comprando i prodotti (steroidi e altro) sempre in contanti, anche diecimila dollari a volta. Decide per il blitz e piomba sulla sede con gli elicotteri in una riedizione di Apocalypse Now. C’è la fuga, l’inseguimento, ma le poste elettroniche, le siringhe, conti e fatturati ci sono. Stavolta il bandito è uno che non è nemmeno dottore, si chiama Victor Conte, è lui che rifornisce i grandi campioni dello sport a stelle e strisce. Marion Jones compresa, che finisce in galera. Non paga le tasse per dieci anni nemmeno Chuck Blazer, membro dell’esecutivo Fifa dal ’96 al 2013 e vicepresidente della federazione americana di calcio. Così l’agente Berryman a Los Angeles inizia a indagare e incrocia i report di altri due signori che lavorano all’Fbi e che dal 2010 si stanno occupando di mafia russa. E guarda caso c’entra anche l’assegnazione dei mondiali di calcio a quel paese. L’inchiesta diventa una, con diramazioni in 33 paesi. E porta allo scandalo Fifa. Stavolta i cattivi sono in alto. Quelli in doppiopetto, non in tuta. Si scopre che Blazer ha in affitto due appartamenti al 49esimo piano della Trump Tower per 18 mila dollari al mese. E uno più piccolo solo per i suoi gatti. Chi paga? Lui no, ma il calcio sì. Nel 2005 Blazer si compra anche per 49 mila dollari il carrarmato da strada Hummer (utilissimo a New York) e ne spende 21.600 per il garage. Lo incastrano, lui decide di collaborare, e a Londra 2012 va con il registratore appiccicato sotto la camicia, come nei film, per raccogliere prove sui colleghi. Un altro dirigente Fifa, Jeffrey Webb, nel suo paese, Isole Cayman, ha fatto costruire un nuovo quartier generale per la sua federazione calcio da oltre 2 milioni di dollari. Peccato che le Cayman, una popolazione di appena 58 mila persone, nel football siano al 191esimo posto e non abbiano mai partecipato ad un mondiale. Chi dirigeva l’atletica è sotto inchiesta in Francia, il figlio di Diack, ex presidente Iaaf, è ricercato dall’Interpol, Platini e Blatter sono squalificati, la Russia dell’atletica è sospesa e non si sa se andrà ai Giochi di Rio, su calcio e tennis c’è l’ombra delle scommesse. Giustificazione: sui court ai bravi non conviene vendersi. Ma che bella notizia: e a tutti gli altri invece sì? Va bene, il paradiso non esiste. Ma questo è ancora sport?
TENNISGATE: GLI ALTRI SETTE SPORT CHE HANNO FATTO SCANDALO NEGLI ULTIMI TEMPI, scrive Rai News il 18 gennaio 2016. Tennisgate, i numeri dello scandalo Scandalo Fifa, Blatter: "Ho chiuso con il calcio, la mia è una squalifica senza senso". Fifa: Platini si ritira dalla corsa alla presidenza Lo scandalo che scuote il tennis mondiale. Bbc e Buzzfeed: "Match di alto livello truccati da anni". Calcioscommesse, Montezemolo: "Molta gente deve andare a casa". Calcioscommesse. Mattarella: "Fa indignare, ora severità". Calcioscommesse, 50 arresti: "Truccate partite in Lega Pro e Serie D". Calcioscommesse, Tavecchio: "La delinquenza è un fatto aritmetico". Sfiduciato Belloli. Calcioscommesse, 17 arresti in Calabria Calcioscommesse: 5 indagati per la gara Savona-Teramo di Lega Pro che è valsa la promozione in B 18 gennaio 2016. Il tennis è l'ultimo sport a essere coinvolto in pesanti polemiche in seguito a un'inchiesta della BBC e di Buzzfeed che sostengono di avere le prove del fatto che in occasione di eventi di alto livello alcune partite siano state truccate. Vediamo quali sono gli altri ambiti sportivi che nei tempi recenti hanno dato scandalo. Calcio La crisi del mondo del calcio, con lo scandalo Fifa, ha raggiunto il suo apice lo scorso anno. A maggio 2015, funzionari della federazione internazionale sono stati arrestati dalle autorità americane con l'accusa di racket, frode telematica e riciclaggio di denaro. Le autorità svizzere hanno fatto irruzione nella sede Fifa per una indagine indipendente riguardanti accuse di gestione criminale e riciclaggio di denaro in relazione all'assegnazione dei Mondiali del 2018 e del 2022. Sepp Blatter ha quindi annunciato le sue dimissioni da presidente Fifa e a settembre i procuratori svizzeri hanno aperto un procedimento penale contro di lui su un accordo sui diritti televisivi firmato con l'ex presidente della federazione calcio dei Caraibi, Jack Warner, e per un pagamento fatto al presidente Uefa, Michel Platini. Nel mese di dicembre, Blatter e Platini sono stati sospesi per otto anni da tutte le attività legate al calcio. Il segretario generale della Fifa, Jérôme Valcke, è stato licenziato pochi giorni fa. Il francese era comunque già stato sollevato dal proprio incarico il 17 settembre scorso a seguito dello scandalo relativo alla vendita in nero di biglietti. Inoltre, la Commissione etica aveva aperto formalmente un procedimento in cui raccomandava una sospensione di nove anni da ogni attività legata al mondo del calcio. Il 55enne era in carica dal 2007. Atletica L'atletica leggera è stata travolta dallo scandalo dopo un rapporto della commissione indipendente della Anti-Doping Agency pubblicato all'inizio di gennaio 2016, che ha rivelato il doping sistematico tra gli atleti russi. Uno scandalo considerato soltanto la punta di un iceberg di un movimento molto più grande, scoperto dalla stessa IAAF, con la compiacenza delle cariche più elevate, accusate di corruzione. Il britannico Sebastian Coe è diventato presidente della IAAF lo scorso agosto dopo 8 anni in cui ha ricoperto la carica di vice-presidente, sostituendo il senegalese Lamine Diack, sospeso proprio in seguito a un’inchiesta che lo vede accusato di corruzione per aver coperto i problemi di doping di diversi atleti russi. Da quel momento sono emersi risvolti sempre più inquietanti sul modus operandi tenuto dalla IAAF negli ultimi anni. Ciclismo Marzo ha visto la pubblicazione di una relazione della Circ, la commissione indipendente istituita dall' attuale presidente dell'UCI, Brian Cookson, che ha accusato gli ex leader del mondo dello sport di minare gli sforzi contro il doping e denuncia un trattamento preferenziale all' ex vincitore del Tour de France Lance Armstrong, caduto in disgrazia.. Cookson ha invitato il suo predecessore Hein Verbruggen a dimettersi dal suo incarico di presidente onorario dell'organizzazione. Cricket Lo scandalo ha riguardato la partita del Pakistan contro l'Inghilterra a Lord nell'agosto del 2010. Un anno dopo, tre giocatori della nazionale pakistana sono stati condannati a pene detentive. L'ex capitano Salman Butt è stato in carcere per due anni e mezzo anni per il suo ruolo di "orchestratore" dei "no-balls", l'ex numero due del mondo Mohammad Asif ha ricevuto una pena detentiva di 12 mesi per la consegna delle no-balls fraudolente, e il 19enne Mohammad Amir, considerato il bowler potenzialmente più veloce di tutti i tempi, ha invece passato in un carcere giovanile sei mesi dopo aver ammesso due no-balls intenzionali. Nel settembre 2013, l'ex numero cinque del mondo Stephen Lee è stato squalificato per 12 anni dopo essere stato riconosciuto colpevole di avere truccato sette partite. La pena è stata inflitta con effetto retroattivo, a partire da ottobre 2012. Significa che Lee - ora 41 anni - non potrà giocare fino al 2024. Nel 2014, dopo aver perso in appello, è stato condannato a pagare 125.000 sterline di spese processuali. Rugby Nell'agosto 2009, l'ex direttore della federazione rugby Dean Richards è stato condannato a tre anni di esonero da allenatore per aver architettato lo scandalo Bloodgate, che vide l'ala Tom Williams incorrere in un finto grave infortunio durante un incontro della Heineken Cup a Leinster nell'aprile di quell'anno . Williams aveva in bocca una sacchetta contenente sangue finto, uguale a quelle usate nai film. Inscenò l'infortunio per consentire allo specialista in drop-goal Nick Evans di rientrare in campo con i Quins e portare il risultato finale a 6-5. Si è poi scoperto che Richards ha orchestrato tutto. Ha anche pensato di procurare un vero taglio in bocca a Williams per coprire l'inganno della sacchetta. E che lo stesso allenatore, in combutta con il fisioterapista dei Quins, Steph Brennan con la stessa tecnica aveva messo in scena finte lesioni in altre quattro occasioni. Williams è stato condannato a 12 mesi di sospensione, pena ridotta a quattro mesi dopo che ha rivelato che agiva agli ordini di Richards e Brennan. Corse di cavalli Nell'aprile 2013, Mahmood Al Zarooni, allenatore del purosangue Godolphin, è stato squalificato per otto anni dopo aver ammesso di aver utilizzato steroidi anabolizzanti per cavalli a lui affidati. La British Horseracing ha vietato anche escluso dalle competizioni per sei mesi 15 cavalli addestrati da Al Zarooni.
Meglio il tennis truccato della serie A di Holly e Benji. Cartoni poco animati. Per sconfiggere la noia di un campionato in cui le squadre si scansano e i giocatori non esultano, la si butta su “Holly e Benji”, scrive Jack O'Malley il 18 Gennaio 2016 su "Il Foglio". Liverpool. Avendo probabilmente finito le minorenni da importunare, alla Bbc hanno messo a segno uno scoop che ieri apriva gran parte dei siti di notizie, e che mi ha fatto andare di traverso il rum di metà mattinata. Non si tratta di calcio, ma di un altro degli sport che noi abbiamo inventato e fatto diventare grandi senza trasformarlo in pagliacciata come avrebbero fatto gli americani: il tennis. Secondo le carte lette dai giornalisti della Bbc 28 giocatori di alto livello avrebbero truccato alcune partite, anche di tornei importanti (“Wimbledon!”, shame) per favorire alcuni scommettitori russi, siciliani e del nord Italia. A quel punto sono passato alla vodka. Naturalmente non c’è nulla di certo, a parte un paio di nomi di ex tennisti. C’è molta indignazione, molto scetticismo e molto menefreghismo. Anche se non è sport di contatto, il tennis non è gioco per verginelle: tra l’altro è molto più semplice da truccare di una partita di calcio, per cui è assolutamente normale che succeda. Certo, il fatto che a guadagnarci siano dei russi e degli italiani mi scoccia un po’. Il Blue Monday sarà una bufala, ma noi interisti per non sbagliare l'abbiamo iniziato sabato Male la prima Perché Spalletti, Boateng e Immobile devono stare attenti alla "depressione da ritorno" Quella "bestia" di Ranocchia. Per fortuna c’è la Premier League, che magari è pure truccata, ma in modo ottimo. Domenica pomeriggio mi sono goduto l’ennesima caduta del Liverpool di Klopp (la cui parabola insegna due cose almeno: 1) non basta avere azzeccato un paio di stagioni in Bundesliga per essere un grande allenatore; 2) non basta cambiare allenatore se la squadra fa cagare) per mano del bolso Manchester United di Van Gaal, che ormai sta seduto in panchina come una vecchia zia intirizzita dal freddo che lavora a maglia. Il gol di Rooney è stato un gran bel gol, e confesso che è stato bello vedere esplodere di gioia quel ragazzo di Liverpool tifoso dell’Everton che non segnava ad Anfield da dieci anni. Poche ore prima in Italia mi dicono che Quagliarella è andato a chiedere scusa ai tifosi del Torino per avere chiesto scusa ai tifosi del Napoli. Assurdo, ma forse in questo modo si chiude un cerchio: alla prossima partita forse avrebbe esultato per i gol subiti dalla sua squadra. Chloe Goodman, fidanzata di Jordan Clarke dello Scunthorpe, è una bambinona. Qui la vediamo mentre gioca spensierata a “1,2,3, stella!” Non serviva l’ultima farsa politicamente corretta per dimostrare che la Fifa è lo sgabuzzino della modernità occidentale. Alla cerimonia del Pallone d’oro hanno malamente cancellato dalla fronte di Neymar la scritta 100% Jesus che aveva esibito dopo la vittoria della Champions, ennesima censura dell’elemento religioso che dev’essere espunto dalla laicité calcistica. Già ai brasiliani in passato era stato intimato di non riunirsi al centro del campo per pregare, usanza che disturbava la burocratica divinità della Fifa e il suo poco ieratico profeta, Sepp Blatter, e alla premiazione i conduttori erano visibilmente in imbarazzo quando un atleta di Dio ringraziava il cielo: “Ma parliamo di calcio adesso…”, sembravano dire. La miopia della Fifa in questo caso è duplice. Non solo con fare nordcoreano lavora di Photoshop, ma non si accorge che l’esibizione del religioso al modo degli atleti di Dio è fondamentalmente un pezzo di folclore, una manifestazione culturale, è il segno della croce all’ingresso del campo, gesto che di rado segnala la presenza di un “culture warrior” o di un pericoloso portatore di una visione del mondo effettivamente cristiana. La censura è un eccesso di zelo. A proposito di eccessi. Quando un telecronista paragona un atleta a un cartone animato significa che la fine è vicina: se poi accenna in diretta anche la sigla del suddetto cartone per chiarire il concetto allora vuol dire che qualcuno ha fatto qualcosa per meritarsi tutto questo. E così la fantastica parata di Handanovic su Cigarini è diventata una cosa da Holly & Benji, che è un po’ come quando una volta, in era pre-digitale, di fronte a un bel panorama si pronunciava la scemenza suprema: “Sembra una cartolina”. Handanovic, piuttosto, sembra un portiere estremamente dotato, di quelli da cui traggono spunto i creatori di cartoni animati per fare i loro personaggi. La sua squadra, invece, sembra anche meno in forma dei telecronisti che la raccontano. Per fortuna Giancarlo Marocchi ci ricorda che anche in televisione è possibile scansare le banalità rituali e dire qualcosa. Lui ha detto che quando giocava alla Juve le altre squadre avevano il coltello fra i denti, ora sembra quasi che si scansino. Non come nei cartoni animati.
Scandalo doping, Adidas abbandona l’atletica. Per la Iaaf colpo da 32 milioni di dollari. La rottura era attesa e potrebbe aprire un baratro economico per la Federazione, spingendo al fuggi-fuggi gli altri grandi nomi che sostengono lo sport mondiale proprio nell'anno delle Olimpiadi di Rio, scrive Andrea Tundo, il 25 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Si chiuderà a breve il rapporto tra la Federazione internazionale dell’Atletica e l’Adidas. La rottura è una diretta conseguenza dello scandalo doping che ha travolto la Federazione, i cui vertici erano a conoscenza di diversi casi e hanno insabbiato tutto, anche in cambio di soldi. Il divorzio dal colosso tedesco dell’abbigliamento sportivo, uno dei più importanti sponsor della Iaaf, peserà sulle casse federali per poco più di 32 milioni di dollari, tra soldi e forniture. Una mazzata. Che rischia di innescare un effetto a catena e avrà con ogni probabilità strascichi legali. La notizia diffusa nella notte tra domenica e lunedì dalla BBC è la prima grande conseguenza a livello commerciale per la Iaaf, che finora era riuscita a parare il colpo con gli sponsor. L’addio dell’Adidas potrebbe ora spingere anche altri marchi – Canon, Toyota, TDK, Mondo e Seiko – alla fuga dando il la a un fuggi-fuggi generale, oltre a rappresentare un altro duro colpo alla credibilità della governance di Sebastian Coe, minata da più fronti negli ultimi mesi. L’azione era pianificata da tempo, ma è stata ufficializzata da poco. Già a fine novembre infatti l’Adidas aveva comunicato alla Iaaf di essere molto perplessa sull’opportunità di continuare la sponsorizzazione, firmata otto anni fa e in scadenza nel 2019. La lettera ufficiale, secondo quanto ricostruito dalla tv inglese, sarebbe poi arrivata alla Iaaf due settimane fa. Si spiegherebbe così la breve nota stampa rilasciata dalla federazione lo scorso lunedì. Poche righe per ribadire d’essere “in stretto contatto con tutti gli sponsor e i partner dal momento in cui ci siamo imbarcati nel nostro processo di riforma”. A sei mesi dalle Olimpiadi di Rio, dov’è la regina delle discipline, si concretizza per l’atletica mondiale lo spettro di ingenti danni economici provocati dallo scandalo doping. La situazione della Iaaf è precipitata lo scorso 14 gennaio, quando la Wada ha presentato il secondo capitolo dell’indagine condotta dalla Commissione indipendente presieduta da Dick Pound. Secondo i risultati dell’investigazione c’era una “cultura della corruzione radicata ai vertici della Iaaf”, la cui responsabilità “non può ricadere su un numero limitato di persone”. Inoltre la commissione non ritiene plausibile che “il Consiglio (di cui Coe, poi eletto presidente, faceva parte) potesse non essere a conoscenza del sistema e dell’esteso programma di doping della Russia”. E proprio la prima parte del dossier, quella riguardante Mosca, aveva già messo in guardia l’Adidas: il ruolo dei servizi segreti, l’uso sistematico di sostanze dopanti da parte dei marciatori, i laboratori antidoping paralleli e le richieste di denaro per coprire le positività rappresentavano già una base sufficiente per meditare l’addio, assieme alla richiesta di un segnale forte degli sponsor giunta anche da alcuni atleti. Le conferme fornite dalla seconda puntata dell’inchiesta della Wada riguardo una cultura radicata del doping e della corruzione per coprirlo hanno spinto il gigante tedesco a formalizzare il suo addio all’atletica. Un passo avanti rispetto alle semplici parole di dispiacere espresse di fronte allo scandalo Fifa. Nonostante anche lì tangenti e corruzione siano arrivate a toccare i vertici, Adidas resta il più solido partner commerciale del calcio mondiale.
Blatter, Platini e l’ombra del doping: l’anno di scandali nello sport, scrive Sport Sky il 31 dicembre 2015. Il 2015 che si è appena chiuso, può essere ricordato tra i peggiori per la politica sportiva, a causa del terremoto che ha sconvolto la Fifa, detronizzando i vertici e affossando anche le Roi Michel. Ma anche l’atletica ha avuto i suoi guai, tra corruzione e l'insabbiamento del caso Russia. Il 2015 che si è appena concluso, è stato senza dubbio l’annus horribilis della politica sportiva, soprattutto calcistica e dell’atletica leggera. Vi riproponiamo tutti gli scandali, con la speranza che il 2016 possa essere un anno decisamente più tranquillo da questo punto di vista.
Il calcio italiano vive in primavera l’onta del fallimento del Parma. Il club, sommerso dai debiti, non trova un acquirente e, dopo diversi cambi di proprietà e punti di penalizzazione per il mancato pagamento degli stipendi, è costretto a ripartire dalla Serie D. La squadra, guidata da Roberto Donadoni, retrocede con grande dignità e viene smantellata a fine stagione.
Il 27 maggio, alla vigilia delle elezioni per la presidenza della Fifa, un’operazione della polizia svizzera appoggiata dall’Fbi, smaschera un sistema fatto di corruzione, riciclaggio di denaro e tangenti che porta all’arresto di sette membri della Federazione mondiale. Tra loro non risulta il numero 1, Sepp Blatter. La talpa che ha permesso di scoperchiare il vaso si chiama Chuck Blazer, per anni presidente della Federcalcio nordamericana. Si ravvisa un sistema corrotto di compravendita di diritti tv e marketing per centinaia di milioni di euro, in vigore da quasi un quarto di secolo.
l 29 maggio, si tengono in un clima tesissimo le elezioni per la Fifa. Nonostante tutto, Sepp Blatter viene rieletto presidente. Ma lo svizzero, al quinto mandato, darà le proprie dimissioni appena quattro giorni dopo, annunciando nuove elezioni nel 2016. Subito emerge la candidatura di Michel Platini, attuale numero 1 della Uefa.
In Italia non ce la passiamo certo bene. A giugno, esplode l’ennesimo scandalo. A seguito delle inchieste Dirty Soccer e Treni del gol, vengono arrestate importanti personalità del calcio professionistico e dilettantistico, colpevoli di aver truccato diversi match di Serie B, Lega Pro e Serie D. Coinvolte società come Savona, Teramo, Barletta, Brindisi e soprattutto il Catania del presidente Pulvirenti, che viene immediatamente retrocesso in Lega Pro.
L’8 ottobre, il Comitato etico della Fifa sospende per 90 giorni i tre uomini più potenti del calcio mondiale: Sepp Blatter, Michel Platini e il segretario generale, Jerome Valcke. Le Roi è invischiato in un pagamento di due milioni di franchi svizzeri ricevuti dalla Fifa nel 2011, per una consulenza svolta tra il 1999 e il 2002.
Il primo novembre, l’ennesima bufera mediatica si scaglia contro Carlo Tavecchio. In una registrazione privata, il presidente della Figc, parla in maniera offensiva di ebrei e omosessuali, cadendo ancora una volta in fallo dopo le frasi razziste e sessiste pronunciate nei mesi precedenti.
A novembre, esplode lo scandalo doping nell’atletica leggera. Le autorità francesi mettono sotto accusa l’ex presidente della Iaaf, Lamine Diack, sospettato di riciclaggio di denaro e corruzione: avrebbe incassato somme di denaro dalla federazione russa di atletica leggera in cambio del silenzio su più casi di positività al doping.
Il 13 novembre, la Iaaf prende una clamorosa decisione, sospendendo la tempo indeterminato la Russia da tutte le competizioni internazionali. Si parla di decine di casi di doping nascosti alle autorità e di un sistema dopante “di stato” che ha drogato i risultati degli ultimi anni, specialmente dei Mondiali di Mosca 2013.
Sempre nel mese di novembre, cade anche il gigante Germania. La Federcalcio tedesca viene accusata di aver comprato voti nell’assegnazione del Mondiale 2006. Per “responsabilità politica”, si dimette il presidente federale Wolfgang Niersbach.
Il 2 dicembre il terremoto colpisce anche l’atletica italiana. La Procura antidoping del Coni, infatti, chiede la squalifica di 26 azzurri per “elusione del controllo” e “mancata reperibilità”. Tra gli atleti, anche nomi eccellenti come Andrew Howe e Giuseppe Gibilisco.
Il 10 dicembre, anche il neo presidente della Iaaf, Sebastien Coe, finisce nel mirino della magistratura francese: è infatti accusato di aver deliberatamente favorito la città di Eugene nella corsa ai Mondiali di atletica leggera del 2021.
L’11 dicembre, il Tas di Losanna rigetta il ricorso contro la sospensione da parte del Comitato etico della Fifa da parte di Michel Platini, accusato di corruzione. La sua corsa alla presidenza della Fifa si fa sempre più complicata.
Il 18 dicembre, la Commissione etica squalifica per 8 anni il Presidente della Fifa, Sepp Blatter e quello della Uefa, Michel Platini. L’accusa, decisamente grave, è quella di corruzione. Per Blatter, carriera finita. Per “Le Roi”, un duro colpo che ne mina la credibilità conquistata in 40 anni di calcio.
Inchiesta sul calcio italiano: 64 dirigenti, giocatori e procuratori indagati per fatture false ed evasione fiscale. Indagine della procura di Napoli: persone, tra le quali l'ex presidente della Juventus Jean Claude Blanc, il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, Adriano Galliani, Claudio Lotito, Alessandro Moggi e alcuni calciatori tra cui Ezequiel Lavezzi, scrive Dario Del Porto il 26 gennaio 2016 su "La Repubblica". Terremoto giudiziario nel mondo del calcio. Perquisizioni e sequestri per i reati di evasione fiscale e false fatturazioni, per ordine della Procura di Napoli. Gli indagati sono 64 tra cui l'ex presidente della Juventus Jean Claude Blanc, il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, il dirigente del Milan Adriano Galliani, il presidente della Lazio Claudio Lotito l'agente di calciatori Alessandro Moggi e alcuni calciatori, tra cui Ezequeil Lavezzi. Le indagini della Finanza sono condotte dal procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e dai pm Stefano Capuano, Vincenzo Ranieri e Danilo De Simone. La Procura napoletana ipotizza un "meccanismo fraudolento architettato per sottrarre materiale imponibile alle casse dello Stato" nella compravendita dei calciatori. I fatti si riferiscono al periodo compreso tra il 2009 e il 2013. I procuratori degli atleti, sostengono gli inquirenti, "provvedevano a fatturare in maniera fittizia alle sole società calcistiche le proprie prestazioni, simulando che l'opera intermediazione fosse resa nell'interesse esclusivo dei club, mentre di fatto venivano tutelati gli interessi degli atleti assistiti dagli agenti medesimi". L'inchiesta della Procura era partita a seguito delle indagini sulle rapine commesse ai danni di alcuni calciatori del Napoli e dall'intercettazione di una telefonata in cui Lavezzi, parlando con il suo procuratore, Alejandro Mazzoni, sembrava fare riferimento all'apertura di un conto corrente bancario in Svizzera a favore di Chavez, altro atleta argentino, Chavez. Mazzoni replicava affermando che il conto, già aperto con la Hsbc, era stato chiuso e che si stava muovendo per aprirne un altro. Da qui, la finanza aveva avviato una serie di accertamenti sugli aspetti economico finanziari dei contratti dei calciatori della scuderia Mazzoni. Il sequestro è stato disposto, per importi di alcune migliaia di euro ciascuno, nei confronti di otto procuratori sportivi: Alessandro Moggi, Marco Sommella, Vincenzo Leonardi, Riccardo Calleri, Umberto Calaiò, Adrian Leonardo Rodriguez, Fernand Osvaldo Hidalgo, Inev Alejandro Mazzoni, Edoardo Luis Rossetto. Trentasette dirigenti societari: Antonio e Luca Percassi, Claudio Garzelli, Giorgio Perinetti, Luigi Corioni, Gianluca Nani, Sergio Gasparin, Pietro Lo Monaco, Igor Campedelli, Maurizio Zamparini, Rino Foschi, Daniele Sebastiani, Andrea Della Valle, Pantaleo Corvino, Alessandro Zarbano, Enrico Preziosi, Luciano Cafaro, Jean Claude Blanc, Alessio Secco, Claudio Lotito, Marco Moschini, Renato Cipollini, Aldo Spinelli, Adriano Galliani, Aurelio De Laurentiis, Tommaso Ghirardi, Pietro Leonardi (a suo tempo indagato per concorso in bancarotta fraudolenta nell'inchiesta sul fallimento del Parma Fc) Pasquale Foti, Edoardo Garrone, Umberto Marino, Massimo Mezzaroma, Roberto Zanzi, Giovanni Lombardi Stronati, Francesco Zanotti, Sergio Cassingena, Dario Cassingena, Massimo Masolo. E diciassette calciatori: Gustavo Gerrman Denis, Juan Ferbando Quintero Paniaugua, Adrian Mutu, Ciro Immobile, Matteo Paro, Hernan Crespo, Pasquale Foggia, Antonio Nocerino, Marek Jankoulovsky, Cristian Gabriel Chavez, Ignacio Fideleff, Ivan Ezequiel Lavezzi, Gabriel Paletta, Emanuele Calaiò, Cristian Molinaro, Pabon Rios, Diego Miliyo. Contestualmente al decreto di sequestro, i pm hanno anche firmato l'avviso di chiusura delle indagini preliminari. Rispetto all'elenco dei destinatari del decreto di sequestro firmato dal giudice Luisa Toscano, l'avviso non coinvolge Andrea Della Valle e sei calciatori: si tratta di Emanuele Calaiò, Ciro Immobile, Marek Jankulovsky, Pasquale Foggia, Christian Molinaro, Matteo Paro. Nei loro confronti si profila l'archiviazione del fascicolo in quanto, successivamente al deposito del decreto di sequestro, ma prima della sua emissione, la legge ha modificato le soglie di punibilità di questo genere di reati. A questi indagati pertanto il decreto di sequestro non sarà notificato. Le società potevano dedurre le spese dal debito imponibile, ottenendo anche la detrazione dell'Iva. In parole povere, rileva la Procura, "l'importo pagato dal club costituiva un reddito da imputare effettivamente al calciatore e di conseguenza la società ometteva il pagamento delle ritenute fiscali e previdenziali". Le presunte violazioni riguardano 35 società di A e B. Il sequestro è scattato nei confronti di 12 indagati per un importo complessivo di 12 milioni di euro. Contestualmente, il pm ha chiuso le indagini per 64 persone. Tutti gli indagati potranno replicare alle accuse nei successivi passaggi del procedimento. Il decreto di sequestro potrà essere impugnato dalla difesa davanti al tribunale del Riesame. L'inchiesta che ha portato ai provvedimenti di oggi nasce con la Guardia di Finanza che nel 2012 nelle sedi del Napoli e della Figc acquisisce i contratti di Ezequiel Lavezzi, ceduto dal Napoli al Psg, e del quasi sconosciuto attaccante argentino Cristian Chavez. Partendo da quella attività, nove mesi dopo, i finanzieri si sono presentati nelle sedi di 41 società di serie A e B per acquisire ulteriore documentazione. Gli investigatori parlarono di un "fenomeno generalizzato" nel calcio italiano, vale a dire la "progressiva ed esasperata" lievitazione degli oneri relativi agli ingaggi dei calciatori. E questo, era l'ipotesi investigativa, avrebbe fatto sì che nel tempo si determinasse una situazione di squilibrio gestionale sul piano economico-finanziario che potrebbe aver spinto le società a compiere una serie di illeciti fiscali. L'attenzione della procura e della Gdf si è concentrata su diversi aspetti della gestione dei club: dalla ricostruzione dei rapporti tra società, procuratori e calciatori alle modalità di trasferimento di questi ultimi; dall'esame dei contratti alle modalità d'inserimento nei bilanci dei giocatori; dalle operazioni di compravendita e rinnovo alla gestione dei diritti d'immagine e dei diritti televisivi; dall'attività di scouting ai compensi per i calciatori qualificati come "fringe benefit". Nell'ambito dell'inchiesta sono state eseguite una serie di perquisizione presso le abitazioni e altri luoghi da loro frequentati da calciatori e i loro rispettivi procuratori coinvolti nell'indagine. Lo scopo del blitz delle fiamme gialle - si legge in una nota del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli - è rinvenire eventuale documentazione bancaria e contrattualistica inerente ai fatti illeciti contestati ossia condotte fraudolente finalizzate a evadere il fisco. Sequestri da parte del nucleo di polizia tributaria della Gdf sono in corso anche a Bologna. L'inchiesta coinvolge l'attuale ds del Bologna Calcio, Pantaleo Corvino, ma per vicende precedenti al suo arrivo in Emilia. La società rossoblu non è toccata dai provvedimenti in esecuzione. "No comment" è la posizione del Napoli in merito all'inchiesta "Fuorigioco" della procura di Napoli. Il capo della comunicazione del club di De Laurentiis ha spiegato che la società "non commenta le inchieste in corso". Anche il Milan ha commentato l'inchiesta: "La vicenda è assolutamente marginale e non fondata, troverà la sua risoluzione sia sotto il profilo tributario, sia sotto il profilo penale, in una doverosa archiviazione". "Ho parlato con Lotito, non ha ricevuto nessun atto dal quale risulta che è indagato. Nessun avviso di garanzia, niente. Ha saputo tutto dalle notizie di oggi". Così l'avvocato della Lazio, Gian Michele Gentile. "Se è indagato? La procura non se lo sarà inventato, ma ad oggi Lotito non ha avuto nessuna notifica di alcun atto. Non abbiamo nessun segnale di alcun tipo, se ci fosse stata una perquisizione Lotito me lo avrebbe detto". Secondo gli investigatori, ci sarebbe un tesoro milionario di alcuni calciatori occultato nelle banche in Svizzera. L'inchiesta "madre" era infatti sulle diverse rapine commesse ai danni di calciatori del Napoli; da una conversazione tra il calciatore Ezequiel Lavezzi e il suo procuratore Alejandro Mazzoni, il 20 gennaio 2012, si capì che c'era qualcosa da approfondire. Il suo procuratore riferiva a Lavezzi alcune informazioni che lo stesso aveva chiesto sull'apertura di un conto corrente bancario in Svizzera in favore di un altro calciatore argentino, Cristian Chavez. Mazzoni, anche lui indagato, dice al "Pocho" che il conto estero, già esistente con la Hsbc, era stato chiuso e che si stava adoperando per aprirne un altro con l'Istituto Farakin. L'ascolto di questa conversazione spinge gli investigatori a effettuare alcuni riscontri sugli aspetti economici dei contratti partendo proprio da quello di Lavezzi. In particolare sul trasferimento del "Pocho" a Paris Saint Germain, la polizia giudiziaria avrebbe accertato evasioni fiscali record; sarebbe stata emessa infatti una falsa fattura da Alessandro Moggi, la numero 18, per un valore di oltre due milioni e mezzo di euro in favore di Lavezzi, in cui attestava esecuzioni di prestazioni rese dal suo agente Mazzoni, pari a circa un milione e 600 mila euro. In tal mondo Lavezzi poteva evadere il Fisco italiano dichiarando il lavoro del suo agente in Francia dove avrebbe pagato di meno e favoriva Mazzoni che avrebbe guadagnato a nero il suo compenso. "Ho letto quello che avete letto voi e non posso fare commenti su cose che non conosco". Il presidente della Federcalcio, Carlo Tavecchio commenta così, da Potenza, dove sta partecipando all'inaugurazione della nuova sede del comitato regionale lucano, gli sviluppi dell'inchiesta "Fuorigioco" della Procura di Napoli.
Un altro teorema sul calcio: inchiesta su fatture inesistenti. Un altro assalto al calcio italiano. Nel mirino squadre di A e B. L'ipotesi di reato è evasione fiscale e falsa fatturazione. Il Milan: "Inchiesta infondata", scrive Sergio Rame, Martedì 26/01/2016, su "Il Giornale". Una nuova bufera si abbatte sul calcio italiano. Una inchiesta, condotta dai pm della procura di Napoli Danilo De Simone, Stefano Capuano e Vincenzo Ranieri coordinati dal procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, solleva nuove accuse contro massimi dirigenti, calciatori e procuratori di squadre di calcio di serie A e B. L'ipotesi di reato è evasione fiscale e false fatturazioni. Ma, come al solito, l'impianto accusatorio sembra un teorema che non regge e che mira soltanto a indebolire il nostro calcio. Oltre cento persone coinvolte. Almeno trentacinque società di serie A e B nel mirino. L'inchiesta "Fuorigioco" parte nel 2012 ipotizzando presunte violazioni fiscali commesse sia dalle società sia dai procuratori e dai calciatori nell'ambito di operazioni di acquisto e cessione dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori stessi. "Il meccanismo fraudolento - spiegano dalla procura - è stato architettato per sottrarre materia imponibile alle casse dello Stato italiano". I procuratori, dicono gli inquirenti, fatturavano in maniera fittizia la propria prestazione alla sola società calcistica, come se la loro intermediazione fosse nell'interesse esclusivo del club, mentre di fatto tutelavano gli interessi dei loro atleti assistiti. Le società potevano così dedurre dal reddito imponibile queste spese, beneficiando di detrazioni di imposta sul valore aggiunto relativa proprio a questa pseudo prestazione. E i calciatori non dichiaravano quello che era "sostanzialmente un fringe benefit" riconosciuto loro dalla società calcistica nel momento in cui si accollava il pagamento procuratore. Inoltre, dicono le indagini, agenti argentini riuscivano a farsi tassare in Italia i propri compensi ricorrendo a documentazione fiscale e commerciale fittizia e l'interposizione di società "schermo" con sedi in paradisi fiscali. L'inchiesta nasce nel 2012 quando la Guardia di Finanza, piombata nelle sedi del Napoli e della Figc, acquisisce i contratti di Ezequiel Lavezzi, ceduto dal Napoli al Paris Saint Germain, e del quasi sconosciuto attaccante argentino Cristian Chavez. Partendo da quella attività, nove mesi dopo, i finanzieri si presentano nelle sedi di 41 società di serie A e B per acquisire ulteriore documentazione. Gli investigatori parlarono di un "fenomeno generalizzato" nel calcio italiano, vale a dire la "progressiva e esasperata" lievitazione degli oneri relativi agli ingaggi dei calciatori. E questo, è l'ipotesi investigativa, avrebbe fatto sì che nel tempo si determinasse una situazione di squilibrio gestionale sul piano economico-finanziario che potrebbe aver spinto le società a compiere una serie di illeciti fiscali. Tra i sessantaquattro di indagati nell'indagine della procura di Napoli, che ha portato al sequestro di beni per circa 12 milioni, ci sono nomi eccellenti come l'ad del Milan Adriano Galliani, il numero uno della società partenopea Aurelio De Laurentis, il presidente della Lazio Claudio Lotito, l'ex presidente e ad della Juventus Jean Claude Blanc. "È una vicenda assolutamente marginale e non fondata - minimizzano i legali del Milan - troverà la sua risoluzione sia sotto il profilo tributario, sia sotto il profilo penale, in una doverosa archiviazione". Tra i calciatori, indagati anche "il pojo" Lavezzi e l'ex giocatore Hernán Crespo. Nella rete dei magistrati sono finiti anche diversi procuratori tra cui Alessandro Moggi. Per i pm partenopei sono responsabili "in maniera sistematica di reati tributari, mediante condotte fraudolente esclusivamente finalizzate a evadere il fisco".
Torna la vetrina dei pm: un'inchiesta ogni estate. Un mondo con pochi controlli che ora fa gola al fisco. E le Procure ne approfittano per cercare la ribalta, scrive Tony Damascelli, Mercoledì 26/06/2013, su "Il Giornale". Nove mesi. Tanto è durato il lavoro degli uomini della finanza. Nove mesi per mandare in frantumi le vetrine del football italiano. Da una parte le trattative e le chiacchiere del calcio mercato, dall'altra l'azione plateale dei piemme. Puntuale, quando arriva l'estate, il tempo per tenere alta l'attenzione e la tensione, secondo usi e costumi della nostra giustizia. Ho usato l'aggettivo «plateale» perché, in contemporanea con la vicenda della procura napoletana, in Inghilterra la Premier League ha reso pubblica, senza trombe e blitz mattutini, la tabella degli emolumenti che i club professionistici inglesi hanno garantito, si fa per dire, ad agenti e procuratori per l'acquisto o la cessione dei calciatori: novantuno milioni di euro, questa la cifra complessiva che vede in testa alla lista il Manchester City che, nel periodo 1 ottobre 2011-30 settembre 2012 ha versato 12 milioni e mezzo di euro come consulenza e indennità ai procuratori. L'elenco è chiuso dal Southampton con soli settecentosessantunomila euro. Da segnalare che il Queens Park Rangers, nonostante l'esborso di otto milioni di euro, è retrocesso al termine della stagione. É storia vecchia, la circolazione del denaro, nel calcio, non ha frontiere e i controlli non sono sempre assidui. Il caso di Lionel Messi che va a transazione con il fisco spagnolo pagando 10 milioni di euro o quello di Mourinho anch'egli alle prese con una vicenda fiscale, sono la conferma che il pallone è oppio per i popoli e banca per l'erario. Sempre che quest'ultimo operi nel rispetto del contribuente. Da ieri, comunque, la voce che circola fuori dall'Italia, è che la serie A, ma non soltanto, «non paga le tasse». I club hanno già rispedito la palla al mittente, loro non c'entrano, sono i procuratori ad avere, eventualmente, violato le leggi. Ma chi è che tratta con i procuratori? Chi affida loro le trattative di acquisizione e cessione? Di tutto questo dovrebbe occuparsi anche la Fifa, la federazione calcistica internazionale la quale dovrebbe esercitare un controllo delle operazioni e verificare la loro trasparenza. Ma è di questi giorni il caso di un calciatore brasiliano richiesto dalla Lazio che ha trovato l'accordo con il club relativo e lo stesso calciatore, il quale però risulta prigioniero di un fondo d'investimento inglese, Doyen Sport. Silenzio totale da parte degli organi di controllo, Blatter e la Fifa lasciano che il football venga violentato. Anderson, il calciatore in questione, verrà in Italia, troverà ad attenderlo la procura di Napoli e le Fiamme gialle? Qualsiasi riferimento al calcio come momento di evasione è puramente casuale.
Calcio, inchieste e scandali: una storia che si ripete. L’inchiesta della procura di Napoli ribattezzata «Fuorigioco» fa fare un salto di qualità agli scandali del calcio, dopo le partite anche la finanza truccata, scrive Giovanni Bianconi il 26 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. La nuova frontiera sono le frodi fiscali: fatturazioni fittizie alle società per mascherare all’erario i guadagni di giocatori e procuratori. L’ipotesi d’accusa della Procura di Napoli fa fare un salto di qualità agli scandali del calcio aprendo il filone, in parte già noto, della finanza truccata. Che segue quello più classico delle partite truccate: per favorire le scommesse clandestine oppure per permettere a qualche squadra di evitare figuracce o retrocessioni, com’è avvenuto lo scorso anno con il Catania del presidente reo confesso. Dai tempi del Totonero scoperto nel 1980 (quando le partite in tv si vedevano solo nelle sintesi differite di 90° minuto, ancora in bianco e nero), con i calciatori arrestati insieme a faccendieri di bassa lega, a quelli recentissimi delle scommesse intercontinentali e in diretta sulle partite di ogni campionato, atleti e dirigenti continuano a vendere i risultati. Per guadagnare soldi attraverso collegamenti con vere e proprie associazioni per delinquere. Così come dirigenti senza scrupoli continuano a contattare arbitri o colleghi di altri club (da Calciopoli in avanti: ma quanti sono i casi mai scoperti?) per indirizzare l’esito delle partite. E ancora il pasticcio dei passaporti falsi per far figurare italiani o “continentali” stranieri sconosciuti, da tesserare anche se non si potrebbe. Fino alle false fatturazioni di cui si riparla oggi. E’ come se il calcio –non solo in Italia, visto quello che accaduto alla Fifa – fosse condannato a convivere con la corruzione, in una deriva che non c’è modo di fermare. Il ricorso al malaffare sembra un vizio ineliminabile, forse nella convinzione che tanto la Grande Macchina dello spettacolo e del business non si potrà fermare: per i soldi che muove, ma anche per gli entusiasmi e le passioni che continua a suscitare nel pubblico (ignaro o rassegnato) degli stadi e delle pay-tv. Lo scandalo passa, il circo del calcio resta. In attesa del prossimo scandalo.
Calcio e scandali, binomio che ha più di 80 anni di vita, scrive “Televideo Rai”. La prima volta nel 1927, quando il derby Torino-Juve salì alla ribalta per un episodio di corruzione che costò la revoca dello scudetto ai granata. Calcio e scandali. Un binomio epico che ha più di 80 anni di vita, un filo rosso che ha tenuto unito il pallone, in Italia e non solo, tra squalifiche, retrocessioni, coinvolgimenti eccellenti, manette soprattutto quando la posta si faceva alta. Già, perché è con le scommesse che il pallone ha preso la sua peggior deriva, sconfinando dal campo al tribunale, officiando il tradimento dei tifosi; e ogni volta è stata bufera. La prima nel lontano 1927, quando il derby Torino-Juve salì alla ribalta per un episodio di corruzione che costò la revoca dello scudetto ai granata. Piccola cosa se messa a confronto con lo scandalo vero che squassò i vertici della serie A. La tempesta arriva infatti nel 1980, dopo l'esposto di due scommettitori: nella polvere e in carcere finirono nomi noti anche del massimo campionato, tra cui Manfredonia e Giordano della Lazio, Albertosi e Morini del Milan, compreso il presidente dei rossoneri, Felice Colombo. Giornate pesantissime, con i campioni del calcio made in Italy portati via in manette dai Carabinieri mentre sullo sfondo andavano in scena i 90 minuti più attesi della settimana. La giustizia ordinaria assolve allora i giocatori coinvolti, ma quella sportiva usa il pugno di ferro: Milan e Lazio retrocedono in B (per i rossoneri si tratta della prima discesa tra i cadetti): le squalifiche per i calciatori vanno da tre mesi a sei anni. Colpito anche Paolo Rossi, salvato solo dall'amnistia dell'82 grazie alla quale partecipa al fortunato Mondiale in Spagna che porta degli Azzurri di Bearzot il terzo titolo iridato. Si trattò del primo grande scandalo di illeciti sportivi e partite truccate nella storia del calcio italiano, che portò anche alle dimissioni del presidente federale Artemio Franchi. Ma anche in epoche più recenti il calcio scommesse è tornato padrone della scena: nel 2001 un'inchiesta su Atalanta-Pistoiese di Coppa Italia, per un presunto tentativo di combine per consentire scommesse pilotate. Nel 2004 un altro mezzo tsunami: sotto i riflettori dei giudici sportivi finiscono il Modena, la Sampdoria, il Siena e alcuni giocatori noti, tra cui Stefano Bettarini, allora marito della conduttrice tv Simona Ventura, che la disciplinare condanna a cinque mesi di stop. Il Modena evita la retrocessione, blucerchiati e toscani se la cavano con una multa, prosciolto il Chievo, pure finito nella bagarre. Un altro terremoto l'Italia del pallone lo ha vissuto nel 2006, con Calciopoli: ma qui lo scandalo non era per le scommesse, ma per la presunta corruzione di arbitri e di massimi dirigenti di club. Una bufera - che prosegue ancora nelle aule del tribunale di Napoli - che portò in ambito sportivo alla retrocessione in serie B addirittura della Juventus. E poi il colpo di spugna sui vertici di allora, presidente federale compreso. Ma gli scandali non hanno confini. In Germania nel 2009 quindici persone finirono in manette nell'ambito di un'inchiesta su un giro di scommesse illegali legato a una serie di partite di calcio truccate in una decina di Paesi europei. L'Uefa allora aveva avvertito: sta per scoppiare uno scandalo scommesse di dimensioni europee. Un fil rouge da cui il pallone non sembra proprio riuscire a districarsi.
Il giocattolo rotto: tutti gli scandali del calcio italiano. Il primo ai tempi del fascismo quanto il Torino fu accusato di corruzione. Nel 1980 è la volta del calcioscommesse che torna nel 2011, oggi il blitz della Gdf per i contratti - Moggi e Mazzoni tra gli indagati - I contratti ai raggi X, scrive Matteo Politanò il 25 giugno 2013 su "Panorama". Nuovo scandalo nel calcio italiano, nuovo imbarazzo per lo sport più seguito del paese. Il blitz della Guardia di Finanza nelle sedi di 41 squadre di Serie A, B e campionati minori riapre ferite mai rimarginate. Nel mirino la documentazione relativa ai contratti tra i club, i calciatori e i procuratori per un'indagine nata circa un anno fa. Le ipotesi avanzate dal nucleo di polizia tributaria di Napoli sono quelle di associazione a delinquere, reati fiscali internazionali, fatture false e riciclaggio. Nel mirino anche le big: perquisite le sedi di Milan, Juventus, Inter, Roma, Napoli, Lazio e Fiorentina. Una lunga scia di scandali che fanno disinnamorare e e strappano altri pezzi di un giocattolo che ciclicamente si mostra sempre più rotto. La prima inchiesta nella storia del calcio italiano risale alla stagione 1926/1927 quando fu revocato lo scudetto vinto sul campo dal Torino. La Figc aprì un'inchiesta dopo l'uscita di un articolo dal titolo "C'è del marcio in Danimarca" che portò ad indagare su un tentativo di corruzione ad un giocatore della Juventus, Luigi Allemandi, da parte di un dirigente del Torino. 50.000 lire di acconto per il terzino bianconero al fine di permettere una facile vittoria granata nel derby. La stracittadina si concluse poi per 2-1 ma Allemandi fu tra i migliori in campo e le reti nacquero dagli errori di altri giocatori come Rosetta e Pastore. Allemandi fu prima squalificato a vita e poi riabilitato dopo una stagione. Il vero tornado sul calcio italiano si abbatté però nel 1980 con il più grande scandalo che investì società di A, B, dirigenti e calciatori. A marzo un commerciante romano inviò alla Procura della Repubblica di Roma un esposto sostenendo di essere stato truffato da alcuni giocatori della Lazio tramite la mediazione di un ristoratore della zona. Avrebbe dovuto ricevere "soffiate" dai giocatori biancocelesti ma dopo aver perso grosse somme di denaro decise di denunciare il tutto. Dopo 3 settimane la magistratura fece arrestare diversi tesserati di serie A, tra questi anche Bruno Giordano e Lionello Manfredonia della Lazio ed Enrico Albertosi del Milan. Paolo Rossi, Oscar Damiani, Beppe Savoldi, Giuseppe Dossena e altri ricevettero degli avvisi a comparire come persone informate dei fatti. Fu il primo grave colpo inflitto all'immagine e alla credibilità del calcio italiano che culminò con la retrocessione di Milan e Lazio e con pesanti squalifiche per molti giocatori (tra i quali Paolo Rossi che però fu graziato due anni più tardi in tempo per vincere la coppa del Mondo). Nel 2001 finì sotto la lente d’ingrandimento la partita tra Atalanta e Pistoiese di Coppa Italia e tre anni dopo Sampdoria, Siena e Modena furono invischiate in un nuovo mini-scandalo che costò 5 mesi di squalifica a Stefano Bettarini e qualche multa pecuniaria alle società. Alla vigilia del mondiale 2006 ecco un nuovo scandalo per devastare immagine e credibilità del calcio italiano e del paese tutto: calciopoli. A metà aprile 2006 la Gazzetta dello Sport, Repubblica e Il Corriere della Sera iniziano a pubblicare intercettazioni ascoltate dai Carabinieri. Inizia un'indagine con il maresciallo Auricchio che consegna il fascicolo con le intercettazioni alla procura federale. Si scopre che alcuni dirigenti, tra cui Luciano Moggi della Juventus, avevano contatti con i designatori arbitrali. Inizia il processo a giugno, nel frattempo emerge anche che Moggi aveva consegnato delle sim svizzere agli arbitri e che Meani del Milan andava spesso a cena con i disegnatori e con gli arbitri, soprattutto con Collina. Il processo si svolge in tempi rapidissimi e si conclude con la condanna di primo grado alla Serie C1 per la Juventus, Serie B per Milan, Fiorentina, Lazio e Reggina. Alla fine la Juventus è retrocessa in Serie B con 30 punti di penalizzazione, le altre restano invece in Serie A con penalizzazione. A febbraio 2010 emergono almeno 700.000 intercettazioni ascoltate ma incomprensibilmente non consegnate dal maresciallo Auricchio alla procura federale. Nelle intercettazioni si scopre che altre squadre si comportavano come la Juventus e soprattutto emerge che Facchetti (ex presidente dell'Inter) visitava spesso gli arbitri prima delle partite a San Siro, a volte arrivando anche ad intimorirli per aiutare l'Inter. Si scoprono fitti legami tra l'Inter e i designatori e tra il Milan e i designatori ma i termini di prescrizione sono scaduti e l'Inter non può essere condannata. L'ultimo scandalo in ordine di tempo è quello legato al Calcioscommesse che dal 2011 ha visto coinvolti calciatori, dirigenti, società di serie A, B, Lega Pro e dilettanti con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva. Il processo parte dalle procure di Cremona e Bari basandosi sulle testimonianze di diversi collaboratori tra cui ex giocatori che ammettono di aver truccato partite per incassare soldi dalle puntate. Settimana dopo settimana l'inchiesta si allarga a macchia d'olio coinvolgendo volti noti della serie A, da Cristiano Doni a Giuseppe Signori si scopre un universo di atleti pronti a vendere lo sport e a comprare combine con l'aiuto di organizzazioni criminali. E' l'ennesimo terremoto per il campionato italiano, ultimo colpo inferto ad un circo che non può più arrogarsi il diritto di chiamarsi semplicemente "gioco".
Calcio sporco: gli scandali italiani in 10 tappe, scrive Nicola Bambini su Vanity faire del 30 giugno 2015. «Il treno delle 11 c’è? Certo, quello è il direttissimo». Risultati puntuali, da far invidia alle Ferrovie dello Stato. Nessuna stazione o locomotiva nelle intercettazioni che hanno svelato le partite comprate quest’anno dal Catania, bensì tante parole in codice ma facilmente smascherabili. I treni sono i giocatori e l'orario rappresenta il numero di maglia, così da poterli identificare. Che poi un treno che parte alle 11 è verosimile, ma quando esce fuori quello «delle 33» la conversazione assume contorni grotteschi. D'altronde camuffare le parole quando si compiono certi illeciti è necessario: i protagonisti nascondono il linguaggio ma forse vogliono nascondere anche un po' se stessi, mettere la testa sotto la sabbia e vergognarsi di fronte ad una simile vigliaccata. Il primo pensiero, e non potrebbe essere altrimenti, va agli appassionati, a chi segue l'evento dallo stadio e da casa, con sacrifici pure economici. Magari litigano per guardarsi la partita invece che andare al cinema, salvo poi assistere ad un match che è pura fiction. Autogol regalati, errori pilotati, risultati accomodati: sceneggiature già scritte con finali che qualcuno sa già. «Corruzione», «associazione a delinquere» e «frode sportiva» si ripetono come una cantilena nauseante e riempiono senza sosta le pagine dei giornali. Già dagli anni Venti, a dire il vero, quando una testata dell’epoca, il Tifone, smascherò il tentativo di corruzione che costò al Torino lo Scudetto del ’27: era il caso Allemandi, il primo grande scandalo del calcio italiano. Le macchine di Polizia sulla pista dell'Olimpico segnarono nel 1980 la fine dell'innocenza e l'inizio del declino. Sei anni dopo infatti ci fu la seconda parte dell’inchiesta, poi nel 2000 nuovi scandali, fino alla «rumorosa» squalifica di Conte e una lista infinita di nomi noti coinvolti. Passando tra passaporti falsi e arbitri chiusi negli spogliatoi. E la solita domanda: dello sport cosa resta?
1/10. CASO ALLEMANDI - 1927. Una lettera sbriciolata in mille pezzi ma che, dopo 18 ore di lavoro, riprende forma come un puzzle e svela il tentativo del Torino di corrompere un difensore della Juventus, tale Luigi Allemandi, per poter così vincere derby e campionato. E’ il primo vero scandalo del calcio italiano: Scudetto revocato ai granata, seppur alcuni retroscena non furono mai chiariti.
2/10. TOTONERO - 1980. Le immagini delle camionette di Polizia e Guardia di Finanza sulla pista dello Stadio Olimpico in attesa di portare in carcere alcuni giocatori è rimasta negli annali. La prima vera grande pugnalata alla credibilità del calcio italiano: partite truccate e scommesse clandestine, coinvolti club di A e B. A pagare più di tutti furono Milan e Lazio, retrocesse d’ufficio.
3/10. TOTONERO BIS - 1986. Come un fantasma che aleggia sopra gli stadi italiani, lo scandalo corruzione torna in picchiata e avvolge stavolta anche le serie minori. Confessioni e intercettazioni non lasciano spazio a dubbi: si scommette a tutti i livelli, la Procura di Torino smaschera partite truccate anche in terza e quarta serie. Spicca il nome di Renzo Ulivieri, squalificato tre anni.
4/10. ATALANTA-PISTOIESE - 2000. «Attenzione, c’è un flusso di scommesse anomalo sul match di Coppa Italia: il primo tempo la vittoria del club di casa, pareggio al triplice fischio». E’ la Snai a dare l’allarme, soprattutto quando la partita finisce proprio come prevedeva il flusso di denaro. Gli indagati tutti assolti in appello, ma uno di questi, Cristiano Doni, confermò: «Sì, era truccata».
5/10. PASSAPORTI FALSI - 2001. Altro triste primato per il pallone italiano: il primo caso di falsificazione documentaria nel calcio europeo si verifica nel Bel Paese. Quindici i calciatori extracomunitari naturalizzati illecitamente, su tutti spiccarono i nomi del laziale Veron, del milanista Dida e soprattutto dell’interista Recoba. Ammende per le società coinvolte, ma nessuna penalizzazione.
6/10. CALCIOPOLI - 2006. Rolex in regalo a Natale e tante sim telefoniche per non essere rintracciati. Sono queste le immagini che più di tutte colpiscono leggendo gli atti del clamoroso scandalo che, alla vigilia dell’indimenticabile Mondiale in Germania, sventra la credibilità del calcio italiano: Luciano Moggi diventa l’emblema, la Juventus finisce in B.
7/10. ARMA LETALE - 2009. Ancora una volta sono le serie minori a finire sotto la lente degli investigatori: tirando i fili di un’indagine antimafia, la Procura di Potenza scopre alcuni legami tra Giuseppe Postiglione, presidente della squadra locale, ed alcuni esponenti della malavita organizzata: l’accusa parla di associazione a delinquere volta ad alterare i risultati delle partite.
8/10. LAST BET - 2011. Da Cremona arriva l’ennesimo schiaffo al calcio italiano, questo particolarmente forte visto che il procuratore De Martino emette ben quattro tranche di custodia cautelare. Il giro di affari si allarga, spunta una cupola di scommettitori internazionali con base a Singapore. Tanti i nomi coinvolti, ma la condanna più rumorosa è quella per il ct Antonio Conte.
9/10. DIRTY SOCCER - 2015. Decine di partite truccate tra Lega Pro e Serie D, una sfilza interminabile di indagati tra tesserati e non: il mese scorso la direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ha scoperto «una stabile organizzazione criminale che ha messo in atto condotte finalizzate ad alterare i risultati di varie partite. Il problema è tutt’altro che risolto». C’è da credergli.
10/10. I TRENI DEL GOL - 2015. «Il treno delle 13 è sicuro? Certo, il direttissimo». No, non si tratta di uno scambio di informazioni su un binario di una stazione, bensì del linguaggio in codice usato da alcuni esponenti del Catania per comprare partite: i treni erano i giocatori e l’orario invece il numero di maglia. Il presidente Pulvirenti ha confessato di aver comprato cinque partite.
Caccia all'arbitro. Aggressioni, violenza, offese: un mestiere pericoloso. Arbitri presi d'assalto per avere semplicemente fatto il loro dovere. Le aggressioni agli arbitri nelle partite di calcio non fanno più tanto clamore perchè spesso si assiste a ingiurie verbali, a imprecazioni a atti volgari contro chi di una partita deve fare attenzione al rispetto delle regole da parte delle squadre. A volte le aggressioni diventano anche fisiche e si è in presenza di vere e proprie violenze che cancellano i momenti di sport e indignano chi vede lo sport come momento di aggregazione sociale.
Partita contro la violenza, arbitro picchiato. È accaduto nel Lecchese durante un campionato dilettantistico. L'arbitro ha concesso un rigore alla squadra locale e il capitano della squadra ospite lo ha colpito al volto, scrive il 18 aprile 2016 “La Gazzetta”. Un giovane arbitro è stato picchiato nel fine settimana "contro la violenza nei confronti degli arbitri". Un paradosso divenuto purtroppo triste realtà. Le partite del calcio dilettantistico lombardo sono iniziate con dieci minuti di ritardo per dare un segnale forte, ma a Cernusco Lombardone (Lecco), durante una partita del campionato provinciale della categoria Juniores, l'arbitro Marco Airoldi è stato vittima di un'aggressione. Airoldi, studente di 18 anni di Vercurago, da due anni arbitro dell'Aia di Lecco, dirigeva la partita del centro sportivo di Cernusco Lombardone, dove la Brianza Cernusco Merate ha ospitato e battuto per 3 a 0 il Costamasnaga. Il giovane arbitro ha concesso un rigore alla squadra locale e per tutta risposta il capitano della squadra ospite - una volta vista assegnata la terza rete - lo ha colpito al volto. Il giocatore in questione da diversi anni milita nel Costamasnaga, ed è coetaneo dell'arbitro. Il direttore di gara ha sospeso la partita e si è poi recato al pronto soccorso dell'ospedale di Lecco per farsi medicare le contusioni. Poco dopo sono giunte le scuse dello stesso capitano e dei suoi dirigenti. Faticano invece a capacitarsi i vertici degli arbitri lecchesi, visto che, per l'appunto, si trattava di un turno di campionato espressamente dedicato alla condanna di atti di violenza.
Intervenendo il 2 maggio 2016 nel corso di un incontro tra gli arbitri e la stampa presso il Centro congressi Frentani, a Roma, il capo dei fischietti italiani ha anche espresso la sua opinione: «Com'è possibile che oggi, sui campi di calcio italiani, si permetta che ogni anno vengano picchiati 650 arbitri? Tutti assieme dobbiamo dire a quei delinquenti che girano attorno ai campi, che il calcio non è roba per loro». E' l'amaro sfogo del presidente dell'Aia, Marcello Nicchi. Il direttore generale della Figc, Antonello Valentini ha dichiarato a Radio RAI il 19 settembre 2015: «In Italia si giocano 570 mila partite ufficiali in una stagione effettiva, 18-20 mila a settimana dalla Serie A ai campionati giovanili, con 570mila arbitri, quindi in campo ogni anno e nella passata stagione sono stati 600 gli arbitri aggrediti e malmenati.
Addirittura 600 (record in Sicilia, 128 casi) e oltre il 30 per cento degli arbitri hanno fatto ricorso alle cure mediche. Sessanta atti di violenza sono stati consumati ai danni di arbitri-ragazzini, di 16-17 anni. Una vergogna. La maggior parte delle aggressioni sono a causa dei tesserati: 69% calciatori, 24% dirigenti, i "terzi" (spettatori o padri dei calciatori) rappresentano il 13% sugli episodi violenti.
Caccia all'arbitro. Nella stagione 2014-2015 è raddoppiato il numero delle aggressioni, scrive Leo Gabbi il 27/10/2015. Una volta tanto parliamo di arbitri, ma non le famose giacchette nere della nostra Serie A, bensì di tutti quei giovani e anche solo ragazzini, che per passione, anziché giocare in una squadra, si mettono a dirigere le partite. Sarà forse anche un pizzico di protagonismo o di leadership a portarli a questa scelta per certi versi “estrema”, per altri incomprensibile ai più, ma spesso, come avviene fatalmente per i loro colleghi più grandi, questi mini-arbitri si trovano al centro di polemiche infinite che spesso sfociano addirittura in aggressioni verbali e in qualche caso persino fisiche non solo da parte dei dirigenti delle squadra, ma anche di genitori e amici dei giocatori. Situazioni vergognose e inaccettabili, in cui spesso il ragazzino in giacchetta nera si trova ad arbitrare giovani molto più grandi di lui, senza avere la minima protezione dentro e fuori dal campo. Questo avviene spesso nel nostro calcio minore, nelle ultime settimane con una concentrazione di episodi preoccupanti, ma a volte riguarda anche altre discipline. Qualche tempo fa ad esempio, nel Pisano, un gruppo di genitori, durante un torneo di minibasket ha cominciato a prendere a male parole un arbitro, appena 12enne, costretto poi ad abbandonare il parquet in lacrime. A Cremona invece, durante una partita di volley femminile under 13, i genitori delle ragazzine hanno dato vita ad una vera e propria rissa sugli spalti. L’80% degli episodi è però sempre riconducibile al nostro sport più popolare. E se ancora qualcuno pensa che il calcio violento nasce dagli scontri di Serie A e B, dovrebbe farsi un giro sui campetti di periferie, le domeniche mattina, per capire quanta rabbia viene a volte incanalata sui giovani fischietti. Quasi un anno fa a Lecce una partita di seconda categoria si è trasformata in caccia all’uomo, prima in campo e poi negli spogliatoi per un giovane arbitro che poi, al pronto soccorso ha avuto una prognosi di 21 giorni. Poi altri casi recenti in Sicilia, Sardegna, nel Lazio, ma anche in Lombardia e Veneto. I dati ufficiali certificano che il fenomeno è sempre più preoccupante: nella stagione 2014-2015 ma anche in quella appena iniziata, i direttori di gara hanno subito quasi il doppio delle aggressioni rispetto a quelle precedenti e il primato negativo riguarda proprio i campionati del Settore Giovanile, con la Federazione che ha inasprito le pene, ma che non sembra abbia ottenuto un’inversione di tendenza. C’è una specie di senso di impunità in coloro che commettono certe azioni violente, che a volte trascina all’eccesso anche altre persone, mentre sono più rari i casi in cui gruppi di papà e mamme si ribellano e denunciano chi esagera. A mali estremi però, meglio reagire senza aspettare altre conseguenze. In 90 anni di calcio nostrano, mai gli arbitri hanno scioperato: forse invece sarebbe il caso di mandare un segnale forte, perché questa escalation delle violenze, spesso sottaciute o quasi, non può sempre diventare come la polvere che finisce sotto il tappeto. Fonte: Sir
Arbitri, offesi e picchiati, scrive Massimiliano Castellani il 5 novembre 2014 su "Avvenire". Se Paolo Sollier, il centravanti dal “pugno chiuso” volesse aggiornare il suo libro manifesto degli anni ’70 Calci e sputi e colpi di testa, il protagonista principale non sarebbe più un calciatore, ma un giovane arbitro italiano, magari di colore. In questo autunno rovente per il nostro pallone si è passati dagli attacchi verbali alle violenze fisiche sui direttori di gara. Solo nell’ultima settimana, tre arbitri aggrediti, di cui due minorenni. Qualcuno leggendo la vicenda dell’arbitro 17enne Luigi Rosato, minacciato addirittura di morte via facebook, dopo le aggressioni subite durante la gara Atletico Cavallino- Cutrofiano (Seconda categoria), forse avrà pensato che si trattava di un caso limite, magari isolato. Illusi, colti in pieno fuorigioco. Solo nel mese di ottobre sono stati 30 i casi di violenze contro gli arbitri, molti dei quali minorenni, spesso coetanei degli stessi giocatori, i quali rappresentano il 64% dei “picchiatori” dei poveri direttori di gara. Il resto del lavoro molto sporco lo fanno dirigenti e genitori. Come nel caso dell’altro arbitro pugliese, Lucio Del Sole, 18 anni, malmenato a Montesano Salentino da un 50enne, papà di un calciatore, durante Tricase-Sogliano Cavour (Giovanissimi). Del Sole e l’arbitro 16enne di Lecco aggredito a Calolziocorte durante Victoria-Polisportiva Foppenico (Allievi), oltre al referto arbitrale hanno presentato anche quello medico rilasciatogli dall’ospedale in cui gli hanno diagnosticato rispettivamente 3 e 5 giorni di prognosi. Unica nota lieta di queste giornate di ordinaria follia sono state le lacrime del 14enne calciatore che rivolgendosi all’arbitro Del Sole gli ha detto solidale: «Mi scuso per mio padre... ». Il mondo adulto oltre alla testa ha perso anche la dignità: dal 2009 alla stagione calcistica 2013-2014 sui nostri campi si sono verificati 2.323 episodi di violenza contro gli arbitri. Una cifra drammaticamente da “primato mondiale” che va a sommarsi a quella dei 109 casi di direttori di gara che sono dovuti ricorrere alle cure sanitarie. Nella deriva in cui siamo, l’Aia (Associazione italiana arbitri) ha dovuto creare un Osservatorio ad hoc. Sotto stretto controllo soprattutto il movimento che rimane all’ombra dei riflettori del grande calcio: la maggioranza dei 375 episodi di violenza registrati nell’ultima stagione hanno avuto come teatro partite di tornei giovanili e dilettantistici. La Serie A, come insegna il pandemonio conseguente alla direzione di Juventus- Roma dell’arbitro Rocchi (si è arrivati alle interpellanze parlamentari), non dà certo il buon esempio, e l’immagine delle “giacchette nere” viene continuamente infangata. E questo, nonostante la nostra scuola arbitrale sia ancora riconosciuta a livello internazionale come la migliore. Non a caso il designatore Uefa è l’ex fischietto d’oro Pierluigi Collina che, dinanzi al fenomeno dell’escalation violenta, ha commentato amaro: «Mai stato picchiato. E sono stato fortunato, non bravo». Collina ha anche viaggiato sotto scorta. Tutto ciò è accaduto in un Paese in cui non abbiamo mai avuto arbitri palesemente corrotti come l’ecuadoregno “castiga Italia” Byron Moreno. (Mondiali di Corea-Giappone 2002). In un secolo e più di storia della vituperata - ingiustamente - categoria (l’Aia è nata nel 1911), si ricordano solo due casi di corruzione acclarata: quelli dei signori Pera e Scaramella, arbitri che negli anni ’40 incassarono assegni per aggiustare il risultato. Vicende distanti anni luce da una realtà odierna, in cui il “capro espiatorio” è diventato il “23° in campo”, il temuto e odiato uomo nero. Quando oltre alla divisa, è nera anche la pelle dell’arbitro, si verificano reazioni assurde, tipo quella che ha visto protagonista in negativo un ex calciatore di Serie A, il bomber Emiliano Bonazzoli. Il 35enne attaccante ora in forza all’Este (serie D) si è beccato dieci giornate di squalifica in quanto il 28 settembre scorso al termine della gara contro la Correggese si era rivolto con epiteti di «discriminazione razziale» nei confronti dell’arbitro Ramy Ibrahim Kamal Jouness, medico di Torino di origini marocchine. «Quello di Bonazzoli è stato il primo episodio della stagione in corso, ma nella scorsa sono stati 8 i casi di discriminazione razziale contro arbitri romeni e di colore, e tutti si sono verificati tra i dilettanti», spiega il sociologo Mauro Valeri, responsabile dell’Osservatorio sul razzismo e antirazzismo nel calcio. Mentre i calciatori “G2”, gli italiani figli di stranieri, da Balotelli a El Shaarawy fino ad Ogbonna hanno conquistato le luci della ribalta, di “G2” direttori di gara in Serie A neanche l’ombra. «Questo la dice lunga – continua Valeri –, del resto anche nella multietnica Francia il primo arbitro nella massima serie è comparso solo un paio di anni fa». Si trattava del signor Silas Billong di Lione, classe 1974, origini camerunensi, arbitro di terza divisione chiamato a dirigere Nizza-Lens, ma soltanto perché era la domenica in cui i suoi colleghi della Ligue1 scioperavano. E anche il presidente dell’Aia Marcello Nicchi, visto il dilagare delle angherie di cui sono vittima i suoi associati, minaccia sciopero. «La Federcalcio deve dare risposte concrete altrimenti ci fermiamo, a partire dalla Serie A». Per discriminazione razziale si può anche interrompere la partita, ricorda la Uefa, ma quella contro l’arbitro finora ha prodotto un solo stop, però in Olanda. Da noi nel 2007 a dire «basta» ci aveva provato il signor Slimane Ouakka della sezione di Rimini: durante Argenta- Forlì (serie D) dopo ripetuti insulti razzisti e uno schiaffo ammollatogli da un difensore dell’Argenta, riportò le squadre negli spogliatoi. Logica avrebbe voluto il 3-0 decretato a tavolino in favore del Forlì, mentre il giudice sportivo optò, clamorosamente, per la ripetizione della partita. «L’apertura dell’Aia ai figli di stranieri o a quelli residenti in Italia portata avanti negli ultimi anni è stata molto importante, ma questi ragazzi vanno sostenuti e tutelati con delle campagne di sensibilizzazione mirate, altrimenti continueremo a vedere bravi arbitri, uomini e donne, che stanchi di sentirsi discriminati per il colore della pelle o per la loro etnia, mollano proprio quando potrebbero decollare verso quel professionismo che, ad oggi, rappresenta un miraggio», denuncia Valeri. Cattivi pensieri di abbandono comuni a ragazzi come il romeno Marian Bogdan Vamanu, insultato sul campo del Real Casal (Promozione lombarda) dai tifosi in trasferta del Calcio Rudianese. «Vamanu – conclude Valeri – è della sezione di Cremona, la stessa di Chaida Sekkafi, la 16enne di origine marocchina che ha debuttato lo scorso anno. È stato il primo arbitro con il velo in testa... In un momento come questo proviamo a non distruggere la speranza».
Arbitro di calcio, mestiere pericoloso: in Italia più di una aggressione al giorno. Nella stagione 2013- 2014 ben 375 casi, quest'anno già 42: categoria abbandonata a se stessa. Il presidente Nicchi al fattoquotidiano.it: "Mai fatto abbastanza da chi di dovere", scrive Andrea Tundo il 2 novembre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". E’ il 9 ottobre e Alessandro Comerci, 18 anni, arbitra Virtus Sanremo-Dianese. Un dirigente della squadra di casa lo colpisce con un violento pugno allo zigomo destro: venticinque giorni di prognosi per un fischio contestato in una partita di allievi provinciali. Giosj Castangia ha 24 anni ed è una guardalinee, il 21 settembre deve gestire un caldo finale di gara tra Lerici e Ortonovo, Promozione ligure. Si becca un forte calcio al fianco destro e uno al gluteo. Dieci giorni di prognosi. Settimana scorsa, Prima Categoria piemontese, siamo al 25esimo del secondo tempo tra Vanchiglia e Carrara 90. L’arbitro Umberto Galasso sventola il cartellino giallo in faccia a un giocatore di casa che per tutta risposta lo colpisce con uno schiaffo. L’aggressione di Luigi Cannas da parte del presidente del Sanluri (Eccellenza sarda) a metà settembre e i pugni incassati dal 17enne Luigi Rosato durante Atletico Cavallino-Cutrofiano sono solo gli ultimi sintomi di un cancro silenzioso che si annida nei polverosi campi della provincia italiana. E che dall’inizio della stagione conta già 42 casi. In Italia viene aggredito più di un arbitro al giorno. Nell’ultimo anno solare l’Osservatorio violenza dell’Associazione italiana arbitri ha registrato 376 episodi. Negli ultimi cinque sono stati 2365, con un picco di 630 durante i campionati 2010/11. La stagione conclusasi a giugno ha fatto segnare un leggero rialzo rispetto alla precedente arrivando a 375, di cui 303aggressioni fisiche gravi. Novantotto nella sola Sicilia, seguita da Calabria (44), Campania (39) e Veneto (30). Ma anche in una regione meno violenta come il Lazio (17) si rintracciano storie di ordinaria follia. Uno dei 61 casi che si sono verificati nel corso di partite del settore giovanile e scolastico è accaduto a fine maggio a Terracina, in provincia di Latina. Il dispositivo del giudice sportivo relativo alla sfida tra gli under 19 di Hermada e Campo Boario sembra la sceneggiatura di un film sul bullismo. Un giocatore del Campo Boario “colpiva violentemente (l’arbitro) con un calcio alla schiena facendolo cadere con la faccia a terra e costringendolo alle cure del pronto soccorso dell’ospedale di Formia che lo giudicava guaribile in sette giorni”. Alcuni suoi compagni di squadra continuavano il pestaggio con violenti pugni ai fianchi e alla schiena, sputandogli addosso e cercando di colpirlo al volto con una bandierina. Per poi entrare nello spogliatoio “mettendolo a soqquadro” e “disponendo dei suoi effetti personali ed indumenti, questi venivano gettati dentro il water”. La giustizia sportiva ha punito otto giocatori e l’allenatore per un totale di diciotto anni di squalifica. “Sono sei stagioni che lotto con tutti i mezzi possibili per risolvere un problema sottovalutato da cento anni. Ci sono responsabilità precise del mondo federale. È sempre stato fatto poco – attacca il presidente dell’Aia Marcello Nicchi – Picchiare centinaia di arbitri all’anno viene concepita come una cosa normale, ma non è accettabile. Non devono essere sfiorati”. Fanno parte del gioco, interpretano il ruolo più delicato. Eppure sono proprio gli altri protagonisti della partita i primi a scagliarsi contro di loro. Il 64 per cento delle aggressioni avviene per mano dei calciatori, una su cinque vede coinvolti i dirigenti e nel 18% dei casi i direttori di gara vengono presi di mira dai tifosi. “È una vergogna tutta nostra – prosegue il numero uno dell’Aia – Oltretutto in controtendenza rispetto alla qualità degli arbitri, in netta crescita”. Quello di Nicchi è uno sfogo e allo stesso tempo l’ennesimo appello. Perché se è vero che si verificano episodi di violenza nell’1% delle partite disputate, questa non è una faccenda da rinchiudere nella fredda statistica: “Trovo immorale farne un discorso di percentuali. Qui si parla di cultura sportiva, di rispetto. Ben venga la disamina degli errori ma si parli anche delle nostre virtù. Prendiamo le botte ma siamo quelli che arbitrano la finale mondiale. Il buon esempio deve arrivare dai giocatori delle serie più importanti, quelle esposte mediaticamente. I loro comportamenti, i loro sorrisini, le loro urla diventano schiaffi nei campionati dilettantistici e mancanza di cultura nel settore giovanile”. Da qui la decisione: “Perseguiremo tutti quando c’è violenza. Questa gente uccide il calcio e in un Paese civile finirebbe in galera. Dobbiamo cambiare orizzonte, parlando di prevenzione e divulgazione delle regole”. Anche perché, oltre ai calci e ai pugni, resiste lo sterminato sottobosco delle offese che sfugge al radar dell’Osservatorio. Basta leggere quanto ha scritto il 17enne aggredito domenica scorsa a Cavallino, ringraziando genitori, amici e colleghi: “A te mamma, grazie, perché nonostante quella sola volta che sei venuta a vedermi arbitrare, dopo solo mezz’ora, ti sei allontanata non potendo sopportare i toni e le contestazioni che mi venivano rivolti e, nonostante ieri lavavi la mia divisa sporca di sangue con gli occhi lucidi di pianto, mi hai sempre incoraggiato e sostenuto con il tuo sorriso”. Tra qualche settimana Luigi Rosato tornerà in campo, giusto il tempo di far trascorrere i 21 giorni di prognosi. Per un nuovo fischio d’inizio.
MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...
Se la sinistra giustizialista vuole arrestare anche la Juve. L'Antimafia indaga sulle infiltrazioni delle cosche in curva: «Interroghiamo Agnelli», scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 8/02/2017, su "Il Giornale". La zona grigia. Non quella classica, fra società civile e cosche. No, quella più evoluta e sofisticata che separa i grandi club del calcio dalla grande criminalità. Finora, allo Juventus Stadium, si era visto solo il gioco a zona, ma sul terreno. Ora gli occhi vigili dell'Antimafia, e dei suoi corifei della sinistra giustizialista, puntano gli occhi su quel che accade più in alto, fra le tribune e la curva. Terreno, in verità, di scorribande da parte di ceffi poco raccomandabili. Un'informativa della Digos di Torino, anticipata ieri dalla Gazzetta dello sport, tratteggia un quadro inquietante sui pregiudicati, dal curriculum corposissimo, o loro parenti che attraverso gli ultrà e i loro gruppi hanno messo le mani sul business del bagarinaggio. Un'inchiesta, Alto Piemonte, ha svelato le infiltrazioni della 'ndrangheta nel Torinese e addirittura nel tempio del football, ci sono stati 18 arresti e 23 rinvii a giudizio. Il processo è alle porte. E la vicenda si porta dietro anche il giallo di un suicidio, quello di Raffaello Bucci, presunto anello della catena. La Juventus però non è coinvolta, almeno sul piano penale. E i suoi dirigenti non sono indagati, anche se è stranoto che molte società, non solo i campioni d'Italia, nel tempo hanno cercato di gestire il malaffare che albergava sui gradoni proponendo patti non proprio pedagogici ai capi delle tifoserie: pace in cambio di biglietti su cui lucrare. Perfetto. Ma ora l'antimafia militante ascolta i pm titolari del fascicolo, Monica Abbatecola e Paolo Toso, poi invade il campo con dichiarazioni di guerra. Attacca Marco di Lello, appena transitato nel Pd: «Secondo la procura la Juve non è parte lesa e neanche concorre nel reato, dunque c'è una grande zona grigia su cui la commissione ha il dovere di indagare e di proporre soluzioni normative». Insomma, si dà il calcio d'inizio a una nuova partita, con i parlamentari ruota di scorta delle procure, anzi pronti a rilanciare sospetti e accuse spingendosi ben oltre la cornice del codice. Ancora Di Lello: «Per un processo occorrono elementi che i pm non hanno ravvisato. È una valutazione che rispettiamo». E ci mancherebbe. Può darsi che l'abnegazione degli onorevoli impantanati nella zona grigia finisca lì, ma pare di no. Claudio Fava (Sel) che dell'Antimafia è vicepresidente, allarga il raggio della sua inchiesta e sale su, su fino alla vetta: «Appaltare la sicurezza negli stadi a frange di ultrà infiltrati da elementi della criminalità organizzata è cosa irrituale e preoccupante. È grave aver permesso che a gestire il bagarinaggio su biglietti e abbonamenti della Juve fosse l'esponente di una solida e nota famiglia di 'ndrangheta». Per la cronaca l'imputato chiave di Alto Piemonte è Rocco Dominello, leader di due sigle ultrà, e legato alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. Fava non agita ancora le manette, non chiede ancora l'arresto del club bianconero in blocco, ma fa di meglio: «Per tutto questo chiederò che in commissione venga audito anche il presidente Andrea Agnelli». C'è posto pure per lui nelle nebbie della zona grigia.
Alleanze e giri d'affari. Nelle curve di serie A la mafia è senza colori. Strani legami tra capi ultrà di Milan e Juve schierati contro i club per gestire i biglietti, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale". «I colori non cancellano l'amicizia - Loris libero». Il lungo striscione bianco apparve nel cuore della Curva Sud di San Siro la sera del 22 ottobre del 2006, poco prima che iniziasse Milan-Palermo. Sono passati più di dieci anni, ma nulla è cambiato. Perché di quello striscione si ritorna a parlare ora, nelle carte dell'indagine che scuote il mondo del calcio, l'inchiesta sui rapporti tra la Juventus e una tifoseria ultrà legata a doppio filo al crimine organizzato. Lo striscione «Loris libero» racconta che il problema non si ferma allo Juventus Stadium, che un filo lega ormai tifoserie di opposte sponde, e che si tratta di un filo criminale: obiettivo, da Nord a Sud, prendere possesso delle curve, del business del bagarinaggio, taglieggiare le società. Nel milieu criminale, i colori delle bandiere contano poco. Di striscioni in difesa di arrestati e diffidati, le curve ne espongono in continuazione. Ma il lenzuolo che i milanisti appendono a San Siro quella sera di ottobre ha una particolarità: non è dedicato a un milanista. «Loris» è Loris Grancini, capo dei Viking, uno dei club più potenti della curva della Juventus. Altra particolarità: pochi giorni prima della partita Grancini è finito in galera non per un reato «da curva», ma per un regolamento di conti da Far West in una piazza milanese, quando fa sparare a un piccolo balordo che gli aveva mancato di rispetto. A eseguire l'ordine di Grancini, un ragazzotto che di cognome fa Romeo, e che - si legge nella sentenza di condanna - è «figlio di un affiliato alla 'ndrangheta». E allora, viene da chiedersi, perché il 22 ottobre 2006 la curva rossonera prende le difese di un rivale finito in galera per un delitto da gangster? La risposta si trova in un rapporto che la Squadra Mobile di Milano invia in Procura nove giorni prima: «Nel corso degli ulteriori sviluppi investigativi, emergeva il probabile coinvolgimento nel delitto di un ulteriore personaggio identificato per Lombardi Giancarlo, potente leader del gruppo ultrà milanista Guerrieri Ultras e legato da uno stretto vincolo di amicizia con Grancini Loris nonostante la diversa fede calcistica». E chi è Lombardi? Risposta: «Sandokan», il capo incontrastato insieme al «Barone» Giancarlo Cappelli della curva rossonera. «La locale Digos - aggiunge la Mobile - comunicava di avere visto in più di una circostanza Grancini utilizzare una Ferrari e Lombardi è proprietario proprio di una Ferrari 360 Modena». Il rapporto riappare ora nelle carte che il questore ha inviato alla sezione «misure di prevenzione» del tribunale di Milano, chiedendo che Grancini sia sottoposto alla sorveglianza speciale. A carico del capo dei Viking, ci sono i rapporti con i mafiosi calabresi del clan Pesce, arrestati nell'inchiesta sulla Juve: è a Grancini che uno dei capiclan, Giuseppe Sgrò, si rivolge il 7 aprile 2013 per chiedere il permesso di far entrare allo Stadium un nuovo club ultrà, i Gobbi. Malavitoso e capo ultrà si danno del «fratello». E Grancini accetta: «Se sono juventini problemi non ne abbiamo». Ma le carte dell'inchiesta raccontano che essere juventini conta fino a un certo punto: anzi, Grancini è tra quelli che trasformano in una rissa furibonda tra club bianconeri l'incontro con la dirigenza della società, il 14 settembre 2006. Il legame vero, quello che apre le porte al grande business delle curve, è il legame malavitoso. E la grande amicizia tra Grancini e Lombardi, tra il capo ultrà juventino e il boss della curva rossonera, è il rapporto tra due che nel mondo del crimine hanno solidi agganci. Grancini, il bianconero, ha precedenti di ogni genere, dalla droga al gioco d'azzardo, l'ultima denuncia l'ha presa per avere picchiato la sua donna; «Sandokan» sta scontando la pena che gli è stata inflitta per i ricatti al Milan, e anche le carte di quell'indagine sono istruttive, perché raccontano di cupi legami di Lombardi con i protagonisti di storie e di droga e di sangue. Mani sporche, insomma, sulle curve: una conquista annunciata già nel 2009, quando i capi di Viking e Guerrieri si incontrarono a Milano, e c'erano anche i capi dei Boys dell'Inter, per pianificare lo sbarco. È a questo nuovo tipo di tifoso-malavitoso che si riferiva Paolo Maldini quando disse: «Sono contento di non essere uno di voi».
Juventus, i tentacoli di ultrà e ’ndrine (ancora) sui biglietti. L’inchiesta di Report, scrive Carlo Tecce il 22 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Criminali, pestaggi, riciclaggio, biglietti gonfiati, affari sporchi, finti ultras. In campo è sempre più forte, fuori la Juventus rischia di apparire ancora succube volontaria della malavita. La vecchia Signora ha smesso col vecchio vizio di foraggiare le frange più estreme del tifo con centinaia di biglietti che si trasformano in guadagni sporchi col bagarinaggio? A Federico Ruffo di Report l’ex ultrà Bryan Herdocia, detto lo “squalo”, dodici anni di Daspo, un arresto per una rissa con i fiorentini, detenzione illegale di un coltello, due pistole, una mazza da baseball e ottanta carte d’identità false, mostra una chat con Salvatore Cava, fedelissimo di Moccia dei “Drughi”: “Hanno smaltito i biglietti a 250 sterline, anche se in origine costavano 35”. Herdocia fa riferimento a una trasferta di Champions League del marzo scorso, gli ottavi di finale contro il Tottenham.
La Vecchia Signora e le frange “cattive”. Stasera Report ritorna in onda con un servizio devastante per l’immagine aristrocratica dei bianconeri, un servizio che racconta l’indagine Alto Piemonte sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta a Torino, in cui la Juventus non è stata coinvolta (se non come testimone) e neppure considerata parte lesa; il suicidio di Raffaello “Ciccio” Bucci, collaboratore della Juve, ex vertice degli ultrà e informatore della polizia e dell’intelligence; il ruolo di Rocco Dominello, fondatore del fasullo gruppo ultrà “Gobbi”, esponente assieme al padre della cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, condannato in appello a cinque anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Per quattro anni e con almeno 1.500 biglietti a partita, secondo la ricostruzione della Procura Figc poi diventata sentenza, la Juve ha mantenuto l’ordine pubblico con un patto occulto con gli ultras dal valore di oltre 5 milioni di euro. I dirigenti bianconeri Alessandro D’Angelo (sicurezza), Stefano Merulla (botteghini) e Francesco Calvo (marketing) hanno agito in combutta con gli ultras con l’assenso del presidente Andrea Agnelli. Il figlio di Umberto l’ha sfangata con una squalifica a tre mesi e una multa di oltre mezzo milione di euro per la società perché la giustizia sportiva ha accolto la versione della Juve: Agnelli & C. ignoravano il profilo mafioso di Dominello, un ragazzo squattrinato che girava in Jaguar e dava del tu al presidente bianconero. Il processo sportivo s’è celebrato con l’ostentato dissenso di Michele Uva, il direttore generale della Federcalcio, le pressioni dei bianconeri sui media e un modesto spazio sui giornali (il Fatto ha seguito l’intera vicenda).
Ciccio Bucci, che volò dal viadotto. Le ultime tracce del bagarinaggio autorizzato dal club risalgano al 2016. Il 7 luglio Ciccio Bucci, il giorno dopo l’interrogatorio davanti ai magistrati di Torino, si lancia da un viadotto dopo un breve viaggio con un Suv ricevuto in dotazione dalla Juve. La Procura di Cuneo ha riaperto il fascicolo su Bucci. “Era terrorizzato! Era terrorizzato! Sembrava che lo dovessero ammazzare da un momento all’altro perché ha parlato coi pm”, spiega al telefono – intecettato – D’Angelo all’ex collega Calvo, passato al Barcellona dopo la rottura per ragioni personali con Agnelli (che ha sposato l’ex moglie del responsabile del marketing). Bucci era una sorta di ministro delle Finanze – spiega Report – dei Drughi di Gerardo “Dino” Mocciola, uomo carismatico, riservato e temuto, uscito di galera un dozzina di anni fa (nell’89 partecipò a una rapina a un portavalori e all’omicidio di un carabiniere). Poi Ciccio entra nella Juve per curare il dialogo con la tifoseria. Bucci maneggiava troppi soldi, si pensa ai proventi del bagarinaggio, e li ripuliva – ha scoperto Report – con vincite taroccate del Lotto o di altri concorsi pubblici. Il metodo è semplice e l’ha sperimentato la ‘ndrangheta: il vincitore incassa denaro in contante, il riciclatore ottiene le ricevute e si fa pagare con un bonifico di una concessionaria dello Stato. Più sicuro di così? La morte di Bucci scuote la dirigenza della Juve, soprattutto D’Angelo e Merulla. A un anno dal suicidio, Merulla va a casa dell’ex compagna di Bucci e confessa che alla vigilia del faccia a faccia con i pm aveva “istruito” Ciccio: “Quella sera io mi ricordo che lui era seduto sul divano e facevamo – anche un po’ scherzando – le domande che avrebbe potuto fare il pm visto che delle cose le aveva chieste anche a me. E quindi facevamo, diciamo, domanda e risposta: “qui puoi dire così, qui puoi dire cosà, qui puoi non andare nello specifico”. E facevamo un… non un gioco, ma un modo per sdrammatizzare quello che sarebbe successo”. Il dramma, invece, si stava per compiere. Questo non è l’unico episodio sulle strane manovre attorno all’inchiesta Alto Piemonte. Paolo Verra, avvocato dell’ex compagna di Bucci, sostiene che nel 2015 – un anno prima del suicidio – Bucci gli abbia confidato: “Io so per certo che alla fine di questo campionato scoppierà la bomba. E quindi io, come tanti altri all’interno della curva, ci stiamo organizzando”. Un esponente dei Viking chiama in causa D’Angelo: nel 2013 avrebbe avvisato il gruppo di un’indagine dei carabinieri per la “storia dei calabresi in curva”.
“Mi sono comprato due case e un’Audi”. Report intervista Andrea Puntorno, frequentatore di ambienti mafiosi siciliani e calabresi, leader del gruppo ultrà “Bravi ragazzi”, con obbligo di dimora ad Agrigento per una condanna a sei anni e mezzo per traffico internazionale di droga: “Io ero in contatto con D’Angelo e Merulla. Con il Real Madrid il prezzo dei biglietti si ricaricava anche di duecento euro. Così mi sono comprato due case e un’Audi”. Herdocia in diretta Skype agita un tagliando della finale di Champions tra Juventus e Barcellona (2015): “Ne ho piazzati tredici a 1.500 euro ciascuno”. Le telecamere di Report riprendono le attività di bagarinaggio anche per Juventus-Bologna del 5 maggio 2018. E Beppe Marotta? L’ormai ex amministratore delegato della Juventus ha un contatto con Dominello nell’ottobre del 2013: gli regala cinque biglietti per il Real e concede un provino (infruttuoso) al figlio di un amico, sempre affiliato alla ‘ndrangheta. Marotta non ha patito conseguenze di gustizia ordinaria e sportiva, non l’hanno mai indagato, però viene spinto davanti agli inquirenti della Federcalcio interessati al bagarinaggio – circa un paio di anni fa – proprio da Andrea Agnelli: “Domandate a Marotta”. In quel momento, Agnelli era in guerra col cugino John Elkann e dubitava della fedeltà di Marotta. Andrea ha sconfitto il nemico, ha superato quasi indenne i tribunali della Figc e, un mese fa, anche per questi motivi, ha “licenziato” Marotta.
Report: "Calcio e mafia: Juve, la morte dell'ultrà Bucci e le domande a Marotta", scrive l'01 ottobre 2018 Calciomercato. "Il direttore sportivo della Juventus Beppe Marotta, nell'ottobre del 2013, in occasione di Juve-Real Madrid, lascia 5 biglietti della sua riserva personale a Rocco Dominello, figlio del boss, che deve rivenderli. Questo è lo scambio di messaggi con un intermediario, che deve rivenderli.
- Direttore buongiorno io parto domattina per Madrid per i 5 biglietti come possiamo fare, me li lascia lei da qualche parte oppure ci incontriamo veda lei.
- Ti informo io. Ciao. Ti ho lasciato la busta al Principi, hotel. Alla reception c'è una ragazza bionda, li ho lasciati a lei.
- Va bene, grazie mille.
- Ciao Fabio ci vediamo in sede. Tutto ok per i biglietti?
- Sì direttore, grazie, speriamo bene.
- Ok, mi raccomando, massima riservatezza, B.
- Come sempre nessuno lo sa.
Qualche mese dopo, Marotta incontra in un bar Dominello e accetta di far sostenere un provino per le giovanili a un ragazzo. Si chiama Mario Bellocco, figlio di Umberto, esponente di spicco del clan di Rosarno". Questa l'apertura dell'inchiesta di Report, che con un breve video, circa 80 secondi di immagini e testo, rimanda all'approfondimento in onda nelle prossime puntate della trasmissione. Il tema? Mafia e calcio, insieme. L'inchiesta si sviluppa e trova anche modo di affermarsi in un incontro diretto con il direttore bianconero, che però non risponde alle domande dell'inviato di Rai Tre, in merito alla morte di Raffaello Bucci, ex dipendente della Juve morto suicida. Ecco il video di Report, in attesa della puntata completa.
Juventus, coinvolgimento nella morte di Bucci: tutta la verità, scrive il 22 ottobre 2018 Viaggi news. Mettono i brividi gli elementi che stanno uscendo dalla puntata di Report sulla morte di Raffaello Bucci, uomo della tifoseria bianconera che aveva il ruolo di congiunzione tra Juventus e i suoi tifosi. Tantissimi gli elementi dell’indagine che non tornano e che fanno presumere un coinvolgimento di componenti della società Juventus nella vicenda. Bucci era in realtà un informatore dei servizi segreti e aveva dato molte informazioni anche sull’infiltrazione della ‘ndrangheta nella tifoseria della Juventus. Il portale Calciomercato.it ha intervistato Federico Ruffo, l’autore del servizio di Report, che ha dimostrato di avere le idee molto chiare. “Ho avuto modo di vedere un sistema che ha anticorpi tutti suoi, è malato ma si rigenera” – ha messo in evidenza il giornalista – “E l’anticorpo peggiore siamo noi, non ci piace che il giocattolo venga rotto e venga messo in discussione. Quello che ci interessa è che ogni domenica si giochi. Si dimentica sempre in fretta. Sono tutti molto preoccupati, ma non ho elementi per dire se ci saranno risvolti di natura sportiva. Sono aspetti che attengono alla sfera penale di singole persone. Potrebbe scatenarsi un terremoto di natura etica, quello sì. Ma, soprattutto, spero si arrivi alla verità sulla morte di Bucci”.
Juventus, Report vuole fare luce su questa brutta vicenda. “Bagarinaggio? C’è ed assicura agli ultras almeno un milione e mezzo di euro in nero, esentasse. E probabilmente tutta questa gente poi si troverà all’interno di coloro che potranno beneficiare del reddito di cittadinanza. Noi di ‘Report’ proveremo a fare luce ed a mostrarvi questo mostro”. Le intercettazioni vertono anche sulla oscura vicenda del suicidio di Raffaello Bucci, un ex capotifoso juventino molto noto, accusato di riciclaggio e che faceva da punto d’unione tra ultras e dirigenza. Per un certo periodo Bucci è stato anche informatore dei servizi segreti ed era anche a qualche giocatore come Leonardo Bonucci. Sul suo decesso, avvenuto a luglio 2016, si ritiene che ci sia qualcosa di losco. “Era terrorizzato, diceva di essere un uomo morto” si carpisce da una discussione tra Alessandro D’Angelo, Security Manager della Juventus, assieme all’ex direttore commerciale bianconero, Francesco Calvo.
Morte Bucci: il dialogo tra D’Angelo e Bonucci. Se nel lancio promozionale della puntata di questo 22 ottobre, era stata mandata in rete parte dell’intervista al capo ultras Andrea Pontorno, il quale spiegava le modalità di vendita dei biglietti per le partite all’Allianz Arena, adesso sono state condivise delle intercettazioni telefoniche che provano come il security manager della Juventus Alessandro D’Angelo informasse della morte di Raffaello Bucci il presidente del club Andrea Agnelli e il difensore Leonardo Bonucci. Questa seconda intercettazione è stata pubblicata da Report:
D’Angelo: Ho un problema: Ciccio si è ucciso. Si è suicidato Ciccio.
Bonucci: Non ci credo.
D’Angelo: Non sono riuscito a fermarlo. Si è suicidato stamattina, si è gettato da un ponte, aveva paura di qualcosa.
Bonucci: Quando è andato, l’altro ieri mattina?
D’Angelo: Ieri mattina. Ha avuto paura, si vergognava di me. Gli dicevo: “Non ti preoccupare, me l’hai messa nel culo ma non ti preoccupare. La risolvo”. Lui mi ha detto: “No no, perdonatemi”. Io sono convinto che non avesse paura di noi.
Curva Juve e 'ndrangheta, a Report parla l'ultrà: "Così piazzavamo i biglietti per conto dei boss", scrive il 22 ottobre 2018 Repubblica TV. Gli affari della ‘ndrangheta nella curva della Juventus non si sarebbero fermati nemmeno dopo le inchieste e le condanne. "Fino alla fine della scorsa stagione i Drughi avevano ancora i biglietti dalla società e continuavano a fare bagarinaggio" conferma a Report, nella puntata in onda questa sera alle 21,15 su Rai3, Bryan Herdocia detto "lo Squalo", ultrà bianconero responsabile dell’assalto a un pullman di tifosi della Fiorentina, che consegna al reporter Federico Ruffo ricevute, biglietti e chat: "Biglietti da 220 euro venduti a 1500, io ne ho piazzati 13". E poi, alla domanda se sapesse che parte di quegli ingressi venivano piazzati per conto della 'ndrangheta, conferma: "Io davanti al Bernabeu ho piazzato dei biglietti per loro, ricordo che il tipo che mi dava i biglietti era nervoso perché un aereo era arrivato in ritardo, ed era andato in tilt, diceva 'tu non sai di chi sono questi biglietti, tu non sai questi soldi a chi vanno, se non arrivano in tempo io qua finisco male".
Juventus, la bomba di Report: ultrà, Agnelli e 'ndrangheta, l'intercettazione su Lapo Elkann, scrive il 23 Ottobre 2018 Libero Quotidiano". C'è anche Lapo Elkann al centro della attesissima puntata di Report sulla Juventus. Il programma condotto da Sigfrido Ranucci lancia siluri inquietanti sulla Signora, rovistando nelle intercettazioni e nelle carte dell'inchiesta giudiziaria Alto Piemonte sui rapporti tra gli ultrà bianconeri e gli esponenti della 'ndrangheta. Un misto di calcio, rapporti di forza, legami oscuri e business che getta una luce sinistra non solo sul club, ma su tutto il calcio italiano. Per comprendere il ruolo preponderante del tifo organizzato nella vita di una società è esemplare la telefonata intercettata tra Fabio Germani, ultrà di peso a capo della fondazione Italia Bianconera, e Rocco Dominello, figlio del boss Saverio Dominello e considerato dagli inquirenti al centro del "sistema-biglietti" della Juventus Arena, con agganci pesantissimi tra i dirigenti. Si deve tornare indietro di quasi 10 anni, la primavera del 2009. Lapo, secondo quanto raccontato da Dominello ai magistrati, "avrebbe incontrato il figlio del boss, prima della comunione della figlia di Germani" e in quell'occasione "gli avrebbe espresso il desiderio di vedere esposti degli striscioni in curva con su scritto Lapo Presidente". Una telefonata intercettata tra Dominello e Germani confermerebbe la versione: "Senti una cosa, ma il tuo amico Lapo che fine ha fatto?", chiede il primo al secondo. "L'ho sentito stamattina, è in Svizzera".
Dominello - "Lo fissiamo 'sto appuntamento?"
Germani - "No, questo periodo non esiste".
D - "Perché?"
G - "Eh, perché domani parte va in America…"
D - "Vabbuò, fissa un appuntamento. Se vuole un appoggio, fissa un appuntamento, sennò andate a f… tu, lui, la Juve… tutti quanti!".
G - "Ma tu lo sai che lui l'appoggio lo vuole?"
D - "Lui mi deve dire Sì, sono veramente intenzionato… e io faccio fare gli striscioni sia da una parte che dall'altra, tutti per lui. Però allora mi devi dire quanto veramente ci tiene. Perché io ti giuro che sia di qua che di là facciamo fare tutto quello che lui vuole".
G - "Ho parlato con Lapo fino a un'ora fa".
D - "Ah eri con Lapo e non mi hai chiamato, bravo… bravo".
G - "Si è scaricato il telefono! Martedì, cosa fai martedì?"
D - "Martedì niente, perché?"
G - "Se vuoi andiamo in barca da Lapo".
D - "Ma dove?"
G - "A Saint Tropez".
Quella gita, spiega Report, poi è saltata. Lo striscione non fu mai esposto e alla fine presidente è diventato il cugino Andrea Agnelli, a cui nel 2013, dopo il secondo scudetto di fila, Lapo riconobbe pubblicamente tutti i meriti sportivi e societari.
Cosa c’è dietro il misterioso suicidio di un ultrà juventino? Un’avvincente inchiesta dove si intrecciano i rapporti tra spie, tifoseria, mafia e calciatori. Documenti inediti svelano l’ipocrisia di prestigiosi dirigenti del nostro calcio.
UNA SIGNORA ALLEANZA di Federico Ruffo. Video mandato in onda il 22 ottobre 2018 nella trasmissione Report di Raitre.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO 16 luglio 2018. Arrivano da tutta Italia, in 1500 e tutti vogliono vedere il sogno con la maglia della Juve. Un sogno da 105 milioni che nessun altra squadra in Italia può permettersi. Tutti vogliono vedere Cristiano Ronaldo. A noi invece interessa l’uomo al suo fianco, il security manager della Juventus Alessandro D’Angelo. Ma per capire perché dobbiamo tornare indietro di cinque anni. 21 aprile 2013. Allo Juventus Stadium si gioca Juve - Milan. In curva sud, quella in cui sono riuniti tutti i gruppi ultrà, spunta fuori uno striscione nuovo. “I Gobbi”. Secondo la Procura di Torino è un segnale: significa che la ‘ndrangheta è ufficialmente entrata nella curva della Juventus. Rocco e Saverio Dominello, boss della cosca PesceBellocco di Rosarno, si sono accordati con gli altri gruppi della curva e sono entrati nel business del bagarinaggio. I gruppi della Juve da sempre sono cinque: i Drughi, guidati dal pluripregiudicato Dino Mocciola; i Bravi Ragazzi, guidati da Andrea Puntorno, siciliano vicino al clan mafioso Li Vecchi; i Vinking, guidati da Loris Grancini, considerato vicino al clan Rappocciolo, il Nucleo 1985 e i Tradizione Bianconera, gestito dai fratelli Toia.
UOMO Giornalisti siete una massa di merde.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Tutta gente che non ammette intrusioni. Quindi che succede? Succede che quello non è uno striscione: è un contratto. Un accordo tra famiglie. Un affare da oltre un milione di euro l’anno.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche la città d’arte più bella, se la osservi attraverso le grate di un tombino delle fognature può sembrare orrenda. Ecco, noi stasera parleremo della più forte, più amata e anche più invidiata signora del calcio italiano: della Juventus, dei suoi rapporti con i capi ultrà e con la ‘ndrangheta. Potete utilizzare lo sguardo che più ritenete opportuno, con il filtro del “così è ovunque” (ed è vero) e allora non ci rimane che rassegnarci all’impotenza di fronte a un sistema, oppure utilizzare lo sguardo del comune cittadino appassionato di calcio. Il nostro di sguardo nasce invece da un’indagine, un’inchiesta della magistratura antimafia di Torino, che ha indagato su una cricca di criminali romeni e poi ha scoperto che invece la curva della Juventus era stata infiltrata dalla ‘ndrangheta. Personaggio chiave Rocco Dominello, figlio di un boss, che si era infilato nella curva e ha cominciato a fare business con il bagarinaggio. La Juventus ha ceduto negli anni, ha venduto migliaia di biglietti agli ultrà nella consapevolezza che li rivendevano a prezzi maggiorati. Per questo Andrea Agnelli è stato condannato in primo grado ad un anno di interdizione dai campi sportivi, e poi pena ridotta a tre mesi più una cospicua multa; questo dalla giustizia sportiva. Ma la condanna è stata possibile perché i magistrati antimafia oltre ad ascoltare i telefoni dei mafiosi, hanno anche ascoltato quelli dei dirigenti della Juventus. Il capo della security Alessandro D’Angelo, quello di Stefano Merulla responsabile della biglietteria ma anche dell’ex capo ultrà Raffaello Bucci, poi assunto, ha lavorato poi nella Juventus. Lo diciamo subito chiaramente: nessun dirigente, nessun dipendente della Juventus è stato mai coinvolto nell’inchiesta antimafia. Ecco, però sono tutti testimoni. Alla fine della conta ne manca di testimone uno, quello chiave. Ma che probabilmente era anche quello più fragile. Il nostro Federico Ruffo.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO 7 luglio 2016. Pochi minuti a mezzogiorno, bretella autostradale di Fossano, ingresso della Torino-Savona. Da un suv bianco scende un uomo, si sporge dal guardrail e si getta nel vuoto. É Raffaello Bucci, detto Ciccio. Era stato una sorta di ministro delle finanze del più importante gruppo ultras: i Drughi. Per anni ha gestito il bagarinaggio; migliaia di biglietti, milioni di euro. Nonostante questo la Juve, nel 2015, lo sceglie come Vice Supporter Liaison Officer, l’uomo che cura i rapporti tra società, tifosi e forze dell’ordine. Lo Slo ufficiale sarebbe Alberto Pairetto, fratello di Luca, arbitro di Serie A e figlio d’arte di Pierluigi ex arbitro e designatore di tutti gli arbitri della serie A, fino a quando non è stato travolto da Calciopoli, condannato in appello a due anni salvo poi finire in prescrizione. Secondo l’accusa uno di quelli a cui Luciano Moggi telefonava su schede svizzere per scegliersi gli arbitri amici. Raffaello Bucci il giorno prima era stato ascoltato dai magistrati che indagavano sui rapporti tra Juve, ultrà e ‘ndrangheta. Aveva paura. E non ha retto alla pressione.
PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Mi sono trovato di fronte a un’autopsia totalmente sprovvista di una qualunque documentazione fotografica o di filmati. Non c’era nulla.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Perché nell’esame autoptico non c’era una sola foto?
AL TELEFONO - MARIO ABBRATE – ANATOMOPATOLOGO PROCURA DI CUNEO Sì sì, le foto ci sono ovviamente! Cinque o sei fotografie e sono anche in digitale, quindi...
FEDERICO RUFFO AL TELEFONO E allora perché non ci sono nel fascicolo?
AL TELEFONO - MARIO ABBRATE – ANATOMOPATOLOGO PROCURA DI CUNEO Il fatto che loro non le abbiano può significare o che non gliele ho date o che le han perse. Però io non son sicuro di avergliele date, quindi…
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Una foto però c’è: l’ha scattata la sorella dell’ex compagna di Bucci col telefonino, mentre si trovava in camera mortuaria prima dell’autopsia.
FEDERICO RUFFO In che condizioni era?
GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Disastrose. Che si vedeva che era stato pestato.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO A sostenere l’ipotesi del pestaggio prima del suicidio c’è una perizia redatta da un esperto, un anatomopatologo. Si chiama Raffaele Varetto e ha analizzato la foto.
PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI C’è un taglio profondo, sanguinante, che non è compatibile con la caduta. C’è una pesante tumefazione all’occhio. Anche questa non è giustificabile con questa tipologia di caduta.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Ma in questa vicenda, di cose strane ne accadono tante a cominciare dall’ospedale in cui Bucci viene trasportato. C’è un grande via vai quel giorno di persone e di oggetti che scompaiono e ricompaiono. Come i suoi occhiali da sole.
PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI E questi occhiali presentavano, all’interno del ponticello come anche nella montatura, dei residui di materiale organico.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Dai verbali si evince che Bucci non indossava gli occhiali al momento del salto, ma in mezzo alla fronte presenta un graffio da montatura. Secondo la perizia quindi, potrebbe essere stato causato da un ferimento prima della caduta dal ponte.
PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Io non sono riuscito a capire dove erano questi occhiali. Fatto sta che questi occhiali sono stati riconsegnati alla ex compagna del Bucci in busta chiusa, sigillata…
FEDERICO RUFFO E chi può mai aver riportato in ospedale a Cuneo cioè, se è stato in possesso di questi occhiali e portati in ospedale?
PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Chi li ha portati non lo so. Si son presentati presso l’ospedale di Cuneo, Pronto Soccorso, dei soggetti qualificatisi come dipendenti Juventus.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO I primi due ad arrivare in ospedale quel giorno, prim’ancora che Bucci venga dichiarato morto, sono Stefano Merulla, responsabile della biglietteria della Juventus, e lui, l’uomo vicino a Ronaldo, Alessandro D’Angelo, il capo della sicurezza. Con loro si presenta una non meglio precisata amica di Bucci e chiede che le vengano consegnati il telefono e tutti suoi effetti personali. É l’avvocato Maria Turco, dello studio Chiusano che da sempre difende gli interessi della Juve e della famiglia Agnelli.
FEDERICO RUFFO Avvocato mi perdoni… É l’avvocato Turco?
MARIA TURCO – STUDIO LEGALE CHIUSANO Sì.
FEDERICO RUFFO L’avevo cercata perché in realtà c’erano un paio di cose all’interno del fascicolo che la riguardavano direttamente. Quindi volevo capire…
MARIA TURCO – STUDIO LEGALE CHIUSANO Non parlo con i giornalisti. Io su questa situazione, detta tra di noi, l’ho già patita abbastanza. Detto questo, io quello che dovevo fare è stato accompagnare delle persone che non erano in grado di guidare vista la notizia.
FEDERICO RUFFO Avevo trovato singolare questa anomalia nell’andare a chiedere il cellulare di Raffaello.
MARIA TURCO – STUDIO LEGALE CHIUSANO Io non ho mai chiesto il cellulare a nessuno. Mi faccia avere l’annotazione.
FEDERICO RUFFO Cioè le mi sta dicendo che questi signori si sono inventati di sana pianta questa roba?
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Noi il verbale all’avvocato Turco lo abbiamo inviato, ma lei, essendo stato riaperto il fascicolo sulla morte di Bucci, per ora preferisce non commentare.
PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Non riesco a capire questo tipo di comportamento tenuto dalla collega Turco anche perché non avrebbe avuto alcun titolo per farsi consegnare questo materiale.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO E non è chiaro neanche a quale titolo il responsabile della biglietteria della Juve Stefano Merulla, abbia concordato con Bucci la versione da dare ai magistrati. Lo dichiara lui stesso all’ex compagna a distanza di un anno.
STEFANO MERULLA – TICKETING MANAGER JUVENTUS F.C. Quella sera io mi ricordo che lui era seduto sul divano e facevamo – anche un po’ scherzando – le domande che avrebbe potuto fare il pm visto che delle cose le aveva chieste anche a me. E quindi facevamo, diciamo, domanda e risposta: “qui puoi dire così, qui puoi dire cosà, qui puoi non andare nello specifico”. E facevamo un…non un gioco, ma un modo per sdrammatizzare quello che sarebbe successo.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Peccato che Merulla nella sua deposizione ai magistrati si sia dimenticato di raccontare questo episodio. Poi c’è l’auto della Juventus, in leasing. La stradale scatta subito delle foto per repertare gli oggetti al suo interno. Quasi nulla, ma quando giorni dopo D’Angelo riconsegna alla ex compagna di Bucci gli effetti personali, all’improvviso compaiono le chiavi di casa e il borsello in cui teneva i documenti importanti. Secondo la squadra mobile di Torino sull’auto di Bucci, dopo il suicidio, hanno messo mano tre dipendenti della Juventus. Il primo a perquisirla è Matteo Stasi, autista di Andrea Agnelli e dice di non aver trovato nulla. Poi tocca a Daniele Boggione: è lui che dice di aver trovato chiavi e borsello, nell’auto sulla pedana del passeggero.
AL TELEFONO FEDERICO RUFFO Volevo farle qualche domanda circa gli oggetti che lei ha ritrovato in auto.
AL TELEFONO DANIELE BOGGIONE – DIPENDENTE JUVENTUS F.C. Eh, al momento non riesco.
FEDERICO RUFFO AL TELEFONO Ma guardi, se vuole possiamo anche vederci più… pronto?
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Peccato, perché Boggione avrebbe potuto spiegarci il mistero del ritrovamento delle chiavi della casa dove aveva dormito Bucci e il borsello. Anche perché nella foto scattata dagli inquirenti il giorno del suicidio, nel posto da lui indicato – lo vedete - non c’erano.
JACOPO RICCA – LA REPUBBLICA Diciamo che questa è la più grande anomalia di tutta la vicenda. Questo quindi ci fa pensare che né le chiavi della casa di Beinette né il borsello, fossero con lui al momento del suicidio.
FEDERICO RUFFO Tecnicamente chiunque era in possesso di chiavi e borsello è la persona... è qualcuno che ha incontrato Bucci poco prima che si togliesse la vita nelle ore precedenti.
JACOPO RICCA – LA REPUBBLICA Diciamo che l’ipotesi più forte è che sia la persona che ha incontrato Bucci subito prima di morire.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Di certo c’è che a riconsegnare gli oggetti è il capo della security Alessandro D’Angelo che è anche il protagonista di una telefonata intercettata mezz’ora dopo la morte di Bucci. Chiama l’ex direttore commerciale della Juventus, Francesco Calvo, squalificato per un anno dalla giustizia sportiva per aver agevolato la vendita irregolare dei biglietti agli ultrà. Calvo all’epoca lavorava per il Barcellona.
AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. É morto!
AL TELEFONO FRANCESCO CALVO – EX DIR. COMMERCIALE JUVENTUS F.C. Lo so, ho saputo.
AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Non ci credo… lo ha ammazzato!
AL TELEFONO FRANCESCO CALVO – EX DIR. COMMERCIALE JUVENTUS F.C. Minchia! non ci posso credere! Se penso che lo abbiamo portato io e te alla Juve…
AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Si, ma non era un motivo per ammazzarsi. Non doveva aver paura!
AL TELEFONO FRANCESCO CALVO – EX DIR. COMMERCIALE JUVENTUS F.C. No, no di certo.
AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Era terrorizzato ieri. AL TELEFONO FRANCESCO CALVO – EX DIR. COMMERCIALE JUVENTUS F.C. Era terrorizzato?
AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Era terrorizzato! Era terrorizzato! Sembrava che lo dovessero ammazzare da un momento all’altro perché ha parlato coi pm. M’ha detto no no no io non posso parlare io l’ho fatta grossa, io sono un coglione, è tutta colpa mia ho gestito male le informazioni. Lui non ho capito cosa farfugliava ma m’ha detto mi sono fidato di uno sbagliato.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Al momento non risulta che né D’Angelo né Calvo siano stati ascoltati dalla procura di Cuneo su queste dichiarazioni.
FEDERICO RUFFO Direttore ci perdoni, siamo di Report, Raitre. Volevamo farle una domanda perché stiamo lavorando sulla morte di Raffaello Bucci, il vostro vecchio dipendente.
CLAUDIO ALBANESE – DIRETTORE COMUNICAZIONE JUVENTUS Guarda adesso non parliamo con nessuno.
FEDERICO RUFFO Non so se sapete che ci sono queste intercettazioni in cui due dei vostri sostengono che lo hanno ammazzato. Direttore… Direttore era un vostro dipendente non vi interessa questa cosa? Direttore… Direttore è morta una persona, non volete neanche parlarne?
VIDEO AMATORIALE - RAFFAELLO BUCCI I soldi sono qua, non me ne vado a trans …
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Anche il telefono di Bucci era sotto controllo, per due lunghi anni, con un solo buco: proprio le tre ore durante le quali Bucci avrebbe deciso di uccidersi. I server della Procura di Torino non hanno registrato un solo secondo a causa di uno sbalzo di corrente. É un peccato perché proprio in quelle ore forse si nascondeva il segreto sulla morte di Raffaello Bucci. Ma il telefono lo hanno sequestrato e lì un segreto c’era, il più grande di tutti. Lo scopriranno grazie agli sms rimasti in memoria. L’ex capo ultrà, scriveva a un numero intestato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’identità è stata secretata dai pm. Di lui c’è soltanto un nome in codice: Gestore. É il nome di copertura di un agente dei servizi di sicurezza. Raffaello Bucci era un informatore dei servizi. L’ultimo messaggio tra l’agente e Raffaello è 48 ore prima di uccidersi. Bucci lo invia dopo l’ennesima notte in bianco: “Sono nella merda, sono certo che la mia posizione è bruciata”. Il giorno dopo deve essere ascoltato dai magistrati sui rapporti tra Juve, ultrà e ‘ndrangheta.
AL TELEFONO FEDERICO RUFFO “La mia posizione è bruciata” è un termine tecnico per dire “io lavoro ancora per voi e mi hanno scoperto”. Non avete…
AL TELEFONO GESTORE – AGENTE AISE Attacca.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che l’agente non può rivelarci è che Bucci aveva passato informazioni sull’eversione di destra che si era infiltrata nella curva. Aveva dato anche informazioni sulla presenza dei calabresi. Secondo la sua testimonianza ai magistrati, era stato collaboratore dal 2010 al 2015, ma l’sms che abbiamo trovato sul suo telefonino - “la mia posizione è bruciata” - fa pensare che Bucci avesse collaborato fino all’ultimo con l’agente dei servizi di sicurezza. Tanto è vero che lo incontra il 3 luglio, pochi giorni prima di morire, e parlano dell’inchiesta sui calabresi. Ma Bucci era anche un informatore della Digos. Abbiamo trovato un altro sms nel quale si chiedono informazioni in merito a un tentativo da parte dei No Tav di acquistare esplosivo all’interno dei gruppi ultrà della curva. Ecco, anomalie e segreti ne accadono tante in quelle ore, prima e dopo la morte di Bucci. Chi ha preso il borsello dove conteneva informazioni? Chi le chiavi di casa dove ha dormito Bucci la sera prima di uccidersi? Poi quello che è certo è che c’è un’attività frenetica dei dirigenti della Juventus. Stefano Merulla, responsabile della biglietteria, ha confidato solo un anno dopo alla ex compagna di aver passato la sera prima con Bucci concordando, cercando di concordare la versione da dare ai magistrati. Ecco, questo è un particolare che Stefano Merulla non ha confidato, non ha detto ai magistrati antimafia della Procura di Torino. Ha detto di aver passato la sera precedente con lui, ma non di aver concordato, seppur con scherzo, scherzando, la versione da dare ai magistrati. A che titolo l’ha fatto? E a che titolo l’avvocato Turco, che è una specchiata professionista - ha difeso anche noi di Report-, che appartiene allo studio legale Chiappero-Chiusano che tutela gli interessi della Juventus, a che titolo ha chiesto, secondo quello che c’è scritto in verbale, gli oggetti personali e il telefono di Bucci dopo la sua morte? Ecco, quegli oggetti e quei telefoni che invece ci vengono consegnati a noi di Report, dopo una telefonata, dalla ex compagna di Bucci.
AL TELEFONO GABRIELLA BERNARDIS - EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Volevo dirti che ho trovato la scatola che mi hanno riconsegnato a Torino con tutte le cose che avevano sequestrato a casa di Raffaello e vorrei che gli dessi un’occhiata, perché ci sono delle cose che forse vi possono interessare.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO C’è un po’ di tutto tra le cose lasciate da Raffaello. Quattro telefoni cellulari, diverse schede… ma ci interessano soprattutto queste: ricevute di giocate al Lotto; tutte vincenti. Migliaia di euro nell’arco della stessa giornata a volte a distanza di pochi minuti. E ancora: centinaia di Gratta&Vinci, di SuperEnalotto; tutte vincenti. In un caso, nel giro di poche ore, avrebbe giocato 20 volte lo stesso numero, il 74, vincendo sempre. Tutte hanno lo stesso codice ricevitoria: un tabaccaio di Cuneo. Il sospetto è che Bucci avrebbe riciclato proventi del bagarinaggio dei biglietti della Juventus ricorrendo ad un metodo brevettato dalla ‘ndrangheta: grazie ad una ricevitoria compiacente, quando qualcuno vince, non viene pagato dalla ricevitoria, ma liquidato in contanti da chi deve riciclare i soldi, che a quel punto entra in possesso della schedina vincente, diventa l’intestatario e la incassa a proprio nome. Un bonifico da una concessionaria dello Stato che nessuno potrà più contestare. Soldi puliti.
TABACCAIO Io se la Procura ha qualcosa da chiedermi, mi chiama la Procura. Ma io a lei non posso dire niente, mi capisce?
FEDERICO RUFFO Cioè non può dirmi se queste vincite non erano del signor Bucci ed erano di altri e sono state usate per lavare i soldi?
TABACCAIO Lei però…io cosa…?
FEDERICO RUFFO Mi dica questo: erano tutte vincite regolari queste?
TABACCAIO E certo che erano vincite regolari!
FEDERICO RUFFO Quindi Raffaello ha vinto 3 volte 2111 euro nell’arco della stessa giornata… Era l’uomo più fortunato d’Italia. E ha vinto 200mila euro in 4 anni?
TABACCAIO Penso… Penso di sì.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO In totale Bucci dai bonifici dalle vincite, vere o presunte, ha incassato circa 100 mila euro dal Lotto e altrettanti dai Gratta&Vinci e questo solo sul conto corrente a lui intestato sul quale salta all’occhio un altro dettaglio: nei sette giorni precedenti la sua morte c’è un’improvvisa impennata: in meno di due giorni incassa 14 vincite per un totale di 25mila euro. E potrebbe aver nascosto altro denaro.
FEDERICO RUFFO Nel giorno in cui Raffaello si toglie la vita lei è in Puglia. Perché l’aveva mandata in Puglia?
GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Perché mi aveva detto che dovevo andare ad avvisare i suoi fratelli che ci sarebbe stata un’indagine della Guardia di Finanza e che dovevano trovare il barattolo e non la marmellata.
FEDERICO RUFFO Come se ci fossero dei soldi…
GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Da far sparire.
FEDERICO RUFFO Da far sparire. Non le aveva spiegato di che soldi erano, dove erano….
GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA BUCCI No, non so niente di tutta questa storia io.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Con l’inchiesta Alto Piemonte che avanzava, probabilmente Bucci tentava di nascondere il suo denaro. Ma di quei soldi cosa sapevano gli ultras del suo gruppo? L’uomo che state per ascoltare è un ex membro dei Drughi. Uno dei collaboratori più stretti di Raffaello.
ULTRAS DRUGHI JUVENTUS Io sono incazzato nero.
FEDERICO RUFFO E perché saresti arrabbiato?
ULTRAS DRUGHI JUVENTUS Perché secondo me non s’è suicidato.
FEDERICO RUFFO Capisci però che se sai qualcosa per noi è fondamentale che tu ce lo dica.
ULTRAS DRUGHI JUVENTUS Ciccio è stato uno stupido. Non aveva bisogno di soldi, ok? E sapeva benissimo con la merda con cui aveva a che fare. I soldi fanno comodo a tutto a tutti e va bene. Abbiamo tutti i figli, anch’io ci arrangiavo qualcosa, però un conto è arrangiare qualcosa e ognuno a casa sua e un conto è avere determinati contatti, stretti come li aveva lui, che comunque creavano anche un vincolo. Lì si è spinto troppo oltre.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Un vincolo con i Drughi, il più potente gruppo ultras di Torino, dei quali aveva gestito le casse e con il loro leader da oltre 40 anni, Dino Mocciola. Un capo tanto discreto quanto temuto. Non usa il telefono, non usa internet, l’unica foto pubblica risale al 1989: quella scattata dopo l’arresto per aver rapinato un portavalori e partecipato con i suoi complici all’omicidio di un appuntato dei carabinieri che li aveva fermati per caso. Dal carcere Mocciola nomina Bucci ministro delle Finanze, ma quando esce si riprende tutto. É lui l’interlocutore privilegiato della ‘ndrangheta interessata agli affari della curva. É lui l’interlocutore della famiglia Dominello. Ma i rapporti tra Mocciola e Bucci erano peggiorati. Era noto, tanto che il giorno dei funerali…
GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Ero ferma al casello di San Severo, stavo aspettando che arrivasse il feretro e si ferma questa macchina nera tedesca. E scendono delle persone.
FEDERICO RUFFO Che vengono a parlare con voi?
GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Sì.
FEDERICO RUFFO É questa la persona che le ha detto queste cose?
GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Questo, sì.
FEDERICO RUFFO E si ricorda che cosa le ha detto?
GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Preferisco non dirlo.
FEDERICO RUFFO Posso chiederle perché?
GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Perché è una cosa che mi inquieta un po’.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO L’uomo nelle foto è Salvatore Cava, il braccio destro di Mocciola. E quello che Gabriella non vuole ripetere, è nei verbali della polizia. Cava le avrebbe detto: “Vengo dalla Germania, ero con Dino. Ti manda a dire che lui, con la morte di Raffaello, non c’entra nulla!”. Secondo un rapporto della Digos nel 2014 Mocciola aveva già picchiato Bucci: una lite violenta, talmente violenta da convincere Raffaello a fuggire.
GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Piangendo mi aveva detto che doveva sparire per un bel po’ di tempo perché altrimenti sarebbe finito male.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Dino Mocciola è un capo molto rispettato, perfino da alcuni calciatori. Leonardo Bonucci, quando è squalificato, va in mezzo ai Drughi a vedere la partita, in curva. É in rapporti confidenziali con loro. Questo è un sms di Bonucci contenuto nel cellulare di Bucci: “Come ha detto Dino (Mocciola), noi senza di voi non saremmo nessuno. Lo dico sempre anche agli altri che dicono che sono amico dei tifosi”. Dal momento dell’arresto dei Dominello, Saverio, boss indiscusso della ‘ndrangheta nell’alto Piemonte e di suo figlio ed erede al trono Rocco, l’uomo infiltratosi tra gli ultras della Juventus, secondo la Squadra Mobile, Mocciola si è defilato. Ma è il suo braccio destro, Salvatore Cava che tiene in riga i Drughi.
INTERCETTAZIONE DEL 01/09/2016, ORE 14.50 SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Te lo sto dicendo anche a te! Se anche tu hai la coscienza a posto, che non è successo niente e non avete detto niente, siete tutti a posto! Altrimenti a sto giro qua vi faccio spaccare il culo a uno per uno! A partire da te!
AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Non è stato massacrato nessuno e non è stato percosso nessuno. Anche ci fossero dei soldi ma di che soldi stiamo parlando?
FEDERICO RUFFO Di proventi del bagarinaggio.
AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Bagarinaggio noi non ne facciamo.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Bucci non è mai stato picchiato e bagarinaggio, i Drughi, non ne fanno. Queste intercettazioni però sembrano smentirlo.
INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Quanto glielo gonfiavi il biglietto?
INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO ROBERTO MAFFEI– ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Bah… ma massimo 40! Ma forse 40 son tanti…
INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Vogliam fare 70, lo mettiamo a 120? Ci dobbiam stare dentro eh…
INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO ROBERTO MAFFEI– ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Sì, sì, sì, sì…
INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Ok?
INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO ROBERTO MAFFEI– ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Sì, sì ci sta, giusto! Giusto!
INTERCETTAZIONE DEL 12/09/2016, ORE 16.37 AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS I biglietti che tu dovresti dare a quelli là che se ne vanno per cazzi loro, no?
INTERCETTAZIONE DEL 12/09/2016, ORE 16.37 AL TELEFONO MATTIA LOTTI – ULTRAS JUVENTUS Sì…
INTERCETTAZIONE DEL 12/09/2016, ORE 16.37 AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Glieli dai a 85 euro! Al posto di 55!
INTERCETTAZIONE DEL 12/09/2016, ORE 16.37 AL TELEFONO MATTIA LOTTI – ULTRAS JUVENTUS Ma come mai a 85? É tanto, eh! L’altra volta mi hai detto 55 e gliel’ho già detto! Ora che dico 85 mi mandano a cagare, tutto qua!
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Oltre alle intercettazioni anche le informazioni trovate sui cellulari di Bucci sembrano contraddire Cava: con le foto, ci sono anche i conteggi del bagarinaggio, partita per partita. Migliaia di tagliandi divisi tra i capi ultras che li richiedevano, tra cui Corona, il nome d’arte di Cava, e la ‘ndrangheta: Rocco Dominello, il figlio del boss Saverio. Ecco la loro quota. E in fondo alla pagina il conteggio finale degli incassi: decine di migliaia di euro 2, anche 3 volte alla settimana.
DAL PROCESSO CACCIA – 29/03/2017 MASSIMILIANO UNGARO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sono stato associato con la ‘ndrangheta, con la famiglia Crea, nella primavera 2014 fino a dicembre 2015.
DAL PROCESSO CACCIA – 29/03/2017 PUBBLICO MINISTERO Cosimo Crea si è mai occupato dei proventi del bagarinaggio e dei biglietti?
DAL PROCESSO CACCIA – 29/03/2017 MASSIMILIANO UNGARO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In un’occasione, per la finale di Champions League, tra Juventus e Barcellona. Che io sappia i biglietti erano stati presi dalla società, ma non son stati mai pagati, per cui ritengo che siano proventi illeciti.
MARCO DI LELLO – COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Alla ‘ndrangheta interessa mantenere il controllo delle curve perché da lì, come è emerso poi anche dal dibattimento, si lucravano risorse importanti. Poi sono i gruppi ultras a tenere più o meno sotto ricatto, comunque ad avere interlocuzione direttamente con la società.
FEDERICO RUFFO Siete riusciti a stimare, in un anno, quanto ogni singolo gruppo ultras riusciva a lucrare sul bagarinaggio?
MARCO DI LELLO – COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Per quanto ci abbiamo provato, la ricostruzione è inevitabilmente lacunosa anche perché la società ha cercato di limitare in ogni modo almeno nelle sue dichiarazioni, il fenomeno.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Ogni gruppo ultras a Torino ha un leader pluripregiudicato e, secondo la Digos, legato alla criminalità organizzata. Uno di questi è Andrea Puntorno.
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Dipende! Trenta, quaranta, venticinque…
FEDERICO RUFFO …mila euro?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì.
FEDERICO RUFFO Fa impressione…
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Perché fa impressione?
FEDERICO RUFFO Beh, insomma. Sono tanti! ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì, sono tanti.
FEDERICO RUFFO Parliamo comunque dell’incasso di una settimana?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Il business c’è, non è che non c’è: c’è. Io mi sono comprato due case, mi sono comprato un panificio, mia moglie stava bene. Io non lo nego, perché non è un reato che io ho fatto.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO 41 anni, siciliano, considerato vicino alla cosca dei Li Vecchi e uomo di fiducia del clan calabrese dei Macrì, quando lo incontriamo Puntorno ha l’obbligo di dimora ad Agrigento, dove sta finendo di scontare una condanna a 6 anni e mezzo per traffico internazionale di stupefacenti. Puntorno da 20 anni guida il gruppo ultras “Bravi Ragazzi”. Per la prima volta racconta il meccanismo a un giornalista.
FEDERICO RUFFO Devi ammettere che il nome “Bravi Ragazzi” può suonare un po’ equivoco…
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì…
FEDERICO RUFFO Come lo avete scelto?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Così, Bravi Ragazzi. Abbiamo scelto, è venuto, eravamo in 3… abbiamo tirato alla storia del film, che c’è i Bravi Ragazzi; ci è piaciuto…
FEDERICO RUFFO Quante persone fanno parte del gruppo?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” 600-700 persone… non tutte di Torino.
FEDERICO RUFFO Che non sono poche. Siete voi a occuparvi di rifornire dei biglietti tutte queste 600 persone?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì certo.
FEDERICO RUFFO Si sa che i gruppi ultras lucrano su quei biglietti. Tecnicamente si chiama bagarinaggio. Voi fate del bagarinaggio in qualche modo?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Io personalmente no, però c’era chi per me lavorava.
FEDERICO RUFFO Come funziona? Da dove arrivano i biglietti?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Vabbè i biglietti lo sapete da dove arrivano! Non è che te lo devo dire io…
FEDERICO RUFFO Dalla Juventus?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Ma è normale, no? Ma è stato sempre così!
FEDERICO RUFFO Cioè, la Juve ha sempre dato delle quote di biglietti agli ultras…
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì, sempre!
FEDERICO RUFFO E in che modo venivano stabilite queste quote?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Dipende: tra di noi ce la gestivamo senza problemi; chi ne aveva bisogno magari di 300, chi ne aveva bisogno di 500, ‘sta settimana a te… C’era il “quieto vivere”.
FEDERICO RUFFO Quanto ricaricavate sopra?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Di 100, di 200, dipende dalla partita.
FEDERICO RUFFO Dici, una partita molto importante si potevano ricaricare anche di 200 euro?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Juve Real Madrid 200, 300, dipende. Io mi sono comprato la casa con lo stadio, mi compravo l’Audi, giravo.
FEDERICO RUFFO Voi avevate dei rapporti con D’Angelo e Merulla?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” E certo! Io li avevo!
FEDERICO RUFFO Si sono mai creati attriti per questioni economiche?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Magari gli chiedevi 300 biglietti e te ne davano 250, te ne davano 200 capito? perché…
FEDERICO RUFFO E in quel caso come ci si comportava con loro?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Dovevamo fare lo sciopero in curva, dovevamo fare qualche bomba, magari gli facevamo prendere un verbale, magari - capito? - facciamo qualche scaramuccia…
FEDERICO RUFFO Voi facevate in modo che loro potessero essere multati…
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Bravo…
FEDERICO RUFFO È quindi il danno economico diventava tale che gli conveniva di più dare i biglietti che non stare a questionare.
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Bravo. Ma questa è sempre stata una cosa degli ultras.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Alla fine della stagione la torta da spartire è circa un milione e mezzo. E così la ‘ndrangheta e gli ultras giungono ad uno storico accordo. E a renderlo possibile sarebbe stata la mediazione di un solo uomo.
DAL PROCESSO CACCIA – 24/11/2016 PLACIDO BARRESI Placido Barresi, nato a Messina il 2/12/52. Ho fatto sempre il bandito nella vita.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Braccio armato del boss Domenico Belfiore, reo confesso di quattro omicidi, sospettato di almeno dieci, condannato all’ergastolo, Placido Barresi viene ricordato nei libri di storia criminale come uno dei re di Torino per quasi un trentennio: avrebbe messo tutti d’accordo dal carcere. Dopo aver scontato quasi trent’ anni, oggi beneficia del permesso diurno per lavorare.
FEDERICO RUFFO Son venuti da lei a chiederle se poteva fare da paciere perché stavano litigando per i biglietti e si volevano ammazzare fra di loro per i biglietti? Quindi è segno che comunque ci guadagnavano, non erano pochi soldi.
PLACIDO BARRESI – MEMBRO CLAN BELFIORE E beh, guardi che a un certo punto mica entrano solo i Dominello, lì: entra tutta la Calabria unita, eh.
FEDERICO RUFFO Negli atti non c’è.
PLACIDO BARRESI – MEMBRO CLAN BELFIORE E non c’è, però se facessero un po’ più di attenzione.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Prima di congedarci, Barresi ci racconta la sua teoria sulla morte di Bucci: si sarebbe ucciso, ma sotto ricatto.
PLACIDO BARRESI – MEMBRO CLAN BELFIORE Volevano i soldi indietro. Se hanno scoperto i soldi…
FEDERICO RUFFO Se gli hanno solo menato, è perché volevano indietro i soldi?
PLACIDO BARRESI – MEMBRO CLAN BELFIORE E la minaccia al figlio. “Guarda che ti prendiamo tuo figlio”.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO È il suo punto di vista, ma coincide perfettamente con quello del manager della security Alessandro D’Angelo; Bucci è morto da meno di mezz’ora. E lui telefona a un ultrà.
AL TELEFONO GIUSEPPE FRANZO – ULTRAS JUVENTUS M… che dramma.
AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Aveva paura di essere ammazzato, Beppe, continuava a dirci che era un uomo morto. Non capivamo cosa c… dicesse. Ieri continuava a dirci: “Sono un uomo morto!”. Per paura che gli ammazzassero il figlio si è ammazzato lui.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO E l’idea che Bucci temesse per la vita del figlio, D’Angelo la ripete più volte in quei minuti concitati, anche al telefono con Francesco Calvo.
AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Lui aveva paura che lo ammazzassero, se non era lui, era il figlio. Quindi ha deciso di provvedere lui prima che andassero a toccare suo figlio.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Poco dopo chiama anche uno dei leader della squadra: Bonucci.
INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Leo?
INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO LEONARDO BONUCCI – CALCIATORE JUVENTUS F.C. Sì…
INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Ho un problema: Ciccio s’è ucciso…
s’è suicidato Ciccio!
INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO LEONARDO BONUCCI – CALCIATORE JUVENTUS F.C. Non ci credo!
INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Non sono riuscito a fermarlo! Si è suicidato stamattina, si è lanciato da un ponte. Aveva paura di qualcosa. Era terrorizzato.
INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO LEONARDO BONUCCI – CALCIATORE JUVENTUS F.C. Quando era andato? L’altro ieri mattina?
INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. È andato ieri mattina lui! È andato ieri mattina a parlare al Palazzo di Giustizia, è uscito sconvolto. Ha avuto paura, si vergognava di me, gli dicevo: “Ma non ti preoccupare, me l’hai messa nel c…, la risolvo, non ti preoccupare!”. Mi ha detto: “No, no, perdonatemi, perdonatemi, perdonatemi”. Non aveva paura di noi, io son convinto che non avesse paura di noi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Era terrorizzato Bucci. E che cosa voleva farsi perdonare dal capo della security D’Angelo? Il fatto che aveva testimoniato ai magistrati che Rocco Dominello era una figura importante per il mantenimento dell’ordine pubblico all’interno delle curve. E questo particolare, dice Bucci ai magistrati, gli era stato confidato proprio da D’Angelo. Ecco, Rocco Dominello, che è il figlio di un boss, Saverio, condannato nel ’96 per mafia (e nel 2012 vengono arrestati con la stessa accusa anche i due fratelli), lui invece, Rocco, era pulito, era nullatenente e andava in giro con una Jaguar. E grazie alla sua amicizia con Fabio Germani, un altro ultrà, condannato anche lui poi dopo per associazione e per concorso esterno alla mafia, e a capo di una fondazione, l’Italia Bianconera, amico di Moggi, amico di Lapo Elkann, era riuscito attraverso Germani a tessere una ragnatela: avvolgere i giocatori e i dirigenti finanche ad arrivare allo scranno più alto.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Il direttore sportivo della Juve, Beppe Marotta, nell’ottobre del 2013, in occasione di Juve - Real Madrid, lascia cinque biglietti della sua riserva personale a Rocco Dominello, figlio del boss. Questo è lo scambio di messaggi con un intermediario, con tanto di preghiera finale: “Massima riservatezza mi raccomando”. Qualche mese dopo, ancora Marotta incontra in un bar Dominello che gli chiede di far sostenere un provino per le giovanili a un ragazzo: si tratta del figlio di Umberto Bellocco, esponente di spicco del clan di Rosarno. Il provino lo farà, ma poi verrà scartato.
GIORNALISTA Agnelli è il grande presidente?
LAPO ELKANN Mio cugino ha fatto un lavoro della madonna come tutti i suoi, tutti gli uomini intorno a lui, tutte le persone che lavorano nella Juve: dal raccattapalle, allo chef, all’allenatore, al giocatore, tutti.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Nel giorno della vittoria del primo scudetto del nuovo ciclo, Lapo riconosce al cugino Andrea i meriti per il lavoro fatto; ma nel 2009 aveva puntato lui allo scranno più alto della società. Lapo secondo quanto raccontato da Dominello ai magistrati, avrebbe incontrato nella primavera del 2009 il figlio del boss, prima della comunione della figlia di Fabio Germani, ultrà presidente della fondazione Italia Bianconera e molto vicino ai dirigenti della Juve. In quell’occasione, gli avrebbe espresso il desiderio di vedere esposti degli striscioni in curva con su scritto “Lapo Presidente”.
LAPO ELKANN Una goduria.
INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Senti una cosa, ma il tuo amico Lapo che fine ha fatto?
INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” L’ho sentito stamattina, è in Svizzera.
INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Lo fissiamo ‘sto appuntamento?
INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” No, questo periodo non esiste.
INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Perché?
INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Eh, perché domani parte va in America…
INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS “Vabbuò, fissa un appuntamento. Se vuole un appoggio, fissa un appuntamento, sennò andate a f… tu, lui, la Juve… tutti quanti!”.
INTERCETTAZIONE ABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Ma tu lo sai che lui l’appoggio lo vuole?
INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Lui mi deve dire “sì, sono veramente intenzionato…” e io faccio fare gli striscioni sia da una parte che dall’altra, tutti per lui. Però allora mi devi dire quanto veramente ci tiene. Perché io ti giuro che sia di qua che di là facciamo fare tutto quello che lui vuole.
INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Ho parlato con Lapo fino a un’ora fa.
INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Ah eri con Lapo e non mi hai chiamato, bravo… bravo.
INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Si è scaricato il telefono! Martedì, cosa fai martedì?
INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Martedì niente, perché?
INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Se vuoi andiamo in barca da Lapo.
INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Ma dove?
INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” A Saint Tropez.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO La gita poi è saltata. E lo striscione non fu mai esposto. Ma chiunque avesse un problema, chiedeva aiuto ai Dominello. Anche Fabio Cannavaro, capitano della nazionale e Pallone d’Oro, dopo la parentesi al Real Madrid, dove era andato dopo lo scandalo Calciopoli, torna alla Juve e viene contestato. Secondo quanto sostenuto da Germani in questa telefonata, avrebbe chiesto aiuto a Dominello per fermare la contestazione.
INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Te l’ho detto. Lo vedo stasera Cannavaro. Abbiamo parlato di te anche. Dice: “Fabio, io lo so che gli unici siete tu e Rocco, che la Juve sta facendo dei casini, che tu non ne vuoi sapere della Juve”. E lui mi ha detto: “io non voglio mettere in mezzo la Juve” lui Cannavaro. E poi mi ha spiegato un bel po’ di cose. Io lunedì sera dovrei mangiare con De Ceglie. Se vuoi venire…
INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Vabbè intanto ci vediamo, ci organizziamo.
INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Va bene dai. Ok ciao ciao.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Vincenzo Iaquinta. Per lui i magistrati antimafia di Bologna, hanno chiesto sei anni di carcere per reati connessi alle armi con l’aggravante mafiosa, 19 anni per il padre. Iaquinta era anche il centravanti della nazionale
INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Scandaloso! Vabbè da una parte è anche buono così Iaquinta rientra!
INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Sì è giusto così. Un’ Italia che gioca così è giusto che va fuori.
INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Dai quando rientra andiamo a mangiare, dai…
INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Va bene.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Alessandro D’Angelo, il security manager, nell’estate del 2012 raggiunge in ferie Rocco Dominello a Tropea. Insomma, erano amici: al punto che D’Angelo, al telefono, ammette di conoscere cosa fanno gli ultras e i calabresi con i biglietti.
INTERCETTAZIONE AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Il tuo gruppo probabilmente è composto da 300 persone, quindi io ti permetto di fare, purtroppo a malincuore, business. Ma questo lo faccio non perché mi sei simpatico, semplicemente perché voglio la tranquillità. È inutile che ci nascondiamo: io voglio che voi stiate tranquilli e che noi stiamo tranquilli e che viaggiamo insieme.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO E insieme erano andati anche, secondo quanto riferito dal figlio del Boss ai magistrati, da Andrea Agnelli: e più volte. Ma Agnelli, che va detto non è mai stato indagato alla Procura, ha fornito risposte diverse in momenti diversi. Prima ha negato, poi ha detto di non ricordare e poi che potrebbe averlo incontrato, ma senza sapere chi fosse Rocco Dominello.
MARCO DI LELLO – COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA (LUGLIO 2013-MARZO 2018) Il presidente Agnelli ha dichiarato di non averne ricordo, ma da una serie di risultanze pare abbastanza chiaro che il Dominello avesse accesso anche agli uffici anche privati della società.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Agnelli e il suo responsabile della security D’Angelo, hanno dichiarato di non aver mai avuto contezza dello spessore criminale di Rocco Dominello. Uno dei leader dei Viking, la colonna milanese della curva bianconera, ci racconta di un episodio avvenuto tre anni prima degli arresti dell’indagine Alto Piemonte; l’inchiesta era appena partita e in teoria doveva essere segreta.
ULTRAS “VIKING” A noi Alessandro D’Angelo, nel lontano 2013, ci dice che c’è un’indagine dei carabinieri in curva per la storia dei calabresi. Ci dice a me, Grancini e un altro ragazzo…
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Ma anche Raffaello Bucci, braccio destro dello slo della Juve, era a conoscenza da tempo dell’inchiesta sui calabresi.
PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Un anno prima lui mi aveva detto testuali parole: “Io so per certo che alla fine di questo campionato” – ovvero a giugno – “scoppierà la bomba. E quindi io come tanti altri all’interno della curva, ci stiamo organizzando.”
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Se Bucci sapeva e se anche il capo della Security della Juve sapeva delle indagini sui calabresi, come facevano in società a non sapere che Rocco Dominello fosse il figlio del boss? Forse erano rassicurati dal fatto che Rocco Dominello venisse ricevuto perfino dalle istituzioni.
ULTRAS “VIKING” Rocco Dominello veniva a parlare per conto dei Drughi in questura. Cioè, non in un bar, nascosti sotto ad un portico: in questura.
FEDERICO RUFFO Possibile che il figlio di un boss di quella caratura entrasse in questura a partecipare alle riunioni sulla sicurezza e nessuno sapesse chi era?
MARCO DI LELLO – COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA (LUGLIO 2013 – MARZO 2018) Sul fatto che nessuno sapesse noi abbiamo avanzato più di un dubbio. Stiamo parlando di un signore ufficialmente nullatenente e disoccupato, che andava in giro con una Jaguar e con un tenore di vita decisamente alto. Ma certo, per molti anni la sensazione è che si è fatto finta di non vedere e di non capire.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Altri capi ultras con rapporti con la malavita organizzata incontrano Agnelli. Ad esempio Loris Grancini, leader dei Viking, secondo la procura vicino al clan mafioso dei Rappocciolo; ultimo domicilio conosciuto, il carcere di Opera dove sconta una condanna a 13 anni e 11 mesi per tentato omicidio.
Da fanpage.it – 30/03/2017 LORIS GRANCINI – CAPO VIKING È vero, sono molto vicino alla cosca dei Rappocciolo. È la mamma di mia moglie, non ha nessun fratello uomo in vita, l’ultimo è morto otto anni fa.
RAFFAELLA FANELLI Hai mai incontrato Andrea Agnelli?
LORIS GRANCINI – CAPO VIKING In occasione dell’inizio dell’anno per parlare di nuovo anno, tifoseria, mi ha detto di coreografie, farci i complimenti.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO È il 5 maggio del 2018, la Juventus ospita il Bologna. A distanza di due anni dall’arresto dei Dominello, i Drughi li troviamo al loro posto a fare affari come sempre. E c’è chi fa bagarinaggio.
COMPONENTE DRUGHI? C’erano dei ragazzi siciliani che me li hanno ordinati, non sono potuti venire e li ho dati a loro; mi hanno telefonato loro.
FEDERICO RUFFO Non è bagarinaggio secondo voi questo?
COMPONENTE DRUGHI? No, quello non è bagarinaggio. Non è che loro…
FEDERICO RUFFO Cioè non l’hanno pagato di più?
COMPONENTE DRUGHI? No, no.
FEDERICO RUFFO Quindi voi non vendete mai i biglietti a una cifra…
COMPONENTE DRUGHI? No, a prescindere che non ce li abbiamo biglietti…
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Loro i biglietti neanche li hanno. Guardate che succede ora. Arriva un altro ultrà alle spalle e - vedete? – gli ha passato una tessera del tifoso. È con quella che cambiano i nomi sui biglietti appena rivenduti. E il tutto avviene davanti agli occhi degli addetti alla sicurezza dello Juventus Stadium.
ADDETTO ALLA SICUREZZA Hanno la bancarella fuori in curva Sud. Sono gli unici autorizzati. Vai a sapere come mai sono gli unici!
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO La bancarella dei Drughi si trova subito fuori la recinzione dello Stadium. La competenza è del Comune che però in quel punto non rilascia licenze per ragioni di sicurezza. Eppure i Drughi fino alla fine della passata stagione erano lì a vendere.
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Tutto lì si fa, tutto allo stadio si fa.
FEDERICO RUFFO Cioè lì a quella bancarella i Drughi vendono anche…
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” No, ma in tutto davanti il piazzale. Il piazzale è nostro.
FEDERICO RUFFO Quello della curva?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Già. Siamo noi che lo gestiamo! Noi avevamo dentro.
FEDERICO RUFFO Dentro lo stadio?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì. Dentro lo stadio.
FEDERICO RUFFO E lì come funziona? C’è un accordo, c’è una licenza? C’è un accordo?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” No, non c’è niente. Abusivamente. Ma è una cosa normale per lo stadio, capito? Io il 28 sono libero. Me ne vado di nuovo su per andare a metter lo striscione.
FEDERICO RUFFO Perché attualmente lo striscione dei “Bravi Ragazzi” non c’è?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Non c’è. Perché hanno fatto diffida a me e allo striscione capito? Senza che ce l’ho intestato io lo striscione. È questa la cosa…
FEDERICO RUFFO E quindi ora come pensi di fare per ripristinare lo striscione?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Dovrò andare a parlare alla Juventus.
FEDERICO RUFFO E credi che ti riceveranno?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Eh?
FEDERICO RUFFO Credi che ti riceveranno?
ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Certo. FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Bryan Herdocia detto “Lo squalo”: 12 anni di Daspo, un arresto nel 2015 dopo una rissa coi tifosi della Fiorentina, una perquisizione nella quale gli vengono sequestrate due pistole, una mazza da baseball, un coltello e 80 carte d’identità false. Servivano per intestare i biglietti per lo stadio a gente inesistente ed erano fatte così bene che lo squalo è stato uno dei più importanti bagarini dello stadio; e lo è ancora oggi: nonostante il Daspo gestisce tutto direttamente da casa sua.
BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Ad esempio ti faccio vedere questa cosa qua se riesci a vederla. Questo è un biglietto della finale di Berlino.
FEDERICO RUFFO Sì, Juve - Barça.
BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Bravissimo, questo biglietto ad origine veniva 220 euro. 1500 euro a biglietto.
FEDERICO RUFFO 1500 a biglietto?
BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Solo io da solo ne ho piazzati 13.
FEDERICO RUFFO Tu i biglietti per Juve Barcellona che si giocava a Berlino, quindi non nello stadio della Juve, da chi li hai presi?
BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Allora io i biglietti ti dico li ho reperiti direttamente dalla curva.
FEDERICO RUFFO Di questa vicenda della ‘ndrangheta, dei Dominello, di Rocco, voi quanto sapevate? Cioè si sapeva chi era Rocco?
BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Io so che quando ho piazzato i biglietti nel 2015 fuori dal Bernabéu, ho piazzato dei biglietti per loro, perché quando Pippo che mi dava i biglietti era nervoso perché un aereo è arrivato in ritardo e la gente non arrivava e servivano subito i soldi, era andato in tilt perché mi diceva: “Tu lo sai di chi sono questi biglietti? Ma tu lo sai questi soldi a chi vanno? Ma se questi non arrivano in tempo e non pagano poi qua finisco male…”
FEDERICO RUFFO Qua io finisco male ti ha detto?
BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Sì, ma sì, perché questo aveva paura.
FEDERICO RUFFO Raffaello Bucci di tutto questo cosa sapeva?
BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Raffaello sapeva tutto.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Lo Squalo ci mostra una chat dello scorso marzo con il braccio destro di Mocciola, Salvatore Cava, in occasione di Tottenham - Juventus, ottavi di finale di Champions League. Hanno venduto 250 sterline l’uno biglietti che ne costavano 35.
FEDERICO RUFFO Fino allo scorso anno, alla fine della stagione dello scorso anno, comunque i Drughi continuavano a fare bagarinaggio?
BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Certo.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Secondo quanti ci riferisce, lo squalo avrebbe piazzato biglietti anche fino a pochi giorni fa, questa è una chat dello scorso 18 settembre, il giorno di Valencia – Juve, Champions League. Questo il prezziario dei biglietti da piazzare: 95 euro. Questi i biglietti per Juve-Lazio, il 25 agosto.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lo “squalo” fa bagarinaggio da casa colpito da Daspo, cioè non può andare allo stadio, ma lo fa per i Drughi, cioè per quel gruppo che fa riferimento al pregiudicato Dino Mocciola e anche a Rocco Dominello, almeno fino a prima che lo arrestassero. Ecco, ma da dove arrivano i biglietti? Non lo sappiamo. Abbiamo segnalato alla Juventus il fatto che abbiamo raccolto testimonianze che il bagarinaggio continua anche dopo l’inchiesta giudiziaria; e abbiamo anche chiesto se fosse vero che il suo capo della security avesse confidato ad un ultrà l’esistenza di un’indagine anni prima, un’indagine sui calabresi. Ecco, hanno preferito tutelarsi dietro il riserbo. E che cosa ha detto il presidente Agnelli in tema di sicurezza? Ha detto che la gestione avveniva attraverso una triangolazione: la Juventus parla con gli ultrà e le forze dell’ordine, gli ultrà parlano con la Juventus e le forze dell’ordine e le forze dell’ordine parlano con ultrà e Juventus. Tutto vero: poi però c’è la sentenza della giustizia penale. Le motivazioni dei giudici della Corte d’Appello sono uscite pochi giorni fa e scrivono, riconoscono la sussistenza del metodo mafioso anche nei confronti della Juventus, seppure con modalità non apertamente intimidatorie perché non ve n’era bisogno”; la Juventus, scrivono, “era ben disposta, come emerso da testimonianze e intercettazioni, a fornire agli ultrà cospicue quote di biglietti e abbonamenti perché li rivendessero e ne traessero benefici, utili, ottenendo come contropartita l’impegno a non commettere azioni violente”. Ecco, insomma, la Juve, secondo i magistrati non è parte lesa, né si è costituita parte civile. Ma è questa l’idea di legalità? Che lo stadio e la sicurezza viene gestita dai capi ultrà pregiudicati? Insomma, da una parte organizziamo ronde per fermare i “vucumprà” che vendono merce abusiva, dall’altra lasciamo che lo stadio sia una zona franca, dove ci sono pregiudicati che incassano milioni di euro in nero, dove c’è gente che risulta nullatenente e va in giro con Jaguar e magari ce la ritroveremo tra coloro che percepiranno il reddito di cittadinanza, se non facciamo attenzione. Di tutto questo ha colpa anche la politica, che nelle curve trova linfa elettorale. Il reato di bagarinaggio è un semplice reato amministrativo, e c’è una riforma, ma è ferma da anni in un cassetto. Poi sarebbe anche vietato e punibile con l’arresto fino a un anno chi introduce striscioni con frasi ingiuriose…
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Febbraio 2014, durante un derby col Torino, i tifosi espongono due striscioni che inneggiano alla tragedia di Superga. La condanna e unanime e rievocano il dolore di chi come Sandro Mazzola, ha perso il padre Valentino.
SANDRO MAZZOLA C’è qualcuno che allo stadio porta certi striscioni, ma non c’entra la dirigenza di quella società che son persone eccezionali. Ma quello stadio va chiuso. Per un anno chiuso!
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Anche Andrea Agnelli esprime il suo sdegno; lo fa con un tweet: “No agli striscioni canaglia”. Ma dalle intercettazioni emerge che fu proprio il responsabile della sicurezza D’Angelo insieme a Raffaello Bucci – all’epoca un semplice ultrà – a trattare e fare entrare quegli striscioni.
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Come ti posso aiutare domenica?
INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Eh, mi devi aiutare fratello, perché io ho fatto il lavoro… però mi devi aiutare.
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Eh dimmi come: gli striscionisti immagino.
INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Eh no, devi capire Ale.
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Eh aiutami… Ah, ho capito.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Per non scioperare, gli ultras vogliono che il capo della security D’Angelo, trovi il modo di far entrare gli striscioni vietati. La Juve dovrà pagare una multa per questo, tuttavia lui è disposto sia ad aiutarli che a pagare la multa. Tutto, pur di accontentare i Drughi.
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Tanta roba?
INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Quanta multa vuoi prendere?
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Io fino a 50 mila.
INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Non ce la fai, non ce la fai compa’!
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. No ti prego, non Superga…
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO E invece, Superga sì. D’Angelo è così sotto scacco che non può trattare. Il responsabile della sicurezza deve solo trovare il modo di aggirarla, la sicurezza.
INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Arrivo già armato, pronto.
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Minchia, ma in zaini ce l’hai?
INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS E dove cazzo li metto?
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Eh appunto, quanti zaini?
INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Ma saranno due zaini. INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Va bene, va bene, ok.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Gli unici furgoni a non essere controllati, sono quelli di panini e bibite: e li usano come cavallo di Troia per far passare gli zaini con dentro 20 metri di striscioni che inneggiano alla morte di 31 persone innocenti. Per questo contatta il direttore dei ristoranti dello stadio.
FEDERICO RUFFO Le hanno dato questo zaino e le hanno detto “mi porti dentro questa roba domani”?
ROBERTO PASQUETTAZ – RESP. CATERING JUVENTUS STADIUM In realtà mi pare di ricordare fosse proprio il giorno stesso. Questo non è avvenuto neanche attraverso me, ma è avvenuto attraverso uno dei miei uomini.
FEDERICO RUFFO Anche Agnelli sapeva che il suo manager della sicurezza il giorno del derby stava trattando con Ciccio Bucci, il pluripregiudicato Dino Mocciola e Rocco Dominello per evitare lo sciopero.
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Andrea...
INTERCETTAZIONE ANDREA AGNELLI - PRESIDENTE JUVENTUS F.C. Ohi.
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Due ore fa è venuto poi Ciccio a dirmi: “So che ti incazzerai. Ho parlato con Dino che ha parlato con quelli di Milano. Non cantano al primo tempo, cantano al secondo”. Io gli ho detto: “No, gli accordi erano diversi, io non mi esponevo come ho fatto, sto per fare una figura di merda che non avrei mai voluto fare, ma è l’ultima che faccio per voi”.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Ma il giorno dopo la partita, D’Angelo viene convocato in fretta e furia da Agnelli.
INTERCETTAZIONE ANDREA AGNELLI - PRESIDENTE JUVENTUS F.C. No, ma infatti so quella solo, son gli zaini, entrano gli striscioni, cioè… È l’unica.
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Eccomi.
INTERCETTAZIONE ANDREA AGNELLI - PRESIDENTE JUVENTUS F.C. Dove sei? Quando hai finito vieni da me.
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Sì sì, sto finendo e arrivo.
FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Nell’ufficio di Andrea Agnelli, D’Angelo scopre di essere stato ripreso dalle telecamere. Tutti sanno che è stato lui.
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Ti devo fare una confessione, te la dico, cerca di capirmi: mi hanno beccato domenica, eh!
INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS F.C. L’han beccato?
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Mi hanno. Lo zaino.
INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Sì?
INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Sì, ma ho riso perché sono arrivato su dal Presidente, erano andati dal Presidente. Mi ha detto: “Ale sei un ciucco, ti hanno beccato!” Gli ho detto: “Non avevo dubbi che il sistema funzionasse di telecamere”. L’ho detto, a chi dovevo dirlo. C’era il direttore dello stadio e gli ho detto: “Francesco, non te la prendere”. Lui mi ha detto: “No, ma a me va benissimo, tu puoi fare il c… che vuoi, se me lo dici ti aiuto!”. Gli ho detto: “Io non volevo coinvolgere nessuno, visto che è una porcheria assurda che ho fatto”.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Su questo siamo tutti d’accordo. Dalle intercettazioni è emerso che il presidente Andrea Agnelli, pur conoscendo la trattativa in essere con i tifosi, non era a conoscenza che era stato proprio il suo capo della security a far entrare lo striscione controverso, insomma così, che aveva creato tante polemiche. Lo scopre il giorno dopo. Tuttavia non denuncia. Anzi, qualche mese dopo viene assunto anche Raffaello Bucci, l’altro autore dello striscione, come uomo che teneva rapporti tra ultrà, dirigenza e forze dell’ordine. Ecco, tutto questo è emerso grazie alle intercettazioni dei magistrati antimafia. La Juventus ha rischiato seriamente di essere infiltrata dalla ‘ndrangheta; se questo non è avvenuto è perché ha degli anticorpi forti, più forti di altri. Però un suo uomo comunque ha perso la vita per quel contesto che abbiamo raccontato, che è un contesto, attenzione, che non riguarda solo la Juventus; riguarda molte altre squadre. La commissione parlamentare ha fatto un dossier, questo, dal quale emerge, sono 100 pagine circa, dal quale emerge che il calcio è infiltrato dalla mafia. Attraverso i rapporti con gli ultrà, attraverso i finanziamenti e l’acquisizione di quote societarie o attraverso il rapporto diretto con i calciatori e la gestione del calcio scommesse. E poi gli stadi sono diventati megafono di chi è al 41 bis, al carcere duro, che riesce a comunicare all’esterno grazie agli striscioni. Ecco, ma il ministro dell’Interno, il sottosegretario Giorgetti con delega allo sport, il ministro della Giustizia, il Coni, la Figc, gli organi di controllo, questo dossier l’hanno letto? Perché è anche una questione di democrazia: controllare una squadra di calcio significa controllare il consenso. Questa è la maglia che indossava Bucci, la maglia ufficiale: ce l’ha regalata durante la nostra inchiesta il figlio, che è ancora innamorato della sua squadra. Se vogliamo che il calcio continui ad essere l’arte dell’impensabile, dell’imprevedibile, che quando meno te l’aspetti un nano dia una lezione di calcio a un gigante, come scriveva Galeano nel suo libro “Splendori e miserie del calcio”, dobbiamo rimboccarci le maniche tutti: politici, forze dell’ordine, dirigenti del calcio e anche noi giornalisti che abbiamo privilegiato in questi anni il racconto dell’epica o della tragedia sportiva, meno quello del fango. Se vogliamo continuare a raccontare il calcio, altrimenti rischieremo di raccontare un calcio dove neanche più l’erba è vera, la dipingono di verde per non rovinare lo spettacolo.
PARLIAMO DELL’ITALIA DEI BAGARINI. GLI AVVOLTOI DEL BIGLIETTO ONLINE.
Stefano Vitelli, il gip del tribunale di Torino, nell'ordinanza di custodia cautelare siglata a carico di 18 persone, nessuna delle quali appartenente alla Juve ed indagate in prevalenza per associazione mafiosa, dà conto di un "preoccupante scenario". Di fatto, per il gip, biglietti delle partite e soldi andavano spartiti per garantire la calma in tribuna. Scrive vitelli che "alti esponenti di una importantissima società calcistica a livello nazionale e internazionale (la Juventus,) hanno consentito di fatto un bagarinaggio abituale e diffuso come forma di compromesso con alcuni esponenti del tifo ultrà".
Lo scrive il gip di Torino: "Alti esponenti Juve permisero bagarinaggio", scrive “Cronaca Qui” l’11 luglio 2016. L'ultima inchiesta sulla presenza della 'Ndrangheta in Piemonte ha fatto emergere il "preoccupante scenario" che ha visto "alti esponenti di una importantissima società calcistica a livello nazionale e internazionale (la Juventus - ndr) consentire di fatto un bagarinaggio abituale e diffuso come forma di compromesso con alcuni esponenti del tifo ultras". Lo scrive il gip del tribunale di Torino Stefano Vitelli nell'ordinanza di custodia cautelare siglata la scorsa settimana a carico di 18 persone, nessuna delle quali appartenente alla Juventus, indagate in prevalenza per associazione mafiosa. Si tratta di un filone secondario dell'inchiesta della Dda torinese. Il giudice è del parere che sia stato questa politica ("voi non create problemi di ordine pubblico e noi vi facciamo guadagnare con i biglietti") a suscitare le attenzioni delle cosche. "Avere consentito da parte di taluni responsabili della società juventina un sistema di questo tipo - scrive - ha determinato, fra l'altro, la formazione di un importante giro di facili profitti su cui, come era facile prevedere, hanno messo gli occhi e poi le mani anche le famiglie mafiose operanti in zona, creando un pericoloso e inquietante legame di affari tra esponenti ultras e soggetti appartenenti a cosche mafiose". Sono state diverse le persone ascoltate in questi giorni in procura, a Torino, nell'ambito dell'inchiesta sui tentativi di infiltrazione della 'Ndrangheta negli ambienti della tifoseria della Juventus. Fonti vicine alla società bianconera affermano comunque che non si tratta di esponenti del club. E' la procura di Cuneo, intanto, a svolgere gli accertamenti sul caso di Raffaello Bucci, il capo ultras dei Drughi morto suicida l'8 luglio (il giorno dopo essere stato interrogato come testimone dagli inquirenti). L'uomo si è gettato da un viadotto dell'autostrada Torino-Savona all'altezza di Fossano, nel Cuneese.
Raffaello Bucci, giallo morte ultras Juventus: ‘ndrangheta, bagarinaggio…, scrive l'11 luglio 2016 "Blitz Quotidiano". C’entra la ‘ndrangheta nella morte di Raffaello Bucci, 41 anni, ultrà della Juventus che faceva da “anello di congiunzione tra le tifoserie e la società? Se lo domanda Marco Bardesono sul Corriere della Sera, sottolineando la strana coincidenza della morte di Bucci proprio dopo essere stato interrogato dai pubblici ministeri che indagano sulla gestione, da parte di una cosca della ‘ndrangheta, del bagarinaggio allo stadio. Bucci era consulente per la sicurezza della biglietteria della Juve, e il giorno dopo essere stato interrogato come testimone si è buttato dal viadotto Torino-Savona, lo stesso dal quale si era gettato nel 200 Edoardo Agnelli, figlio di Gianni Agnelli. Forse, è l’ipotesi di Bardesono del Corriere della Sera, chi era coinvolto pensava che Bucci avesse fatto dei nomi. Spiegano Ottavia Giustetti e Jacopo Ricca su Repubblica: Il giorno prima era stato sentito dal magistrato di Torino Monica Abbatecola come testimone nelle indagini che hanno portato, lunedì scorso, all’arresto di 18 persone accusate di associazione mafiosa. Tra quelli dei presunti boss e malavitosi spicca il nome di Fabio Germani, storico capo ultrà bianconero. E nelle carte dell’indagine compare anche il direttore generale della Juventus, Beppe Marotta, che non è indagato. La polizia sta cercando di ricostruire tutti i movimenti e i contatti di Raffaello Bucci nelle ultime ore, prima del suicidio. Non è stato trovato né un biglietto né un messaggio e nessuno sa dare una spiegazione al suo gesto. Al contrario, quelli dell’entourage Juve, che lo conoscono, raccontano che era molto gratificato per il nuovo incarico fiduciario che gli era stato dato dai dirigenti della squadra. La sola ombra che segna la sua vita negli ultimi tempi è la scomparsa della madre. Ma gli investigatori sospettano che possa esserci un legame tra la sua morte e la vicenda per la quale è stato convocato in procura. Dal verbale della sua deposizione risultano incertezze e contraddizioni. E non si esclude che qualcuno lo abbia avvicinato per conoscere il contenuto dell’interrogatorio. Forse un incontro così sconvolgente da spingerlo a farla finita. Il tentativo di infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle tifoserie organizzate era già stato raccontato nell’inchiesta San Michele. E ripreso pochi giorni fa da Roberto Saviano sul suo blog: “Alcuni boss sarebbero partiti in aereo dalla Calabria alla volta di Torino per assistere gratis, allo stadio, il 5 aprile 2006, a Juventus-Arsenal”. “Fummo accolti da un ragazzo che ci consegnò i biglietti in una busta – è scritto nelle carte – non pagammo”. Sette anni dopo, la scena si ripete. Questa volta è il capo ultrà Fabio Germani che ritira il pacco di biglietti alla reception dell’hotel dove la squadra si ritira prima delle partite. Sono per il boss Rocco Dominello, che cerca ticket da rivendere per l’incontro Real Madrid-Juve del 23 ottobre 2013. A farglieli recapitare al Principi di Piemonte è Giuseppe Marotta in persona. Raccomandata la “massima riservatezza”. Qualche tempo dopo, i tre si incontrano in un bar della città. Questa volta Rocco Dominello chiede a Marotta di organizzare un provino per un giovane calciatore figlio dell’amico Umberto Bellocco, del clan di Rosarno. (…) E l’appuntamento viene seguito dai poliziotti, che intercettano un giro di email per organizzare il provino. Ma il giovane Bellocco non sarà mai ingaggiato. Bucci veniva considerato un testimone importante come Dino Geraldo Mocciola, 52 anni, leader storico dei “Drughi” della curva bianconera. Anche di lui si sono perse le tracce. È stato convocato in Procura, ma non si è presentato. I poliziotti lo cercano da giorni, invano.
Raffaello Bucci: ‘ndrangheta negli Ultrà Juve, i “Gobbi” bagarini dietro il giallo della morte, scrive il 12 luglio 2016 Edoardo Greco su "Blitz Quotidiano". Il giallo della morte del capo ultrà juventino Raffaello Bucci detto “Ciccio”, caduto dallo stesso ponte di Fossano dal quale si era buttato Edoardo Agnelli, scoperchia una situazione non del tutto sconosciuta a chi frequenta o conosce la curva bianconera. Una realtà riassumibile in due punti e che può spiegare come mai il quarantunenne capo ultrà dei “Drughi” possa essere stato indotto al suicidio da minacce pesantissime o possa essere stato direttamente “suicidato”:
1. la ‘ndrangheta ha infiltrato i gruppi ultrà della Juventus, arrivando a formarne uno, di gruppo, di sua diretta emanazione.
2. La vendita dei biglietti è un vero business che rende molto lucrativo e ambito il ruolo di capo ultrà della Juve: in uno stadio tutto esaurito durante tutta la stagione, con un’offerta 40 mila posti a fronte di una domanda di milioni di tifosi, non sorprende che il bagarinaggio sia un’attività che faccia gola a criminali di “prima fascia”.
1. Come la ‘ndrangheta ha infiltrato la curva della Juventus, e perché. Scrive Ottavia Giustetti su Repubblica Torino:
«Andiamo avanti! Eh abbiamo il benestare da tutte le parti e nessuno domani ci può dire a noi “che avete fatto?”… Andiamo avanti e non è detto che non ce la prendiamo noi, la curva, direttamente». Il 14 aprile 2013 alle cinque del pomeriggio Giuseppe Sgrò, Saverio Dominello e Marcello Antonino del clan di Rosarno viaggiano sull’auto di Sgrò e si compiacciono per l’accordo che è stato raggiunto. Snocciolano i particolari e si ripetono su quanti consensi possono contare per mettere le mani sul business dei biglietti delle partite. «Abbiamo Rosarno, Barrittieri, Seminara, Reggio» dicono. E il 21 aprile, durante l’incontro tra Juventus e Milan, in curva sud si verifica il fatto decisivo, il clan annuncia il suo ingresso e srotola lo striscione «Gobbi». Fabio Farina è l’uomo destinato a gestire i rapporti tra dirigenti della biglietteria della squadra e il clan, secondo il giudice Stefano Vitelli nell’ordinanza che il 4 luglio ha portato in carcere 18 persone per associazione mafiosa. «Noi siamo dentro lo stadio dal 21, contro il Milan» aveva annunciato Farina all’amico Giuseppe Selvidio, entrambi indagati, mentre erano in corso le trattative per saldare i rapporti tra mafia e ultras. «Ma che fai vieni in curva tu il 21?» gli chiede Selvidio. «Eh se devo venire – risponde Farina – se prendiamo soldi sì, che cazzo me ne frega a me». Che Farina abbia fiutato la possibilità di guadagnare è chiaro dal 3 aprile, quando parlando con lo zio Frank spiega: «… Adesso i fratelli Ercolino (Lo Surdo) mi hanno chiamato che stanno fondando una curva – dice – mi hanno già chiesto tutti i biglietti, a me me li passano come li pagano loro, non ho un c… da fare mi butto dentro gli stadi e vaffa…». Prima di entrare però i calabresi devono ottenere il definitivo via libera degli storici club ultras. Il referente del gruppo Vikings pone una sola condizione: «Se sono juventini problemi non ne abbiamo». Ma l’osso duro è Gerardo Mocciola, detto Dino. Torinese e capo indiscusso dei «Drughi» che ha scontato 20 anni per l’omicidio di un appuntato dei carabinieri e che sembra svanito nel nulla dopo gli arresti del 4 luglio. È lui l’uomo che incontrano in un bar di Montanaro. È lui che dà l’ok definitivo. Ma da lì a poco il business si rivela troppo appetibile per essere lasciato nelle mani di Farina. Ed entra in gioco Rocco Dominello figlio di Saverio, referente del clan di Rosarno. Dominello gestisce gli affari cooperando con Fabio Germani, altro capo ultrà bianconero che presenta a Dominello il security manager della Juventus, Alessandro D’Angelo, che non è indagato ma che risulta essere l’anello di congiunzione tra il gruppo ultras e la società bianconera. Non c’è, al momento, prova che il dirigente Juve potesse conoscere i suoi legami con la malavita. Ma ci sono conversazioni tra i due dai toni molto confidenziali. «Perché ormai hanno paura di me Ale, capisci?» dice Dominello quando viene a sapere che D’Angelo ha ridotto le tessere ai «Vikings» per agevolare i «Gobbi». Poi gli chiede consiglio su come contattare il dg Marotta. «Dominello e Germani – scrive il gip – sono ben inseriti nei meccanismi della società e ottengono plurimi biglietti da rivendere a prezzo maggiorato». Ma un giorno gli scappa la mano e un «cliente» svizzero si lamenta e con la società di aver pagato 620 euro un biglietto che ne costava 140. Stefano Merulla, responsabile della biglietteria Juve, sa che quel pacchetto era stato opzionato da D’Angelo. E si rivolge a Germani per chiederne conto. Poi racconta che la società ha cominciato ad avere sospetti sulla provenienza del “socio”. Ma D’Angelo trova il modo per continuare a rifornire il clan. «Li mettiamo sotto un codice diverso – dice a Dominello – devi solo dirmi chi va a ritirarli».
2. Come funziona il sistema del bagarinaggio con i biglietti delle partite della Juventus. Come, cioè, il business dei ticket venduti a sovrapprezzo finisca per finanziare le paghe mensili che i clan assicurano ai loro affiliati carcerati. Spiegano sul Secolo XIX: «La Juve pratica il prezzo normale, poi sta a loro fare il sovrapprezzo. Il pagamento alla Juve avviene dopo la partita. Andrea riceve le somme provento della vendita dei biglietti, paga la Juve, ottiene il suo margine, una parte del quale va versato ai carcerati». Loro sono i “Bravi ragazzi”, gruppo ultrà bianconero. Andrea, è Andrea Puntorno, il loro leader, arrestato nel 2014 dai carabinieri di Torino per una storia di armi e droga. A svelare i retroscena del business della compravendite di biglietti è la moglie, Patrizia Fiorillo vittima di minacce da parte degli ex soci del marito, due soggetti «prossimi all’area ’ndranghetista facente capo alla famiglia Belfiore». È in questo verbale dettagliatissimo, datato gennaio 2015, raccolto nell’ambito dell’indagine sulle minacce subite dalla donna dopo l’arresto del marito, che il pm torinese Paolo Toso, ha trovato conferma dell’intreccio di affari che lega la criminalità organizzata al bagarinaggio, emerso nell’ultima ondata di arresti scattati una settimana fa. Ecco come funziona, secondo Patrizia Fiorillo, il mercato dei biglietti: «Andrea prima del campionato gestisce una campagna abbonamenti. Gli danno i moduli da sottoscrivere e vogliono una certa cifra. Lui organizza una distribuzione di abbonamenti, facendoli sottoscrivere e facendoseli pagare con un sovrapprezzo. Li lascia per la maggior parte a chi ha sottoscritto, in più gestisce un pacchetto di abbonamenti che paga lui alla Juve. Compila i dati prendendoli da fotocopie di documenti e poi li usa di partita in partita per fare entrare persone a pagamento». Il nome di suo marito compare anche negli atti dell’ultima ordinanza frutto delle indagine dell’antimafia torinese nei confronti della famiglia Dominello, legata alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. L’ordinanza racconta fatti precedenti al suo arresto, ma che si incastrano con gli eventi successivi, finiti nel mirino dello stresso magistrato e della collega Monica Abbatecola. Nel 2013, quando un amico della famiglia Dominello propone di aprire un nuovo gruppo ultrà, con lo striscione «I Gobbi», la prima preoccupazione è quella di non entrare in conflitto proprio con i «Bravi Ragazzi», che hanno il loro punto di riferimento in Puntorno. In gioco, come osserva il gip Stefano Vitelli, non è la passione calcistica, ma il «lucrosissimo mercato dei biglietti». Parlando al magistrato, la donna ammette che, dopo l’arresto del marito, «a me portano una parte di questi guadagni, anche se in questo periodo le somme sono davvero esigue: circa 200 euro alla volta, invece di regola potevano arrivare a casa nostra 4, 5 mila euro a partita». E, come già svelato da altre inchieste sulla ’ndrangheta, ai carcerati va dato aiuto con la raccolta fondi. Un obbligo a cui gli «affiliati» non possono sottrarsi. È da queste premesse che si muove la procura, per cercare di scoprire quanto sia profonda l’infiltrazione della criminalità nella curva bianconera. Indagini divenute ancor più delicate dopo la morte di Raffaello Bucci, il collaboratore della Juventus che si è suicidato lanciandosi da un ponte dopo essere stato interrogato. Anche ieri sono state sentite delle persone informate sui fatti.
L'affare dei biglietti di favore scuote la Torino bianconera. La vicenda sollevata dal suicidio del leader degli ultrà juventini interrogato in un'inchiesta sulla 'ndrangheta, scrive Nadia Muratore, Martedì 12/07/2016, su “Il Giornale”. Per cercare di risolvere il giallo che avvolge il suicidio di Raffaello Bucci, uno dei leader dei «Drughi», gli ultrà della Juve, la procura di Torino ha disposto il sequestro dei due telefoni cellulari trovati nella sua vettura, abbandonata sul viadotto dell'autostrada Torino-Savona e dal quale Bucci si è buttato giovedì scorso. Nello stesso giorno della sua morte, la squadra mobile di Torino, si è recata a Margherita - piccolo comune in provincia di Cuneo dove viveva l'ultrà juventino, per cercare nella sua abitazione elementi utili a capire il perché abbia deciso di togliersi la vita, poche ore dopo essere stato ascoltato come persona informata sui fatti dal pm torinese della Dia Monica Abbatecola nell'ambito dell'inchiesta che ha portato all'arresto di 18 persone accusate di associazione mafiosa. Tra i nomi di spicco emersi nell'indagine, oltre a quelli di presunti boss e malavitosi, anche quello di Fabio Germani, storico capo ultrà bianconero. Nell'abitazione di Margherita, oltre ad alcuni effetti personali, gli inquirenti hanno sequestrato due computer, che saranno analizzati nei prossimi giorni. Intanto l'autopsia sul corpo di Bucci che all'ospedale di Cuneo era arrivato ancora vivo - conferma che l'uomo è morto per i «politraumi causati dalla caduta». Se non ci sono dubbi che l'uomo si sia suicidato, gli inquirenti vogliono capire se sia legato all'indagine inerente all'infiltrazione della 'ndrangheta nella curva bianconera e al business del bagarinaggio. Per trovare la chiave del giallo forse bisogna tornare al gennaio 2014, quando Bucci abbandona la curva bianconera. Autentico tesoriere degli ultrà, si fa da parte per non meglio precisati dissapori con gli altri capi. Quando fa rientro allo Stadium, lo scorso anno, ha cambiato divisa. Indossa una tuta del club: è diventato «supporter liaison officer», figura introdotta dal regolamento Fifa come anello di collegamento tra tifoseria e società. Ciccio, come lo chiamano nell'ambiente, riceve grandi apprezzamenti dal club. Per gli ultrà, invece, è «l'infame», perché parla con la polizia e sta dall'altra parte della barricata. Il giorno prima di suicidarsi, la procura di Torino lo convoca in merito all'inchiesta sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in curva e lui è costretto a ripercorrere quella delicata stagione 2013-14, quando gli investigatori documentano le relazioni tra i membri della famiglia Dominello, clan collegato alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, e la tifoseria bianconera. L'obiettivo è entrare nella curva, con il nuovo gruppo ultras «I Gobbi» e mettere così le mani sul business dei biglietti. Il capo del sodalizio è Fabio Farina, accusato di aver sparato a maggio del 2013 alcuni colpi di pistola contro una nota discoteca di Torino dopo una discussione con la security. Il racconto di Bucci al pm però è lacunoso. Magari aveva paura che quelle sue «relazioni pericolose» venute a galla con l'inchiesta della Dia torinese, mettessero a rischio il suo nuovo incarico alla Juve. O forse a intimorirlo è stato qualcuno che non poteva rischiare che Ciccio, con le sue dichiarazioni, rivelasse un mondo criminale che gira intorno alle partite di calcio.
Il business dei bagarini in mano alla ’ndrangheta. Profitti anche ai carcerati. Le indagini sulla curva della Juve svelano il potere ultrà. Si allarga l’inchiesta sulle infiltrazioni della malavita nei gruppi di ultras per gestire il business dei bagarini, scrivono Federico Genta e Massimilano Peggio il 12/07/2016 su "La Stampa”. «La Juve pratica il prezzo normale, poi sta a loro fare il sovrapprezzo. Il pagamento alla Juve avviene dopo la partita. Andrea riceve le somme provento della vendita dei biglietti, paga la Juve, ottiene il suo margine, una parte del quale va versato ai carcerati». Loro sono i «Bravi ragazzi», gruppo ultrà bianconero. Andrea, è Andrea Puntorno, il loro leader, arrestato nel 2014 dai carabinieri di Torino per una storia di armi e droga. A svelare i retroscena del business della compravendite di biglietti è la moglie, Patrizia Fiorillo vittima di minacce da parte degli ex soci del marito, due soggetti «prossimi all’area ’ndranghetista facente capo alla famiglia Belfiore». È in questo verbale dettagliatissimo, datato gennaio 2015, raccolto nell’ambito dell’indagine sulle minacce subite dalla donna dopo l’arresto del marito, che il pm torinese Paolo Toso, ha trovato conferma dell’intreccio di affari che lega la criminalità organizzata al bagarinaggio, emerso nell’ultima ondata di arresti scattati una settimana fa. Ecco come funziona, secondo Patrizia Fiorillo, il mercato dei biglietti. «Andrea prima del campionato gestisce una campagna abbonamenti. Gli danno i moduli da sottoscrivere e vogliono una certa cifra. Lui organizza una distribuzione di abbonamenti, facendoli sottoscrivere e facendoseli pagare con un sovrapprezzo. Li lascia per la maggior parte a chi ha sottoscritto, in più gestisce un pacchetto di abbonamenti che paga lui alla Juve. Compila i dati prendendoli da fotocopie di documenti e poi li usa di partita in partita per fare entrare persone a pagamento». Il nome di suo marito compare anche negli atti dell’ultima ordinanza frutto delle indagine dell’antimafia torinese nei confronti della famiglia Dominello, legata alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. L’ordinanza racconta fatti precedenti al suo arresto, ma che si incastrano con gli eventi successivi, finiti nel mirino dello stresso magistrato e della collega Monica Abbatecola. Nel 2013, quando un amico della famiglia Dominello propone di aprire un nuovo gruppo ultrà, con lo striscione «I Gobbi», la prima preoccupazione è quella di non entrare in conflitto proprio con i «Bravi Ragazzi», che hanno il loro punto di riferimento in Puntorno. In gioco, come osserva il gip Stefano Vitelli, non è la passione calcistica, ma il «lucrosissimo mercato dei biglietti». Parlando al magistrato, la donna ammette che, dopo l’arresto del marito, «a me portano una parte di questi guadagni, anche se in questo periodo le somme sono davvero esigue: circa 200 euro alla volta, invece di regola potevano arrivare a casa nostra 4, 5 mila euro a partita». E, come già svelato da altre inchieste sulla ’ndrangheta, ai carcerati va dato aiuto con la raccolta fondi. Un obbligo a cui gli «affiliati» non possono sottrarsi. È da queste premesse che si muove la procura, per cercare di scoprire quanto sia profonda l’infiltrazione della criminalità nella curva bianconera. Indagini divenute ancor più delicate dopo la morte di Raffaello Bucci, il collaboratore della Juventus che si è suicidato lanciandosi da un ponte dopo essere stato interrogato. Anche ieri sono state sentite delle persone informate sui fatti. Anche il club bianconero sta seguendo gli sviluppi dell’indagine, attraverso i suoi avvocati. «Dalla Juventus - afferma Luigi Chiappero - escono solo biglietti a pagamento nel rispetto delle procedure di vendita, e i funzionari addetti a queste incombenze sono persone di specchiata professionalità».
Il clamoroso sold out per il concerto milanese di Springsteen, quando nel giro di 60 secondi sono stati venduti 40mila tagliandi, ha riacceso i fari sul cosiddetto "secondary ticketing": pratica legale inevitabile o illecito bagarinaggio digitale reso possibile da sofisticati software? Mentre negli Stati Uniti la magistratura indaga e inizia fornire le prime sconcertanti risposte, in Italia il problema sembra non stare a cuore quasi a nessuno. Il messaggio di Ligabue a Repubblica: "Io ho sempre cercato di fare il massimo per contenere i prezzi". Inchiesta di "La Repubblica" dell'8 marzo 2016.
Il caso Springsteen solo la punta dell'iceberg, scrivono Paolo Gallori e Carmine Saviano. Springsteen, dopo un minuto introvabili anche i biglietti per il 5 luglio. Biglietti già esauriti sulle pagine web del rivenditore ufficiale allo scoccare della vendita online, ma allo stesso tempo disponibili a prezzi folli sui siti di "secondary ticketing". Un problema che non riguarda solo i patiti del rock, la cui ultima traumatica esperienza è stata lo scorso 9 febbraio il sold out del concerto di Bruce Springsteen del 3 luglio a San Siro, quando 40mila biglietti sono spariti nel giro di un minuto dall’unico rivenditore online autorizzato, Ticketone. Con situazioni simili devono regolarmente fare i conti anche gli appassionati di calcio e sport vari per, per i quali entrare in possesso del singolo biglietto per un evento top - tipo finale di Champions League per intenderci – è molto spesso impossibile e l’unica alternativa a disposizione è l’acquisto in un costoso pacchetto all incusive, comprensivo di volo e albergo. Un "pedaggio" odioso che può sopportare il fan sfegatato, questa procedura definita "secondary ticketing", ma che non dovrebbe essere tollerato da tutti gli altri attori della filiera che compone un evento dal vivo. Dall’artista al promoter, dall’agenzia che rappresenta l’immagine della star fino a chi gestisce materialmente i luoghi dei concerti. Negli Stati Uniti si narrano le gesta di temerari hacker che in solitaria sono riusciti a gestire fino a 75 identità diverse, riuscendo così a comprare centinaia di biglietti con pochi clic. La stragrande maggioranza dei casi, come ha accertato la più recente (e probabilmente unica) inchiesta condotta sin qui sul fenomeno, ha però contorni molto meno romantici. Al centro della vicenda c’è ancora una volta lui, Bruce Springsteen, una delle rock star più amate di sempre. Secondo quanto ha appurato il procuratore generale di New York, Eric Schneiderman, lo scorso 10 dicembre su tre diverse piattaforme digitali sono stati offerti i biglietti (a prezzi da capogiro) per il tour del Boss ancor prima che la prevendita ufficiale fosse aperta. Ai siti di secondary ticketing Stubhub, Ticketnetwork e Vivid Seats viene intimato quindi di oscurare quelle offerte e le società che li controllano vengono allo steso tempo invitate a un incontro per aprire un tavolo contro la speculazione. Nel frattempo il lavoro di indagine del procuratore Schneiderman, sostenuto anche dalle denunce di cittadini esasperati dall’impossibilità di riuscire ad acquistare i biglietti per i grandi eventi musicali o sportivi attraverso i canali ufficiali, va avanti e i primi risultati vengono resi noti a fine gennaio 2016. A parte gli inquietanti intrecci di proprietà tra siti ufficiali e siti di “rivendita” (TicketsNow ad esempio appartiene dal 2008 a TicketMaster), gli investigatori accertano una gestione dei tagliandi che già a monte lascia ben poche possibilità all’acquirente "outsider". Il 16% finisce infatti nella disponibilità di promoter, artisti e operatori dell’industria musicale, sponsor e fan club. Un altro 38% è riservato poi ai possessori della carta di credito convenzionata con il sito di rivendita ufficiale. A ciò si aggiungono infine veri e propri abusi e pratiche fraudolente che impediscono ai consumatori di accedere ai biglietti al giusto prezzo. Schneiderman punta l’indice in particolare contro veri e propri broker attivi sulle piattaforme del secondary ticketing dove rivendono biglietti con margini di guadagno medi del 49% in più rispetto al prezzo base, arrivando talvolta a offrirli anche a prezzo decuplicato. Per alimentare il loro business, questi intermediari utilizzano i “ticket bots”, software nemmeno tanto costosi che consentono di acquistare sui siti delle rivendite ufficiali quanti biglietti si desiderano anche per gli eventi più attesi, quelli da cui l’utente comune denuncia di restare sempre tagliato fuori. Biglietti che poi finiscono nel circuito del “secondary ticketing” generando grandi guadagni perfettamente esentasse. A emblema di questa pratica scandalosa il rapporto di Schneiderman cita in particolare l’episodio dell’8 dicembre 2014, quando in un solo minuto un singolo "acquirente" riuscì ad accaparrarsi online 1012 biglietti per un concerto degli U2 al Madison Square Garden nonostante il rivenditore avesse fissato un limite massimo di quattro tagliandi. Il bottino complessivo fu però ancora più ricco, con due soli broker capaci di assicurarsi la bellezza di 15mila biglietti del tour degli U2 in Nord America. "La nostra inchiesta - concludeva Schneiderman - è solo l’inizio del nostro sforzo per la normalizzazione del business della compravendita di biglietti". Una promessa che non è detto il procuratore riuscirà a mantenere, ma che sicuramente non avrebbe un grande futuro qui da noi. Il problema principale è che più si va fondo nel funzionamento di questo malcostume, più appare evidente che gli unici a rimetterci sono i fan. Per tutti gli altri si tratta di una pratica che comporta solo benefici. Così, tanto più in un paese come l’Italia dove il ricorso alle class action è ancora a uno stato embrionale, la speranza che possa cambiare qualcosa appare piuttosto remota. L'unico modo per contrastare il bagarinaggio online sarebbe probabilmente quello di controllare nominalmente ogni biglietto all'ingresso del luogo dell'evento. Ma è solo una pia illusione farlo in concerti o eventi sportivi che prevedono l'apertura dei cancelli a poche ore dall'inizio dell'evento e file di decine di migliaia di persone. In genere viene accertata solo la validità del biglietto e non se lo stesso è finito nelle mani del titolare di turno dopo chissà quanti e quali passaggi di mano virtuali. Un mercato parallelo che nell'assenza di precise legislazioni in materia, e nell'assenza di interventi da parte delle “polizie postali” dei vari paesi, non fa altro che crescere. Secondo uno studio di “Research and market” pubblicato alla fine del 2015, nel giro dei prossimi quattro anni il secondary ticketing avrà un incremento del 20%. E i settori coinvolti non saranno solo quelli relativi alla musica: altro settore coinvolto è quello degli eventi sportivi, dalle prossime Olimpiadi di Rio fino alle partite di calcio dei maggiori campionati europei. La polizia postale ci ha confermato che di indagini non ne sono mai state fatte, ma che per partire hanno bisogno di una denuncia. Compito che praticamente nessuno sembra volersi assumere. Inutile, ad esempio, sperare in una presa di posizione degli artisti come accaduto in Gran Bretagna (vedi pezzo di Andrea Silenzi qui sotto). Repubblica ha cercato di coinvolgere in questa inchiesta giornalistica gli artisti italiani (si contano sulle dita di una mano) capaci di riempire uno stadio e che in teoria si dovrebbero sentire danneggiati, ma dai loro staff sono arrivati solo cordiali dinieghi e frasi di circostanza del tipo "noi facciamo in modo che i biglietti siano venduti al prezzo più basso possibile, ma poi, una volta che sono finiti, se c’è chi è disposto a pagarli quelle cifre che possiamo farci?". A cercare di smuovere le acque ci prova un promoter, Claudio Trotta, titolare della Barley & Arts, l’agenzia che gestisce, tra l’altro, proprio i tour di Bruce Springsteen. Dopo lo scandalo del febbraio scorso, Trotta ha annunciato l’intenzione di presentare un esposto e ha prima scritto a tutte le parti "tecniche" coinvolte, a cominciare da quell’Assomusica che da statuto dovrebbe combattere simili anomalie, e poi, in uno sfogo affidato alla sua pagina Facebook, si è rivolto alle associazioni dei consumatori, agli artisti e alla Siae. Senza dimenticare l’Agenzia delle Entrate, vista l'evidente evasione fiscale di chi lucra sul secondary ticketing, e il Parlamento, affinché colmi un evidente vuoto legislativo su un fenomeno che non può essere paragonato al tradizionale bagarinaggio o alla casuale cessione di biglietti tra privati. Iniziativa su cui lo stesso manager non pare fare troppo affidamento, se è vero che la stessa requisitoria si concludeva con una domanda tanto retorica quanto sibillina: "Vi siete mai chiesti come mai io sia solo in questa battaglia?". Trotta nella lettera agli addetti ai lavori denunciava in particolare il fatto che "i biglietti in questione riportano sul retro dell’evento le condizioni a cui il soggetto acquirente è tenuto a sottostare". "In particolare - ricordava - l’art. 7 stabilisce che ‘Il titolo di ingresso non può essere permutato, ceduto a titolo oneroso né può essere oggetto di intermediazione o utilizzato ai fini commerciali’. Pertanto, chiunque violi le disposizioni sopra citate non solo si rende responsabile di un inadempimento contrattuale che darà origine a un’azione civile per il risarcimento dei danni, ma verranno valutati altresì i presupposti per l’azione penale con ogni relativa conseguenza”. Raggiunto solo a ridosso della pubblicazione dell'inchiesta di Repubblica, Ferdinando Salzano, amministratore delegato di Friends & Partners, ha voluto ricordare l'impegno "culturale" della sua agenzia per educare il pubblico dei concerti a tenersi lontano dagli avvoltoi e la sperimentazione del biglietto nominale effettuata durante il tour teatrale di Ligabue. Inoltre annuncia l'intenzione di voler presentare una denuncia alla Polizia Postale. "Oggi stesso darò mandato ai miei legali. Dopo aver messo all'indice le piattaforme digitali, bisogna dare un volto a chi le utilizza per speculare". Secondo Salzano, l'aspetto più importante dell'azione di Trotta è in un passaggio: "Aver denunciato la connivenza a livello internazionale tra gente del nostro ambiente e le piattaforme. In America è provata. Per l'Italia, non si può dire nulla senza prove. Indaghi la polizia". A dare manforte a Salzano ci sarà lo stesso Ligabue, che dopo aver letto la nostra inchiesta, ci ha voluto mandare una sua precisazione: "Personalmente ho chiesto da sempre a chi mi rappresenta di fare di tutto perché chi viene ai miei concerti spenda la cifra più ragionevole possibile per lo spettacolo, la produzione, l'accoglienza migliore che gli si possa offrire. Tutto quello che viene fatto nel nome di questa mia richiesta è totale merito di Claudio Maioli e Ferdinando Salzano". A rendere difficile una soluzione giudiziaria del problema c’è però in Italia una sentenza della Cassazione del 2008 che ha risolto un presunto caso di bagarinaggio sentenziando che “chi acquista e poi rivende a proprio rischio non compie alcuna attività di intermediazione, neppure atipica”, almeno finché non sia dimostrata la provenienza illecita del bene. Lo snodo diverrebbe quindi riuscire a dimostrare l’acquisto tramite software tickets bot e poi saperlo tracciare fino a risalire al "burattinaio". L’Unione Nazionale dei Consumatori, dopo i primi tentativi di pressione su Ticketone, suggerisce invece una strada alternativa. "Gli abbiamo scritto cercando di farli venire allo scoperto – afferma il segretario Massimiliano Dona – a seconda di come rispondono sapremo come muoverci, l’arma potrebbe essere una segnalazione all’Antitrust per pratiche scorrette, perché l’operatore, in questo caso unico, che vende online deve combattere i fenomeni devianti. Ticketone può dire di non averne colpa, ma non può non interessarsi del dopo". Un precedente conforta Dona: "Denunciammo quelli di TripAdvisor per le recensioni di alberghi e ristoranti i cui autori non erano identificabili. La loro difesa, tipica dell’operatore online, fu: 'noi siamo solo intermediari'. Invece furono condannati, perché dovevano fare tutto il possibile affinché gli autori di quei giudizi fossero identificabili”. Più o meno la logica che il procuratore Schneider ha applicato intimando alle tre piattaforme di rimuovere le offerte di biglietti più inaccettabili.
Così un software aggira tutti i controlli, scrive Martina Nasso. Tre minuti e venti secondi. È il tempo impiegato da un utente non registrato per l'acquisto di un biglietto sul sito TicketOne. Un minuto e mezzo se ha già un account. Al software TicketOne Spinner Bot bastano pochi secondi per compiere la stessa operazione. Un ticket robot (bot) è un programma per computer che automatizza il processo di ricerca e acquisto dei biglietti per concerti, eventi sportivi e spettacoli sulle piattaforme di acquisto online. In Italia TicketOne è la principale biglietteria virtuale autorizzata. Alle 11 di martedì 9 febbraio l'azienda ha aperto la prevendita per il concerto di Bruce Springsteen del 3 luglio allo stadio San Siro di Milano. In un minuto sono svaniti migliaia di biglietti. Alcuni agenti hanno acquistato i biglietti con il software robot per poi rivenderli a prezzi altissimi al grande pubblico sui siti di secondary ticketing come TicketBis, Viagogo e Seatwave. Queste piattaforme sono una sorta di bagarini 2.0 e hanno creato un mercato di vendita dei ticket parallelo a quello autorizzato. Su Viagogo, un posto per la data milanese del Boss arriva a costare anche 1500 euro, più di dieci volte il prezzo di vendita originale. "TicketOne Spinner Bot" è un software acquistabile online con una spesa di 950 dollari. La sua caratteristica principale, oltre alla velocità, è di riuscire a eludere il sistema che limita gli acquisti multipli su TicketOne. Il sito prevede, infatti, alcune misure per evitare che un singolo possa acquistare più di quattro/sei biglietti per quegli eventi, come i grandi concerti, per i quali la domanda supera di gran lunga l'offerta. In questi casi interviene un sistema di sicurezza che si basa sull'utilizzo di captcha, codici di sicurezza che l'utente deve compilare, e sul controllo degli indirizzi IP. La persona interessata all'evento può procedere all'acquisto solo inserendo il codice alfabetico corretto e, una volta acquistato il numero massimo di biglietti, TicketOne registra il suo l'indirizzo IP e gli impedisce di comprare altri tagliandi per lo stesso evento. Se dall'altra parte dello schermo, però, non c'è una persona in carne e ossa, i sistemi di sicurezza non sono poi così efficaci. "TicketOne Spinner Bot" bypassa i captcha e si collega a server proxy che creano indirizzi IP multipli. Chi lo utilizza può impostarlo inserendo l'orario di apertura del botteghino. Allo scoccare dell'ora stabilita il programma inizierà automaticamente la ricerca e in pochi secondi garantirà al proprietario centinaia di biglietti. Dopo aver superato il controllo del captcha, il software crea indirizzi IP multipli e inganna il sistema di controllo. TicketOne, così, collegherà la vendita a tanti utenti quanti sono gli indirizzi IP generati. Per rendere ancora più efficace il meccanismo e non destare sospetti nel caso di controlli individuali effettuati dagli amministratori del sito, spesso i broker usano per i pagamenti più carte di credito, intestate a persone diverse. I ticket robot non sono una novità. Nel 2007 Ticketmaster.com, la principale biglietteria online degli Stati Uniti, fece causa alla RMG Technologies Inc. La società vendeva software per l'acquisto automatico di biglietti che ingannavano i sistemi di controllo del sito. Ticketmaster vinse il processo nel 2008 e ottenne un risarcimento di 18,2 milioni di dollari. Alla RMG Technologies fu impedito di creare altri programmi per superare i sistemi di controllo della biglietteria virtuale. Sono passati dieci anni da allora e né in Italia, né negli USA esiste una regolamentazione sull'utilizzo di questi programmi che continuano a moltiplicarsi e mettono a dura prova la pazienza e soprattutto le tasche dei fan.
Ora all'estero si muovono le star, scrive Andrea Silenzi. Biglietti e concerti, una questione mai risolta. In Italia se ne parla dai tempi dello storico tour dei Beatles, nel giugno del 1965. I due concerti all’Adriano di Roma (uno pomeridiano, l’altro serale) si svolsero davanti a una platea con più di un posto vuoto: il prezzo dei biglietti (dalle 5.000 alle 7.000 lire) era per l’epoca piuttosto elevato, e la cosa fece discutere. Negli anni Settanta, col boom di spettacoli, la “questione biglietti” divenne un fatto politico. “Riprendiamoci la musica” era lo slogan che faceva da colonna sonora a scavalcamenti, sfondamenti e proteste: la contestazione sul caro-biglietti portò conseguenze drammatiche durante il concerto di Lou Reed al Palasport del febbraio 1975, con cariche della polizia e lacrimogeni lanciati tra gli spalti. A quell’epoca i biglietti si acquistavano, nella maggior parte dei casi, sul posto: il concetto di prevendita non era molto diffuso, il bagarinaggio avveniva fuori dai cancelli. Ma rispetto ad oggi, tutta la macchina organizzativa era meno minuziosa e più pioneristica. L’avvento di colossi della prevendita come l’americana Ticketmaster ha trascinato il business dei concerti in una nuova dimensione, professionale ma non priva di contraddizioni. Più di venti anni fa i Pearl Jam trascinarono in tribunale (finendo sconfitti) Ticktmaster con l'accusa di monopolio e, soprattutto, di praticare prezzi troppo alti con un ricarico eccessivo per i diritti di prevendita. Elementi profondamente contrari alla politica della band nei confronti dei fan. Da allora, la situazione si è fatta sempre più complicata. Quando la vendita si è trasferita sul web, ai grandi circuiti ufficiali si sono affiancati i cosiddetti “secondary tickets sites”, siti web che offrono biglietti per qualsiasi evento (soprattutto musicali e sportivi) a prezzi spropositati. Negli ultimi anni il fenomeno ha assunto proporzioni imbarazzanti, al punto di finire nel mirino delle autorità giudiziarie americane. All’inizio di dicembre il procuratore generale di New York ha inviato una lettera ad alcune agenzie di prevendita online per chiedere spiegazioni sulla presenza sui loro siti di biglietti per il concerto di Bruce Springsteen prima ancora della loro messa in vendita ufficiale. Sempre Springsteen, con le prevendite del suo tour italiano della prossima estate, ha riportato i riflettori sulle misteriose prassi dei siti secondari e sulla rabbia di utenti e musicisti. Come è possibile che decine di migliaia di biglietti spariscano dalle prevendite ufficiali in pochi minuti per poi ricomparire sui siti secondari a prezzi stratosferici? Secondo un’indagine condotta dal settimana americano Billboard, la Bibbia dell’industria musicale statunitense, per le sei date del tour americano di Adele erano disponibili, sulla carta, 750.000 biglietti. Nei fatti, però, solo 300.000 sono finiti sul mercato. Circa 350.000 sono stati riservati con una “pre-sale” mirata a partner commerciali, acquirenti di pacchetti vip e altri operatori. Dai 300.000 rimasti vanno poi tolti quelli rastrellati dai siti secondari. I fan, ovviamente, sono in rivolta. Il problema è molto sentito anche in Gran Bretagna, dove un gruppo di musicisti, manager e promoter (di cui fanno parte, tra gli altri, Mumford & Sons, Elton John, Coldplay, Radiohead, Ed Sheeran, Blur, Noel Gallagher, Iron Maiden e molti altri) ha scritto una lettera aperta al governo britannico, pubblicata dal Times, per prendere le difese dei fan e per chiedere di stabilire nuove regole che vietino di vendere tagliandi con un ricarico superiore al 10% rispetto al loro prezzo base. Nella lettera si sottolinea inoltre la necessità di creare un sistema “trasparente di vendita e acquisto dei biglietti” che costringa compratori e venditori a dichiarare la propria identità. La situazione è talmente esasperata che Elton John ha dichiarato pubblicamente di preferire una platea vuota piuttosto che vedere i suoi fan pagare prezzi assurdi. Il promoter inglese Harvey Goldsmith ha parlato di “disastro nazionale”, mentre tutti i musicisti invocano protezione per i loro fan. Che al momento pagano e subiscono. Ovunque.
Colpito anche il calcio, ma nessuno interviene, scrive Cosimo Cito. Profumo di tabacco, un lungo cappotto, la voce: "Biglietti". C’erano una volta i bagarini. C'erano le domeniche allo stadio, freddo gelido o caldo di primavera, loro c’erano sempre, austeri, imperturbabili nella loro augusta, tollerata illegalità. Se volevi saltare la fila, o solo se volevi vedere la partita, dato che al venerdì, quando i botteghini aprivano, i biglietti li prendevano loro, è da lì che dovevi passare. Inutile farsi domande, solo pagare. Chi si asteneva tornava a casa ad ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”. Non è strano, per nulla, se il termine bagarino derivi dal francese bagarre. Oggi l’operazione si svolge davanti a uno schermo di un computer. È il secondary ticketing applicato allo sport. Se la scorsa settimana si cliccava, ad esempio, su Ticketbis.it, Roma-Fiorentina, Curva nord. Il prezzo di un biglietto arrivava a 80 euro. Tanti, dato che il tagliando, acquistato per vie normali, regolari, sul circuito Ticketone, non supera i 35 euro. Più del doppio. Perché farlo, quel biglietto, a quel costo? Perché, magari, non c’è alternativa: la rivendita regolare dura il tempo di un amen, un’ora al massimo in genere, il tempo perché i biglietti vadano esauriti. Tutti nelle mani di soggetti, il più delle volte agenzie, che poi rivendono i tagliandi attraverso il cosiddetto secondary ticketing. E non è nemmeno illegale. Queste società d’intermediazione tra domanda e offerta operano in un vuoto normativo e sono regolarmente iscritte ai registri delle Camere di commercio. Teoricamente dovrebbe trattarsi di piattaforme sulle quali è possibile rivendere biglietti acquistati per eventi ai quali non ci si può più recare. In realtà i rivenditori non sono semplici tifosi vittime di un imprevisto, ma più spesso organizzazioni, spessissimo vicine alle società, che acquistano biglietti con l’unico scopo di rivenderli a prezzi maggiorati e specularci. SeatWave, Ticketbis e Viagogo rivendicano la legalità del servizio: i siti, tecnicamente, non vendono biglietti, ma fanno da mediatori tra domanda e offerta, con una provvigione del 20% nell’intera operazione di compravendita, niente di più, il costo del servizio. Accedervi è un attimo: basta registrarsi, cercare l’evento e decidere se vendere o acquistare un biglietto. Per chi voglia rivendere i propri biglietti, è semplicissimo: ci si registra, si inserisce un numero di carta di credito, si è, comunque, identificabili. E il gioco è fatto. A confermare che la pratica è legale, è stata anche la Corte di Cassazione, che con la sentenza 10881 del 2008 ha spiegato come "chi acquista e poi rivende a proprio rischio non compie alcuna attività di intermediazione, neppure atipica", almeno finché non viene dimostrata la provenienza illecita del bene. In Inghilterra la rivendita dei biglietti per le partite di calcio è connessa al consenso delle società. In Italia tutto avviene al buio della Lega, in una terra di mezzo: non essendo vietato - secondo la dottrina massimalista del diritto - è quindi concesso. Speculazione, niente di più, dicono loro. E i biglietti nominali non sono affatto un problema. Già al Mondiale brasiliano, quando le prime crepe in seno alla Fifa si aprirono proprio a causa di una compravendita illegale di biglietti destinati ai vip da parte di alti papaveri della Federcalcio mondiale, chi voleva, poteva lanciarsi in acquisti spericolati (anche 30mila euro un biglietto per la finale), senza paura di essere fermato ai tornelli d’ingresso del Maracanã. I controlli sulla legittima proprietà dei tagliandi sono praticamente inesistenti. Oppure accade anche questo: che emettitori legittimi di biglietti pratichino sottobanco il secondary ticketing. Ticketbis, società leader nel settore, è nata in Spagna nel 2009, opera in oltre 40 paesi e ha un giro da un milione di biglietti online: in Italia è attiva dal 2011 e ha all’incirca 100 mila utenti, ma il traffico sta crescendo. Nel 2015 ha fatturato circa 80 milioni di euro. Alle accuse di essere veicolo di bagarinaggio online risponde così, anzi rilancia: "Dovremmo aprirci all’idea del 'prezzo dinamico' – spiega Giulia Chiari, regional manager per l'Europa della società - è assurdo imporre un prezzo fisso a ogni evento. La soluzione è quella di piegare la legge della domanda e dell’offerta alle necessità dei potenziali acquirenti. Questo siamo noi, veicolo di un più moderno modo di intendere il mercato. Del resto, chi ha mai accusato Ryanair o altre società che praticano vendite online, di fare bagarinaggio di biglietti? Abbiamo un'idea paludata del mercato, in America il secondary ticketing è molto più utilizzato che da noi, molto più conosciuto. E molto più compreso". Soprattutto dopo il lavoro del procuratore Schneiderman.
Bigliettopoli, così lucrano i bagarini 2.0. Il secondary ticketing è ormai una pratica diffusa e (solo in teoria) legale. Con software che riescono ad acquistare in pochi secondi migliaia di biglietti dai siti di vendita. In questo modo il mercato viene drogato e i prezzi vanno alle stelle. Un esempio? Il concerto di Springsteen può costare anche 1500 euro, scrive Luciana Grasso il 22 febbraio 2016 su “L’Espresso”. Volete vedere il concerto di Bruce Springsteen ma i biglietti son finiti prima che poteste anche solo pensare di fare click? Oppure, volevate andare lo scorso ottobre a Torino, a sentire Madonna, ma i 180 secondi di apertura della prevendita non vi sono bastati per conquistarvi un biglietto? Niente paura. I biglietti ci sono ancora (e c’erano anche per Madonna). Basta sapere dove cercarli, e avere i soldi per pagarli. Non si tratta di cifre da poco: un biglietto per Springsteen a Milano, a pochi giorni dall’apertura ufficiale della prevendita (tra l’altro del tutto contestuale alla sua chiusura, visto che la disponibilità è durata solo pochi minuti) possono costare anche 1500 euro (primo anello San Siro), oppure, se non andate troppo per il sottile e vi accontentate, come i loggionisti, del terzo anello, potete cavarvela con circa 150 euro. Stessa solfa a Roma, anche se con prezzi più bassi. Cifre che equivalgono a multipli del prezzo di partenza: il prato a San Siro costava, in origine, 80 euro; il terzo anello 40,00, ma che ormai non fanno più rumore, perché fanno parte di una pratica diffusa (e, almeno in teoria legale) che si chiama secondary ticketing, evoluzione virtuale del vecchio bagarinaggio. «Nulla vieta, a chi ha un biglietto che non usa di rivenderlo. Allo stesso modo con cui si può vendere una bicicletta o un paio di sci smessi. L’importante è la pratica sia occasionale e non a scopo di lucro e che dunque non costituisca una speculazione ai danni del nuovo acquirente e non sia una fonte di reddito costante. Se così non è si apre anche tutta una faccenda che va oltre e i concerti e i biglietti e interessa piuttosto il fisco». A spiegarlo è Tommaso Salvetti, startupper torinese della piattaforma Hit Your Tix, l’unica sino ad ora ad aver invertito il sistema di vendita: non è più il venditore che fissa il prezzo ma l’acquirente indicando quanto è disposto a spendere «Così cerchiamo di conciliare le esigenze di chi si ritrova con un biglietto in più e quelle di chi invece è rimasto a bocca asciutta, cercando di fare in modo che entrambi ci guadagnino e nessuno ci perda. Non solo: ma sul nostro sito non si possono effettuare più di dieci vendite l’anno dello stesso ID, indipendentemente dall’account e cerchiamo di tenere alla larga i disonesti». Sì, perché il problema non sono i biglietti e il loro prezzo, ma quelli che li fanno sparire in pochi secondi. Il modo più usato per farlo è l’uso dei bot, ossia dei software che riescono a razzolare via in pochi secondi migliaia di biglietti dai siti di vendita. In questo modo il mercato viene drogato e i prezzi prendono a salire. Contro i bot, e, inevitabilmente contro il secondary ticketing, da tempo, musicisti e canali di vendita ufficiali di vendita stanno cercando darsi da fare come possono. Nel 2013 TicketMaster (un colosso simile alla nostrana TicketOne) citò in giudizio 21 persone accusandole di aver usato bot per comprare più di 200mila biglietti al giorno. Ligabue, a suo tempo, escogitò il sistema di ‘liberare’ a 48 ore dalla data del concerto, ulteriori ingressi. Un sistema provato proprio dagli organizzatori del Mondovisione Tour di Ligabue, Riservarossa e F&P Group, che da sempre sono schierati contro il secondari ticketing e hanno invitato più volte il pubblico a non comprare biglietti fuori dai circuiti di vendita autorizzati, “anche per evitare l’elevato rischio di incorrere in biglietti falsi e non validi”. Nel gennaio 2015 ottanta tra musicisti e personalità di spicco della musica inglese, come Nick Mason dei Pink Floyd, Ed O'Brien dei Radiohead e Sandie Shaw chiesero al parlamento britannico di approvare una legge per eliminare il mercato secondario. «I primi a voler arginare le speculazioni siamo noi, non consentiamo più di comprare più di 4 biglietti alla volta e non consentiamo di fare più di 4 collegamenti da uno stesso account - spiega Andrea Grancini, vicedirettore generale di TicketOne -. Nell caso di Springsteen addirittura abbiamo imposto il limite di una sola transizione ad account. I numeri però sono stati comunque enormi: il nostro sito ha avuto 372 mila visitatori tra le 10 e 30 e le 11; abbiamo aperto le vendite alle 11 e alle 11 e 32 avevamo venduto 23 mila biglietti, 8 mila dei quali nei primi 5 minuti. Numeri notevolissimi nella transazione dei quali, va detto, non abbiamo riscontrato anomalie o ingressi fraudolenti, che avremmo fermato immediatamente. A quel che ci risulta gli acquirenti sono esseri umani”. Umani che, poi, hanno cambiato idea, e ora rivendono il biglietto a 1500 euro. Buona visione.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un
bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte.
Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un
minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si
depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come
abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su
una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%).
Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono
disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore
inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che:
"Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano
sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John
Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in
questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
IL PALLONE PERDUTO IN UN MONDO DI LADRI.
La gola profonda del calcio: “Vi svelo le partite truccate”. Dal Portogallo alla Romania, il bookmaker anticipa i finali: «Basta monitorare i flussi delle scommesse». E in Italia c’è chi non accetta più puntate sulle partite di Lega Pro. Il copione delle scommesse su risultati anomali si ripete ogni weekend e il fenomeno riguarda i campionati di mezza Europa, scrivono Alberto Abburrà e Gabriele Martini il 4/05/2016 su “La Stampa”. Il primo messaggio arriva via WhatsApp alle 19,35 di giovedì scorso: «Massima divisione del campionato di calcio maltese, Mosta-Pembroke finirà con almeno 4 gol totali». La partita è iniziata da pochi minuti e il risultato è fermo sullo 0-0. L’equilibrio però non dura: la squadra di casa si porta in vantaggio. Secondo sms: «Il Pembroke segnerà cinque gol». La profezia sembra davvero azzardata, in quel momento il parziale è 2-0. Poi succede l’inimmaginabile: in 12 minuti gli ospiti ribaltano il risultato, all’intervallo il tabellino recita 2-3. Finirà 3-5. Per la gioia dei tifosi della squadra vittoriosa. Ma - soprattutto - per quella dei tanti (troppi) scommettitori che hanno indovinato l’esito della sfida. L’uomo con la sfera di cristallo si chiama Francesco Baranca ed è il segretario generale di FederBet, organizzazione che riunisce una serie di bookmaker internazionali. La sua missione è andare a caccia di partite truccate. Quando ancora lavorava per Sky Sport 365, era stato tra i primi a denunciare il fenomeno del «matchfixing» in Italia a cui seguì l’inchiesta della procura di Cremona. Qui le doti divinatorie non c’entrano. Baranca non è un indovino: monitora in tempo reale i flussi di scommesse. E, a volte, i conti non tornano. «Ogni fine settimana si giocano partite truccate e i campionati italiani non sono un’oasi felice. Per combinare un risultato basta che siano d’accordo anche solo tre o quattro calciatori». Senza scordare il ruolo di dirigenti e affini: il direttore tecnico del sopraccitato Mosta è Adrian Farrugia, fratello di Robert, considerato dalla Procura di Catanzaro uno dei grandi finanziatori di combine delle partite di Lega Pro. Ma un risultato strambo non basta. Ecco così che l’oracolo del pallone torna a farsi vivo alle 11 di sabato: «Play off di serie B in Romania, il Mioveni batterà il Brasov segnando almeno 3 reti». Eppure il primo tempo fila via senza acuti, quando mancano pochi secondi all’intervallo il risultato è fermo sullo 0-0. Da segnalare solo qualche errore di troppo sottoporta. Intanto la quota dell’over (minimo 3 gol) sale. Poi accade qualcosa di strano: l’attaccante dei padroni di casa entra in area di rigore, tenta un dribbling, ma si allunga troppo la palla; l’azione sembra sfumare, finché un difensore interviene in scivolata e lo atterra. L’arbitro fischia: è calcio di rigore. Il Mioveni si scatena e segna tre reti in sei minuti. Su una respinta maldestra del portiere arriva il primo gol degli ospiti. Finisce 4-2. È un copione che si ripete ogni weekend: flussi di puntate anomali su risultati rocamboleschi e scommettitori che puntualmente ci prendono. Il fenomeno riguarda i campionati di mezza Europa, quasi sempre si tratta di serie minori. È la prova che le partite sono truccate? No. Ma il sospetto è per lo meno legittimo. Sabato 30 aprile, ore 17. Il Penafiel sfida l’Oriental per il campionato di serie B portoghese. «Over con segno 1», prevede Baranca. Agli scommettitori che hanno puntato su quel pronostico basta attendere il quinto minuto del secondo tempo: è 2-1. Poi arriva un’altra soffiata via sms: «Fra poco fanno il terzo». Passano quattro minuti e la profezia si avvera: il Penafiel cala il tris. Baranca «indovina» anche una partita della serie A romena (Viitorul Constanta-Targu Mures: 6-1) e una della serie B russa (Baltika-Arsenal Tula: 1-4). Il giro d’affari delle scommesse mondiali sul calcio è stimato in mille miliardi di euro all’anno: grossomodo 2/3 del nostro Pil. Solo la Serie A raccoglie 20 miliardi, calcola Sportradar. In Italia vigilare contro il calcio truccato spetta a Monopoli e polizia. Nell’ultima stagione le partite sospette segnalate alle Procure si contano sulle dita di una mano (al Messina il poco lusinghiero primato). Quindi tutto regolare? Non è così semplice. Infatti sempre più spesso i bookmakers, di fronte a flussi di scommesse anomali, decidono di non accettare puntate. «I calciatori che vendono le partite ci sono anche in Italia, eccome», racconta un dirigente di una società di scommesse, che chiede l’anonimato. «Ogni domenica rischiamo di perdere una montagna di soldi, ma ci siamo fatti furbi». In queste ultime giornate, infatti, la maggior parte delle partite di Lega Pro non viene quotata dalle agenzie. Eurobet, uno dei pochi operatori che accetta ancora scommesse sulla terza serie italiana, per l’ultima giornata ha lasciato aperte le puntate per otto partite su 27. Le quote sono blindate (tra 2 e 3,5) e dagli elenchi restano esclusi tutti i match del girone C, quello del Sud, considerato il più a rischio combine.
Scandalo nel mondo del calcio: truccate 1272 gare tra i dilettanti in Campania. Deferito Pastore. L'ex presidente del Comitato regionale, Vincenzo Pastore, è stato in carica dal 2012 al 2015, scrive Pasquale Tina il 24 luglio 2017 su “La Repubblica”. Scandalo nel calcio minore della Campania. E’ stato deferito l’ex presidente del comitato, Vincenzo Pastore. Tra le imputazioni c’è la violazione dell’articolo 7 del Codice di Giustizia Sportiva, ovvero l’illecito sportivo. “Nella qualità di presidente del comitato regionale campano (dal 2012 al 2015, ndr) – si legge nel dispositivo - poneva in essere, soprattutto nella stagione sportiva 2014/2015, condotte rivolte ad alterare il risultato di singole gare e l’esito dei relativi campionati, nella piena consapevolezza del proprio operato”. Secondo la Procura, Pastore "aveva previsto un sistema incentrato sulla costante e deliberata violazione della regolamentazione sportiva del Coni, nonché delle norme federali, legittimando l'utilizzazione, nei vari campionati, di un numero elevatissimo di calciatori risultati privi di tesseramento e di certificazione di idoneità sanitaria". In base al deferimento, sono state 1272 le gare irregolari, con 357 società coinvolte e 828 calciatori raggiunti da sanzioni. “Pastore – si legge nel deferimento – avrebbe favorito l’estensione del fenomeno procurando un ingente danno per l’immagine dell’organizzazione federale”. Il Comitato regionale campano è commissariato dall’aprile 2016: al vertice c’è Cosimo Sibilia, vice-presidente della Figc, che dovrebbe lasciare l’incarico a fine 2017 e poi ci saranno nuove elezioni.
Tratta di baby-calciatori dall'Africa e partite truccate: 4 arresti in Italia. Arrestati due presidenti e un agente che avevano messo su un giro di baby-calciatori dalla Costa d'Avorio. Toccate di striscio anche Inter e Fiorentina, scrive Gianni Carotenuto, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Nuovo scandalo nel mondo del calcio. La Polizia di Stato di Prato sta eseguendo quattro misure cautelari e numerose perquisizioni per immigrazione clandestina, falso documentale e favoreggiamento reale a carico di persone legate al mondo del calcio. A carico di molti di loro sono anche emersi profili di responsabilità per frode sportiva, consistita nell'aver alterato alcuni risultati calcistici. Gli indagati, in violazione delle disposizioni del Testo Unico concernente la disciplina dell'immigrazione, hanno compiuto atti diretti a procurare illegalmente l'ingresso nel territorio dello Stato di cittadini di origine africana, in particolare ivoriani minorenni, producendo presso l'Ambasciata Italiane di Abidjan, e poi presso l'Ufficio Immigrazione della Questura di Prato, documentazione attestante falsi stati. In particolare condizioni personali, quali quella di maternità biologica e filiazione naturale rispetto ai minori, atti funzionali a richiedere ed ottenere il rilascio dei visti di ingresso per motivi di ricongiungimento familiare, con successivo ottenimento dei permessi di soggiorno per motivi familiari. Le indagini della Polizia di Stato di Prato hanno permesso di accertare che la finalità dell'ingresso illegale dei cittadini di origine africana, è stata quella di far giocare i ragazzi in squadre di calcio italiane e europee in violazione anche delle norme FIFA che ne consentono il tesseramento. Tra le società coinvolte spiccano due club di Serie A, Inter e Fiorentina, a cui Prato e Sestese hanno venduto due giovanissimi giocatori ivoriani implicati nella tratta. Tuttavia, agli inquirenti risulta che nè i nerazzurri nè i viola fossero a conoscenza degli illeciti commessi dalle società di provenienza nel regolarizzare la posizione dei due ragazzi. Nel corso delle indagini sono emersi anche interessi connessi all'alterazione dei risultati di partite di calcio. La Squadra Mobile, a tal proposito, ha raccolto riscontri in merito all'alterazione di undici partite tra Lega Pro, Eccellenza e Promozione toscane. Oltre alle misure cautelari, i cui destinatari sono i presidenti delle due squadre di calcio del Prato e della Sestese (Firenze), un procuratore sportivo e una donna di origine ivoriana, sono state eseguite anche dodici perquisizioni a carico di arbitri di calcio, presidenti, segretari e direttori sportivi di altre società di calcio, tra cui la squadra di serie B del Cittadella.
Calcio, partite truccate e tratta di baby giocatori: arresti a Prato, scrive il 20 luglio 2017 Sky tg24. Eseguite 4 misure cautelari e 12 perquisizioni. Altre 11 persone indagate. Alcuni dirigenti avrebbero alterato i risultati e favorito l’ingresso illegale in Italia di minorenni di Paesi africani. Richiesto l'accesso agli atti di Inter, Fiorentina e Cittadella. Alcuni dirigenti calcistici avrebbero alterato i risultati di diverse partite e favorito l'ingresso illegale in Italia di minorenni africani, che in qualche caso sono stati poi ceduti a ignare squadre di serie superiore. La Polizia di Prato ha richiesto l'accesso agli atti societari di Inter, Fiorentina e Cittadella e ha eseguito quattro misure cautelari e 12 perquisizioni per immigrazione clandestina, falso documentale e favoreggiamento reale a carico di persone legate al mondo del calcio e la Procura. A carico di molti di questi sono emersi anche profili di responsabilità per frode sportiva per aver alterato alcuni risultati calcistici. Nell'ambito dell'operazione, Inter, Fiorentina e Cittadella hanno ricevuto una richiesta di accesso agli atti societari dalla procura della Repubblica di Prato. I magistrati indagano sul trasferimento di due giovani di origine africana che sarebbero entrati in Italia con documentazioni fittizie al fine di ottenere, per le società che ne detenevano il cartellino di tesseramento (A.C. Prato e Sestese), profitti sulla vendita dei giocatori. I risultati di undici partite di Lega Pro, Categoria Eccellenza Toscana e Campionato Regionale Toscano di Promozione sarebbero stati alterati, secondo quanto emerso nel corso delle indagini. Le perquisizioni hanno riguardato arbitri, presidenti, segretari e direttori sportivi del Prato calcio (che milita in Lega Pro) e di altre società. L'inchiesta ha portato a quattro misure cautelari: due arresti ai domiciliari, una custodia in carcere e l'interdizione dalla gestione della squadra. I destinatari sono i presidenti delle due squadre di Calcio del Prato e della Sestese, un procuratore sportivo e una donna di origine ivoriana. Nel corso dell'operazione altre undici persone sono state indagate per l'alterazione dei risultati, tra cui molti giovani giocatori di calcio delle serie dilettantistiche. Gli indagati avrebbero procurato illegalmente l'ingresso in Italia di cittadini di origine africana, in particolare ivoriani minorenni, producendo presso l'Ambasciata Italiane di Abidjain e poi presso l'Ufficio Immigrazione della Questura di Prato, documentazione attestante false parentele, quali quella di maternità biologica e filiazione naturale rispetto ai minori, allo scopo di ottenere il rilascio dei visti di ingresso per motivi di ricongiungimento familiare, con successivo ottenimento dei permessi di soggiorno per motivi familiari. Le indagini hanno permesso, fra l'altro, di accertare che la finalità dell'ingresso illegale dei cittadini di origine africana era quella di far giocare i ragazzi in squadre di calcio italiane e europee in violazione anche delle norme FIFA che ne consentono il tesseramento. Uno di questi sarebbe stato ceduto all'Inter, squadra che sarebbe stata però ignara dell'irregolarità della sua posizione. L'operazione sarebbe nata da una indagine su un sospetto caso di immigrazione clandestina, che ha fatto emergere una serie di illeciti di varia natura.
L'inchiesta. Tratta di baby-calciatori africani, scrive Fulvio Fulvi venerdì 21 luglio 2017 su "Avvenire". Giovanissimi talenti ivoriani e senegalesi sarebbero stati venduti a Fiorentina e Inter. Sospette partite truccate in Lega Pro. Falsi certificati di maternità per tesserare giocatori minorenni provenienti dall’Africa e venderli a società di categoria superiore. Undici partite truccate e un possibile giro di totoscommesse (ancora da accertare). Trema di nuovo l’italico mondo del pallone. L’inchiesta giudiziaria stavolta è partita da Prato ma rischia di allargarsi al resto del Paese visto che i destinatari delle cessioni dei baby-calciatori, tutti ivoriani e senegalesi, risultano club professionistici come Inter, Fiorentina e Cittadella, ai quali sono stati chiesti gli atti societari. Intanto sono finiti nei guai, con l’accusa d’immigrazione clandestina, falso documentale e favoreggiamento reale, l’amministratore delegato della locale squadra (che milita in Lega Pro), Paolo Toccafondi, sottoposto alla misura cautelare dell’interdizione per quattro mesi dalle funzioni dirigenziali, il presidente della società dilettantistica di Sesto Fiorentino, la Sestese, Filippo Giusti, e l’agente sportivo Filippo Pacini, entrambi agli arresti domiciliari. Una donna di origine ivoriana che si sarebbe prestata al raggiro è stata portata invece in carcere: avrebbe falsamente attestato di essere la madre di un calciatore tredicenne in seguito diventato oggetto di una trattativa di compravendita dal Prato alla Fiorentina, società che però sarebbe del tutto estranea alla vicenda, ritenendosi, anzi, 'parte lesa'. Ieri mattina, gli agenti della Squadra mobile hanno eseguito perquisizioni - ottenendo, pare, riscontri concreti - anche a carico di arbitri, presidenti, segretari e direttori sportivi di altre squadre di calcio. Undici persone sono state raggiunte da informazioni di garanzia, una ventina i soggetti coinvolti nell’operazione di polizia. È dunque scoppiata un’altra “calciopoli”? Presto per dirlo, anche se, secondo la Procura, sarebbero stati alterati alcuni risultati di match nei campionati di Lega Pro, Eccellenza e Promozione: una frode messa in atto probabilmente anche per consentire ai due sodalizi toscani di evitare le retrocessioni e quindi rimanere nelle rispettive categorie. Come e quanto si sia sviluppato questo sistema di corruzione, però, è ancora tutto da stabilire. Si indaga anche per scoprire se esiste un “giro” di scommesse clandestine. Ma l’attenzione del procuratore della Repubblica di Prato, Giuseppe Nicolosi, che coordina le indagini, è incentrata soprattutto sul trasferimento di due giovanissimi talenti calcistici della Costa d’Avorio che - in base all’ipotesi accusatoria - avrebbero fatto ingresso in Italia esibendo documentazioni fittizie - come presunte parentele, maternità biologiche e filiazioni naturali - al fine di ottenere illeciti profitti per le società che ne detenevano il cartellino di tesseramento (Prato e Sestese, appunto). I certificati sospetti sono stati presentati nelle richieste di espatrio all’ambasciata italiana di Abidjain e all’Ufficio immigrazione della questura di Prato. Lo scopo era quello di ottenere il rilascio dei visti di ingresso (a quanto pare fasulli) per motivi di ricongiungimento familiare, con l’ottenimento del successivo permesso di soggiorno. Le 'irregolarità' sin qui scoperte potrebbero essere solo la punta dell’iceberg di un sistema criminale ben più complesso: si parte dall’accusa, per le persone fin qui coinvolte, di violazione delle disposizioni del Testo Unico concernete la disciplina dell’immigrazione ma l’indagine potrebbe allargarsi ad altre possibili imputazioni. Decisiva, per la denuncia del caso, è stata la prova del Dna da cui risulterebbe che un calciatore ragazzino non è il figlio naturale della donna che lo aveva dichiarato. È stato l’allenatore della Sestese a segnalare alla polizia l’esistenza di uno «strano meccanismo di regolarizzazione» che riguardava alcuni atleti africani. Da qui l’inchiesta. I risultati delle investigazioni sui sospetti brogli sono stati trasmessi alla procura federale della Figc (Federazione italiana gioco calcio). Nel mirino ci sono 12 partite fra cui lo spareggio Prato- Tuttocuoio di Ponte a Egola (Pisa) per la permanenza in Lega Pro, due sfide giocate il 22 e il 28 maggio scorsi e terminate con un doppio pareggio 0-0, 22 che ha consentito al Prato di salvarsi e restare fra i professionisti. «Ci sono indizi di combine - ha detto il procuratore Nicolosi - ma è un’attività che dobbiamo approfondire, tre le persone coinvolte per il momento ed è una vicenda che per ora guardiamo tutta dal lato pratese. Non escludiamo, pertanto, degli sviluppi». Non risulta indagato il presidente uscente del Prato, Nicola Radici, mentre le investigazioni colpiscono direttamente, come abbiamo detto, l’attuale massimo dirigente della società toscana, Paolo Toccafondi, nei confronti del quale però non ci sono provvedimenti restrittivi della libertà. Per il reato di frode sportiva il codice penale prevede la pena massima di tre anni di reclusione, quindi non consente misure cautelari di qualsiasi tipo. «Si tratta tuttavia di una vicenda molto grave sotto il profilo dell’ordinamento sportivo» ha precisato il procuratore Nicolosi.
Partite truccate e scommesse: attenti alle truffe sulle pagine Facebook, scrive il 30/03/2017 Paolo Signorelli su "L’Ultima Ribattuta." Quante partite sono state truccate nel corso della storia del calcio? Tante, tantissime purtroppo. Molte anche insospettabili. In Italia sono stati diversi gli scandali che hanno macchiato questo bellissimo sport. Calcio italiano e non solo però, visto che quello di “vendersi” un match è un malvezzo usato anche e soprattutto in altri paesi. E il business che si è creato intorno alle “scommesse sicure” non ha limiti. Gli addetti ai lavori di alcuni paesi stranieri, Romania in primis, sembrano aver rinunciato a combattere questa deriva. Chi ha ormai preso atto che gli ambienti dove girano tantissimi soldi e interessi non possono essere lasciati incontaminati dalla malavita, ha provato a prendere un vantaggio proprio da questa situazione. Come scrive il blog del Fatto Quotidiano “Io Gioco pulito”, “Gli scommettitori che prima cercavano i migliori pronostici ora cercano le gare fixed – sistemate”. Di che si tratta? Di Una sorta di investimento sicuro (ma solo all’apparenza) a cui affidarsi. E su Internet basta cercare “Match fixed tips – Pronostici partite truccate”, per far uscire siti e pagine Facebook (quasi tutti dell’Est Europa) che parlano di questo. In poche parole qualcuno a conoscenza della gara “apparecchiata”, in cambio di soldi ti dirà su quale scommettere. “Non è raro trovare anche foto, retrodatate ovviamente grazie alla apposita funzione di Facebook o ritoccate con PhotoShop, per far vedere l’autenticità della giocata ed invogliare gli ingenui acquirenti”. Ovviamente tali “consigli” hanno un costo. Dai cento ai duecento euro a gara. Se perdi, ti “regalano” un pronostico gratis per la prossima puntata. In molti ci sono cascati, anche perché hanno vinto qualcosina. Ma non si tratta di altro che di una nuova truffa online. E il perché lo spiega perfettamente il blog. “Mettiamo il caso che vogliano vendere a 200 euro il risultato di una partita di calcio di un campionato minore. Mettiamo il caso che abbiamo 9 acquirenti per questa partita. A 3 di questi verrà venduto il pronostico 1, ad altri 3 la X e agli ultimi 3 il pronostico 2 tutti a 200 euro. Già così i nostri truffatori hanno intascato 1800 euro (200 per 9). Ora i venditori scommetteranno 10 euro su ogni esito e poi in base a quello che risulterà vincente pubblicheranno la foto retrodatata e modificata con PhotoShop per modificare l’importo scommesso, da 10 a 1000 euro, e anche la vincita totale. Ovviamente 3 acquirenti saranno felici perché hanno vinto mentre altri sei saranno disperati poiché raggirati”. E via via con altri clienti. Un business creato ad hoc per lucrare sulla speranza delle persone di arricchirsi con il gioco d’azzardo. Un tunnel senza uscita.
MATCH FIXING, L’ULTIMA FRONTIERA DELLA TRUFFA ONLINE. IL METODO DEL 9-3-1. Scrive Emanuele Sabatino, 29 Marzo, 2017 su "Io gioco Pulito". La parola “Match Fixing – Partita sistemata o truccata” è salita alla ribalta negli ultimi anni ed entrata nel vocabolario collettivo a causa dei tantissimi scandali legati al calcio scommesse che hanno colpito il calcio italiano e non solo. Chi ha ormai preso atto che gli ambienti dove girano tantissimi soldi e interessi non possono essere lasciati incontaminati dalla malavita, ha provato a prendere un vantaggio proprio da questa situazione. Gli scommettitori che prima cercavano i migliori pronostici ora cercano le gare “fixed – sistemate”. Una sorta di investimento sicuro a cui affidarsi. Ad una ingenua domanda di questo tipo, chi il malavitoso e l’approfittatore lo fa di mestiere ha subito dato al mercato un’offerta molto allettante. Ecco allora che se cercate su Google “Match fixed tips – Pronostici partite truccate”, vi escono davanti agli occhi tantissimi siti e pagine Facebook, quasi tutti dell’Est Europa, che vertono sull’argomento. Questi siti/pagine dicono di offrire, dietro pagamento, il risultato di partite di campionati minori che sono state truccate. Non è raro trovare anche foto, retrodatate ovviamente grazie alla apposita funzione di Facebook o comunque ritoccate con PhotoShop, per far vedere l’autenticità della giocata ed invogliare gli ingenui acquirenti.
I COSTI: Si va dai cento ai duecento euro per partita, loro garantiscono la vincita al 100% ma vogliono oltre ai soldi anche una percentuale sulla vittoria. Se il pronostico per un incidente dovesse rivelarsi errato, in alcuni casi ti offrono un pronostico gratuito come prova della loro onestà. In alcuni casi il pagamento va diviso in due fasi: la prima metà prima del match, seconda metà più percentuale della vincita, che varia dal 10 al 20%, alla conclusione della gara.
LA TRUFFA DEL METODO DEL 9-3-1: Se è una truffa, e lo è per certo, come fanno questi signori ad avere tanta credibilità? Questa è una giusta domanda da porsi alla quale è facile rispondere. Mettiamo il caso che vogliano vendere a 200 euro il risultato di una partita di calcio di un campionato minore. Mettiamo il caso che abbiamo 9 acquirenti per questa partita. A 3 di questi verrà venduto il pronostico 1, ad altri 3 la X e agli ultimi 3 il pronostico 2 tutti a 200 euro. Già così i nostri truffatori hanno intascato 1800 euro (200*9). Ora i venditori scommetteranno 10 euro su ogni esito e poi in base a quello che risulterà vincente pubblicheranno la foto retrodatata e modificata con PhotoShop per modificare l’importo scommesso, da 10 a 1000 euro, e anche la vincita totale. Ovviamente 3 acquirenti saranno felici perché hanno vinto mentre altri sei saranno disperati poiché raggirati. Qui scatta la fase due. I sei perdenti verranno bloccati o comunque gli verrà impedito di commentare e screditare, ai 3 vincitori verrà venduto un nuovo pronostico stavolta però a 1000 euro l’uno. Al primo viene detto di puntare sull’1, al secondo sulla X ed al terzo sul 2. Totale incassato 3000 euro. Solita manfrina di giocare 10 euro su tutti e tre gli esiti per poi modificare e pubblicare la foto e si passa all’ultima fase. Uno scommettitore sarà entusiasta ed ora avrà cieca fiducia in questo sistema pensando di aver trovato la soluzione a tutti i problemi, mentre gli altri due, nello sconforto più totale, proveranno a vendicarsi con dei commenti negativi. Commenti che non vedranno mai la luce poiché bloccati. Si arriva quindi alla fase tre dove l’ultimo scommettitore, uscito due volte vincitore dalle prime due fasi si appresta a comprare il terzo pronostico che stavolta però costa 5000 euro. Nonostante il prezzo alto non esiterà a versare i soldi ai venditori fraudolenti e prima o poi perderà. I malviventi avranno così portato a casa, sommando le tre fasi 9800 euro. (1800 + 3000 + 5000), mentre i poveri, in tutti i sensi, scommettitori avranno pagato molto caramente la voglia di fare i furbetti e risolvere tutti i loro problemi scommettendo su partite truccate.
Tutto il calcio corrotto per corrotto, scrive Bruno Manfellotto su “L’Espresso”. Arresti ai vertici Fifa. Partite truccate in serie D. È ora che il football dica addio a finti manager, truffe da strapaese e personaggi impresentabili. Sembrava un pomeriggio d’agosto, quello di lunedì 25 maggio 2015 a Roma: nessuno per strada, silenzio irreale, giù la saracinesca del tabaccaio sotto casa già alle cinque della sera: era in programma Lazio-Roma e la città s’era fermata. Alla faccia dei cinquanta arresti, dei settanta indagati e delle decine di perquisizioni della “Dirty soccer”, l’inchiesta sulle scommesse pilotate della Procura di Catanzaro, stavolta su serie D, serie B e Lega Pro. Niente da fare, non si sciopera né si diserta, tutti allo stadio o davanti alla tv. Più della combine poté il campanile. Anzi, per paradosso la truffa diventa concime per la passione di parte, visto che - inutile a dirsi - riguarda sempre la squadra avversaria… E comunque ci si consola pensando che mica l’Italia fa eccezione, che il calcio è così ovunque e a tutti i livelli, a cominciare dalla Fifa dell’eterno Joseph Blatter campione di favori e tangenti. Come dimostrano i clamorosi arresti di mercoledì a Zurigo. Per l’Fbi da vent’anni i vertici del calcio mondiale prendono mazzette per assegnare mondiali e diritti tv. E poi già due anni fa, grazie a un’indagine congiunta svolta dalle polizie di tredici paesi d’Europa, era stata scoperta una vasta rete criminale impegnata nel truccare partite di calcio: 425 tra arbitri, guardalinee, dirigenti di club e giocatori erano stati accusati di aver falsato quasi 400 partite, pure nell’inflessibile Germania. Tutto il mondo è paese? Sì, ma questo non può diventare un rassicurante alibi. Perché stavolta l’Italia conquista un altro triste primato per estensione e diffusione del fenomeno. E Renzi se n’è indignato. “Dirty soccer” dimostra che la voglia di imbrogli non è figlia solo del mostruoso volume d’affari della serie A, ricca di diritti tv e merchandising. No, basta anche un giro locale per smuovere appetiti e interessare la ’ndrangheta, sempre molto attenta al mondo del pallone. Là dove girano tanti soldi, però, non ci sono stati i vantaggi che ci si aspettava. La corsa ai diritti tv non ha garantito l’unico investimento veramente importante per un club: uno stadio di proprietà. Juventus a parte, nessuno ci è riuscito, forse nemmeno ha voluto. Attratti da questa valanga di euro, poi, industria e finanza, Unicredit compresa, sono entrate nel mondo del pallone sostituendo patron dalle risorse non illimitate, in molti casi a loro volta poi rimpiazzati da capitali stranieri; ma non è bastato a creare una barriera capace di contenere imbrogli, truffe e corruzione. Si sono visti in campo Berlusconi e Della Valle, Moratti e Pirelli, Fiat e Garrone e De Laurentiis, e anche imprenditori minori ma spregiudicati come Preziosi e Ferrero, Cellino e Zamparini, chiudere gli occhi dinanzi a comportamenti dubbi e affidare la gestione delle squadre a dirigenti che non avrebbero accettato nelle loro aziende, e concedere ai giocatori capricci e benefit inimmaginabili per uno qualsiasi dei loro dipendenti. Insomma, si sono adeguati al sistema fino a proteggerlo infarcendo le strutture federali di controllo di personaggi indecenti. E chissà se è stato il sistema Moggi a inquinare il calcio, o se i vizi antichi e profondi del Paese ne sono stati brodo di coltura. Comunque tutti hanno preso atto che il pallone è un altro pianeta dove vigono codici speciali, e la corruzione che vi alligna diviene spettacolo nello spettacolo. Solo che c’è un’aggravante tutta italiana: qui il malaffare si salda con l’impunità che a sua volta alimenta l’imbroglio. Giunto fino in Cassazione, il sistema Moggi è stato confermato per ciò che era, compravendita di arbitri e partite, ma il suo ideatore è stato salvato dalla prescrizione. Quasi dieci anni dopo i fatti. Come Claudio Lotito. Ma accusa, processo e condanna non hanno certo impedito al presidente della Lazio di restare uno dei padroni del calcio, come le intercettazioni confermano. Almeno, quando i tedeschi nel 2005 scoprirono che c’era del marcio nel loro calcio, i colpevoli si beccarono da 18 a 29 mesi di carcere. Per emettere sentenza il Tribunale impiegò un anno. La verità è che forse il calcio italiano è rimasto più o meno quello di Lino Banfi-Oronzo Canà. Ma se è solo campanile, passione e ultrà costa troppo e non potrà mai essere alla pari del calcio-business del nord Europa; se invece vuole diventare industria, come costi incassi e partecipazione consentirebbero, allora deve liberarsi dei finti manager, delle truffe da strapaese e degli impresentabili, e muoversi con le regole e i vincoli di una grande azienda che opera in regime di concorrenza. Campa cavallo.
Futbolclub, il circolo sportivo dei potenti. Il centro sportivo sul Tevere incassa milioni ma paga solo 4.800 euro l’anno d’affitto al Comune. E con un prestito pubblico ha costruito strutture abusive. L’incredibile affare di una società che unisce i big dello sport, scrive Gianfrancesco Turano su "L'Espresso". Il Futbolclub è un circolo sportivo romano che incassa milioni all'anno ma paga 4.800 euro di affitto al Comune, proprietario dell'area. Solo dal subaffitto del ristorante il gestore del club, Guido Tommasi, figlio del decano dei cronisti sportivi italiani Rino Tommasi, incassa 36 mila euro, quasi dieci volte l'affitto. Intorno al circolo, spiega l'Espresso in un'inchiesta in edicola da venerdì 29 maggio 2015, si alternano varie associazioni sportive fra cui la Futbol 22, che presenta fra i soci il presidente del Coni Giovanni Malagò, i figli di Francesco Gaetano Caltagirone, banchieri come Arturo Nattino (Finnat) e Marco Figus (Nomura), politici come il berlusconiano Ignazio Abrignani, imprenditori come i fratelli Guido e Luca Formilli Fendi, i commercianti della capitale Giuseppe Ciampini e Dario Roscioli e professionisti come Luca Bergamini, attuale consigliere di amministrazione del Bologna di Joe Tacopina. Negli anni il Futbol club ha eseguito una serie di lavori, in gran parte abusivi, grazie a un prestito concesso dal Credito sportivo, banca pubblica partecipata da Coni Servizi, e garantito dallo stesso Comune capitolino che oggi risulta debitore di alcune rate non pagate del mutuo. L'assessorato allo Sport della giunta Marino ha chiesto a Tommasi una fideiussione pena la decadenza di una concessione assegnata nel 1999 e rinnovata nel 2004. Prima di arrivare a Tommasi, il club ha accolto la Gea Academy, la scuola calcio creata dall'agenzia sportiva protagonista di Calciopoli.
Il pallone perduto in un mondo di ladri. Il calcio fa muovere molti miliardi ed è troppo facile metterci le mani sopra, scrive Maurizio Crosetti su “La Repubblica”. È ufficiale, il mondo del calcio è un mondo di ladri. Che siano i nostri rubagalline di provincia oppure i faraoni della Fifa. La sostanza non cambia: il pallone fa muovere miliardi, troppi, ed è troppo facile metterci le mani. La retata all'alba nell'hotel di Zurigo, una scena da Chicago anni Venti che però sembrava una parodia di Aldo, Giovanni e Giacomo, smaschera quello che tutti sapevano: il regno del colonnello Blatter è un centro di potere economico e finanziario globale, che fattura oltre un miliardo di dollari all'anno, ma anche un'associazione a delinquere. Si calcola che almeno due miliardi di persone seguano il calcio in ogni angolo del pianeta, dalle megalopoli alla savana, da Wembley alle terre degli aborigeni. Cosa gli diciamo, adesso? Tra Italia e resto del mondo, in poche settimane abbiamo visto: corruzione, estorsione, riciclaggio, 'ndrangheta, frodi telematiche, violenza ultrà, razzismo, sessismo, senza farci mancare nuove ondate di scommesse clandestine (in Lega Pro e serie D) e tangenti mondiali da 150 milioni di euro. È un pianeta nel quale il marciume non conosce confini, dai campetti sporchi di Puteolana e Neapolis fino alle sale tutte ori e stucchi dove i padroni del pallone si spartiscono prebende, onori e una montagna di denaro. Da quasi vent'anni Blatter fa quello che vuole, porta il mondiale di calcio di qua e di là, gli ultimi ad essere accontentati sono stati Putin (non proprio un esempio in quanto a diritti umani) e gli sceicchi del Qatar (calendari stravolti, morti nei cantieri, un macabro circo). Per lui i voti si contano, non si pesano, e tutti valgono 1 quando si tratta di scegliere il presidente (domani è il giorno, e l'ottantenne Blatter resta favorito, incredibile ma vero), oppure quando c'è da decidere la sede di una coppa. E per le Olimpiadi non è diverso, l'identico meccanismo guida i parrucconi del Cio, quasi sempre vegliardi abbarbicati alle poltrone e ai conti correnti. Il guaio è che Fifa e Cio sono terre di nessuno, dove valgono solo le leggi interne e i controlli sono fasulli: è sufficiente sbandierare l'autonomia dello sport nei confronti della politica (loro la vorrebbero anche verso la magistratura), ed ecco che le barriere si alzano, invalicabili. Il vero crimine di questi personaggi è avere violentato una passione popolare: miliardi di persone, ragazzini e vecchi, uomini e donne, sentono il cuore che batte all'impazzata dietro una palla, e i biechi burosauri ne approfittano, facendo di quell'amore un turpe commercio. Del resto, ormai anche i campioni sono di proprietà di fondi di investimento. Sono aziende, non solo dispensatori di bellezza. L'impunità di quelli come Blatter (qualcuno simile lo abbiamo pure in Italia, nello sport senza vergogna che non sa e non vuole cambiare mai la sua classe dirigente) è il vero scandalo che si ripete da decenni. Nonostante denunce, testimonianze, inchieste giudiziarie e giornalistiche, nulla ha potuto scalfire il regime quasi dinastico dei burosauri. Gente che dopo elezioni-burla comanda a vita come i pontefici, gli imperatori romani (finché qualcuno non faceva loro la pelle), come Ramesse II o il Re Sole. Ed è pazzesco che dopo la retata dell'Fbi, con gli arrestati nascosti dietro le lenzuola, il colonnello Blatter possa ancora contare sull'appoggio di circa 150 federazioni su 209, comprese l'Africa e le Americhe, mentre il nostro immarcescibile Tavecchio dichiara che solo oggi deciderà per chi votare. Alla buon'ora, si vede che il Banana ha ancora qualche dubbio, e magari subisce il fascino del colonnello. Ma si può credere al calcio, se chi lo governa è l'esatto opposto della credibilità? Cosa raccontiamo ai nostri figli che si ostinano a raccogliere figurine? Forse bisognerebbe dirgli di concentrarsi solo su Messi e Tevez e lasciar perdere il resto, ma pure loro sono presi dal meccanismo del merchandising , vogliono la maglietta dell'asso, dipendono dai palinsesti televisivi e dal mercato dei diritti che li sostiene. Tutto è commercio, ogni gesto dell'atleta e del tifoso, e questa deriva ha permesso alla Fifa di comandare così, impunita: una deriva inventata, promossa e sfruttata da quelli come Blatter. Certo, fa effetto che sia intervenuto addirittura il Dipartimento di giustizia americano, e che le manette ora stringano i polsi di un paio di vicepresidenti Fifa. Quando qualche intoccabile viene finalmente toccato, nonostante l'amarezza è sempre un bel giorno.
Quella retata nel fortino di Blatter: in carcere nascosti dalle lenzuola, la vergogna dei signori del pallone. Reportage. Lo svizzero ha un ampio margine per essere rieletto al vertice della Fifa: può contare su 150 voti su 209 totali, scrive Andrea Sorrentino su “La Repubblica”. Davanti al numero 20 di Fifa-Strasse i reporter improvvisano dirette televisive, mentre gli obiettivi inquadrano la fortezza protetta dal fogliame. L'assedio prende vita. "È una giornata difficile, ma per voi... La Fifa è tranquilla, lasciateci lavorare", butta lì un dirigente, il vestito blu stirato di fresco e il logo della Fifa trionfante sul petto, prima di inforcare il monopattino e perdersi nel bosco. È una giornata normale, certo. Anche se la magnifica fortezza è assediata, e la Fifa barcolla. Anche se fuori da questa Xanadu, che Sepp Blatter ha eretto per celebrare se stesso e il suo trentennale potere, il mondo si fa un sacco di domande e non riceve risposte. Da una poltrona della sua Xanadu, avvolto da quella nube di profumo francese che è uno dei suoi tratti distintivi, giusto nove anni fa Blatter sussurrava ieratico ai giornalisti italiani, gli occhi socchiusi: "Calciopoli è il più grande scandalo della storia del calcio, che peccato...". Mai avrebbe pensato che 40 giorni dopo gli sarebbe toccato premiare l'Italia campione del mondo a Berlino, infatti si guardò bene dal farlo. Né poteva immaginare che uno scandalo ben peggiore avrebbe travolto lui e la Fifa alla vigilia della sua quinta elezione a capo del calcio mondiale. Ma il colonnello di Visp ha l'improntitudine e il pelo sullo stomaco di chi ha navigato i sette mari. Non è arrivato a 79 anni coperto di cariche, gloria e scandali per niente. Quindi anche con due inchieste internazionali sul tavolo e gli arresti intorno a lui, il suo obiettivo è resistere, e farsi rieleggere domani dal Congresso Fifa. Trincerato nel suo nido d'aquila, Blatter fa prima dire al portavoce Walter Di Gregorio che delle inchieste la Fifa addirittura è ben felice ("Abbiamo accolto favorevolmente il procedimento, siamo la parte lesa e stiamo cooperando. Il presidente della Fifa e il segretario generale non sono coinvolti nelle accuse"), poi interviene lui stesso, belando la sua preoccupazione per il brutto mondo in cui gli capita di vivere: "È un momento difficile per il calcio, per i tifosi e per la Fifa...". In realtà, in queste ore convulse, a Blatter preme la rielezione sopra ogni cosa. Raccogliendo i frutti delle sue decennali manovre politiche, il presidente uscente nonostante tutto ha un cospicuo vantaggio sullo sfidante, il principe giordano Ali bin Al Hussein, mentre gli altri candidati si sono ritirati, convinti che fosse inutile immolarsi: Blatter ha dalla sua circa 150 voti sui 209 totali. I continenti più grandi e popolosi sono con lui, mentre l'Europa è divisa, anche se il blocco dell'Est voterà Blatter. Lo sfidante Al Hussein, dopo qualche ora di esitazione, prova a dare una spallata, chissà con quanta convinzione: "È un triste giorno per il calcio. È necessario trovare una nuova leadership che ripristini la fiducia di centinaia di milioni di sportivi: non si può andare avanti così". E nel centro di Zurigo, protetto dall'anonimato perché non si sa mai, un dirigente centramericano confida: "La Concacaf ha sempre sostenuto Blatter, però questi arresti sono terribili. È un danno di immagine enorme per la Fifa, considerato il livello delle accuse e il fatto che arrivino dal procuratore de- gli Stati Uniti. Non vorrei che nel segreto dell'urna qualche nazione ripensasse il suo voto, a sorpresa. Anche se è un po' tardi". Ma per la Fifa gli arresti riguarderebbero solo personaggi marginali, mariuoli, brontosauri di apparato, che facevano affari illeciti con i diritti tv e il marketing. Dirigenti già chiacchierati da tempo, come il sulfureo Jack Warner da Trinidad, arrestato nella notte nel suo Paese e subito rilasciato dietro una cauzione di 2,5 milioni di dollari (era uscito dalla Fifa nel 2011 dopo enormi accuse di corruzione). O il brasiliano Marin, "uno dei più grandi ladri nel mondo dello sport", come lo definisce da sempre Romario, anche se il successore di Marin, Del Nero, fa spallucce: "Ero all'oscuro di tutto". Jeffrey Webb, delle Cayman, aveva iniziato una campagna moralizzatrice nella Fifa, antirazzismo e anticorruzione: invece hanno arrestato pure lui, insieme agli altri sei. Tutti sorpresi all'alba nel loro letto, nelle suite dell'hotel Baur au Lac, cinque stelle con vista sul lago e sui picchi alpini, una dimora da principi, infatti ospita i grandi elettori della Fifa. Gli agenti del Bureau si sono fatti dare i numeri delle stanze dal concierge poi sono saliti di persona, hanno bussato, li hanno portati via. Chi protetto da un lenzuolo, chi da un'uscita sul retro. Sei di loro si oppongono subito all'estradizione negli Stati Uniti. Altri sette dirigenti hanno ricevuto mandati di cattura, tra cui l'ineffabile paraguaiano Nicolas Leoz, 86 anni, dirigente della federazione sudamericana per 27 anni, eppure ai mondiali di Italia '90 fu beccato a rivendere i biglietti della sua dotazione ai bagarini. Anche questo è stata la Fifa nel trentennio lungo di Sepp Blatter, direttore tecnico nel 1981, poi segretario generale, poi presidente per quattro mandati, quasi cinque. Ora fronteggia l'ultimo scandalo, eppure è sicuro di farla franca. Magari domani sera, al momento della proclamazione, farà come nel 2007, quando dopo lo scrosciante applauso dell'uditorio che sancì la sua elezione a presidente, si sciolse in un pianto. Lacrime da coccodrillo, anzi da caimano.
Usa accusano la Fifa: "Hanno corrotto il calcio ma li elimineremo". La protesta della Russia. Undici sospesi nell'indagine Fbi sugli ultimi 20 anni: gare per assegnazione dei mondiali, accordi marketing e diritti tv: si sospettano tangenti per 150 milioni di dollari. Presidente Blatter per il momento non incriminato. Ministro Esteri russo: "Solita ingerenza americana", scrive “La Repubblica”. Giornata nera per il mondo del calcio con risvolti da giallo politico internazionale. La giustizia americana, Fbi in testa, mette sotto accusa il vertice della Fifa e la Russia attacca gli Usa per ingerenza. Accuse durissime di corruzione dalle autorità di giustizia statunitensi nei confronti dei vertici della Federazione. "Gli abbiamo mostrato il cartellino rosso...", hanno commentato il procuratore generale, i vertici di Fbi e dipartimento di Giustizia, l'operazione di questa mattina a Zurigo che ha portato all'arresto di sette dirigenti della Fifa. In serata l'attacco da Mosca. "Un altro caso di illegale uso extraterritoriale della legge Usa. Ancora una volta esortiamo Washington a smettere di cercare di ergersi a giudice all'esterno dei suoi confini e di seguire le procedure legali internazionali generalmente accettate. La campagna della candidatura della Russia per ospitare il Mondiali di calcio del 2018 è stata fatta in completa conformità con le norme etiche della Fifa e il comitato organizzativo dei Mondiali è pronto a collaborare all'esame di tutte le circostanze legate dalla campagna per la candidatura" ha commentato il ministro degli Esteri russo sugli arresti legati anche per i mondiali di calcio in Russia nel 2018 e in Qatar nel 2022. La Fifa ha sospeso provvisoriamente undici persone tra cui il britannico Jeffrey Webb, uno dei suoi vicepresidenti e numero uno della Concacaf, dopo i procedimenti avviati dalla giustizia americana. Oltre al vicepresidente figurano i già citati membri dell'esecutivo Jack Warner, Nicolßs Leoz, Chuck Blazer e Daryll Warner. L'operazione ha portato all'arresto di altri dirigenti della Fifa che stavano partecipando alla convention per la rielezione di Joseph Blatter: Eduardo Li, Julio Rocha (responsabile dello sviluppo della Fifa), Costas Takkas (Ufficio di presidenza della Concacaf), Eugenio Figueredo (vicepresidente Fifa ed ex presidente della Conmebol), Rafael Esquivel (presidente della Federcalcio venezuelana) e Josè Maria Marin (fino a un mese fa scorso mese alla guida della Federazione brasiliana). Gli agenti dell'Fbi hanno indagato tre anni sull'organo di governo del calcio mondiale. A imprimere un'accelerazione all'azione delle autorità americane sarebbe stata la decisione di collaborare con Fbe e dipartimento di giustizia, dell'ex procuratore Michael Garcia, che di recente ha preso le distanze dalla Fifa dopo essere stato assunto dall'associazione per svolgere un'indagine interna. Indagine che i vertici della Fifa hanno archiviato per inesistenza di fatti che provino la corruzione. Conclusioni da cui l'ex procuratore si è dissociato e si è rivolto alla Fbi. Il Dipartimento di giustizia statunitense conferma che sono 14 gli imputati per associazione a delinquere, frodi telematiche e riciclaggio di denaro sporco - reati consumati in un arco di tempo che copre gli ultimi 24 anni - finiti nel mirino degli inquirenti americani. "Dopo decenni di quella che sospettiamo essere una corruzione sfacciata, il calcio internazionale ha bisogno di un nuovo inizio", le parole di Kelly T. Currie, procuratore del distretto Est di New York. Il procuratore generale degli Stati Uniti, Loretta Lynch è stata durissima: "Si tratta di una corruzione dilagante, sistemica e che affonda le sue radici all'estero e qui negli Usa. Coinvolge almeno due generazioni di dirigenti che hanno abusato delle loro posizioni per oltre 20 anni per intascare milioni di dollari in tangenti. Vogliamo che il calcio resti libero. Abbiamo arrestato i dirigenti Fifa per evitare casi di frodi internazionali. Negli Stati Uniti è prevista l'edizione per il centenario della Coppa America nel 2016, le nostre indagini hanno rilevato un giro d'affari che si aggira attorno ai 10 mln di dollari. Nel 2004, prima della Coppa del mondo 2010, la prima in Africa, i dirigenti Fifa hanno preso tangenti per influenzare la decisione di ospitare in Africa la coppa" ha detto il procuratore generale. "Noi sradicheremo la corruzione dal calcio mondiale: hanno corrotto il sistema per arricchirsi. Due degli arrestati si sono già dichiarati colpevoli. Blatter al momento non è indagato. Abbiamo ringraziato le autorità svizzere per la collaborazione, il passo successivo sarà che le persone accusate arrivino negli Usa per difendersi e presentare le proprie posizioni in tribunale". Ma l'Ufficio federale di giustizia svizzero fa sapere che sei arrestati hanno già annunciato di essere contrari all'estradizione veloce. "Le azioni di oggi dall'ufficio Svizzero del procuratore generale sono state messe in moto quando abbiamo presentato il nostro dossier alle autorità svizzere alla fine dello scorso anno" afferma il presidente della Fifa, Sepp Blatter in un comunicato. "Questo è un momento difficile per il calcio, per i tifosi e per la Fifa come organizzazione. Comprendiamo la delusione che molti hanno espresso e so che gli eventi di oggi avranno un impatto sul modo in cui molte persone ci vedono. Per quanto sfortunati sono questi eventi, dovrebbe essere chiaro che accogliamo con favore le azioni e le indagini da parte delle autorità statunitensi e svizzere e crediamo che ci aiuterà a rafforzare le misure che la Fifa ha già preso per sradicare ogni malefatta nel calcio", ha proseguito Blatter. Anche il direttore dell'Fbi, James Comey, ha avuto toni duri contro i vertici della Fifa: "Come affermato nell'indagine, i sospettati hanno incoraggiato una cultura di corruzione e avidità che ha creato un campo di gioco iniquo nello sport più grande del mondo. Pagamenti segreti e illeciti, tangenti e mazzette sono diventate il modo di fare affari nella Fifa quando i leader di un'organizzazione arrivano a ingannare gli stessi membri che dicono di rappresentare, allora devono rispondere" delle loro azioni. Comey ha infine sottolineato come l'indagine non riguardi solo lo sport, ma la legalità. "Questo caso non si basa sul calcio, ma sull'equità e sul rispetto delle leggi", ha detto il direttore dell'Fbi, concludendo: "I tifosi, i giocatori e gli sponsor che nel mondo amano questo gioco non dovrebbero preoccuparsi di funzionari che corrompono il loro sport. Questo è solo l'inizio non la fine del nostro lavoro per estirpare il male dal calcio mondiale. I dirigenti volevano tangenti per scegliere le compagnie di marketing che avrebbero lavorato con loro, dare loro i contratti, si parla di decine se non centinaia di milioni di dollari di profitti da questi tornei. Le tangenti spesso venivano gestite da intermediari e utilizzavano banche statunitensi per portare avanti i loro affari". Il Comitato esecutivo della Uefa - l'organo che governa il calcio europeo - si è riunito a Varsavia (dove questa sera è in programma la finale di Europa League tra Dnipro e Siviglia) e ha diramato una durissima dichiarazione. Dall'eloquente titolo "la Uefa mostra il cartellino rosso a questa Fifa". "Gli eventi di oggi sono un disastro per la Fifa e offuscano l'immagine del calcio nel suo complesso", recita la dichiarazione, "la Uefa è profondamente scioccata e amareggiata. Questi eventi mostrano, ancora una volta, che la corruzione è profondamente radicata nella cultura della Fifa. Vi è la necessità che l'intera Fifa venga 'riavviata' e che venga realizzata una vera riforma". Da Richard Weber, capo della sezione criminale dell'Irs (l'Agenzia del fisco) l'immagine più cruda della giornata nera del calcio mondiale: "Questa è davvero la coppa del mondo della corruzione: alla Fifa è stato mostrato il cartellino rosso. Ma agli appassionati questo sport voglio dire, non preoccupatevi, queste persone non corromperanno il vostro sport".
Quei signori del pallone in fuorigioco, scrive Gianni Riotta su “La Stampa”. Un anno fa, la finale della Coppa del Mondo di calcio Fifa tra Germania e Argentina è stata seguita in tv da un miliardo di esseri umani, con tre miliardi di interazioni Facebook e 10.313 tweet al secondo. Il calcio è il solo sport globale, capace di espandersi dove non aveva tradizione, Stati Uniti e Asia. Il pallone ha il fascino di una disciplina dove piccoletti come Maradona e Messi primeggiano accanto a colossi come Neuer, è perfetto anche per le donne, capace di impegnare ogni fisico e cultura nazionale, ispirare scrittori, musicisti, registi, artisti, gioco di scacchi su un prato grande fra 100 e 110 metri per 64-73. A decidere queste misure, come a stabilire che nelle partite Fifa World Cup guai a pagare con America Express, bere Pepsi o promuovere scarpe Nike, è l’ex agente turistico Sepp Blatter, svizzero, 79 anni, capo della Fifa dal 1998 grazie a sponsor universali come Coca Cola, Visa, Adidas e a dirigenti locali, spesso in odore di mazzette e tangenti. Ieri, 27 maggio 2015, alla vigilia dell’ennesima incoronazione di Blatter che i delegati paragonano dal podio a «Mandela, Martin Luther King e Gesù Cristo», polizia svizzera e Fbi Usa hanno incriminato 14 gerarchi del pallone, arrestando 7 dirigenti Fifa. L’accusa è aver incassato 140 milioni di euro illegalmente, i Mondiali assegnati al Qatar 2018 e alla Russia 2022 potrebbero essere stati comprati, manipolando le federazioni nazionali. La ministro della Giustizia Usa, Loretta Lynch, con il sostegno della poderosa agenzia fiscale Irs, accusa la Fifa con toni di solito riservati alla criminalità organizzata: traffici illeciti, frode fiscale e telematica, corruzione, ricatti, «un racket lungo 24 anni». Ci sono pentiti, come Charles Blazer, che ha pagato una multa da un milione e mezzo di euro, svelando però le malefatte degli ex colleghi Fifa, e c’è Michael Garcia, ex magistrato americano che la Fifa aveva incaricato di indagare sulla corruzione, salvo stracciarne in segreto la requisitoria. Le sue carte pesano ora contro gli incriminati. In un mondo normale, il capo della Fifa da quasi 20 anni sarebbe travolto dallo scandalo al voto di domani. Ma la Fifa ha regole più arcane del fuorigioco di rientro e irride la legge con l’arroganza di un arbitro che annulla un gol buono, grazie al no di Blatter alla tecnologia in campo. Dalle accuse Blatter esce sempre pulito, perché ha costruito con astuzia la Fifa come un castello di specchi, dove la sua immagine e il suo potere sono ovunque, le sue impronte digitali invisibili. Comanda lui, firmano i valvassori di minor rango. Che incassano da tempo e stavolta, forse, pagano. Non stupitevi dunque se la prossima finale in Qatar, sotto il solleone, vedesse la Coppa assegnata da un invulnerabile Blatter. Papa Ratzinger s’è dimesso, il Re di Spagna ha abdicato, il presidente Sarkozy ha perso le elezioni, Blatter resiste, stacca dividendi per la Fifa, ne allarga la presa ubiqua. Eppure ieri era diffuso il senso che per burocrati corrotti, sponsor blindati, risultati orientati e mercato nero dei tornei fossero in arrivo guai. «Siamo solo all’inizio dell’inchiesta, sradicheremo il malcostume» dichiara la Lynch. Giocatori, allenatori, manager, tifosi, si fanno l’impossibile domanda, è il triplice fischio di chiusura per Blatter? In sua difesa arrivano Russia e Qatar, sui media russi trapela l’idea che l’inchiesta di Washington sia solo guerra psicologica, per privare il Cremlino della prima Coppa del Mondo, diplomazia poco sportiva. Blatter giocherà, statene certi, come la Svizzera Anni 50, difesa ad oltranza ed entrate dure. Il calcio ha resistito al saluto fascista dei campioni di Pozzo, alle deportazioni di assi a Berlino e Mosca, all’«epidemia di itterizia» della Nazionale tedesca nel 1954 dopo la finale vinta in extremis contro l’Ungheria, per molti un caso di doping collettivo, alla guerra del football 1969 tra El Salvador e Honduras, alle stragi degli ultras, la tragedia Heysel 30 anni or sono, a scommesse e falsi. Arte pura, ballo collettivo, rito ancestrale, resisterà con la sua bellezza e le sue passioni anche a Sepp Blatter. Ma se la ministro Lynch e le autorità svizzere, magari con una mano da Michel Platini e dalla, finora spaurita, Uefa, riuscissero a battere ai rigori la corruzione Fifa, che bel giorno sarebbe. La vera missione è: calcio pulito. L’erede presunto di «Gesù, Mandela e King», l’ex agente Sepp Blatter magari riuscirà a cavarsela, e ad assistere in pensione al miracolo , scandaloso per lui, di un calcio tornato ad essere solo sport, il più magico degli sport.
Ecco perché la Fifa è sotto accusa. Il procuratore generale degli Stati Uniti spiega il sistema generalizzato di corruzione: milioni di dollari di tangenti per organizzare i mondiali, scrive “Panorama”. Un terremoto gigantesco scuote dalla fondamenta la Fifa, il massimo organismo del calcio mondiale. Il congresso di Zurigo in programma venerdì doveva essere poco più di una formalità per ratificare la quinta elezione consecutiva dello storico presidente uscente, Sepp Blatter, invece all'alba è scattato il finimondo. La polizia svizzera, su richiesta della Fbi, si è recata presso il lussuoso hotel Baur au Lac con sette mandati di arresto per figure di spicco della Fifa. I nomi di maggiore impatto sono quelli di due vicepresidenti: - Jeffrey Webb delle Isole Cayman ed Eugenio Figueredo dell'Uruguay. Con loro Eduardo Li (Costa Rica), Julio Rocha (Nicaragua), Rafael Esquivel (Venezuela), Jose Maria Marin (ex presidente della federazione brasiliana) e Costas Takkas (consigliere del presidente della Concacaf, la federazione Centroamericana, Webb). Risultano coinvolti anche l'ex numero uno della Concacaf, Jack Warner ed il paraguaiano Nicolas Leoz, fino al 2013 a capo della Comnebol. Per tutti le accuse sono pesantissime. Corruzione, riciclaggio e frode. Nel mirino, fra gli altri eventi, c'è l'assegnazione dei Mondiali del 2018 e 2022 a Russia e Qatar ma anche quelli di Sudafrica 2010. Per tutti è stata richiesta l'estradizione negli Stati Uniti. "È un sistema generalizzato che interessa gli ultimi 20 anni", ha detto senza giri di parole il procuratore generale degli Stati Uniti Loretta Lynch. "Vogliamo che il calcio resti libero e aperto a tutti, invece lo hanno corrotto. Dobbiamo far terminare questa pratica illegale". "Parliamo di persone che hanno ricevuto milioni di dollari per organizzare tornei in tutto il mondo - ha aggiunto - questi individui hanno utilizzato le loro posizioni di potere nelle organizzazioni per ottenere vantaggi dall'assegnazione di questi tornei e lo hanno fatto in maniera persistente". Tradotto in una parola si tratta di salatissime tangenti. Il presidente Sepp Blatter non è coinvolto ma, per usare le parole del suo portavoce Walter De Gregorio: "Non sta ballando nel suo ufficio". Questo blitz clamoroso infatti potrebbe far saltare il tavolo nella votazione di venerdì dove al 79enne svizzero si oppone il principe giordano Ali Bin Al Hussein che non ha mancato di far notare come oggi sia "un giorno triste per la Fifa". Nel frattempo il massimo organismo mondiale ha eretto un muro difensivo precisando in primis di essere "parte lesa" nella vicenda e di offrire la "massima collaborazione" agli inquirenti. Allo stesso tempo la Fifa si è affrettata a precisare che "La Coppa del Mondo del 2018 e del 2022 si svolgeranno rispettivamente in Russia e in Qatar, come previsto". E non a caso dalla Russia si sono affrettati subito a smentire ogni coinvolgimento. Il capo della commissione sport della Duma, la Camera bassa del Parlamento russo, Igor Ananskij, ha detto che "tutti questi commenti sulla Russia che potrebbe perdere il ruolo di organizzatrice del campionato del mondo del 2018 non hanno alcun fondamento. Non accadrà mai". Non solo, ma da Mosca è partito anche un duro attacco agli Stati Uniti per il "tentativo illecito di imporre le loro leggi su Paesi stranieri". È la denuncia del ministero degli Esteri russo in un comunicato. "Senza scendere nei dettagli delle accuse presentate, evidenziamo che questo è un altro caso di applicazione extraterritoriale delle leggi statunitensi", si legge nella nota pubblicata sul sito del ministero. "Ancora una volta - prosegue il comunicato - esortiamo Washington a smettere di cercare di ergersi a giudice all'esterno dei suoi confini e di seguire le procedure legali internazionali generalmente accettate". Lo scandalo, che potrebbe allargarsi a macchia d'olio, comunque resta perché, come sottolineato dal procuratore Lynch: "Tutto è iniziato nel 1991, sono coinvolte due generazioni di dirigenti calcistici compresi i direttori e i presidenti di confederazioni come la Concacaf e la Conmebol". Quelle in questione sono due confederazioni storicamente fedeli al dirigente svizzero in sede di votazione. Discorso simile vale per l'Africa mentre la Uefa, ed in primis il presidente Platini, si è schierata per Ali Bin Al Hussein. Con lui ci sono anche Luis Figo e Michel Van Praag, prima in lizza per la presidenza e poi ritiratisi per far convogliare i voti sul principe giordano. E l'Italia? In questo scenario non certo di festa a Zurigo ci sarà anche il presidente Carlo Tavecchio. Il voto italiano, spiegano dalla Figc, verrà deciso dopo una riunione interna in sede Uefa. Numeri alla mano Blatter resta favorito ma questo scossone potrebbe far cambiare idea a molti. Venerdì la sentenza definitiva, almeno dal punto di vista politico-sportivo.
Più che De Gasperi Renzi è il nuovo Moggi. I paragoni per si sprecano, ma come "Lucianone" il premier è interprete dell'efficace "il fine giustifica i mezzi", scrive Alessandro Sallusti Mercoledì 07/10/2015 su “Il Giornale”. In Italia c'è chi lo ha paragonato ad Alcide De Gasperi, in America non ricordo chi ha detto che sarebbe il nuovo Tony Blair. Per Matteo Renzi i paragoni si sprecano, tanto sono gratis. A vedere quello che succede, a me viene però in mente un altro paragone: Renzi come Luciano Moggi, detto Lucianone, padrone del calcio italiano per quasi un ventennio, caduto sul campo nel 2006 per eccesso di potere e di vittorie dichiarate sospette da alcuni giudici e da tutti i tifosi non juventini. «Il sistema Moggi» è spiegato nelle carte dei numerosi processi che Lucianone ha poi dovuto affrontare con alterne fortune: un misto di bravura, fiuto, fortuna, spregiudicatezza e arroganza che prima lusinga, poi frastorna e infine intimidisce avversari e amici che si incontrano lungo la strada che porta al potere assoluto. Moggi e Renzi sono i migliori interpreti della massima cinica, ma efficace, «il fine giustifica i mezzi». Ha voglia Bersani a piagnucolare come un Facchetti qualsiasi sull'onore e le regole del gioco da rispettare. Perde tempo a inveire Brunetta, manco fosse Galliani a corto di risultati. Il sistema Renzi è come il sistema Moggi. Di Pietro direbbe che si tratta di «dazione ambientale», il non reato per cui chiunque del sistema si fa corrompere o obbedisce anche se non gli viene espressamente richiesto. I senatori vanno speranzosi a Renzi come i giocatori andavano a Moggi: una sua parola e l'ingaggio era assicurato, un suo no e la carriera era finita. Certo, a volte serve alzare la voce. Moggi, narra la leggenda, «convinceva» gli arbitri a cena e, se non bastava, li raggiungeva negli spogliatoi dove, durante l'intervallo, diventava più persuasivo. Esattamente quello che in queste settimane è successo con Grasso, l'arbitro del Senato che per non fare la fine di Paparesta (la giacchetta nera «torturata» da Moggi per non aver obbedito, o almeno così narra la leggenda) sta fischiando a senso unico sulle riforme e interpreta a modo suo financo i falli sulle donne grilline. Il senso, ovviamente, è quello deciso da Renzi, che da un po' di tempo non è più uno ma trino, proprio come piaceva a Lucianone. Dal Moggi-Giraudo-Bettega siamo al Renzi-Lotti-Verdini. Gioco di squadra: chi si occupa dei senatori, chi di minacciare giornalisti, direttori ed editori non allineati, chi di procacciare affari. È la politica mercato, simile al calcio mercato: se fai il furbo puoi vincere il campionato, ma ti aspetta la serie B.
QUEL PARAGONE VELENOSO...
Luciano Moggi su “Libero Quotidiano” risponde ad Alessandro Sallusti: "Che tristezza scoprire che è un voltagabbana". Caro Sallusti, anzi, Sandro, che bello svegliarsi al mattino con la sorpresa di vedere in prima pagina sul tuo «Giornale» il mio nome accostato a quello di illustri politici del passato e del presente, ma soprattutto la tua firma Sandro! Credimi, non poteva esserci risveglio migliore. Spero mi concederai il privilegio di chiamarti ancora Sandro, così come tu mi chiamavi Luciano quando eravamo sotto la stessa bandiera a «Libero», dove io sono ancora felice di essere. Devo confessarti che tale e tanta è stata la curiosità che mi sono tuffato a leggere l'articolo, man mano però che andavo avanti nella lettura mi invadeva una sorta di tristezza ricordando quello che pensavi di me quando insieme stavamo a «Libero». Prima per te ero un capro espiatorio, adesso solo un arrogante al comando del calcio: hai forse avuto qualche rivelazione inattesa? Scrivi che «a vedere quello che succede ti viene in mente un paragone: Renzi come Moggi, padrone del calcio italiano per quasi un ventennio, caduto sul campo nel 2006 per eccesso di potere». Caro Sandro, l'impressione che mi hai dato è di aver cominciato a cavalcare la famosa «onda popolare» non juventina; anche per te sono diventato un misto di bravura, spregiudicatezza, arroganza che prima lusinga, poi frastorna, intimidisce e porta al potere assoluto. Sicuramente mi hai usato come mezzo per vomitare su Renzi il tuo risentimento, ma fa ribrezzo l'ipocrisia che hai messo in campo. Avresti potuto scrivere quel che pensi senza tirare in mezzo altre persone. Oggi scrivi che nel 2006 sono caduto sul campo, ieri scrivevi che ero stato sgambettato sul campo. Per quanto riguarda «l'arroganza che intimidisce» devo confessarti che non ho mai fatto il domatore né di animali né tantomeno di persone. Cerchi di confondere il calcio con la politica per rappresentare meglio lo stato dell'arte, quando scrivi che Bersani piagnucola come Facchetti, molto più serio rivolgere direttamente al premier queste parole anziché mettere in mezzo un morto che oltretutto non rispettava le regole per primo (recente sentenza del tribunale di Milano). Mostri la faccia solo quando scrivi che quello di Renzi è un sistema come era un sistema quello di Moggi, al quale bastava guardare negli occhi le persone per renderle servili. Non si capisce bene che cosa possa poi c' entrare Di Pietro, da te citato, quando parli di senatori che vanno da Renzi come i giocatori andavano da Moggi, la cui parola poteva portare ad un ingaggio o alla fine della carriera; potevi tranquillamente parlare dell'esodo di parlamentari da FI a PD, sarebbe stato più serio. La comica finale viene quando introduci l'argomento sul Presidente del Senato Grasso, che per non fare la fine di Paparesta «torturato da Moggi», sta fischiando a senso unico sulle riforme come vuole Renzi: ma non ti hanno informato che il Tribunale di Reggio Calabria sentenziò che il fatto «non sussiste»? Altra comica quando scrivi che dalla triade Giraudo-Moggi-Bettega si passa a Renzi-Lotti-Verdini: chi si occupa di senatori, chi di minacciare i giornalisti non allineati, chi di procacciare affari. Resta difficile capire che nesso ci sia con la triade calcistica che mai si è occupata di senatori e delle loro beghe private. Per giustificare la sete di potere di Renzi (alias Moggi) ecco il dogma finale: «Il fine giustifica i mezzi». Chi è colpito dalle tue parole (i politici al governo) potrebbe pensare che nell' occasione il tuo fine - quello cioè di colpevolizzare usando un mezzo improprio - potrebbe essere quello di rendere un servizio a qualcuno. «Il fine giustifica i mezzi», appunto. Da italiano mi auguro che Renzi possa raggiungere i risultati che il sottoscritto ha raggiunto con la Juve e con l'Italia campione del mondo 2006 (zeppa di bianconeri): sarebbe meglio per tutti, te compreso. Quanta nostalgia comunque di Vittorio Feltri! Luciano Moggi.
Calciopoli, depositata sentenza di Cassazione: «Strapotere ingiustificato di Moggi». Calcio screditato dal «mondo sommerso» dell’ex dg Juve. «Irruenta forza di penetrazione anche in ambito federale». L’influenza sul «Processo del Lunedì», scrive “Il Corriere della Sera”. «Più che di potere si deve parlare di uno strapotere esteso anche agli ambienti giornalistici e ai media televisivi che lo osannavano come una vera e propria autorità assoluta». Così la Cassazione nelle motivazioni di Calciopoli definisce la «irruenta forza di penetrazione anche in ambito federale» esercitata dall’ex direttore generale della Juventus Luciano Moggi. Non basta. Il «mondo sommerso» emerso nell’inchiesta su Calciopoli fatto di «interessi offensivi ultra individuali» ha screditato il mondo del calcio. Appunto: «Un vero e proprio mondo sommerso, - si legge nella sentenza - la cui carica intrinseca di offensività degli interessi “ultra individuali” è stata particolarmente intensa e tale da sconvolgere l’assetto del sistema calcio, fino a screditarlo in modo inimmaginabile e minarlo nelle sue fondamenta, con ovvie pesantissime ricadute economiche». Ad avviso della Suprema Corte, Moggi, è stato il «principe indiscusso» del processo «Calciopoli» - conclusosi lo scorso 23 marzo con la prescrizione di gran parte dei reati per lo stesso Moggi e per altri imputati - e «l’ideatore di un sistema illecito di condizionamento delle gare del campionato 2004-2005 (e non solo di esse)». Un «sistema» che - scrivono gli «ermellini» nella sentenza 36350, quasi 150 pagine depositate oggi - «prende il suo nome». Per i supremi giudici, Moggi ha commesso sia il reato di associazione per delinquere, sia la frode sportiva «in favore della società di appartenenza (la Juventus)», e ha anche ottenuto «vantaggi personali in termini di accrescimento del potere (già di per sé davvero ragguardevole senza alcuna apparente giustificazione)». Dai giudizi che l’ex d.g. bianconero esprimeva in tv e sui media «potevano dipendere le sorti di questo o quel giocatore, di questo o quel direttore di gara con tutte le conseguenze che ne potevano derivare per le società calcistiche di volta in volta interessate», rileva la Cassazione nel suo verdetto. L’associazione per delinquere diretta da Moggi - spiega la Cassazione - «era ampiamente strutturata e capillarmente diffusa nel territorio con la piena consapevolezza per i singoli partecipi, anche in posizione di vertice (come Moggi, il Pairetto o il Mazzini), di agire in vista del condizionamento degli arbitri attraverso la formazione delle griglie considerate quale primo segmento di una condotta fraudolenta». Dell’ex dg juventino, la Suprema Corte dice che aveva una «poliedrica capacità di insinuarsi, “sine titulo”, nei gangli vitali dell’organizzazione calcistica ufficiale (Figc e organi in essa inseriti, quali l’Aia)». Senza timore di cadere in «enfatizzazioni», secondo la Cassazione, Moggi aveva una «incontroversa abilità di penetrazione e di condizionamento dei soggetti che si interfacciavano» con lui. Secondo la Cassazione, l’influenza di Luciano Moggi si estendeva anche su «Il processo del lunedì - condotta all’epoca di “Calciopoli” da Aldo Biscardi - affinché nel corso della trasmissione sportiva specializzata «venisse espresso un giudizio tecnico favorevole», dal commentatore ed ex arbitro Fabio Baldas, sul conto dell’arbitro Tiziano Pieri che aveva diretto Bologna-Juventus, partita contestatissima e vinta 1-0 dai bianconeri il 12 dicembre del 2004.
Assoluzione Moggi, il giudice: «Da Facchetti lobbing su arbitri». L'ex presidente dell'Inter aveva un «rapporto di tipo amicale e preferenziale» con gli arbitri. Lo scrive il giudice, come riportato da "Tutto sport". Ma «non si può accostare la condotta di Facchetti a quella di Moggi». Le telefonate tra Giacinto Facchetti e alcuni arbitri "costituiscono un elemento importante per qualificare una sorta di intervento di lobbing da parte dell'allora presidente dell'Inter nei confronti della classe arbitrale" e sono "significative di un rapporto di tipo amicale" e "preferenziale" con "vette non propriamente commendevoli". Lo scrive il giudice Oscar Magi nelle motivazioni della sentenza con cui ha assolto l'ex dg della Juventus Luciano Moggi accusato di diffamazione nei confronti di Facchetti, morto nel 2006. Moggi era stato processato per alcune affermazioni rese nella trasmissione tv 'Notti magiche' del 25 ottobre 2010. In particolare, Moggi nel programma parlò di "telefonate" di Facchetti relative alle "griglie" arbitrali e di una "richiesta" da parte dell'allora presidente nerazzurro "ad un arbitro di vincere la partita di Coppa Italia con il Cagliari". Il processo, scaturito dalla querela presentata da Gianfelice Facchetti, uno dei figli di Giacinto e assistito dal legale Corrado Limentani, si è concluso lo scorso 15 luglio con l'assoluzione con formula piena di Moggi, mentre il pm Elio Ramondini aveva chiesto una condanna a 10 mila euro di multa. Per il giudice della quarta sezione penale, Oscar Magi, le frasi pronunciate in tv da Moggi, assistito dall'avvocato Maurilio Prioreschi, "contenevano con certezza una buona veridicità, o comunque sono state pronunciate nella ragionevole opinione che contenessero una dose di verità, seppur anche putativa". Non vi è dubbio, infatti, come scrive il magistrato, che "le intercettazioni telefoniche prodotte “dalla difesa Moggi e "recuperate dal processo di Napoli" danno conto di un"rapporto 'preferenziale' che il Facchetti manteneva con i designatori arbitrali dell'epoca, rapporto che è stato oggetto della richiesta di archiviazione del procuratore federale" Palazzi. L'allora procuratore federale, scrive il giudice, stigmatizzò "duramente" tali "evenienze probatorie" che "non sono sfociate in un provvedimento disciplinare per il solo fatto del decorso del termine prescrizionale". Il giudice spiega di non volersi addentrare nell'ambito della "giustizia sportiva" e chiarisce che per questo processo "quello che è importante è che Moggi, nel citare le vicende della giustizia sportiva ed i comportamenti dell'allora Presidente Facchetti, ha riferito cose vere o comunque verosimili per il momento in cui sono state dette e per il modo in cui sono state pronunciate". Moggi, scrive ancora il giudice, "a sua volta pesantemente coinvolto nelle vicende di illeciti sportivi ed anche penali, 'chiama in causa' il Facchetti sulla base di circostanze certamente non inventate, anche se certamente meno gravi delle sue". Moggi ha, dunque, esercitato "un suo legittimo diritto di critica", anche se non può ritenersi "che il comportamento di Facchetti possa in qualche modo essere accostato a quello di Moggi nell'ambito penale".
Il tribunale riscrive Calciopoli "Anche l'Inter faceva lobbing". "Moggi su Facchetti disse cose legittime: le intercettazioni confermano i suoi rapporti preferenziali con gli arbitri", scrive Luca Fazzo su "Il Giornale”. Non basterà alla Juve per chiedere indietro lo scudetto del 2006 che le è stato tolto e assegnato all'Inter. Ma la sentenza che ieri è stata depositata a Milano al termine di un processo per diffamazione costituisce una rivisitazione critica della fosca saga di Calciopoli, di cui la società nerazzurra si è sempre proclamata vittima principale: e che tanto vittima, secondo questa sentenza, non era. Il processo aveva per imputato Luciano Moggi, già direttore generale bianconero, accusato numero uno dell'inchiesta della Procura di Napoli, e poi radiato dalla Federcalcio. Come parti civili c'erano i familiari di Giacinto Facchetti, terzino e capitano dell'Inter del primo Moratti, e presidente del club nell'ultima fase della presidenza di Moratti junior, ucciso da un tumore nel 2006. Moggi, nel corso di una intervista in tv, aveva avuto parole pesanti nei confronti di Facchetti, accusandolo in sostanza di avere anche lui chiesto e ottenuto trattamenti di riguardo negli arbitraggi delle partite interiste. Gli eredi di Facchetti avevano querelato Moggi. Il 15 luglio scorso, il giudice Oscar Magi, presidente della quarta sezione penale del tribunale milanese, aveva assolto Moggi «perchè il fatto non sussiste». Ieri, Magi deposita le motivazioni. E sono pugni sotto la linea di galleggiamento per l'immagine del club nerazzurro e del suo presidente scomparso. Le telefonate tra Giacinto Facchetti e alcuni arbitri «costituiscono un elemento importante per qualificare una sorta di intervento di lobbing da parte dell'allora presidente dell'Inter nei confronti della classe arbitrale» e sono «significative di un rapporto di tipo amicale» e «preferenziale» con «vette non propriamente commendevoli», scrive il giudice Magi. Le accuse di Moggi a Facchetti, secondo la sentenza, «contenevano con certezza una buona veridicità». A convincere Magi del rapporto preferenziale tra Facchetti e gli arbitri sono le telefonate che l'inchiesta della Procura di Napoli aveva tralasciato, e che sono emerse solo negli anni successivi, soprattutto per iniziativa di «Big Luciano» e dei suoi consulenti; e che sono state riportate anche nell'aula del processo milanese. A partire dalla chiamata cruciale, quella che l'11 maggio 2005 il designatore arbitrale Paolo Bergamo effettua a Facchetti, e in cui i due sembrano accordarsi sulla scelta di Paolo Bertini per dirigere l'incontro di coppa Italia tra Cagliari e Inter. E Bergamo tranquillizza il presidente nerazzurro: «Non ti preoccupare, ha capito come si cammina: è un ragazzo intelligente, ha capito. Meglio tardi che mai». Come è noto, il procuratore federale Stefano Palazzi nella sua relazione conclusiva su Calciopoli ebbe parole pesanti per il comportamento di Facchetti, spiegando che solo la prescrizione teneva l'ex capitano azzurro al riparo dal provvedimento disciplinare. E ieri la sentenza del giudice Magi si muove nel solco della relazione Palazzi, che cita esplicitamente. A portare all'assoluzione di Moggi, d'altronde, non sono state solo le telefonate ma anche alcune delle testimonianze sfilate in aula, come quella dello stesso Bertini, del suo collega Massimo De Santis, e dell'ex designatore dei guardialinee Gennaro Mazzei, anche lui intercettato al telefono con Facchetti che fa pressioni per la scelta degli assistenti per Inter-Juventus del novembre 2004, in un'altra conversazione rimasta fuori dall'inchiesta della Procura di Napoli. Entusiasta, come prevedibile, il legale dell'imputato, Maurilio Prioreschi: «É la conferma di quanto abbiamo sempre sostenuto: i veri illeciti sportivi non erano quelli di Moggi».
De Santis: "Sono il capro espiatorio di Calciopoli". Intervista di Giuseppe Pollicelli su “Libero Quotidiano” del 19 dicembre 2015. Lo scorso 24 marzo la Corte di Cassazione ha stabilito che la «cupola» che avrebbe deciso in modo fraudolento le sorti della serie A di calcio nella stagione 2004-2005 era in realtà una cupoletta, formata da una manciata di promotori (in primis gli ex dirigenti juventini Antonio Giraudo e Luciano Moggi) e da appena un paio di «partecipi», gli ex arbitri Racalbuto e De Santis. Di fatto, però, lo scandalo che ha tenuto banco per ben nove anni (dal maggio del 2006) e che è tuttora argomento di conversazione e di litigi tra i tifosi italiani, ha un unico colpevole: il già citato Massimo De Santis, il solo che non abbia usufruito della prescrizione.
Pentito della sua scelta?
«No, perché è coerente con quello che è sempre stato il mio atteggiamento nel corso del processo. Poi, voglio dire, mi hanno condannato a un anno con pena sospesa. Per associazione a delinquere. Strano, no?».
Nel senso che è una pena lieve?
«Mi dica lei: più lieve di così? È come se mi avessero detto: ti dovremmo assolvere ma non possiamo, o non vogliamo, quindi ti affibbiamo il minimo che possiamo darti».
E adesso?
«Vado avanti: ormai la Cassazione non è più l'ultimo grado di giudizio, c' è la Corte di giustizia europea».
Che ricordo ha dei momenti immediatamente successivi allo scoppio dello scandalo?
«Un inferno. Per i primi tre o quattro mesi sono stato frastornato, quasi con il timore di uscire di casa. Anche perché per un pezzo non si è parlato d' altro. Erano i giorni dell'elezione di Napolitano alla presidenza della Repubblica e la notizia, sui giornali, veniva messa dopo Calciopoli. Ma ho reagito quasi subito».
È stato aiutato dalla fede, come Moggi?
«Sono molto credente e la cosa è stata un conforto».
Com' è nata Calciopoli?
«Penso si sia originata in un ambito che vede collegati l'Inter, la Pirelli e la Telecom».
Cioè?
«Un arbitro di seconda fascia, Danilo Nucini, racconta all' allora presidente dell'Inter, Giacinto Facchetti, che esisterebbe una "combriccola romana", pilotata da Moggi, che si avvale di alcuni direttori di gara - tra cui me - attraverso cui condiziona le partite, essenzialmente a favore della Juve. Di lì a poco comincio a essere spiato, con altre quattro persone, da Giuliano Tavaroli - ex carabiniere e all' epoca responsabile della security di Telecom e Pirelli - e dall' investigatore privato Emanuele Cipriani, che di Tavaroli è amico. Seguono i miei spostamenti e scrutano i miei conti. Senza trovare nulla».
Perché Tavaroli la fa spiare?
«Nel 2004 la Procura di Napoli si rivolge a Tavaroli per intercettare le utenze di Moggi, Bergamo e Pairetto nell'ambito di un'inchiesta che verteva in quel momento sul calcio-scommesse e che si sarebbe poi trasformata in Calciopoli. Tavaroli era quindi al corrente delle indagini che i pm napoletani Narducci e Beatrice stavano conducendo su quelle tre persone. E sempre Tavaroli, in seguito, ha detto ai magistrati che lui riferiva tutto ciò che veniva a sapere a Carlo Buora, amministratore delegato della Telecom e vicepresidente dell'Inter».
La sua richiesta all' Inter di 21 milioni di euro di risarcimento è stata rigettata.
«Sì, perché Cipriani, pagato con 50.000 euro, emise due fatture non a carico dell'Inter bensì della Pirelli, sponsor dei nerazzurri. E questo, secondo i giudici, non consente di essere certi di un diretto coinvolgimento dell'Inter».
Ha mai ricevuto una scheda svizzera da Moggi?
«No».
Prima di Lecce-Parma, partita decisiva per stabilire chi retrocederà in B nel campionato 2004-2005, lei parla con il designatore Bergamo e dice cose che suonano equivoche.
«Volevo semplicemente dire che, se si fosse rivelata una partita vera e combattuta, allora avrei arbitrato sul serio, cioè mi sarei "messo in mezzo" per evitare che eventuali tensioni in campo degenerassero».
Così, oltre al Lecce e al Parma, si salvò la Fiorentina di Della Valle.
«Il pareggio tra Lecce e Parma, di per sé, non garantiva affatto la salvezza della Fiorentina. Il Parma peraltro dovette fare lo spareggio col Bologna».
A causa di Calciopoli ha dovuto rinunciare ai Mondiali del 2006.
«È uno dei miei rimpianti più grandi».
Chi erano i fischietti più bravi, quando lei arbitrava?
«Io e Collina. Ma era una grande generazione di arbitri, quella. Oggi il migliore è Orsato».
Si è mai emozionato arbitrando un incontro importante?
«Emozionarmi nel senso della paura no, ma le sensazioni più belle lasciatemi dal calcio sono quelle provate entrando in stadi come San Siro o l'Anfield Road, con accanto alcuni tra i giocatori più forti di tutti i tempi».
Tifa per qualche squadra?
«Non più, ho smesso quando sono diventato un arbitro professionista. Ora mi piace guardare le belle partite, infatti seguo soprattutto il calcio estero, in particolare Inghilterra e Spagna».
E qual è la squadra per cui teneva?
«L' Inter».
Se incontrasse Moratti gli direbbe qualcosa?
«Moratti sa benissimo che rapporti avevamo e come mi comportavo quando mi veniva a trovare negli spogliatoi. Sono convinto che, nel profondo della sua coscienza, sia consapevole di come stiano realmente le cose».
Calcio, partite comprate dal Catania. Blitz della polizia, dirigenti arrestati. Sette ordinanze di custodia cautelare. In manette il presidente Pulvirenti, l’ad Pablo Cosentino, il dg Delli Carri e altri quattro. Indagati in 19, c’è il proprietario del Messina, scrive " Il Corriere della Sera” il 23 giugno 2015. «Stamu avvulannu!». Un grido esploso in catanese - «stiamo volando!» - che al telefono raccontava la gioia incontenibile per quella serie di quattro vittorie consecutive valse la salvezza. Ma per ottenerle la squadra di calcio del Catania pagava vere e proprie mazzette. Una farsa. E soprattutto un giro di corruzione, legato anche alle scommesse, sul quale è piovuta una raffica di arresti che ha falcidiato la società. Un ennesimo scandalo, dopo quello che a maggio ha investito la Lega Pro, che minaccia di estendersi in modo imprevedibile. Per ora a essere sconvolta è la serie B. In manette il presidente Antonio Pulvirenti, imprenditore con interessi vastissimi: alberghi, supermercati, la compagnia aerea WindJet. Fermati anche l’amministratore delegato della società Pablo Cosentino e direttore generale Daniele Delli Carri, ex calciatore del Torino e della Fiorentina. Indagato pure il proprietario del Messina Pietro Lo Monaco. Stando alle carte giudiziarie, l’obiettivo dei dirigenti del Catania era quello consentire alla squadra di vincere ed evitare così la retrocessione. Ma inevitabilmente i meccanismi di corruzione vera e propria hanno favorito anche il giro delle scommesse clandestine, altro filone indagato dagli investigatori coordinati dal procuratore di Catania Giovanni Salvi. Di certo c’è l’ammontare delle mazzette: 10 mila euro consegnati a ciascun giocatore corrotto per favorire la sconfitta della propria squadra, avvantaggiando il Catania. A questo riguardo sono chiare le parole di Salvi che parla di «improvvisi sbalzi nelle quotazioni che possono indicare operazioni anomale derivanti dalla conoscenza e dalla consapevolezza che il risultato sarebbe stato già noto». «L’inchiesta nasce dal fatto che il presidente del Catania Calcio era pressato dai tifosi e temeva anche per la sua incolumità e si è rivolto alla Procura» ha detto Salvi. «Le indagini hanno in realtà preso un filone diverso che ci ha portato a questo risultato cioè all’individuazione di 5 partite quasi tutte consecutive che sono state comprate con i risultati in favore del Catania». Pulvirenti si sbraccia per infilare quel filotto di quattro vittorie consecutive. «Ormai l’ho inquadrato il campionato di serie B - lo sentono dire i poliziotti - ...l’anno prossimo arrivo primo». In un’altra intercettazione è Giovanni Impellizzeri - l’agente di scommesse on line che, secondo gli inquirenti, metteva a disposizione le «consistenti risorse economiche» che servivano per comprare le partite - a spiegare l’attesa salvezza del Catania. Incolpando i giocatori: «sono dei deficienti...troppo scarsi...se non ci pensavamo noi per queste cinque partite... eravamo retrocessi veramente». E poi aggiunge: «Ho caricato pure..altre 1.500 euro con la carta di credito...e non li ho potuti manco giocare ...comunque viva lo sport». Sarebbero - almeno sinora - cinque le partite finite nelle carte dell’inchiesta della Dda di Catania. Ci sono anche calciatori indagati e in totale sono 19 le persone raggiunte da avvisi di garanzia, compresi i fermati. Tra le partite sotto inchiesta:Catania-Livorno, Catania-Trapani, Catania-Latina, Catania-Ternana, Catania-Livorno. Accertamenti anche su Catania-Avellino e, per una questione separata - hanno spiegato gli investigatori nella conferenza stampa - anche Messina-Ischia. Anche la squadra dello Stretto è entrata pesantemente negli atti dell’inchiesta. Tra gli indagati c’è infatti il proprietario della squadra Pietro Lo Monaco, l’adAlessandro Failla. Avvisi di garanzia anche per i giocatori Alessandro Bernardini(Livorno) Riccardo Fiamozzi (Varese), Antonio Daì (Trapani) e Matteo Bruscagin(Latina). Non sono indagati giocatori del Catania. Tutto crolla all’indomani della sconfitta del Catania con la Virtus Entella per 2-0 del marzo scorso. Un risultato che fece sprofondare la squadra in zona retrocessione. Minacce a Pulvirenti dagli ultrà. Ma anche il piano per risollevare la squadra. L’operazione, denominata «I treni del gol», ha preso spunto da intercettazioni telefoniche tra gli indagati che utilizzavano sempre lo stesso modus operandi parlando in codice. I «treni in arrivo» erano i giocatori da avvicinare; gli «orari di arrivo» le maglie che i calciatore avrebbero indossato in campo, così come gli investigatori hanno accertato per la partita contro il Varese. «Estraneo» alle accuse contestate e «certo di potere dimostrare la totale estraneità ai fatti». È la posizione del presidente del Catania, Antonino Puvirenti, che attraverso il suo avvocato, il professore Giovanni Grasso, esprime «massima fiducia nella magistratura». La squadra del Catania era già stata pesantemente coinvolta nell’indagine «Dirty Soccer» avviata dalla procura di Reggio Calabria sulle scommesse che avevano alterato i risultati del campionato di Lega Pro. Sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori era finita la partita Catania- Crotone del 16 febbraio 2015, serie B. Ne parla chiaramente un capitolo dell’ordinanza che riporta un’intercettazione tra il direttore sportivo de «L’Aquila» Ercole Di Nicola e uno dei finanziatori del giro illecito di scommesse, l’albanese Edmond Nerjaku. Il primo chiedeva al secondo se era disposto ad incontrarlo per discutere di una nuova frode sportiva da mettere in atto. Senza tanti giri di parole il dirigente abruzzese lo informava che la partita sulla quale stava «lavorando» era quella del Catania del giorno seguente. Appunto: il 16 febbraio 2015, match contro il Crotone nel posticipo della ventiseiesima giornata di B. I sette provvedimenti di arresti domiciliari sono stati eseguiti nei confronti del presidente del club, Antonio Pulvirenti, dell’amministratore delegato Pablo Cosentino, del direttore generale Daniele Delli Carri, e di altre quattro persone: si tratta di due procuratori sportivi e altrettanti gestori di scommesse on line. Si tratta di Giovanni Luca Impellizzeri, di 44 anni, agente di scommesse sportive online; Piero Di Luzio, 51, tesserato del «Genoa Cricket and Football Club»;Fabrizio Milozzi, 44, di Roma, e Fernando Antonio «Michele» Arbotti, 55 anni, assai noto procuratore sportivo e agente Fifa. Dall’ordinanza firmata dal gip Fabio Di Giacomo, emerge che il club etneo, tramite Giovanni Impellizzeri, che avrebbe agito come finanziatore, avrebbe pagato da dieci a ventimila euro a ciascun giocatore «corrotto» per ogni singola partita truccata. Le somme versate da Impellizzeri sarebbero poi rientrate con le scommesse sulle gare il cui risultato era stato già «sistemato» e sulle quali si puntava quindi a colpo sicuro. Il tramite con i giocatori sarebbe stato il procuratore Arbotti. Delli Carri è stato arrestato ai domiciliari nella sua abitazione di Francavilla al Mare. Da ex direttore sportivo del Pescara è stato protagonista con il Pescara di Zeman nella promozione di tre anni fa in serie A. Dopo questa esperienza aveva lavorato con il Genova e poi con il Catania. «Il rischio di invalidare il campionato non esiste. Per definizione la responsabilità è individuale, quindi risponde chi paga». Così il presidente della Lega di Serie B Andrea Abodi a Sky TG24 HD, in merito alla possibilità che l’inchiesta che ha colpito alcuni dirigenti del Catania possa invalidare il campionato di Serie B appena concluso. In ogni caso «la prima reazione è sicuramente un grande dolore perché lavoriamo ogni giorno per rendere comunque credibile il nostro contesto e questa è una notizia che ci lascia sgomenti». «Ho letto le agenzie, non ne so niente. Ma si commenta tutto da solo. È una vergogna. È imbarazzante. In giornata forse sapremo qualcosa di più. Certo, non c’è mai limite al peggio». Così il presidente del Coni, Giovanni Malagò, commenta l’inchiesta giudiziaria che coinvolge il calcio con il caso Catania.
Calcio truccato, arresti a Catania: partite comprate per non retrocedere. Ecco l'elenco dei 5 match (forse 6) incriminati. Arrestati Pulvirenti e i vertici del club etneo, ma la valanga rischia di travolgere altre squadre, scrive Giovanni Capuano su "Panorama". Caos sul Catania Calcio e sulla serie B. La Polizia ha infatti eseguito all'alba di martedì 23 giugno 2015 un'operazione che ha portato all'arresto di sette persone legate in maniera diretta o indiretta al club che nell'ultima stagione ha conquistato la salvezza in extremis: dirigenti e non solo che avrebbero comprato parte delle ultime gare del torneo per evitare lo spettro di una retrocessione che a un certo punto era parsa a rischio. L'inchiesta è condotta dalla Digos e coordinata dalla Dda di Catania. Tra le persone sottoposte a ordinanza di custodia cautelare ci sono Antonino Pulvirenti, presidente della società, Pablo Cosentino, amministratore delegato e il direttore generale Daniele Delli Carri. Le accuse per loro sono di frode sportiva e truffa. Secondo gli investigatori il Catania avrebbe truccato cinque delle ultime partite per evitare la Lega Pro. Gli altri due arrestati sono due procuratori sportivi (uno è l'avvocato 50enne Fernando Arbotti e l'altro Fabrizio Milozzi) e due gestori di scommesse on line (Giovanni Impellizzeri e Pietro Di Luzio), perchè anche il calcioscommesse ha avuto un ruolo in una vicenda che getta discredito su tutto il calcio italiano e sulla serie B, già provata dall'inchiesta sul Teramo, accusato di aver comprato la vittoria decisiva per salire dalla Lega Pro, sulla Salernitana, altra promossa, e dal fallimento del Parma che potrebbe portare al ripescaggio del Brescia. L'inchiesta coinvolge, però, anche altri personaggi del mondo del calcio a partire da Pietro Lo Monaco, in passato amministratore delegato del Catania e poi proprietario del Messina. Con lui anche Fabrizio Ferrigno (ds Messina), l'amministratore delegato Alessandro Failla e alcuni giocatori: Alessandro Bernardini (Livorno), Riccardo Fiamozzi (Varese), Antonio Daì (Trapani) e Matteo Bruscagin (Latina). In tutto sono 19 le persone alle quali sono state notificate informazioni, tra arresti e semplici iscrizioni nel registro degli indagati. Pulvirenti, attraverso il suo legale, si è detto "certo di poter dimostrare la totale estraneità ai fatti" avendo "massima fiducia nella magistratura".
Quali partite coinvolte?
Sono cinque che la Procura di Catania ritiene sicuramente combinata più una sesta su cui proseguono le indagini. Ecco l'elenco: Varese-Catania 0-3 (2 aprile) Catania-Trapani 4-1 (11 aprile) Latina-Catania 1-2 (19 aprile) e Catania-Ternana 2-0 (24 aprile) Catania-Livorno 1-1 (2 maggio) più i dubbi su Catania-Avellino 1-0 (29 marzo). Si tratta della fase stagionale in cui glòi etnei riuscirono a fare un deciso balzo avanti in classifica arrivando alla quasi certezza della salvezza. Dopo la 32°, infatti, infilarono un filotto di 5 vittorie consecutive (e 4 di queste partite sono sotto accusa più quella che ha aperto la serie contro l'Avellino sotto indagine) al termine delle quali la squadra si trovò undicesima a quota 47 e con 6 lunghezze di vantaggio sulla zona caldissima. Un'accelerazione inaspettata, visto che nelle precedenti 8 giornate la vittoria era stata una chimera (5 punti su 24 disponibili dopo il successo sul Perugia della 24°). Da lì in poi un altro crollo: 2 punti nelle ultime 5. Sorprendente.
"Prove sulla combine da un'inchiesta nata su denuncia di Pulvirenti"
"Riteniamo che gli elementi raccolti indichino che 5 o forse 6 partite siano state truccate attraverso il pagamento di denaro ai calciatori" hanno spiegato i magistrati. Un atto d'accusa durissimo e che coinvolge anche altre persone, al momento non ancora informate di essere al centro di una bufera giudiziaria. Indagine nata da una denuncia dello stesso Pulvirenti, preoccupato per eventuali ritorsioni della tifoseria del Catania nella fase calda della stagione; gli uomini della Digos sono partiti da lì, però, e sono arrivati ad altre conclusioni. Pulvirenti si era allarmato dopo la sconfitta contro l'Entella (21 marzo 2015) che fa sprofondare la squadra all'ultimo posto della classifica. Da subito emerge, però, l'esistenza di una rete criminale al servizio del Catania. Da qui i primi sospetti sulla gara contro il Varese, confermati da colloqui intercettati e l'allargarsi a macchia d'olio dell'inchiesta.
Come operavano?
Prima l'ideazione della combine da parte del presidente Pulvirenti e poi la realizzazione con la consegna del denaro necessario per pagare i calciatori avvicinati. "Le intercettazioni sono solo un pezzo di questa inchiesta, ci sono anche video e pedinamenti che testimoniano le fasi salienti della corruzione" hanno spiegato i magistrati. Pulvirenti otteneva l'ok da Giovanni Impellizzeri, finanziatore della combine e che poi rientrava piazzando scommesse tarocche, contattava Delli Carri perché questi si attivasse attraverso Di Luzio per rendere esecutiva la frode con l'aiuto del procuratore e agente Fifa Arbotti che aveva relazioni e conoscenze utili per avvicinare i calciatori considerati sensibili alle offerte in denaro. Il prezzo della corruzione era da 10 a 20mila euro per giocatore a seconda della partita.
Varese-Catania e l'autodenuncia dei lombardi
Nell'elenco delle partite sospette c'è anche Varese-Catania del 2 aprile 2015. Una gara già salita alla ribalta perchè oggetto di un'autodenuncia da parte dei dirigenti varesotti che, attraverso il monitoraggio di Federbet, erano arrivati a conoscenza del crollo delle quote sul '2' della partita (da 2,85 a 1,60 in poche ore per poi arrivare al blocco delle giocate). Alla vigilia della sfida era partita la segnalazione alla Procura federale ed erano stati avvisati i calciatori, poi sentiti al termine della partita. Un modo innovativo per mettersi al riparo dalla responsabilità oggettiva, anche se a seguire il ragionamento dei magistrati di Catania non sarebbe stato sufficiente ad evitare la combine. Federbet è una società che si occupa del monitoraggio dei flussi di scommesse e che lavora con alcuni club in Italia oltre che all'estero. Uno strumento preventivo utile, ma ancora poco usato.
Abodi: "Grande dolore, ma non è tutto marcio"
"La prima reazione è un grande dolore, perchè lavoriamo ogni giorno per rendere credibile e aumentare la reputazione del nostro contesto, quindi questa è una notizia che lascia sgomenti" è stato il commento di Andrea Abodi, presidente della Lega di Serie B: "Bisogna reagire immediatamente, continuare il nostro lavoro. L'impegno verrà ulteriormente moltiplicato. Mi auguro che le cose vengano chiarite e che si sappia la verità il prima possibile. Di fronte a certi fenomeni la risposta sia dura e faccia capire che il nostro mondo non è disposto ad accettare nessun tipo di accomodamento o accordo che mortifichi il campo e il valore sportivo di una competizione".
Catania sotto choc: dall’arresto di Pulvirenti ai sequestri a Ciancio. In pochi giorni tre inchieste nella «Milano del Sud»: da quella sulla squadra di calcio agli accertamenti sull’editore de «La Sicilia» e sul sottosegretario Giuseppe Castiglione, scrive Felice Cavallaro su “Il Corriere della Sera”. E’ come se l’Etna avesse cominciato ad eruttare lava travolgendo stavolta le case dei potenti di sempre. Perché l’arresto del gran capo del calcio catanese, del poliedrico imprenditore Antonino Pulvirenti, con sei dei suoi dirigenti per frode sportiva e truffa, segue solo di pochi giorni il sequestro di beni per 17 milioni di euro al gran capo dell’editoria, Mario Ciancio. Al patron ed editore de «La Sicilia». Inchiesta partita addirittura per sospetto concorso in associazione mafiosa. Un boato. Come l’indagine aperta sempre dalla procura etnea contro Giuseppe Castiglione, il sottosegretario di Renzi in quota alfaniana, sul quale pendono adesso pure due mozioni di sfiducia del M5Stelle e di Sel per i pasticci legati al mondo dell’immigrazione. Sembra la «masculiata» della Festa di Sant’Agata, quando nella notte della patrona i botti dei giochi di fuoco concludono processioni e baldoria illuminando a giorno la città. Un compito che, con i carabinieri del Ros, sta assolvendo proprio alla fine del suo mandato il procuratore della Repubblica Giovanni Salvi, le valigie pronte per la Procura generale di Roma, sul tavolo gli ultimi e più delicati fascicoli intestati ai potenti siciliani scrutati da un paio d’anni. La botta per Catania è tremenda. Bisognerà completare le inchieste e fare i processi per avere le sentenze, ma la botta per Catania è tremenda. La vergogna di una compravendita delle partite per restare aggrappati alla serie B è un dubbio che si trasforma comunque in vergogna per l’orgoglio dei tifosi già da mesi lanciati in filippiche contro Pulvirenti, assedi ai giocatori, spalti vuoti. Ancora peggio con Ciancio, raffinato collezionista di arte antica, oltre che di decine di milioni di euro ben custoditi in Svizzera. Peggio perché per la Procura di Salvi sarebbero stati ricostruiti numerosi affari «infiltrati da Cosa nostra sin dall’epoca in cui l’economia catanese era sostanzialmente imperniata sulle attività delle imprese dei cosiddetti cavalieri del lavoro, tra i quali Graci e Costanzo». Ovvio che a preoccuparsi siano per primi i giornalisti che lavorano per Ciancio. Ma ad indignarsi e tuonare sono in tanti, a cominciare dal vice presidente della Commissione antimafia Claudio Fava che in quell’epoca vide assassinare il padre, inviso ai «cosiddetti cavalieri». La «Milano del sud» e la caduta degli dei. Aspettando i processi, i sospetti vengono bilanciati dalla certezza dello stesso Ciancio di una estraneità totale con ogni misfatto e che i suoi beni sono «eredità antiche», peraltro «oggetto di scudo e collaborazione volontaria, secondo le leggi italiane». E, attraverso i suoi avvocati, respinge ogni accusa Pulvirenti. Come fa Castiglione in una città che s’interroga sul passato di una ormai dimenticata «Milano del Sud» dove si assiste comunque a una sorta di caduta degli dei.
Cavalli, concessionarie, scommesse: gli scandali senza fine del calcio italiano. Catania non è che l’ennesimo episodio di illecito sportivo nel pallone nostrano: una storia torbida che inizia già nel 1927, con lo scudetto revocato al Torino, scrive Matteo Cruccu su “Il Corriere della Sera".
1. Quello scudetto revocato. La bolla esplosa a Catania, coni sette arresti per le partite truccate, è l’ennesimo caso di illecito sportivo, di un calcio che, possono passare le mode e le stagioni, ma ricade sempre negli stessi vizi e nelle stesse scorciatoie. Ecco, in rassegna alcuni degli scandali più gravi degli ultimi 80 anni. Già, le cattive abitudini che non sono cominciate l’altro ieri, ma affondano agli albori del nostro calcio, al tempo dei pionieri. Nel 1927, per esempio, al Torino verrà revocato uno scudetto per un tentativo di corruzione del terzino bianconero Allemandi (il secondo in piedi da destra), un caso nebuloso che non verrà mai chiarito fino in fondo.
2. Catania primo round. Finisce la guerra, il Napoli verrà investito dal sospetto di corruzione dal Bologna nel 1947, ma è il 1954-55 la stagione dello scandalo. L’Udinese incanta a sorpresa per tutta la stagione e alla fine si piazza seconda dietro il Milan. Mentre il Catania si salva con agio. Ma è un’illusione. Perché il giocatore della Pro Patria, Rinaldo Settembrino, rivela di aver ricevuto 150.000 lire insieme ad altri compagni, un anno e mezzo prima, per truccare la partita e far vincere l’Udinese, cosa che effettivamente accade. I bianconeri chiedono invano la prescrizione, ma vengono retrocessi d’ufficio. La dirigenza del club siciliano viene invece accusata di aver corrotto l’arbitro Scaramella con un milione e mezzo per due gare: anche il Catania scende in B.
3. Per una concessionaria d’auto. Nel 1974 il giocatore Italobrasiliano del Napoli, Sergio Clerici viene contattato da Saverio Garonzi, presidente del Verona, in cui l’attaccante ha militato in precedenza. Gli avrebbe promesso una concessionaria d’auto in Brasile in cambio di un aggiustamento della partita con gli azzurri. La telefonata viene scoperta da un quotidiano e il Verona viene retrocesso d’ufficio in Serie B, mentre il Foggia, anch’esso coinvolto in un tentativo di corruzione nei confronti dell’arbitro Menicucci (che rifiuta) avrà sei punti di penalizzazione.
4. Terremoto 1980. Ma è il 1980 l’anno zero del calcio italiano: il 23 marzo, gazzelle dei carabinieri entrano in campo e arrestano, tra lo choc generale, tredici giocatori mentre altri quattro ricevono un ordine di comparizione. La piovra delle scommesse investe per la prima volta una buona metà delle squadre della A. E costa la retrocessione al Milan, come mai era successo prima. Mentre fior fior di professionisti ricevono squalifiche durissime: Paolo Rossi, totem in quel momento del pallone nostrano, sarà punito con uno stop di tre anni (poi ridotto a due).
5. Il bis sei anni dopo. Ma la lezione serve a poco, passano sei anni e un nuovo scandalo, il totonero bis, travolge la credibilità del sistema calcio: se questa volta non sono coinvolte squadre di primissimo piano, tantissimi sono i club sotto inchieste, in tutte le categorie. L. R. Vicenza non viene ammesso in serie A che pure aveva conquistato Serie A, mentre le altre, dall’Udinese al Cagliari (il suo allenatore Ulivieri viene squalificato per tre anni), ricevono diversi punti di penalizzazione.
6. Darsi all’ippica. Nel 1993 il Perugia di Luciano Gaucci viene promosso in Serie B dopo sette anni: ma gli arbitraggi di Emanuele Senzacqua sembrano assai sospetti, soprattutto in due casi, Siracusa Perugia 0-0 e Perugia-Nola 4-1. Si scoprirà poi che l’arbitro è un grande appassionato di ippica e che Gaucci, proprietario di una scuderia, ha regalato un cavallo al suocero di Senzacqua, invitandolo poi a pranzo. Il direttore di gara, una volta sentito dalle forze dell’ordine, confessa il tentativo di illecito sportivo. Il Perugia non viene ammesso alla Serie B e inizia già nel 1927, con lo scudetto revocato al Torino.
7. La busta gialla. Il 14 giugno i carabinieri fermano il dirigente del Venezia Giuseppe Pagliara, nei pressi dell’azienda del presidente del Genoa, Enrico Preziosi, con una busta contenente un modulo di contratto di vendita intestato al Genoa CFC e 250.000 euro in contanti: i lagunari già retrocessi hanno perso la partita coi rossoblù, tre giorni prima, tornati in A dopo dieci anni di attesa. La procura stabilirà che il Genoa è colpevole di frode sportiva, condannando il presidente a 5 anni di squalifica e la società alla retrocessione in C1. Sette anni dopo la Cassazione stabilirà che in realtà Preziosi aveva reagito alle offerte del Torino al Venezia perché tentasse di battere in tutti i modi i rossoblù. Sbagliando però, poiché «vittima di una aggressione aveva agito in propria difesa da solo senza rivolgersi alle autorità federali che lo avrebbero tutelato.
8. Calciopoli. Nel 2006 il campionato italiano viene azzerato di nuovo: scoppia «Calciopoli» alla vigilia dei Mondiali di Calcio. Alla Juventus vengono revocati due titoli per illecito sportivo e viene retrocessa per la prima volta nella sua storia in Serie B, mentre altre squadre vengono penalizzate a vario titolo. Iniziano lunghi processi in sede sportiva e penale: il primo è stato chiuso nel 2012, con la radiazione, tra gli altri, dell’ex dg della Juventus Luciano Moggi, mentre il secondo è arrivato in Cassazione nel marzo di quest’anno.
9. Scommesse, ancora loro. Infine il terzo e ultimo scandalo calcioscommesse: nel 2011 le procure di Bari e Cremona coinvolgono calciatori, dirigenti, società di serie A, B, Lega Pro e dilettanti con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva. Il processo si basa sulle testimonianze di diversi collaboratori tra cui ex giocatori che ammettono di aver truccato partite per incassare soldi dalle puntate. Da Doni a Signori, vengono coinvolti nomi notissimi del panorama italiano. Ora Catania. E gli scandali non sembrano finire mai.
I FURBETTI DEL 5 PER MILLE.
Così le società sportive rubano il 5 per mille. Le srl dilettantistiche non possono partecipare alla ripartizione. Ma oltre 300 sono riuscite a ottenere soldi come se fossero onlus. Grazie alla mancanza di coordinamento e comunicazione fra Coni e Agenzia delle entrate, scrive Paolo Fantauzzi l'8 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Non ci sono soltanto i centri di assistenza fiscale truffaldini, che cambiano la destinazione dei fondi all'insaputa dei propri assistiti. Nella riserva di caccia in cui si sta sempre più trasformando il 5 per mille, anche le attività di promozione sociale possono essere facilmente aggirate grazie ai buchi nella normativa e all'insufficienza dei controlli. Il caso è quello delle associazioni dilettantistiche, che dal 2008 sono state ammesse tra i beneficiari del prelievo fiscale destinato al volontariato e alla ricerca. Un universo fatto di oltre 100 mila piccole realtà che hanno come scopo la diffusione dei valori dello sport e che possono trarre linfa vitale da questo strumento. Solo che in più casi i fondi sono stati prosciugati da furbetti interessati unicamente al profitto. Più di 300 negli ultimi anni, secondo le rilevazioni. Il caso è da manuale: quando una onlus sportiva intende essere ammessa fra i beneficiari del 5 per mille, non deve far altro che andare sul sito dell'Agenzia delle entrate e inviare la domanda telematica. Solo che non c’è alcuna verifica delle informazioni trasmesse: il codice fiscale non viene sottoposto ad alcun controllo informatico incrociato. Può accadere così che fra quanti si iscrivono ci sia anche chi non abbia i requisiti necessari. Come le società sportive, che già godono di numerose agevolazioni: la detassazione delle iscrizioni dei tesserati, l’esonero dall’obbligo di rilasciare scontrino o ricevuta, base imponibile ridotta e via dicendo. «Va da sé che enti di tale natura non possano accedere al beneficio del 5 per mille, perché hanno una intrinseca natura commerciale sotto il profilo fiscale» spiega Stefano Bertoletti, esperto di no-profit e consulente: «Senza contare che spesso si assiste alla nascita di srl sportive più per gli indubbi vantaggi fiscali che per gli scopi ideali alla base delle agevolazioni e che molte sono senza scopo di lucro solo in linea teorica». Eppure è esattamente quello che accade. Perché in base a un cervellotico frazionamento delle competenze il Coni, che riceve le autocertificazioni e deve verificare l’attività sportiva svolta dalle associazioni, non ha accesso alla banca dati dell’Agenzia delle entrate. Quindi in realtà non può controllare davvero. Risultato: vengono pubblicati elenchi “spuri” dei beneficiari, le società sportive fanno campagna fra i tesserati per farsi destinare il 5 per mille e alla fine riescono a ottenere quel denaro cui non hanno diritto. Sottraendolo agli altri. Perché una volta che il meccanismo è in moto, non si riesce più a fermarlo: la legge infatti non prevede nemmeno accertamenti prima dell’erogazione di contributi, solo in seguito. Impossibile sapere con esattezza quanti soldi siano stati “regalati” in questo modo. Di certo, si tratta di cifre consistenti: nel 2014, su 8.192 associazioni sportive iscritte nelle liste dell’Agenzia delle entrate, a seguito di controlli a campione svolti dal Coni ne sono state scoperte 303 con una natura giuridica diversa da quella dichiarata. Adesso, dopo averle escluse, l’intenzione dell’Ufficio per lo sport di Palazzo Chigi è far intervenire la Guardia di finanza per perseguire penalmente i furbetti e provare a recuperare il denaro ricevuto illecitamente. L’unico vero rimedio contro gli imbrogli sarebbe un database unico contenente le varie e spezzettate informazioni in possesso di Entrate, Comitato olimpico e Camere di commercio. Ma per il momento ancora non si vede.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
IL MISTERO DI MICHAEL SCHUMACHER.
Michael Schumacher, Padre Georg sconvolgente: "Lo ho incontrato, com'è il suo volto e cosa sente", scrive il 29 Novembre 2018 Libero Quotidiano. Ma come sta, Michael Schumacher? Ora arriva la testimonianza addirittura di Padre Georg Gänswein, arcivescovo e prefetto della Casa Pontificia, di fatto il braccio destro di Papa Francesco. Padre Georg ha infatti incontrato Schumacher nell'estate 2016, un incontro che ha descritto come commovente. "Ero seduto di fronte a lui, gli tenevo entrambe le mani e lo guardavo. La sua faccia resta quella che tutti noi conosciamo, solo un po’ più piena". Insomma, per la prima volta dal drammatico incidente di Meribel del 29 dicembre 2013, trapelano informazioni precise sulle condizioni del ex campione del mondo di Formula 1. A rompere il muro eretto dalla moglie Corinna per proteggere la privacy di Michael, insomma, ci pensa il Fedelissimo del Papa. "Sente l'amore delle persone intorno a lui, che si prendono cura di lui e grazie a Dio lo tengono lontano dall'eccessiva curiosità della gente. Una persona malata ha bisogno di discrezione e comprensione". L'arcivescovo dunque ha sottolineato il ruolo cruciale della famiglia: "È un nido protettivo di cui Micheal ha assolutamente bisogno. Sentirli vicino è fondamentale. Sua moglie è l’anima della famiglia. In questo periodo natalizio, prego spesso per Michael Schumacher e la sua famiglia. Il Natale è la festa della nascita di Cristo, l’incarnazione dell’amore divino". Si ricorda, infine, che secondo Bunte, Corinna e i figli di Schumacher, Mick e Gina, hanno ottenuto un'udienza privata con Papa Francesco nell'estate del 2017.
Michael Schumacher, l'inquietante mistero della video-intervista due mesi prima dell'incidente, scrive il 22 Novembre 2018 Libero Quotidiano. Il mondo è impazzito per un'intervista di Michael Schumacher. Un'intervista pubblicata nel 2014 ma di cui, inspiegabilmente, sono tornati tutti a parlare in questi giorni. Un'intervista "interattiva", in cui il campione di Formula 1 risponde alle domande selezionate dagli utenti: parla in tedesco e in inglese, Schumi. Come detto l'intervista è" lì da anni ma incredibilmente tutti ne stanno parlando e ci stanno titolando in rete come se fosse stata caricata ora, come di un inedito", dice Sabine Kehm, la manager del tedesco, vicinissima alla famiglia. Cosa sia accaduto, dunque, è un mistero: di sicuro l'intera vicenda assomiglia a una sorta di fake-news, quantomeno per la collocazione temporale dell'intervista, che comunque esiste. E, come nota Il Giornale, "è chiaro che se quella video intervista fosse stata messa online adesso, assumerebbe subito la valenza di un testamento sportivo, quasi il preavviso di qualcosa accadrà". E invece no: fu registrata il 23 ottobre 2013 e messa online in occasione del restyling del sito del campione tedesco. Quel che è successo nelle ultime ore, forse, si può attribuire alla "sete" di sapere qualcosa su Michael: negli ultimi cinque anni, di lui, si è saputo poco e nulla. E così le persone sono pronte a credere a tutto. Anche al fatto che quella intervista fosse "nuova".
Michael Schumacher, la verità sulla moglie Corinna: il tradimento, il dramma e i soldi, tutti i suoi segreti, scrive Daniele Dell'Orco il 26 Novembre 2018 su Libero Quotidiano. C' è un codice tra tutti quelli che hanno stretto la mano a Frank Sinatra. Che, peraltro, sono sempre meno. Un gentleman agreement, una sorta di club ristretto di privilegiati che prevede mutuo e incondizionato rispetto. Lo stesso codice, nel mondo del Motorsport, lega tutti gli strettissimi amici di Michael Schumacher. Indiscusso Sinatra della Formula 1, con sette titoli Mondiali, 91 vittorie, 68 pole position e 155 podi, Schumi è diventato una leggenda anche per via di quella sua aura di assoluto riserbo. Poche stravaganze, pochissimo gossip, praticamente zero mondanità. L' unica materia da tabloid di tutta la sua carriera fu la liason segreta con Corinna Betsch, che lasciò l'ex amico-rivale di Schumi, Heinz-Harald Frentzen, per sposare il Kaiser della Renania. Tutt' altro che una scappatella. Corinna, ancora oggi, impersona devozione.
Esistenza ritirata - Il cliché che accompagna le donne delle divinità della politica, del jet-set o anche dello sport, le ritrae come vittime dei riflettori dei compagni. Costrette a stare in disparte, perché le priorità dei mariti sono altre e pure perché qualsiasi paragone risulterebbe impietoso. Il vero volto di Corinna, però, è diventato noto alle cronache dopo quel maledetto 29 dicembre 2013, quando un dosso nascosto tra le nevi di Meribel, nell' Alta Savoia, trasformò una tranquilla giornata di sci in famiglia in un'ombra di dolore e sofferenza che avvolge Michael Schumacher da quasi cinque anni. Da allora, Corinna è diventata un guardiano, un fiero guardiano del riserbo di Schumi. In tempi moderni il concetto di privacy è diventato così fluido da risultare quasi comico. Eppure, Corinna è riuscita a innalzare intorno alla tenuta svizzera di Gland delle mura inaccessibili. Ha messo in piedi una clinica privata milionaria per fornire assistenza medica a Schumi 24 ore al giorno, ha limitato a percentuali vicine allo zero le uscite pubbliche, ha costretto i vari Jean Todt, Ross Brawn, Luca Badoer a rispettare un estremo patto di riservatezza. Che poi è un patto d' onore: mai una parola su Schumi. Protegge, oltre al marito, anche i due figli, Gina Maria (21 anni) e Mick (19 anni), depositari del dna di una leggenda ma capaci di evitare voli pindarici. Sono due fenomeni, ma proprio come il padre non hanno mai dato da parlare di sé. Hanno costretto gli altri a farlo, prendendo atto del loro valore. Ma se Mick ha deciso di continuare la tradizione sportiva di famiglia (si è laureato campione europeo di Formula 3 e nel 2019 debutterà in Formula 2. Il suo posto, invece, sarà preso dal cugino David, il figlio dell'altro ex pilota Ralf Schumacher), la primogenita ha seguito il sentiero tracciato dalla mamma, da sempre appassionata di equitazione. Di recente è diventata campionessa del mondo di reining, disciplina americana in cui vengono emulate le manovre dei cowboy posti alla guida delle mandrie. È questa l'unica passione a cui Corinna ancora non è disposta a rinunciare. L' unico luccichìo che si concede nell' oscurità del tunnel di Michael. Le proprietà che i due aprirono insieme, due ranch (uno in Texas e uno in Svizzera), sono tra i beni di famiglia che Corinna gestisce personalmente. Nel corso della carriera Schumacher ha accumulato tra ingaggi e sponsor qualcosa come 750 milioni di euro. Alcuni contratti sono rimasti in essere anche dopo l'incidente, sebbene nel corso degli anni quasi tutti i brand abbiano voltato le spalle al Kaiser. L' unico a rimanere è quello storico: Deutsche Vermögensberatung, leader mondiale nel settore dei fondi di risparmio e pensionistici, con cui Schumi appena quattro mesi prima dell'incidente si era legato con un contratto da 3 milioni l'anno fino al 2020. Una fuga di risorse che ha alimentato voci su presunte sofferenze finanziarie della famiglia Schumacher, sulla scia della decisione di Corinna di vendere il jet privato (per 35 milioni) e la villa di Oslo (per 3 milioni). E anche la villetta di Meribel sarebbe tra gli asset sacrificabili. Ma per malinconia, non per necessità. Di recente, infatti, Corinna ha deciso di comprare una tenuta mozzafiato a Maiorca di proprietà del presidente del Real Madrid, Florentino Perez, per una cifra vicina ai 30 milioni. Gli stessi spesi in cinque anni di cure per Schumi, che ammontano a 130mila euro alla settimana.
Il museo nel mito - I soldi, insomma, non sono un problema. E lucrare sulla carriera dell'ex pilota è l'ultima delle intenzioni del sergente Corinna. Basti pensare che lo scorso giugno è stato aperto al pubblico il museo dedicato a Schumacher nel Motorworld di Colonia. Un' esposizione da 1000 metri quadri, con buona parte della collezione privata del campione tedesco: trofei, caschi, divise e foto di famiglia. E ovviamente le monoposto. Sono ben dodici, comprese sette Ferrari. Il biglietto d' ingresso per la storia della F.1, però, è totalmente gratuito. Un modo per tenere in vita il mito di Schumi, per consegnare ai milioni di tifosi quel patrimonio di immagini, sorrisi ed emozioni che è giusto che gli appartengano. Il resto, invece, è un affare di famiglia. E dei pochi rimasti legati dal codice Schumi. Daniele Dell'Orco
Michael Schumacher, atroce indiscrezione di Dagospia: "Colpito da un ictus mentre sciava", scrive il 15 Novembre 2018 Libero Quotidiano. A cinque anni di distanza dal drammatico incidente che gli ha rovinato la vita, una nuova, clamorosa, voce su Michael Schumacher. Una ricostruzione lanciata da Dagopsia su cosa potrebbe essere accaduto a Meribel quel drammatico 29 dicembre 2013. La versione ufficiale dà conto di un sasso che avrebbe provocato la rovinosa caduta del sette volte campione del mondo. "a indiscrezioni da Zurigo consegnerebbero una versione dei fatti diversa: Schumacher potrebbe essere stato colpito da un ictus durante la discesa", rivela Dagospia. Dunque, si legge: "Aveva il caschetto, ma sarebbe stata la telecamerina GoPro posizionata sopra, a spaccare l’elmetto, penetrando e danneggiando il cervello dell’ex pilota. Quando uscirono queste ipotesi, l'azienda smentì tutto, e la famiglia ribadì la versione ufficiale". Il mistero, dunque, dopo un lustro si infittisce.
Michael Schumacher, parla per la prima volta la moglie Corinna: "Tutti sappiamo che", rivelazione-bomba, scrive il 13 Novembre 2018 Libero Quotidiano. "Michael è un combattente e non si arrenderà". È la prima volta dopo l'incidente sugli sci del 29 dicembre 2013, che Corinna Betsch parla di suo marito Michael Schumacher. E lo fa in una lettera in cui risponde al musicista tedesco Sascha Herchenbach che proprio in onore di Schumi ha composto la canzone Born to Fight e ne ha inviato una copia alla stessa Corinna. La moglie del pilota ha ringraziato il musicista per "il suo regalo e la sua vicinanza in questo momento difficile". "È bello ricevere così tanti auguri e tante altre belle parole, che rappresentano un grande sostegno per la nostra famiglia. Sappiamo tutti che Michael è un guerriero e che non si arrenderà", ha detto Corinna. La lettera, ha dichiarato Herchebach alla rivista tedesca Bunte, era scritta a mano ma non è chiaro a quando risalga. Schumacher, a quanto si sa, si troverebbe ancora nella sua casa in Svizzera, vicino a Ginevra, assistito da un team di quindici persone. Ma sulle sue condizioni di salute la famiglia ha sempre mantenuto il più stretto riserbo.
Michael Schumacher, la verità sulla lettera di Corinna: è stata scritta due anni fa, scrive il 14 Novembre 2018 Libero Quotidiano. Una lettera, la prima e unica di Corinna, la moglie di Michael Schumacher, con una rivelazione: "E' un combattente e non si arrenderà". Peccato che quella missiva non sia di questi giorni. E' stata scritta infatti un paio di anni fa in segno di gratitudine, come spiega Sabine Kehm, ex manager di Schumi, ora amica e tutor della famiglia Schumacher. Nella lettera Corinna Betsch parla di suo marito e risponde al musicista tedesco Sascha Herchenbach che proprio in onore di Schumi ha composto la canzone Born to Fight e ne ha inviato una copia alla stessa Corinna. La moglie del pilota ha ringraziato il musicista per "il suo regalo e la sua vicinanza in questo momento difficile". "È bello ricevere così tanti auguri e tante altre belle parole, che rappresentano un grande sostegno per la nostra famiglia. Sappiamo tutti che Michael è un guerriero e che non si arrenderà", ha detto Corinna. La lettera, ha dichiarato Herchebach alla rivista tedesca Bunte, era scritta a mano ma non è chiaro a quando risalga. Schumacher, a quanto si sa, si troverebbe ancora nella sua casa in Svizzera, vicino a Ginevra, assistito da un team di quindici persone. Ma sulle sue condizioni di salute la famiglia ha sempre mantenuto il più stretto riserbo.
Schumacher, la profezia di Minardi su Mick: perché il figlio di Michael vincerà in F1 come il padre, scrive il 15 Ottobre 2018 Libero Quotidiano". Il futuro di Mick Schumacher, pilota e figlio del mitico Michael, ha inciso a caratteri cubitali il successo in Formula 1. Ne è certo il maestro nobile dei motori, Giancarlo Minardi, uno che in vita sua ha lanciato personaggi del calibro di Ferando Alonso, Mark Webber, Giancarlo Fisichella e Jarno Trulli. Al Quotidiano nazionale, Miinardi non ha dubbi: "Certo che ce la può fare. Anche perché il ragazzo possiede una dote che contribuì alla grandezza del padre...". Mick Schumacher non sarebbe certo il primo figlio d'arte din F1. Prima di lui, solo per citare i più recenti, hanno corso e vinto Villeneve e Rosberg, ma lui secondo Minardi ha una virtù unica: "Quando sei l'erede di un fuoriclasse che ha attraversato le generazioni, battendo ogni record, beh è chiaro che hai addosso una pressione mediatica micidiale. In Germania e anche in Italia, per ovvie ragioni, tutti guardano in un certo modo... allora e per fortuna, Mick somiglia la padre nella capacità di estraniarsi dal contesto. Non si lascia condizionare dalla frenesia di chi lo circonda. Michael era così, era la superstar assoluta della Formula Uno ma riusciva a concentrarsi in maniera totale sul lavoro da fare con gli ingegneri e con i meccanici. Il figlio in questo è identico".
VALENTINO ROSSI, LA SOLIDARIETA’ NAZIONALE E LA LEGGE DELL’INVIDIA.
Valentino Rossi, i primi 40 anni del Dottore di Tavullia: gli amici, gli affari, i segreti, scrive il 6 Febbraio 2019 Tommaso Lorenzini su Libero Quotidiano. Distesa sulle colline romagnole, affacciata sulla riviera del divertimento, Tavullia è l'ombelico di un mondo tutto giallo, che con la Cina però non ha niente a che vedere. Qui di tarocchi non ce ne sono, c' è solo, ovunque (bandiere appese ai lampioni, cartelli, adesivi, insegne, perfino uno striscione gigante in piazza) un unico, originale e inimitabile Valentino Rossi che oggi in Malesia scende in pista con la Yamaha per i primi test della MotoGp 2019 (a caccia dell'agognato decimo titolo) e che, il 16 febbraio, compirà 40 anni. Una cifra tondissima e quasi sorprendente da cucire addosso a questo Peter Pan, che di strada ne ha fatta da quando, assieme agli amici, si sfidava con lo scooter sulla statale "Panoramica" fuggendo dai carabinieri. Oggi Rossi si è diviso in tre. Oltre ad essere un totem per nulla pensionato del motociclismo, è il boss della VR46, azienda di abbigliamento tecnico di grande successo, e ideatore assieme all' amico Uccio Salucci della VR46 Riders Academy: una scuola di moto e di vita per giovani piloti che ha già sfornato due campioni Mondiali Junior Moto3 (Dennis Foggia e Lorenzo Dalla Porta) e due iridati in Moto2 (Pecco Bagnaia e Franco Morbidelli). Mentre Elia Bartolini e Lorenzo Bartalesi sono i due giovanissimi che correranno il campionato italiano supportati dallo Sky VR46 Junior Team. Formalizzata nel 2014, l'Academy è la discendente della Cava, quella struttura dismessa dove Rossi, assieme agli amici fra i quali Marco Simoncelli, e pure col babbo Graziano, andava a girare con la moto da fuoristrada per allenarsi. Nel 2011 il trasferimento.
LUNA PARK E COLLEGE. Su un terreno appartenente a Graziano posto sulla destra di Tavullia (salendo dal mare) Vale ristruttura una vecchia casa colonica e si crea il suo parco giochi con tanto di camere, spogliatoi, sala da pranzo con camino e maxi schermo, base d' appoggio per un tracciato chiamato inizialmente "la Biscia" e ora noto a tutti come «il Ranch»: pista in terra battuta, moto di traverso e luogo di pellegrinaggio per i tifosi. Oggi, quel luna park è divenuto una sorta di college, un unicum riconosciuto anche dalla Federmoto. Antonio Di Girolamo è il factotum che si occupa della struttura: «Servono tre giorni per risistemare la pista quando girano», racconta. Perché qui si va forte. Rossi si è circondato di ragazzi in cui ha intravisto del talento da coltivare. Da tre anni gli allievi sono undici, scelti «a pelle da me e da Vale», spiega Uccio, «fra gente rimasta a piedi come Bagnaia o altri che ci stimolavano». Due giorni a settimana si allenano assieme. Il mercoledì il "differenziato", che può essere palestra, cross, minimoto o kart, il sabato tutti al Ranch. Cinque ore di giri cronometrati nella pista di 2,6 km (si fa in circa 2 minuti) poi l'Americana finale nei due ovali concentrici: a ogni giro ne vengono eliminati 2, fino al duello decisivo. Sempre a tutto gas, per vincere, perché l'adrenalina del Ranch è la stessa del Mondiale. Serve abituarsi. «È uno dei segreti del Dottore», commenta Uccio, che dell'Academy è responsabile assieme ad Alberto "Alby" Tebaldi e Carlo Casabianca, «circondarsi di giovani lo aiuta a restare competitivo. Vale ha già vissuto le situazioni che si presentano ai ragazzi, quindi sa come aiutarli». Tutti sono seguiti dal professor Fabrizio Angelini, ogni 15 giorni vengono fatte le analisi di sangue e saliva, controllato il peso e la nutrizione, che varia da pilota a pilota. «Ci stiamo organizzando per fare anche un piccolo ambulatorio», confida Uccio, che ha appena seguito gli ultimi aggiustamenti alle tute prima dei test, compresa quella di Valentino: «Una tuta non fatta su misura può creare dolori agli avambracci e compromettere l'annata».
DALLA PISTA AGLI AFFARI. Mentre a tutti viene proibito l'alcol nei weekend di gara: sia perché disidrata, sia perché dal giovedì a prima delle gare in ogni momento la Dorna può ordinare l'alcol test. E chi è positivo viene squalificato. Spenta la moto, attraversata Tavullia, Rossi si siede alla scrivania della VR46. Magliette, cappellini, felpe, accessori: un'azienda di abbigliamento a tutto tondo. Retail diretto, punti vendita itineranti in ogni circuito, e-commerce: la VR46 ha lavorato con la Juve, segue Ktm, Lamborghini, Monster Yamaha e molti piloti del Motomondiale (c'era anche Marquez, poi cacciato dopo i fatti del 2015). Nel 2013 la VR46 ha fatturato 9,6 milioni, nel 2017 20,4 e le previsioni per il 2018 sono 17,5. Tanto che secondo una stima l'azienda versa circa un milione di tasse all' anno al Comune di Tavullia. «Abbiamo 40 dipendenti, tutti ragazzi della zona», conferma l'ad Alby Tebaldi, ex capo-aerea di Finstral e uomo di fiducia di Rossi, conosciuto nelle scorribande sui passi appenninici per andare al Gp del Mugello, «nel 2009 Vale mi prese e mi disse: "E se facessimo da soli per il merchandising?" Ora siamo presenti in circa 50 Paesi ma la nostra forza è l'essere come una famiglia, anche se siamo diventati un modello di business. Siamo partiti in 6, tutti presi da aziende leader del settore, alla cena di Natale eravamo 90». Alessandra Colombo si occupa della grafica con un team di 4 persone, «Valentino valuta, dà consigli, ma non si intromette», spega Alby, «e viene spesso in azienda. L' articolo più venduto? Le sue t-shirt gialle ovviamente». Tommaso Lorenzini
Valentino Rossi, parla l'amico fraterno Uccio: "Biaggi o Marquez? Vi dico chi odia davvero", scrive il 6 Febbraio 2019 Tommaso Lorenzini su Libero Quotidiano. Alessio Salucci, Uccio per tutti, anche lei fra poco (il 19 aprile) compirà 40 anni come il suo "fratello" Valentino Rossi.
Il Dottore ha mai pensato di mollare tutto e ritirarsi su un'isola? «Ma va', a fare che? La vita inizia ora».
Però qualcuno sostiene che un pensierino a dire basta dovrebbe farlo.
«Prima di lui ce ne sono molti altri che dovrebbero pensare a ritirarsi. Io lo vedo molto in forma, l'anno scorso ha fatto terzo nel Mondiale sopra una Yamaha in enorme difficoltà tecnica. E poteva arrivare secondo, se non si fosse sdraiato in Malesia».
Magari si sposa e mette su famiglia prima di dire stop?
«Lui con figli? Chissà. Quando ho saputo che sarei diventato papà l'ho chiamato subito: "Pamela è incinta". E lui: "Perché?". Sto ridendo ancora».
Lei ha fiducia cieca in lui.
«Siamo coetanei e cresciuti insieme, basta uno sguardo per capirci. I nostri genitori si conoscevano prima che nascessimo, a Tavullia abbiamo costruito un gruppetto di cinque o sei amici.
È il nostro collante, un punto di forza sia per me sia per lui».
Come si diventa l'"assistente" di Rossi?
«A 17 anni lavoravo con mio padre, che aveva una ditta di generi alimentari, e avevo tempo per seguire Vale alle gare. Però è solo a fine 1996 che mi chiese di seguirlo davvero. Nel '97, il primo anno con lui, non mi pagava nemmeno, mica poteva permetterselo».
Lei sa di essere uno degli uomini più invidiati al mondo?
«Sì, e me ne vanto, ma non sono stato il primo. Schwantz aveva il suo Uccio, Biaggi pure, tutti prima di noi. Certo, io ho avuto culo».
C' è qualcosa che non sopporta di Valentino?
«È eternamente in ritardo. Una volta di ore, adesso siamo alle mezz' ore. Un paio di domeniche fa dovevamo andare a Milano per lavoro e lui è arrivato puntuale, mentre un altro amico è arrivato dopo: è stata la fine del mondo, ce la sta facendo pesare tutti i giorni».
Quando si è accorto che Rossi era Rossi?
«Nell' Europeo 1995. Un anno importante perché si è confrontato con quelli veri».
Dicevano che era raccomandato dal babbo...
«È vero che avere Graziano alle spalle è stato un vantaggio, però come fai a dire qualcosa a uno che alla terza gara vince e poi fa suo anche il campionato? All' Europeo ha chiuso terzo dietro solo agli ufficiali con un'Aprilia che non andava. Nel '96 vinse la prima gara nel Mondiale a Brno con l'Aprilia 125 standard di Sacchi e Pernat capì subito che era un fenomeno. Lui con quella moto faceva il mazzo a Perugini, Martinez, Aoki. L' anno dopo con la moto ufficiale vinse 11 gare e titolo».
Mai fatto pesare di essere "Valentino Rossi"?
«Mai, perché ha sempre voluto che chi lavora con lui sia coinvolto e ci sia fiducia reciproca. Quello che vedete in tv è lui. E proprio in televisione lo vedrei bene».
A condurre un programma?
«No, come concorrente di un quiz di motori. Sa tutto: il podio di quella gara di 30 anni fa, lo sponsor di quel pilota...»
E le sue, di gare?
«Prima di ogni Gp mangia la pasta col pomodoro. La fa fare senza cipolla, con poco sale, ma col Parmigiano e sempre alle 11.50, se corre alle 14».
Problemi ne ha avuti con Marquez...
«Intorno a Marc c' è finzione, un rapporto non paragonabile a quello con Biaggi. Con Max è una rivalità più sana, vera, da pane e mortadella, anche se si mandavano a fanculo».
E con Lorenzo?
«Lui è così e quelle persone mi piacciono, siamo stati tanti anni compagni di squadra. Certo, non sarebbe il primo che chiamerei per una pizza, ma è prendere o lasciare».
Con Simoncelli invece c'era grande feeling. Al Ranch c' è un disegno bellissimo.
«L' Academy è partita con lui. E stato il primo individuato, Vale ha detto "cazzo, che figo". Marco era intelligente, imparava alla svelta. Dopo l'incidente, la spinta emotiva per provarci con l'Academy ce l'ha data proprio il Sic da lassù». Tommaso Lorenzini
Quarant'anni Valentino Rossi, cinque riti: ecco come trova la concentrazione prima delle gare, scrive Vincenzo Borgomeo il 15 febbraio 2019 su Repubblica Tv. Sono anni che Valentino Rossi, prima di una gara, usa alcuni rituali per trovare la giusta concentrazione: prima di avvicinarsi alla moto rimane in piedi e si flette in avanti, facendo due cerchi con le mani intorno alle ginocchiere e poi toccando gli stivali. Poi si alza, si sistema le mutande, prima davanti e poi dietro. Quindi si accuccia sul lato destro della moto, prende con le mani le pedivelle e rimane così qualche secondo. Sembra pregare. Poi si alza, mano destra sull'acceleratore, mano sinistra sul serbatoio e con la gamba sinistra scavalca la moto e sale in sella. Gas, si esce dal box ma quando è ancora in dalla pit lane, si alza in piedi sulle pedane, si aggiusta le mutande tirandole, prima davanti poi dietro, quindi si risiede e parte lanciandosi in pista.
Vale40: vent'anni di festeggiamenti mondiali. Il pollo, la bambola gonfiabile, il WC a bordo pista, tutti i modi stravaganti di festeggiare di Valentino, scrive Roberta Bogi Pagnini su Il Corriere dello Sport il 16 febbraio 2019. Quaranta candeline per Valentino Rossi che, nel giorno del suo compleanno, avrà molto da festeggiare insieme ai suoi amici di sempre, quelli di Tavullia, ma anche e soprattutto i “suoi” piloti dell'Academy. Già, perchè quando si parla di festeggiamenti lo sanno tutti che Valentino è il numero uno: il pollo, la bambola gonfiabile, il travestimento da Robin Hood sono solo alcuni dei modi con il quale Mister 46 ha voluto rendere omaggio alle sue vittorie diventando così un idolo indiscusso non solo a livello di talento ma anche di simpatia.
AMARCORD - Tutto iniziò quando Vale nel 1996 approdò al Campionato del mondo classe 125 portandosi dietro i suoi più fedeli tifosi, gli amici di Tavullia che per primi lo avevano sostenuto: iniziarono a stampare le prime magliette, a far sventolare le bandiere con il numero 46 e poi nel 1997, dopo la vittoria al Mugello la prima vera gag, quella con la bambola gonfiabile caricata in moto da Vale... ritraeva Claudia Schiffer e Rossi voleva fare dell'ironia nei confronti di Max Biaggi che al tempo frequentava Naomi Campbell...era l'inizio del “boom” mondiale di Dottor Rossi. Valentino divenne presto l'emblema del motociclismo a livello mondiale e presto i suoi “siparietti” sarebbero diventati un vero e proprio modello per tutti i giovani 14enni che iniziarono a guidare l'Ape car, a rasarsi i capelli più corti sotto e più lunghi sopra, o ad indossare il pearcing all'orecchio. Lui, dall'alto del gradino più voluto del podio non faceva niente di “speciale” se non sorridere nel modo più spontaneo che ci fosse e mostrando i suoi riccioli biondi... ma per tutti era già diventato un mito da seguire.
TUTTE LE GAG – E la bambola gonfiabile fu solo la punta dell'iceberg, come non ricordare il travestimento da Robin Hoodsul podio di Donington mentre scoccò una freccia verso il cielo e si tolse in fretta e furia il cappello verde mentre era già iniziato l'inno di Mameli. Ci furono poi il passaggio in moto ad una persona vestita da angelo e quello al pollo “Osvaldo” con tanto di tshirt a tema di tutti gli amici di Tavullia. Poi, arrivò la volta di Jerez nel 1999, Vale era già passato alla 250cc e per festeggiare in Spagna si fermò a bordo pista dove i suoi fedeli amici avevano sistemato un finto WC e davanti a tutto il pubblico si mise a fare la pipì...in quell'occasione ricevette una multa di 5 milioni...alla gara successiva in Spagna, avrebbe voluto salire sul podio con il pannolone ma non vinse e tutto venne rimandato. Un'altra storica gag che merita di essere ricordata fu quella del Mugello 2001, classe regina, Rossi a fine gara venne fermato da due vigili urbani (due suoi amici travestiti) e multato per eccesso di velocità. Il pubblico italiano era in delirio e invase la pista rendendo difficile a Rossi, Biaggi e gli altri piloti il rientro ai box.
E IL PROSSIMO? - Insomma, tante cose si possono dire su Valentino Rossi, ma di certo non si può dire che in tutti questi anni di carriera non ci abbia fatto divertire. Il suo non è solo talento nel guidare la moto che per giunta gli ha fatto vincere nove mondiali, ma in questi 20 anni di carriera si è fatto voler bene da tutti in ogni parte del mondo, con il suo faccino pulito da eterno Peter pan. Adesso all'appello, manca solo l'ultima gag, quella del decimo titolo iridato...viene da pensare che potrebbe riproporre quella del 2008 in Giappone quando vinse l'ottavo titolo e indossò la maglietta con scritto “Scusate il ritardo”...ma data la sua inventiva, sicuramente, in caso di vittoria avrà qualcosa di meglio con cui stupirci!
Valentino Rossi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Valentino Rossi (Urbino, 16 febbraio 1979) è un pilota motociclistico e dirigente sportivo italiano. Tra i piloti più titolati del motociclismo, in virtù dei nove titoli mondiali conquistati (cinque dei quali vinti consecutivamente tra il 2001 e il 2005), è l'unico pilota nella storia del Motomondiale ad aver vinto il Mondiale in quattro classi differenti: 125, 250, 500 e MotoGP. È inoltre il proprietario dello SKY Racing Team VR46.
Biografia. Figlio di Graziano Rossi, a sua volta pilota motociclistico a cavallo degli anni 1970 e 1980, nasce a Urbino per poi crescere a Tavullia, in provincia di Pesaro e Urbino. Grazie alla passione motociclistica del padre, Valentino vive fin dal suo primo anno di vita a contatto con i motori: «Andavamo sul piazzale della Berloni, legavo con una corda la sua macchinina dietro al mio motorino e lo trainavo mentre faceva i traversi e il controsterzo. Forse manco due, me lo ricordo perché a due anni e mezzo ha avuto in regalo un motorino con le rotelle. Che ha tolto quasi subito.» (Graziano Rossi, 2015). Fin da bambino usa sempre il numero 46, anche nelle annate in cui ha avuto la possibilità di sfoggiare il numero 1 di campione in carica; è lo stesso numero precedentemente utilizzato nel Motomondiale sia dal padre, sia successivamente da un pilota giapponese di cui era molto appassionato. Ha un fratello da parte di madre, Luca Marini, anche lui pilota motociclistico.
Carriera. A Tavullia, Valentino Rossi prende confidenza con i motori fin da piccolo grazie al padre Graziano, il quale corse nel motomondiale tra gli anni 1970 e 1980, e mostra subito il suo talento. Comincia con i go kart prendendo la licenza con un anno di anticipo, a soli 9 anni, ma passa presto alle più economiche minimoto, che al tempo non avevano ancora avuto lo sviluppo odierno, e prende la prima licenza come pilota del Moto Club Cattolica, sodalizio pioniere delle gare di minimoto. Fa le sue prime esperienze e gare presso la pista Motorpark a Cattolica, la prima omologata FMI.
A 13 anni prova per la prima volta la Aprilia Futura 125 ed esordisce nel campionato Sport Production nel 1993 in sella alla Cagiva Mito 125, gestita da Claudio Lusuardi. Nel 1994 partecipa contemporaneamente ai campionati Sport Production e GP italiani, riuscendo a vincere il campionato delle derivate di serie e a fare esperienza sui prototipi da GP. L'anno successivo vince il campionato italiano della classe 125 e si classifica terzo nell'europeo della stessa categoria. Dall'esordio in classe 125 nel 1996 al Gran Premio del Mugello del 2010, Rossi non ha mai saltato una gara.
La stagione 1996 del motomondiale sancisce l'esordio nel campionato del mondo di Valentino Rossi. Dopo alcune prestazioni di rilievo, ottiene la sua prima vittoria nel Gran Premio della Repubblica Ceca, a Brno, conquistando anche la sua prima pole position; ottiene inoltre un terzo posto in Austria e conclude la stagione al 9º posto con 111 punti.
Nel 1997 passa dal team AGV al Team ufficiale Nastro Azzurro Aprilia e ottiene il suo primo titolo mondiale in sella alla RS 125 con 321 punti iridati. Nel corso della stagione ottiene undici vittorie (Malesia, Spagna, Italia, Francia, Olanda, Imola, Germania, Brasile, Gran Bretagna, Catalogna e Indonesia), un secondo posto in Austria, un terzo posto in Repubblica Ceca e quattro pole position (Malesia, Paesi Bassi, Imola e Germania). A questo punto Rossi passa alla 250.
A partire dal 1998 corre nella classe 250. Trascorre il primo anno all'interno del team Nastro Azzurro; il cambio di cilindrata segna anche il passaggio dalla squadra di Mauro Noccioli a quella di Rossano Brazzi. L'anno non comincia bene, cadendo nelle prime due gare della stagione, nonostante ciò conclude la stagione al 2º posto con 201 punti, 23 in meno di Capirossi; nel corso della stagione ottiene cinque vittorie (Olanda, Imola, Catalogna, Australia e Argentina), tre secondi posti (Spagna, Italia e Francia) e un terzo posto in Germania.
Nel 1999, unico pilota del team ufficiale Aprilia Grand Prix Racing, si laurea campione del mondo della 250 con 309 punti; ottiene nove vittorie (Spagna, Italia, Catalogna, Gran Bretagna, Germania, Repubblica Ceca, Australia, Sudafrica e Brasile), due secondi posti (Olanda e Imola), un terzo posto in Argentina e cinque pole position (Malesia, Francia, Paesi Bassi, Germania e Argentina).
Il 2000 è l'anno del passaggio alla classe 500 e del cambio di scuderia. Firma infatti un contratto con la Honda e convince la casa giapponese ad avere l'assistenza dell'esperto capo tecnico Jeremy Burgess, precedentemente al servizio di Mick Doohane libero dopo il ritiro di quest'ultimo l'anno prima. Anche lo sponsor principale, Nastro Azzurro, lo segue nella nuova avventura, supportandolo con lo staff Mkt e pr., che lo aveva seguito dall'anno della vittoria del primo campionato mondiale in 125. Nella stagione di esordio, vince due GP (Gran Bretagna e Brasile) ed è vicecampione del mondo con 209 punti, dietro a Kenny Roberts Junior; oltre alle due vittorie, ottiene tre secondi posti (Germania, Repubblica Ceca e Pacifico) e cinque terzi posti (Spagna, Francia, Catalogna, Portogallo e Australia).
Nel 2001, ultima stagione prima della sostituzione di questa classe con la MotoGP, vince il terzo titolo iridato; ottiene undici vittorie (Giappone, Sudafrica, Spagna, Catalogna, Gran Bretagna, Repubblica Ceca, Portogallo, Pacifico, Australia, Malesia e Brasile), un secondo posto in Olanda, un terzo posto in Francia, quattro pole position (Sudafrica, Spagna, Italia e Catalogna) e 325 punti iridati. Sempre nel 2001, si cimenta nella prova più importante del Mondiale Endurance per le case giapponesi, la 8 Ore di Suzuka, imponendosi assieme all'allora compagno di marca (e pilota ufficiale Superbike) Colin Edwards.
Il Motomondiale 2002 fu il primo della nuova classe MotoGP, caratterizzata dai nuovi motori a quattro tempi da 990 cm³. Rossi, alla guida della nuova RC211V a cinque cilindri, ottiene 11 vittorie (Giappone, Spagna, Francia, Italia, Catalogna, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Germania, Portogallo, Brasile e Australia), quattro secondi posti (Sudafrica, Pacifico, Malesia e Comunità Valenciana), sette pole position (Giappone, Sudafrica, Spagna, Francia, Italia, Paesi Bassi e Gran Bretagna) e 355 punti iridati, che gli consentono di vincere il quarto titolo mondiale.
Nell'anno successivo vince nuovamente il titolo con 357 punti, nove vittorie (Giappone, Spagna, Italia, Repubblica Ceca, Portogallo, Brasile, Malesia, Australia e Comunità Valenciana), cinque secondi posti (Sudafrica, Francia, Catalogna, Germania e Pacifico), due terzi posti (Olanda e Gran Bretagna) e nove pole position (Giappone, Francia, Italia, Catalogna, Repubblica Ceca, Brasile, Malesia, Australia e Comunità Valenciana). In questa stagione ha concluso tutte le gare sul podio. Nel Gran Premio d'Australia a Phillip Island, dopo aver ricevuto 10 secondi di penalizzazione, a causa di un sorpasso effettuato su Melandri con bandiere gialle esposte, per la caduta del pilota Ducati Troy Bayliss, riesce a dominare la gara e conclude con 15 secondi di vantaggio, annullando la penalizzazione.
Nella stagione 2004 Rossi passa dalla Honda alla Yamaha, firmando un contratto di 12 milioni all'anno, più altri 3 milioni derivanti dagli sponsor. Tra questi ultimi Telecom Italia, a cui chiede tra l'altro che Tavullia, suo paese di nascita, sia raggiunta dalla banda larga. In Yamaha viene seguito da quasi tutti gli elementi chiave della vecchia squadra, come il capotecnico australiano Jeremy Burgess, con lui sin dalla prima stagione in Honda nel 2000. Rossi vince il Motomondiale 2004 con 304 punti iridati, a dodici anni di distanza dall'ultima vittoria di un pilota Yamaha, lo statunitense Wayne Rainey. Nel corso della stagione ottiene nove vittorie (Sudafrica, Italia, Catalogna, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Portogallo, Malesia, Australia e Comunità Valenciana), due secondi posti (Repubblica Ceca e Giappone) e cinque pole position (Sudafrica, Spagna, Paesi Bassi, Gran Bretagna e Malesia). In questa stagione il suo compagno di squadra è stato Carlos Checa.
Anche nel 2005 Rossi vince la competizione con 367 punti, divenendo campione del mondo con quattro gare di anticipo, a Sepang, il 25 settembre. Conquista 11 vittorie su 17 gare (Spagna, Cina, Francia, Italia, Catalogna, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Germania, Repubblica Ceca, Qatar e Australia), 16 podi complessivi (tre secondi posti (Portogallo, Malesia e Turchia) e due terzi posti (Laguna Seca e Comunità Valenciana). In questa stagione ha corso in coppia con Colin Edwards, che sarà suo compagno di squadra anche nei due anni successivi.
La stagione 2006 non ha inizio nel migliore dei modi, infatti alla prima gara, sul circuito di Jerez, cade al primo giro e rimontando chiude al 14º posto. In Cina è costretto a ritirarsi per dei problemi alla gomma posteriore, mentre in Francia a causa della rottura del motore. Ottiene comunque 5 vittorie (Qatar, Italia, Catalogna, Germania e Malesia). Nella stagione si classifica al secondo posto con 247 punti. Nell'ultima gara perde il primo posto in classifica, ottenuto all'Estoril, non riuscendo ad andare oltre il tredicesimo posto, e venendo definitivamente superato dal nuovo campione del Mondo Nicky Hayden, arrivato terzo, violando l'imbattibilità quinquennale di Rossi.
Nel 2007 comincia la stagione con un secondo posto al Gran Premio del Qatar, dietro a Casey Stoner. Al Gran Premio di Spagna torna alla vittoria precedendo il compagno di squadra Colin Edwards. Torna a vincere al Mugello, dove vince per la sesta volta consecutiva e raggiungendo 60 vittorie in MotoGP, ed eguaglia il record di podio nella classe regina (95) detenuto finora da Mick Doohan. A fine stagione si classifica al terzo posto finale, dietro al nuovo campione del mondo della Ducati, Stoner, e al pilota della Honda Pedrosa. Vince quattro gran premi, nell'ordine: Jerez, Mugello, Assen e Estoril (dove dedica la vittoria a Colin McRae, scomparso il giorno precedente); arriva secondo a Losail, Shanghai, Montmeló e ottiene un altro podio a Phillip Island arrivando terzo; ottiene inoltre dei piazzamenti di minor rilievo a Istanbul (decimo posto) e a Le Mans (sesta posizione). Nelle qualifiche dell'ultimo GP a Valencia Rossi, a causa di una caduta, si procura un trauma multiplo alla mano destra. L'aiuto della clinica mobile gli consente di partecipare comunque alla gara, dalla quale però si ritira per un guasto elettronico. Durante quest'ultimo fine settimana avverrà la comunicazione ufficiale del suo passaggio alle gomme giapponesi Bridgestone, dopo diversi anni con le Michelin.
Nel 2008 è ancora in sella alla Yamaha e il suo compagno di squadra diventa Jorge Lorenzo, campione del mondo in carica della classe 250, che sostituisce Colin Edwards; i due piloti non usufruiscono dello stesso fornitore di pneumatici, Rossi utilizza le Bridgestone mentre Lorenzo ha a disposizione le Michelin, e inoltre il box della scuderia nipponica viene "diviso a metà", nel tentativo di evitare il passaggio di dati tecnici fra i team dei due piloti. Nelle prime tre gare, Stoner, Pedrosa e il debuttante compagno di squadra Lorenzo si alternano sul gradino più alto del podio. Successivamente Rossi riconquista la prima posizione in classifica mondiale con tre vittorie consecutive nei gran premi di Cina, Francia e Italia. Nel Gran Premio di Francia, a Le Mans, raggiunge le 90 vittorie in carriera, al pari di Ángel Nieto. A partire dal Gran Premio degli USA di Laguna Seca, Rossi conquista una serie di vittorie: Brno, Misano Adriatico, Indianapolis e Motegi. Il 22 giugno 2008 Valentino corre a Donington Park il suo 200º Gran Premio, giungendo secondo alle spalle di Casey Stoner; sullo stesso circuito, nel 2002, Rossi aveva raggiunto il traguardo dei 100 GP e, curiosamente, la vittoria numero 46. Ad Indianapolis, dove il 14 settembre del 2008 le moto gareggiano per la prima volta, Rossi conquista la vittoria che gli consente di superare, con 69 vittorie tra 500 e MotoGP, il record assoluto detenuto in precedenza da Giacomo Agostini. A Motegi, con tre gare di anticipo rispetto alla fine del campionato, torna a laurearsi campione del mondo, arrivando a 8 titoli iridati: 1 in 125, 1 in 250 e 6 tra 500 e MotoGP. Ottiene un'ulteriore vittoria a Sepang. Tra i dati statistici, da segnalare i 373 punti in campionato e 7 ulteriori piazzamenti sul podio: i secondi posti in Spagna, Catalogna, Gran Bretagna, Germania e Australia, e i terzi posti in Portogallo e a Valencia; ottiene anche due pole positions (Mugello e Indianapolis).
La stagione 2009 inizia con due secondi posti, in Qatar (dietro a Stoner) e in Giappone (gara in cui parte dalla pole ma giunge alle spalle di Lorenzo), e la vittoria in Spagna a Jerez. Nella quinta gara, a Le Mans, giunge sedicesimo al traguardo, fuori dalla zona punti; ritorna sul podio ottenendo un terzo posto al Mugello (Gran Premio del quale aveva vinto le precedenti sette edizioni) e ottiene la vittoria in Catalogna, dopo una gara combattuta con Lorenzo e un sorpasso all'ultima curva. Il 27 giugno 2009, in occasione del Gran Premio d'Olanda ad Assen, Rossi raggiunge la sua centesima vittoria in carriera e la festeggiata con l'ostensione, al termine della gara, di uno striscione recante le foto di tutte le vittorie da lui ottenute sino ad allora. A Laguna Seca arriva secondo, alle spalle di Pedrosa e davanti a Lorenzo e Stoner, mentre in Germania conquista la pole sul bagnato e la vittoria in gara dopo un duello col compagno di squadra. Nel Gran Premio di Gran Bretagna, dopo aver ottenuto la pole position, conclude la gara al quinto posto, dopo esser stato vittima di una caduta mentre si trovava in testa. In quel periodo la stampa sportiva annuncia erroneamente che il 19 luglio 2009, sul circuito del Sachsenring, Valentino Rossi avesse eguagliato il record assoluto di Giacomo Agostini, conquistando il podio numero 159 della sua carriera. Tale equivoco scaturì dal mancato computo dei risultati ottenuti dal campione bergamasco nella Formula 750 che, dal 1977 al 1979, era compresa nelle classi del Motomondiale. Su 190 Gran Premi disputati, Agostini ha conquistato 162 podi e 123 vittorie. Rossi conquisterà poi il 163º podio, alla 223ª gara disputata, arrivando 3º nel Gran Premio motociclistico della Malesia 2009. In Repubblica Ceca ottiene pole e vittoria davanti a Pedrosa, con i due principali rivali per la lotta iridata fuori causa (Lorenzo infatti è caduto, mentre Stoner non ha preso parte a questa e alle successive due gare a causa di problemi fisici). Nel Gran Premio di Indianapolis invece cade, mentre Lorenzo conquista la vittoria; la settimana successiva, nel Gran Premio di San Marino, Rossi fa pole position e vince, precedendo i rivali diretti per il titolo Lorenzo e Pedrosa. Nel Gran Premio del Portogallo ottiene il quarto posto, alle spalle di Lorenzo, Stoner (appena rientrato dall'infortunio) e Pedrosa. A Phillip Island Rossi giunge secondo, dietro a Stoner, mentre Lorenzo cade nelle prime fasi della gara; la sua giornata viene tuttavia condizionata da un lutto familiare: infatti era da poche ore a conoscenza del suicidio del secondo marito di sua madre.[28] Il cospicuo vantaggio guadagnato sul secondo in classifica Jorge Lorenzo, consente a Valentino Rossi di laurearsi per la nona volta campione del mondo nella gara successiva, caratterizzata dal maltempo, durante il Gran Premio della Malesia: Rossi conclude al terzo posto, dopo esser partito dalla pole, dietro a Stoner e Pedrosa, ma davanti a Lorenzo. Il 25 ottobre 2009, dopo la conquista del suo nono titolo mondiale, Rossi ha eguagliato Carlo Ubbiali e Mike Hailwood, conseguendo un numero di titoli mondiali inferiore solo a quelli vinti da Giacomo Agostini e Ángel Nieto. La stagione si conclude con la piazza d'onore alle spalle di Pedrosa nel Gran Premio della Comunità Valenciana, davanti al compagno di squadra.
La stagione 2010 inizia con una vittoria in Qatar, davanti al compagno di team Jorge Lorenzo e ad Andrea Dovizioso (team ufficiale HRC), vittoria favorita anche dalla caduta di Stoner, che sino ad allora era al comando della gara. In Spagna si classifica terzo, mentre in Francia arriva secondo dopo essere partito dalla pole position. Tuttavia il 5 giugno, durante le prove del Gran Premio d'Italia presso il circuito del Mugello, Valentino cade a causa di un high side, riportando la frattura scomposta ed esposta di tibia e perone, infortunio per il quale subisce un intervento chirurgico presso il CTO di Firenze. Nonostante si prospettino lunghi tempi di recupero (la prognosi iniziale era di almeno due mesi), Rossi torna in sella alla moto, sebbene ancora claudicante e costretto all'utilizzo delle stampelle, a poco più di un mese dall'infortunio, che non gli consente di prender parte a quattro Gran Premi, vinti da Pedrosa (Italia) e Lorenzo (Gran Bretagna, Olanda e Catalogna). Durante l'assenza è stato sostituito dal collaudatore giapponese Wataru Yoshikawa. Il ritorno alle competizioni avviene al Gran Premio di Germania, che si disputa il 18 luglio presso il circuito del Sachsenring, dopo aver ricevuto l'autorizzazione a correre da parte dei medici del circuito. E proprio in Germania Rossi ottiene un quarto posto, dopo un'accesa lotta con Stoner, negli ultimi giri della gara, per il gradino più basso del podio; quindi la settimana successiva, nel Gran Premio degli Stati Uniti, riesce a ottenere un altro terzo posto. Al termine della pausa estiva, Rossi ottiene il quinto posto nel Gran Premio della Repubblica Ceca ed il quarto ad Indianapolis. A Misano, invece, conquista il terzo posto al termine di una gara funestata dall'annuncio della morte del centauro giapponese Shōya Tomizawa a seguito dei gravi traumi riportati in un incidente nella gara di Moto2, svoltasi immediatamente prima della MotoGP. Nel nuovo Gran Premio d'Aragona, disputato in sostituzione della prova ungherese, giunge sesto. Nella gara successiva, il Gran Premio del Giappone a Motegi, Rossi, dopo un duello serrato con Lorenzo, riesce a salire sul gradino più basso del podio, mentre la settimana successiva in Malesia, torna a vincere, precedendo sul traguardo Dovizioso e Lorenzo, laureatosi matematicamente campione del mondo. È terzo in Australia una settimana dopo, mentre in Portogallo occupa la piazza d'onore. Conclude il motomondiale 2010 e la sua esperienza con la Yamaha conquistando il gradino più basso del podio al Gran Premio della Comunità Valenciana, piazzamento che gli vale il terzo posto nella classifica iridata dopo Lorenzo e Pedrosa e immediatamente davanti a Stoner. Nel dopo-gara del GP della Repubblica Ceca 2010 è stato dato l'attesissimo annuncio ufficiale del passaggio del centauro di Tavullia dalla Yamaha alla Ducati per le stagioni 2011 e 2012. Durante tale biennio però, di gran lunga il più buio della sua carriera, non ottiene alcuna vittoria, collezionando quattro ritiri e soli tre podi. Secondo dichiarazioni successive a questo deludente periodo, il problema era legato al mezzo, che non permetteva di essere guidato in una maniera che fosse all'altezza delle altre moto, facendo infatti imbattere spesso i piloti ducatisti in improvvise chiusure dell'avantreno, con conseguenti cadute talvolta particolarmente rischiose; per Rossi, così come per il compagno di squadra Nicky Hayden, la Desmosedici risulta difficile da gestire, soprattutto relativamente alla ruota anteriore, e li costringe a seguire linee molto larghe in curva, facendo così perdere terreno e tempo prezioso in termini di gara. Nonostante il discusso rinnovo del telaio apportato per la stagione 2012 (che mette da parte uno dei tratti distintivi del marchio bolognese), durante il biennio la guida difficoltosa della Ducati Desmosedici non subisce importanti miglioramenti, a causa anche degli impedimenti da parte del gruppo dirigente e tecnico, che mantenendo costantemente un noto approccio rigido, non accoglie le richieste dei piloti. La prima stagione inizia con un settimo posto in Qatar, mentre in Francia a Le Mans Rossi ottiene il suo primo podio con la Ducati, giungendo terzo al traguardo alle spalle di Stoner e Dovizioso, mentre in Giappone cade e si ritira, subendo una frattura parziale al quinto dito della mano. Stessa cosa succede in Australia, cadendo a 15 giri dal termine. Il 23 ottobre 2011, durante il 2º giro del Gran Premio della Malesia, rimane coinvolto con Colin Edwards nell'incidente che porta alla morte Marco Simoncelli, suo abituale compagno di allenamento oltre che rivale in pista; dopo l'incidente la gara verrà prima sospesa, poi annullata. Il drammatico incidente colpisce particolarmente Rossi, il quale aveva instaurato un profondo legame di amicizia con "il Sic". Due settimane dopo, nell'ultimo appuntamento del Motomondiale 2011, il Gran Premio della Comunità Valenciana, finisce la gara anticipatamente a causa di un contatto con Álvaro Bautista, pilota Suzuki, che ne causa la caduta durante il primo giro. Termina la stagione al 7º posto con 139 punti, per la prima volta mai vincitore di un Gran Premio in una singola stagione.
Inizia il 2012 con il decimo piazzamento in Qatar, in Francia conclude una gara completamente bagnata con la seconda posizione, superando Casey Stoner all'ultimo giro ed ottenendo il primo podio della stagione, che dedicherà all'amico pilota recentemente scomparso. Nella gara di Assen taglia il traguardo in tredicesima posizione per un problema alla gomma, che lo costringe ad effettuare un pit stop. A Laguna Seca si ritira a seguito di una caduta al penultimo giro e il 10 agosto 2012, con un comunicato sul suo sito ufficiale, la Ducati annuncia la fine del rapporto con Rossi al termine dell'anno; poco dopo la Yamaha comunica di aver trovato un accordo col pilota italiano per un suo ritorno alla casa giapponese. Nel Gran Premio di San Marino Rossi arriva secondo sul podio, e termina la stagione al 6º posto con 163 punti. Durante il biennio è comunque il pilota Ducati che ottiene i migliori risultati. Verso la fine del campionato rilascia un'intervista sui due anni con l'azienda di Borgo Panigale, definendoli come un errore in quanto scarni di risultati, e confermando quindi di chiudere l'esperienza con la rossa.
Dopo l'incolore biennio in Ducati, per la stagione 2013 Rossi decide di tornare in Yamaha, dove va nuovamente a far coppia con lo spagnolo Lorenzo, campione in carica. Al debutto stagionale, il 7 aprile in Qatar, Rossi ottiene il secondo posto proprio dietro al compagno di squadra, e davanti all'esordiente Márquez. Dopo un sesto posto in Texas e un quarto a Jerez, ha una battuta d'arresto in Francia dove chiude dodicesimo, a causa di una caduta mentre lottava per il podio, e al Mugello, in cui esce di gara ancora per una caduta, durante il primo giro, per via di un contatto con Bautista. Ritorna tra i primi in Catalogna classificandosi quarto dietro Lorenzo, Pedrosa e Márquez. La prima e unica vittoria della stagione matura ad Assen – circuito storicamente favorevole a Rossi –, che consegue l'ottavo successo della sua carriera sul tracciato olandese imponendosi su Márquez e Crutchlow. Nei successivi appuntamenti al Sachsenring e a Laguna Seca si mantiene sul podio, in entrambe le occasioni sul terzo gradino. Con la prova di Indianapolis ha invece inizio una sequenza di quattro quarti posti consecutivi, proseguita poi a Brno e Silverstone, e chiusa a Misano. Nel finale di stagione, torna a salire sul podio in Aragona e in Australia, risultati intervallati ancora da un quarta piazza a Sepang e da un sesto posto a Motegi. Rossi conclude la stagione 2013 cogliendo l'ennesimo quarto posto a Valencia: è questa anche la posizione finale con cui il pesarese termina il campionato piloti, a 237 punti in classifica; il piazzamento rispecchia l'andamento globale della stagione, con Rossi spesso lontano dalla lotta al vertice ad opera del trio spagnolo Lorenzo-Márquez-Pedrosa.
Nella gara d'esordio del 2014 giunge secondo in Qatar, dietro al campione del mondo Márquez, mentre nei successivi due appuntamenti in Texas e in Argentina conclude rispettivamente ottavo e quarto. Infila poi una serie di quattro podi consecutivi che permettono al pilota di issarsi al secondo posto della classifica generale; in Italia, con un terzo posto, taglia il traguardo dei 300 Gran Premi in carriera. A Indianapolis giunge terzo, piazzamento poi replicato a Brno – arrivando, per la prima volta in stagione, davanti all'iridato in carica Márquez – e Silverstone. Torna al successo, dopo un anno, trionfando a Misano davanti al compagno di squadra e a Pedrosa. In Giappone giunge terzo. Vince in Australia, dopo nove anni dal suo ultimo successo su questo tracciato, piazzandosi davanti a Jorge Lorenzo e Bradley Smith nel suo duecentocinquantesimo Gran Premio nella classe regina. In Malesia giunge secondo. Conquista la pole position a Valencia dopo oltre quattro anni dalla sua precedente, chiude la gara al secondo posto così come il campionato, con 295 punti.
La stagione 2015 si apre col successo nel Gran Premio del Qatar al termine di una gara che ha visto giungere a podio altri due italiani, Dovizioso e Iannone: un risultato che non capitava dal Gran premio del Giappone del 2006 quando Rossi arrivò secondo dietro a Capirossi e davanti a Melandri. Nel Gran Premio delle Americhe giunge terzo, ottenendo il suo primo podio in carriera su quel tracciato. Nel Gran Premio d'Argentina, dopo una rimonta dall'ottava casella della griglia, trionfa avendo la meglio su Márquez dopo un serrato duello nei giri conclusivi, conquistando la vittoria n. 110 in carriera. Si conferma sul podio giungendo, nelle quattro successive prove, secondo in Francia e Catalogna, e terzo in Spagna – festeggiando nell'occasione il podio n. 200 in carriera – e Italia. Torna al successo in Olanda conquistando pole position e gara, davanti a Márquez e Lorenzo. In Germania, a Indianapolis e in Repubblica Ceca giunge terzo. Il podio in Germania gli permette di raggiungere un nuovo primato, infatti detiene il record per il più lungo intervallo di tempo trascorso tra il primo e l'ultimo podio fatto durante un Gran Premio del Mondiale con 18 anni e 342 giorni, superando Ángel Nieto (con 18 anni e 328 giorni) detentore del primato dal 1986. Torna alla vittoria in Gran Bretagna, davanti agli altri due piloti italiani Petrucci e Dovizioso: coglie nell'occasione la sua prima affermazione a Silverstone, che porta a 23 i circuiti della MotoGP dove il pesarese ha trionfato almeno una volta in carriera. Chiudendo quinto a Misano, per la prima volta in stagione non sale sul podio, interrompendo in questo modo una striscia positiva che durava da sedici gare. Ad Aragona torna sul podio giungendo terzo, un piazzamento che contribuisce a dare alla Yamaha il titolo mondiale destinato alle squadre, successo che mancava al team giapponese dal 2010. In Giappone giunge secondo, dietro Pedrosa, mentre a Phillip Island chiude a ridosso del podio, quarto, dietro al vincitore Márquez, Lorenzo e Iannone, disputando nell'occasione il suo 328º gran premio nel Motomondiale, condividendo quindi, in tal modo, il record appartenuto fino ad allora a Loris Capirossi. In Malesia giunge terzo dietro Pedrosa e Lorenzo, ma dopo essere stato protagonista di un serrato e aggressivo duello con Márquez, al termine del quale quest'ultimo cade, in un contatto sospetto con l'italiano: a fine gara, la Direzione decide una sanzione di 3 punti sulla patente pilota di Rossi, il quale è di conseguenza costretto, nella gara conclusiva di Valencia, a partire dall'ultima posizione, benché con ancora sette punti di vantaggio su Lorenzo[69]. Questa penalizzazione compromette fortemente la possibilità di Rossi di vincere il titolo mondiale nell'ultimo appuntamento della stagione a Valencia: qui, partendo dal fondo in 26ª posizione, riesce a recuperarne ventidue e a tagliare il traguardo al quarto posto, tuttavia la contemporanea vittoria di Lorenzo lo porta comunque a concludere il campionato in seconda posizione, a cinque punti dal rivale spagnolo.
Nel primo Gran Premio della stagione 2016, in Qatar, giunge quarto, alle spalle di Lorenzo, Dovizioso e Márquez. In Argentina giunge secondo, mentre ad Austin parte dalla prima fila ma brucia la frizione e, nel tentativo di ricucire il distacco dai primi, al secondo giro cade. Si rifà a Jerez, partendo in pole position per la 62ª volta in carriera per poi vincere la gara mantenendo la testa del Gran Premio dal primo all'ultimo giro, conseguendo un hat-trick (pole, giro più veloce e vittoria) che mancava dal Gran Premio di Misano del 2009. In Francia parte dalla settima casella ed è autore di una rimonta fino alla seconda posizione, firmando il giro più veloce della gara. Al Mugello parte di nuovo dalla pole ma dopo otto giri è costretto al ritiro per un guasto al motore. Vince in Catalogna, conquistando la decima vittoria personale sul circuito di Montmelò. Ad Assen la gara viene sospesa per l'eccessiva pioggia: al secondo giro della seconda parte di gara Rossi scivola mentre era in prima posizione. In Germania, al Sachsenring, ritarda nell'effettuare il cambio moto dopo l'asciugatura della pista e chiude ottavo. Dopo la pausa estiva, il motomondiale fa tappa a Zeltweg, dove Rossi chiude quarto alle spalle dei due piloti Ducati, Iannone e Dovizioso, e del compagno di squadra Lorenzo. Torna sul podio a Brno, dove si piazza al secondo posto dietro al vincitore Cal Crutchlow; si ripete a Silverstone, dove chiude in terza posizione, e nel GP di casa, a Misano, dove termina secondo alle spalle di Daniel Pedrosa. Anche in Aragona giunge sul podio arrivando terzo. A Motegi ottiene la terza pole stagionale, ma in gara cade e si ritira per la quarta volta in stagione. A Phillip Island con una rimonta (era partito 15º) giunge sul podio arrivando secondo. A Sepang arriva ancora secondo, questa volta alle spalle di Andrea Dovizioso ma davanti a Jorge Lorenzo. Grazie a questo piazzamento, conquista con una gara d'anticipo la seconda posizione in classifica generale proprio ai danni del compagno spagnolo. A Valencia, nell'ultima gara della stagione, giunge quarto al traguardo, concludendo la stagione con 249 punti.
Nel primo Gran Premio della stagione 2017, in Qatar, giunge sul podio arrivando terzo (partendo 10º). Raggiunge il podio anche nella seconda gara in Argentina arrivando 2º alle spalle di Maverick Viñales, occasione in cui peraltro festeggia i suoi 350 GP in carriera nel Motomondiale. Arriva 2º al traguardo anche ad Austin, in Texas, risultato che gli consente di tornare in testa al mondiale (non accadeva dal Gp della Malesia 2015). Nella quarta gara, a Jerez, nonostante arrivi 10º al traguardo, riesce a conservare la leadership iridata. In Francia, a Le Mans, cade all'ultimo giro dopo essere stato anche in prima posizione; con questo risultato perde la leadership iridata e scivola in terza posizione. Non riesce a riscattarsi al Mugello, giungendo 4º al traguardo. In Catalogna arriva 8º dopo una gara anonima. Si riscatta e torna a vincere una gara ad Assen (davanti a Danilo Petrucci), a circa un anno di distanza dall'ultima volta, conquistando la sua 115ª vittoria nel motomondiale (a quasi 21 anni dal primo successo). Vincendo un GP a 38 anni e 129 giorni, Valentino è diventato anche il più anziano nella storia della MotoGP, scavalcando Troy Bayliss che vinse il GP di Valencia 2006 a 37 anni e 213 giorni. Inoltre è diventato il più anziano vincitore italiano nella "classe regina", scalzando Nello Pagani che conquistò il GP delle Nazioni 1949 della 500 a 37 anni e 328 giorni. Nella classifica assoluta della 500/MotoGP il pesarese è ora 7º dietro al cecoslovacco František Šťastný, che trionfò al GP di Germania Est 1966 della 500 a 38 anni e 247 giorni, mentre il primo in graduatoria è Fergus Anderson, che vinse il GP di Spagna 1953 a 44 anni e 237 giorni. In Germania, al Sachsenring, giunge 5º al traguardo. Invece a Brno, in Repubblica Ceca, arriva 4º dopo una rimonta. Non riesce ad andare sul podio nemmeno in Austria, giungendo 7º al traguardo. A Silverstone, dove festeggia i 300 GP nella classe regina, torna sul podio arrivando 3º al traguardo. Non partecipa al GP di San Marino a Misano, a causa di un infortunio rimediato durante un allenamento. A 24 giorni di distanza dal suo infortunio torna a gareggiare in Aragona, concludendo la gara al 5º posto. A Motegi, in Giappone, conclude in anticipo la sua gara cadendo al sesto giro. Si riscatta e torna sul podio in Australia, dove arriva secondo al traguardo. Nella penultima gara del Mondiale, a Sepang, in Malesia, finisce la gara al 7º posto. A Valencia, nell'ultima gara della stagione, arriva quinto al traguardo, concludendo il campionato al quinto posto con 208 punti.
Nel Gran Premio inaugurale della stagione 2018, in Qatar, sale sul terzo gradino del podio dopo essere partito ottavo sulla griglia. Nella seconda gara, in Argentina, arriva 19º dopo aver avuto un contatto con Marc Márquez (il quale viene successivamente penalizzato). In Texas giunge quarto al traguardo, mentre in Spagna, a Jerez, arriva quinto. Torna sul podio in Francia, a Le Mans, arrivando terzo. Arriva sul terzo gradino del podio anche al Mugello, dopo aver ottenuto la pole position nelle qualifiche, cosa che non accadeva dal Gran Premio del Giappone del 2016. Ottiene lo stesso risultato anche in Catalogna. Sul circuito di Assen, in Olanda, arriva quinto. In Germania, al Sachsenring, sale per la quinta volta in stagione sul podio, per la prima volta al secondo posto. Arriva quarto a Brno, in Repubblica Ceca, diventando il primo pilota a superare i 6000 punti in carriera nel motomondiale. In Austria chiude al sesto posto dopo una rimonta (era partito 14º). Il GP di Silverstone viene cancellato, in seguito a problemi causati dalla pioggia e dal drenaggio inadeguato dell'asfalto. Nel Gran Premio di San Marino, a Misano, arriva settimo. In Aragona, partito 17º, conclude ottavo. Nel GP della Thailandia arriva quarto. Arriva quarto anche a Motegi, in Giappone. In Australia conclude al sesto posto. A Sepang, in Malesia, cade a quattro giri dalla fine mentre era al comando della gara, concludendo 18º. Anche nell'ultima gara, a Valencia, cade a pochi giri dalla fine (mentre era secondo), arrivando 13º al traguardo, e concludendo il campionato al terzo posto con 198 punti, ma senza vittorie in stagione.
Rivalità. Nel corso della sua ventennale carriera motociclistica Rossi ha avuto modo di gareggiare con due diverse generazioni di piloti, circostanza che l'ha portato ad affrontare numerosi avversari e ad essere protagonista di varie rivalità, talvolta semplicemente sul piano sportivo, altre volte spintesi a livello personale.
Max Biaggi è stato il principale rivale in pista di Rossi: i due piloti italiani hanno dato vita per anni a un'accesa sfida sportiva e spesso umana, che ha catalizzato l'interesse di tifosi e media attorno al Motomondiale. Durante la prima parte della carriera, a cavallo degli anni 1990 e 2000, Valentino si è ritrovato spesso a dar battaglia in pista con i connazionali Loris Capirossi e Max Biaggi, formando un trio di piloti al tempo ai vertici della disciplina: «i tre moschettieri», come li soprannominerà la stampa nazionale,[99] daranno vita a una rivalità che culmina nella stagione 2001, quando il trio monopolizza i primi tre posti della Classe 500, e con Rossi a cogliere il suo primo titolo nella classe regina.[100] Tuttavia, mentre la rivalità con Capirossi si mantiene sempre sul piano della correttezza in gara e della cordialità fuori dai circuiti, quella con Biaggi – l'altro principale pilota italiano dell'epoca – deflagra immediatamente in un acceso dualismo dentro e fuori la pista, finendo per anni al centro dell'attenzione degli appassionati e della stampa specializzata internazionale (che la definisce presto uno «spaghetti duel»), contribuendo non poco a tener viva la popolarità del Motomondiale a cavallo di II e III millennio. La rivalità Biaggi-Rossi – la più importante delle rispettive carriere – è caratterizzata nei primi anni da grande acredine nonché forti scontri, sia verbali attraverso la stampa, sia fisici durante lo svolgimento delle gare, con comportamenti anche piuttosto duri da parte dei due piloti. Un dualismo nato alla vigilia della stagione 1998, in cui la scintilla viene fatta ricondurre a una frase proferita dal pilota romano a Suzuka – «prima di parlare con me, sciacquati la bocca» – e indirizzata al pesarese il quale aveva appena ereditato l'Aprilia 250 guidata negli anni precedenti dal connazionale, e che raggiunge l'apice a Barcellona nel 2001, al termine della gara della Classe 500, quando i due piloti vengono alle mani (coinvolgendo membri dei rispettivi entourage nonché addetti del circuito) nei momenti precedenti la cerimonia del podio; in precedenza, sempre in quel 2001, in Giappone era avvenuto uno degli episodi più famosi nella querelle tra Biaggi e Rossi, quando nel corso della gara dapprima il romano aveva superato il rivale allargando scorrettamente e vistosamente il braccio, facendo rischiare al pesarese una caduta agli oltre 200 all'ora, e pochi giri dopo lo stesso Rossi aveva restituito a Biaggi il sorpasso mostrandogli nell'occasione, in diretta televisiva, il dito medio. Da qui in avanti, pur continuando a esistere, i dissidi tra i due si affievoliscono sempre più in una sorta di «tregua armata»,[105] anche in coincidenza con l'entrata di Biaggi, di otto anni più anziano, nel tramonto della carriera (nonché con il passaggio di questo ultimo nel Mondiale Superbike); dopo il ritiro agonistico del pilota romano, addirittura, entrambi gli ex duellanti si sono lasciati alle spalle gli attriti del passato rendendosi protagonisti di una certa distensione nei rispettivi confronti.
Nei primi anni 2000 emerge poi il fugace dualismo con Sete Gibernau, con il quale l'italiano si contende i primi mondiali della neonata Classe MotoGP. Una rivalità nata quasi per caso, tanto che inizialmente i due paiono, se non «amici», comunque in buoni rapporti; questo sin quando lo spagnolo, con le sue sempre più frequenti vittorie nel corso della stagione 2004, comincia a insidiare la leadership di Rossi fino ad arrivare alle qualifiche del Gran Premio del Qatar, con i due in piena lotta per il titolo, quando una «spiata» dello spagnolo alla direzione gara costringe il pesarese a retrocedere all'ultima fila della griglia, dopo che il clan di questi aveva in precedenza cercato di "gommare" la piazzola di partenza di Rossi dopo una scialba qualifica. Il breve scontro tra i due si chiuderà di fatto all'ultima curva del Gran Premio di Spagna del 2005, gara inaugurale della stagione, in cui Rossi conquista la vittoria grazie a una controversa «spallata» che gli vale il sorpasso sullo spagnolo: l'episodio finisce per essere fatale più a livello psicologico che non fisico a Gibernau, il quale da lì in avanti non vince più una gara né riesce a rimanere ai vertici della categoria, chiudendo così un dualismo sportivo mai davvero radicato.
Più accesa è invece la contrapposizione tra Rossi e Casey Stoner nella parte centrale del decennio, arrivata a un punto di non ritorno in occasione della gara di Laguna Seca del 2008, anche stavolta per via di un sorpasso del pesarese ai limiti del regolamento, sfruttando la parte esterna della pista (una furbizia che sarà in seguito vietata dai regolamenti): già critico in passato nei confronti delle condotte di gara del rivale, da qui in avanti l'australiano aumenterà ancor più lo scontro mediatico con l'italiano, che prosegue anche dopo il suo ritiro dalle corse.
A cavallo degli anni 2000 e 2010 il principale rivale in pista di Rossi diventa per la prima volta un compagno di scuderia, Jorge Lorenzo. All'inizio della loro coabitazione nel team Yamaha, nel 2008, i due piloti non nascondono una reciproca insofferenza – acuita dal ritrovarsi spesso, negli anni seguenti, in lotta spalla a spalla per il titolo mondiale –: una situazione che porterà i vertici di Iwata alla decisione di «alzare un muro di separazione nel box», come se l'italiano e lo spagnolo corressero per due case concorrenti. In pista il dualismo si mantiene invece sui binari di una sostanziale correttezza, come l'anno seguente a Barcellona quando il pesarese, all'ultima staccata, con un'entrata al limite compie ai danni del maiorchino un «sorpasso considerato impossibile», rimasto negli annali della disciplina. Nel triennio 2010-2012, dapprima per l'infortunio in cui incappa il pesarese, e poi per il suo passaggio a una poco competitiva Ducati, questo dualismo va a scemare. Con il ritorno di Rossi in Yamaha nel 2013 i rapporti personali tra i due vanno a migliorare, mostrandosi più avvezzi a una collaborazione all'interno dello stesso box, seppur continuano a non mancare scaramucce in pista come nel convulso epilogo della stagione 2015.
Ultima, e per certi versi più imprevedibile, è la rivalità sorta a metà degli anni 2010 con Marc Márquez. Lo spagnolo, di quattordici anni più giovane rispetto a Rossi, durante l'infanzia aveva proprio nell'italiano il suo mito sportivo: una volta approdato nel Motomondiale, il giovane pilota catalano era stato subito preso in simpatia dal plurititolato Rossi, tanto che nei primi tempi i due non nascondevano la stima reciproca e più volte il pesarese aveva trovato modo di definire Márquez come il suo «erede» in pista. Come già accaduto anni addietro con Gibernau, i rapporti tra l'italiano e lo spagnolo sono andati a guastarsi una volta che i due si sono ritrovati a duellare alla pari, con un conseguente crescendo di scontri sui circuiti nonché verbali, via via sempre più aspri.[105] Una situazione degenerata nel Gran Premio della Malesia del 2015, quando un aggressivo corpo a corpo fra i due si è risolto nella caduta di Márquez: ritenuto colpevole dalla direzione gara, Rossi si è visto così retrocesso all'ultimo posto della griglia per la successiva e ultima gara del campionato a Valencia, vedendo svanire le sue possibilità di conquistare un titolo mondiale andato all'altro rivale Lorenzo; Rossi accuserà poi Márquez di non aver mai provato a sorpassare Lorenzo nell'ultimo appuntamento stagionale, favorendo così volutamente la vittoria del titolo da parte del connazionale. Un altro screzio tra i due avverrà nel Gran Premio d'Argentina 2018, in cui Márquez, con una manovra azzardata, farà cadere il pesarese.
Dirigente. Già durante la parte finale della sua carriera agonistica, Rossi amplia il suo raggio d'azione nel motociclismo intraprendendo l'attività dirigenziale. Dal 2014 è fondatore e proprietario dello SKY Racing Team VR46, nato in partnership con Sky, che si divide tra una squadra ufficiale nel Motomondiale — dalla stagione 2014 in Moto3, cui si affianca dalla stagione 2017 l'impegno in Moto2 —, e un junior team presente nel Campionato Italiano Velocità e, in passato, nel Campeonato de España de Velocidad. In questa veste, Rossi può vantare la vittoria del titolo mondiale Moto2 nella stagione 2018 grazie al suo pilota Francesco Bagnaia. Legata allo SKY Racing Team VR46 è anche la VR46 Riders Academy, progetto nato anch'esso nel 2014 con l'obiettivo di formare nuovi piloti. Da questa scuola motociclistica sono usciti vari piloti arrivati nelle tre classi del Motomondiale: su tutti il succitato Bagnaia e Franco Morbidelli, quest'ultimo iridato Moto2 nella stagione 2017, oltre al fratello di Rossi, Luca Marini, insieme a Niccolò Antonelli, Lorenzo Baldassarri, Marco Bezzecchi, Nicolò Bulega, Dennis Foggia, Andrea Migno e Celestino Vietti.
Rally e Formula 1. Appassionato di automobilismo, Rossi ha gareggiato in una prova del World Rally Championship nel 2002, a bordo di una Peugeot 206 WRC, in occasione del RAC Rally in Gran Bretagna, senza però terminare la gara a causa di un'uscita di pista dopo poche curve. Al secondo tentativo di partecipazione a una tappa del mondiale rally, nel 2006, è giunto 11º in Nuova Zelanda a bordo di una Subaru Impreza WRC. Nel dicembre del 2008 ha preso parte all'ultima prova del campionato mondiale, ancora il RAC Rally, riuscendo a concludere la gara 12º su di una Ford Focus RS WRC. Partecipa regolarmente al Monza Rally Show, di cui ha vinto le edizioni del 2006, 2007 (su Focus RS WRC), 2012, 2015, 2016, 2017 e 2018 (su Ford Fiesta RS WRC); ha inoltre ottenuto quattro secondi posti nel 2008 (tanto nel rally quanto nel Master Show, alle spalle rispettivamente di Dindo Capello e di Piero Longhi), nel 2011 (nel Master Show, battuto da Sébastien Loeb), nel 2013 (dietro a Daniel Sordo) e nel 2014 (dietro a Robert Kubica) – seppur i risultati conseguiti da Rossi sull'asfalto brianzolo, in una manifestazione più attenta allo spettacolo che non all'agonismo, sono stati generalmente ridimensionati da vari rallisti. Ha inoltre preso parte al Memorial Bettega del Motor Show di Bologna. Inoltre, a lungo negli anni 2000 si è parlato della possibilità di un suo passaggio in Formula 1 nelle file della Scuderia Ferrari, con la quale ha effettuato diversi test sulle piste di Fiorano e del Mugello: Michael Schumacher lo elogiò, dicendo che avrebbe potuto fare tranquillamente il pilota di F1; Rossi nel 2006 sfidò inoltre Fernando Alonso in una gara a somma di tempi in MotoGP, F1 e Rally, sul circuito di Barcellona (l'unico al mondo dove si svolgono tutte e tre le gare), dopo che il pilota spagnolo aveva minimizzato i risultati del pesarese ottenuti nella sessione di prove sulla Ferrari a Valencia.
Controversie. Il 3 agosto 2007 l'Ufficio di Pesaro dell'Agenzia delle entrate ha contestato a Rossi compensi non dichiarati per 58.950.311 euro, relativi al periodo 2000-2004; considerando IRPEF, IRAP e IVA, l'evasione fiscale sarebbe pari a 43,7 milioni di euro. Il fisco chiedeva anche il pagamento delle sanzioni e degli interessi, per un totale complessivo di 112 milioni di euro. Secondo l'agenzia, per i cinque anni in questione, il pilota aveva presentato una dichiarazione IRPEF con un reddito inferiore a quello reale; lo stesso dicasi per l'IRAP e l'IVA del 2000, mentre per il quadriennio 2001-2004 non aveva presentato alcuna dichiarazione circa queste ultime due imposte. Rossi si è difeso affermando di essersi affidato per la propria gestione fiscale a dei professionisti, che gli avevano assicurato di aver rispettato la legge avendo pagato tutte le imposte dovute nel Regno Unito, dove all'epoca risultava residente; secondo le indagini del fisco italiano, al contrario, il cosiddetto «centro degli interessi» di Rossi era in realtà ancora in Italia. Nel febbraio del 2008 il pilota ha raggiunto un accordo con l'agenzia delle entrate patteggiando il pagamento di 19 milioni di euro per il periodo 2000-2004, e 16 per il periodo 2005-2006: 30 milioni legati ai guadagni del periodo e 4,8 legati alla mancata dichiarazione. Per eliminare le pendenze nei confronti della magistratura circa il reato di omessa e parziale dichiarazione dei redditi, nel maggio del 2009 Rossi ha chiesto alla Procura pesarese un patteggiamento a sei mesi di reclusione: in virtù della sospensione condizionale, l'illecito si è poi estinto e, quindi, non ha più avuto luogo l'esecuzione della pena e la condanna non è stata menzionata nel casellario giudiziale.
Rossi nella cultura di massa. Il 46, numero sempre usato da Valentino Rossi in carriera (e in precedenza dal padre Graziano), il quale contraddistingue anche varie sue attività extrasportive Rossi gode di grande popolarità tra gli appassionati di motociclismo e tra i giornalisti per il suo carattere estroverso. Famose sono le sue trovate per festeggiare le vittorie assieme ai membri del fan club, che lo accompagnano nelle gare del mondiale (un gruppetto di amici "storici", ai quali Rossi stesso paga metà del costo della trasferta per seguirlo). Nel 2002 ha ricevuto delle minacce da un movimento anarchico italo-spagnolo (che in quei giorni aveva inviato pacchi bomba contro importanti obiettivi iberici tra i due paesi) perché "reo" di avere stampato, su moto e tuta, il nome dell'azienda petrolifera Repsol (per la quale aveva girato uno spot in Spagna). Il 31 maggio 2005 ha ricevuto una laurea magistrale honoris causa in Comunicazione e Pubblicità per le Organizzazioni. CPO dall'Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo". Alla fine dello stesso anno la Arnoldo Mondadori Editore ha pubblicato Pensa se non ci avessi provato, autobiografia del pilota, scritta con il giornalista Enrico Borghi. È stato protagonista di due fumetti a lui dedicati: Quarantasei, realizzato da Milo Manara, e Fast 46, disegnato da Astrò; dall'opera di Manara è stato inoltre tratto un omonimo film d'animazione, uno speciale video-fumetto in cui Rossi presta la voce al suo alter ego d'inchiostro. Sia nel 2008 sia nel 2009, la squadra calcistica dell'Inter, di cui è noto tifoso, si è complimentata per le sue vittorie iridate attraverso il proprio sito web. Nel marzo del 2010, il Ministro degli Affari Esteri italiano Franco Frattini ha consegnato a Valentino Rossi il primo Winning Italy Award per il suo contributo alla valorizzazione dell'immagine dell'Italia nel mondo. Tra il 2010 e il 2011 il regista Mark Neale dirige il film documentario Fastest - Il più veloce, dedicato alla MotoGp e in particolare al nove volte campione del mondo Valentino Rossi, con la voce narrante dell'attore Ewan McGregor. Nel videogioco Grand Theft Auto: San Andreas è presente un omaggio a Valentino Rossi: infatti, trovando la moto NRG-500, è presente il numero 46, usato dal pilota nelle gare ufficiali. Nel 2015 esce un film documentario dedicato alla MotoGP, intitolato Fino all'ultima staccata, diretto nuovamente da Mark Neale e narrato nonché prodotto da Brad Pitt. La pellicola racconta la vita, dentro e fuori la pista, di sei tra i motociclisti più veloci di tutti i tempi, tra i quali Valentino Rossi. Il videogioco Valentino Rossi: The Game, uscito nel 2016, è un omaggio ai vent'anni di carriera di Rossi.
Valentino Rossi, oggi 40 anni. Mito anche se non vince. Un eroe popolare come i personaggi di De Amicis, roba da libro "'Cuore", scrive Franco Bertini il 16 febbraio 2019 su Il Resto del Carlino. «Non sempre il tempo la gioventà cancella, non lo sfioran né lacrime né affanni, Valentino ha quarant’anni e più lo guardi e più ti sembra bello». Magari anche bravo. Non è un caso che per celebrare il compleanno – anzi il genetliaco come si conviene ai personaggi illustri – di Valentino Rossi si possa fare impunemente riferimento ad una poesia di Edmondo De Amicis, sì proprio lui, quello del libro “Cuore”, quello degli eroi della infanzia di tutti noi, quelli che ti prendono cuore e anima, quelli che “gli eroi son tutti giovani e belli”. E d’altronde a chi paragonare uno come Valentino Rossi se non ad un eroe del “Cuore”, visto che ormai, come loro, fa parte del nostro immaginario collettivo al di là del fatto che guidi e vinca o anche no? Chi è il Valentino Rossi del libro “Cuore”?. Non certo Bottini, ligio e mediocre, bravo ma ipocrita. Ovviamente manco Garrone, onestamente “lungo grosso buono e coglione”. Il malvagio Franti? Troppo cattivo, anche se è già uno che rompeva le regole e i luoghi comuni troppo retorici. Allora Stardi? No, era uno che si impegnava tanto, ma talento niente. Adesso sentite invece come viene presentato quest’altro personaggio: «E’ il primo della classe e anche della scuola. È molto intelligente, pare non faccia fatica a sapere tante cose. È descritto come un bel ragazzo, biondo con i riccioli; sempre educato e disponibile, socievole con i compagni anche con quelli di estrazione sociale più bassa, vestito tutto d’azzurro con dei bottoni dorati». Basta un piccolo sforzo di adattamento ed ecco che qui ci siamo in pieno, anche perché – a riprova che quando uno è nato per queste cose tutto alla fine si ricongiunge e sta in piedi – sapete come si chiama questo ganzo? Non poteva essere diversamente, il suo cognome è Derossi, il suo nome Ernesto, ma passano gli anni e oggi lui è diventato Rossi di cognome e Valentino di nome. Non ha forse dello straordinario che il personaggio più positivo e figo di uno dei libri più amati della letteratura italiana si chiami Derossi, praticamente Rossi, e non per esempio, Biaggi? Solo con un’ascendenza del genere si può tentare di capire come il compleanno di un pilota, per quanto assolutamente eccezionale, possa essere entrato così profondamente nella quotidianità di tutti, intendo praticamente di ogni parte del mondo, tanto che se oggi, 16 febbraio, fosse dichiarato “Valentino Day”in pochi ci troverebbero qualcosa da ridire. Di misteri insoluti in giro ce ne sono tanti, uno di questi è quale sia il meccanismo per il quale un grande pilota di moto, figlio emerito di un pilota di moto, campione del mondo per nove volte, a un certo punto si trasformi in una specie di messaggero inconsapevole che riscatta il grigiore dei giorni diventando un modo di dire, un’immortalità provvisoria che accomuna grandi e piccini. Dove sta l’incredibile? Che tutto questo continua ad avvenire anche se non vince. Tanti auguri a lei, signor Valentino Rossi Derossi, di tutto “Cuore”.
Valentino Rossi. Tavullia, il Ranch e l'Academy. A Tavullia è nato e cresciuto mettendoci profonde radici. A un certo punto della sua vita ha provato a cambiarla con Londra: solo un breve "colpo di testa", scrive Franco Bertini il 16 febbraio 2019 su Il Resto del Carlino. A Tavullia Valentino Rossi ci è beatamente nato, e cresciuto mettendoci profonde radici. Così profonde che a un certo punto della sua vita ha provato a cambiarla con Londra ma si è trattato solo di un colpo di testa, smaltito il quale è poi tornato in quel bel paese in cima alla collina, che pare ormai un antico principato col castello del signore in alto e sotto il mare di Vallugola dove lo yacht ormeggiato lo aspetta per qualche giretto in mare. A Tavullia Valentino ha casa, ha madre e padre e adesso ha anche il Ranch, la pista sterrata che è la realizzazione moderna dell'antica “Cava” dove da ragazzo andava a derapare col padre e gli amici. Il “Ranch”, mille e ottocento metri di pista da cross con annessi parcheggi e che serve da allenamento "per sentire la moto" e anche per divertirsi in “speed way” con gli amici piloti, è ormai una istituzione mondiale, sede ufficiale anche della Riders Academy, l'università privata dei motori dove vengono scovati, allenati, allevati i migliori talenti del motorismo italiano. Che da qui confluiscono nello Sky Racing Team VR46. La squadra di motociclismo - che gareggia nel motomondiale e nel campionato de Espana de Velocidad -, è nata nel 2014 dall'unione di intenti tra Sky e la VR46 di Valentino e annovera come portabandiera il fratello Luca Marini. Talenti che per quanto eccellenti sono ancora ben lontani dalle vette vincenti del grande capo che allo scoccare dei suoi quarant'anni può guardarsi indietro a rimirare una carriera strepitosa aperta ufficialmente con la prima vittoria del 1996 a Brno in sella all'Aprilia 125 che gli aprì la strada al primo mondiale del 1997, seguita dalla prima vittoria in 250 nel 1998 ad Assen, dove vent'anni prima aveva vinto suo padre Graziano anche lui pilota, e che lo portò al secondo mondiale in 250 nel 1999. Poi il salto in 550 Honda con la prima indimenticabile vittoria del 2000 sul circuito inglese di Donington Park, anticamera dei mondiali vinti in 500 e poi MotoGp nel 2001, 2002, 2003 con la Honda, nel 2004 e 2005 con la Yamaha, bissati nel 2008 e 2009. Picco indimenticabile dei suo oltre cento trionfi la gara d'apertura del 2004 in Sud Africa, l'anno del passaggio inaspettato dalla Honda alla Yamaha: vinse battendo il nemico Max Biaggi il quale aveva spesso insinuato che a vincere era la Honda più che Valentino. Nel reparto sfortuna spicca senz'altro la gara di chiusura del 2006: Valentino in testa alla classifica è dato per vincitore certo, ma scivola banalmente a terra e regala il titolo al suo amico Hayden scomparso qualche tempo fa travolto da un'auto mentre si allenava in bicicletta.
Valentino Rossi, tutti gli amori del Dottore. Dalla bella Francesca Sofia al flirt con Elisabetta Canalis, scrive Monica Generali il 16 febbraio 2019 su Il Resto del Carlino. Quarant’anni intensi, fatti anche di bellissime storie d’amore. Valentino Rossi, esplosivo sulle due ruote quanto riservato nella vita privata, ha sempre vissuto le sue relazioni con garbo, senza fare scalpore. Da circa un anno al suo fianco c’è la bellissima Francesca Sofia Novello, modella 25enne di Arese. Occhi verdi e lunghissimi capelli neri, da molti è soprannominata la Brooke Shields italiana, per la forte somiglianza con l’attrice statunitense. Francesca oltre ad essere una sensuale indossatrice di intimo è anche una ragazza sportiva, che ama la neve e lo snowboard. Il loro amore è nato poco più di un anno fa, e si è consolidato con il tempo tra feste passate a Tavullia e baci appassionati nei box del Mugello. Prima di lei, ad ipnotizzare il Dottore è stata Linda Morselli. Trent’anni, anche lei modella di intimo, è stata eletta Miss Lombardia nel 2006. A far scoccare la scintilla, una dichiarazione rilasciata dalla ragazza ad un giornale sportivo: “Il mio campione preferito? Valentino”. Poi la telefonata di lui per ringraziarla. Da quel momento non si sono più staccati per quattro anni, dal 2012 al 2016. Affascinata dal mondo della velocità, da qualche anno Linda è fidanzata con il campione di Formula 1 Fernando Alonso. Tra gli amori di Valentino, anche quello con la bella e dolce Marwa Klebi. Una relazione che molti definiscono non-vip vista l’estraneità della ragazza al mondo dello spettacolo, un amore puro durato dal 2009 al 2012, poi un ritorno di fiamma nel 2016 dopo la fine della storia con la Morselli. Tra le ex anche Florinda Giamé, napoletana, immortalata in una foto mentre baciava il Dottore. Poi la bolognese Aura Rolenzetti, legata al pesarese quando aveva solo 16 anni, modella diventata famosa al grande pubblico dopo la partecipazione di un reality nel 2010. Ancora un passo indietro in questo viaggio nel tempo tra gli amori di Valentino. Duemilacinque, lei si chiama Arianna Matteuzzi. Bellezza acqua e sapone, con una simpatia e una grinta da vendere. Per tre anni è stata al fianco del pesarese facendo anche impazzire il gossip per un “pancino” sospetto paparazzato e finito sui settimanali rosa. Infine lei, Martina Stella. L’attrice toscana, oggi mamma della piccola Ginevra e sposata con il procuratore calcistico Andrea Manfredonia, è stata la prima relazione vip di Valentino. I due sono stati insieme per qualche mese, prima che lei si fidanzasse con Lapo Elkann. Diversi anche i flirt che gli sono stati attributi: dalle ex veline Elisabetta Canalis e Maddalena Corvaglia a Fernanda Lessa.
MOTOGP 2015, VALENCIA 8 NOVEMBRE- ROSSI: "BISCOTTONE, MARQUEZ VERGOGNOSO" di Francesco Irace su “Panorama”. È un Valentino Rossi senza peli sulla lingua quello che si presenta ai microfoni di Sky Sport al termine della gara. Non gli si può rimproverare nulla, se non qualche dichiarazione e comportamento di qualche settimana fa. Valentino Rossi ha dato il massimo, ha dimostrato di essere ancora il gran campione che tutti conosciamo. Oggi ha fatto una rimonta straordinaria e si è presentato ai microfoni di Sky Sport senza peli sulla lingua.
“È stata una stagione molto bella, perché ci siamo costruiti questa possibilità di lottare per il mondiale dalla prima gara. Sono stato sempre competitivo e costante. Nella seconda parte di stagione Jorge è stato molto bravo. Però fino a quando le cose sono andate normalmente ero in testa e avevo una grande possibilità di vincere. Da Phillip Island in poi il comportamento di Marquez è stato davvero imbarazzante, bruttissimo per il nostro sport. Già da Phillip Island ha fatto il guardaspalle di Lorenzo. E da lì ho dovuto iniziare a lottare con due piloti. Sono contento che anche oggi tutti hanno visto il loro piano. Sinceramente mi rende molto triste e credo che il nostro sport abbia fatto una brutta figura. Non capisco il comportamento della Honda, che non vuol far vincere il suo pilota e nemmeno l’altro, perché oggi Pedrosa è stato ostacolato proprio da Marquez. Lorenzo è molto bravo, sarebbe stato bello giocarcelo alla pari. E credo che neanche lui possa essere molto contento. La MotoGP è diventata un po’ la corsa delle Nazioni. È solo che è triste che Marquez si riduca a fare il guardaspalle di Lorenzo. Jorge è quello che ha meno colpe e credo che lui mai avrebbe fatto quelle cose in pista. Però dopo quello che mi ha detto nei giorni scorsi merita di essere trattato come Marquez. È stato brutto. Hanno fatto il biscottone come fanno le squadre di calcio. Sono abbastanza triste, è stata una grande occasione sfumata. Non credo che lo meritavo. Sapevo già che questa gara sarebbe finita così. Il mondiale è finito quando mi hanno detto che sarei dovuto partire ultimo. Il grandissimo rimpianto è stato Phillip Island, perché lì lo avrei battuto Lorenzo, ero più veloce”.
MotoGp Valencia: la Honda non ci sta, "accuse Rossi inaccettabili", scrive "L'Ansa il 10 novembre 2015. Il giorno più lungo di Valentino Rossi è trascorso sul luogo del delitto. Domani e mercoledì la MotoGp ha in programma due giornate di test importanti a Valencia per continuare a prendere le misure con le Michelin che, dopo tanti anni di Bridgestone, dal 2016 saranno le nuove gomme. Così il 'Vale Nazionale' ha dovuto, suo malgrado, continuare a rimuginare sul "biscottone" spagnolo senza nemmeno potersi allontanare troppo dal circuito 'Ricardo Tormo' dove, per la seconda volta, si è visto sfuggire in titolo della classe regina. La compagnia della fidanzata Linda, presente anche domenica al circuito, lo ha aiutato ad elaborare l'accaduto per cercare di liberare un po' la mente dai brutti pensieri e cominciare a preparare la stagione 2016, che Rossi vuole vivere ancora da protagonista. Le motivazioni non gli mancheranno: "Voglio la rivincita". Intanto Rossi ha ricevuto il sostegno del presidente della Federmotociclismo, Paolo Sesti: "Era abbastanza evidente che fosse già tutto preordinato per far perdere il mondiale a Valentino. Ho parlato con lui sia prima che dopo la gara e ha ragione. Le colpe però vengono da lontano, da una carenza di gestione da parte dell'autorità sportiva e del promotore che hanno perdonato troppo a tanti". Ma la rabbia per la convinzione di essere rimasto vittima di una tresca spagnola - ordita tra Marc Marquez e Jorge Lorenzo - è dura da sbollire. Ecco perché Rossi non ha partecipato ieri sera al Gala organizzato dalla Federazione Internazionale per premiare i migliori piloti della stagione. Il pesarese è andato a cena con Linda ed un gruppetto di amici. Non aveva proprio voglia di assistere ai festeggiamenti altrui e si è fatto rappresentare dal direttore di Yamaha Racing, Massimo Meregalli, che ha ritirato al posto suo il premio riservato al vicecampione del mondo. La Honda non ci sta e respinge al mittente le accuse di Valentino Rossi a Marc Marquez di aver fatto il "biscottone" con Jorge Lorenzo nel Gp di Valencia. "Non è l'atmosfera in cui ci volevamo trovare alla fine di un campionato indimenticabile - ha fatto sapere in un comunicato Shuhei Nakamoto, vicepresidente esecutivo della Honda Racing Corporation - Capiamo che è stato un giorno difficile per Valentino, aver perso il campionato per soli cinque punti dopo averlo guidato per 17 gare può essere molto frustrante. D'altra parte non possiamo accettare le forti accuse che ha lanciato contro il nostro pilota e la Honda nelle scorse settimane e nella conferenza stampa postgara. Non ci sono prove che supportino queste accuse, come il fatto che a Phillip Island Marc ha tolto cinque punti al rivale di Valentino, Jorge (Lorenzo)". Ma le accuse di Valentino Rossi a Marc Marquez di aver coperto le spalle a Jorge Lorenzo e di aver fatto il "biscottone" con il connazionale pilota della Yamaha, hanno fatto breccia nei tifosi spagnoli. Secondo un sondaggio realizzato dal quotidiano sportivo As che chiedeva se Marquez avesse veramente aiutato il connazionale ai danni del Dottore, così come sostenuto da Valentino, il 51,2% ha risposto sì contro il 48,7% di no. "Valentino Rossi? Da 20 anni è lo sponsor più grande della MotoGp, adesso, come vendetta sportiva, l'ideale sarebbe ritirarsi e fare un'altra cosa, tipo per la SuperBike, perché il mondo della moto perde senza di lui del 50%. Solo questa decisione potrebbe essere il riscatto di quanto è successo". Questo è il giudizio di Marcello Lippi, ex ct della nazionale di calcio. Finisce tra i veleni il Mondiale di Motogp. Jorge Lorenzo ha vinto il titolo chiudendo primo il GP di Valencia "scortato" dalle Honda di Marquez e Pedrosa. Valentino Rossi, partito per ultimo e arrivato quarto, parla di "biscotto spagnolo"' e "pagina bruttissima" per lo sport. Nella classifica finale Lorenzo chiude a +5 punti su Rossi. Secondo posto per la Honda di Marc Marquez davanti al compagno di squadra Dani Pedrosa. Per Rossi una sconfitta tra gli applausi. Rossi "Marquez ha fatto il guardaspalle di Lorenzo. L'avevo già detto giovedì, ero convinto che sarebbero andati fino in fondo, ero sicuro che avrebbero fatto il biscottone, come succede nel calcio". Lo ha detto Valentino Rossi commentando l'esito della MotoGp a Valencia. "Sono triste, una grande occasione è sfumata e non me lo meritavo". ''Da Gp Australia è successo qualcosa di strano, il comportamento di Marquez è stato veramente imbarazzante, ha cominciato a fare il guardaspalle di Lorenzo''. Così Valentino Rossi. ''E' stato bruttissimo, da Philip Island tutto è cambiato e tutti anche oggi hanno visto, il nostro sport ha fatto una figura bruttissima. E non capisco le Honda''. "Marquez e Pedrosa avevano capito che mi giocavo moltissimo, magari in un altro tipo di gara potevano rischiare di più e sorpassarmi. Invece sono stati molto bravi perché il titolo rimanesse in Spagna". Lo ha detto Jorge Lorenzo, neo iridato della MotoGp, parlando a SkySport al termine del Gp di Valencia. "La verità - ha aggiunto Lorenzo - è che ho fatto una gara in cui ho dato il massimo e le Honda andavano molto bene, era difficile mantenere la concentrazione e stargli davanti. Loro sono spagnoli come me e sapevano quello che mi giocavo. Magari senza quel piccolo aiuto Valentino, che ha fatto una grande gara rimontando dall'ultimo al quarto posto, poteva vincere il Mondiale. Allora questo titolo è mio, è nostro, ma anche della Spagna. Un abbraccio con Juan Carlos suggella il trionfo a Valencia di Jorge Lorenzo prima di salire sul podio insieme con i connazionali Marquez e Pedrosa. "E' stata una gara davvero difficile, avevo tanta pressione addosso - ha detto il maiorchino - E' bellissimo essere 5 volte campione del mondo. Sono fiero per il mio Paese". Fischi per Jorge Lorenzo sul podio del Gp di Valencia. Sono stati rivolti dal pubblico sotto il palco, tra i quali molti sostenitori di Valentino Rossi, quando il maiorchino neocampione del mondo è comparso dalle scale. Un paio di bordate, nulla più, presto soffocate dal silenzio rispettoso per l'esecuzione degli inni nazionali e quindi seguite dagli applausi per il terzetto spagnolo che ha dominato la gara, Lorenzo-Marquez-Pedrosa, lasciando un inutile quarto posto a Valentino Rossi.
MotoGp a Valencia, gli spagnoli contestano: fischi a Jorge Lorenzo, insulti a Marc Marquez. Un "Motomondiale di cartone", scrive "Libero Quotidiano l'8 novembre 2015. Vince Jorge Lorenzo in casa ma a Valencia il pilota Yamaha guadagna timidi applausi e qualche fischio. Peggio va a Marc Marquez, connazionale e "scudiero" che non l'ha mai attaccato davvero preoccupandosi da qualche gara a questa parte più di tenere dietro Valentino Rossi che di fare la propria gara. È andata così anche a Valencia, con 30 giri da secondo quasi a freno pigiato che alla fine hanno fatto imbestialire i tifosi spagnoli. Come riferisce l'inviato di Libero da Valencia Fabrizio Biasin, infatti, sulla testa di Marquez sono piovuti insulti veri e propri e fischi sonori. Applausi solo per Dani Pedrosa, autore di una grande gara in crescendo (anche per lui, però, il sospetto di non voler davvero vincere per non far rischiare la beffa a Lorenzo).
MotoGp, Guido Meda: "Un pilota Honda che corre per la Yamaha è inedito". Sin dal commento in diretta, senza peli sulla lingua, Guido Meda ha acceso i riflettori sullo "strano" atteggiamento in gara di Marc Marquez, scrive ancora "Libero Quotidiano". Insomma, la voce della MotoGp su Sky, non si è nascosta dietro al buonismo, e ha detto chiaro e tondo le cose come stavano: in pista, c'era qualcosa che non andava, che non quadrava. Il comportamento sospetto di Marquez si era già manifestato in Australia e in Malesia, e a Valencia ha chiuso il cerchio. Il risultato? Valentino Rossi ha perso il mondiale. Meda, dopo la gara, ha ribadito il suo pensiero su Facebook, con un post tranchant, che non lascia spazio ad ambiguità e che vi proponiamo integralmente.
Guido Meda Giornalista presso Sky Italia Seguito/a da 148.103 persone 8 novembre alle ore 21:07 "Ma non basta avere gli occhi per capire? Un pilota Honda che corre per Yamaha è inedito. E non vedo come possa esserci ancora margine per sostenere tesi che non stanno in piedi. È stato imbarazzante. Non capisco la non reazione di Honda e degli sponsor che presumo paghino per vincere. Marquez, l'uomo che sorpassa e vince a tutti i costi, l'uomo "al 100 per 100 per la Honda e per gli sponsor", l'uomo che in Malesia si attacca con Rossi 15 volte nei primi 5 giri...ecco, a Valencia fa un sorpasso solo, all'ultimo giro, aggressivo sul compagno di squadra Pedrosa. E poi? Qui va a finire che il complotto era quello ordito dai complottisti. Vorrei proprio sapere cosa dice stasera chi ha gridato tutto l'anno allo scandalo di Rossi in testa. Vorrei sapere se oggi hanno visto proprio un bel motociclismo. Se si sono accorti che negli ultimi giri Marquez doveva frenare e allargare la traiettoria per non montare su Lorenzo. Forse non vi avevo capito. Era così che lo volevate? Ah, ora capisco. E mi dispiace che al campione del mondo 2015 Jorge Lorenzo debba andare solo una riga di questa riflessione. E a Rossi, in testa al Mondiale fino a stamattina, nemmeno quella".
Fabrizio Biasin: "Marquez bimbominkia. Vi dico perché lo ricorderemo", scrive su "Libero Quotidiano" il 9 novembre 2015. Quando diventi "qualcuno" (a scuola, tra gli amici, al circolo del bridge, nel mondo dello sport) ti affibbiano il soprannome. Tomba? Per tutti era "la Bomba". Maradona? Il "Pibe de Oro". Valentino Rossi? "Il Dottore", ora e sempre. Marquez? Beh, facile, lui è "il Bimbominkia". Scritto così, con la "k" a stuprare qualunque regola del buon gusto. Badate bene, questo è un pezzo di parte, molto patriottico e probabilmente poco lucido ma, credete a noi, il fastidio che abbiamo provato ieri nei venti minuti che sono intercorsi tra la fine dell'impresa di Vale (da ultimo a quarto) e il completamento della lievitazione del "Pan di Spagna" infornato dalla coppia Lorenzo-Marquez, è lo stesso che ha provato la maggioranza degli stessi tifosi spagnoli presenti sugli spalti a Valencia. E così Lorenzo parte primo, arriva primo e dice «temevo di finire terzo e perdere il Mondiale, ma Marquez e Pedrosa si sono dimostrati rispettosi del fatto che il titolo dovesse restare in Spagna». E così Marquez parte secondo, arriva secondo e dice «è una mancanza di rispetto se qualcuno pensa che io abbia penalizzato Rossi. Sepang è una questione di punti di vista». E così Pedrosa parte terzo, arriva terzo ma col cazzo che si lascia tirar dentro dal «bla bla» di Lorenzo, ché lui in qualche modo ha provato a vincere la gara, solo che ha dovuto fare i conti con il tappo, il compagno di squadra che neanche per sbaglio ha provato a infastidire Lorenzo (e lo poteva fare, eccome se poteva), ma che invece si è attizzato come castagna sulla brace appena ha capito che Dani stava provando a sbriciolare il «biscottone» (Vale dixit) e lo ha ricacciato indietro con una mezza spallata. A motori spenti succede quello che ti aspetti, ma davvero non fino a questo punto: i 110mila presenti in parte sfollano a capo chino, in parte si ammassano sotto al podio con fare bellicoso. Gli italiani e tutti i fan del Dottore (molti, moltissimi spagnoli) partoriscono una sinfonia di cori («Ros-si! Ros-si!»), proseguono con raffiche di fischi assordanti, chiudono con «buuuuuu» per nulla razzisti ma molto ben indirizzati. Ce l'hanno con Marquez, il vigliacchetto da quattro pesetas; ce l'hanno anche con Lorenzo, neo campione del mondo che alza la coppa al cielo ma intimamente sa di aver vinto col trucco, di aver portato a casa non il terzo mondiale personale in MotoGp, ma il primo nella storia della "MotoGpSidecar". Parliamoci chiaro, Marquez non voleva aiutare Lorenzo e la Spagna tutta, semmai voleva impedire a Rossi di passare dallo status di leggenda a quello di Dio in terra. Nella sua testolina bimbeska (sì, con la k) è convinto di poter raggiungere Vale nell' Olimpo dei semidei. E allora pensa, furbo come una volpino "in attesa di tornare a lottare per il titolo, meglio impedire a quello là di diventare irraggiungibile". Non capisce, Marcolino, che con il comportamento dell' ultimo mese ha raggiunto tre succulenti obiettivi, nessuno dei quali utile a migliorargli la vita: 1) a fine carriera non sarà ricordato per essere quello che ha messo insieme "x" mondiali (il numero mettetelo voi, tanto a dieci non ci arriva), ma per aver guadagnato l' appellativo di pupo capriccioso (il Bimbominkia di cui sopra), di terzo incomodo nell' anno in cui non aveva niente da chiedere alla classifica perché troppe volte in precedenza aveva poggiato le chiappe sull' asfalto. 2) Si è portato le Iene in casa che non è mai una bella cosa se vuoi passare un'esistenza serena. 3) Con la ridicola melina di ieri ha dimostrato (se ce ne fosse ancora bisogno) che Vale non è un cantastorie, che l' allarme lanciato nel giovedì di Sepang non era la visione allucinata di un campione un po' bolso e con il fiato sul collo, ma il grido incazzato di uno a cui stavano apparecchiando una porcata e che ieri a giochi fatti si è tolto macigni dalla tuta ai microfoni di Sky: «Spero che a Marquez gli si rivolti tutto contro: piuttosto che far vincere il suo compagno ha lasciato strada a un' altra Yamaha. Lorenzo bravo, ma con il suo comportamento e quello che ha detto dopo la gara in Malesia si merita di essere trattato quasi alla stregua di Marquez. Magari erano d'accordo, non lo so, in ogni caso ho capito che avrebbero fatto il "biscottone". È un po' quello che fanno le squadre di calcio quando alla fine della stagione non devono andare in Serie B. È abbastanza triste, una grande occasione sfumata. Secondo me non me lo meritavo, ma ormai...». Poi se ne va con la consapevolezza di essere il campione morale, che è un po' come se Adriana Lima ti dicesse "aprimi come una mela" ma ti ritrovassi all' improvviso con una medievale cintura di castità al posto delle mutande. La chiave? Ben nascosta nella scatola dei biscotti di un ragazzino invidioso. Ci vediamo l'anno prossimo, perché potete contarci... non finisce qui.
MotoGp, Troy Bayliss durissimo: "Mafia spagnola" su "Libero Quotidiano del 9 novembre 2015. Italiani rosiconi? Il Belpaese che non sa accettare la sconfitta e parla di "biscottone"? Tutti ciecamente tifosi di Valentino Rossi e incapaci di ammettere che Jorge Lorenzo ha vinto il motomondiale con merito? No, non proprio. E non solo perché a parte i "pasdaran" del fronte spagnolo, tutti - ma proprio tutti - hanno visto cosa è successo (ancora) in pista a Valencia, con Marq Marquez che ha marchiato a fuoco la sua carriera facendo da scudiero a Lorenzo (ancora). Gli italiani non sono rosiconi. No, niente affatto. Il punto è che chi ama le moto - anzi, chi ama lo sport, tutto - non può accettare ciò che è successo in pista nelle ultime tra gare, con un pilota - Marquez - fuori dai giochi che ha corso solo ed esclusivamente per far perdere un altro pilota (riuscendoci, per altro. Con la complicità delle autorità maxime della MotoGp che hanno penalizzato il Dottore, costretto a partire ultimo a Valencia). E se chi ama le moto non può accettare la porcheria iberica, va da sé che un pilota come Troy Bayliss dica la sua. Senza peli sulla lingua.Tranchant. Anzi, durissimo. Per chi non lo sapesse, Bayliss è un pilota australiano che ha le carte in tavola per essere definito una mezza leggenda: tre volte campione del mondo in Superbike (2001, 2006 e 2008) ed emblema della Ducati. Certo, in MotoGp ha avuto meno fortuna. Ma Bayliss non è una fonte autorevole, è molto di più (oltre ad essere super-partes, dato che non risulta affatto essere un "rosicone italiano"). Ma cosa ha detto, Bayliss? Semplice: ha parlato di "mafia" spagnola. Già, proprio quell'etichetta mafiosa che tanto dà fastidio a noi italiani che, per contrappasso, viene applicata a Marquez, Lorenzo & Co. Il commento del pilota è piovuto su Twitter. Un'allusione che la dice lunga, lunghissima: "Anything worth watching on tele today? Maybe the #Godfather, part 18 #Mafia". Traduzione: "C'è qualcosa che vale la pena di guardare oggi in tv? Forse Il Padrino, parte 18". Ogni riferimento non è puramente casuale. Se avete dei dubbi, basta leggere il "parte 18": quella di Valencia, infatti, era la diciottesima e ultima gara della stagione. Il cinguettio, inoltre - se ancora vi servono indizi - è stato postato dopo la conclusione della vergognosa disputa valenciana.
Di seguito, il tweet di Troy Bayliss (che ha riscosso un enorme successo in termini di retweet e "mi piace").
aylisstic 21 @TroyBaylisstic "Anything worth watching on tele today?, maybe the #Godfather , part 18 #Mafia" 06:24 - 8 Nov 2015
Il campione che Vale 100 milioni. Senza Rossi la MotoGp perderebbe il 30%: ecco perché tutti hanno paura di un suo addio, scrive Benny Casadei Lucchi su "Il Giornale" Martedì 10/11/2015. Non c'è niente di più sbagliato che pensare a un complotto dei poteri forti spagnoli. Dobbiamo farcene una ragione: Jorge Lorenzo campione del mondo e tutto quanto andato in scena ai danni di Valentino Rossi nelle ultime due gare è semplicemente, crudemente, platealmente, un regolamento di conti. Però fra uomini. Fra sportivi. Fra non sportivi. Fra campioni. Mezzi campioni. Non campioni. Chiamateli come volete. La spagnola Dorna organizzatrice del motomondiale e di altre serie, padrona assoluta di questo sport, giro d'affari annuo solo di Motogp intorno ai 250 milioni di euro, è invece l'altra vittima. Perché mai ucciderebbe la propria gallina dalle uova d'oro; e perché vede invece bruscamente interrotto e messo a rischio un processo delicato a cui lavorava da tempo e volto unicamente a preparare un morbido addio di Vale. Morbido perché doveva, deve, dovrebbe tenerlo legato a questo mondo. Perché Vale è l'idolo di un popolo ma è un brand mondiale. Non è più un uomo. Come la Ferrari è la F1, Valentino è la moto. E come la Rossa ha vinto tanto, non vince sempre, ma ci deve essere. Le bandiere gialle che hanno dipinto per metà Valencia seguono quelle di Sepang, di Motegi, di vattelapesca. E fanno il paio con quelle rosse del Cavallino che ammantano le tribune di tutto il mondo. Ecco perché cruccio della Dorna era preparare bene il suo addio fissato per fine 2016. Così da non destabilizzare l'intero assetto economico di questo mondo. Perché quanto vale Vale? Stime al ribasso dicono che se lui domani se ne andasse sbattendo la porta, il giro d'affari crollerebbe di ben oltre il 30 per cento. In pratica è un uomo che con la propria presenza è capace di muovere 90-100 milioni l'anno. E infatti in pochi hanno fatto caso, ma prima ancora di congratularsi con Lorenzo campione, il capo della Dorna, lo spagnolo Carmelo Ezpeleta, è andato a farsi vedere da Valentino, quasi volesse dirgli con quel gesto «Vale non lasciarmi, adesso cercheremo di sistemare tutto». Per questo oggi Ezpeleta è disperato. Perché l'altra notte Valentino Rossi, il brand del motomondiale, non è andato alla serata di Galà del motomondo. Gesto fortissimo. E perché i grandi investitori del mondiale sono sul piede di guerra per i danni d'immagine causati da questo finale. E sono spagnoli: la Repsol (12 mln) ha tuonato ieri contro Rossi («rattristati dai suoi commenti sprezzanti, i campioni si vedono anche nella sconfitta») e la Movistar (5) ha cancellato feste. Ma di disperato non c'è solo Ezpeleta. Nel paddock di Valencia bastava sedersi a chiacchierare con gente dei team di Moto2 e Moto3 per capire quanto fosse serpeggiante la paura che per colpa di una lotta fra uomini di personalità e talenti ipertrofici andasse tutto a ramengo. «Noi viviamo di piccole sponsorizzazioni, marchi minori che investono piccole cifre ma per un unico scopo: poter avere i pass da dare ai propri fornitori o clienti per venire a vedere Valentino. Non le moto. Capite che senza di lui tutto crollerebbe». Quando nel 2010 Valentino si spaccò la gamba al Mugello e fu costretto a saltare tre gare, gli inserzionisti chiesero di rivedere al ribasso i contratti con le televisioni. Il brand Rossi è stato capace di far staccare in Malesia 6500 biglietti venduti direttamente dal fan club di Valentino. Matilde Tomagnini, una vita nel motomondiale, ex managing director del reparto corse Fiat, ricorda quando portò a termine la sponsorizzazione Fiat sulla Yamaha: «Sedici milioni per due anni e l'obiettivo di svecchiare il marchio grazie a lui. Ma senza Vale ce ne saremmo ben guardati d'investire... Rossi è esattamente come la Ferrari in F1». Forse di più. Leggenda vuole che chi governa il motomondo lo interpelli quando ha in mente cambi regolamentari o altre diavolerie. Non è leggenda, invece, che con la sua società VR46 curi il merchandising di molti piloti, compreso (e non si sa fino a quando) quello di Marquez e la vendita nei circuiti di bandiere e cappellini della maggioranza di piloti e marchi. Così come non è leggenda che tre quarti dei giovani piloti italiani siano sotto contratto o facciano riferimento sempre alla sua VR46. In pratica, i futuri talenti nostrani non li svezza la Federmoto italiana, ma Valentino. Nessun potere forte spagnolo dunque. Prova ne sia che lo spagnolo Ezpeleta della spagnola Dorna è stato convocato da Valentino italiano incazzato subito dopo la corsa. Segno che il brand Rossi conta, e molto, qui dentro. E se il biscottone, come lo chiama lui, se il complotto come lo chiamano in molti, se questo regolamento di conti ha incasinato tutto, è solo perché Valentino è troppo grande per chi gestisce questo carrozzone. E Marquez l'ha capito per primo.
"Rossi campione, Marquez perdente". I fans di Valentino Rossi hanno hackerato il sito di Wikipedia dopo la sconfitta del mondiale e il biscottone spagnolo, scrive "Libero Quotidiano" il 10 novembre 2015. La rabbia per il biscottone spagnolo di Jorge Lorenzo e Marc Marquez continua a montare. I tifosi di Valentino Rossi proprio non ci stanno così dopo la decisione scandalosa del Tas e dopo il Mondiale perduto hanno deciso di farsi giustizia a modo loro. I fan del Dottore hanno hackerato Wikipedia manomettendo i profili di Marquez, Lorenzo, della Moto Gp e di Max Biaggi. Una provocazione, uno scherzo, un'idea geniale che ha scatenato l'ilarità in rete. L'enciclopedia libera virtuale è stata “Aiutato in maniera decisiva nell’ultima gara da Marquez che tiene a bada i possibili vincitori e non insidia mai il 1° posto. Ma tanto gli bastava arrivare secondo minchione… favore del Dottore mettendo in evidenza il comportamento compiacente del pilota della Honda nei confronti del "rivale" spagnolo della Yamaha, che lo ha scortato fino al traguardo senza mai attaccarlo e vanificando la gloriosa rimonta di Vale partito dall'ultima posizione e arrivato quarto. Ma i burloni se la sono presa anche con Max Biaggi, eterno antagonista del pesarese, che ha festeggiato con tanto di abbraccio il titolo di Lorenzo. Ecco cosa si legge sulla pagina di Lorenzo: "Il rivale arriva 4° perché partito dall'ultima posizione per una penalità. La vittoria del mondiale però è accompagnata da fischi di quasi tutto il pubblico proprio per la gestione delle ultime gare, infatti il connazionale Marquez invece di rivaleggiare per vincere le gare rimanenti, fa da "scorta" a Lorenzo rivaleggiando con Valentino Rossi, il quale risulterà poi il vincitore morale di questo campionato di MotoGP falsato dai due piloti spagnoli, i quali verranno additati da quasi tutti i media (anche spagnoli) come anti sportivi (con successiva perdita di sponsor che li hanno scaricati per la loro condotta anti sportiva)". Inoltre nella sezione dedicata ai trofei si legge a proposito della gara di Valencia: "Aiutato in maniera decisiva nell’ultima gara da Marquez che tiene a bada i possibili vincitori e non insidia mai il 1° posto. Ma tanto gli bastava arrivare secondo minchione…" Sulla pagina di Max Biaggi invece troviamo: "È il più grande fan italiano di Jorge Lorenzo, memorabile la sua leccata di culo all'ultima gara del Motomondiale 2015 dove Lorenzo vince grazie a un biscottone insieme al suo compagno di merende Marc Márquez dove va a festeggiare proprio Lorenzo, simbolo della frustrazione dei mondiali non vinti contro Valentino Rossi".
MotoGp riscritto su Wikipedia. I supporter del Dottore hanno modificato alcune voci dell'enciclopedia online. Risulta così che Lorenzo ha vinto grazie alla "scorta" di Marquez, e che Biaggi è il "compagno di merende" del maiorchino, scrive Francesco Rigoni il 09 novembre 2015 su "L'Espresso". Ormai conoscono tutti il verdetto che ha dato la pista. Ieri sul tracciato di Valencia Jorge Lorenzo ha vinto il Motomondiale 2015 a discapito di Valentino Rossi, autore di una memorabile rimonta che però non è stata sufficiente a farlo entrare nella storia. Ma ai tempi di internet tutto è possibile: alcuni fan del Dottore hanno deciso di tramandare ai posteri l'impresa del loro beniamino. A tutti i costi. Al punto di modificare quella che è ormai la principale fonte di informazioni 2.0: l'enciclopedia online Wikipedia. Alcuni utenti, evidentemente fan del pilota di Tavullia, hanno modificato alcune pagine dell'enciclopedia mettendo in evidenza quello che anche da Rossi è stato definito “un biscottone”. Quelle modificate infatti non sono pagine casuali: in quella che espone l'albo d'oro del Mondiale per qualche minuto è comparso il nome del Dottore come “Campione del Mondo classe MotoGp 2015”, mentre Marc Marquez, vincitore delle ultime due edizioni della competizione, si è visto ribattezzato “Marquez perdente”. Ma non è finita. Nella pagina dedicata a Jorge Lorenzo si legge: “Il rivale arriva 4° perché partito dall’ultima posizione per una penalità. La vittoria del mondiale però è accompagnata da fischi di quasi tutto il pubblico proprio per la gestione delle ultime gare, infatti il connazionale Marquez invece di rivaleggiare per vincere le gare rimanenti, fa da “scorta” a Lorenzo rivaleggiando con Valentino Rossi, il quale risulterà poi il vincitore morale di questo campionato di MotoGP falsato dai due piloti spagnoli, i quali verranno additati da quasi tutti i media (anche spagnoli) come anti sportivi (con successiva perdita di sponsor che li hanno scaricati per la loro condotta anti sportiva)”. Sempre sulla stessa pagina, più sotto, è apparso un commento in realtà destinato a Marquez, che viene considerato il guardaspalle del numero 99, ruolo assolutamente non richiesto: “Aiutato in maniera decisiva nell’ultima gara da Marquez che tiene a bada i possibili vincitori e non insidia mai il 1° posto. Ma tanto gli bastava arrivare secondo minchione…”. Anche sulla sua pagina personale, Marc Maquez viene accusato di aver tenuto un comportamento "alquanto discutibile". Non viene risparmiato dall'hackeraggio nemmeno Max Biaggi, storico rivale di Rossi, che aggrava la sua posizione con la “colpa” di essere amico di Lorenzo e di averlo festeggiato dopo la conquista del quinto titolo mondiale. Sulla pagina di Wikipedia a lui dedicata si leggeva che “E’ il più grande fan italiano di Jorge Lorenzo, memorabile la sua leccata di culo all’ultima gara del Motomondiale 2015 dove Lorenzo vince grazie a un biscottone insieme al suo compagno di merende Marc Márquez dove va a festeggiare proprio Lorenzo, simbolo della frustrazione dei mondiali non vinti contro Valentino Rossi.” Va specificato che, per il momento, la Storia sembra essere salva. Infatti le pagine che hanno subito queste modifiche, ritenute vandalizzate, sono state bloccate e riportate al loro stato originario. I supporters del Dottore che si sono sentiti defraudati dal verdetto della pista di Valencia saranno ora costretti a tramandare il loro Verbo attraverso altri canali.
MotoGp, il sondaggio di As conferma: "Anche la Spagna crede che Valentino Rossi sia stato derubato da Marc Marquez", scrive "Libero Quotidiano" il 9 novembre 2015. Non solo Valentino Rossi. Non solo tutta Italia. Non solo tre quarti del "paradiso" motociclistico mondiale (Troy Bayliss compreso, che ci è andato giù durissimo). Anche i tifosi spagnoli ammettono che Valentino Rossi è stato truffato e defraudato dalla premiata ditta Marc Marquez-Jorge Lorenzo. Non ci si riferisce tanto agli impietosi fischi e "buu"raccolti dai due piloti sul podio di Valencia, ma piuttosto a un sondaggio pubblicato da As, il primo quotidiano sportivo spagnolo. Il Dottore ha parlato di "biscottone" e la Spagna concorda: per il 51,2% degli intervistati, infatti, Marquez ha effettivamente aiutato Lorenzo a conquistare il titolo, evitando di sorpassarlo a Valencia e impegnandosi ad ostacolare il passaggio del compagno di squadra, Dani Pedrosa. L'inciucio è stato servito domenica. Ora viene anche confermato dalla più insospettabili delle parti in causa: la Spagna.
Il padre di Lorenzo: "Marquez ha rotto le palle". La gara di Valencia che deciderà il mondiale di MotoGp di fatto si infiamma a soli 4 giorni dallo start, scrive Mario Valenza su "Il Giornale" Giovedì 05/11/2015. A far salire la temperatura sono le parole del padre di Jorge Lorenzo, Chico. Un affondo quello di Lorenzo Senior ha fatto parecchio rumore. "Non c’è stato calcio. Dica quel che vuole la telemetria di Marquez, non credo alla Honda. È stato solo un riflesso di Rossi, la sua azione non meritava alcuna sanzione. Io avrei castigato Marquez per aver rotto le palle. Se Rossi vincerà il titolo a 36 anni sarà impressionante", ha affermato il padre del pilota spagnolo. E a Chico Lorenzo risponde con un altro stile Graziano Rossi: "Per fortuna mi sembra che Valentino in questi giorni riscuota molte più approvazioni che disapprovazioni - riprende Graziano -. La sfiga è che all’inizio, nell’immagine che ha fregato anche noi, sembrava che Valentino avesse dato un calcio e questo ha mandato tutti in una direzione poi rivelatasi errata. Certo, partisse ultimo sarà tutto difficile, ma i conti li facciamo alla fine". Per una volta papà Rossi si trasformerà in capogita: "Ho affittato un pulmino e partiamo in sette per Valencia. Cosa mi aspetto? Io, come Valentino e tutti quelli che gli stanno intorno, ci chiediamo cosa farà Marquez. Può essere che continui su quella linea e allora sarà un gran casino. Io spero che la direzione gara provi a risolvere tutto prima. Fossi Valentino non mi sentirei protetto da chi gestisce il tutto, non si può permettere che uno dei piloti più forti corra contro di te, non è ammissibile, non ha una logica. Già a Sepang c’erano i presupposti di riprendere i piloti e non è stato fatto, non so se per incapacità o mala gestione".
Valentino Rossi, il padre di Lorenzo a sorpresa: “Non meritava sanzioni, avrei castigato Marquez”. Dichiarazione di Chico Lorenzo: "Non c’è stato calcio. Dica quel che vuole la telemetria di Marquez, non credo alla Honda. È stato solo un riflesso di Rossi". Intanto le voci su un possibile allontanamento di uno dei due sono insistenti. E la scelta, per ragioni commerciali, potrebbe cadere sul maiorchino, scrive Andrea Tundo il 5 novembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Un gesto distensivo, una mossa tattica dopo la reprimenda della Yamaha nei confronti del figlio o un opinione nuda e cruda espressa da sportivo? Di certo, Chico Lorenzo, il papà di Jorge, il pilota che domenica proverà a strappare il mondiale a Valentino Rossi, l’ha affermato senza giri di parole, tutto d’un fiato: “Non c’è stato calcio. Dica quel che vuole la telemetria di Marquez, non credo alla Honda. È stato solo un riflesso di Rossi, la sua azione non meritava alcuna sanzione”. Finito? No, il papà del primo rivale del Dottore affonda ancora: “Io avrei castigato Marquez per aver rotto le palle. Se Rossi vincerà il titolo a 36 anni sarà impressionante”. Uno degli affondi più duri contro la penalizzazione inflitta al pilota pesarese dalla Direzione gara dopo il Gp di Sepang arriva da chi meno te lo aspetti, insomma. Roba da far apparire democristiane le dichiarazioni dell’altro papà, quello di Valentino: “La sfiga è che all’inizio, nell’immagine che ha fregato anche noi, sembrava che Valentino avesse dato un calcio e questo ha mandato tutti in una direzione poi rivelatasi errata. Se partirà ultimo sarà tutto difficile (nel frattempo il ricorso è stato rigettato, Rossi partirà ultimo, ndr), ma i conti li facciamo alla fine”, ha detto a La Gazzetta dello Sport Graziano Rossi spiegando che andrà a Valencia per tifare dal vivo. E augurandosi che Marquez non continui sulla stessa linea ostruzionistica “altrimenti sarà un gran casino” e confidando nella direzione gara poiché “già a Sepang c’erano i presupposti di riprendere i piloti e non è stato fatto, non so se per incapacità o mala gestione”. Almeno i papà evitano quindi polemiche tra i due contendenti per il titolo. Perché invece uno dei due pargoli, Jorge, non ha risparmiato colpi bassi. Prima si è esibito nel pollice verso sul podio mentre Valentino veniva premiato. Poi ha attaccato in conferenza stampa e, in un climax evitabile visto che corrono per la stessa scuderia, ha provato a inserirsi nel ricorso di Valentino al Tas, che si esprimerà nel pomeriggio. Una decisione presa senza informare la Yamaha che ha tirato le orecchie al maiorchino. E forse vanno lette proprio in questo senso le dichiarazioni del padre, con il quale in passato non sono mancate differenti vedute come in occasione della morte di Marco Simoncelli: la difesa di Rossi si colloca a metà tra la ramanzina al figlio e una mossa tattica per distendere gli animi con i boss della casa costruttrice giapponese che potrebbero prendere decisioni importanti nei confronti di Jorge. Anche se il team manager Massimo Meregalli ha rinviato ogni discussione a dopo il week end decisivo del Ricardo Tormo, le voci su un possibile allontanamento di uno dei due sono insistenti. E la scelta ricadrebbe su Lorenzo. Al di là della fastidiosa mancanza di comunicazione in occasione dell’inserimento nel ricorso al Tas di Losanna, si tratta anche di questioni economiche. Come ha raccontato mercoledì Repubblica.it, in Europa la Yamaha fa affari soprattutto in Italia. Lo scorso anno sono state immatricolate nel Bel Paese 156mila moto, il 10.2 per cento delle vendite nel Vecchio continente. Di queste 20.650 sono della casa costruttrice di Rossi e Lorenzo, che in Spagna si è invece fermata a 13.983 su 111mila pezzi. Una forbice importante nella quale il successo mediatico di Valentino gioca un ruolo tutt’altro che secondario. Freddo calcolatore o sportivo sanguigno, dunque, Chico Lorenzo? Certamente spiazzante con quel suo “Marquez ha rotto le palle”. E chissà cosa ne pensano i famigliari del pilota di Cervera che il figlio lo hanno difeso in ogni modo. Ne sanno qualcosa Le Iene di Italia 1, aggredite fuori dalla loro abitazione. Di un loro pensiero, grazie alla registrazione audio salvata dai due inviati, siamo però a conoscenza: l’idea che hanno dell’Italia, un posto in cui si vive di mafia e porcherie.
Sepang. Gran Premio della Malesia. 25 ottobre 2015. Il trattamento ignobile riservato ad un mito anche da parte dei connazionali. Il tutto senza aver prima verificato i fatti.
MotoGP. L’incontro segreto tra Marc e Jorge, scrive “Formula Passion”. Tiene banco e si allarga, valicando i confini del Motomondiale, il caso scoppiato domenica mattina dopo il contatto tra Rossi e Marquez, che ha portato alla caduta dello spagnolo e alla penalizzazione di Rossi. Mentre la stampa spagnola fa il suo per difendere Marquez, quella italiana non sta a guardare e fa passare ai raggi x la fine del rapporto di amicizia tra Rossi e Marquez, la degenerazione del confronto in pista tra i due piloti, e la coda di dichiarazioni che ne è seguita. È il Corriere della Sera a illustrare oggi “Le ragioni che hanno trasformato un’amicizia in odio”. Per venire a capo di Sepang, bisogna fare il giro del mondo in quattro tappe, partendo dagli Stati Uniti, Laguna Seca, luglio 2013 (“Quando lo spagnoletto aveva apparecchiato la presa del potere” e finì “con Rossi che strozzava simpaticamente Marquez. Fratellone e fratellino. Che poesia”); scendendo in Argentina, Termas de Rio Honda, aprile 2015 (“Marquez comincia a ruminare astio”); attraversando l’oceano per arrivare in Olanda, Assen, giugno 2015 (“Il punto di non ritorno”. Marquez “si convince che Rossi gli ha fatto perdere definitivamente il terzo Mondiale e pianifica la sua opera di disturbo.Non che si sia innamorato di Lorenzo, ma è deluso da Rossi” e “Rossi comincia a dare retta agli amici che da mesi gli dicevano di stare in guardia da quel falso amichetto: e se avessero ragione? In fondo, lo diceva da mesi anche il paddock, quel piccolo villaggio dove tutti sanno tutto di tutti: «Amici loro? Non scherziamo»”). Per arrivare infine in Australia, Phillip Island, ottobre 2015, dove Rossi “si convince: quello mi sta fregando. Si sente tradito e lo dice a Marc la sera dopo la gara, durante un party a Phillip Island. Prende picche. Allora lo ribadisce pubblicamente in Malesia”. E ogni volta che monta un caso, non mancano i retroscena. Scrive la Repubblica: “In vent’anni di circuiti Valentino ha imparato a non dare peso alle chiacchiere. Però questa storia è diversa. Un giorno gliel’hanno raccontata, ed è diventata la sua ossessione. Un pensiero nero che poco alla volta lo ha avvelenato. Quando quei fantasmi si sono fatti realtà, qualcosa dentro all’eterno ragazzo si è rotto. Valentino non sospetta che Marquez e Lorenzo abbiano un accordo segreto: ne è fermamente convinto. E lo è da quando anche a lui è arrivata quella chiacchiera. La verità gli stava per scappare dalle labbra giovedì scorso, nella conferenza stampa in cui ha sostenuto che Marc fosse diventato il «primo supporter» di Jorge: «Me lo avevano detto, ma non ci volevo credere». Poi si è fermato. Però dopo la sciagurata gara di domenica, allora sì che gli è scappato, anche se nella confusione non ci ha fatto caso quasi nessuno: «Forse si sono incontrati prima della tripla». Queste le esatte parole pronunciate”. Un incontro che sarebbe avvenuto dopo il GP di Aragon, quando Lorenzo aveva un distacco di 14 punti e si sarebbe recato ad Andorra a trovare Marquez in compagnia del suo manager (Albert Valera). Ma c’è un altro episodio che avrebbe potuto portare a un finale diverso. La Gazzetta dello Sport riferisce che Massimo Meregalli, team manager Yamaha, aveva “contattato nella serata di sabato la Direzione gara nella persona di Javier Alonso, uno dei tre membri, per organizzare un incontro con i piloti. Ma la risposta è stata che non era necessario. Complimenti alla lungimiranza, perché quello che tutti sapevano essere un regolamento dei conti ormai vicino all’esplosione, ha finito irrimediabilmente per rovinare la più bella stagione del Motomondiale degli ultimi 15 anni. […] Chissà se la Dorna si rende conto del potenziale disastro in arrivo: non interessa il nome del campione del mondo 2015, ma quello che potrebbe produrre il duello rusticano”. Rimasto finora fuori dal turbinio mediatico, anche Lorenzo non si è distinto per lucidità. In Yamaha tira aria di bufera per il comportamento dello spagnolo: il Corriere della Sera parla di un Lin Jarvis, managing director Yamaha, “infastidito dalla sceneggiata di Lorenzo che nel dopogara è andato direttamente dal boss spagnolo del Motomondiale, Carmelo Ezpeleta, a chiedere la squalifica di Rossi. Umanamente comprensibile. Ma contrastare pubblicamente gli atti dei capi (il ricorso contro la penalizzazione del suo compagno) non è proprio l’atteggiamento che un’azienda vorrebbe da un suo stipendiato. Chissà se l’episodio farà cambiare scenari e rapporti contrattuali nel 2016...”. Il caso, anche se non mancano alleanze trasversali, si è ormai trasformato in un confronto Spagna vs Italia, in cui tutti vogliono dire la loro, premier politici inclusi (Renzi ha chiamato Rossi, Rajoy ha twittato: “Nello sport, come nella politica, non vale tutto. Il nostro sostegno a Marquez”). “Il capo del governo, il presidente del Coni, alcuni grandi sportivi, gli altri Rossi famosi, un sito di scommesse, i sottoscrittori di trenta petizioni, i social network (a maggioranza) stanno con lui: Valentino Rossi ieri ha scoperto che l’Italia lo difende”, scrive La Stampa. “Se i media spagnoli titolano «Cade un mito» e «ha macchiato la sua leggenda», da twitter parte una controffensiva a volte ironica, altre appassionata e aggressiva con l’hashtag #iostoconvale. Marquez è definito «viziato» o «antisportivo». Più che le 30 petizioni in Italia, colpiscono le 200 mila firme raccolte in Inghilterra, nazione neutrale, perché venga cancellata la penalità. Due le voci contro: quella di Giacomo Agostini, unico motociclista che abbia vinto più di lui (15 titoli a 9) e quella di Valentina Vezzali, regina della scherma e deputata di Scelta Civica: «Rossi e Marquez sono un pessimo esempio per la sicurezza stradale»”. Prese di posizione pro e contro Rossi che troviamo lucidamente affiancate sulla Stampa. “Dopo lo scontro, i capricci. Poteva vincere almeno con le parole”, titola l’articolo di Giulia Zonca. “Provocazioni e testata. Valentino si è solo difeso: non c’erano alternative”, la tesi esposta di Andrea Malaguti.
Rossi-Marquez: la stampa spagnola ci dà degli "italiani camorristi", scrive “Libero Quotidiano”. Ci mancava solo l'insulto, nella clamorosa vicenda dello scontro tra Vale Rossi e Marc Marquez. Già il premier Mariano Rajoy, lunedì, aveva detto che certe cose non si possono fare nemmeno nello sport, riferendosi al presunto calcetto, dandoci implicitamente (a noi italiani) dei furbetti pronti a tutto pur di vincere. Ora la stampa spagnola passa, appunto, agli insulti, dandoci dei "camorristi". Oggetto dell'articolo del sito di news vozpopuli.es è l'ipotesi di un incontro segreto tra Marquez e Lorenzo in quel di Andorra, dove avrebbero stretto un accordo anti-Rossi. Vozpopuli titola così: "Los camorristas italianos inventan "el pacto del Andorra" entre Lorenzo y Marquez para derrocar a Rossi". Non occorre sapere bene lo spagnolo per capire il senso del titolo...
Travaglio&Co. processano Rossi (e gli italiani). L'Italia spinge Valentino verso il traguardo: a Valencia il "Dottore" avrà milioni di tifosi che incollati davanti a uno schermo aspetteranno di poter festeggiare con Vale il suo decimo titolo in carriera. Tutti tranne qualcuno, scrive Mario Valenza su "Il Giornale". L'Italia spinge Valentino verso il traguardo: a Valencia il "Dottore" avrà milioni di tifosi che incollati davanti a uno schermo aspetteranno di poter festeggiare con Vale il suo decimo titolo in carriera. Tutti tranne qualcuno. Uno su tutti Marco Travaglio. In un editoriale di fuoco, Travaglio attacca Rossi senza giri di parole. Il tutto condito da un pizzico di anti-patriottismo e ovviamente con il solito moralismo travaglino. "Anziché accettare il verdetto, atteso e dovuto, l’Italia che conta - afferma Travaglio - si scatena nell’unico vero sport nazionale: il vittimismo complottista. Come ai tempi di Calciopoli con ampio stuolo di prefiche piangenti per la povera Juve, il povero Milan, la povera Lazio e la povera Fiorentina. Marquez è cattivo perché si ostinava a superare il nostro campione, anziché fermarsi sul ciglio della pista e lasciarlo passare. Sarà certamente d’accordo con Lorenzo, pure lui spagnolo, per sabotare l’italiano. Ingrato che non è altro: dopo aver beneficiato dell’amicizia di Valentino, l’ha tradito nel momento del bisogno. Gli stessi che strillavano per la testata del feroce Zidane al mite Materazzi nella finale di Germania 2006, ignorando che il francese aveva perso il controllo reagendo alle provocazioni del nostro difensore, oggi puntano il dito sulle provocazioni di Marquez (reo di mettercela tutta per arrivare davanti a Valentino), mentre la reazione di Rossi non conta". Poi dopo gli attacchi diretti a Valentino, citando Elio e le Storie Tese, Travaglio si schiera apertamente dalla parte di Marquez: "C'è chi mette in burletta il verdetto: non per dire che andava punito anche Marquez (il che non sposterebbe di un millimetro le sorti del Mondiale), ma che non andava punito Rossi. Il quale è innocente perché – tenetevi forte – non è la sua gamba a scalciare Marquez, ma la testa dell’astuto spagnolo a colpire la sua gamba. Una barzelletta che ricorda Servi della gleba di Elio e le Storie tese: “Non sono stato molto bene. Mi han detto che c’ho il gomito che fa contatto col ginocchio”. Infine l'affondo: "Nello sport ridotto a succursale della politica, nessuno deve permettersi di ricordare che le regole valgono per tutti, anche per chi è simpaticissimo come Valentino. È l’Italia di Cetto La Qualunque: “Figlio mio, quante volte ti ho detto di non mettere mai il casco: potrebbero pensare che sei timido! Si comincia dando la precedenza a un incrocio e finisce che ti prendono per ricchione”. Peggio di Travaglio in questo quadro anti-Rossi, si posiziona solo Gad Lerner che attacca pure lui il Dottore tirando in ballo anche i marò: "La reazione nazionalista ha tratti insopportabili, una deriva da "E i Marò" che certo interroga parecchio sulla capacità di indignazione del nostro Paese. Si spera che Rossi vinca almeno per far scomparire rapidamente il complottismo antispagnolo".
Marco Travaglio: "Per Valentino Rossi una punizione troppo blanda", continua “Libero Quotidiano”. Potesse, lo manderebbe in galera. Ma non si può ingabbiare uno per il solo fatto che (forse) ha spintonato un avversario fuori pista durante una gara di moto. Però, al manettaro Marco Travaglio brucia. Brucia che tutti abbiano preso le difese dell'eroe nazionale Valentino Rossi, vittima (ma sempre forse) di un momento di debolezza. E così, sul "Fatto quotidiano", si scatena in una delle sue invettive giustizialiste. Ora, non fosse lui ma magari un Feltri, si potrebbe pensare a un articolo provocatorio, scritto così proprio per il gusto di andare controcorrente e magari indurre qualcheduno a una riflessione in più su fatti all'apparenza scontati. Ma conoscendo Travaglio, quel pensiero sarebbe un lusso. E infatti, il Manetta scrive che la sanzione nei confronti di Valentino Rossi "è piuttosto blanda rispetto al massimo della pena previsto in questi casi (tipo la squalifica al Gp successivo)". Poi passa ad attaccare quello che lui definirebbe l'italiano medio: "Anziché accettare il verdetto, atteso e dovuto, l’Italia che conta si scatena nell’unico vero sport nazionale: il vittimismo complottista". (...) "C’ è chi mette in burletta il verdetto: non per dire che andava punito anche Marquez (il che non sposterebbe di un millimetro le sorti del Mondiale), ma che non andava punito Rossi. Il quale è innocente perché –tenetevi forte –non è la sua gamba a scalciare Marquez, ma la testa dell’astuto spagnolo a colpire la sua gamba" (e certo, non fa alcuna differenza...). E via a testa bassa contro tutti coloro che hanno osato difendere il Dottore, da Malagò al "Foglio", da Jovanotti ad Arrigo Sacchi. Chiusura magistrale: "È l’Italia di Cetto La Qualunque: 'Figlio mio, quante volte ti ho detto di non mettere mai il casco: potrebbero pensare che sei timido! Si comincia dando la precedenza a un incrocio e finisce che ti prendono per ricchione'”.
Il livore di Lerner contro Rossi: "Nazionalismo inquietante". Il blog del giornalista ospita un attacco al Giornale: "Il complottismo antispagnolo è insopportabile, si assiste a un'inquietante deriva nazionalista". E tira in ballo i Marò, scrive Ivan Francese su "Il Giornale". C'era da aspettarselo. La campagna a favore di Valentino Rossi, che vede "ilGiornale.it" in prima fila, è stata messa all'indice. Accusata di nazionalismo, complottismo, semplicismo. A gettare la maschera e vestire i panni del Grande Inquisitore è Gad Lerner, che in un post ospitato sul proprio blog attacca "l'insopportabile nazionalismo antispagnolo su due ruote". La mobilitazione popolare a favore del pilota pesarese, che ha preceduto e seguito le reazioni della stampa, non è compatibile con la melassa internazionalista. Così finisce nel mirino "l'inquietante deriva nazionalista, con tanto di complottismo antispagnolo che fa sorridere". E sul banco degli imputati finisce, manco a dirlo, la prima pagina de "Il Giornale". "La reazione nazionalista ha tratti insopportabili, una deriva da "E i Marò" che certo interroga parecchio sulla capacità di indignazione del nostro Paese. Si spera che Rossi vinca almeno per far scomparire rapidamente il complottismo antispagnolo." Parole difficilmente commentabili, queste sì che fanno sorridere. In primis, consigliamo a Lerner e ai suoi collaboratori di andarsi a leggere la stampa spagnola, in questi giorni: essa gronda di attacchi anti-italiani e di sentimento patriottico iberico fiero e compatto - dal loro punto di vista, perfettamente ragionevole - nel difendere i propri piloti. In secondo luogo, invitiamo chi vede in questa campagna dei tratti inquietanti, a non spaventarsi troppo: di nazionalismo non se ne trova. Marc Marquez non è certo finito nel mirino perché spagnolo, ma solo ed esclusivamente per il suo atteggiamento in gara. Chi pensa il contrario, lui sì, è un complottista.
Le 10 differenze tra gli Italiani pro e contro Valentino Rossi, scrive “Opiniolandolo”. Abbiamo tutti visto le immagini della sfida tra Valentino Rossi e Marquez lungo i primi 7 giri del gran premio di Sepang di MotoGP in cui il pilota spagnolo, dopo aver in ogni modo rallentato e innervosito Valentino, è finito per terra. Sui social si è immediatamente accesa una grande battaglia tra chi difende e chi accusa Valentino, ma nessuno si è chiesto cosa differenzia chi sostiene le due diverse posizioni: leggete e lo scoprirete….
Il tipico accusatore di Valentino Rossi al mattino sotto la doccia pensa, il tipico sostenitore invece canta.
Il tipico accusatore di Valentino Rossi a cena con gli amici non fa nulla perché è l’ospite, il tipico sostenitore invece è quello che cucina per tutti.
Il tipico accusatore di Valentino Rossi a lavoro quando arriva beve il tè così si rilassa, il sostenitore invece, appena arriva, ingoia un caffè in tre secondi e un altro se lo infila negli occhi come fosse un collirio perché ha duemila cose da fare.
Il tipico accusatore di Valentino Rossi è quello che da vecchio si apposta davanti a un cantiere dicendo che ai suoi tempi si lavorava meglio, il sostenitore trascorre invece la sua vecchiaia giocando a carte con gli amici e passeggiando nel parco alla ricerca di qualche bella nonnetta da guardare.
Il tipico accusatore di Valentino Rossi nel tempo libero porta i cani a passeggio, il sostenitore invece gioca coi figli al parchetto come un dodicenne.
Lo studente accusatore di Valentino Rossi se durante un esame riceve richiesta di aiuto, non solo finge di non sapere la risposta, ma fa anche la spia col professore; lo studente sostenitore invece è quello che si fa beccare mentre passa al compagno il suo intero foglio protocollo per farlo copiare.
Il tipico accusatore di Valentino Rossi a lavoro i problemi li elenca, il sostenitore invece li risolve.
Il genitore sostenitore di Valentino Rossi i figli li rimprovera, il genitore accusatore invece li moralizza.
Il tipico accusatore di Valentino Rossi è il classico sempre pronto a “salire sul carro dei vincitori”, il sostenitore invece è già sul carro perché quello che ha vinto è proprio lui.
Il tipico accusatore di Valentino Rossi i biscotti li organizza e li fa, il sostenitore invece non ci sta e se li mangia.
#IoStoConVale: vai a Valencia e insegna ai bambini come corrono i giganti!
Gli anti-Rossi? Sono l'emblema dell'Italietta, scrive di Fabrizio Biasin su “Libero Quotidiano”. Una volta c’era Pavarotti. Andavi nelle Americhe a fare il gagà e l’americano ti incalzava: «Italiano? Viva Pavarotti!» Poi proseguiva con «spaghetti, mafia e mandolino», ma questa è un’altra storia. Il Pavarotti che fu, oggi di nome fa Valentino. Qualcuno ha pensato allo stilista? Nessuno. Qualcun altro ha pensato a Rodolfo? Può darsi. La massa però è tutta con Rossi, cognome comune, volto unico e solo. Ecco, il popolo, «le genti», la stragrande maggioranza degli italiani, un secondo dopo aver visto la presunta «sgambata» del Dottore ai danni di «quell’altro», ha alzato il culo dal divano come punto da tarantola e si è messo a urlare: «Ben ti sta Marquez! Spagnolo paella, sangria e corrida!» (Giusto per restare nell’ambito dei luoghi comuni). Il tutto senza un briciolo di sportività che - diciamolo - abbiamo volentieri nascosto sotto al tappeto. A motori spenti anche i pochi che «Beh, amo Vale ma questa volta l’ha fatta sporca» hanno cambiato idea di fronte alla «prova madre», il video, l’immagine che inchioda Marquez alle sue responsabilità nel momento in cui appoggia il casco alla carena di Vale-adorato. Tutti d’accordo insomma? Tutti uniti in difesa di uno dei simboli dello sport azzurro nel suo momento di difficoltà? Neanche per idea. I benpensanti, quelli che hanno i «seguaci» sui social, le menti elette, molti giornalisti, la gran parte degli addetti ai lavori, ma anche gli opinionisti della politica e del «c’è un fatto? Noi sentenziamo!», hanno storto il naso. Commenti a caso ascoltati e letti qua e là in televisione e sui vari network. «Che vergogna, Vale se l’è cercata e ora deve rispondere». Oppure: «Del resto uno che non paga le tasse non poteva che compiere una scorrettezza». Fino a: «Ha rischiato di ammazzarlo. Qui non si tratta di sport, si tratta di vita e morte». E sui giornali: «Cartellino Rossi», «Così non Vale, Rossi perde la testa». Nel frattempo in Spagna tutti compatti: tifosi, politici, opinionisti, toreri, nani e ballerine: «Rossi colpevole, viva l’España!». Per dire, il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy ieri sera ha twittato: «Nello sport come nella politica non vale tutto. Appoggiamo Marquez». La replica di Renzi, ieri in Perù? Nessuna, ma in fondo lui partecipa a certi eventi solo se la Pennetta sfida la Vinci nella finale degli Us Open. Rischio di far figure? Nessuno. Qui invece non sai mai se pesti la cacca. Chiamiamolo pure «tafazzismo all’italiana». Si distingue il presidente del Coni, Giovanni Malagò: «C’è una responsabilità da parte sua però io lo voglio assolutamente difendere e non per un fatto istituzionale». Il minimo sindacale ma meglio di niente. In chiusura: cosa accadrà se Vale farà il miracolo a Valencia? Tutti sul carro? E, domandona, Renzi sarà presente? Dicci Matteo, dicci...
Sepang. Gran Premio della Malesia. 25 ottobre 2015. Dopo la decisione della Race Direction di retrocedere Valentino Rossi all'ultimo posto sulla griglia di partenza di Valencia a causa del contatto di oggi con Marc Marquez, il "Dottore" ha deciso di disertare la conferenza stampa, si è presentato eccome Jorge Lorenzo, che non ha avuto problema a dire di non aver gradito per niente la decisione dei commissari, scrive Matteo Nugnes su “Omni Corse”. Secondo il maiorchino, infatti, la sanzione avrebbe dovuto essere applicata alla gara odierna, con la squalifica del pesarese e non rimandata alla gara decisiva della stagione a Valencia. Tra le altre cose, inizialmente si era parlato anche di una sua intrusione in Race Direction per dire la sua, ma la cosa è stata successivamente smentita. "Non penso che la Race Direction abbia preso una buona decisione. Valentino ha spinto fuori Marc e Marc è caduto, prendendo 0 punti, mentre Valentino si tiene i suoi 16 punti. Penso che sia ingiusto, forse per via del suo nome, che non si veda togliere dei punti questa volta" ha detto il pilota della Yamaha senza usare giri di parole. Poi Jorge ha aggiunto anche un'altra cosa interessante, ribadendo che secondo lui ci sono andati troppo leggeri questa volta con il compagno di box: "Nel 2005 feci qualcosa di simile, cadendo anche io, ma fui obbligato a saltare la gara successiva".
Rossi vs Marquez, il passaggio di consegne. Da idolo, Rossi diventa l'avversario più odiato. Un passo naturale visti anche i precedenti, scrive Paolo Beltramo. Stavolta anziché i caschi, leggerete un articolo. Limitare l’accaduto di Sepang a una serie di giudizi sui singoli sarebbe stato troppo riduttivo. Così parliamone per esteso, che è meglio. Il Gran Premio di Malesia 2015 si è subito presentato male: nervosismo, accuse, controaccuse, tensione alle stelle fin da giovedì, fin dalla tradizionale conferenza stampa pre-gara. Una tensione che è aumentata fino alla domenica. Una gara che, come sapete, ha visto Marquez e Rossi lottare col coltello fra i denti mentre Pedrosa e Lorenzo se ne andavano. Poi un contatto tra il 46 e il 93 dove è stato lo spagnolo della Honda a cadere. Sulle colpe si possono fare mille ipotesi: Rossi dice di non aver voluto far cadere Marquez, ma soltanto di portarlo un po’ fuori per cercare di toglierselo di dosso, mentre Marc accusa Vale di averlo buttato a terra con un calcio. Alla fine ha vinto meritatamente Pedrosa, battendo Lorenzo e Rossi, la direzione di gara non ha ritenuto valide le accuse di Marquez (il calcio volontario), ma ha deciso di punire Rossi per comportamento scorretto (il rallentamento, l’allargamento della traiettoria volontario). La punizione è forse determinante per la decisione del campionato: Rossi a Valencia dovrà partire ultimo. Insomma considerando la pista e la situazione, soltanto Lorenzo può perdere un campionato che ancora lo vede secondo per 7 punti. Fin qui i fatti. E vediamo. Che a Sepang ci sia stato da parte di Marquez un certo accanimento agonistico contro Valentino è apparso evidente. Che poi fosse voluto per avvantaggiare Lorenzo o rallentare Rossi è possibile, ma da dimostrare. Di sicuro i due non si amano più, ammesso che si siano mai amati. Forse fino al 2014, quando Marquez vinceva e Rossi faticava, ci poteva stare una certa simpatia, un qualche sentirsi affini. Ma quando ti giochi un Mondiale gli amici sono quelli che non corrono. Poi c’è il precedente dell’Argentina quando Marquez cadde dietro a Rossi accusato di aver causato il volo. Non bastasse (ma bastava) c’è stata anche Assen con Rossi e Marquez che si giocano la vittoria all’ultima chicane e la spallata, il taglio con successo di Vale, le proteste di Marc. Insomma, da idolo ad avversario più odiato, il passo è stato breve e naturale, spontaneo. Anche perché, ammettendo durezze storiche evidenti di Valentino, Marc viene da anni di altrettanta cattiveria in 125 e Moto2, troppo simili per piacersi molto. Giovedì in Malesia Rossi stupisce tutto il mondo accusando Marquez di averlo volutamente rallentato in Australia e di preferire che a vincere il titolo sia Lorenzo. Allora sembrava a quasi tutti una sparata, un modo per aumentare la tensione, situazione nella quale Rossi era considerato favorito. Pochi vi vedevano una possibile, personale lettura della gara di Phillip Island da parte di Vale. Ancora meno, forse nessuno, anche se un’ombra passeggera me l’aveva fatto pensare, ritenevano che potesse trattarsi di una dimostrazione di debolezza, di preoccupazione. Un’incapacità di gestire oltre alla rincorsa al titolo, al duello con Lorenzo, anche la lotta con quel Marquez incattivito, terzo incomodo scomodissimo. Era un tentativo di riportare nei limiti del duello quello che sembrava diventato una guerra soltanto per lui. Giusta o sbagliata che fosse la sensazione di Rossi, a mio parere lo rende più umano, più terreno, più tenero, più vicino. E sembra sia stata sincera. Quello che probabilmente abbiamo visto a Sepang è un passaggio di consegne tra il vecchio leone ancora capace di mordere, di lottare, di ribellarsi, di inseguire sogni pazzeschi come il decimo titolo mondiale a 36 anni e il giovane leoncino apparentemente dolce, carino, rispettoso, in verità alla caccia del ruolo di maschio alfa. Rossi ha vinto moltissimo anche perché è sempre stato duro, egoista, sportivamente "bastardo". Marc sembra essere addirittura più duro, più egoista, più "bastardo". Insomma forse si può lottare contro il tempo che passa, contrastarne l’effetto, rallentarne i danni, ma non si può fermare il nuovo, il fresco, il giovane che avanza, che arriva e spazza tutto. Marc Marquez è il passato prossimo e il futuro di questo sport. Ha voluto condizionarne anche il presente. Forse c’è riuscito. Chi invece esce un po’ meno bene da tutta questa storia mi sembra Jorge Lorenzo: il voler infierire non è mai bello. Poteva starsene zitto, far buon viso a quello che per lui era un gioco non abbastanza favorevole. Si è lamentato per la punizione inflitta a Rossi, ne voleva una più dura che cancellasse il terzo posto e i sette punti di differenza, insomma avrebbe voluto stravincere. Sembra uno di quei momenti di rivoluzione, di cambiamento con tutti che si accaniscono sui vinti e sfoderano antichi rancori come Casey Stoner, come - appunto - Lorenzo. Certo così non è finita, a Valencia può ancora accadere di tutto, capiamo i timori residui di Jorge, ma volerla vinta per un incidente che non lo vede coinvolto non è elegante. Però anche questo, forse, è figlio di una storia che ha visto Valentino Rossi dominare in pista, ma soprattutto come personalità, negli ultimi vent’anni. Un dominio divenuto assoluto, che lasciava poco agli altri, un egocentrismo duro, tosto, che tutti dovevano accettare, ingoiare, volenti o nolenti. Insomma, sa un po’ di vendetta, di liberazione, di galletti che rialzano la cresta. Ci sta, è umano, succede sempre così. L’eleganza invece la dimostra anche questa volta Dani Pedrosa, grande vincitore della gara dopo una pole stratosferica, con giudizi ponderati, senza esagerazioni, senza cattiveria, senza rivalsa. Dei quattro grandi è l’unico che ancora non abbia sparato sulla croce gialla: l’ha battuto, oggi e recentemente, ma sa cosa vuol dire soffrire, perdere, vedere i propri sogni infranti, ha trent’anni e quella maturità che viene dal disincanto di chi ha vinto 51 GP, 28 in MotoGP, ha fatto 140 podi, di chi ha imparato a condividere col dolore fisico, con il destino avverso, che ancora non ha visto realizzarsi il suo sogno più grande. Ma che guardando quei tre, forse, gode di questo suo distacco quasi zen, di questa signorilità naturale.
Continua Paolo Beltramo - Quattro anni fa. Prima di quel 23 ottobre 2011, quello di Malesia era un Gran Premio che mi piaceva molto. Quattro anni fa - era il 23 ottobre 2011 - sul circuito di Sepang in Malesia, durante il secondo giro della MotoGP, moriva Marco Simoncelli. Un incidente terribile con due piloti, Colin Edwards e Valentino Rossi, che non potevano evitare di colpire la Honda 58 e il Sic, apparsi improvvisamente davanti alle loro moto. Marco aveva perso il controllo, ma anziché scivolare verso l’esterno come sarebbe stato normale, la sua moto attraversava la pista. Il Sic moriva sul colpo e quei 45 minuti di tentativi di rianimazione obbligatori erano vani, inutili, vuoti, senza speranza anche se non ci si voleva credere. Per un sacco di motivi. Innanzitutto il clima: a me il caldo piace, godo a vestirmi leggero e ad avere la possibilità – come lì, in Qatar, a Rio – di fare dei gran bagni in piscina. Gli hotel sono – come spesso in Oriente – molto belli. Si mangia bene, basta avere un po’ di apertura mentale e comunque a Kuala Lumpur ci sono almeno un paio di ottimi ristoranti italiani oltre a quelli cinesi, francesi, tailandesi, vietnamiti… Poi in Malesia c’è tutta la frutta tropicale che immagini e anche quella che non immaginavi esistesse. Kuala è una città incasinata come tutte quelle asiatiche, ma un po’ più vivibile della media. C’è un ottimo servizio di treno tra l’aeroporto, che è vicino al circuito e la “Sentral Station”. Sì, proprio sentral con la s, perché in Malesia molte parole inglesi sono scritte esattamente come si pronunciano: teksi, ambulans e via così. Avvantaggia anche il fatto che comunque il malese sia scritto usando il nostro alfabeto, insomma si legge. In città si riesce a muoversi, molto lentamente, anche in “teksi”, ma la linea di metropolitana sopraelevata è fantastica e guardare tutto quel casino immane di auto, camioncini, autobus, motorini, pedoni la sotto ti fa intimamente godere. Per anni ha contagiato anche me, ma da un po’ di tempo se posso la evito. Sto parlando della Chinatown di Kuala, il regno del falso più gande che abbia mai visto: negozi, bancarelle, una fila continua di venditori di scarpe, maglie, valige, borse, cuffie, film, cd, dvd, telefonini e soprattutto orologi falsi. Falsissimi. Un po’ ti diverti, un po’ ci vai per ridere, poi basta. Anche perché se ti beccano qui da noi son casini e non da ridere. In compenso ci sono un sacco, una sfilza, un’infinità di centri commerciali dove si trova di tutto, ma originale. Mai visti tanti negozi originali della stessa griffe come a Kuala: qualsiasi marchio vi venga in mente c’è. Quasi sempre sono negozi vuoti. Fino ad un po’ di anni fa fare acquisti di materiale elettronico e fotografico era vantaggiosissimo. Poi i prezzi sono arrivati spesso ad essere simili ai nostri. Ma quelle giornate di martedì, mercoledì dopo l’Australia, passate a zonzo per Kuala in gruppetti che si incontrano e rincontrano nei punti strategici sono sempre state divertenti. La Malesia è un paese ospitale, con un popolo misto e gentile, finora tollerante anche se a maggioranza musulmana. Insomma c’è di tutto, tante razze e se vuoi trovi facilmente bar dove bere comodamente una birra o un whisky. D’altronde con tutti gli inglesi che ci sono non potrebbe essere altrimenti. A parte gli scherzi, sì, Kuala è una città cosmopolita, modernissima, molto molto consumista, ma le sacche di povertà sono enormi, anche se in periferia. La piazza dove torreggiano le due gemelle Petronas è bella, affascinante, anche se si tratta di un inno al cemento, all’acciaio e al cristallo, mescolati per esprimere i sogni di grandezza di un Paese. Il centro commerciale all’interno delle due Torri è il sogno di chi può permettersi una carta di credito senza limiti: tanto per fare un esempio, in vetrina nel negozio di elettronica c’era un monitor Panasonic da 103 pollici e 70.000 euro di costo. È un inno al lusso, ma anche alla qualità. E ci si mangia pure bene. La sera è animata, più dell’immaginabile. C’è di tutto, anche le discoteche molto equivoche, dove c’è sempre musica occidentale, un casino di gente, soprattutto stranieri, ragazze di tutto il sud-est asiatico piuttosto disponibili e l’alcool si consuma a fiumi. Fuori, tanto per chiarire ci sono anche un sacco di cosiddetti “lady-boy”. A Kuala c’è anche uno strano zoo pieno di uccelli e nelle vicinanze (meno di 15 chilometri dal centro di KL) c’è il famosissimo tempio indù di Batu con le sue migliaia di scimmie, i suoi oltre 270 gradini, la statua enorme (è alta oltre 40 metri) del dio della guerra Murugan, le caverne piene di tempietti e quelle invece zeppe di pipistrelli (che io ho evitato di visitare, ti tocca camminare per più di un’ora sulla cacca, al buio e senza far rumore…per non parlare dell’odore). È comunque un’esperienza interessante e fuori dal comune. Le Batu Caves sono delle grotte calcaree enormi e il tutto è particolarmente suggestivo. Una volta si correva a Shah Alam, un circuitino con pochissime infrastrutture in una cittadina presso Kuala. Allora la città era appena all’inizio del suo folle sviluppo: c’era l’ ”Hard Rock Cafè” del figlio del Sultano appassionato di moto (soprattutto Harley) e di musica, poi poco altro: qualche ristorante, qualche bar, qualche shopping center. Poi la città ha cominciato a diventare quasi irriconoscibile da un anno all’altro: gli operai lavoravano 24 ore al giorno, senza feste né soste, grattacieli spuntavano dovunque, tutto era nuovo e scintillante. Così hanno fatto anche il circuito di Sepang dove si corre adesso: un’opera mastodontica, con infrastrutture super, tribune coperte enormi, box che sembrano porticcioli coperti con uffici, stanzette, cucina…Insomma un’esagerazione come per l’aeroporto: quello vecchio era piccolo e brutto, vero, ma quello che hanno costruito è stato per anni premiato come il miglior aeroporto del mondo e in effetti probabilmente lo è: c’è la costruzione principale che ospita arrivi, partenze, check-in eccetera, poi un trenino automatico porta (o raccoglie) i passeggeri in quello che si potrebbe definire il mozzo di un’enorme ruota da cui partono i raggi che sono le file di gate. Bello, funzionale e soprattutto dove in pochissimo tempo arrivi in qualsiasi punto. Attaccato, unito all’aeroporto KLIA (Kuala Lumpur International Airport) da una sorta di arteria sopraelevata, c’è l’hotel (che si chiamava Pan Pacific, ora ha cambiato nome) dove puoi arrivare senza uscire all’aria, spingendo il tuo carrello dal recupero bagagli fino in camera. È un hotel bellissimo, con ristoranti, piscina, palestra e nove piani di camere. Lì la cosa bella è che c’è una buona metà del paddock, perlomeno la metà più ricca e puoi chiacchierare con chiunque nell’immensa hall o nel grande ristorante self-service dove si fa anche colazione. I gran premi fuori Europa hanno la caratteristica di rendere tutti un po’ più aperti: non ci sono – alla sera – le hospitality, né i motor home, ci si incontra di più, la pressione è minore, come meno sono i giornalisti che seguono. Il paddock diventa più piccolo, più intimo, più amichevole anche se moltissimi a sera prendono il trenino (KLIA express) e vanno (in 28 minuti) a Kuala per cenare, per cambiare un po’ ambiente, per andare in un ristorante particolare. Il Sepang International Circuit ha come marchio “SIC”. Appunto. La pista dove Marco ha vinto il suo mondiale in 250, la pista dove per la prima volta è stato il più veloce della MotoGP (secondi test precampionato del febbraio 2011), la pista dov’è morto. Un posto che non mi piace più.
Valentino Rossi, i giornali stranieri lo condannano: "Vergognoso, ha macchiato la sua leggenda", scrive "l'Huffington Post" il 26/10/2015. "È crollato un mito". La Spagna è furibonda con Valentino Rossi.
La prima pagina di Marca, giornale sportivo spagnolo, critica il 9 volte campione del mondo per lo scontro in pista con Marquez: "Vergognoso: Rossi fa cadere Marquez con un calcio" si legge. Nel sommario: "L'italiano macchia la sua leggenda ma riceve una punizione ridicola e potrebbe ancora laurearsi campione a Valencia, dove partirà ultimo". La commissione gara infatti ha deciso di punire Valentino Rossi togliendogli tre punti dalla patente e obbligandolo a partire dall'ultima fila al Gran Premio di Valencia. Sul giornale spagnolo poi la rievocazione dei gesti non sportivi entrati nella storia dalla testata di Zidane a Materazzi al morso di Tyson ad Holyfield.
El Mundo parla di "una macchia su una carriera gloriosa" e scrive in italiano "il dottore maligno", "nemmeno per un mondiale ne vale la pena". In un altro articolo elenca le presunte scorrettezze di Rossi.
El Pais titola: "Rossi dà un calcio alla propria leggenda".
Il Daily Telegraph parla di incidente controverso e di un "momento di follia" che costerà caro al campione.
Dello stesso avviso i tedeschi dello Spiegel, Valentino ha spinto fuori pista il rivale Marquez.
“SCONTRO” ITALO-SPAGNOLO AL MONDIALE DI MOTOCICLISMO, DOPO IL CALCIO DI ROSSI A MARQUEZ LA STAMPA SPAGNOLA DURA CON IL CAMPIONE ITALIANO VALENTINO ROSSI, MA NON TUTTI LO CROCIFIGGONO, ". Non c’è un giornale, italiano o spagnolo che sia, che non abbia pubblicato la notizia dell’incidente di oggi al Gran Premio di motociclismo in Malesia, con il calcio di Valentino Rossi allo spagnolo Marc Marquez. L’incidente fra i due piloti è stata la notizia sportiva più dibattuta della domenica sportiva. Anche la vittoria dello spagnolo Pedrosa è passata in secondo piano. I giornali italiani (non tutti) si schierano con Rossi affermando che è stato provocato dallo spagnolo. I giornali spagnoli invece sparano sul nove volte campione del mondo (molto amato in Spagna), sottolineando la sua caduta di stile e “la fine di un idolo”. Dopo una settimana tesa in cui Valentino Rossi aveva parlato di un complotto dello spagnolo Marc Marquez contro di lui, lo scontro si è spostato sulla pista di Sepang. Durante un duello con continui sorpassi da brividi fra i due campioni, l’italiano ha dato un calcio allo spagnolo facendolo cadere e andare fuori pista. Per il gesto Valentino Rossi è stato punito con 3 punti e partirà, fra due settimane, in ultima posizione nel GP di Valencia. A differenza di quello che si può pensare, anche in Spagna (dove Valentino Rossi è molto amato), in tanti hanno, se non giustificato, per lo meno relativizzato il gesto di Rossi. Questo però si vede solo in alcuni commenti ai vari articoli di giornale, che sono invece abbastanza impietosi. Fra i commenti si trovano sia forti critiche all’italiano, sia commenti di appoggio ed alcune affermazioni del tipo: “state esagerando contro Rossi” o “resterà comunque nella memoria come un grande campione”. La stampa spagnola come dicevamo è però abbastanza dura, e molti giornali spagnoli sottolineano “la fine di un mito”. I più duri con il motociclista italiano sono i giornali sportivi spagnoli più letti, Marca.com e AS. Marca in prima pagina mette una foto in frantumi di un giovane Rossi insieme ad un giovanissimo Marquez (lo spagnolo ha 14 anni meno dell’italiano e da piccolo era un suo fan). Marca sottolinea inoltre sempre in prima pagina gli insulti che Marquez avrebbe ricevuto dopo la gara. Il giornale As non è da meno e in prima pagina dopo il titolo cubitale “Rossi tirò a Marquez!” scrive: “una vergognosa azione dell’italiano che gli costerà la partenza dall’ultimo posto al GP di Valencia”. El Pais giustifica il gesto del pilota italiano con il suo crescente nervosismo: secondo il quotidiano madrileno il tempo passa e Rossi non si sente più il re della pista, il suo primato inizia a vacillare sottratto da nuove figure. Tuttavia il titolo è chiaro: “Rossi dà un calcio al mondiale”. El Mundo è molto più secco e in un articolo intitolato; “Valentino Rossi ensucia su leyenda” afferma che nel suo gesto il campione ha perso tutta la sua aurea, la sua leggenda. “Cayò el mito”, titola un altro articolo sempre di El Mundo. La stampa italiana d’altro canto si schiera con Rossi (non tutta) affermando che è stato ripetutamente provocato da Marquez. Insomma, giustifica la non proprio sportiva azione. Sia la stampa italiana che quella spagnola hanno dato risalto alle reazioni della stampa dell’altro paese. Di seguito l’articolo della Gazzetta dello Sport su come ha reagito la stampa del paese iberico. Poi, invece un articolo di As su come ha reagito quella italiana.
Spagna furibonda con Vale: "Hai macchiato la tua leggenda". Tutti i quotidiani condannano il calcio di Rossi a Marquez. Marca: "Vergognoso". El Mundo: "Nemmeno per un Mondiale vale la pena". As: "Non deve correre a Valencia", scrive Filippo Maria Ricci su “la Gazzetta”. Dopo averlo a lungo adorato, la Spagna tritura il mito Valentino Rossi. È la fine peggiore di una lunga storia d'amore, una storia di passione autentica, senza risparmio, capace di superare il campanilismo nazionale. La Spagna per anni ha preferito il Dottore ai propri campioni (i vari Gibernau, Pedrosa, Lorenzo e inizialmente anche Marquez). Domenica 25 ottobre è la data ufficiale della rottura; oggi, lunedì 26, il giorno dell'ufficializzazione dello strappo a mezzo stampa. Approfittando del fatto che il Madrid ha giocato sabato Marca dedica a Valentino l'intera prima pagina: "Cade un idolo" il titolo, con la celeberrima (e oggi sfruttatissima) foto del Marquez bambino abbracciato all'allora suo idolo Valentino con il vetro in frantumi. "Vergognoso: Rossi butta giù Marquez con un calcio" si legge sulla prima di Marca. E il sommario: "L'italiano macchia la sua leggenda ma riceve una punizione ridicola e potrebbe ancora laurearsi campione a Valencia, dove partirà ultimo". A pagina 2-3 il titolone è "Un calcione al motociclismo", a pagina 3 si torna sulla sanzione decisa ieri a Sepang, definita "Punizione vergognosa". In basso una carrellata di gesti poco nobili: "Entra nella storia dell'infamia" dice Marca citando la testata di Zidane a Materazzi, la gomitata di Tassotti a Luis Enrique al Mondiale '94, l'assalto di Schumacher a Villeneuve del '97 e il morso di Tyson a Holyfield. Sui due principali quotidiani politici, El Pais ed El Mundo, non sono molto più teneri. Valentino è finito in prima pagina su entrambi: "Rossi dà un calcio alla propria leggenda", si legge sul Pais; "Il suo gioco sporco macchia una carriera gloriosa" sul Mundo. Entrambi (così come Marca) usano una grande foto di Valentino a fine gara, sudato, gocciolante, trasfigurato, vecchissimo quasi, e l'accompagnano così: "Il Dottore Maligno" titola El Mundo in italiano, e ancora: "Rossi sporca la propria reputazione buttando giù Marquez. L'italiano ha messo in pericolo l'integrità fisica dello spagnolo". E poi: "Nemmeno per un Mondiale vale la pena". Sul Pais scelgono "La macchia del mito" e proseguono con "Rossi dà un calcio al Mondiale": "Marquez riesce a innervosire il rivale che lo fa cadere ed è punito con l'ultimo posto in griglia a Valencia". Su As ci sono 3 commenti. Angel Nieto dice: "Tutto questo fa male al motociclismo". "Non credo che Valentino possa dormire tranquillo dopo ciò che è successo e magari ora appenderà la tuta al chiodo" la conclusione dell'ex pilota. Se con Nieto prevale il dispiacere per quanto è successo, gli altri due commenti sono a senso unico: "Rossi non deve correre a Valencia" e "Rossi porta vergogna alle moto" i titoli. L'amore tra la Spagna e il Dottore si è schiantato in quella curva malese.
La prensa italiana, unánime: "Márquez lo empezó todo", scrive “Motor As”.
Unanimidad en los diarios italianos, que no se esconden censurarando la maniobra de Valentino. No obstante, defienden que Márquez provocó a Rossi.
Portada de 'La Gazzetta dello Sport' sobre el incidente de Rossi con Márquez.
La prensa italiana se muestra crítica este lunes con la maniobra que protagonizó Valentino Rossi sobre Marc Márquez en el Gran Premio de Malasia, al que tiró de su moto con una patada que ya forma parte de la historia del motociclismo.
De forma mayoritaria, los diarios deportivos transalpinos no esconden su decepción con la acción que protagonizó Valentino y no dudan en reprender a uno de los grandes ídolos de Italia. Sin embargo,esos mismos periódicos coinciden en señalar que Marc Máquez provocó a Rossi antes del encontronazo entre ambos.
'La Gazzetta dello Sport' y 'Tuttosport' coinciden en su titular con un juego de palabras: 'Così non Vale'. 'La Gazzetta' señala que "Valentino pierde la cabeza", pero no duda en afirmar que "empezó Márquez".
'Tuttosport' se muestra igual de crítico con la patada de 'Il Dottore', pero del mismo modo, tiene clara la secuencia de los hechos: "Márquez provoca, Rossi reacciona y lo hace caer.
'Corriere dello Sport' es el menos crítico con Valentino. 'Tormenta mundial', titula, y en su editorial sobre la acción de Sepang afirma que "es demasiado fácil culpar a a Vale".
En líneas generales, todos los medios coinciden en señalar que "en Sepang el que perdió fue el deporte", un sentir que tambien suscriben los diarios de información general de Italia, que se muestran más críticos aún con la maniobra de Rossi y no reparan tanto en si hubo o no provocación por parte de Márquez.
Así, 'Il Corriere della Sera' concede una 'Tarjeta roja para Rossi' y no duda en calificar la carrera de "derrota intelectual" de Valentino, mientras que 'La Repubblica' señala que Rossi "se ha jugado no solo el Mundial, sino su carrera".
MotoGp, il commento. Rossi, non si cade così in un tranello. Non si fa e basta. Poi, certo, si può discutere all’infinito di un mondo che è stufo di sentirsi dire che «senza Valentino la MotoGp non vale niente», che non ne può più di veder celebrare un poster che insegue i ragazzini che lo adoravano e spesso li sorpassa. E che lascia fare un Marc Marquez che gioca sporco. Ma questo solo dopo aver detto chiaro e tondo che Valentino ha commesso un clamoroso errore, cadendo in un trappolone fin troppo evidente. Comunque vada a finire, chiunque vinca, resterà questo alone di amarezza...scrive Stefano Tamburini su “La Repubblica”. Non si fa e basta. Poi, certo, si può discutere all’infinito di un mondo pieno di invidie e miserie umane che è stufo di sentirsi dire che «senza Valentino la MotoGp non vale niente», che non ne può più di veder celebrare un poster che insegue i ragazzini che lo adoravano e spesso li sorpassa. E che lascia fare un Marc Marquez che gioca più che sporco. Ma questo solo dopo aver detto chiaro e tondo che Valentino Rossi è caduto in un colossale tranello, sbagliando tutto ciò che c’era da sbagliare. Bruttissimo episodio durante il Gp di Malesia del Motomondiale. Marc ha fatto passare Lorenzo e poi ha aspettato Valentino per rallentarlo. Ne è nato un duello rusticano fatto di sorpassi e controsorpassi con l’epilogo di un calcione. La sanzione: tre punti in meno sulla patente da pilote e ultima fila a Valencia. Mondiale compromesso. Non si può buttar fuori un avversario o comunque dare l’impressione di averlo fatto per aver accettato una corrida, una bagarre nella quale c’era tutto da perdere. Non si fa così neanche con il più fastidioso e scorretto degli avversari, come nel caso di Marc Marquez. Anche se quello è lì che fa apposta a rallentarti. Il fallo di reazione vale sempre un cartellino rosso e al campione di Tavullia è andata più che bene, perché in un caso come quello di Sepang c’è da vedersi sventolare in faccia una bandiera nera (squalifica immediata) o una penalizzazione (passaggio dai box a velocità ridotta). Vero che dopo sono venuti fuori filmati che alleggeriscono la posizione di Valentino, ma il rischio immediato che potesse andargli peggio c’era e come. E comunque non si può assolutamente sostenere che a scorrettezza si risponde con scorrettezza. Per giunta ammessa dallo stesso Valentino dalla direzione di gara, che non gli ha contestato l’eventuale calcio ma l’allargamento volontario della traiettoria verso l’esterno per ostacolare Marquez. No, questo non si può ammettere e solo dopo averlo messo come punto fermo si può anche cercare di capire perché non ci sia proprio un buon odore nel paddock della MotoGp. Niente che richiami il sudore impregnato nelle tute dei piloti o la puzza di bruciato delle gomme consunte o dei motori surriscaldati. Qualcosa di peggio, che trasforma le corse in rodei, dove c’è chi corre per far perdere qualcun’altro e non per sé. Le accuse di Rossi a Marquez, messe lì a ridosso di questa sfida, avevano fatto pensare a una strategia, un modo per mettere pressione a Jorge Lorenzo, il vero rivale. Invece avevano ben più che un fondamento i riferimenti alla corsa di pochi giorni prima a Phillip Island, con Marquez che rallenta Rossi e poi va a prendere Lorenzo solo all’ultimo giro. A questo punto è più che certo che il giovane astro nascente, una volta fuori dalla corsa mondiale, preferisca veder vincere Lorenzo invece che il Mito che lui sogna un giorno di superare. E che tutto questo rientri in una sorta di crisi da rigetto da mostro sacro. Rossi è ingombrante, ha fatto e farà la storia di questo sport, il suo Mondiale numero 10 a 36 anni suonati blinderebbe per sempre ogni possibile tentativo di rincorsa. Vale paga tutto questo e ora ha di fronte un compito quasi impossibile: una rimontona a Valencia. Comunque vada, sarà un titolo amaro, sia per Rossi sia per Lorenzo, che non si accontenta di avere vita facile ma va a piangere dai direttori di gara per chiedere sanzioni più severe. Campione fra le polemiche il primo, anche se molto più dignitoso del rivale, specie in caso di remuntada e non di sportellata. E campione con l’aiutino sporco l’altro.
Valentino Rossi a Sepang visto dagli editorialisti. Sulla stampa italiana è pressoché unanime la condanna del gesto del pilota di Tavullia che rischia di mettere a repentaglio la conquista del decimo titolo mondiale, scrive “La Repubblica”. Il pasticcio di Valentino Rossi visto dai commentatori dei principali quotidiani italiani. Salvo rare eccezioni, la condanna del gesto del Dottore è unanime. Si va dal «Vale è finito nella trappola di Marquez», al «Non Vale tutto», fino al «Non si può vincere per forza». Analisi certamente confutabili ma serie, fatte con lo spirito di cercare le sfumature e uscire dalla logica del rodeo o da semplicistici sondaggi “ha ragione tizio o ha ragione caio”.
Giacomo Agostini, leggenda del Motomondiale, intervistato dal Corriere della Sera: «Vale è finito nella trappola di Marquez, non doveva fare quelle polemiche pre-gara».
Stefano Tamburini su “La Repubblica”. Non si fa e basta. Poi, certo, si può discutere all’infinito di un mondo che è stufo di sentirsi dire che «senza Valentino la MotoGp non vale niente», che non ne può più di veder celebrare un poster che insegue i ragazzini che lo adoravano e spesso li sorpassa. E che lascia fare un Marc Marquez che gioca sporco. Ma questo solo dopo aver detto chiaro e tondo che Valentino ha commesso un clamoroso errore, cadendo in un trappolone fin troppo evidente. Comunque vada a finire, chiunque vinca, resterà questo alone di amarezza...
Umberto Zapelloni, editorialista della Gazzetta dello Sport: «Non Vale tutto. Non può valere sempre tutto, se vogliamo ancora parlare di sport. Il miglior pilota della storia del Motomondiale è caduto nel trappolone e ha reagito come in una rissa da strada allargando la traiettoria ancor prima del ginocchio. Non doveva farlo, così come Schumacher non avrebbe dovuto buttare fuori pista prima Hill e poi Villeneuve...».
Gabriele Romagnoli, editorialista la Repubblica: «Il Valentino sempre sorridente e lanciato a tutta velocità si cristallizza nella maschera nera che minaccia l’avversario mentre la gamba si alza... Marquez voleva buttare fuori Rossi, Rossi ha buttato fuori Marquez. Su una strada avrebbe vinto lui. Su un circuito ha perso. In un universo di regole interpretabili e giudici imperfetti la legge del più forte non è decisiva...».
Giulia Zonca, inviata della Stampa: «Il buio oltre il talento. Il calcio di Valentino, come la testata di Zidane, come il morso di Tyson: c’è un legame tra queste reazioni stizzite, assurde e infantili, a dispetto degli sport diversi e dei campioni così differenti fra loro... ma in un attimo la perfezione che pareva a un passo è evaporata. E si è spenta la luce».
Giorgio Ursicino (Il Messaggero): «Non si può vincere per forza. Nemmeno i grandi campioni hanno il diritto di farlo. A Sepang Rossi cade proprio su quello che doveva essere il suo punto di forza...».
Se in Italia c'è qualcuno che in qualche modo giustifica la ginocchiata di Valentino a Marquez, in Spagna sono tutti d'accordo: il comportamento del Dottore è stato "Vergognoso". E sui social c'è chi paragona il "calcio" alla gomitata mondiale di Tassotti a Luis Enrique, scrive “la Repubblica”. Così come in Italia anche in Spagna sono pochissimi i quotidiani, sportivi o meno, che il lunedì successivo al Gran Premio di Malesia di MotoGP non mettono in prima pagina Valentino Rossi. Se però in Italia qualcuno cerca di giustificare il gesto del "Dottore" da questa parte della catena dei Pirenei sono tutti d'accordo: "L'azione di Vale è una vergogna". Il più duro tra i giornali sportivi è Marca, che, nonostante la tripletta di Luis Suarez all'Eibar, per una volta si dimentica del calcio e titola a tutta pagina "Cade un idolo", accompagnato da una foto di Rossi e un Marquez giovanissimo. "Vergognoso - insiste - Rifila un calcio a Marquez. L'italiano macchia la sua leggenda ma riceve una sanzione ridotta e potrebbe ancora essere campione a Valencia". Il quotidiano AS, pur preferendo mettere a piena pagina il salvatore del Real Madrid, il portiere Keylor Navas, non usa mezze misure strillando "Rossi butta giù Marquez!". Che il contatto tra Valentino e Marquez sia un "caso" nazionale lo si evince soprattutto guardando i quotidiani che non si occupano solo di sport. Da El Mundo a La Vanguardia sono pochissimi quelli che non commentano il fatto in prima pagina. "Rossi dà una calcio alla sua leggenda." scrive El Pais; "Rossi prende a calci la sua eredità" spiega La Razon; "Il gioco sporco di Rossi offusca la sua gloriosa carriera," è il commento perentorio de El Mundo. E lo stesso copione è possibile leggerlo sui quotidiani regionali: "Un calcio e addio al mito di Rossi," titolo EL Correo basco; per La Voz de Galicia si è trattato di "un calcio senza punizione, "Rossi gioca sporco," è il commento che accompagna la foto del contatto sulla prima pagina dell'edizione in catalano de La Vanguardia. I quotidiani sportivi catalani, naturalmente, scendono in campo a difesa dell'idolo di casa. "L'italiano perde la testa e butta fuori a calci Marquez!" scrive Mundo Deportivo, mentre Sport si sbilancia ancora di più titolando "Scandalo Mondiale!" sottolineando che "Valentino ha fatto cadere Marc," e riprendendo le parole di Marquez a fine gara: "Mi ha dato un calcio, Rossi ha perso il mio rispetto". La vera rabbia degli spagnoli nei confronti di Valentino Rossi, comunque, la si può trovare nei commenti che i "tifosi" hanno scritto sui vari social, dove oltre ai numerosi commenti ingiuriosi si trovano paragoni sportivi che poco hanno a che vedere con l'accaduto. C'è chi trova similitudini tra il "calcio" di Valentino e quello in stile kung fu rifilato dall'olandese De Jong a Xabi Alonso nella finale del Mondiale del 2010; chi ritiene che per il Motomondiale rappresenta quel che è stata la testata di Zidane a Materazzi nella finale di Germania 2006; e infine c'è chi ricorda che l'azione di Valentino è tipica degli italiani che non sanno perdere, ricordando la gomitata di Tassotti a Luis Enrique nel Mondiale statunitense. Ma quella gomitata per gli spagnoli è un sassolino che ancora non riescono a togliersi dalla scarpa. Se Valentino dovesse decidere di correre a Valencia, lui stesso ha detto che deve pensarci, già ha un'idea di ciò che lo aspetta.
Nessuno degli scribacchini, però, si è degnato di conoscere la verità esaltando la realtà.
"Tre anni fa me l'ha detto. Ora ve lo posso svelare. Lo odia. ‘Ma tu non hai idea di che finto buono che è!’ e io gli dissi 'Vale ma sei sicuro? Credimi'. Lo ha sempre odiato e quello che pensava 3 anni fa era la verità", rivela Carlo Pernat. Il manager che lanciò Valentino Rossi nel lontano 1994 e ad oggi l'attuale responsabile relazioni esterne del Team Italia ha svelato a Tutti Convocati su Radio24, quelli che per lui sono i veri rapporti tra Valentino Rossi e Marc Marquez. Rossi a quanto pare aveva fiutato da tempo la rivalità per nulla sana che il pilota spagnolo nutriva nei suoi confronti. La tesi del complotto contro il Dottore è dunque sempre più reale.
Loris Reggiani umilia Marca Marquez: "Mi fai schifo, ecco la prove che dimostra che corri solo per far perdere Valentino Rossi", scrive “Libero Quotidiano”. Marc Marquez umiliato. Anzi, "mi fai schifo". Queste le parole, pesantissime, di Loris Reggiani, ex pilota e decano del motociclismo italiano. Reggiani, in un lungo intervento che vi riproponiamo integralmente qui sotto, ricostruisce l'intera vicenda che ha visto contrapposti Marc Marquez e Valentino Rossi. Spiega che lo spagnolo gli era simpatico, davvero simpatico, lo considerava l'erede del Dottore. Ma dopo la gara in Malesia è cambiato tutto. Spiega anche che quando Rossi, per la prima volta, aveva parlato della polpetta spagnola - "Marquez vuole far vincere il titolo a Lorenzo" - aveva pensato che il Dottore fosse impazzito, che non riuscisse a reggere la tensione. Poi, però, dopo la gara di Sepang, quando a tutti (figurarsi a un pilota come lui) era chiaro che Marquez gareggiava solo e soltanto contro Rossi, un dubbio gli è venuto. Vuoi vedere che il Dottore aveva ragione? E per scoprirlo, quale miglior metodo di un approccio scientifico? Semplice, nessuno. Così Reggiani - e vi rimandiamo alla lettura del lungo post che riportiamo integramente - ha scaricato i tempi e gli intertempi di tutti i giri della prima gara incriminata, quella in Australia, a Philip Island, quella in cui Marquez dopo aver fatto da tappo a Rossi ha battuto Lorenzo all'ultimo giro, in cui ha recuperato un distacco quantomeno sospetto. La scoperta di Reggiani è inquietante: in breve, quando era davanti a Rossi, i suoi tempi salivano in media di un secondo. Appena il Vale lo sorpassava, come per incanto, accelerava. Ma la scoperta ancor più inquietante riguarda ciò che è accaduto all'ultimo giro con Lorenzo. Leggere (e guardare le cifre) per credere. Di seguito l'intervento di Loris Reggiani.
Mentre guardavo il GP di Australia pensavo: oggi per la prima volta in tanti anni, Valentino non è lucido in gara, continua a sorpassare Marquez e fargli perdere tempo, mentre sarebbe meglio stargli dietro e seguirlo per andare a recuperare, perché Marc è l’unico che possa farlo. Poi ho sentito Rossi che in conferenza stampa del giovedì di Malesia dice quelle cose su un ipotetico aiuto di Marquez a Lorenzo, e ho pensato subito che avesse completamente perso la testa. Però ho anche pensato: se fosse come penso io, Valentino sarebbe TROPPO pazzo, e allora ho cominciato a rivivere la gara di Phillip Island nella memoria con più malizia e ho iniziato ad avere dei dubbi, su Marquez. Ho deciso di provare a togliermi i dubbi, sono andato sul sito della motoGP: e ho stampato tutti i tempi di tutti i giri di tutti i piloti, compresi gli intertempi di ogni giro (Risultati & Statistiche > 16.Pramac Australian – Phillip Island > MotoGP > RACE > Analysis) e col foglio stampato in mano ho riguardato la registrazione della gara. E’ facile, potete farlo tutti. Non potevo credere a quello che vedevo, per essere sicuro l’ho guardata 2 volte. Marquez rallentava fino anche a più di 1 secondo al giro quando era davanti a Rossi e accelerava per sorpassarlo subito quando era dietro. Ha fatto di tutto per difendere Lorenzo da Rossi e da Iannone, poi li ha frenati un paio di volte fino a fargli perdere più di 1 secondo al penultimo giro e ha poi accelerato all’ultimo di 1 secondo, fino a raggiungere e superare, molto facilmente, Lorenzo. C’è altro, Lorenzo negli ultimi 20 giri ha SEMPRE girato super costante tra 1’29,8 e 1’29,9, tranne, guardacaso, l’ultimo giro, nel quale ha rallentato di quasi mezzo secondo e Marquez l’ha passato come fosse un doppiato, senza opporre nessuna resistenza. Chiunque abbia corso in moto sa benissimo che queste cose non succedono, certe differenze da un giro all’altro non sono per niente normali. Poi abbiamo assistito allo squallido teatrino di Marquez in Malesia, dopo che 2 giorni prima aveva dichiarato che era sorpreso dalle parole di Valentino e che non si sarebbe MAI messo in mezzo a una faccenda tra altri due piloti. Che falso, nemmeno il coraggio di dire quello che pensa veramente. Avevo una enorme stima e simpatia per Marquez fino a ieri, da oggi lo considero un poveretto, un bambino delle scuole elementari che fa i dispetti al compagno che gli sta antipatico. Solo che qua si gioca con la vita. Avevo criticato Valentino ad Assen, la sua manovra per vincere quella gara non mi era piaciuta, da pilota sapevo che era stata un po’… sporca. Non avevo condiviso neanche le dichiarazioni di Valentino in quell’occasione, quando in qualche modo, secondo me, aveva un po’ deriso il rivale. Mentre in Argentina no, lì credo che nessuno aveva cercato il contatto ed era stato solo un fortuito incrocio di traiettorie sfortunato per Marc. Il mio pensiero è che il catalano si sia molto arrabbiato per quei 2 episodi e che, una volta matematicamente fuori alla lotta per il titolo, abbia deciso che avrebbe fatto di tutto per far perdere il mondiale a Rossi. In queste due gare l’ha ampiamente dimostrato, e ha messo in scena due delle pagine più antisportive che abbia mai visto da quando seguo questo sport. Una condotta di gara come la sua la accetto già poco se ci si sta giocando il PROPRIO mondiale, ma per quello di un altro proprio no, mi fa schifo! E la cosa ancora peggiore, è che Marquez queste cose non le fa per far vincere qualcuno, ma per far perdere qualcun'altro."
Rossi-Lorenzo-Marquez, la storia si ripete 25 anni dopo...Nel 1990 gli italiani si allearono contro Spaan per far vincere il titolo della 125 al giovane Capirossi, scrive Alberto Gasparri il 27 Ottobre 2015 su “Sport Mediaset”. "Sì, ma Marquez dovrebbe solo pensare a fare la sua gara, senza ficcare il naso nel duello tra Rossi e Lorenzo per favorire Jorge". E' questa la giustificazione di massa, che novelli esperti di motociclismo e lealtà sportiva hanno sbandierato per difendere il colpo di geniale follia di Valentino. Premesso che il pesarese ha fatto ciò che chiunque di noi al suo posto avrebbe voluto, liberarsi di un fastidio ad ogni costo, non si può condannare a prescindere Marc per il suo agire. Ce lo insegna la storia. E si sa, nello sport come nella vita, chi non conosce il passato non può capire il presente. La pagina che Marquez ha scritto a Sepang (e secondo qualcuno anche in Australia) è già stata letta, moltiplicata per tre, cinque lustri fa. Eravamo nel 1990 e un ragazzino prodigio stava per diventare il più giovane campione del mondo di sempre. Quel pilota 17enne si chiamava Loris Capirossi, arrivato dal nulla o quasi, ma capace di giocarsi il titolo della 125 all'ultima gara. A Phillip Island Capirossi ci arrivò da secondo in classifica tra il tedesco Prein e l'olandese Spaan, tutti racchiusi in soli 9 punti. In gara Prein uscì subito di scena e allora la lotta per il titolo si restrinse a un duello tra Capirossi e Spaan. A quest'ultimo bastava vincere la gara (o chiudere davanti al rivale) per conquistare il numero 1, ma non aveva fatto i conti con Casanova, Romboni e Gresini (allora esperto compagno di squadra di Loris), che decisero a tavolino di allearsi per aiutare il giovane connazionale a conquistare GP e campionato. Con Capirossi al comando, alle sue spalle i tre italiani fecero di tutto per rallentare e ostacolare il povero Spaan, che a un certo punto perse la brocca e sferrò un pugno in piena velocità proprio a Gresini. Insomma, se oggi Rossi ha a che fare "soltanto" con il terzo incomodo Marquez, 25 anni fa Spaan dovette guardarsi da un terzetto di "rompiscatole", che aveva il solo obiettivo di mandare in frantumi il suo sogno iridato e favorire un loro connazionale. Il piano tricolore andò in porto e il giovane Capirex vinse con una manciata di decimi di vantaggio sui "guardaspalle" Casanova e Romboni, con Spaan quarto e Gresini quinto, uno in scia all'altro. Il povero Hans andò su tutte le furie, ma la direzione gara considerò lecito il comportamento dei nostri, che frenarono sì l'olandese, ma nei limiti del regolamento. Esattamente come Marquez in Malesia. "Ma quella era l'ultima gara", obietterà qualcuno. Vero, ma questo è peggio perché si negava a Spaan la possibilità di rimediare. Difficile che lo spagnolo conosca questo episodio di storia motociclistica, di certo la sua azione non è una novità sulle piste del Motomondiale. Cosa lo abbia spinto a comportarsi così, ancora non lo ha detto, ma non è difficile immaginarne il motivo. Vuole vendicare gli sgarri subiti (secondo lui) proprio da Rossi in questa stagione (leggi i contatti in Argentina e Olanda) e soprattutto evitare che Valentino aggiunga un altro tassello alla sua fenomenale carriera. Perché l'intento di Marquez è quello di battere i record del "Dottore" e far vincere Lorenzo, uno che in patria gli sarà sempre secondo per popolarità, è uno dei modi per perseguire il suo obiettivo. O forse preferisce solo che a vincere sia un altro spagnolo. Come gli italiani nel 1990...
Lorenzo, pollice verso per Rossi sul podio a Sepang. Un video ripreso da uno spettatore immortala lo spagnolo che invita i presenti a fischiare il Dottore. Alta tensione sul podio a Sepang dopo lo scontro in pista tra Marquez e Rossi. Lorenzo, visibilmente irritato per quanto accaduto, non nasconde il suo disappunto e durante la premiazione del Dottore mostra il pollice verso al pubblico, invitando i presenti a fischiare Valentino. Tutto sotto l'obiettivo dei telefonini che hanno ripreso lo sfogo dello spagnolo. La patetica sceneggiata di Jorge Lorenzo dopo la gara di Sepang non è passata inosservata in Yamaha. Lo spagnolo che urla chiedendo la squalifica fuori dalla direzione gara, le lamentele per la penalità troppo poco severa, gli insulti a Valentino Rossi non sono stati digeriti dai vertici del team. Ma soprattutto Lin Jarvis, manager director Yamaha, non ha tollerato il fatto che Lorenzo, de facto, abbia contestato la decisione dei vertici della sua squadra, contestando pubblicamente il ricorso contro la penalizzazione. Tanto che, si sussurra, potrebbero anche essere visti i rapporti contrattuali nel 2016: Lorenzo via dalla Yamaha? Possibile.
Il "Patto di Andorra" per far perdere Valentino. Un retroscena di Repubblica svela come i due spagnoli si sarebbero incontrati nel principato tra i Pirenei per ordire una trama ai danni del collega pesarese. Che ora accusano di antisportività..., scrive Ivan Francese Martedì 27/10/2015 su “Il Giornale”. Un accordo segreto, un patto indicibile tra Marc Marquez e Jorge Lorenzo per far "cadere" - metaforicamente, per carità - Valentino Rossi e far così sfumare il sogno mondiale. Il cosiddetto "Patto di Andorra" sarebbe una sorta di alleanza tra i due spagnoli ai danni dell'italiano, svelata oggi in un retroscena di La Repubblica. Che aggiunge anche come sia lo stesso Rossi ad essere certo dell'esistenza di questo accordo: "Me lo avevano detto, ma non ci volevo credere", si era lasciato sfuggire giovedì scorso. Poi c'è stata la domenica, la gara, il patatrac. E un'altra insinuazione, mormorata a mezza voce ma molto significativa: "Forse si sono incontrati prima della tripla". Repubblica fornisce addirittura i dettagli. Marquez e Lorenzo si sarebbero incontrati nel principato di Andorra, appena prima del Gran Premio di Aragona, che in effetti si svolge non lontano. Rimanevano da correre le gare in Giappone, Australia e Malesia, prima della passerella finale di Valencia. Lorenzo sarebbe stato molto preoccupato: si trattava di circuiti congeniali all'italiano, che si sarebbe potuto esprimere al meglio. Quindi si sarebbe recato nel principato tra i Pirenei, dove Marquez è solito allenarsi. Lì, dove sarebbe arrivato insieme al suo manager Albert Valera, sarebbe avvenuto il sodalizio segreto. L'indiscrezione sarebbe arrivata fino a Rossi, che però non ci avrebbe nemmeno prestato attenzione. Troppo assurdo, troppo antisportivo. Da uno come Marquez poi, che era sempre stato un suo fan, fin da bambino. Gli indizi, però, si sommano: in Australia Marquez gli fa perdere tempo, durante le qualifiche del Gp della Malesia sembra volersi mettere con insistenza tra il pesarese e Jorge Lorenzo. Quasi a voler dare una mano al connazionale sulla strada verso il mondiale. Infine, dopo la gara di domenica, le parole che lasciano sgomenti: "Lorenzo che dopo l’incidente chiede la mia squalifica, conferma tutto ciò che pensavo. E dire che me lo avevano detto, ma non ci volevo credere."
Il patto di Andorra. L'alleanza tra Marquez e Lorenzo per far perdere il titolo a Valentino Rossi, scritto da "La Repubblica" e riportato da "L'huffingtonpost.it". Valentino Rossi è un veterano della MotoGP, nei suoi vent'anni di carriera ha vinto nove titolo mondiali, ma non senza nemici. Quelli che in pista sono i rivali non possono essere amici una volta tolto il casco e la tuta. Sono e restano rivali, anche quando si tratta di uno dei più accaniti fan, uno dei tanti bambini cresciuto col mito di "The Doctor", ma non c'è spazio nemmeno per loro sulla lista degli amici. Il Campionato della MotoGP sembra essersi trasformato in un triangolo amoroso, per non definirlo un vero e proprio piano di guerra. Il quotidiano La Repubblica riporta di un retroscena al quale Valentino Rossi non voleva credere: un'alleanza tra Marc Marquez, suo sfegatato fan e Jorge Lorenzo, il suo principale contendente alla conquista del titolo mondiale. Un pensiero nero che poco alla volta lo ha avvelenato. Quando quei fantasmi si sono fatti realtà, qualcosa dentro all’eterno ragazzo si è rotto. Valentino non sospetta che Marquez e Lorenzo abbiano un accordo segreto: ne è fermamente convinto. E lo è da quando anche a lui è arrivata quella chiacchiera. La verità gli stava per scappare dalle labbra giovedì scorso, nella conferenza stampa in cui ha sostenuto che Marc fosse diventato il "primo supporter" di Jorge: "Me lo avevano detto, ma non ci volevo credere". Poi si è fermato. Però dopo la sciagurata gara di domenica, allora sì che gli è scappato, anche se nella confusione non ci ha fatto caso quasi nessuno: "Forse si sono incontrati prima della tripla". Queste le esatte parole pronunciate. E questa che segue è la storia che gli avevano raccontato. Difficile da credere. Marc Marquez dopo aver vinto il suo primo titolo mondiale in MotoGP nel 2013, era stato intervistato da una televisione catalana, in veste del nuovo Campione del Mondo e, mostrando la sua camera, c'erano ancora i poster di Valentino Rossi, i modellini delle sue moto e la prima foto scattata insieme. Com'è possibile che un ammiratore di Rossi decida di remargli contro? Secondo quanto riportato da La Repubblica, i due spagnoli, Marquez e Lorenzo, si sarebbero incontrati ad Andorra, prima del Gran Premio di Aragona per decidere come sarebbero finita la tripletta, le tre gare in Oceania, Giappone, Australia e Malesia: Circuiti dove il pesarese è sempre andato fortissimo. Il suo rivale è preoccupato. La chiacchiera, allora: quel pomeriggio Lorenzo sarebbe in compagnia del suo manager (Albert Valera), quando incontra un vecchio conoscente. Dove? Ad Andorra, il principato dei Pirenei tra Francia e Spagna. Strano: Andorra è il posto dove Marquez passa molto del suo tempo ad allenarsi. Che ci fai qui? Tra una parola e l’altra, Jorge spiega che ha appena visto Marc. Chiede al conoscente la massima discrezione. Ma si sa, come vanno certe cose. Quello mica sta zitto: lo dice a uno — "Però è un segreto, mi raccomando" — che lo sussurra ad un altro, e così via. Sarà poi vero dell’incontro tra i due? E se anche fosse? Mica è proibito. La voce giunge ai fedelissimi di Rossi ma non ci vuol credere. Non pensa che il suo compagno di squadra e secondo in Campionato abbia stretto "il Patto di Andorra" con Marquez che ormai è fuori dalla lotta per il titolo. Poi, vedendo come vanno le cose durante il Gran premio d'Australia, Rossi inizia a cambiare idea: Però a Phillip Island finisce che Marquez gli fa perdere tempo, sembra giocare contro di lui. Per il pesarese, tagliato il traguardo australiano, è solo una brutta sensazione. Ma poi si studia per bene le tabelle con i tempi sul giro, e tutto gli sembra improvvisamente chiaro. Giovedì a Sepang guarda dritto negli occhi Marc, lo attacca: "Devi sapere che io so". Capito? Valentino è convinto di averlo smascherato, lo denuncia pubblicamente: "Speravo che così ci lasciasse in pace a giocarcela, io e Jorge". Invece il sabato pomeriggio delle qualifiche succede che un Lorenzo in difficoltà venga palesemente aiutato da Marquez: il catalano lo ‘tira’, permettendogli di realizzare un buon tempo. "Ma gli è andata di nuovo male: perché — come in Australia — Jorge non andava tanto forte, e all’ultimo l’ho superato". Com'è andata a finire il Gran Premio della Malesia lo sappiamo: Rossi e Marquez se la sono visti in pista regalando agli spettatori due giri da cardiopalma, un sorpasso dietro l'altro senza tregua e poi, quel famoso contatto che la commissione gara ha punito togliendo a Valentino Rossi tre punti dalla patente e la partenza dall'ultima fila durante l'ultimo round di Valencia. L'intervento di Jorge Lorenzo durante il colloquio tra Marquez e Rossi con la commissione gara ha confermato ogni sospetto del "Dottore": "Lorenzo che dopo l’incidente chiede la mia squalifica, conferma tutto ciò che pensavo. E dire che me lo avevano detto, ma non ci volevo credere".
Gli spagnoli tolgono il mondiale a Vale. Rossi punito per una "ginocchiata" a Marquez. Ma un video lo scagiona, scrive Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. Non ha vinto nessuno. Possibile anche a 300 all'ora in una gara in cui vincere è tutto. Perché il vincitore, quello arrivato primo insomma, è l'unico che non conta. Gli altri sono in un mischione di sconfitti, chi più chi meno. La storia la sapete, perché è da ieri mattina che non si parla d'altro: il duello Valentino Rossi-Marc Marquez nella penultima gara del Mondiale di MotoGp. Un duello per la terza posizione, con il primo in lotta per il Mondiale e il secondo in lotta per nulla che non sia il suo orgoglio. Un orgoglio ferito dal fatto che il suo idolo, ovvero Rossi, in settimana l'ha attaccato, gli ha detto che nel gran premio precedente ha fatto il gioco sporco a favore di Lorenzo, spagnolo come lui e rivale di Rossi per il titolo. Marquez va giù, spinto in un corpo a corpo da un ginocchio di Valentino. Voluto? Non voluto? A questo punto saperlo è quasi inutile. Perché questa gara assurda non ha torti né ragioni, ha soltanto sconfitti: Rossi, penalizzato a fine gara, partirà dall'ultima casella in griglia a Valencia, nell'ultimo e decisivo Gp. È praticamente una sentenza di morte sportiva, perché da quella posizione non si può vincere, è complicatissimo arrivare a punti e a Valentino per vincere il Mondiale serve che tra Lorenzo e lui non ce ne siano più di sei di margine. Visto quello che è successo ci si chiederà per sempre se non valesse la pena farlo andare Marquez in quel duello e contenere i danni, magari risuperandolo, magari evitando una mossa al limite, forse scorretta, forse no, forse chissà. Deve essere nero, Vale. È nero perché sa che la traiettoria presa per ostacolare Marquez è sbagliata, ma sa anche che a questo punto aveva ragione: Marc, il ragazzino, correva solo per danneggiarlo. In Australia era una sensazione, in Malesia una certezza: perché l'ostinazione con cui voleva mettere la sua ruota davanti a quella di Rossi, unita alla totale remissione quando l'avversario che lo stava superando era Lorenzo sono più di un sospetto. Marquez sembrava una vittima e basta, a prima vista. Invece ha perso anche lui: correre per se stessi è nobile, è giusto, è sacrosanto. Correre, come ha detto Valentino, «per decidere lui chi deve vincere il Mondiale» è un'altra cosa. Forse, anzi senza forse, c'è un gap generazionale che spiega l'amore diventato rivalità e ora astio: il vecchio (sportivamente) e il ragazzino. Uno erede dell'altro, ma con il veterano che quest'anno l'ha messo sotto. Marquez ha perso perché ha contribuito a rovinare una lotta fantastica. Hanno perso i giudici, anche. La punizione inflitta a Valentino non punisce quella che per loro è una scorrettezza: punisce il Motomondiale. La paura di sembrare non esemplari con l'uomo che ha trasformato la MotoGp in uno sport di massa, l'incubo di sembrare proni alla star li ha portati a una decisione folle, vigliacca, che decide a tavolino il vincitore del Mondiale. Perde la MotoGp, che da questa storia esce male, come i due protagonisti, forse di più. Nel suo ultimo atto rischia di non avere Rossi, che ha minacciato di non andare a Valencia. Bene che vada avrà una corsa inutile, una passerella, una pagliacciata. Quindi vince Lorenzo. In senso stretto sì. Vincerà anche il Mondiale, probabilmente. Ma in questa storia perde anche lui, che, mentre Marquez e Rossi sono dai giudici, entra non invitato e dice la sua, che muore di invidia, che è fortissimo, ma non sa gestire il fatto che Rossi sia la stella anche a 36 anni. Vincerà un Mondiale in cui ha corso benissimo, in cui però non saprà mai quanto ci sia di suo e quanto dei giudici di corsa. Non è come arrivare primo perché sei sicuramente il più veloce.
Scontro al moto Gp: quattro indizi che "scagionano" Rossi. Chi accusa Rossi per di aver "tirato un calcio" a Marquez deve tener a mente diversi aspetti. Per farlo bisogna guardare attentamente le immagini della gara: ecco quattro indizi che "scagionano" il Dottore, scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. Valentino Rossi è finito sul banco degli imputati. A torto. "Abbiamo ascoltato entrambi i piloti, siamo del parere che c'è stata colpa da entrambe le parti - tuona Mike Webb - ma secondo le regole Marquez non ha cercato alcun contatto, quindi non ha infranto alcuna regola, ma riteniamo che il suo comportamento stava infastidendo Rossi che pertanto ha reagito. Purtroppo ha reagito in un modo che va contro le regole". E, per questo, la sanzione ha colpito il pilota della Yamaha per lo scontro con Marc Marquez al Gran Premio di Malesia."La direzione ha imposto - spiega il direttore di gara della MotoGp - tre punti penalità a Valentino Rossi per la guida irresponsabile che ha deliberatamente provocato contatto". Ma qualcosa non torna. Anzi, ci sono ben quattro indizi che "scagionano" completamente il Dottore. L'accusa del direttore di gara della MotoGp è chiara: "È andato deliberatamente largo in curva, cercando di portare l'altro pilota fuori traiettoria". "Il risultato è stato l'incidente che abbiamo visto - aggiunge Webb - si tratta quindi di guida e per questo abbiamo imposto a Rossi tre punti penalità. Sembrava di star assistendo a una bella gara, purtroppo però l'epilogo ne è stata questa controversia". Ma la verità è un'altra. Perché la decisione del direttore di gara non tiene conto di molti punti ancora controversi che danno ragione al Dottore. "Con questa sanzione ha vinto Marquez. Il suo piano di farmi perdere il campionato è andato a buon fine, non penso che sia una decisione giusta perché non lo volevo far cadere - accusa Rossi senza peli sulla lingua - è un epilogo brutto per tutti. Sarebbe stato bello giocarsela con Lorenzo, però Marquez si è messo in testa che doveva decidere lui chi vinceva il titolo. Nella storia di questo sport abbiamo viste poche volte cose del genere, Marquez ha fatto davvero una brutta figura". Chi accusa Rossi per di aver "tirato un calcio" a Marquez deve tener a mente diversi aspetti. Per farlo bisogna guardare attentamente le immagini della gara. "Oggi Marquez ha dimostrato che tutto quello che avevo detto in conferenza stampa era tutto vero - accusa il 36enne pesarese - speravo che smascherandolo fosse un avvertimento abbastanza chiaro e speravo si comportasse in maniere diversa. Invece oggi ha fatto anche peggio che a Phillip Island". Come spiega anche il Sole 24Ore, ci sono almeno quattro indizi che danno ragione al Dottore: Nella sanzione comminata a Rossi il direttore di gara della MotoGp accusa Rossi di aver" deliberatamente portato l’avversario fuori traiettoria". Non parla, dunque, di calci. I toni sono a tal punto vaghi da non spiegare cosa sia successo esattamente in pista. "Nel contatto io non volevo farlo cadere, non era assolutamente quella la mia intenzione - ammette lo stesso Rossi - volevo solo cercare di portarlo fuori traiettoria facendogli perdere un pò di tempo. Volevo cercare di fuggire perché mi stava facendo un attacco scorretto e mi ha portato allo sfinimento". "Non è vero che gli ho dato un calcio, ci mancherebbe e dalle immagini dall’elicottero si vede benissimo - denuncia il Dottore - qui è caduto perché curvando mi ha toccato con il manubrio sulla coscia sinistra. Mi ha toccato la gamba e il piede mi è scivolato dalla pedana, se vedete le immagini quando mi scivola il piede dalla pedana lui è già caduto, non gli ho dato un calcio, volevo solo dirgli basta". Basta, infatti, guardare attentamente le immagini riprese dall'elicottero per capire che Marquez è caduto per aver toccato la gamba di Rossi e non per un fantomatico calcio. Nella fotosequenza appare, infatti, chiaro che il pilota spagnolo cade prima che Rossi muova la gamba. Le parole di Rossi al termine della gara dimostrano la sua buona fede: "Marc mi colpisce alla coscia sinistra con il manubrio destro e comincia a scivolare, solo dopo io perdo il piede sinistro dalla pedana. Io volevo solo rallentarlo, non è stato un fallo di reazione. Non volevo farlo cadere. Se gli avessi voluto tirare un calcio l’avrei fatto 40 metri prima quando eravamo attaccati". Mentre le dichiarazioni di Marquez solo molto più velenose. E si limitano ad accusare il pesarese di averlo fatto cadere con "un calcio". C'è poi un dato importante da tener conto. Le MotoGp sono troppo pesanti per essere buttate giù con una semplice "pedata". "Per una questione di pesi - fanno notare gli addetti ai lavori - obiettivamente complicato far cadere una MotoGp con una pedata".
Il video che incastra Marquez: ecco cosa è successo prima della caduta. La rivista cilena PuroMotor.com ha messo insieme tutte le scorrettezze di Marquez contro Rossi nei giri precedenti alla caduta. Ma per lui nessuna sanzione, scrive Giuseppe De Lorenzo su “Il Giornale”. Valentino Rossi è stato provocato. E molto. Mentre tutto il mondo discute su quella immagine singola, sul momento in cui Marquez cade a terra; mentre i colpevolisti assicurano che sia stato il calcio di Valentino Rossi a mandare al tappeto il pilota spagnolo e gli altri si focalizzano sul manubrio della Honda, ora arrivano le immagini che incastrano Marquez. "Lo ha colpito più di una volta sul casco e sul braccio", dicono gli esperti di PuroMotor.com: insomma, anche Marquez avrebbe cercato il contatto. Il quale non solo avrebbe provocato il campione italiano, ma avrebbe commesso anche alcune scorrettezze che però i giudici di gara non hanno sanzionato. la rivista specializzata di moto PuroMotor.com, ha realizzato un video in cui raccoglie tutte le schermaglie che hanno preceduto l'impatto che ha generato la sanzione contro Rossi. La sequenza delle immagini è eloquente. Non c'è dubbio - come ha ammesso anche il direttore di gara del Gp, Mike Webb - che Marquez abbia fatto di tutto per innervosire Rossi. "Secondo le regole - ha detto Webb - Marquez non ha cercato alcun contatto, quindi non ha infranto alcuna regola, ma riteniamo che il suo comportamento stava infastidendo Rossi". Più che infastidendo. Alcune manovre sembrano piuttosto al limite: "spinte" verso l'esterno della pista e chiusure dell'angolo di curva forzate. Rossi aveva tutto il diritto di essere indispettito. E secondo PuroMotor.com, anche la caduta sarebbe stata causata dalla decisione di Marquez di "appoggiare" il peso della moto sul ginocchio di Rossi, generando poi il movimento della gamba che i giudici hanno interpretato come reazione. Ma i dubbi, molti, troppi, rimangono. E rischiano di mandare al vento un mondiale bellissimo.
Una ripresa frontale dimostra come sia il pilota catalano a cambiare traiettoria per andare all'interno contro il Dottore, urtandolo con il casco e provocandone la reazione: centrato alla gamba, l'italiano istintivamente la alza per cercare di allontanare il pericolo. L'appoggio del Coni, Malagò: ''E' cascato nella provocazione''. Renzi gli telefona dal Sudamerica, scrive Massimo Calandri su "La Repubblica". "E' stato lui che prima mi ha colpito alla coscia sinistra, poi ha perso l'equilibrio. Io ho alzato la gamba dalla pedana ma non gli ho dato nessun calcio, non volevo farlo cadere". Valentino giurava la sua innocenza, invitando gli scettici a guardare - "lentamente, un fotogramma dopo l'altro" - il filmato girato dall'elicottero. Ma un altro video dà clamorosamente ragione al pesarese e sbugiarda Marc Marquez. Una ripresa frontale che dimostra come sia il pilota catalano a cambiare traiettoria per andare all'interno contro Rossi, urtandolo con il casco e provocandone la reazione: centrato alla gamba, l'italiano istintivamente la alza per cercare di allontanare il pericolo. Nessun calcio, Vale diceva la verità. La novità rimbalza via facebook grazie a Matteo Campanini, general manager del circuito Tazio Nuvolari di Cervesina (Pavia), che posta il filmato e spiega: "Mai mi sarei aspettato di difendere #VR46, ma visto che di TVCC di pista (le televisioni a circuito chiuso) mi occupo praticamente ogni giorno, ecco la mia ricostruzione", scrive Campanini, general manager del circuito Tazio Nuvolari di Cervesina, in provincia di Pavia, che al termine della sua analisi conferma la versione di Rossi. Il pesarese aveva ammesso un cambiamento di traiettoria nel settimo giro all'altezza della curva 14: "Ho portato fuori Marc e l'ho guardato due volte come per dirgli: "Che cavolo fai? Smettila". Poi all'improvviso mi ha colpito alla coscia sinistra. Credo con la parte destra del suo manubrio, non so. Mi è partita la gamba dalla pedana. Ma non è stato un calcio, non volevo farlo cadere". Nessuna pedata, parola. "E per due motivi. Avrei potuto dargliela 40 metri prima, quando eravamo fianco a fianco, ma non sarebbe servito a nulla: una Motogp è troppo pesante, con un calcio non puoi buttarla giù". E' la stessa spiegazione data alla Race Commission. I tre giudici (Mike Webb, Franco Uncini, Javier Alonso) non hanno squalificato Rossi "perché nel filmato non c'era l'evidenza del calcio", ma gli hanno rifilato 3 punti sulla patente per "guida irresponsabile che ha causato pericolo ad altri". La Yamaha aveva subito appellato la sentenza, però la Federazione internazionale l'ha confermata. "Una decisione pesante, ingiusta. Che mi taglia le gambe definitivamente", ha ribadito il Dottore. "Partendo in fondo alla griglia, posso già dire addio al mondiale". Il filmato che lo scagiona non può essere utilizzato. Non ci saranno altri appelli. Intanto Valentino incassa l'appoggio del Coni: "Valentino è cascato nella provocazione e mi sembra che anche lui lo abbia riconosciuto. C'è una responsabilità da parte sua, però io lo voglio assolutamente difendere e non per un fatto istituzionale: credo che così facendo si sia falsato il Mondiale e questo non lo trovo giusto. Sono particolarmente vicino a Valentino e lo abbraccio forte" le parole di Giovanni Malagò, numero uno dello sport italiano. "Capisco il suo rammarico e la sua rabbia - ha chiarito a margine di un evento legato alla scherma - perché oggettivamente sarebbe un risultato straordinario per lui vincere questo decimo Mondiale dopo una stagione strepitosa. Se potessi dargli un consiglio gli direi invece di partecipare per non dare alibi e soddisfazione alle persone che hanno creato questi problemi". Il pilota ha ricevuto anche la telefonata di Matteo Renzi, che ha parlato con Valentino nel corso della sua giornata a Lima nell'ambito della missione in Sudamerica, come riferito in serata da Palazzo Chigi.
Incidente Sepang, l'on board camera di Marc Marquez: è lo spagnolo a toccare Valentino Rossi, scrive “Libero Quotidiano”. Prosegue la guerra dei video, che alimenta la battaglia tra Marc Marquez e Valentino Rossi, che a Sepang ha vissuto un primo e disastroso epilogo per il pilota italiano. Tra una clip e altra, tra innocentisti e colpevolisti - e mentre la raccolta firme per annullare la penalità al Dottore raggiunge cifre stellari - ecco spuntare l'ultimo video. Una prospettiva fino ad ora mai vista: l'on-board camera dello spagnolo. Nuova prospettiva e ulteriori dubbi: la sensazione che il Vale sia stato "fregato" dai giudici (oltre che provocato in modo bieco in pista, ma questa è una certezza) crescono di giorno in giorno. La manovra, punto per punto - Dall'on-board di Marquez si nota nitidamente il movimento di Rossi, che allarga la gamba. Ma esaminando con attenzione il video, frame per frame, si nota come poco prima della manovra incriminata lo spagnolo rallenti, si faccia passare dal pesarese e subito dopo acceleri follemente per andarlo a riprendere. E qui avviene il fattaccio: Marquez piega ulteriormente, accelera ancora e va a toccare Rossi, che solo a quel punto muove la gamba (non è affatto chiaro se si tratti di un "calcetto" o, piuttosto, del movimento indotto dal contatto; non è chiaro neppure se Marquez "incocci" con la spalla o col casco, ma di sicuro tocca il Dottore). Altre immagini che dimostrano quanto Marquez debba avere la coscienza sporca. Anzi, lurida.
LA PROVA DEL COMPLOTTO. "Marquez voleva fartela pagare". Che cosa ha detto il manager di Marc, scrive Giovanni Ruggiero su “Libero Quotidiano”. È stato facile profeta Valentino Rossi quando lo scorso giovedì in Australia, già prima della gara di Sepang, aveva lanciato qualche frecciata al compagno di squadra della Yamaha, lo spagnolo Jorge Lorenzo, mettendo in mezzo l'avversario della Honda, Marc Marquez, ormai fuori dai giochi per il titolo: "Ormai è chiaro - aveva detto Rossi - Marquez punta non solo a vincere la gara ma anche ad aiutare Lorenzo: Jorge - aveva scherzato amaro - hai un nuovo fan, in pista". Chiamatela solidarietà tra spagnoli, chiamatela anche complotto anti-italiano, sta di fatto che le parole di Rossi si sono ritrovate tutte in quella battaglia colossale al settimo giro in Malesia. Come ricorda Repubblica, sulla pista di Sepang si sono visti tra i soli Rossi e Marquez quindici sorpassi, nove addirittura in un solo giro, un vero e proprio regolamento di conti, con l'unico obiettivo di rallentare il Dottore, mentre Lorenzo e Pedrosa guadagnavano secondi davanti e prendevano il largo. Si potrebbe tirare in ballo anche la reazione dello stesso Lorenzo a fine gara, quando lo spagnolo si è messo a urlare come un matto invocando la squalifica proprio per il suo compagno di squadra. Dopo quello scontro alla curva 14 con Marquez che cade ed è costretto al ritiro, apparentemente spinto da un calcio di Rossi. Ai commissari di gara è sembrato così, anche se lo stesso Vale sostiene che tutti dessero ragione a lui, pur confermandogli la penalità di tre punti sulla patente e la retrocessione all'ultima fila per la gara di Valencia. E poi c'è quella frase detta dal manager di Marquez, Emilio Alzamora, che avrebbe detto chiaramente a Valentino: "Marquez vuole fartela pagare, perché lo hai tolto di mezzo nella corsa al mondiale. Lo sai, è fatto così".
Andrea Iannone: “Marquez, tutto troppo strano. A Rossi dico che non è finita”. L’italiano ha duellato con entrambi in Australia. “Marc era il più veloce, eppure... Aiutare Vale? Non posso”, scrive Matteo Aglio su “La Stampa del 28 ottobre 2015. Rossi ha deciso, sarà a Valencia per tentare di vincere il titolo. Lo ha scritto su Twitter, ringraziando i suoi tifosi per il sostegno («Grazie a tutti per il fantastico supporto, leggervi mi ha aiutato a superare amarezza e incazzatura. Da oggi si lavora per Valencia»). Andrea Iannone era stato uno dei pochi piloti che domenica a Sepang aveva preso le difese di Valentino. Il pilota della Ducati è legato da una lunga amicizia con il Dottore e ieri sul suo profilo Facebook ha pubblicato un’immagine che li mostra abbracciati sul podio del Mugello.
Andrea, perché quella fotografia?
«Non ho mai nascosto che Valentino è una delle persone che stimo di più, sia personalmente sia professionalmente. Questo è un momento difficile per lui, volevo ricordargliene uno bello».
Significa che lo aiuterà a Valencia?
«In tanti sul social network mi hanno chiesto di ostacolare Lorenzo, ma io non ci penso nemmeno. Non volevo alludere a nulla con quella foto, in Spagna penserò solo alla mia gara. Sono un pilota leale e corretto, correre contro Jorge o Marquez sarebbe una caduta di stile».
Non crede nelle alleanze?
«Non nel nostro sport, non voglio pensare che questo modo di fare sia nell’indole di un pilota».
Rossi ha accusato Marquez di averlo ostacolato a Phillip Island. Lei era a duellare con loro: cosa ne pensa?
«Ha giocato con noi, Marc era il più veloce di tutti ma io e Rossi in Australia eravamo più rapidi di Lorenzo. Quando Marquez era davanti i tempi salivano, mentre all’ultimo giro ha fatto il miglior crono della gara. È strano».
Anche a Sepang ha usato la stessa tattica?
«Io non voglio colpevolizzare nessuno e se Marc dice che stava spingendo devo credergli».
Però…
«Però nel warm up aveva fatto registrare tempi incredibili, era il più forte con Pedrosa e più veloce sia di Rossi sia di Lorenzo. Sulla carta poteva vincere. Invece lui e Valentino continuavano a sorpassarsi come fossero all’ultimo giro, ma erano solo all’inizio della gara. Non è qualcosa di consueto».
Perché?
«Perché quando un pilota è più veloce ha due strategie: stare dietro per dare la zampata nel finale, o passare e scappare».
Secondo lei lo ha fatto apposta?
«Non lo so, faccio fatica a capire il comportamento che ha tenuto. Non riesco a credere che un pilota possa adottare certe tattiche, se così fosse mi dispiacerebbe tanto».
L’anno scorso, in Malesia, Marquez la centrò nelle prove libere e lei fu costretto a saltare la gara…
«Mi feci male al braccio, Marc mi fece le sue scuse e io le accettai. Per me è stato solo un episodio isolato. In Moto2 abbiamo fatto tante battaglie e l’ho sempre rispettato, spero che sia lo stesso anche per lui».
Rossi partirà ultimo a Valencia, il titolo è compromesso?
«Non c’è niente di impossibile nella vita. Mi dispiace per lui, in MotoGp la partenza è fondamentale, a volte anche solo una fila in più o in meno può cambiare il volto di una gara».
Ha parlato con Rossi dopo il Gp di Sepang?
«Non ne ho avuto l’occasione, ma vorrei dirgli che nulla è ancora perduto. Da grande campione qual è saprà come affrontare la situazione. Gli auguro di giocarsela con Lorenzo fino alla fine».
MotoGp, Riccardo Cucchi: "Valencia, i piloti d'accordo per far passare subito Valentino Rossi", scrive “Libero Quotidiano”. Il clima nella MotoGp è avvelenato. Anzi, molto più che avvelenato. Dopo il duello in pista tra Marc Marquez e Valentino Rossi e la squalifica del Dottore, i piloti si dividono: chi sta con l'italiano, chi contro. E in questo contesto, quella che pareva una provocazione, rischia di diventare realtà. L'indiscrezione sulla prossima gara di Valencia arriva dal giornalista Rai Riccardo Cucchi: gran parte dei piloti sta col Vale, quella punizione è indigeribile, il Mondiale - con Rossi costretto a partire dall'ultima piazza nella gara decisiva - è falsato. Ed è in questo contesto - secondo quanto riportato da sportfair.it, che riprende l'indiscrezione di Cucchi - che sarebbe maturata la clamorosa decisione: un gruppo di piloti della MotoGp si sarebbe messo d'accordo per far passare subito Rossi fino alle prime posizioni, in modo che poi possa andarsi a giocare il titolo iridato, come meriterebbe, battagliando fino all'ultimo con Jorge Lorenzo. Uno scenario pazzesco, ma assolutamente realistico, e che offre la più precisa "radiografia" dell'atmosfera che si respira ora nel circus delle due ruote.
Paddy Power dalla parte di Valentino Rossi: "In caso di perdita del Mondiale. Gli scommettitori vinceranno lo stesso", scrive “Libero Quotidiano”. Il bookmaker irlandese Paddy Power, con licenza italiana, ha deciso di schierarsi dalla parte di Valentino Rossi, o meglio dalla parte di tutti quelli che avevano scommesso sulla vittoria del decimo titolo Mondiale del Dottore. "Se Valentino Rossi perde il mondiale la tua scommessa sarà comunque vincente", si legge dalle mail inviate in queste ore ai propri utenti. Il meccanismo - "Justice Payout": è questo il nome del "provvedimento tecnico" preso dalla società di scommesse, che tradotto letteralmente in italiano vuol dire "pagamento di giustizia". Una norma tecnica già applicata nei Mondiali del 2014, quando l'Italia perse contro l'Uruguay per le conseguenze del morso (impunito) di Suarez a Chiellini. Anche questa volta Paddy Power ha deciso di premiare in ogni caso gli scommettitori che hanno puntato su Rossi. Scippi - Dopo il contatto a Sepang con Marc Marquez al termine del furioso e insensato duello, la discussa e ingiusta decisione di penalizzare il pilota Yamaha: nell'ultima gara a Valencia partirà dall'ultimo posto. Una stangata che riduce profondamente le possibilità iridate. Una stangate che Paddy Power, al pari dell'Italia, non condivide: chi ha scommesso sul Vale, insomma, non verrà "scippato" dalla direzione gara che ha taroccato il mondiale. Almeno loro si salveranno.
Valentino Rossi. Grinta, simpatia e... che spettacolo, scrive "Biografie on line”. Nato il 16 febbraio 1979, il centauro pesarese Valentino Rossi ha dimostrato un certo feeling per i motori fin dall'età di undici anni quando ha debuttato nel campionato italiano "Sport production" nella categoria 125. Nel 1994, dopo un anno, si è classificato primo in sella alla Cagiva, così come nel 1997, a diciotto anni, è diventato campione mondiale classe 125 con l'Aprilia. Nel 1999 ha vinto il motomondiale classe 250 ed ora domina incontrastato la classe maggiore delle motogp. Valentino Rossi è stato dunque il primo italiano a vincere il Mondiale in tre diverse categorie. Il leggendario Giacomo Agostini, ad esempio, vinse sì ben quindici Mondiali nella sua carriera, ma tutti nelle classi 250 e 500. Rossi invece è il terzo pilota nella storia del Mondiale a trionfare in tre classi diverse. Prima di lui, Phil Read (125, 250 e 500) e Mike "the bike" Hailwood (250, 350 e 500): nomi leggendari della storia del motociclismo. Figlio dell'ex pilota degli anni '70 Graziano Rossi e di Stefania Palma, Valentino è nato a Urbino, è cresciuto a Tavullia (PS), ma ormai risiede a Londra. Il padre Graziano si classificò terzo al campionato mondiale 250 nel 1979 su una Morbidelli. Il piccolo Rossi ha quindi iniziato a seguire le gare del campionato del mondo ancora prima di camminare e di stare in equilibrio su due ruote. Le sue prime esperienze agonistiche sono a quattro ruote: il 25 aprile 1990 il giovanissimo Rossi vince la sua prima gara di go-kart. I costi per intraprendere uno sport del genere erano però troppo elevati e così, di comune accordo con il padre, decide di passare alle minimoto. E' la scelta vincente. Il giovane pilota di Tavullia comincia a vincere le gare e campionati a ripetizione, e nel 1993, sulla pista di Magione, debutta in sella a una moto vera, una Cagiva 125. Campione italiano della Sport Production nel 1994, l'anno successivo conquista il titolo nazionale della 125 (a sedici anni: il più giovane della storia) e si piazza terzo nel campionato europeo della stessa categoria. Il 1996 è l'anno dell'esordio mondiale: arriva alla prima vittoria (GP Repubblica Ceca a Brno), preceduta dalla prima pole position. Da qui in poi possiamo osservare un dato curioso: Valentino Rossi ha sempre vinto il Mondiale negli anni dispari e sempre nella seconda stagione in una classe. Se dovessimo quindi stilare una tabella sinottica, risulterebbero questi dati: vittorie sulla 125 nel 1997 e sulla 250 nel 1999, mentre nel 2001 abbiamo la vittoria nella classe 500. A rigor di cronaca, comunque, bisogna dire che è nel 1997 che esplode definitivamente il fenomeno Rossi sul piano mediatico, grazie senz'altro ai suoi successi ma anche alla capacità innata di saper conquistare il pubblico, ad esempio con i suoi incredibili modi di festeggiare ogni successo. Travestimenti, prese in giro, scherzi che entrano nel mondo delle corse. In tutti i circuiti gli appassionati aspettano l'ennesima "trovata" del pilota di Tavullia, che a seconda delle circostanze, si trasforma in Robin Hood, Superman, o gladiatore. Per non parlare poi della sua eterna rivalità con l'altro campionissimo Max Biaggi, stella inizialmente oscurata dall'astro Rossi. Una rivalità che ha dato origine a numerosi e spiacevoli dissapori. In conclusione, Rossi ha finora disputato un numero incredibile di gran premi arrivando a vincerne circa il 50% e conquistando un altrettanto notevole numero di pole position. Valentino a 22 anni e 10 mesi, è stato il quarto più giovane campione mondiale della storia, dopo Freddie Spencer (il più "verde" in assoluto, con 21 anni, 7 mesi e 14 giorni), Mike Hailwood e John Surtees. Nessuno però ha mai vinto tanti Gran premi prima di compiere i ventitrè anni: 37. Il più vicino a realizzare questo record è Loris Capirossi che, da Under 23, conquistò ben quindici successi. Il 12 ottobre 2003 è stata una giornata storica per il mondo dei motori e per l'orgoglio italiano: mentre nella F1 la Ferrari entrava nella storia vincendo il suo quinto titolo mondiale "costruttori" consecutivo (e Michael Schumacher entrava nella storia vincendo il suo sesto titolo mondiale), Valentino - 24 anni - saliva sul gradino più alto del podio festeggiando il suo quinto titolo mondiale, il terzo consecutivo nella classe maggiore, proiettandosi con merito, come una leggenda vivente, tra i più grandi di sempre. Ma il fenomenale Valentino "The Doctor" Rossi, non finisce di stupire: nel 2004, non senza polemiche e dubbi sul suo futuro, passa alla Yamaha. Sin dalle prime gare si dimostra competitivo: qualcuno si stupisce, altri credono sia tutto normale. Lottando a denti stretti di volta in volta con Biaggi o con Sete Gibernau, Rossi dimostra prepotentemente le sue doti fenomenali di grinta e concentrazione, arrivando a vincere il mondiale con una gara di anticipo. Noto per le sue simpatiche trovate (scenette in pista, travestimenti, magliette), per l'occasione, a fine gara Valentino indossava casco e maglietta con un messaggio essenziale quanto efficace - scritto nero su bianco - che la dice lunga su ciò che rappresentano le emozioni che questo grande campione sa trasmettere agli appassionati: "che spettacolo". Il "dottor Rossi" è diventato veramente dottore il 31 maggio 2005, quando gli è stata conferita la laurea ad honorem in 'Comunicazione e pubblicità per le organizzazioni', dalla facoltà di Sociologia dell'Università di Urbino "Carlo Bo". La stagione 2005 inizia alla grande: gli avversari si susseguono, Valentino lotta ad ogni gara e gli importa solo di vincere. A metà campionato è primo in classifica e ha già fatto il vuoto dietro di sè. Valentino sembra dover superare solo se stesso e le leggende che lo hanno preceduto: prima della pausa estiva, a fine luglio, la vittoria del GP di Germania è la numero 76. Valentino Rossi eguaglia così il record di Mike Hailwood (scomparso nel 1981, quando Valentino aveva solo due anni). Con ironia e grande rispetto del passato Valentino sale sul podio con una bandiera che riporta il messaggio "Hailwood: 76 - Rossi: 76 - I'm sorry Mike". La vittoria di Sepang (Malaysia) è la numero 78 e incorona Valentino per la settima volta campione del mondo. La stagione 2005-2006 si conclude - per la prima volta da quando esistono le MotoGP - con Valentino al secondo posto. Sarà l'americano Nicky Hayden a laurearsi campione del mondo all'ultima gara. Dopo un'altalenante stagione, nel 2007 Rossi si classifica al terzo posto finale, dietro a Casey Stoner e Dani Pedrosa. Torna a vincere e lottare per il mondiale nel 2008: a maggio a Le Mans ottiene la 90ma vittoria in carriera, raggiungendo lo spagnolo Angel Nieto: davanti a loro in questa speciale classifica c'è solo Giacomo Agostini con 122 gare vinte. Alla fine di agosto a Misano Adriatico, eguaglia Agostini con 68 vittorie in Top Class (superandolo poi nelle gare immediatamente successive). Il 28 settembre 2008 a Motegi (Giappone) Valentino Rossi vince e si laurea campione del mondo per l'ottava volta in carriera. Nel giugno del 2009 ad Assen, in Olanda, raggiunge la considerevole quota di 100 vittorie in carriera, 40 con la Yamaha. A ottobre conquista il nono Campionato Mondiale con una gara di anticipo, a Sepang (Malesia). Il 2010, ultimo anno in Yamaha, prima di passare all'italiana Ducati vede Valentino Rossi sempre tra i protagonisti: un incidente lo tiene lontano poche settimane dalle gare, tempo sufficiente per allontanarsi dalla vetta della classifica, che verrà vinta alla fine del campionato dallo spagnolo Jorge Lorenzo, suo giovane compagno di scuderia.
Rossi come Maradona: i numeri di una leggenda. Valentino ha vinto in Argentina la sua gara numero 110 nel motomondiale. Le sue statistiche sono assurde e il suo mito, come quello di Diego, è già realtà, scrive Enrico Turcato su “Wired”. Il nome è lo stesso di uno degli stilisti italiani più apprezzati nel Mondo. Il cognome è comune nella nostra penisola, ma tra tutti il più conosciuto resta il cantautore, chiamato Vasco, che ha venduto oltre 35 milioni di dischi. Se però ad ogni latitudine del globo, dall’australiana Philip Island all’argentina Termas de Río Hondo, si pronuncia, anche separatamente, “Valentino” o “Rossi”, l’immediato riferimento è uno solo. “The Doctor”, “Il Dottore”, “VR46”, la leggenda delle moto che da ben 19 anni esalta appassionanti (e non) del mondo delle due ruote. Un’eccellenza italiana, un esempio del “made in Italy” vincente e unico, capace ancora a 36 anni di “far salire in piedi sul divano” (come dice il più noto telecronista di MotoGp) e di estasiare un popolo che non è mai stanco di esaltarlo e idolatrarlo. Rossi c’è, c’è sempre, anche dopo l’ennesimo capolavoro in Argentina, che lo ha saldato in testa alla classifica iridata e gli ha dato ancor maggior consapevolezza nella rincorsa al decimo titolo. Le sue statistiche incredibili vanno continuamente aggiornate. Anche perché il suo obiettivo, dopo le stupende soddisfazioni ottenute in carriera, resta principalmente uno: superare Giacomo Agostini (122 o 123 vittorie, a seconda che si conti quella ottenuta in 750) come pilota con il maggior numero di successi nel motomondiale. Vale, con la prodezza di domenica, ha raggiunto quota 110. Il mirino è puntato. Il finale di gara, nel circuito vicino a Buenos Aires, e il duello (vinto, as usual) con Marc Marquez, ha riportato alla memoria alcune delle tante “battaglie” senza esclusioni di colpe vinte dal Dottore nella sua lunga carriera motociclistica. Nel 2004 a Welkom (Sudafrica) contro Biaggi, nel 2005 a Jerez contro Gibernau, nel 2008 a Laguna Seca contro Stoner. Tre flash memorabili che vanno ad aggiungersi all’epica “guerra d’argentina” contro Marquez. Nei tre precedenti casi, Rossi, ha sempre poi vinto il titolo a fine stagione. Ma, attenzione. Non per casualità: quando lui sente (e ve l’abbiamo scritto più volte) che può giocarsela alla pari con tutti, quando prende quella confidenza e quel feeling con la moto che solo lui sa trovare, Valentino diventa un cannibale. Una sorta di zanzara fastidiosissima, che punge, stuzzica, logora, l’avversario, costringendolo alla caduta o alla resa. Un martello, anche psicologico, che non lascia scampo a nessuno. Un predatore, affamato, che è già consapevole di come finirà. Ecco, perché, il mirino su Giacomo Agostini è puntato da tempo. Valentino ammira il suo idolo e da anni desidera superarlo. Gli mancano 13-14 vittorie, ma il ritmo raggiunto dal Dottore negli ultimi mesi (4 vittorie negli ultimi 9 Gran Premi) permette di ipotizzare calcoli concreti. Con questa andatura, in un paio d’anni, Rossi avrà completato la sua rimonta. Il decimo titolo mondiale, se arriverà, lo porterà nell’Olimpo del motomondiale, in cui per altro già risiede per svariati motivi: la doppia cifra di titoli iridati è stata raggiunta solamente da Angel Nieto (13, nelle classi 50, 80 e 125 però) e da Agostini (15). Erano altri tempi, c’erano meno prove nel Mondiale e la competitività era ridotta. Rossi, per altro, ora si trova a combattere con piloti anche 10-15 anni più giovani, che in un campionato così lungo, vario e impegnativo possono sfruttare energie che Valentino deve invece gestire. Resta il fatto che le 84 vittorie nella classe regina lo ergono a monumento motociclistico (il secondo nella classifica è Agostini con 68). Ne mancano 16 per arrivare a 100, un numero stratosferico e mai lontanamente immaginato. Nessuno ha ottenuto le sue pole position (60) e i suoi podi (89) nel motomondiale, nessuno ha raccolto il suo numero di punti iridati. Nessuno, dopo quattro anni bui e uno in chiaro-scuro, sarebbe in grado di presentarsi al via di un Mondiale in queste condizioni psico-fisiche, pronto a duellare con chiunque, con la spavalderia e la classe che da sempre ne impreziosiscono le doti tecniche. Il “Si può sempre imparare tanto da Rossi” pronunciato da Marc Marquez dopo il rocambolesco finale argentino ne sanciscono la statura: Rossi è al tempo stesso rivale, ma anche idolo e maestro, di chi gli corre accanto. Escluso Lorenzo, con il quale i rapporti sono comunque migliorati, Valentino resta un esempio per tutti quelli che gareggiano con lui: da Marquez a Dovizioso, fino a Iannone. Dal primo successo nella classe regina di Rossi (9 luglio 2000 a Donington, Gran Bretagna) a quello di domenica sono trascorsi 14 anni e 9 mesi (5397 giorni). Rossi ha migliorato ulteriormente il record che già deteneva, diventando il pilota più longevo della storia. Dietro a lui Alex Barros (tra il primo e l’ultimo successo, 11 anni e 204 giorni) e un mito del lontano passato come Phil Read (11 anni e 16 giorni: tanto il tempo intercorso tra Ulster 1964 e Brno 1975). Eterno e infinito, il Dottore guida la classifica iridata dopo tre gare e, anche in questo caso, le statistiche diffondono ottimismo. Perché? Per le due vittorie nelle prime tre gare del Mondiale. Cinque volte su cinque, infatti, in carriera (quattro delle quali nella classe regina) per Valentino è poi arrivato il titolo a fine stagione dopo aver cominciato l’anno in questo modo. Che arrivi o meno il decimo titolo, Valentino è già entrato nella leggenda. Il vero dilemma non sarà più capire se è meglio Maradona o Pelè. Ma se è meglio Maradona o Rossi. Il mito, infatti, riesce ad andare anche oltre il mero dato numerico o la statistica che ne certifica la grandezza. E quella maglia indossata da VR46, la dieci “albi-celeste” del Pibe, dopo il trionfo nella sua terra, rappresenta un’immagine unica. Avete mai visto voi una leggenda che indossa la maglietta di un’altra leggenda?
“Valentino Rossi l’invincibile, ecco il segreto”. Il padre: palestra, fidanzata e amici. “Tira tardi e si alza all’una, ma si allena come un matto”, scrive Franco Bertini su “Il Resto del Carlino”. Valentino Rossi Pesaro, 1 settembre 2015 - Trentasei anni, nove titoli mondiali e un’infinita di record. Ma il successo più bello quello che vale la leggenda, Valentino Rossi, sta provando a concretizzarlo, vittoria dopo vittoria, in questo motomondiale. Ha vinto a Silverstone, sfidando la pioggia, ed è salito sul gradino più alto di un podio tutto italiano. Un tassello fondamentale per riprendere lo scettro e per dire agli altri: «Dovete vedervela con me». Con sei gare ancora da correre il Dottore può riuscire a scrivere a caratteri cubitali il suo nome nella storia del motociclismo. Ma qual è il segreto del suo successo? Il padre Graziano racconta una giornata tipo del figlio e le vittorie si costruiscono anche così, soprattutto in casa. Il dottor Claudio Costa che lo conosce meglio di altri, si sbilancia addirittura: «È immortale». D’altronde, vittorie a parte, Valentino è sempre riuscito a sorprendere, per la sua capacità di reagire ai momenti difficili (infortuni e sconfitte). Come solo i grandi campioni sanno fare.
Signor Graziano Rossi, mi racconti una tipo giornata di suo figlio Valentino. Come comincia?
«Comincia che per lui la mattina non esiste».
Cioè?
«Che per lui la giornata comincia verso l’una: prima non se ne parla nemmeno».
Praticamente scende dal letto e si siede a tavola. È un mangiatore?
«Potrei dire che mangia in modo e in quantità regolari, beve soprattutto acqua, forse qualche bicchiere di vino solo con gli amici del Ranch alla fine delle sedute d’allenamento quando il cuoco cucina carne alla brace per tutta la compagnia».
Cosa mangia in genere?
«Le solite cose di sempre, semplici e genuine».
Tipo la pasta col pane come faceva da ragazzo?
«Sempre, è un’abitudine che non ha mai abbandonato».
E che succede poi nel pomeriggio?
«Va in palestra tutti i giorni, con sedute che lo impegnano per qualche ora».
E gli allenamenti in moto?
«Il sabato, quando non ci sono le gare il giorno dopo, sulla pista del Ranch assieme agli amici e ai giovani piloti della Vr46 Riders Academy».
Negli altri giorni mai?
«In genere a metà settimana va, sempre con gli amici piloti, su qualche pista di cross sparsa qua e là nei dintorni».
E la sera?
«Continua a fare la sua vita normale, discoteca compresa, solo che adesso la fa insieme alla fidanzata».
Stessi orari notturni?
«Più o meno gli stessi di sempre, con gli amici che ormai hanno adattato il loro fuso orario a quello della coppia».
Anche il gruppo degli amici è sempre quello?
«La fede negli amici è una cosa fondamentale per lui, con molti di loro sta insieme fin dagli anni della scuola elementare».
Partecipa a molti impegni ufficiali?
«Direi proprio di no. Di quelli meno ne ha e meglio sta».
Lei lo vede spesso?
«In tre occasioni: in pista, da Micio, che è il suo barbiere fin da bambino, e in palestra».
Forse più che il padre Graziano è la mamma Stefania a vedere con maggiore continuità il figlio Valentino?
«Beh, siamo vicini di casa».
Allora viene a pranzo da lei?
«Il più delle volte sono io che gli porto da mangiare a casa sua. Più o meno segue una dieta mediterranea».
E le varie attività imprenditoriali che ha avviato a Tavullia?
«Ognuna di esse ha il suo responsabile diretto, lui si limita a tenersi aggiornato anche quotidianamente sul loro andamento. La sua vita continua ad essere quella da pilota».
Come gestisce i suoi impegni giornalieri?
«Lui è metodico e molto ordinato in tutto quello che fa. È sempre stato così».
La vita da fidanzato lo ha cambiato?
«Non credo, continua ad andare a ballare, ma con la fidanzata».
Come vede in generale la vita di questo suo figlio così importante e conosciuto in tutto il mondo?
«Come quella di uno che per quattro anni si prepara per andare alle Olimpiadi, solo che lui lo fa ogni anno da oltre vent’anni a questa parte. Ecco questo il paragone più appropriato».
Da Biaggi a Stoner, la Top Ten degli anti-Rossi. Dal 2000 a oggi, ecco la classifica dei rivali che hanno infastidito maggiormente Valentino, scrive Luca Budel su “Sport Mediaset”. Fino a domenica battere Marquez in un confronto feroce per Rossi sembrava solo un’ipotesi. Le sequenze di Rio Hondo hanno offerto un nuovo dato di realtà. L’occasione buona per buttare giù una classifica dei primi dieci rivali di Rossi dal 2000, anno del debutto in 500, a oggi. Una graduatoria basata ovviamente su criteri soggettivi e destinata in qualche modo a far discutere.
1 - CASEY STONER. E’ il pilota che Rossi ha sofferto maggiormente nella sua carriera. Nel periodo di sovrapposizione ha vinto più del dottore quando era momento di forma migliore, con il merito eccezionale di aver portato la Ducati al titolo mondiale. Il ritiro a soli 27 anni ha privato questo sport dei numeri di uno dei più grandi talenti della storia.
2 - MARC MARQUEZ. Pare destinato a battere ogni record ma deve imparare a gestire la situazione nelle rare volte in cui è messo sotto pressione. Lo dimostra la caduta di domenica in Argentina. Marc è intelligente e sicuramente trarrà insegnamento dall’errore. Ha avuto la fortuna di incrociare Rossi nella fase finale della carriera.
3 - JORGE LORENZO. E’ stato l’unico compagno di squadra capace di metterlo veramente in crisi, tant’è che Rossi arrivò a imporre il diktat alla Yamaha: o lui o io. La storia è nota, con Jarvis che scelse lo spagnolo e Valentino costretto a passare alla Ducati. Oggi Jorge sta patendo oltre il lecito il ritorno del dottore.
4 - MAX BIAGGI. Ha incarnato l’altra metà di un dualismo che ha fatto epoca e diviso il pubblico trascinando il tifo a livelli da stadio. Max ha patito il confronto perché spesso in condizioni di inferiorità tecnica. Se non avesse rotto con la Honda alla fine del 1998 magari la storia sarebbe stata diversa.
5 - NICKY HAYDEN. Sul fronte del talento il confronto non esiste, ma Hayden ha avuto il merito di credere fino all’ultimo nel sogno di vincere almeno un mondiale e c’è riuscito nel 2006. Nelle frustranti stagioni alla Ducati non ha sfigurato con Rossi.
6 - SETE GIBERNAU. Anonimo con le 500 ha trovato la sua dimensione ideale con l’introduzione del motore a 4 tempi. La sua stella è brillata solo nel 2003 e nel 2004, prima di spegnersi dopo aver cercato invano di considerarsi allo stesso livello di Rossi.
7 - MARCO MELANDRI. Tra il 2005 e il 2006 ha vissuto le stagioni più felici in MotoGP togliendosi qualche soddisfazione anche nel corpo a corpo con Rossi. Episodi che segnarono anche la fine del rapporto di amicizia tra i due che si conoscevano fin dai tempi delle minimoto.
8 - DANI PEDROSA. Per carattere e indole si è sempre tenuto lontano dalle carene altrui. Con Rossi ha vinto solo grazie alla superiorità della moto e quando riusciva a passare subito in testa e cercare la fuga solitaria.
9 - LORIS CAPIROSSI. Nel 2006, a causa dell’incidente di Barcellona, non riuscì ad approfittare della situazione caotica sotto il profilo tecnico attraversata da Rossi. Terzo nel mondiale con 3 vittorie. Gli resta la soddisfazione di averlo battuto nel 1998 in 250 con l’Aprilia. Ma Rossi era al primo anno nella classe intermedia.
10 - KENNY ROBERTS JR. Ha vinto il titolo nel 2000 con Rossi al debutto in 500 e in una stagione caratterizzata da un vuoto assoluto di potere, con la Honda ufficiale che pagava per la crisi di Criville, iridato nel 1999.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini
Il Giornale E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».
«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”
In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque
immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato
era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione
che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di
potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando
l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali
che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che
l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le
eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e
sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo,
scrive Antonio Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale
che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno
approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al
momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema
c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni,
sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la
legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del
Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale
che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento
da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito
della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in
un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente
della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che
ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i
principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto
che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo
politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né
Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni
d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella
filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e
Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come
Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro
quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la
versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo
ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica,
come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà
vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
POLE DANCE: LO SPORT A LUCI ROSSE.
Da ballo sexy a sport, il sogno pole dance. Nata nei night club e resa celebre da alcuni film come Striptease, "la danza della pertica" si è trasformata in una disciplina sportiva, con tanto di regole e campionati, conquistando centinaia di migliaia di praticanti in tutti i continenti. La speranza è quella arrivare un giorno alle Olimpiadi, ma vincere i pregiudizi non è facile. Nemmeno in Italia, campione del mondo nel 2013 ma ignorata dal Coni, scrivono Arianna Di Cori ed Alice Gussoni su “La Repubblica”.
Addio perizoma e tacco 12, scrivono Arianna Di Cori ed Alice Gussoni. Sudore, calli sulle mani, lividi, magnesite e l'odore pungente di alcool etilico. Sono questi gli ingredienti dalla pole dance. Non i lustrini, le paillettes o i tacchi 12, né le camice da uomo su striminziti perizomi, idea scolpita nell'immaginario collettivo grazie a "Striptease", il film con Demi Moore del 1983 o "Showgirls" di Paul Verhoeven. Oggi la pole dance è una disciplina sportiva in forte crescita in ogni parte del mondo, anche se tutti questi accessori restano una parte importante del suo background. La pole dance - letteralmente danza della pertica, o del palo - da non confondere con la lap dance (danza del grembo) ha avuto una enorme diffusione negli ultimi 15 anni. In Italia il palo è entrato nelle palestre a metà degli anni 2000 e nel 2009 si potevano contare circa 20 palestre che nel giro di 4 anni sono diventate quasi 200 diffuse dal nord al sud. Il primo campionato nazionale, nel 2010, ha ospitato 11 atleti, solo donne, mentre per l'edizione del 2015 (16 e 17 maggio a Cesenatico) saranno in 100 fra professionisti e amatoriali, divisi nelle categorie donne, uomini, coppia, junior (12-18 anni) e over 50. Nel mondo si tengono centinaia di campionati nazionali, mentre decine di campionati internazionali sono organizzati ogni anno da associazioni no profit tra cui il World Championship Pole Sport, il primo ad adottare un codice regolamentare di tipo olimpico. In America del nord, dove la tradizione del palo trae le sue origini, è possibile trovare corsi di pole dance praticamente ovunque e i praticanti superano la ragguardevole cifra di 500 mila persone. Ma neppure la Cina rimasta immune al fascino della disciplina e secondo alcune stime sono oltre 100 mila le persone che praticano la pole dance. I dati forniti da X-pole, la maggiore ditta costruttrice di pali nel mondo, sono impressionanti: 10 milioni di fatturato per circa 10.000 pali venduti ogni anno, di cui solo il 5% è destinato ai locali, mentre il 75% è per installazioni domestiche e il restante 20% per le palestre. La storia della prima pertica. Fino alla fine del 2005 non esistevano pali smontabili per allenarsi in casa, salvo essere disposti a traforare il soffitto ed installare un tubo innocenti. Questi ultimi, 55 cm di diametro, erano usati nei nightclub, ma il loro spessore non favoriva una presa solida. L'idea di progettare un palo "casalingo" arriva dal designer inglese Clive Coote nel 2003 quando la cognata, entusiasta dopo aver provato una lezione di pole dance in un evento a tema, resta stupita dalla totale assenza di pali sul mercato. All'inizio Coote, che da poco aveva venduto la sua azienda di modellistica radiocomandata e aveva intenzione di andare in pensione, prende poco sul serio la proposta e la relega ad un amico ingegnere di Formula 1, che, divertito, costruisce il primo prototipo. Diviso in moduli componibili, in acciaio cromato, non differiva tanto da quelli attuali se non nello spessore, 65 mm di diametro, decisamente troppo largo. Un fallimento. Quando il fratello lo sfida a costruirne uno migliore, Coote accetta. Dopo numerose ricerche, riesce ad ottenere un palo smontabile leggero (circa 15kg) e di 50 mm di diametro, il primo davvero tarato per la pole dance. Alla fine del 2005 la sua nuova società, la Vertical Leisure, è pronta ad entrare nel mercato con il palo X-Pole. "A quel punto - ricorda Coote - avevo due scelte: alimentare l'industria dei night o gettarmi nell'avventura molto più rischiosa del fitness. Quell'anno alcune palestre cominciavano a proporre corsi di pole dance. Ho deciso che la mia azienda avrebbe fatto prodotti per lo sport". Così è stato. Anche nel vecchio continente il palo sta facendo breccia nei centri sportivi e fra Europa e Russia si possono contare più di 5.000 palestre, di cui 500 solo nel Regno Unito. Qui ha sede l'International Pole Sport Federation (Ipsf), la federazione europea che sta tentando la lunga scalata per il riconoscimento ufficiale di questa disciplina. Perché nonostante il trend di crescita positivo, la pole dance non è ancora uno sport riconosciuto dagli organi istituzionali. Come per ogni suo predecessore il cammino è lungo e pieno di ostacoli. SportAccord, l'ente che insieme al Comitato Olimpico Internazionale sancisce il riconoscimento ufficiale di ogni sport, è il primo gradino da salire per affacciarsi nel mondo delle competizioni internazionali come i World Games (direttamente organizzati dalla federazione) e le Olimpiadi. "Siamo consapevoli che lo sport sta cambiando ed è nostra intenzione aprirci alle nuove discipline," spiega Vlad Marinescu, direttore generale di Sport Accord. "Il Pole - aggiunge - non è l'unico sport ad aver chiesto di entrare nella nostra federazione quest'anno, ce ne sono altri 4 nella stessa condizione, tra questi il Bandy (una sport diffuso in nord Europa simile all'hockey ndr.) e l'Armwrestling (il braccio di ferro, ndr.)". "Ora - continua Marinescu - dovremo aspettare il 2016 per le nuove votazioni. Ma quello che posso dire con certezza è che noi di SportAccord siamo consapevoli dell'enorme potenziale del Pole Sport come degli altri nuovo sport, e sarà nostro compito spingere affinché il panorama sportivo possa cambiare e svecchiarsi". Le recenti polemiche che hanno coinvolto proprio i due enti durante il vertice di Sochi restituiscono però il clima di fortissima tensione che si respira in ambito sportivo internazionale. I cambiamenti non sono facili da accettare specialmente quando coinvolgono interessi economici elevati. Ogni sport infatti per essere accettato nel gotha delle competizioni mondiali deve portare in dote un pacchetto di associazioni dilettantistiche e spettatori elevato, che faccia gola agli sponsor e attiri l'interesse dei media. "Se dovessi stare a sentire tutto quello che dicono le teste canute delle federazioni sportive mi sarei arresa già da diverso tempo", spiega K. T. Coates, presidentessa della Ipsf, sfoggiando un filo di british humor. "Dieci anni fa - continua - tutti ridevano della pole dance, cinque anni dopo ridevano del fatto che la pole potesse essere considerato uno sport, ora ci stiamo strutturando e contiamo che tra 5 anni avremo il riconoscimento ufficiale. Anche la Bmx e lo skateboard hanno compiuto questo iter prima di noi, ora sono diventati sport olimpici. E' solo una questione di tempo". Proprio lo skateboard, così come la ginnastica aereobica, sono in lizza per entrare a far parte delle competizioni olimpiche nel 2020. Quest'ultima ha visto riconosciuto il suo valore tecnico-sportivo dopo "soli" 40 anni di onorata carriera e centinaia di migliaia di corsi e dvd per ginnastica fai-da-te venduti in tutto il mondo.
Italia campione, ma la strada è ancora lunga, scrivono Arianna Di Cori ed Alice Gussoni. In Italia è la Fisac - federazione italiana no profit degli sport acrobatici e coreografici - a rappresentare sport come il cheerleading, l'acrodanza e il pole sport. Nata nel 2008 non ha ancora ricevuto il riconoscimento del Coni, che si mantiene neutrale affidando agli organi internazionali il compito di stabilire quale siano gli sport ufficiali. La torta dei fondi pubblici infatti fa gola a molti e il problema reale consiste nella sua spartizione. In Italia dei 250 milioni distribuiti tra 46 federazioni sportive nazionali quasi un terzo viene assegnato al calcio, che in totale prende circa 70 milioni annui. Nuovi sport significano infatti meno soldi per tutti, e nonostante la "morte naturale" di alcune discipline (basti pensare al recente tentativo di espulsione della lotta greco-romana dalle Olimpiadi), il settore sportivo fatica ad accettare i cambiamenti. Alessandra Marchetti, tre volte campionessa italiana (2011, 2012 e 2013), campionessa europea 2012 e campionessa mondiale 2013, nonché rappresentante del pole sport all'interno della Fisac, lo dice chiaramente: "La pole è uno sport ancora di nicchia nel nostro paese, ma in fortissima crescita". Da quando Titti Tamantini ha organizzato i primi campionati italiani nel 2010, il numero di convention sportive e le palestre che offrono questo tipo di corsi è cresciuto in modo esponenziale. "Gli stili sono molto diversi tra loro - continua Marchetti - e ancora oggi resiste l'exotic, cioè uno stile sexy, con i tacchi, ma nelle gare ufficiali esistono delle regole rigide, che sono quelle che ci aiuteranno a farci riconoscere come sport. Il pole sport non vuole rinnegare il legame con i nightclub, né prendere le distanze, semplicemente vuole esistere in modo autonomo. Le regole che abbiamo imposto esistono per permettere un giudizio equo durante le gare, dove non può esserci spazio per un gusto personale". Non si può non ricordare come la sensualità sia ancora oggi una categoria di giudizio in gara. Durante gli europei 2012, l'atleta Doris Arnold si è vista affibbiare 20 punti di penalità per un'esibizione ritenuta troppo sexy.
Appese a un palo per superare il pudore, scrive Alice Gussoni. Se lo sport è considerato veicolo di emancipazione, utile per superare le barriere di genere, la pole dance viene definita dagli esperti di gender studies uno sport sexual empowering e cioè sessualmente emancipante o più letteralmente rinforzante. Nell'analisi condotta da due psicologi australiani, Kelly Whitehead e Tim Kurz, della Murdoch University, si indaga proprio su come questa forma di fitness obblighi a una ridefinizione della sessualità femminile, fino ad oggi concepita sotto l'influenza di una società patriarcale. L'inclusione della pole dance all'interno di gruppi sportivi nella pudica élite delle università del Regno Unito rende l'idea di come all'estero sia considerato uno sport a tutti gli effetti, alla stregua di basket e pallavolo (si trovano pole dance society nell'Università di Edimburgo, nell'Università di Southampton e in molte di quelle che fanno parte dell'Association of United Kingdom-based Universities). Oltre ai muscoli infatti il suo segreto sta proprio nell'attivare la coscienza della propria forza sessuale. Così sostengono molte delle principali animatrici dei blog statunitensi, fra cui Rashi Bey, sex coach che lavora sulla necessità di comunicare questa energia all'interno delle palestre anche attraverso l'uso di termini "appropriati". Basta quindi chiamare "biscottino" o "patatina" organi sessuali che hanno nomi ben più crudi nel linguaggio comune. Infatti una delle prime battaglie da vincere è quella contro il falso pudore e ballare seminude davanti a uno specchio può essere una terapia d'urto. In Venezuela la pole è utilizzata ad esempio come terapia per chi soffre di disabilità o malattie croniche. Carmen Hurtado, dell'Associazione Fundaviva, non ha paura di mostrarsi in un video che ha fatto il giro del mondo mentre "si spoglia" della sua gamba artificiale prima di arrampicarsi sulla pertica ed esibirsi in una serie di evoluzioni. Da segnalare, infine, come il recente arrivo del palo anche all'interno delle palestre sociali di alcuni centri occupati di Roma rientri nelle pratiche portate avanti dal femminismo di terza generazione. In questo caso lo sport è esplicitamente mirato alla scoperta della propria consapevolezza sessuale, al di là dei generi e degli orientamenti. La scoperta del piacere di danzare in modo sexy può fare paura, sia che esso riguardi la sfera intima e privata, sia che faccia parte di una routine lavorativa, come nel caso delle sex worker o delle spogliarelliste. La realtà è che moltissime donne ancora oggi non si sentono padrone del proprio corpo, così come altrettante restano convinte che farne uno strumento di lavoro significhi perdere il controllo delle proprie scelte. Lo sport in questo senso compie il miracolo di unire praticanti di tutte le estrazioni sociali. Il palo svolge la funzione taumaturgica che spesso anni di psicoanalisi non riescono a compiere: farsi accettare per quel che si è.
Fawnia Dietrich, da stripper a imprenditrice, scrive Arianna Di Cori. Universalmente riconosciuta come una delle pioniere della pole dance, Fawnia Dietrich è forse l'atleta che ha fuso più armoniosamente i due aspetti - che potrebbero risultare in conflitto - della pole come danza sensuale e come pratica di fitness. Nata nel 1975 a Kamloops, Canada, in una famiglia poverissima, a 18 anni approda ai nightclub come exotic dancer. In breve comincia ad insegnare e nel giro di pochi mesi apre la sua prima palestra. Nel 1998 mette in commercio i primissimi corsi in video e crea l'unico brevetto per insegnanti. Oggi tiene seminari di pole dance nonché il corso di "Sex, Dance and Entertainment" all'Università di Las Vegas. Nel 2012 dà il via al Pole Expo, l'unica convention al mondo dedicata a questa disciplina, che riunisce federazioni e campioni, appassionati e rivenditori. Nel 2015 è stata annoverata nella top 100 delle donne più potenti di Las Vegas.
La sua sembra quasi la storia di una Cenerentola moderna. Da ballerina nei locali a imprenditrice. Come si sente oggi, con un impero della pole dance tra le mani?
"Cenerentola? Mica tanto! Di certo non ci sono state fate madrine, nessuna magia. Sono cresciuta con una madre disabile che mi ha insegnato a vedere la vita come un dono senza dar nulla per scontato. A 15 anni sono andata a vivere da sola, appena uscita dal liceo ho cominciato a ballare nei locali. Oggi ho più responsabilità, ma resto sempre la stessa. Mi piace sfidarmi. È il motivo per cui ho deciso di fare il Pole Expo. È un lavoro faticoso che mi impegna incessantemente per 9 mesi l'anno. Ne sa qualcosa la mia compagna, non so come fa a sopportarmi".
A proposito dell'Expo, come è nata l'idea?
"Ad essere onesta mi trovavo ad una convention sportiva e ho pensato che sarei stata in grado di organizzare una cosa simile per la pole. Dal 1999 ho partecipato ad almeno 50 expo di fitness per conto di varie aziende di bodybuilding, so cosa piace agli spettatori e cosa fa guadagnare i commercianti".
Come è avvenuta la transizione da ballerina a insegnante nel 1994? C'è stato un momento in particolare?
"È stata una decisione presa dopo nemmeno un mese che ero approdata nel nightclub. Le prime settimane erano state terribili, mi sentivo persa sul palco. Ho chiesto ad una ragazza di insegnarmi a fare qualcosa sul palo e lei mi ha fatto vedere quello che oggi si chiama Fireman spin. All'inizio non riuscivo nemmeno a sollevare i piedi da terra, ma quando ci sono riuscita mi sono esaltata. E siccome non esistevano palestre sono andata in un ferramenta, ho comprato un palo di ottone e ho cominciato a insegnare questo semplice trick. Io stessa imparavo insegnando".
Crede che oggi ci sia ancora uno pregiudizio legato a questa disciplina?
"Solo se si vuole vedere la sua origine negli stripclub come uno stigma. Per quello che mi riguarda non c' è nulla di cui vergognarsi. Oggi la pole dance è ben vista dai media, ci sono tante federazioni internazionali tutte accomunate dallo stesso scopo: il riconoscimento ufficiale come pratica sportiva. Le persone ci si avvicinano per diverse ragioni. C'è chi fa lezione al posto della normale palestra. Ci sono donne che vogliono stupire il marito con mosse sensuali e ci sono exstripper che rimpiangono i muscoli che avevano quando ballavano nei locali. Lo fanno le persone famose, di recente ho fatto lezioni anche a Britney Spears. È divertente, un ottimo esercizio fisico e può essere, se lo si desidera, molto sexy".
Condivide la battaglia delle federazioni per renderla una disciplina olimpica?
"Certo. Come ho detto la pole dance può essere sexy solo se lo vuoi, in primo luogo è una forma di fitness. Sostengo la corsa alle Olimpiadi di KT Coates (presidente della International Pole Sport Federation ndr) e infatti sono stata giudice di gare internazionali. Quello della Pole Sport è un altro modo per legittimare la disciplina".
Per concludere, come definirebbe il suo stile di pole dance?
"Il mio stile ha delle spiccate note sexy. Credo che il movimento sensuale sia una cosa naturale e bellissima che dona forza e potere al corpo femminile e maschile. Non ci si deve sentire 'sporchi', anzi, si tratta di un modo per acquistare autostima e dovrebbe essere celebrato da tutti. E poi, siamo sincere, non voglio edulcorare nulla: sono una ex spogliarellista che ha imparato a ballare imitando Madonna. Questa è Fawnia".
Il movimento in cinque curiosità:
Il primo blog dedicato al mondo della pole dance è stato creato da un'italiana, Valentina D'Amico che ha successivamente ha riunito la community mondiale nel portale PDBloggers.
Esiste un'applicazione per smartphone che si chiama Pole Pocket Studio.
Il Cirque du Soleil ha inserito nei suoi spettacoli la pole dance, assoldando la pluricampionessa australiana Felix Cane.
La pole dance è protagonista di un popolare web comic, Pole Dancing Adventures.
I campionati di Pole Sport non hanno limiti di età, dallo scorso anno esiste una categoria Masters per atleti over 40 e over 50.
SESSISMO NEL CALCIO.
Calcio, Felice Belloli": "Basta dare soldi a quattro lesbiche", scrive “Libero Quotidiano”. Da "Optì Pobà che mangiava le banane e adesso gioca nella Lazio" a "quattro lesbiche" il passo è breve. No, non perché Optì Pobà sia diventato una lesbica. Ma tra le due espressioni c'è un filo sottile ed è quello che lega l'attuale presidente della Figc Carlo Tavecchio a chi ha preso il suo posto come numero uno della Lega nazionale dilettanti, Felice Belloli. Il quale il 5 marzo scorso, in occasione del Consiglio direttivo del dipartimento del calcio femminile, non avrebbe usato mezzi termini nel dire che per le ragazze di soldi non ce ne sono: "Basta, non si può sempre parlare di dare soldi a quattro lesbiche...". Una frase che ha portato all'apertura di un'inchiesta da parte della procura federale della Figc. Il sito www. soccerlife.it pubblica oggi il verbale della riunione. Non vorremo mica chiederne le dimissioni per quattro lesbiche...
Belloli sul calcio femminile: "Basta con queste 4 lesbiche". E' il presidente della Lega Nazionale Dilettanti, uno degli uomini più vicino a Tavecchio. Lui nega: "Non ho detto quelle cose". Intanto la Procura Federale ha acquisito tutti i documenti, scrive “La Gazzetta”. Un'altra bufera sul calcio italiano. Protagonista di una gaffe sessista è il presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Felice Belloli, uno degli uomini più vicini al presidente federale Carlo Tavecchio. In un'occasione federale ufficiale, Belloli si è così espresso a proposito del calcio femminile: "Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche". Una frase pesante, senza garbo e senza alcun rispetto, pronunciata dall'attuale numero uno della Lega Nazionale Dilettanti. La frase incriminata pronunciata da Felice Belloli è riportata sul verbale di riunione del 5 marzo del consiglio di dipartimento del calcio femminile della Lega Nazionale Dilettanti. "Alle ore 14.30 rientra il presidente della Lnd Felice Belloli - si legge sul verbale della seduta del 5 marzo - e risponde al consigliere Picheo che i finanziamenti sono a disposizione della Figc per lo sviluppo del calcio femminile ma, rispondendo a varie domande avanzate dai consiglieri, risponde che il calcio professionistico pur volendo non potrebbe ad esempio stanziare contributi e autotassarsi, perché i soldi non ci sono per nessuno, è inutile sperare in un aiuto in quel senso. Se il calcio femminile vuole vivere e crescere deve solo fare affidamento sulle proprie forze, senza lamentarsi troppo e senza sperare in aiuti dall'alto. Si apre un breve ma acceso dibattito, chiuso poi da Belloli che afferma: "Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche". I lavori proseguono. Purtroppo, non è la prima volta che i dirigenti della Figc negli ultimi anni si esprimono utilizzando frasi che contengono elementi discriminatori. Tutti ricordano l'espressione "opti poba" utilizzata proprio da Carlo Tavecchio durante la sua campagna elettorale prima di diventare il presidente della Figc. Lo stesso Tavecchio aveva parlato di "donne handicappate nel calcio", anche se subito dopo la Figc si era attivata per organizzare eventi e iniziative per sensibilizzare le attenzioni sul calcio femminile. Senza trascurare le parole più recenti di Claudio Lotito a proposito della possibilità di vedere in Serie A squadre (come il Carpi o il Frosinone) espressione di piccoli comuni italiani ("il Carpi non può andare in Serie A", frase pronunciata dal presidente della Lazio e consigliere federale in una conversazione telefonica con il dirigente dell'Ischia Pino Iodice). Ora le offese di Belloli: di questo passo è difficile immaginare dove si può arrivare. Ma Belloli, interpellato dall'Ansa, nega: "Va dimostrato che quelle parole sono mie. Un verbale può essere stato scritto da chiunque. Bisogna dimostrare che io abbia detto quelle cose e io, ripeto, lo nego". Intanto il verbale è stato già recapitato alla Procura Figc.
Tavecchio contro Belloli: "Frase sulle lesbiche odiosa e inaccettabile". Consigliera Figc: "Parole le ha dette". Panico: "Pronte alla protesta in campo". Il presidente federale prende posizione sulla frase del numero uno della Lega dilettanti: "Se avesse detto quelle parole sarebbe un fatto grave". La giocatrice della Nazionale è dura: "Sessista, maschilista, ignorante", La consigliera federale Sonia Pessotto: "Confermo, le parole le ha dette". Per protesta le calciatrici decidono di scendere in campo con 15 minuti di ritardo, scrive “La Repubblica”. "Se Belloli avesse detto quelle parole, sarebbe un fatto grave. Quella è una frase odiosa e inaccettabile". Il presidente della Figc, Carlo Tavecchio, prende posizione sulla nuova polemica che scuote il palazzo del pallone. In un verbale di una riunione del dipartimento calcio femminilie, al presidente della Lega Nazionale Dilettanti Belloli viene attribuita una frase sui fondi da destinare al settore: "Basta, non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche...". Belloli aveva negato di aver pronunciato quelle parole, ma il testo del verbale è stato consegnato alla Procura della Figc. "Gli atti sono stati passati alla Procura, aspettiamo che faccia le sue indagini per appurare il fatto - si legge sul sito della Figc - la Federazione è un organo di garanzia che non può e non deve compiere processi sommari". Tavecchio ha anche voluto rimarcare quanto la Figc stia facendo proprio per il calcio femminile: "Il progetto di rilancio del movimento non subisce alcun rallentamento, abbiamo presentato nello scorso Consiglio Federale, poi a Uefa e Fifa, un percorso inter-istituzionale che siamo sicuri darà i suoi primi frutti importanti nell'arco di un biennio. Abbiamo creato 3 nuove nazionali, di cui una di calcio a 5, stiamo raccogliendo adesioni per l'apparentamento dei club femminili con il calcio professionistico maschile, abbiamo ottenuto di organizzare la finale di Champions League 2016 a Reggio Emilia e abbiamo dato incarico a Rosella Sensi di coordinare la Commissione federale per lo sviluppo di questa disciplina. In un periodo di difficoltà economica oggettiva, il calcio femminile è il settore dove stiamo investendo di più", conclude il numero uno di Via Allegri. Belloli, lo ricordiamo, ha preso il posto di Carlo Tavecchio alla Lnd, è consigliere federale ed è il presidente che gestisce il calcio femminile in Italia, un movimento ancora ridotto (circa 11.000 tesserate) ma che la Figc adesso vuole rilanciare, anche grazie ai contributi di Fifa e Uefa. "Io c'ero: quella frase sulle quattro lesbiche Belloli l'ha detta. Ora si deve dimettere da presidente della Lega Dilettanti". Sonia Pessotto, ex calciatrice e consigliera del dipartimento calcio femminile della Figc, confermale frasi attribuite a Belloli da un verbale di riunione. "Se le frasi di Belloli sono vere, sono parole sessiste, maschiliste, ignoranti: e noi calciatrici, se verranno provate, siamo pronte alle protesta in campo". Dura la reazione di Patrizia Panico, centravanti del Verona e della nazionale. "Si parla di noi calciatrici di più quando si usa quella parola che quando si gioca una partita di Champions: tutte noi vorremmo essere giudicate per quel facciamo in campo, non per l'orientamento sessuale". Nel prossimo turno di campionato, le calciatrici come forma di protesta nei confronti di quanto dichiarato dal presidente della Lega dilettanti, hanno deciso di scendere in campo con 15 minuti di ritardo: "quale forma di protesta nei confronti di un persistente atteggiamento discriminatorio e denigratorio nei confronti delle tesserate e del movimento". Ad annunciarlo l'Associazione italiana calciatori (Aic)."L'iniziativa intende sensibilizzare la Federazione, le altre componenti del mondo del calcio, le Istituzioni e l'opinione pubblica sull'attuale situazione del calcio femminile, ancor oggi sottovalutato e poco valorizzato. E' necessaria una seria riflessione sull'adeguatezza dei dirigenti preposti alla tutela del movimento, e sulle necessità strutturali e programmatiche, lavorare sulle sinergie col mondo professionistico, studiare politiche di sviluppo idonee a portare il calcio femminile al livello che merita". "Non ho capito se le ha fatte o no quelle dichiarazioni. Lui sostiene che non le ha fatte, mi auguro che nel più breve tempo possibile si evidenzi per certo se sono state fatte o meno. Ma se sono state fatte sono totalmente inaccettabili", è il commento del presidente del Coni, Giovanni Malagò: "Io non ho poteri nei confronti di un presidente di una Lega, che è un'associazione privata, ma se ha l'ha fatto non è accettabile e di conseguenza il messaggio va a chi di competenza, che si deve regolare. Un passo indietro? Se dico che sono inaccettabili, qualsiasi cosa va di conseguenza". "Io non l'ho detto. Questo l'ho detto chiaro e tondo anche perchè io sto lavorando con il settore femminile, ho fatto dei programmi. Mi stanno attribuendo cose che non ho detto, anche su altri argomenti". Felice Belloli si difende a "Effetto Giorno" su Radio24. "Io mi meraviglio di questo. Non so come possa essere uscita una cosa del genere, per me è un po' un golpe, staremo a vedere come si evolve la vicenda e poi faremo tutti gli accertamenti del caso e poi vedremo il da farsi", tuona Belloli, a detta del quale qualcuno ha fatto mettere a verbale quella frase anche se non l'ha detta. "Non posso essere certo di chi è stato, se c'è stata la manina o la manona. Io dico che non l'ho detto. Adesso faremo accertamenti, anche perchè voglio capire come facciano a uscire i documenti dalla Lega, tanto per essere chiaro". Il presidente della Lnd probabilmente sospetta di qualcuno ma non si sbilancia ("Quando avrò chiarito tutto sarò più che disponibile a dirle tutto") e ribadisce che "l'anno scorso, per la stagione sportiva che si sta per concludere, la Figc aveva stanziato 340 mila euro per l'iscrizione dei 69 club di calcio femminile di serie A e di serie B. Io l'ho detto già in tempi non sospetti e quest'anno l'ha detto anche il presidente Tavecchio: quest'anno elargizioni a pioggia non se ne danno. Questo perchè i soldi non ci sono, come sapete benissimo ci sono stati i tagli, il momento economico non è dei migliori. Inoltre i fondi dati negli ultimi anni non hanno dato i risultati sperati".
Noi calciatrici, offese e vincenti. «Perché non fai danza?», «Sei maschio?», «Il pallone è grande come quello dei maschi? E le regole sono le stesse?», scrive Federica Seneghini su “Il Corriere della Sera”. «Ma il vostro pallone è grande come quello dei maschi?». «E la porta ha le stesse dimensioni?». «Le regole sono le stesse?». Quante volte Chiara Marchitelli, 30 anni, portiere del Brescia e giocatrice della Nazionale si è sentita rivolgere queste domande. E quante volte ha dovuto spiegare che no, giocando a calcio non si diventa più maschili, tanto meno lesbiche. Né più pelose, o muscolose. La solita storia. «Quello che mi ferisce di più, però, è che si parla di calcio femminile solo quando qualcuno spara una battuta del genere, come ha fatto Belloli. Invece sabato prossimo ci sarà la finale di Coppa Italia. E chissà se allo stadio ci saranno anche quelli che oggi si indignano». Sono offese le donne del calcio italiano. E dopo le dichiarazioni del presidente della Lega dilettanti, Felice Belloli («Basta dare soldi a queste quattro lesbiche») anche molto arrabbiate. Un esercito fatto da oltre 12 mila atlete. Tutte dilettanti, perché la Lega Professionisti per le donne non esiste. Con stipendi inesistenti o camuffati da rimborsi spese. Tutte con carriere invisibili anche per chi milita in Nazionale. Costrette a chiarire, da quando sono piccole, che sì, anche le donne giocano a calcio. E non è uno sport da maschi o da femmine. «Ma uno sport e basta, come tutti gli altri», dice Marchitelli. Lo sa bene Sara Gama, 26 anni, terzino della Nazionale, che nel 2013 ha fatto il grande salto ed è volata in Francia, dove milita nel Paris St. Germain. Giovedì era a Berlino con la sua squadra per la finale di Champions contro il Francoforte, prima donna del calcio italiano a ottenere un simile risultato. «Il match è stato trasmesso su France2 e allo stadio a vederci giocare c’era anche la cancelliera Merkel». Sugli spalti: gli ultrà della squadra maschile («che vengono sempre allo stadio a tifare»), il presidente della Uefa Michel Platini, e la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo («che ha fatto il viaggio in aereo con noi»). «Quando la mia compagna di squadra Laura Georges, fresca di nomina ad ambasciatrice Uefa per il calcio femminile, è venuta a riferirmi le parole di Belloli, aveva una faccia schifata. Incredula. Perché in Francia è inconcepibile che un dirigente sportivo azzardi affermazioni simili». In Italia invece c’è chi ai pregiudizi ha fatto l’abitudine. Come Martina Rosucci, 23 anni, centravanti del Brescia e della Nazionale: «Dai 9 ai 13 anni ho giocato in squadra con il mio gemello. E spesso c’era chi, candidamente, ignorava lui e chiedeva a me: “Perché non vai a fare danza?”. Anche mia madre all’inizio era diffidente. Poi però, di fronte al mio entusiasmo e alla mia costanza, le è passata». Pallone azzurro 2014, 100 presenze in nazionale, Rosucci di aneddoti di ordinaria diffidenza ne può raccontare a decine. Come «quella volta che, da bambina, un ragazzino che giocava nella squadra avversaria mi tirò i capelli. Così, per scherzo, in campo. Ci rimasi malissimo. Ma a me alla fine è andata anche bene. Alcune mie amiche hanno dovuto subire abusi più gravi. E forse è questa la cosa più difficile per le calciatrici: riuscire a essere atlete oltre ai pregiudizi». Offese che fanno ancora più male a chi al calcio ha dedicato la vita. Come Gloria Marinelli, 17 anni. Fino a tredici anni ha vissuto e giocato nel campetto del suo paese, ad Agnone, provincia di Isernia. «Poi un giorno l’allenatore del Perugia mi vide giocare e mi offrì un posto in squadra». Lei, valigia in una mano e scarpini in borsa, partì. «Genitori e amici mi hanno incoraggiata». Oggi la sua giornata tipo è fatta di libri e pallone. «La mattina vado a scuola, di pomeriggio faccio i compiti. Poi la sera, dalle 19.30 alle 21.30, mi alleno. Tutti i giorni. La domenica c’è partita. A casa torno tre volte l’anno. Per questo mi arrabbio quando c’è chi chiede come facciamo a giocare quando abbiamo il ciclo, o perché ho scelto questo sport». Contano i risultati. Spesso migliori dei colleghi maschi, anche se poco noti agli amanti del calcio. Come quello delle azzurrine dell’Under 17 che, l’anno scorso, ai Mondiali in Costa Rica, ignorate da tutti si sono portate a casa un terzo posto storico: nessuna Nazionale giovanile di calcio, maschile o femminile, aveva mai vinto una medaglia a un Campionato del mondo. Il premio: una gita al mare.
La fabbrica dei capi del calcio, scrive Aligi Pontani su “La Repubblica”. Dunque, c'è chi pensa che il calcio femminile sia questo, uno sport frequentato da quattro lesbiche, peraltro handicappate nell'attività tutta maschile di trafficare con una palla. Nessuno stupore, nel paese dove le donne sono ancora considerate inadatte ad attività ben più importanti, limitate nella capacità di gestire ed esercitare il potere (economico, politico) e dove nessuno si stupisce più di tanto quando le periodiche rilevazioni statistiche dimostrano che a parità di condizioni una donna fa sempre molta più fatica a fare carriera, guadagnando sempre molto meno di un uomo. Senza volere esagerare nel dare significati cosmici all'uscita demenziale di un ometto durante una riunione dai toni condominiali, bisogna però ricordarsi bene, molto bene, del ruolo che l'ometto in questione ricopre - e se Dio vuole presto diremo ricopriva - in quel piccolo pezzetto di paese che è il calcio. Un dirigente. Un capo. Per l'esattezza, il capo di una istituzione che conta un milione e 200 mila tesserati, governa 15 mila società sportive e produce un giro di affari di un miliardo e mezzo di euro, grazie a tutta quella moltitudine di ragazzi, ragazze, uomini maturi e aspiranti traumatizzati che si affannano a giocare sui campi di calcio e di calcetto per pura passione. Costui, il capo Felice Belloli, ha fatto la sua gavetta per arrivare sulla poltrona da cui ha tuonato contro le lesbiche avide che chiedono troppi soldi alla Figc. Comitati provinciali, poi regionale, quindi l'ascesa al vertice della Lega Dilettanti, cogliendo l'occasione del posto lasciato vacante dal capo di prima, il celebre Tavecchio, quello delle donne handicappate. E', insomma, un prodotto del vivaio, Belloli. Il vivaio che seleziona la classe dirigente del primo sport nazionale. Questo, forse, è l'unico punto sul quale valga la pena spendere ancora qualche parola. Belloli sarà costretto ad andarsene, oppure lo cacceranno via tout court: c'è un verbale che lo inchioda, arrivederci e sotto a chi tocca. Ma il problema vero è che nulla e nessuno può garantire al calcio italiano che il successore non sia peggio di lui, considerando l'andazzo e i precedenti. Di Tavecchio si è già detto tutto, anche lui ha fatto la gavetta e la sua scalata è arrivata dov'è arrivata, alla poltronissima, malgrado le banane, i libri vergati e fatti comprare a decine di migliaia di copie dalla federazione di cui è presidente, le palazzine comprate a prezzi insensati coi soldi dei dilettanti, le gaffe (le chiamiamo così, ma perché siamo troppo buoni), le squalifiche Uefa, i conflitti di interesse sui campi e sulle luci artificiali, insomma, tutto. Degli altri si sa di meno, ma insomma qualcosa sì. Un presidente della Lega di A che lavora part time, essendo il suo primo incarico presso una banca; quello della Lega Pro finito sotto inchiesta e ora pure sotto squalifica (sportiva) per una avvilente storia di abusi, traffici e sotterfugi; i comitati regionali militarizzati dagli uomini di Tavecchio, con rimozione (recente, e passata in silenzio) di cinque dirigenti non di area, tra i quali l'unica donna; infine, l'illuminato pensatore che dal posto da cui dovrebbe rilanciare un movimento che solo in Italia è in queste condizioni miserabili (nessun incentivo, una diffusa ostilità dei club ad aprire le sezioni femminili, una perdurante e radicata ostilità delle famiglie verso un'attività considerata di genere), chiarisce bene cosa ne pensi davvero. E' un elenco sommario, certo, e altrettanto certamente ingeneroso per le decine e decine di piccoli e medi dirigenti che invece spendono ore ed energie nel calcio, spinti solo dalla passione, spesso facendo gratis e al meglio il loro anonimo lavoro. A tutti questi va chiesto scusa, è vero, e va fatto in anticipo. Ma se lo spettacolo offerto da chi poi raggiunge le posizioni apicali è quello che stiamo vedendo, è ora davvero di porsi parecchie domande sul meccanismo di selezione della classe dirigente dello sport, una democrazia apparente (le cariche sono tutte elettive) spesso condizionata e violentata da logiche affaristiche, spartitorie, ricattatorie. Perché un capo impresentabile, poi, rende impresentabili tutti. Non facciamoli più, capi così. E' davvero impossibile pensare a una riforma?
IL CALCIO A CASA TUA.
Il calcio a casa tua, arrivano i vincitori, scrive “la Repubblica”. Esperienze, emozioni e tante storie. Centinaia gli studenti che hanno partecipato alla sfida organizzata da RepScuola con Progetto IMMaginario per il Football Fest. Tra loro anche i due scelti dalla giuria che andranno a Perugia. Il mondo del pallone, la società e il più intimo cerchio della famiglia. Le storie personali e le emozioni collettive. Centinaia i racconti degli studenti reporter di RepScuola che hanno voluto misurarsi con l'epica del calcio, lo sport che più di ogni altro coinvolge la nostra società, e raccontare come i piccoli gesti quotidiani escano travolti e modificati dalle passioni che questo sport riesce a suscitare. Per la sfida “IL CALCIO A CASA TUA”, organizzata da Repubblica@Scuola insieme a Progetto IMMaginario che lancia a Perugia la prima edizione di Football Fest, sono arrivati racconti di gioia sospesa e avvincenti emozioni. Storie di condivisioni e di distacchi.
LEGGI I RACCONTI DEGLI STUDENTI DELLE MEDIE
“Era una domenica sera, si sentiva odore di ottimo cibo venire dalla cucina, una nuvola di profumi si alzava dal tavolo dietro al divano su cui ero steso. Birre, chiacchiere, la mia famiglia, i nostri amici: stava per cominciare la partita della mia squadra del cuore, l'Inter. In prima fila, accanto a me, il mio padrino, anche lui accanito tifoso nerazzurro, la persona che mi aveva regalato il mio primo pallone e che era anche il mio compagno di giochi. Ero molto stanco, dopo una lunga giornata trascorsa in giardino a correre insieme a lui dietro a quel pallone”. E' questo l'incipit del racconto (Il primo pallone) di Salvatore Ruggiero che si è aggiudicato il primo posto per la categorie delle medie.
Salvatore, che arriva dall'Istituto comprensivo Luigi Vanvitelli di Airola provincia di Benevento e scrive su RepScuola con il nickname di iena21, ha raccontato di un partita dell'Inter per raccontare, con sincerità e spaesamento, il distacco da una figura familiare a cui si sente ancora molto legato. Arriva invece da Gaeta, in provincia di Latina, il vincitore per la categoria delle superiori.
LEGGI I RACCONTI DEGLI STUDENTI DELLE SUPERIORI
Marco Costantini, questo il nome dello studente reporter vincitore per le superiori, che scrive con il nickname di piccion, ha saputo fondere insieme il vissuto personale con l'evento collettivo della vittoria dell'Italia ai Mondiali del 2006. Così inizia il suo racconto (“9 luglio 2006”): “Era il 9 Luglio 2006, avevo 10 anni e passavo i miei pomeriggi estivi a giocare a calcio nel campetto sotto casa, un grosso piazzale al centro tra quattro palazzi. Quell'anno venne a villeggiare nel mio quartiere un gruppo di francesi ed io e i miei amici stringemmo subito amicizia con i figli di quei turisti. Dal primo giorno che ci incontrammo al giorno prima della finale giocammo tutti i pomeriggi alla stessa ora, appuntamento fisso: ore 16:00 al campetto. Quel 9 Luglio fu diverso. Per qualche strano motivo ci trovammo alle 18:00, capimmo quindi che era impossibile iniziare una delle nostre interminabili partite e decidemmo di giocare una partita a tempi regolamentari, così da poterci godere la finale la sera”.
I due vincitori saranno ospiti a Perugia delle giornate del Football Fest, il primo festival dedicato al racconto del calcio, alle storie e alle persone, all'epica e all'emozione che questo sport suscita. L'evento si terrà da giovedì 2 luglio a domenica 5 luglio 2015.
LEGA PRO: IL CALCIO IMPOSSIBILE.
Il calcio impossibile della lega pro. Sponsor poveri, stadi vuoti e diritti tv scarsi, mentre le spese restano alte. I club della ex serie C faticano a far quadrare i conti e dopo aver lasciato spesso per mesi i giocatori senza stipendio falliscono uno dietro l'altro: le squadre sparite dal 2000 ad oggi sono state più di 100. Senza contare il danno sportivo, con la classifica decisa non dai risultati sul campo ma dai punti di penalizzazione dovuti ai ritardi nei pagamenti. L'inchiesta di "La Repubblica".
Sepolti sotto una montagna di debiti, scrive Francesco Saverio Intorcia. L'insostenibile leggerezza del pallone di periferia è testimoniata dall'affollamento del suo cimitero sportivo: 107 squadre di provincia sparite dal 2000 a oggi, seppellite da una montagna di debiti. Il piccolo mondo della serie C ha cambiato nome, mutato formula, lanciato lo streaming gratuito di tutte le sue partite sul web. Ma anche adesso che si chiama Lega Pro, che ha una divisione unica e ha ridotto i club in lizza, resta un torneo in cui è difficile arrivare a fine mese, figurarsi a fine stagione. Ci sono i calciatori del Savoia che non vedono uno stipendio da mesi e hanno inscenato plateali forme di protesta, come quella di allenarsi in strada, fuori dallo stadio. Quelli del Monza, in ritiro prima di una partita importante, hanno imparato a fare la spesa e cucinarsi la pasta da soli. Il Barletta, invece, per trovare acquirenti alla società è arrivato a dare la procura a un capo ultrà. Quando la classifica la scrive il giudice. Se il caso-Parma ha scosso la serie A e costretto la Lega al mutuo soccorso per salvare la faccia al campionato, in Lega Pro la crisi dei club è qualcosa di perfettamente ordinario, un male necessario e inestirpabile, con riflessi evidenti sui destini sportivi. Basta dare un occhio alle classifiche dei tre gironi: 16 club sono stati sanzionati per irregolarità amministrative e ritardi nei pagamenti, e le penalizzazioni, che oscillano di concerto con i gradi della giustizia sportiva, ammontano a 49 punti. In questo momento, almeno: erano arrivate a 64 prima degli sconti in appello. Il Novara era in testa al suo girone, con un piede in B, quando si è visto togliere 8 punti per inadempienze negli stipendi ed è scivolato al quarto posto, a metà aprile. Non ha smesso di vincere, ha riacquistato 5 punti in appello, è tornato in corsa per la promozione diretta. Tutto in due settimane, in pieno rush finale. La Reggina, invece, prima è retrocessa per una penalizzazione di 12 punti, poi è stata rianimata dalla Corte d'Appello che gliene ha restituiti 10, mentre il presidente Foti è in procinto di vendere il club a imprenditori calabresi emigrati in Australia. Se la Crisi Football Club fosse una squadra reale, con i suoi 49 punti lotterebbe anche quest'anno per i play-off. Il dato è impressionante perché quella in corso è la prima stagione dopo la riforma. Non più due categorie (C1 e C2, poi Prima e Seconda Divisione), una drastica riduzione dei club a 60 unità (erano 90 nei quadri originari). Il vecchio sistema era insostenibile: la C2/Seconda Divisione, in particolare, più che avamposto del professionismo, era diventata una terra di nessuno. Facile approdarvi dalla D con una squadra dilettantistica, ancor più facile sparire nel giro di un anno o due. Tagliati i rami secchi, la nuova Lega Pro doveva essere virtuosa, esaltare il suo lato migliore: il torneo dei campanili, dei piccoli grandi derby, delle realtà imprenditoriali legate al territorio. A questi livelli, il calcio non si fa con i soldi di tv e sponsor, e i ricavi al botteghino non bastano mica a coprire i costi. In serie C, il calcio si nutre ancora dei baiocchi del presidente, della sua famiglia, della sua azienda. Il caso Pergocrema. La fotografia del declino parte dall'alto: il presidente della Lega Pro Mario Macalli è stato appena squalificato per sei mesi. Per il Tribunale federale nazionale, ha violato i doveri di "lealtà, probità e correttezza", fondamento del codice di giustizia sportiva. Niente male per uno che è alla guida dal '97, è vicepresidente federale ed è stato decisivo nell'elezione di Carlo Tavecchio. La sentenza, pronunciata il 29 aprile, si riferisce al caso Pergocrema. Clamoroso, a raccontarlo. Il Pergocrema è un club fallito nel giugno 2012. Ma non uno qualsiasi. E' la squadra di Crema, la città di Macalli. Il quale dal febbraio 2011 ha cominciato a registrare quattro marchi di possibili altri nuovi club riconducibili alla città (Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932). E quando il Pergocrema è sparito, Macalli ha concesso l'uso di uno dei propri marchi (Pergolettese 1932) al presidente del Pizzighettone, che ha trasferito la squadra a Crema e le ha cambiato nome. Tutto questo mentre il vecchio club, come poi ha denunciato l'ex presidente Sergio Briganti, si vedeva negare ad aprile e maggio 2012, poche settimane prima del crac, un versamento di 256mila euro dalla stessa Lega Pro. Soldi dovuti come tranche dei diritti tv. Il quadro che emerge è curioso: se la Lega di A si è mossa in blocco per salvare il Parma, in Lega Pro il presidente ha "di fatto stabilito chi dovesse svolgere l'attività calcistica nella città di Crema". Sul piano penale, Macalli è stato rinviato a giudizio, il gup di Firenze l'ha prosciolto dall'accusa di abuso d'ufficio. Sul piano sportivo, la giustizia è stata meno clemente, anche se la sentenza è solo di primo grado e per il momento gli ha evitato di lasciare l'incarico: un giorno in più di inibizione e sarebbe scattata la decadenza. Imbarazzi? Dimissioni? Macché. La Lega Pro è abituata a superare piccoli incidenti: l'assemblea di dicembre ha bocciato il bilancio, una folta e agitata minoranza chiede da mesi una nuova seduta per sfiduciare Macalli e andare al voto. E' ancora lì che aspetta, ingabbiata da una melina di rinvii e carte bollate. Un milione bruciato ogni anno. Quanto costa fare un campionato di Lega Pro? E, soprattutto, quanto ci rimettono i soci proprietari? L'ultimo report della Figc disponibile è del 2014, antecedente dunque la riforma dei campionati e basato solo sui bilanci disponibili. Il fatturato medio è di 3,1 milioni, i costi si aggirano sui 4,2 a stagione. Questo vuol dire che, in media, ogni squadra brucia 1,1 milioni a campionato, un tesoro sproporzionato al valore della produzione (che pure presenta un trend recente in crescita). Inoltre i debiti sono pari all'86% del fatturato. Pagare gli stipendi, più che un dovere, è un'impresa. Il rapporto fra il costo del personale tesserato e il fatturato netto è al 78%. Secondo gli ultimi dati disponibili della Figc, l'ingaggio medio di un calciatore di terza serie sfiora i 25mila euro annui lordi (24.910), contro i 76mila di uno di B e i 258mila di uno di A (una media poco fedele, che non racconta la sperequazione fra top player da 12 milioni lordi annui e umili comprimari). Ma in serie A gli incassi dalle tv sono praticamente uguali al monte ingaggi - entra un miliardo di diritti, esce un miliardo di stipendi - e ogni club ha una certezza, all'inizio del campionato, sull'ammontare della sua fetta di torta. In C, invece, i ricavi da stadio sono la voce principale del bilancio, assai modesta. Tranne rare eccezioni virtuose, si resta aggrappati ai contributi che arrivano dall'alto, alle briciole che piovono dal tavolo. Nessuno sa con certezza a inizio stagione su quali cifre potrà contare e su quando verranno corrisposte. Andare in sofferenza finanziaria, ritrovarsi con la cassa vuota, è un'evenienza frequente, come dimostra l'ondata di segni "meno" nelle classifiche. Secondo la Federcalcio, negli ultimi 30 anni sono sparite 162 squadre professionistiche: una in A (il Torino, neopromosso e non ammesso nel 2005), 8 in B, 153 in C, di cui 21 in Campania, la regione più colpita. Ma nella Spoon River son rappresentate anche Toscana (19), Puglia (16), Sicilia (14), Lombardia (13), la virtuosa Emilia-Romagna (13). L'equazione, più che geografica, è demografica: le regioni più popolose sono quelle che hanno proiettato fra i professionisti il maggior numero di club e, di conseguenza, che hanno pianto il maggior numero di fallimenti. Il pallone annaspa in provincia senza fare questioni di latitudine.
"Torneo per soli giovani, solo così la salviamo", scrive Antonino Palumbo. Trasformare la serie B e la serie C in campionati riservati essenzialmente ai giovani. E far si che tutti rispettino le regole, garantendo ai club iscritti a questi campionati una ridistribuzione diversa dei proventi in arrivo dalla Serie A. E' questa la ricetta alla crisi senza fine della Lega Pro secondo Pietro Lo Monaco, che in molti ricordano per l'accesa polemica con José Mourinho ("conosco solo lo monaco buddista", disse sprezzante dopo un Inter-Catania del settembre 2008), ma che è soprattutto un dirigente sportivo con anni di esperienza in tutte le maggiori categorie del calcio italiano, dalla Serie A alla Lega Pro. Reggina, Udinese, Catania, Genoa e Palermo nel suo passato. La presidenza del Messina di Lega Pro nel suo presente. E tanti dubbi sul futuro: Lo Monaco ha infatti annunciato l'addio a fine giugno. La crisi morde su entrambe le sponde dello Stretto.
Lo Monaco, anche quest'anno in Lega Pro molti club sanzionati, mensilità su mensilità di stipendi non pagate e una riforma che pare non aver dato frutti...
"Il sistema non può mantenersi così com'è. I grandi incassi sono una voce che appartiene al passato della Serie C: a Messina siamo sui duemila euro di media, una cifra irrisoria. Le sponsorizzazioni soffrono della crisi economica e gli approvvigionamenti della Lega sono davvero ridicoli, il tutto in una gestione obbligatoria onerosissima: per una società virtuosa occorrono 1,7 - 1,8 milioni per un campionato gestito ai minimi termini. E la Lega Pro è diventata un campionato pieno di contraddizioni".
In che senso?
"Dovrebbe essere riservato ai giovani e non lo è. Dovrebbe essere il granaio del campionato maggiore e non lo è. Dovrebbe vantare società con impianti e strutture a disposizione, ma non è così. Si parla di incentivi ai settori giovanili, ma i vivai virtuosi sono pochissimi. Però poi costringono le società a spendere 200-220 mila euro per partecipare ai campionati giovanili dalla Beretti in giù".
Cosa ne pensa della possibile riforma che porterà il numero di squadre da 60 a 36?
"Potrebbe servire se ogni club avrà 1-1,2 milioni di appannaggio annuo, ma in definitiva è un segnale di scarso interesse verso la sopravvivenza di questo campionato: il passaggio da 108 a 90 e infine a 60 squadre non ha risolto i problemi".
A proposito di problemi, in un quadro simile il rischio di scommesse illegali aumenta, qualcuna denunciata recentemente da Federbet...
"Credo che le scommesse non facciano bene al calcio, ma andrei cauto nel dire che il campionato di Lega Pro è falsato".
La sua ricetta per uscire dalla crisi?
"Un commissariamento che faccia ripartire il calcio da un anno zero e rimanere all'interno del sistema-calcio più soldi, rispetto a quelli attuali. Facciamo diventare la B e la C campionati riservati ai giovani, potenziamo le strutture ridistribuendo i proventi, rispettiamo le regole. Altrimenti, sarà la fine".
Senza padroni e salari bloccati, il caso Südtirol, scrive Cosimo Cito. Sostenibilità calcistica, prima o poi servirà usarla questa espressione, e quando accadrà bisognerà rispettare il copyright e citare il Fussball Club Südtirol, inteso come squadra di calcio, inteso come laboratorio di qualcosa di nuovo, di mai tentato prima in Italia. Nell'estremo Nord del nostro pallone c'è una realtà che avanza da anni e non ha mai fatto passi indietro. Il Südtirol, nel girone A della Lega Pro, ha una struttura societaria che ricorda quella del Barcellona. Una proprietà diffusa, non un proprietario ma 30 soci che si dividono il 90% delle quote societarie (ma il più grande detiene appena il 25). In più c'è un 10% nella mani di un azionariato popolare, 500 bolzanini che pagano 50 euro l'anno e sono proprietari anche loro di un club che nel calcio professionistico italiano è un unicum. Nella provincia di rocce, ghiacci e prati infiniti, il Südtirol è di tutti. Il presidente del consiglio dei soci, Walter Baumgartner, è fiero di questa strada: "Siamo stati i primi in Italia, da tre anni utilizziamo questa sorta di azionariato popolare per sostenere economicamente le spese del campionato. Funziona". Il vantaggio di non avere un proprietario unico è fin troppo ovvio: i soci agiscono come in una cordata, in montagna, si aiutano reciprocamente e danno continuità aziendale al club anche in caso di problemi di una o più componenti. In altre parole, il Südtirol è una cooperativa con una proprietà diffusa. I risultati arrivano, come direbbe Benitez, senza fretta ma senza pausa. Dalla sua rinascita, nel 1995, il Südtirol ha iniziato ad avanzare in modo inarrestabile. Promozione, Eccellenza, Dilettanti. Nel 2000 il trasferimento del titolo sportivo da Bressanone a Bolzano e la C2 mai abbandonata fino al 2010, quando arriva la promozione in Prima Divisione. Nel 2013 i biancorossi dell'Alto Adige perdono la semifinale playoff col Carpi, l'anno dopo la finale con la Pro Vercelli. Nel campionato in corso, nel girone A, sono in una parte tranquilla della classifica. Mai una retrocessione, mai guai finanziari, una stabilità incredibile in un mondo di bolle di sapone. Il club di Bolzano è anche l'unico nel calcio professionistico italiano ad avere un Salary cap, un massimale per lo stipendio dei calciatori. "Nessuno guadagna più di 40mila euro annui - racconta Baumgartner - il nostro budget complessivo non supera 3,5 milioni di euro, ci piace volare bassi, ci piace avere pazienza, sappiamo che tutto presto o tardi arriverà, mai avuto fretta, mai pensato al calcio come a una macchina per fare soldi e vendere fumo. Il nostro calcio è gioco, passione e testa sulle spalle. Ho condiviso ciò che ha detto il presidente del Carpi dopo la promozione in serie A: non faremo mai il passo più lungo della gamba. Solo così si può sopravvivere nel calcio". Il 30% del budget annuale del Südtirol è dedicato al settore giovanile, il vero core business. L'età media della prima squadra è bassissima: 23 anni. Almeno in dieci della rosa a disposizione del tecnico Giovanni Stroppa provengono dalla "cantera". Di concerto con il Comune, la società ha costruito un centro sportivo all'avanguardia e sta ristrutturando il vecchio "Druso", lo stadio che ha il nome del condottiero romano che costruì il primo ponte sull'Isarco. L'impianto è il cuore del progetto di Baumgartner, che vuole creare intorno al Südtirol un movimento di pubblico e di interesse senza precedenti nella provincia autonoma. "La fame di calcio è notevole, certo non è facile per noi 'combattere' contro gli sport invernali e le passioni storiche dei nostri concittadini, ma nelle finali playoff, lo scorso anno, il Druso era pieno e vedrete cosa succederà, se dovessimo nei prossimi anni centrare la B". Sarebbe un piccolo miracolo e una grande favola.
All'inferno e ritorno, la lezione del Vicenza, scrive Antonino Palumbo. Dal rischio fallimento alla corsa verso la Serie A in un anno e mezzo. Attraverso un quinto posto in Lega Pro, un ripescaggio in B, un cambio di guida tecnica (da Lopez a Marino, a fine ottobre) e l'amore di una tifoseria calorosa e paziente, che ha imparato in 113 anni di storia come, lì in provincia, a un meraviglioso anno da leone corrisponda quasi giocoforza un lustro o un decennio nel folto del gregge. Vicenza lo sa e non si illude, eppure prova a costruire per l'ennesima volta il suo miracolo sportivo, un'eccezione alle tante storie di club piegati dalla crisi economica e gestionale. Il club biancorosso, che dall'anno della sua fondazione, ha cambiato otto volte denominazione e sei volte proprietà, vuole tornare in Serie A dopo 14 anni, magari evitando la ghigliottina dei play-off. L'ultima partita nel massimo campionato risale al 17 giugno 2001, un triste successo a Udine per 3-2 con due gol di Kallon e uno di Zauli. Ben diverso fu l'epilogo del primo campionato di serie A disputato dal Vicenza. Nell'anteguerra il club veneto aveva lanciato talenti come Camolese, Chiodi, Vosta Rossi e i fratelli Umberto e Romeo Menti, quest'ultimo passato poi al Grande Torino e scomparso nella tragedia di Superga nel 1949: ancora oggi lo stadio lungo nato lungo il Bacchiglione porta il suo nome. Menti era già granata quando, nel giorno di Pasqua del '43, il Vicenza conquistò la permanenza in A vincendo a Torino con la Juventus per 6-2, all'ultima giornata. Nel 1953 la vecchia "Acivi" venne acquistata dalla Lanerossi, il colosso laniero di Schio. Il Vicenza conservò l'approccio da provinciale, attento al bilancio e ai giovani, ma conquistò i galloni di outsider, capace talvolta di concludere il campionato nella parte medio-alta della classifica, di lanciare giocatori come Azeglio Vicini, Sergio Campana e poi Renzo Cappellaro, Mario David, Mirko Pavinato e Luigi Menti, di vincere il premio del Seminatore d'Oro per il miglior allenatore stagionale, assegnato a Roberto Lerici nel 1960-1961. E di festeggiare il titolo di capocannoniere di Luis Vinicio, nel 1966. Salvo grazie a una incredibile rimonta nel 1973, il Vicenza cadde in B tre anni dopo per poi tornare prontamente in Serie A e vivere il campionato più esaltante della sua storia grazie anche alla presenza in squadra di Paolo Rossi: giunse seconda, segnando più di tutti (50 gol, 24 dei quali di Rossi) e conquistando lo storico pass per la Coppa Uefa. Dopo il volo, però, arrivò puntuale la caduta: due retrocessioni in tre stagioni e nell'81 Vicenza si ritrovò in Serie C1. Dopo un'altra serie di alti e bassi, il passaggio da Lanerossi alla proprietà Dalle Carbonare aprì una nuova, storica fase per il club che proprio nell'anno dei Mondiali in Italia cambiò denominazione in Vicenza Calcio e dopo la vittoria della Coppa Italia nella stagione 1996-1997 arrivò fino alla semifinale della Coppa delle Coppe. Puntuale, poi, l'anno successivo, il ritorno in B, bissato nel 2001. Il Vicenza ha cambiato ancora padrone nel 2004, passando dalla britannica Enic (subentrata sette anni prima) a una proprietà formata da imprenditori locali. Nel luglio del 2013 ha evitato il fallimento grazie a nuovi investitori, dieci mesi fa è stato ripescato il B per l'addio del Siena. Adesso è lì che bussa alla porta della A, sperando che non sia solo l'ennesimo giorno da leone.
Controlli prima per non piangere dopo, scrive Massimo Mazzitelli. I conti del fallimento è facile farli. Ogni società di Lega Pro ha costi di gestione di almeno 2 milioni di euro l'anno tra stipendi giocatori, staff tecnico e dipendenti, più viaggi e spese varie (materiale tecnico, campo, medici ecc..). E parliamo di società comunque attente ai bilanci: il totale diviso per le 60 squadre dei tre giorni è di 120 milioni. Sapete quanto la Lega gira ogni anno alle società? Non più di 60 milioni tra diritti tv, sponsorizzazioni e minutaggio giovani. C'è un buco almeno di 60 milioni di euro e con l'attuale crisi economica è difficile che possa essere colmata da sponsorizzazioni delle singole squadre, sono sempre di meno e sempre più povere, né da ricchi presidenti, di cui ormai non c'è più traccia. Chi li mette quei sessanta milioni, ad essere ottimisti? E' chiaro che ormai il sistema Lega pro non regge più nonostante le ripetute e poco circostanziate promesse del presidente sempre più contestato Macalli. Non regge perché 60 squadre sono troppe. La proposta di Lotito di un campionato con sole 36 squadre forse potrebbe avere un senso, ma non regge semplicemente perché non ci sono più i soldi. Ormai è evidente che il campionato di Lega Pro è diventato una "scommessa": fare squadre ambiziose, oltre il conto economico, e sperare nella promozione e nei proventi milionari dei diritti televisivi della serie B. Chi però non raggiunge l'obiettivo, fallisce. Senza poi contare i milionari millantatori che i danni li fanno anche nel mezzo della stagione. L'unica soluzione è fare pulizia prima, controllare i conti economici delle società e iscrivere al campionato solo quelle in grado di reggere economicamente la Lega Pro: gli esempi positivi ci sono: Bassano, Südtirol, Salernitana, Teramo e qualche altra. I conti devono tornare prima che cominci il campionato. I controlli devono essere capillari prima di formare i calendari: ci devono essere le garanzie per stipendi e spese varie. E' l'unico sistema per ridare credibilità ad un campionato che ormai vede le classifiche decise più dalle penalizzazioni che da vittorie e pareggi.
SCANDALO CALCIOSCOMMESSE ANCHE IN LEGA PRO E SERIE D.
Calcioscommesse: 50 fermi in LegaPro e serie D. L'accusa: associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva e truffa. Nel mirino 27 partite truccate. Il clan Iannazzo dietro le operazioni sporche, scrive Gianluca Ferraris su “Panorama”. Altro terremoto nel mondo del calcio. Nel corso della notte una maxioperazione, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ed eseguita dagli agenti della squadra mobile cittadina in sinergia con gli uomini del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, ha portato al fermo di una cinquantina di persone. Tra di loro diversi calciatori (ex o ancora in attività), dirigenti e allenatori di LegaPro e serie D. Non mancano i nomi noti, né gli indiziati che avrebbero tentato (in almeno un caso con successo) di riparare all’estero. E non manca l'ombra della 'ndrangheta dietro il nuovo scandalo. Per tutti, l’accusa – il provvedimento di fermo è firmato dal sostituto procuratore Elio Romano – è di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva e alla truffa: nel mirino degli inquirenti ci sarebbero, al momento, almeno 27 partite, tutte della stagione calcistica in corso, tra LegaPro e serie D. Ma questa nuova “cupola”, nel corso della sua attività, avrebbe tentato truccare (senza riuscirci) anche incontri di categorie superiori e di altri sport. Per questo sono in corso altri accertamenti da parte degli investigatori. Complessivamente sono 76 gli indagati nell'indagine. Le forze dell'ordine stanno operando in oltre 20 province in Calabria, Campania, Puglia, Emilia Romagna, Abruzzo, Marche, Toscana, Liguria, Veneto e Lombardia.
Il frontespizio del documento della Procura della Repubblica di Catanzaro indica il numero del procedimento del P.M. Elio Romano: 1110/09 RGNR mod. 21.
“Le indagini” si legge ancora nel provvedimento di fermo “ruotano attorno all’opera di faccendieri, di direttori sportivi infedeli alla loro funzione i quali, facendo leva sul loro ruolo all’interno delle società e sulla rete di relazioni e conoscenze che ne segue, alterano le gare di campionato procurando e promettendo denaro o altre utilità ad allenatori e calciatori militanti nelle squadre partecipanti alle competizioni perché falsino le loro prestazioni alterando i risultati delle gare”. Per alcuni degli indagati c’è anche l’accusa di estorsione aggravata, sequestro di persona e minacce: si tratta, nella maggior parte dei casi, di cittadini slavi indiziati di essere intermediari e cofinanziatori delle combine calcistiche. Ai fermati viene contestata, diversamente da quanto accaduto con le precedenti inchieste sul calcioscommesse, anche l’aggravante del metodo mafioso, “per aver agito” si legge nell’ordinanza “con la consapevolezza della capacità di intimidazione e di assoggettamento derivante dall’appartenenza al gruppo criminale denominato cosca Iannazzo”. Si tratta di uno dei clan ‘ndranghetisti più in vista degli ultimi vent’anni, attivo in particolare nella zona di Lamezia Terme e recentemente decapitato da un’altra retata che aveva colpito, la settimana scorsa, 43 presunti membri, prestanome o fiancheggiatori della ‘ndrina, tra i quali l’imprenditore Francesco Perri, dirigente di spicco della Vigor Lamezia. È proprio intercettando alcuni colloqui di Iannazzo che gli investigatori hanno ricostruito il giro di calcioscommesse. Negli atti si legge: "Il primo gruppo criminale, si concentra sulle figure e le condotte di Mario MOXEDANO, Antonio CICCARONE, IANNAZZO Pietro, il primo Presidente, l’altro Direttore Sportivo del NEAPOLIS, compagine militante nel campionato Lega Nazionale Dilettanti, serie D - Girone I, il terzo personaggio di primo piano della ‘ndrangheta calabrese ed esponente di spicco della cosca Iannazzo di Lamezia Terme con interessi nel settore calcio; vale la pena evidenziare che proprio di recente la suddetta cosca è stata oggetto di attenzione giurisdizionale con emissione di ordinanza cautelare daparte del GIP di Catanzaro e che Iannazzo Pietro trovasi attualmente ristretto in carcere per il reato di cui all’art. 416 bis cp. I tre soggetti sopra indicati, valendosi della collaborazione di dirigenti sportivi, calciatori delle altre squadre partecipanti al campionato di serie D (Lega Nazionale Dilettanti), affaristi senza scrupoli, organizzano frodi sportive il cui scopo primario è quello di procurare la vittoria del campionato al NEAPOLIS. Le frodi ordite dal gruppo investono tuttavia anche gironi diversi da quelli di appartenenza del NEAPOLIS, mosse dal fine di effettuare scommesse sulle gare falsate così da lucrare su facili vincite ovvero cedere l’informazione alla cerchia di accoliti, tra i quali non mancano i calciatori, per consentire loro di scommettere sulle partite alterate. In tale contesto appare fondamentale la rete di informazioni che i protagonisti delle vicende delittuose scambiano tra loro. MOXEDANO e CICCARONE vengono così a conoscenza di altre società (ad esempio il BRINDISI calcio) che perseguono il medesimo scopo di vincere il campionato, in un girone diverso dal NEAPOLIS, ma con i medesimi mezzi e, cioè, attraverso ‘combine’ di partite. L’associazione così facendo si apre a nuovi sodali che partecipano ad un patto reciproco di mutua assistenza che verrà meglio delineato nelle pagine a seguire”.
Calcioscommesse, truccati incontri Lega Pro e Serie D: 50 arresti. Le squadre coinvolte sono circa una trentina. Scoperta una fitta rete di giocatori, allenatori e dirigenti di società che combinava le partite, scrive Giuseppe Toti su “Il Corriere della Sera”. Dalla ‘ndrangheta al calcioscommesse. E così un altro ciclone si abbatte sul football italiano, l’ennesimo scandalo di partite truccate che stavolta colpisce la stagione in corso della Lega Pro e della serie D, e che rischia di riscrivere la geografia dei campionati che verranno. Una vasta operazione della Polizia di Stato ha preso avvio all’alba di martedì 19 maggio per eseguire gli ordini emessi dai magistrati della Dda, la Direzione distrettuale antimafia, presso la procura di Catanzaro, che riguardano, tra gli altri, anche presidenti, dirigenti di club e calciatori: ben 50 sono i fermi disposti dagli inquirenti mentre quasi 80 risultano essere le persone indagate nell’ambito dell’inchiesta che trae origine da una cosca calabrese legata alla ‘ndrangheta. L’accusa per tutti è di associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva. Il provvedimento di fermo è di circa 1200 pagine. Arresti e perquisizioni in 21 province italiane: Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria, Bari, Napoli, Milano, Salerno, Avellino, Benevento, L’Aquila, Ascoli Piceno, Monza, Vicenza, Rimini, Forlì, Ravenna, Cesena, Livorno, Pisa, Genova, Savona. Fra i destinatari dei fermi risultano anche personaggi stranieri. Per alcuni indagati vengono contestate anche le aggravanti mafiose e transnazionali. Fra i fermati anche un membro della cosca Iannazzo, potente clan della ‘ndrangheta lametina. Nell’inchiesta risulta coinvolto un poliziotto. Diverse perquisizioni nelle sedi delle società di calcio. Le squadre coinvolte sono circa una trentina, in maggioranza di Lega Pro, decine gli incontri combinati nei due campionati. I club fanno parte di tutti e tre i gironi della ex serie C: nord, centro e sud. Alcuni di essi sarebbero addirittura impegnati nei playoff per la promozione in serie B e nei playout per rimanere nella categoria anche il prossimo anno; altri ancora invece avrebbero anche una storia calcistica di un certo prestigio. Coinvolte nel giro di partite truccate sarebbero, tra le altre: Pro Patria, Barletta, Brindisi, L’Aquila, Neapolis Mugnano, Torres, Vigor-Lametia, Santarcangelo, Sorrento, Montalto, Puteolana, Akragas; San Severo. Il lavoro dei magistrati della Procura Antimafia di Catanzaro ha portato alla luce, nel corso di questi mesi, una fitta rete di giocatori, allenatori e dirigenti di società che si è rivelata essere particolarmente attiva - assieme a personaggi appartenenti a due distinte organizzazioni criminali - nel combinare le partite, alterandone i risultati, e nell’investire il denaro nei circuiti illegali delle scommesse, in Italia e in diversi paesi esteri. L’intervento di martedì 19 maggio 2015 è condotto dalla Squadra mobile di Catanzaro e dallo Sco (il Servizio centrale operativo della polizia), che stanno operando in ben 10 regioni: Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Abruzzo, Campania, Puglia e Calabria. I dettagli di tutta l’attività investigativa, con i nomi dei fermati e dei club accusati, saranno svelati alle ore 11 di martedì nel corso di una conferenza stampa presso la questura di Catanzaro con il procuratore capo di Catanzaro Vincenzo Lombardo, il procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri, il questore Racca, il direttore del Servizio Centrale Operativo Renato Cortese, il dirigente della Squadra Mobile di Catanzaro Rodolfo Ruperti e il direttore della I Divisione Andrea Grassi. Questa nuova inchiesta sul calcioscommesse va dunque ad aggiungersi, tristemente, a quella della Procura di Cremona che soltanto tre anni fa - come si ricorderà - scoperchiò un inquietante giro di scommesse clandestine, protagonisti squadre, tecnici e calciatori di serie A e B.
Calcioscommesse, maxi-retata: 50 arresti. Partite truccate in serie D e Lega Pro. In manette sono finiti oltre 15 calciatori, 6 presidenti di società sportive, 8 dirigenti sportivi, allenatori, direttori generali, 10 "finanziatori" (scommettitori italiani, maltesi, del Kazakistan, della Russia, cinesi e serbi), scrivono Francesco Viviano, Marco Mensurati, Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su "La Repubblica". Presidenti, allenatori, manager, calciatori, imprenditori italiani ed esteri ed anche "magazzinieri" delle società calcistiche della serie D e della Lega pro (ex serie c) ma anche di serie B sono al centro dell'ultimo scandalo delle partite truccate dei nostri campionati che stamattina sono finiti in galera con l'accusa di associazione per delinquere finalizzata alla frode calcistica e con l'aggravante di avere favorito organizzazioni mafiose (ndrangheta in particolare). Sono quasi 50 "insospettabili", da Trento ad Agrigento, che decidevano chi perdeva e chi vinceva nelle partite seguite da migliaia di ignari tifosi che andavano allo stadio pensando di assistere ad un incontro onesto tra la squadra del loro cuore e quella degli avversari. Ma non era così. Era tutto truccato per consentire agli stessi calciatori, presidenti, allenatori e scommettitori di guadagnare milioni e milioni di euro corrompendo tutti. E' quanto emerge dall'inchiesta della Procura della Repubblica di Catanzaro diretta dal Procuratore Antonino Lombardi e dagli uomini dello Sco (Servizio Centrale Operativo della Polizia ) coordinati da Renato Cortese, che hanno individuato ed in parte arrestato i protagonisti di questa squallida vicenda. In galera sono finiti oltre 15 calciatori, 6 presidenti di società sportive 8 dirigenti sportivi, allenatori, direttori generali, 10 "finanziatori" (scommettitori italiani, maltesi, del Kazakistan, della Russia, cinesi e serbi). Tutto è partito da una indagine su un capo bastone della 'nrangheta, Pietro Iannazzo che aveva interessi sulla squadra di calcio Neapolis e, seguendo lui, gli investigatori dello Sco e della squadra mobile di Catanzaro, hanno scoperto questo grande giro nazionale ed internazionale sui campionati di calcio italiano dilettanti e Lega Pro (alcune anche di serie B) con scommesse milionarie su partite truccate con l a complicità di giocatori, allenatori, presidenti e "magazzinieri" che si vendevano per migliaria di euro per decidere chi doveva vincere e chi doveva perdere. Uno dei personaggi chiave di quest'ultimo scandalo del calcio italiano è Fabio Di Lauro che, secondo gli investigatori è "il rappresentante unico in Italia" dei "signori delle scommesse" nazionali ed internazionali, che investivano ed incassavano milioni di euro che transitavano attraverso banche turche, serbe, cinesi ed italiane.
Nuovo scandalo calcioscommesse: truccati incontri Lega Pro e Serie D. Via all'operazione "Dirty soccer" della Dda di Catanzaro: coinvolte una trentina di squadre. Scoperta due organizzazioni criminali capaci di alterare risultati dei campionati di Lega Pro e Serie D e investire danaro nel connesso "giro di scommesse" in Italia e all’estero, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. È ancora calcioscommesse. Un nuovo terremoto giudiziario si è abbattuto su una trentina di squadre di Lega Pro e Serie D. A decine tra calciatori, dirigenti e presidenti di club sono finiti invischiati nell'inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. L’accusa è pesantissima: si parla di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva. Sarebbe stata, infatti, accertata l'esistenza di due diverse associazioni criminali in grado di alterare i risultati degli incontri di Lega Pro e di Serie D. Decine le partite che sarebbero oggetto di combine. Dalla Pro Patria al Barletta, dal Brindisi al Sorrento. E ancora: L’Aquila, Neapolis Mugnano, Torres, Vigor Lametia, Sant’Arcangelo,Montalto, Puteolana, Akragas, San Severo. Sono oltre 70 gli indagati e 50 i fermi emessi dai magistrati di Catanzaro nell'inchiesta "Dirty Soccer". Il provvedimento di fermo, di oltre mille pagine, delinea una rete di personaggi, appartenenti a due distinte organizzazioni criminali, attive nella combine di incontri dei campionati di Lega Pro e Lega Nazionale Dilettanti, capaci di alterare risultati e investire danaro nel connesso "giro di scommesse" in Italia e all’estero. Tanto che in questo business marcio figurano anche soggetti stranieri, un presunto appartenente alla cosca Iannazzo, potente clan della 'ndrangheta operante nella provincia di Lamezia Terme, e un poliziotto. Quella degli Iannazzo, secondo i magistrati della Direzione distrettuale antimafia, è una cosca "d’elite della mafia imprenditrice" dedita agli affari, ma anche capace di scatenare una guerra con altre consorterie per mantenere il proprio predominio sul territorio. È stato, proprio, intercettando Pietro Iannazzo che gli investigatori sono venuti a conoscenze delle combine su svariate partite dei campionati di Lega Pro e Cnd per alterare i risultati al fine di ottenere vincite cospicue con le scommesse. Tre serbi e due maltesi, tutti sottoposti a fermo, sono riusciti a sfuggire all’arresto. Tra le persone fermate c’è, poi, un albanese accusato anche di sequestro di persona. "Quando le partite non finivano con il risultato concordato - ha detto il procuratore capo di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo a Sky Tg24 - scoppiavano grosse liti tra finanziatori e dirigenti delle società. Una di queste è finita proprio con il sequestro di un manager".
L'ombra della 'ndrangheta sul nuovo scandalo. Ad alcuni degli indagati viene contestata anche l’articolo 7, e cioè l’aver favorito l’attività di un’associazione mafiosa, scrivono Giuliano Foschini e Marco Mensurati su “La Repubblica”. Cinquanta arresti, un'ottantina di indagati, perquisizioni in tutta Italia e quell’orribile spettro del calcioscommesse che si affaccia di nuovo sul calcio professionistico italiano. Questa volta, però, con l’ombra della ‘ndrangheta. Una maxi operazione del Servizio centrale operativo (Sco) della Polizia è in corso in tutta Italia: un’indagine della direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ha infatti scoperto un’associazione a delinquere che ha pilotato, e ha continuato a farlo anche in questi giorni, partite di questo campionato di Lega Pro e serie D con alcune gare anche di B e di Coppa Italia. Per farlo corrompeva calciatori e li minacciava. Più di cinquanta le partite oggetto dell’inchiesta. Nell’inchiesta anche un’associazione criminale gestita da slavi, pronti a pagare informazioni da calciatori e dirigenti sugli illeciti sportivi già appattati dalle squadre. Molte le partite di Lega Pro oggetto dell’indagine, come Juve Stabia – Lupa Roma; Santarcangelo – Aquila; Grosseto – Santarcangelo; Aquila – Savona; Prato – Santarcangelo; Cremonese – Pro Patria; Monza – Torres; Bassano – Monza; Torres – Pro Patria; Pro Patria – Pavia; Aquila – Tuttocuoio, Barletta-Catanzaro, Aversa Normanna-Barletta e Barletta-Vigor Lamezia.
Calcioscommesse di fine stagione. La tradizione continua. Con i campionati conclusi o in via di conclusione, arrivano i mandati di cattura. Gianfranco Turano su “L’Espresso”. Quest'anno bisogna accontentarsi dell'ex serie C, ribattezzata Lega Pro, e della serie D. I nomi degli indagati della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, autrice della retata, sono conosciuti solo dai tifosi locali e spesso sono ignoti anche a loro. L'unica eccezione è Mario Moxedano, imprenditore che conobbe il suo quarto d'ora di notorietà come socio di Corrado Ferlaino e Luis Gallo a metà anni Novanta, quando il Napoli usciva dall'età dell'oro maradoniana per imboccare il declino prefallimentare. Gli altri fermati sono un campione assortito di direttori marketing della Vigor Lamezia - un incarico che fa sognare -, di allenatori di club maltesi e di interpreti rumene di 22 anni - altro incarico che lascia spazio alla fantasia -. D'altra parte, l'esempio viene dall'alto, dalla serie A dove pure gli stipendi sono ricchi e, in genere, puntuali. Chiedere a Hristyan Ilievski, il capo della banda degli zingari che sta vuotando il sacco sugli imbrogli dei campioni. E se si fa in serie A, non c'è motivo di non aggiustare le partite in serie C, una lega presieduta da Mario Macalli (foto a lato), settantottenne dal capello corvino che si batte come un leone per non mollare la poltrona e infatti non la molla nonostante una squalifica a sei mesi incassata ad aprile. E che ragione ci sarebbe per non truccare i match in serie D, dove regna il successore del presidentissimo Figc Carlo Tavecchio, tale Belloli, noto per avere lanciato una spending review innovativa applicata esclusivamente alle lesbiche? Certo, le pene della giustizia sportiva sono tanto più severe quanto minore è la fama dei calciatori e dei tecnici autori dell'intrallazzo. Ma chi ha poco da perdere rischia più volentieri. In Lega Pro e in D da perdere non c'è nulla, salvo gli arretrati di un ingaggio che in ogni caso difficilmente arriveranno. Si è detto mille volte. Il calcio che vive sui confini del professionismo è criminogeno. È avaro in termini di tutele legali e offre troppe opportunità illegali. Il crimine organizzato lo sa benissimo. Per questo le partite del calcio minore vanno escluse dal circuito delle scommesse autorizzate. Almeno la 'ndrangheta sarà costretta a tornare al totonero. Resta il fatto che colpire con durezza nelle serie minori è relativamente facile e che domenica scorsa Stefano Mauri, capitano della Lazio in corsa per la zona Champions, era al Foro Italico a godersi la finale Federer-Djokovic dopo avere chiuso i conti a buon mercato con la giustizia sportiva e nonostante le accuse che "lo zingaro" Ilievski sta confermando ai giudici di Cremona. La legge è uguale per tutti. Solo che c'è una legge di serie A, una di B, una di Lega Pro e una per i campionati dilettanti. Chi è brocco si arrangi. Ma basta tristezze. Il grande calcio e la grande finanza ci fanno ancora sognare. Sta prendendo forma la nuova compagine azionaria dell'Ac Milan. Xi Jinping, numero uno della Repubblica popolare cinese contattato personalmente da Silvio Berlusconi, rileverà il 20% del club rossonero. Una quota paritetica andrà al sultano del Brunei. Barack Obama ha quasi convinto la Federal reserve a rilevare il 10% e Vladimir Putin dovrebbe entrare con il 15%. Per un chip del 5% si è candidato Kim Jong-un, trascinato nell'affare dai due principali ambasciatori italiani in Corea del Nord, Antonio Razzi e il cuore rossonero Matteo Salvini. A Kim sarà affidata la delega ai rapporti con il nuovo allenatore. In caso di esonero, il presidente asiatico potrà ripetere lo schema che ha già dato ottima prova con l'estromissione del ministro della Difesa. Al termine del rimpasto, il Ns Caro Leader dovrebbe restare come azionista di riferimento con il 30%. Una volta terminata la definizione delle partecipazioni si passerà a un aumento di capitale in un range fra 50 e 60 miliardi di euro in modo da consentire interventi robusti sul mercato. Mino Rajola, il fondo Doyen e i migliori procuratori sportivi del globo si stanno già muovendo per assicurare al Milan gli ingaggi di Messi, Ronaldo e Ibrahimovic. Una volta individuati i panchinari, si potrà passare all'ossatura della squadra titolare che ruoterà intorno a Ursus, Maciste, Mazinga Zeta, Godzilla, Sartana e Django. Con loro in campo non si accettano scommesse.
Il "Romanzo criminale" del calcio di provincia. Decine di gare truccate. Partite "combinate" da Nord a Sud: 50 arresti, 70 indagati. Nei guai giocatori, allenatori e dirigenti. Business milionario gestito dalla 'ndrangheta, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. Nei campionati di serie D - dove i portieri tuffandosi sentono la puzza della polvere invece che il profumo dell'erba - le partite truccate fanno ancora più rabbia. Perché tra le trincee del calcio povero i tifosi non sostengono semplicemente la loro squadra, ma «sono» la squadra stessa: la squadra del proprio paese, dove sono nati, cresciuti, invecchiati. E da quelle parti i colori sociali del club si fondono con le tinte dell'anima. Anche per questo la brutta scommessopoli di provincia scoperchiata dalla Procura di Catanzaro (che ha ribattezzato l'inchiesta Dirty soccer , neanche fossimo in Premier League ) lascia dentro gli stadi il fumo acre delle promesse bruciate. I traditori sono i piccoli eroi del pubblico di «casa»: giocatori, allenatori, dirigenti, presidenti; tutti in combutta con un'eterogenea fauna di maneggioni all'apparenza di mezza tacca (personaggi degni del film L'allenatore nel pallone ), eppure in grado di muovere un giro d'affari milionario. «Un business trasversale, da nord a sud, con diramazioni internazionali - spiega al Giornale il procuratore capo di Catanzaro, Vincenzo Lombardo -. Obiettivo: arricchirsi attraverso l'alterazione del regolare svolgimento delle gare nei campionati di serie D e Lega Pro. A reggere le fila del business gli uomini della 'ndrangheta, nelle cui casse finiva gran parte del bottino. In prospettiva si sarebbe dovuti arrivare anche alla scalata delle partite professionistiche (serie A e B ndr), di questo, al momento, nell'inchiesta non risultano evidenze certe». Certi sono invece i «mezzi coercitivi» che l'organizzazione utilizzava per «aggiustare» gli incontri, arrivando perfino a «sequestrare» chi mostrasse eventuali ripensamenti in ordine alle combine precedentemente pianificate. I numeri delle persone coinvolte nel blitz e le aree geografiche interessate alle indagini sono impressionanti: la polizia ha infatti eseguito 50 fermi (70 gli indagati) in 21 province da nord a sud con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva. Decine le partite «irregolari». La Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, che coordina l'inchiesta, ipotizzano due diverse associazioni criminali in grado di alterare i risultati degli incontri di Lega Pro e di Serie D. Perquisizioni sono state effettuate nelle sedi delle diverse squadre e anche nei domicili di dirigenti, allenatori e calciatori. Per gli inquirenti si tratta di «un nuovo “romanzo criminale“ i cui attori arrecano danno economico, si fanno beffa delle passioni di quanti seguono la propria squadra del cuore e ledono gli investimenti di denaro e speranze che impegnano le famiglie dei ragazzi che si affacciano al mondo del calcio». A dimostrazione del ruolo prioritario ricoperto dalla 'ndrangheta, c'è il fatto che ad alcuni indagati vengono contestate le «aggravanti mafiose e transazionale». L'inchiesta ha preso il via grazie alle intercettazioni di Pietro Iannazzo, ritenuto elemento di vertice dell'omonima cosca che opera a Lamezia Terme: «Una cosca d'élite della mafia imprenditrice - spiegano i magistrati della Dia - capace di scatenare una guerra con altre consorterie per mantenere il predominio sul territorio». È stato captando alcune conversazioni di Pietro Iannazzo durante quelle indagini che gli investigatori hanno saputo delle combine su varie partite dei campionati di Lega Pro e serie D «per alterare i risultati al fine di ottenere vincite cospicue con le scommesse». Com'era prevedibile il presidente della Figc, Carlo Tavecchio, gioca subito a tirarsi fuori: «Noi parte lesa». Sconcertanti anche le parole di Damiano Tommasi, presidente dell'Associazione italiana calciatori: «Aprire alle scommesse il mondo dei dilettanti è stato un rischio, perché ci sono oltre 160 squadre e le partite non sono trasmesse, quindi sono difficili da controllare». E poi: «Il nostro mondo è allettante per chi persegue il malaffare. Serve chiarezza nel più breve tempo possibile». Confidiamo nei tempi supplementari?
La retata sul calcio sporco. Partite truccate di Lega pro, serie D e serie B. Calciatori, presidenti, manager e magazzinieri indagati. In tutto 50 arresti eseguiti dalla polizia di Stato coordinati dalla procura antimafia di Catanzaro. Tra i personaggi coinvolti uomini della 'ndrangheta, un politico e i signori delle scommesse internazionali, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. L'hanno chiamata Dirty soccer, calcio sporco, l'ennesima retata sul gioco più amato dagli italiani e trasformato in una macchina di quattrini. Il business del pallone attorno al quale ruotano piccoli e grandi interessi. Questa volta a finire nel mirino degli inquirenti sono le serie minori: Lega Pro e Dilettanti. Cinquanta arresti, più di 70 indagati, decine di perquisizioni in tutta Italia, eseguite dalla squadra Mobile di Catanzaro, dal Servizio centrale operativo della polizia, coordinati dalla procura antimafia del capoluogo calabrese. Protagonisti dell'indagine sono presidenti, allenatori, manager, calciatori, imprenditori, italiani ed esteri, e anche magazzinieri delle società calcistiche della serie D, della Lega Pro e di serie B. Avrebbero truccato 28 partite e per questo l'accusa contestata è associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva con l'aggravante di aver favorito organizzazioni mafiose, in particolare la 'ndrangheta. L'inchiesta svela un sistema ben collaudato da Nord a Sud, da Monza ad Agrigento. I tentacoli dell'organizzazione si estendevano anche all'estero: Cina, Kazakistan, Russia, Serbia e Malta. Gli indagati decidevano decidevano chi perdeva e chi vinceva, beffando così i tifosi che sugli spalti esultavano per i goal della propria squadra o si disperavano dopo ogni sconfitta. Torres, L'Aquila, Hinterreggio, Vigor Lamezia, Neapolis, Monza, Pro Patria. Sono solo alcune delle squadre coinvolte. Una grande truffa, un teatrino messo in piedi per portare nella casse private di allenatori, presidenti, giocatori e faccendieri vari, milioni di euro. La corruzione è la chiave che ha aperto ogni porta e ogni spogliatoio, denari contanti che hanno ammorbidito anche i professionisti più duri e puri. Tutto parte da una telefonata. Galeotta fu quell'intercettazione in cui un affiliato della 'ndrangheta di Lamezia fa riferimento ad alcuni interessi nel mondo del pallone. Si tratta di Pietro Iannazzo, nipote del boss Vincenzino Iannazzo detto “il Moretto”, e arrestato due settimane fa in un altra operazione anti 'ndrangheta. Gli investigatori lo descrivono così: «Organico alla cosca Iannazzo di Sambiase nonché conoscitore del calcio dilettantistico meridionale». L'uomo giusto a cui rivolgersi per contattare presidenti, dirigenti o allenatori di altre squadre locali. Seguendo Iannazzo, i detective della polizia ricostruiscono la rete internazionale. Uno dei personaggi chiave è Fabio Di Lauro che, secondo gli investigatori è il rappresentante italiano dei boss delle scommesse. I profitti erano enormi, si parla di milioni di euro sparsi in tutto il mondo, tra Turchia, Serbia, Cina e Italia. C'è anche il “Re del Kiwi” nelle carte della procura di Catanzaro. Si chiama Domenico Capitani, professione imprenditore agricolo, molto potente in provincia di Latina. Gli inquirenti gli contestano la combine tra Pisa e Torres, un match di Coppa italia Lega pro. Il Torres doveva perdere: «Affinché la squadra della Torres uscisse sconfitta dall’incontro di calcio con la squadra del Pisa, disputato in data 29.10.2014, partendo con un goal di vantaggio». In pratica la squadra sarda partiva in vantaggio e per passare il Pisa avrebbe dovuto vincere con due goal di scarto. Missione impossibile? Non per i truffatori del football: il miracolo si è compiuto, la partita si è conclusa col risultato di 4 a 0, in favore del Pisa, «rispecchiando in toto, il risultato alterato oggetto di combine». Capitani è stato fino al 2013 assessore provinciale e in passato anche sindaco di Cisterna di Latina. Il 28 giugno di due anni fa è diventato presidente della squadra sarda del Torres, tredicesima nel campionato di Lega Pro. Capitani è una sorta di padrone del comune dell'agropontino. La passione per il calcio lo ha portato fino a Sassari ma ancora prima è stato presidente del Cisterna Calcio. È legato al ras di Forza Italia Cladio Fazzone, berlusconiano di ferro, mister preferenze della zona e attualmente in commissione antimafia. E proprio quando Fazzone era presidente della Provincia, lui è stato assessore al commercio.
Calcio, 50 arresti per le scommesse. «Bene, abbiamo perso». Rivoluzione in Lega Pro e serie B. «Se non lo paghi quello uccide mio fratello...». Il boss Iannazzo a un amico: i giocatori che non ti fanno vincere il campionato, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Pietro Iannazzo - già in carcere per ‘ndrangheta, considerato uno dei capi della «cosca imprenditoriale» di Lamezia Terme, il padre ucciso in un agguato di stampo mafioso - l’ha spiegato in maniera molto chiara, in una telefonata intercettata, parlando di Mario Moxedano, presidente del Neapolis che ha conquistato la qualificazione ai play off: «Quest’anno ha deciso che vuole vincere con pochi soldi. Io gli ho detto “va bene, ma i miei dammeli prima”... Ha detto che lui prima non paga neanche i giocatori, e infatti i giocatori non ti fanno vincere il campionato». Iannazzo invece sì. O almeno ci prova. Comprando e vendendo partite, utili a guadagnare posizioni in classifica e molti soldi con il calcio scommesse. Ché altrimenti Moxedano non avrebbe saputo che fare «con la squadra di babbi che ha», laddove babbi sta per stupidi, sprovveduti. Ecco come la ‘ndrangheta imprenditrice entra, secondo l’accusa, nel dirty soccer , il calcio sporco scoperchiato dalle indagini della Squadra mobile di Catanzaro e dal Servizio centrale operativo della polizia. Un malaffare aggravato - stando al capo d’imputazione - dall’aver favorito uno dei clan emergenti della criminalità organizzata calabrese. Loro, Iannazzo e i presunti complici, si muovevano nel mondo della Lega Pro, mentre l’altro gruppo di scommettitori e truccatori di gare si occupava dei Dilettanti; anche lì c’è il sospetto di relazioni con la malavita locale, per aumentare il peso della corruzione. «Sono amici, mostra rispetto». Ne fa un cenno - sottinteso - l’indagato Fabio Di Lauro, quarantenne ex calciatore, originario della provincia di Cosenza, definito dal pubblico ministero che l’ha arrestato «faccendiere che approfitta della parte marcia dell’ambiente del calcio professionistico, traendo cospicui guadagni dalle scommesse sulle partite oggetto di frode sportiva». In un sms inviato al direttore sportivo de L’Aquila calcio Ercole Di Nicola, finito anche lui in carcere, scriveva, a proposito di soci scommettitori stranieri di cui temevano reazioni un po’ troppo decise se gli affari non fossero andati a buon fine: «Loro sono amici miei, non pensare che fanno senza di me, c’è una amicizia di persone della Calabria vicine a loro, mostra rispetto...». Traduzione degli inquirenti: Di Lauro «intimava il complice a “mostrare rispetto” nei confronti dei complici stranieri che venivano ricollegati, per amicizia e vicinanza, a personaggi della ‘ndrangheta». Il riferimento è allo sloveno Uros Milosavljevic, 33 anni ancora da compiere ma molto attivo nel settore delle scommesse in mezzo mondo. Di Nicola è colui che «offriva al complice albanese Edmond Nerjaku il finanziamento della scommessa sulla gara Livorno-Brescia, valevole per il campionato di serie B»; costo dell’operazione 70.000 euro, come si evince da uno scambio di sms piuttosto eloquente - utilizzando apparecchi intestati a nomi inesistenti di un tunisino e un birmano - avvenuto a gennaio scorso, tre giorni prima della partita: «Sabato vuoi fare una di B?», «Cosa costa?», «Hanno chiesto 70 ma qualcosa scendono», «Che risultato e che quota?», «Vittoria... sopra a 2», cioè vincita oltre il doppio della puntata. «Esce sicuro», garantiva Di Nicola, e l’albanese: «Ok... è un canale importante, non facciamo cazzate». La partita finì 4 a 2 per il Livorno «come combinato dagli indagati», nota il pubblico ministero, pur sottolineando la mancanza di prove «di contatti specifici con dirigenti e/o calciatori delle due squadre interessate». Tuttavia la vicenda «evidenzia la sicurezza degli indagati sulla ritenuta possibilità di espandere le proprie mire illecite agli incontri calcistici di categoria superiore». «Hanno sparato alto, 100, 150...» Dalla serie B alla Coppa Italia il passo è breve, e secondo l’accusa il gruppo degli scommettitori aveva messo gli occhi anche su Sassuolo-Pescara giocata il 2 dicembre 2014: «Di Lauro prendeva contatti con il duo Ulizio - Carluccio apprendendo che questi avevano messo in vendita l’incontro al miglior offerente, e non perdeva occasione per avvertirne i “compari” stranieri, Uros Mirosavljevic e soci». Mauro Ulizio e Massimiliano Carluccio, inseriti a pieno titolo nell’organizzazione che gestiva le partire della Lega Pro, vengono definiti «soci occulti e dirigenti “di fatto” della Pro Patria»; Di Lauro avrebbe venduto l’informazione ad Ala Timosenco, la donna del gruppo, considerata l’intermediaria e la traduttrice per il gruppo dei serbi. A caro prezzo però, fino a 150.000 euro: «Questo mi hanno sparato alto, 100, 150, ok... È una partita di coppa Italia, poi ti mando il messaggio». L’affare però sfuma, e allora «il duo Ulizio - Carluccio» prova con un’altra partita: Cremonese-Pro Patria del 15 dicembre scorso, nella quale - accusa la procura di Catanzaro - potevano contare anche sulla collaborazione dell’allenatore e di tre calciatori della Pro Patria, tra i quali il figlio di Ulizio, Andrea. La ricostruzione di questa partita, vinta 3 a 1 dalla Cremonese grazie a episodi che rivisti in tv paiono grotteschi, sembra quasi un paradigma di come funzionava il sistema. Il gruppo recupera finanziamenti dagli stranieri per pagare i giocatori e poi scommette forte sul risultato di cui sono certi. Al punto che Carluccio telefona al padre: «Dì alla mamma poi, di andare alla banca... al conto suo e di ritirare tutto quello che c’è, poi quando vieni ti dico». Secondo gli inquirenti la somma era «certamente da impiegare per scommettere sulla partita che stavano combinando». Ai calciatori coinvolti - il portiere che garantisce una papera, un difensore che goffamente lo mette in difficoltà e il centrocampista che si fa espellere (Ulizio jr) - sarebbero toccati 5.000 euro a testa; poi l’allenatore nello spogliatoio ha fatto la ramanzina ai calciatori sbagliati (e Ulizio sr si congratula via sms «mio figlio dice che sei il numero 1»); infine il padre si adopera perché il figlio espulso venga squalificato per un solo turno. E i commenti del dopopartita suonano incredibili, se non si pensa alla frode riuscita. Al telefono con un’amica Ulizio esulta per la sconfitta della sua squadra: «Stiamo rientrando, è finita la partita!... 3 a 1 per la Cremonese! Tutto bene, tutto a posto... Oh, siamo felici!», e ride. «Una strizzatina la dobbiamo dare». Non ha invece voglia di ridere, Ulizio, quando vende una partita a Uros Milosavljevic che investe 60.000 euro e li perde, e lui deve restituire la somma; per i magistrati è una vera e propria estorsione da parte dello sloveno, mentre è un sequestro di persona quello realizzato ai danni dell’albanese Nerjaku, che non si decideva a onorare un debito. Carluccio ne parla al telefono con Ulizio: «Ne ha prese, ma tante ne ha prese da Massimo, adesso lo stiamo portando in campagna... non ha un euro, ha detto che ieri ha perso di nuovo... che ha bisogno di altro tempo... poi gli ho fatto segno e l’ha sfiancato proprio... proprio male male si è fatto... adesso vediamo... una strizzatina la dobbiamo dare, altrimenti questo la porta sempre alla lunga». Tra gli scommettitori ci sono pure dei maltesi, e l’evocazione della violenza compare non appena si creano problemi di soldi persi o da restituire. Come quando il finanziatore Robert Farrugia spiega al calabrese Felice Bellini, già dirigente del Gudja United di Malta passato alla Vigor Lamezia, che un suo socio pretende indietro il denaro: «Se non lo paghi lui sta per uccidere mio fratello... domani...».
Le fatiche di Ercole Di Nicola per combinare le partite. Il direttore sportivo de L'Aquila calcio è uno dei protagonisti dell'inchiesta Dirty soccer. Nelle carte dei pm le sue relazioni, gli amici, i nemici e gli interessi. E spunta la pista dei genitori che pagano le società per far giocare i figli, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso". Ercole Di Nicola è uno dei protagonisti principali dello scandalo “Dirty soccer”. Il direttore sportivo della squadra abruzzese de L'Aquila, che milita in Lega Pro, come scrivono gli inquirenti, gode di ottima fama nell'ambiente del calcio professionistico. C'è anche lui tra i 50 arrestati nell'ambito dell'indagine sul calcioscommesse. Di Nicola «sposa i fini e gli interessi dell’associazione criminale cui partecipa rivestendone un ruolo di vertice, organizzativo e direttivo» si legge nel provvediemento della procura di Catanzaro. Secondo gli inquirenti il segreto di Di Nicola è la sua rete di relazioni nel mondo del calcio. Il direttore sportivo frequenta «le stanze del potere calcistico esibendo un carattere bifronte: in pubblico appare un professionista ligio alla disciplina sportiva», in realtà è una delle pedine centrali del sistema delle partite truccate e promotore delle frodi sportive. «Fedele alla sua missione di direttore sportivo de L’Aquila, si affanna a procacciare vittorie alla sua squadra combinandone gli incontri di campionato. Di Nicola è solito comprare le vittorie della “sua” Aquila utilizzando i finanziamenti messi a disposizione dal complice Di Lauro (altro protagonista dell'indagine) che utilizza per retribuire dirigenti delle squadre avversarie che ingaggia per combinare gli incontri», scrivono gli inquirenti. Quindi il denaro in nero arriva attraverso Di Nicola ai calciatori delle compagini calcistiche avversarie che falsando le loro prestazioni procurano la vittoria a L’Aquila. Al direttore sportivo piaceva vincere facile. E attorno a sé gravitavano una serie di scommettitori stranieri pronti a puntare diversi milioni di dollari in giocate per partite dei campionati italiani. La partite combinate da Di Nicola, secondo gli investigatori della squadra Mobile di Cataznaro e dello Sco della polizia, sono numerose: Pisa-Torres; Juve Stabia-Lupa Roma; Santarcangelo- Aquila; Grosseto-Santarcangelo; Aquila-Savona; Ascoli-Santarcangelo; Livorno-Brescia; Crotone-Catania. Agli atti dell'inchiesta sono allegate poi alcune intercettazioni tra Di Nicola e Vittorio Galigani. Direttore sportivo di numerose società di calcio, dalla serie A alla ex serie C, negli anni '80 Galigani è stato responsabile delle relazioni esterne del Milani del presidente Farina, e oggi è editorialista della rivista on line TuttoLegaPro.com. Di recente ha costituito un'associazione che si occupa di promuovere i talenti delle giovanili. E proprio di questo parlano Di Nicola e Galigani. Quest'ultimo si lamentava del malcostume diffuso nel calcio professionistico italiano, in particolare riteneva deplorevole «la pratica quotidiana per cui i genitori di giovani atleti erano disposti a sborsare denaro in cambio del tesseramento dei loro figli nelle società calcistiche», scrivono gli investigatori. Che aggiungono: «La presente indagine, infatti, lasciava emergere come fosse radicata la consuetudine in virtù della quale familiari di calciatori offrivano denaro a dirigenti calcistici compiacenti per averne in cambio la promessa della convocazione in squadra dei loro ragazzi». Critiche al sistema, salvo poi segnalare a Di Nicola un calciatore de L'Aquila perché «venisse retribuito dello stipendio mensile». Il direttore sportivo della squadra abruzzese «si mostrava magnanimo cedendo alla raccomandazione dell’amico, per poi ricordargli che “il padre” del calciatore, entro la fine del mese, avrebbe dovuto “rispondere” nei termini convenuti pena lo svincolo contrattuale del calciatore». In un altro dialogo Di Nicola e Galigani si lasciano andare a commenti e analisi sulla Lega calcio. Spendono parole pesanti sul presidente Carlo Tavecchio «in mano a Lotito che li ricatta». Lo sfogo di Galigani prosegue e attacca Infront, la società che gestisce i diritti televisivi ( perquisita dalla Guardia di Finanza nell'ambito di accertamenti disposti dall'Antitrust ). Di Nicola chiede conferma all'esperto delle proprietà, vere o presunte, di Lotito: «Dimmi una cosa...lui è proprietario di Lazio, Salernitana, Bari e Brescia?». Galigani ha sempre una risposta pronta: «Lui adesso con Infront inseme a Galliani, che è un paraculo Galliani, hanno preso anche il Brescia. Infront è Galliani!». Di Nicola è soddisfatto e riflette: «Lazio, Salernitana, Brescia e Bari!». Ma Galigani continua: «Eh! poi dopo il tuo amico di Matera pur di fare... hai visto li ha ... gli ha dato il contentino gli ha fatto andare.. per prendere i voti, gli fà andare la nazionale under21 lì, tutte stronzatine ... e a quello della Lupa Roma gli ha dato il difensore centrale del Bari, che non mi ricordo adesso come si chiama». In effetti è proprio grazie a Infront che il Bari e il Brescia rivevono il finanziamento per salvarsi dal fallimento. Come non sono un mistero le ottime relazioni di cui gode Galliani presso la società Infront e l'amicizia che lega Galliani a Lotito. C'è anche una vecchia conoscenza di Calciopoli tra gli amici e collaboratori di Di Nicola. È l'ex arbitro Massimo De Santis, non indagato, che sarebbe il regista dell'operazione grazie alla quale il ras dei rifiuti Angelo Deodato ha acquisito il 15 per cento della squadra abruzzese.
Intercettazioni: nei "sogni" anche match di A e B. Fango su Lotito: "Un ricattatore". La banda a caccia di finanziatori esterni per puntare sempre più in alto, scrive Massimo Malpica su “Il Giornale”. Non è solo il (presunto) candore dei campionati minori, dalla serie D alla Lega Pro, a essere stato colpito dall'ultimo scandalo sul calcioscommesse, scoperchiato dalla Dda di Catanzaro. Nelle carte emergono anche tentativi di trovare finanziatori esteri per «apparecchiare» un paio di partite di serie B - Livorno-Brescia e Catania-Crotone - e una di Coppa Italia con una squadra di serie A, Sassuolo-Pescara. Di Livorno-Brescia parlano, il 21 gennaio scorso, il Dg dell'Aquila Ercole Di Nicola e lo scommettitore albanese Edmond Nerjaku. Il primo «offre» la partita al secondo, chiedendogli 70mila euro per suggellare la combine, «puntando sulla vittoria del Livorno nonché su un numero di goal messi a segno durante la gara non inferiore a 3». La procura comunque rimarca la mancanza di una «prova di contatti specifici con dirigenti e/o calciatori delle due squadre interessate». Nerjaku, peraltro, dalle intercettazioni emerge come «terminale» di un gruppo di investitori stranieri e facoltosi, pronti a scommettere anche un milione «su siti asiatici», ma non alla cieca: chiedono un'assicurazione pari a tre volte i soldi investiti in caso di «buco». «I miei collegi vogliono sicurezza. Vogliono garanzie se non esce la partita», scrive in italiano stentato l'albanese a Di Nicola. Che garanzie non può darne, ma dopo un serrato tira e molla spiega al «complice»: «Fai tu, io lo fatta lo stesso». Alla fine Nerjaku scommette, e vince, sulla vittoria del Livorno, e scrive a Di Nicola che «domani ti porto 8», per i pm 8mila euro, la quota dovuta per la combine. Subito dopo, Di Nicola ritenta di «agganciare» i ricchi amici di Nerjaku, proponendo una scommessa «sicura» per Catania-Crotone, che sarebbe da «finanziare» con 60mila euro per far vincere i siciliani, e con 100mila euro per garantire l'over 3,5. Nerjaku insiste sulle «garanzie», e l'affare cade. Ma l'albanese, ingolosito dal precedente del Livorno, scommette in proprio 21mila euro sul Catania vincente. Che invece pareggia 1-1 e fa infuriare Nerjaku, al quale Di Nicola replica: «Guarda che non è stata fatta. Chi cacciava i soldi?». A «interferire» con Sassuolo-Pescara del 2 dicembre 2014, invece, sono i «soci occulti» della Pro Patria Mauro Ulizio e Massimiliano Carluccio, insieme all'ex calciatore e scommettitore Fabio Di Lauro. Secondo i pm di Catanzaro sono i primi due a proporre il match per il tramite di Di Lauro a un gruppo di «investitori» serbi, guidati da Uros Mirosavljevic, per 150mila euro. L'affare poi salta, ma per la Dda Ulizio e Carluccio erano così sicuri del business che «non potevano non essere forti della combine della partita, che avevano di certo già imbastito promettendo lauti compensi a qualcuno dei partecipanti all'evento sportivo, che fosse del Sassuolo o del Pescara». Ma il «flusso» di combine, talvolta, funzionava anche nell'altra direzione. Ossia i serbi, a loro volta referenti di finanziatori asiatici, in più occasioni passano a Di Lauro qualche dritta su partite della massima serie cinese e maltese, sulla serie B romena ma anche su partite di basket serbe (con scommesse sul risultato di un singolo quarto di partita) e persino sul tennis, con l'indicazione di una sconosciuta coppia di doppisti che, in un torneo in Qatar, si dovrebbe aggiudicare il secondo set. E qui le combine pizzicate dalle intercettazioni, quelle a denominazione di origine estera, guarda caso vanno tutte a buon fine. Tornando a Di Nicola, tra le intercettazioni del Dg dell'Aquila (che secondo i pm spesso organizzava combine per far vincere la propria squadra) ce n'è una con l'ignaro ex dirigente sportivo Vittorio Galigani (che non è indagato), nella quale quest'ultimo attacca il patron della Lazio Claudio Lotito, per i suoi asseriti troppi interessi nel calcio: «Lotito deve... ha rotto i coglioni , il motivo del dissidio è Lotito, non è... Macalli e Tavecchio sono due rincoglioniti in mano (...) a Lotito che li ricatta». Di Nicola istiga l'amico: «Dimmi una cosa .. lui è proprietario di Lazio, Salernitana, Bari e Brescia?». Galigani conferma che ora «con Infront, insieme a Galliani, ha preso anche il Brescia. Infront è Galliani!».
Lotito: «Mio il Brescia? Ma dov’è? Va scartavetrato il marcio». Il numero uno della Lazio: «Non si capacitano che tutti gli incarichi che ho non li ho estorti», scrive Fabrizio Roncone su “Il Corriere della Sera”. (Ore 16,57. Il presidente Claudio Lotito risponde al telefonino dal suo magnifico quartier generale: Villa San Sebastiano, il muro di cinta che costeggia l’Appia Antica, capitelli e statue, putti d’oro e pappagalli che cantano).
«Io non so niente, non voglio sapere niente e non rilascio interviste!».
Va bene.
«Mhmm... Ma perché, che è successo?».
Calcioscommesse in Lega Pro e serie D: 30 squadre coinvolte, 50 arresti, gli indagati sono 70.
«Incredibile...».
Ma davvero non sapeva che...
«Sto lavorando, non ho avuto tempo e...».
C’è pure un’intercettazione che la riguarda, presidente.
«Cosaaaaa?».
La telefonata è del 15 gennaio scorso: parlano Vittorio Galigani, ex direttore sportivo di numerose società e commentatore della rivista TuttoLegaPro.com, ed Ercole Di Nicola, direttore sportivo de L’Aquila.
«Ma io non li conosco! Mai visti né sentiti... Roba da matti! Parlano... e che dicono?».
Testuale: «Macalli e Tavecchio sono due rincoglioniti in mano a Lotito, che li ricatta». E poi: «Lotito è proprietario di Lazio, Salernitana, Bari e Brescia».
«Basta! Basta! Bastaaaaa! Che deve fare Lotito, eh? Deve sparire, puff! deve annientarsi, vaporizzare? Perché mi tirano sempre in mezzo a qualche schifezza, perché? Lei non scriva niente, niente di niente... Però, oh, io sono proprio stufo... Cioè, no, dico: io Brescia non so manco ndo’ stà, capito? Dove sta Brescia? Boh. Ce so’ mai stato a Brescia? No, mai messo piede a Brescia. Ma poi, in una telefonata tra due sconosciuti, divento il presidente del Brescia! È pura follia, questa!».
Brescia e Bari.
«Si rende conto? Siccome il presidente del Bari mi chiama, io divento automaticamente pure il presidente del Bari! La verità è che il sottoscritto, Claudio Lotito, dà un fastidio tremendo. E lo sa perché?».
Posso supporlo...
«Perché con Lotito il risultato è ga-ran-ti-to! Schiattano d’invidia quando vedono quello che ho fatto con la Lazio e la Salernitana, due veri capolavori... E non riescono a capacitarsi che tutti gli incarichi che ho nelle istituzioni del calcio italiano non li ho estorti... ma sono stato eletto democraticamente».
Ecco, appunto: poi ci sarebbe anche quell’altra frase...
«Quale?».
Che lei ricatterebbe Macalli e Tavecchio.
«No no, guardi: è stato gentile a telefonarmi, però lei adesso sa che fa? Lei li chiama e glielo chiede: vi ricatta Lotito? È vero che vi ricatta? Ecco, aspetti, le do io i numeri di telefono... Anzi, no, meglio: li chiamo direttamente io...» (Lotito, come noto, possiede tre cellulari: e sa usarli contemporaneamente).
«Niente, Carletto non risponde... Proviamo con Macalli...».
(Mario Macalli, presidente della Lega Pro, risponde subito.
«Mariuccio! Nun te mette a ride... allora, ho sull’altro telefono uno del Corriere... e sai che dice? Dice che due sconosciuti, intercettati, sostengono che io ti ricatto! Capito? Io ti ricatto! Ricatto te e pure Carletto!... E anzi, no, aspè: per quei due sarei anche proprietario di mezza serie A!... Mhmm... Ah, l’hanno arrestato uno dei due? Lo vedi, c’è una giustizia divina... Sì sì... e certo, tutta l’inchiesta... è chiaro... L’Aquila ci ha sempre votato contro, erano quelli contrari alle nostre riforme, quelli che ci facevano la guerra... Comunque, oh, ma ti pare? Ma come fanno a dire una cosa così grave? È gentaglia che ha inquinato questo mondo... Che dice Malagò? Mhmm... Lo so, lo so... So tutto. Vabbè, insomma: io ricatterei te e Carletto... Te senti ricattato, Mariù? Mamma mia che ambiente... Hai ragione, bisogna derattizzare.... vabbè, Mariù, fatti salutare adesso, ché devo lavorare...») . «Lei ha sentito tutto, no? Rideva, Macalli... Vede: il problema è che io sono scomodo perché...».
(Gli squilla uno dei due cellulari: adesso abbassa la voce. Telefonata brevissima).
«Sa chi era? Era il giornalista di un’agenzia! Mi vorrebbero mettere in mezzo pure con la vicenda tra Murdoch e Berlusconi... m’accusano di averli fatti parlare... Embè? Facessero tutti gli accostamenti che vogliono... io sono una persona che ha un solo scopo: mo-ra-li-zza-re il calcio. Ma lo sa perché non volevano Tavecchio?».
Perché è uno che fa battute razziste, perché pensa che...
«Ma no! La verità è che una certa parte del mondo del calcio aveva paura di Tavecchio per ragioni politiche: infatti Tavecchio, in sei mesi, ha fatto riforme epocali. Siamo arrivati e abbiamo scardinato un sistema. Facendo funzionare onestà e buon senso. Lo sa che, in questo calcio, spaventa anche il buon senso?».
Può essere più esplicito?
«Quando dissi quelle cose su Carpi e Frosinone, per cui poi sono stato perseguitato, le dissi con spirito costruttivo, facendo un ragionamento anche di natura economica, perché la fabbrica calcio non va avanti per grazia ricevuta, ma con gli stadi a norma, con i diritti tv, con i bilanci sani...».
Adesso comunque c’è questa nuova inchiesta che travolge interi campionati di Lega Pro e serie D.
«Bisogna scartavetrare via tutto il marcio... però questa non è un’intervista, eh? Se lei scrive mezza riga, giuro che io poi smentisco... Ma che ha registrato? Guardi che la registrazione mica è valida...».
Quei papà col mito del baby campione (a pagamento). Raccomandati nel pallone: quei papà col mito del baby campione (a pagamento), scrive Massimo Malpica su “Il Giornale”. Giovani calciatori «sponsorizzati» dai genitori. Pronti a pagare pur di assicurare ai pargoli un tesseramento in squadra o, addirittura, un posto «garantito» tra i titolari. Tra gli illeciti sportivi e quelli penali delle combine tentate o riuscite, c'è un altro fenomeno inquietante che emerge dalle carte dell'inchiesta «Dirty soccer». Il 15 gennaio scorso ne parlavano al telefono l'ex dirigente sportivo Vittorio Galigani e il Dg dell'Aquila, Ercole Di Nicola, quest'ultimo coinvolto nell'inchiesta (è stato fermato ieri dalla polizia nella maxiretata) e dunque intercettato. «Il Galigani - scrive la Dda di Catanzaro nelle 1267 pagine del provvedimento di fermo - invero, dava prova di quanto radicato fosse il malcostume nelle stanze del calcio professionistico italiano, vivendone la pratica quotidiana nella forma invalsa per cui i genitori di giovani atleti erano disposti a sborsare denaro in cambio del tesseramento dei loro figli nelle società calcistiche». Un pettegolezzo, una chiacchiera tra addetti ai lavori? Non proprio. Il tema dei calciatori «raccomandati» a suon di bustarelle dai genitori era stato già trattato proprio da Galigani in un editoriale per «tuttolegapro» dello scorso settembre, nel quale l'ex dirigente invitava a «cacciare i raccomandati, gli sponsorizzati e i figli di papà» raccontando il malcontento del «partito dei genitori che hanno coperto, con lauta “sponsorizzazione”, la firma di un contratto. Promesse di presenze mai mantenute, con ragazzi lasciati a marcire in panchina o spediti, senza alcuna considerazione, in tribuna». Insomma, un mercato delle maglie distante anni luce dai trasferimenti milionari e ufficiali dei calciatori più famosi. Un modo per le società e per i «procacciatori» che vivono ai margini di questo mondo di finanziarsi a spese delle aspettative e delle speranze di chi crede che il proprio figlio sia un predestinato ed è talmente accecato da metter mano al portafogli, magari per assicurare al pargolo quella possibilità che a lui, da giovane, era stata negata. Di negato, finora, c'era invece l'esistenza di questo fenomeno, con poche eccezioni smentito da tutti gli addetti ai lavori. E invece adesso proprio il lavoro della Dda di Catanzaro sembra confermare la pratica. Sono gli inquirenti a dirlo, scrivendo che il lavoro di indagine «lasciava emergere» la «radicata consuetudine» per cui «familiari di calciatori offrivano denaro a dirigenti calcistici compiacenti», tutto in cambio di una convocazione. In fondo, una scommessa anche questa.
Chi è Mario Macalli, presidente di LegaPro. "Il ragioniere" non è indagato nell'ultima inchiesta sulle partite truccate. Ma certo sulla governance del pallone di provincia bisognerà riflettere, scrive Gianluca Ferraris su “Panorama”. Quasi tutti lo chiamano “il ragioniere”, perché è quello il suo titolo di studio. Qualcuno lo fa con deferenza, qualcun altro con malcelato snobismo. A sbagliare sono i secondi, senza dubbio. Perché sarà vero che a Mario Macalli non fanno difetto gli atteggiamenti ruspanti, ma di certo gli vanno riconosciuti anche fiuto, abilità “politica” e capacità di relazione fuori dal comune. In caso contrario sarebbe stato impossibile per lui, partito dalla piccola Crema dove è nato quasi 78 anni fa, frequentare per più di mezzo secolo i salotti buoni del calcio professionistico italiano fino a diventarne uno dei kingmaker. Numero uno della LegaPro dal lontano 1997, vicepresidente della Federcalcio, amico personale e grande regista della nomina di di Carlo Tavecchio, issato alla testa della Figc proprio grazie al voto plebiscitario dei presidenti della ex serie C. Va specificato che Macalli non è indagato in questa inchiesta e che anzi, con tutta probabilità la sua federazione è parte lesa per quanto riguarda combine e tentativi di frode messi in atto dai suoi tesserati, ma certo sulla governance del pallone di provincia, storicamente non certo al primo inciampo di questo tipo, bisognerà aprire una riflessione. Il suo scarno curriculum ufficiale lo definisce “consulente del lavoro” ma sua parabola professionale, che oggi pare essersi incurvata pesantemente, è interamente legata al mondo del pallone. Nel lontano 1962, prima ancora di compiere 25 anni, Macalli fa il suo ingresso nell’Unione Sportiva Pergocrema, la squadra della sua città natale, diventandone il vicepresidente. Manterrà la carica per quasi un altro quarto di secolo, prima di scalare la società nel 1986. Ma nel frattempo non sta certo con le mani in mano. Allaccia contatti, stringe rapporti, batte in lungo e in largo i campi polverosi dell’ex serie C2 blandendo, promettendo, programmando, fino a quando nel 1977 inizia grazie al voto favorevole dei presidenti settentrionali a collezionare le prime cariche: consigliere delegato per la C2, componente della commissione programmazione, poi del collegio arbitrale, infine rappresentante dell’intera serie C presso il fondo di fine carriera e il comitato tecnico della Federcalcio. Ai piani alti del pallone professionistico quel dirigente ambizioso piace assai: inizia a muovere consensi importanti tra i presidenti della sua categoria, il cui pacchetto di voti è indispensabile per chi ambisca a cariche federali di peso. Dopo qualche anno il salto alla vicepresidenza di categoria (1987), per Macalli, è quasi scontato. Dodici mesi dopo, quando la terza serie viene commissariata, il suo ingresso nel board come dirigente delegato dalle società è altrettanto automatico. Intanto la spola tra Firenze - dove ha sede l’attuale LegaPro - e Roma continua, con il ragionier Mario che colleziona un altro incarico nazionale di peso: rappresentante della serie C2 presso la CoViSoc, la strategica comissione di vigilanza federale sui bilanci delle società professionistiche. Quella che ogni estate, in pratica, decide chi sia in regola con i requisiti finanziari, fiscali e previdenziali previsti per l’iscrizione al campionato e chi no. Il Macalli successivo è quello che ci ha accompagnato fino a oggi: presidente della Lega di serie C, poi LegaPro (una delle tante riforme avviate negli ultimi vent’anni senza che i bilanci della categoria si siano risollevati), per un totale di quattro mandati consecutivi. E naturalmente grande elettore di tutti i vertici della Federcalcio, buon ultimo lo scorso anno quel Tavecchio che partito dalla serie D ha mostrato un percorso politico molto simile al suo. Tra i due in passato non sono mancati gli screzi, legati soprattutto alla spartizione delle risorse tra le due leghe cenerentole del nostro calcio. Ma ogni polemica è ormai rientrata da tempo, tanto che Tavecchio lo ha confermato alla vicepresidenza della Figc e ha scelto di non calcare la mano neppure recentemente, quando nel curriculum sportivo-amministrativo del ragionier Mario è spuntata una macchia. Per il Tribunale federale nazionale, che il 29 aprile lo ha condannato a sei mesi di sospensione, Macalli tra il 2011 e il 2012 avrebbe infatto violato i doveri di “lealtà, probità e correttezza”, fondamento del codice di giustizia sportiva, in merito al crac del Pergocrema, la ex squadra di Macalli fallita tre anni fa. La sentenza è di primo grado e pende appello, il che ha evitato al presidente di dimettersi come chiedevano alcuni suoi tesserati. La vicenda è complessa ma merita tuttavia di essere raccontata perché parecchio emblematica. Dopo aver lasciato la presidenza del club, a partire dal febbraio 2011 Macalli ha cominciato a registrare quattro marchi di possibili altri nuovi club riconducibili alla città di Crema. E quando il Pergocrema è sparito, il “Macalli brevettatore” ha ceduto l’uso di uno dei propri marchi (Pergolettese 1932) al Pizzighettone, che ha ottenuto dal “Macalli federale” il permesso di trasferirsi a Crema cambiando nome, come si fa nelle leghe americane di basket e football. Tutto questo mentre il vecchio club, secondo quanto denunciato dall’ex presidente Sergio Briganti, si vedeva negare due volte (ad aprile e maggio 2012, ossia poche settimane prima della resa) un versamento di 256mila euro dovutigli come tranche dei diritti tv dalla stessa Lega Pro. Per questa vicenda Macalli è stato indagato, ma subito prosciolto, anche dal Tribunale di Firenze, con l’ipotesi di abuso d’ufficio. Anche se il ragioniere ha sempre mostrato ottimismo, il Pergocrema-gate e la bocciatura dell’ultimo bilancio di LegaPro a dicembre 2014 hanno spinto una minoranza a chiedere un’assemblea straordinaria per sfiduciare il presidentissimo. Finora tra rinvii, ricorsi e interpretazioni tortuose del regolamento interno, i ribelli non erano riusciti a ottenere udienza. Ora a prendere quella decisione potrebbe essere qualcun altro, molto più in alto.
LegaPro e scommesse: perché si è arrivati al declino. Bilanci in rosso, riforme mancate, infiltrazioni della criminalità organizzata: ecco perché la ex serie C è sprofondata nel coma tra frodi e truffe, scrive Gianluca Ferraris su Panorama. Non è un fulmine a ciel sereno quello che ha colpito questa mattina all’alba il campionato di LegaPro, ex serie C, minandone credibilità, classifiche e governance. Perché lo scandalo di oggi ha radici profonde. Da anni, quasi ostinatamente insensibile ai tentativi di riforma che si sono succeduti, la terza serie del calcio italiano, quella che dovrebbe esaltare i vivai, il tifo sano, il rapporto con i territorio, il business sostenibile, è diventata una terra di nessuno. Dove tra stadi vuoti, bilanci in rosso e cronica assenza di fondi, sopravvivere un altro anno, o un altro mese, è spesso l’unico orizzonte possibile per le società. Condizioni che favoriscono, come sottolineato più volte dagli addetti ai lavori e confermato dall’inchiesta di oggi, la possibilità di influenza indebita o di infiltrazione al loro interno della criminalità organizzata. Per comprendere il delirio finanziario in cui versa la categoria sono sufficienti alcuni numeri. Nessuno è in grado di stimare con attenzione a quanto ammonti il passivo totale di esercizio, ma le stime più recenti e attendibili indicano una forbice compresa tra i 60 e i 70 milioni di euro annui: in media un milione o poco più per ogni squadra iscritta. Poco, certo, se paragonato al rosso di alcuni club di serie A: moltissimo se si considera che la maggior parte delle squadre di LegaPro esibisce budget intorno ai 3-3,5 milioni e gli stipendi incidono in media per il 78 per cento sul fatturato, in linea con quanto succede due gradini più su. Peccato che a queste latitudini, però, gli incassi al botteghino valgano poche migliaia di euro a domenica, per non parlare della vendita dei diritti tv, poverissimi e distribuiti in maniera non sempre razionale. Non che sia colpa loro: più o meno arriva nelle casse delle squadre l’1% dei diritti tv complessivi, contro il 3% di "mutualità assistita" previsto dalla legge Melandri del 2006. Un tarlo, uno dei tanti che minano la tranquillità dei presidenti e saltano fuori a ogni assemblea di lega. Come rimediare? C’è chi ogni anno mette mano al portafoglio e chi cerca, tra mille difficoltà, di portare avanti un modello di gestione virtuosa, valorizzando i giovani e il legame con tifosi e territorio (è il caso del Sudtirol strutturato sull’azionariato diffuso stile Barcellona e Real), ma le realtà di questo tipo sono sempre meno. E per capirlo basta sfoggiare un altro numero: a oggi oltre un quarto delle squadre iscritte ai campionati di terza serie - per l’esattezza 16 su 60 - hanno collezionato ritardi gravi, inadempienze e mancate risposte nel versamento degli stipendi, dei contributi previdenziali e delle tasse. Risultato: una cinquantina di punti di penalizzazione, record persino per una categoria che non è mai stata avara di sanzioni amministrative, e una classifica stravolta dagli organi di vigilanza. E il rischio concreto di vedere molti club sparire dall’orizzonte quest’estate, terminati i campionati e passata la scadenza fiscale più pericolosa, quella dei conti semestrali. Già, perché per un Parma a rischio fallimento in serie A, che riesce a mobilitare risorse e interesse, ci sono decine di compagini, anche dotate di una storia importante, che ogni estate vengono cancellate dal calcio professionistico nell’oblio generale. Lo scorso anno è toccato al Padova, che non ha neanche fatto in tempo a iscriversi al campionato, alla fine di questa stagione potrebbe toccare ad altre nobili decadute come il Monza, la Reggina, o il Savoia di Torre Annunziata, i cui calciatori non vedono lo stipendio da settembre, e diverse altre ancora. Nel girone C c’è anche il caso limite del Barletta, autogestito da calciatori e ultrà, con uno dei capi della curva incaricato dai liquidatori del tribunale di cercare una nuova proprietà. Nel 2012, per dare un’idea della gravità del fenomeno, è fallito in condizioni poco chiare persino il Pergocrema, ex squadra del presidente della LegaPro Mario Macalli. Ma i numeri complessivi sono ancora più impietosi. Secondo la Federcalcio, dal 1985 a oggi sono sparite 162 squadre professionistiche: una in A, 8 in B e 153 in C. Di queste, oltre due terzi (107) hanno fatto crac tra il 2000 e il 2015, proprio mentre la terza serie passava attraverso due ambiziosi processi di riforma che avrebbero dovuto rilanciarla. Prima il passaggio da 108 a 90 squadre, poi il cambio di denominazione e l’ulteriore riduzione a 60 con un campionato-cuscinetto, il 2012/2013, vissuto senza ansia di retrocessioni e dunque in teoria perfetto per risanare i bilanci senza investimenti folli, infine la ricerca di un title partner, per ora infruttuosa, e la scelta di trasmettere in streaming gratuito tutte le partite del campionato per raccogliere in proprio qualche inserzionista. Sono arrivate soltanto le briciole e ora si discute di un’ulteriore riduzione da 60 a 40 team professionistici. Chissà se basterà per risollevare le sorti della ex, gloriosa, serie C.
LegaPro, scommesse e criminalità: il precedente del Potenza. Anche nell'inchiesta "Arma Letale" un intreccio tra mondo del calcio, interessi mafiosi sulle puntate e, alla base, le difficoltà finanziarie del club, scrive Gianluca Ferraris su Panorama. Non è la prima volta che la ex serie C finisce al centro di un intreccio malato fra squadre di calcio, partite truccate e intervento della criminalità organizzata. Esiste un precedente, datato 2009 ma non per questo distante da ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi in queste ore. C’erano le connivenze, c’erano i presidenti, allenatori e giocatori accusati di essersi prestati volentieri al doppio gioco e quelli che avevano avuto il coraggio di dire no. C’erano gli interessi mafiosi sulle puntate, sempre più voraci e incontrastati. C’era la richiesta di regole nuove e più severe e reset immediato per una categoria alla canna del gas. Presieduta oggi come allora da Mario Macalli. A Potenza, in realtà, l’inchiesta Arma letale non aveva sorpreso nessuno. Non gli ultrà della squadra di calcio locale, che da lunghi mesi contestavano il loro presidente Giuseppe Postiglione, arrestato il 23 novembre 2009 insieme ad altre otto persone con l’accusa di avere truccato nove partite dei precedenti campionati di serie B e C. Non i benpensanti della città, da sempre scettici sulle evoluzioni di quel tycoon delle emittenti locali capace, a soli 27 anni, di portare la squadra rossoblù ai vertici della terza serie dopo lustri di anonimato pallonaro. Non era stupito, naturalmente, nemmeno il pubblico ministero della Direzione investigativa antimafia Francesco Basentini. Lui seguiva le evoluzioni di Postiglione dal 2007, quando indagando su cocaina e criminalità organizzata si era imbattuto in una serie di sms e di telefonate che avrebbero rivelato come Postiglione e i suoi presunti sodali fossero arrivati a vincere anche 70 mila euro al mese scommettendo su partite di cui conoscevano in anticipo i risultati. E gettando “gravi ombre sulla regolarità dei campionati di calcio”, come si legge nelle 127 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip potentino Rocco Pavese. Sotto la lente degli investigatori, anche quelli della procura federale, finirono una decina di partite dei campionati 2007/2008 e 2008/2009, tra serie B e LegaPro (l’ex serie C), dove i match truccati avrebbero coinvolto, oltre al Potenza, altre squadre del Mezzogiorno. Tutte le società, così come i vertici della LegaPro, si dissero estranee alle accuse. Ma secondo gli inquirenti era difficile credere che a condizionare tanti incontri bastasse il manipolo di bulli assoldato da Postiglione e da Antonio Cossidente, considerato dagli stessi investigatori un esponente di spicco della cosca mafiosa dei Basilischi (e finito anche lui agli arresti), per intimidire allenatori e giocatori avversari alla tariffa di 30 euro a pestaggio. Anche perché, raccogliendo le deposizioni di Antonio Lopiano e di Antonio De Angelis, i due ex collaboratori di Postiglione che piazzavano le scommesse per conto dell’indagato, i magistrati ricostruirono un giro più ampio: in almeno un caso le puntate si erano concentrate su una partita di serie A, Atalanta-Livorno del 4 maggio 2008. Quasi sempre, poi, prima di passare in ricevitoria i due accompagnavano il presidente a Roma, dove sostengono ricevesse le soffiate giuste in un lussuoso hotel di via del Corso. Chi gliele forniva? Probabilmente, scrive il giudice Pavese nella sua ordinanza, “più individui inseriti nel circuito calcistico professionistico”. Sull’identità di questi individui provò a fare luce Stefano Palazzi, il capo dell’ufficio indagini della Federcalcio, ma senza successo. Di certo c’è che match che ebbero per protagoniste il Livorno e, soprattutto, l’Atalanta, sarebbero qualche anno più tardi tirate in ballo in altre indagini, quelle relative all’inchiesta cremonese Last Bet. Alla fine del 2009, spinte dal sospetto che il malcostume stesse proseguendo nonostante gli arresti e le indagini, buona parte dei bookmakers italiani sospese a tempo indeterminato la raccolta di scommesse sui gironi meridionali. Cosa che a sprazzi è proseguita anche negli ultimi campionati. Facendo così la gioia del totonero, come confermò a Panorama uno scommettitore clandestino: “Quest’anno ci sono molte squadre chiacchierate: in Puglia, in Campania…” spiegò, ignaro di essere ripreso da una telecamera nascosta. “Due mesi fa avrei potuto fare i soldi con Catanzaro-Juve Stabia e Scafatese-Monopoli”. Fu proprio quella partita, terminata 3 a 3 con un’anomala impennata di giocate sull’opzione “pareggio over” (cioè con molti gol), a provocare il blocco delle quote. “Se la Snai e gli altri non accettano puntate, per noi gira qualche soldo in più” concluse l’interlocutore. “Anche perché combinare una partita di C non è costoso: gli stipendi sono bassi e i giocatori a volte si vendono per poche migliaia di euro”. Spacconate da bar? Possibile. Eppure, lo scenario evocato coincide in maniera impressionante con alcuni particolari dell’inchiesta di cinque anni fa. Per aggiustare la partita Potenza-Juve Stabia del 23 marzo 2009, per esempio, Postiglione avrebbe provato a corrompere il portiere stabiese Salvatore Soviero offrendogli attraverso un sms “40 polpette”, ovvero 40 mila euro, secondo l’accusa. Soviero declinò l’offerta, ma il giorno del match quasi non riuscì ad avvicinarsi alla sua porta: i tifosi del Potenza lo presero lungamente a palle di neve, aizzati dallo stesso Postiglione che inscenò anche una rissa in mezzo al campo con il numero 1 campano. Troppo poco, però, per fermare un’Arma letale che ormai era già innescata.
Calcioscommesse, tutte le inchieste. Dal 1927 a oggi, come si è sporcato il mondo del pallone tra scandali e corruzione, scrive Gianluca Ferraris su “Panorama”. Accadrà di nuovo, profetizzavano da tempo molti addetti ai lavori, perlopiù inascoltati. E puntualmente è accaduto. La svolta investigativa e gli arresti di oggi per il calcioscommesse in LegaPro e Serie D riportano in primo piano una delle piaghe più antiche e brucianti del pallone (non solo di quello italiano, per carità). La storia del calcioscommesse tricolore, in realtà, inizia nel 1927, quando il tentativo di corruzione del difensore juventino Allemandi da parte di un dirigente del Torino prima di un derby, rivelato dalla stampa, costa ai granata la revoca dello scudetto da parte della Federcalcio. Ma è in epoca più recente che il fenomeno delle partite truccate è esploso. Ecco le tappe principali.
1980: la madre delle inchieste. La madre di tutte le inchieste, quella che fece perdere al nostro calcio l’innocenza, inizia con l’immagine delle Giuliette verde oliva della Guardia di Finanza sulla pista dello stadio Olimpico di Roma e gli agenti pronti ad ammanettare gli eroi delle nostre domeniche al termine della giornata di campionato del 23 marzo. Dietro le sbarre finiscono 12 giocatori, molti dei quali di primissimo piano (Enrico Albertosi, Bruno Giordano, Paolo Rossi, Carlo Petrini, Lionello Manfredonia, Vincenzo D’Amico), l’allora presidente del Milan Colombo e alcuni dirigenti. Alla base del lavoro degli inquirenti romani, in un anno terribile segnato dallo scandalo Italcasse e dalle oscure stragi estive di Ustica e Bologna, un grosso giro di puntate clandestine organizzate da due maneggioni romani: Alvaro Trinca, ristoratore amico di mezza serie A, e Massimo Cruciani, grossista di frutta e verdura con inquietanti entrature in Vaticano. Sullo sfondo, l’ombra della banda della Magliana. Cruciani e Trinca, per colpa di una serie di scommesse sbagliate, finiscono nel gorgo dei debiti e per non affondare definitivamente denunciano tutto e tutti. La giustizia ordinaria assolve i giocatori coinvolti (il reato specifico di frode sportiva verrà istituito solo nel 1989), ma quella federale usa la mano pesante: Milan e Lazio retrocedono in serie B, mentre le squalifiche per i calciatori vanno da tre mesi a sei anni. Colpito anche Paolo Rossi, salvato solo dall’amnistia del 1982 grazie alla quale partecipa al vittorioso mondiale degli azzurri di Bearzot.
1986: "Totonero". L’inchiesta "Totonero", avviata dalla procura di Torino su un giro di scommesse dalla serie B in giù non crea sconquassi sul piano penale (quasi tutte le posizioni vengono archiviate) quanto su quello sportivo: il Perugia viene escluso dalla C1 e retrocesso in C2 con due punti di penalizzazione, la Cavese è retrocessa in C2 con cinque punti di penalizzazione e il Vicenza (nonostante la promozione acquisita sul campo) non viene ammesso in Serie A mentre ad altri team come la Lazio, il Cagliari e il Palermo vengono tolti dei punti. Pesanti anche le squalifiche rivolte a tesserati (3 anni all’allenatore del Cagliari Renzo Ulivieri, 4 mesi all’allenatore del Perugia Aldo Agroppi e al presidente dell’Ascoli Costantino Rozzi) e calciatori.
2000: la combine su Atalanta-Pistoiese. Il 20 agosto le agenzie Snai segnalano una mole eccessiva di giocate sulla partita di Coppa Italia Atalanta-Pistoiese: più precisamente sull’accoppiata “primo tempo 1 - risultato finale X” (evento che si verifica puntualmente). Il 10 maggio 2001 arriva la sentenza definitiva: Alfredo Aglietti, l’attuale tecnico della Juventus Massimiliano Allegri, Fabio Gallo, Sebastiano Siviglia e Luciano Zauri - inizialmente squalificati per un anno - vengono assolti. Quella partita la giocò anche Cristiano Doni, indagato eccellente dell’inchiesta Last Bet. Nel 2012, in un’intervista alla Gazzetta dello Sport, Doni ha ribadito che la combine ci fu davvero.
2004: Modena, Sampdoria, Siena nel mirino. Il terzultimo (per ora) scandalo scommesse non stravolge il panorama calcistico: sotto i riflettori dei giudici sportivi finiscono il Modena, la Sampdoria, il Siena e alcuni giocatori noti, tra cui Stefano Bettarini, allora marito della conduttrice tv Simona Ventura, che la disciplinare condanna a cinque mesi di stop. Il Modena evita la retrocessione, blucerchiati e toscani se la cavano con una multa, prosciolto il Chievo, pure finito nella bagarre.
2009: "Arma Letale". A Potenza l’inchiesta “Arma letale” svela i rapporti tra Giuseppe Postiglione, presidente della squadra locale che gioca in LegaPro 1, e la criminalità organizzata pugliese e campana. L'accusa parla di una organizzazione a delinquere volta ad alterare i risultati delle partite di calcio comprendenti sia la LegaPro che la Serie B, dunque non solo quelle del Potenza. Postiglione viene indagato per associazione a delinquere, frode sportiva e minacce. La sua ex squadra, dopo una stagione travagliatissima, nonostante la salvezza conquistata sul campo viene radiata, provvedimento poi corretto con la semplice retrocessione a tavolino in LegaPro 2.
2011: "Last Bet" e la serie A. Esplode "Last Bet" e anche la serie A trema. All’inizio di giugno la procura di Cremona emette la prima di quelle che diverranno, nel tempo, quattro tranche di ordinanze di custodia cautelare. Nel mirino degli inquirenti c’è una cupola di scommettitori internazionali con base a Singapore e intermediari in tutto il nome, capace di condizionare oltre 90 partite dei nostri campionati (comprese alcune della massima serie) grazie al coinvolgimento di molti giocatori, anche di primissimo piano, come Beppe Signori, Stefano Mauri, Cristiano Doni, Omar Milanetto. Altri nomi, come quelli di Gennaro Gattuso, Mimmo Criscito e Christian Brocchi, finiscono presto fuori dall’inchiesta. Sul fronte della giustizia sportiva si sono registrati numerosi patteggiamenti e alcune condanne eccellenti, come la squalifica dell’attuale ct azzurro Antonio Conte. Su quello penale il 9 febbraio scorso il procuratore capo di Cremona, Roberto Di Martino, ha formulato la richiesta di rinvio a giudizio per 130 persone con ipotesi che vanno dall’associazione a delinquere alla frode sportiva, passando per truffa, minacce ed esportazione illecita di valuta.
CALCIOPOLI: GLI SVILUPPI.
Calcioscommesse, rinvio a giudizio per Mauri, Conte e Signori. L'accusa per il capitano della Lazio è di associazione a delinquere. Il ct citato per frode sportiva ai tempi del Siena, scrive Matteo Politanò su “Panorama”. Nuovo capitolo dell'inchiesta sul calcioscommesse che oggi ha visto la conferma di rinvio a giudizio per 130 indagati tra calciatori, ex giocatori e dirigenti. Tra di loro c'è anche il capitano della Lazio Stefano Mauri scenderà in campo sul quale pesa l'accusa di associazione a delinquere. Stessa imputazione per l'ex capitano dell'Atalanta Cristiano Doni e e per l'ex attaccante della Nazionale Beppe Signori. Tra i nomi degli indagati anche quello dell'allenatore dell'Atalanta Stefano Colantuono in merito ad un sospetto Crotone - Atalanta del 30 aprile 2011. Con l'accusa di frode sportiva rinvio a giudizio anche per il ct della Nazionale Antonio Conte, accusato in relazione a due partite del suo periodo in serie B nel Siena contro Novara e Albinoleffe. Archiviate invece le posizioni di Leonardo Bonucci e Domenico Criscito. In merito alla posizione del commissario tecnico azzurro è prevista una riunione in giornata con il presidente della Figc Carlo Tavecchio. La posizione del mister è traballante e dopo la polemica sulla poca partecipazione dei club in merito agli stage questa nuova tegola potrebbe essere il preludio ad un addio anticipato.
Calcioscommesse: Ilievski, chi è lo "zingaro" che fa tremare la serie A. Dopo tre anni di latitanza, parla uno dei presunti cervelli dello scandalo. Attese rivelazioni importanti sui rapporti tra giocatori e criminalità, scrive Gianluca Ferraris su “Panorama”. Chissà se qualcuno dei protagonisti del nostro campionato avrà dormito sonni agitati stanotte. Chissà se davvero oggi, nell’interrogatorio di garanzia davanti al giudice per le indagini di Cremona Guido Salvini, Hrystian Ilievski, sarà in grado di fare nuove rivelazioni o cercherà semplicemente di ammorbidire la sua posizione, incancrenita da quasi quattro anni di latitanza. Gli inquirenti lombardi che dal giugno 2011 indagano sul calcioscommesse italiano propendono per la prima ipotesi, ed è per questo che hanno deciso di ascoltarlo a sole poche ore di distanza dalla sua costituzione. Ilievski, Ilievsky, Hristian, Hrystian o Hristiyan a seconda delle fonti e dei documenti esibiti, si è consegnato agli uomini del Servizio centrale operativo della polizia nel tardo pomeriggio di ieri, dopo essere atterrato a Orio al Serio con un volo dalla natìa Skopje, capitale della Macedonia. Dopo mesi di calma piatta e in attesa dei rinvii a giudizio e dei risultati delle perizie tecniche effettuate sui device di tutti gli indagati, gli investigatori adesso puntano forte su di lui per acquisire nuovi elementi in merito allo scandalo che ha fatto tremare la serie A, e ai rapporti tra calciatori di primo piano e criminalità organizzata. Ma chi è Ilievski? E perché le sue parole potrebbero essere così importanti? Del suo passato non si conosce molto: è un cittadino macedone con trascorsi nelle formazioni paramilitari del suo Paese e inquietanti entrature nella criminalità organizzata slava. Si sa che i suoi contatti con i calciatori erano stretti e i suoi viaggi in Italia frequentissimi, tanto che aveva affittato un’elegante villa a Cernobbio. Si trovava lì quando venne raggiunto dal primo mandato di comparizione, mentre al momento del secondo, a dicembre 2011, stava già peregrinando per le repubbliche ex jugoslave. L’accusa di cui dovrà rispondere è associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva: un reato che in Macedonia non esiste, e per il quale dunque il governo di Skopje non ha mai concesso alle autorità italiane né l’interrogatorio su rogatoria né tantomeno l’estradizione del suo cittadino. Secondo Salvini e il procuratore capo di Cremona Roberto Di Martino Ilievski sarebbe il cervello, insieme all’ex calciatore slovacco Almir Gegic, del cosiddetto “clan degli zingari”: intermediari delle combine dalla minaccia facile e dall’incredibile capacità di movimento. La base e il denaro erano a Singapore, come ricostruito da numerose inchieste dopo l’arresto dei capi a fine 2013: Tan Seet Eng seguiva i flussi di denaro e contattava i possibili investitori, ripulendo tutto presso grandi società di scommesse legali, Wilson Raj Perumal era il suo plenipotenziario in Europa, con le mani in pasta in almeno otto campionati professionistici del vecchio continente. Il compito di Hrystian e della sua banda era quella di creare il "ponte" tra la cupola asiatica e i calciatori che venivano corrotti e costretti, con le buone e con le cattive, a truccare le partite in base ai desiderata dell’organizzazione: ci sarebbe il suo zampino in almeno 60 dei 102 incontri tra serie A, B e LegaPro finiti nel mirino dell’indagine. Ruolo che il macedone ha sempre negato, sostenendo di essere un semplice scommettitore a caccia di informazioni su match già truccati, merce che nei campionati italiani abbonda, soprattutto nei finali di stagione. Era stato sempre lui, tuttavia, a rivelare nel corso di una controversa intervista concessa a Repubblica nel 2012, diversi particolari inediti su una delle partite al centro dell’inchiesta di Cremona, Lazio-Genoa. Poi aveva fornito la sua versione sul funzionamento del calcioscommesse nell’ultima parte del campionato 2010-2011, per la verità non troppo differente da quella delineata dagli inquirenti: «Fanno quasi tutto i giocatori. In Inghilterra non succede, in Italia invece sì: si mettono d’accordo, poi scommettono e vendono le informazioni. Quando le vendono a noi, o quando noi le scopriamo ci puntiamo sopra forte. Altrimenti le vendono a qualcun altro. Alla mafia siciliana, a quella albanese, agli ungheresi oppure a Beppe Signori che è uno dei capi del calcioscommesse in Italia. A tutti. Spesso sono gli stessi dirigenti dei club a mettersi d’accordo, perché anche loro hanno bisogno di alzare soldi. Alla fine dello scorso anno, sono venuto io personalmente in Italia. Era quasi tutto già deciso, chi vinceva lo scudetto, chi andava in Europa, chi finiva in serie B. Quindi è stato un festival. C’erano sei squadre che ritenevamo affidabili: Sampdoria, Cagliari, Bari, Lecce, Siena e Chievo. E noi con loro abbiamo fatto un mucchio di soldi». Affermazioni tutte da verificare, naturalmente: ma oggi finalmente i magistrati italiani ne potranno saggiare il peso. Ilievski, tramite il suo avvocato, ha fatto sapere che non torna semplicemente per andare in carcere. Ma per raccontare la sua verità. Se così fosse, avremo di che scrivere ancora a lungo. E qualcuno davvero potrebbe non dormire sonni tranquilli.
Calcioscommesse, Ilievski inguaia Lazio e Mauri. Il Gip: "Episodi di rilievo", scrive “La Gazzetta dello Sport”. L'ordinanza di Guido Salvini in seguito alla deposizione di Ilievski, capo degli "zingari", si riferisce alle gare del 2011 dei biancocelesti con Genoa e Lecce: "Coinvolti squadre e giocatori di alto livello, posizione sensibile". Disposto l'obbligo di dimora per il macedone. Il gip di Cremona Guido Salvini ha disposto l'obbligo di dimora in provincia di Piacenza per Hristiyan Ilievski, il macedone di 38 anni a capo del gruppo di scommettitori conosciuto come 'zingari', accusati di aver combinato, con la collaborazione di alcuni calciatori, delle gare di campionato di serie A e B, compresa Lazio-Genoa 4-2 del maggio 2011. Ilievski si era costituito il 27 aprile scorso e, negli interrogatori davanti a Salvini e al procuratore Roberto Di Martino ha fornito una "ricca collaborazione". la deposizione — Ilievski ha "descritto in modo dettagliato l'intervento suo" e di altri in relazione "soprattutto" a "Lazio-Genoa e Lecce-Lazio, sicuramente i due episodi più 'sensibili' e di rilievo" in quanto coinvolgono "squadre e giocatori di alto livello come la Lazio e Stefano Mauri". Lo scrive il gip Salvini nell'ordinanza per il macedone visionata dall'Ansa. Ilievski ha indicato "in molti casi anche i nomi dei giocatori corrotti, non solo i già confessi ma anche alcuni che avevano sempre negato la loro responsabilità, in particolare Bertani e Cassano (Mario, ndr) e altri assolti o parzialmente assolti nei giudizi disciplinari sportivi". I Fatti: lo scorso 6 maggio Ilievski aveva avuto un lungo colloquio davanti a Di Martino, il pm di Cremona titolare dell’inchiesta calcioscommesse. Cinque ore nelle quali il capo della banda ha raccontato fatti e gare balzate agli onori della cronaca. Pesanti le dichiarazioni di Ilievski nei confronti di Mauri (con tanto di conferma dell’esistenza di un selfie col capitano laziale) e Milanetto e non si esclude la presenza di altri giocatori di Lazio e Genoa. Si aggrava molto la posizione di alcuni ex Lecce: Ilievski li ha riconosciuti in foto e ha detto di averli incontrati, tra loro Stefano Ferrario ora al Lanciano.
IL CALCIO: PEGGIO DI GOMORRA!
Notte folle: vandali devastano lo stadio e il campo del Varese calcio. Porte ai lati del campo spaccate, panchine danneggiate e manto erboso strappato in vari punti e preso a picconate. Sullo sfondo, le contestazioni degli ultrà alla dirigenza, scrive Roberto Rotondo su “Il Corriere della Sera”. Le porte ai lati del campo spaccate, panchine danneggiate e il manto erboso strappato in vari punti, preso a picconate. Lo stadio di Varese Franco Ossola è stato preso d’assalto, la notte tra il 17 e il 18 aprile 2015, da un gruppo di vandali che ha danneggiato in vari punti il campo da gioco. Si tratta probabilmente di un’azione dimostrativa degli ultras più accesi. Sul campo sono comparse anche scritte a caratteri cubitali contro il nuovo presidente (Cassarà vattene) e contro un ex dirigente, Imborgia, accusato dalla tifoseria di aver svenduto alcuni giocatori. Oggi a Masnago, nel vecchio stadio costruito negli anni quaranta, era attesa alle 15 la partita di Serie B contro l’Avellino. Il Varese è ultimo in classifica, e sembra ormai destinato alla retrocessione. Inoltre ha subìto una serie di problemi societari, a partire dalle dimissioni dell’ex presidente Laurenza, che però rimane il proprietario delle quote di maggioranza del Varese. Il nuovo presidente, Pierpaolo Cassarà, ha evitato nuovi punti di penalizzazione, pagando di tasca propria con 170mila euro le scadenze Irpef, ma si è presentato come un personaggio eccentrico e digiuno di calcio: ha riscosso un certo successo tra i media ma viene considerato molto negativamente dalla tifoseria. Gli ultras del Varese 1910 finora avevano solo contestato con cori e striscioni la società. La Digos sta indagando sull’episodio e non è in una prima fase non è stato chiaro se nel pomeriggio del 18 aprile la partita si sarebbe potuta svolgere regolarmente. La gara Varese-Avellino, valida per la 15a giornata di ritorno della serie B in programma oggi allo stadio Ossola, è stata poi rinviata a domani 19 aprile alle ore 15, da svolgersi probabilmente a porte chiuse. Almeno per i tifosi del Varese, su cui dovrà decidere il prefetto, mentre per i tifosi dell’Avellino è stato previsto l’ingresso allo stadio (nel frattempo, molti di loro sono rimasti ad attendere in zona cantando cori). Il rinvio al 19 aprile, ha reso noto la Lega di serie B, si è fatto necessario «preso atto dell’impraticabilità del terreno di gioco causata da atti vandalici». L’impianto è stato devastato forse per impedire alle squadre di scendere in campo, e per protestare contro il Varese. Le indagini per comprendere come sono andate le cose e per responsabilità di chi sono condotte dalla Digos di Varese. Lo stadio ha un sistema di videosorveglianza attivo 24 ore su 24, ma, prima di poter visionare le immagini, la Questura attende che i tifosi se ne siano andati per poter staccare l’impianto ed estrarre le immagini richieste. «Si tratta di un atto vergognoso, che fa male a tutta Varese e in cui non ci riconosciamo perché compiuto da delinquenti»: lo ha affermato il sindaco di Varese Attilio Fontana, dopo un sopralluogo allo stadio Franco Ossola di Varese devastato dai vandali. «Varese non si merita questo - ha proseguito Fontana -, pur con tutto il dispiacere per quello che sta accadendo alla squadra, non si può arrivare a tali fatti gravissimi. Speriamo si possa recuperare al più presto la partita». Sabato sono arrivati allo stadio anche numerosi tifosi del Varese, che si sono radunati sulle tribune mentre erano in corso i sopralluoghi e lavori di ripristino del campo. «D’ora in poi la Lega di serie B sarà parte civile in ogni procedimento contro i responsabili di atti che nuocciano agli interessi dei 22 club». Andrea Abodi, numero uno della Lega, ha annunciato all’Ansa il salto di qualità nell’affrontare l’emergenza per l’infiltrazione dei violenti. «Saremo durissimi e distingueremo tra tifosi, anche ultrà, e violenti».
Stadi devastati e botte: il calcio italiano è peggio di "Gomorra". Danni all'Ossola di Varese, schiaffi ai calciatori del Cagliari e derby blindato a Terni. È davvero tempo di ribellarsi agli ultras una volta per tutte, scrive Tony Damascelli su “Il Giornale”. Ultime notizie da calcio-Alcatraz: un manipolo di delinquenti ha devastato ieri notte lo stadio di Varese, intitolato a Franco Ossola, ala del Grande Torino che concluse la sua storia, ma non la sua leggenda, nella tragedia di Superga. Porte divelte, campo di gioco deturpato, lerciate le panchine, scritte volgari contro il club, impossibile giocare la partita tra Varese e Avellino, l'incontro è stato rinviato. A Terni, prima del derby con il Perugia, fermato un ultras ternano che trasportava, a bordo della sua vettura, il classico bagaglio appresso del vero tifoso nostrano: bastoni, bombe carta e ordigni vari pronti all'uso contro i nemici perugini. Se il continente calcistico è questo non si sta meglio sulle isole: a Cagliari gli hooligans sardi hanno fatto irruzione nello spogliatoio della squadra prendendo a schiaffi i calciatori e minacciandoli di altre lezioni, squadra sotto choc, come ha ribadito l'allenatore Zeman, ma nessuna notizia vera dei dirigenti del club, anzi hanno ridimensionato l'accaduto, gli aggressori sono dei bravi ragazzi, si è trattato di un confronto, i segni sul viso dei calciatori sono dovuti al caldo sole dell'isola. A Roma mille agenti di polizia sono pronti a tenere sotto controllo la vigilia della partita contro l'Atalanta, in programma oggi all'Olimpico: rischio di disordini dopo le parole forti di James Pallotta che ha definito i tifosi, che avevano esposto lo striscione contro la madre di Ciro Esposito, dei fottuti idioti, in originale slang bostoniano. La frase è stata immediatamente recepita e tradotta, sia dai fottuti, sia dagli idioti che hanno risposto secondo fair play e preannunciata lotta continua contro l'americano e i suoi sodali. Angelino Alfano, ministro degli Interni, ha annunciato con fierezza che quattro «espositori» dello striscione sono stati identificati e saranno colpiti dal daspo, tradotto sarebbe «Divieto di Accedere alle manifestazioni sportive», una terribile (mi viene da ridere) sanzione per i soliti noti che se ne fottono di leggi, norme, regolamenti, sentenze e continuano a okkupare stadi, spogliatoi, luoghi di ritiro delle squadre, spesso con la complicità e l'omertà dei calciatori e dei dirigenti, aggirando ostacoli, divieti, punizioni. È il nostro meraviglioso pubblico, quello che riempie le curve, che spara mortaretti, accende fumogeni (qualche magistrato si occuperà un giorno della tossicità di certi gas?) come in nessun altro stadio dell'Europa calcistica che conta, dall'Inghilterra alla Spagna, dalla Germania alla Francia, è la folla di razzisti veri, non contro il colore della pelle ma contro chiunque è avversario, popolo di sfacciati senza il quale il football non avrebbe senso, si dice e si scrive così, anche se non ho ancora capito quale sia il senso di dare spazio, credito, potere a questa ciurma, ormai padrona dell'evento. Sono la Gomorra del nostro calcio senza che nessuno osi ribellarsi davvero, perché le parole di James Pallotta hanno avuto tiepide reazioni e solidarietà di opportunismo degli altri presidenti, molti dei quali sono sotto schiaffo, timorosi, impauriti. Se Pallotta vuole bonificare gli stadi (l'educazione americana non prevede e non immagina atti di violenza nei siti dello sport), il suo sodale di Genova, Massimo Ferrero, inquietante e folkloristico presidente della Sampdoria, si oppone all'idea e sottoscrive striscioni, insulti e volgarità del popolo pubblico che attorno gli sta e lo esalta. Alfano ha poco da essere orgoglioso, provi a frequentare una curva e non una tribuna d'onore (anche se in questo settore vedo e sento di ogni), comprenderà che il divieto di accesso allo stadio è un buon titolo per i giornali ma provoca il solletico ai colpevoli che se la spassano e si infilano ovunque. Piuttosto, dopo aver smascherato identità e volto a parenti, amici e vicini di casa, li spedirei ai servizi sociali immediati, lavorando gratis per ripulire stadi, treni, bus, strade da loro distrutte, insudiciate, devastate, tutto a costo zero, tra gli applausi del resto dei cittadini. La cronaca si ferma, come sempre. Ieri si è giocato, oggi si rigioca, il sindacato dei calciatori finge di esistere e non reagisce, la Lega al massimo bussa a denari, la Federcalcio è impegnata altrove. Dopo un gol, tutti pronti alle solite corse fanatiche sotto le curve. Non per liberare la gioia ma per confermare la sottomissione ai ricattatori. Si replica.
Juventus, la quinta mafia sono gli ultrà. La società con più scudetti d’Italia tratta con il tifo organizzato sapendo di piegarsi a criminali con precedenti penali fino all’omicidio. Che questi criminali siano o non siano manovrati dalla ’ndrangheta è solo questione di tempo, scrive Gianfranco Turano il 4 aprile 2017 su "L'Espresso". L’Italia del calcio si desta al campionato dopo la pausa per la Nazionale. Si ridestano anche le polemiche sulle infiltrazioni della ’ndrangheta in curva con Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia, che vuole sentire il presidente bianconero Andrea Agnelli e il capo della polizia, Franco Gabrielli. Il match si annuncia caldissimo. Ha aperto le ostilità Michele Uva, direttore generale della Federcalcio, persona equilibrata, competente, per bene. «Forse per il paese ci sono problemi più urgenti che la questione dei biglietti dati dai club a una curva», ha dichiarato il dg dal ritiro della Nazionale prima del match con l’Albania dove gli ultras hanno fatto sospendere la partita per otto minuti lanciando qualsiasi cosa gli sia stato consentito di portare dentro lo stadio, ossia di tutto. Anche una persona competente, equilibrata, per bene come Uva ha il diritto costituzionale e umano di dire una fesseria. Perché questa è una fesseria colossale. Certo che ci sono problemi più urgenti dei biglietti agli ultras. Ci sono l’aids, i rifugiati che affogano, il buco nell’ozono e la scissione del Pd. C’è il non sapere chi siamo e dove andiamo. Il punto è che la Commissione parlamentare antimafia non si occupa di malattie, di ecologia, di scissione dell’atomo politico e di filosofia teoretica. Si occupa, pensa tu, di mafia. E gli ultras come li conosciamo in Italia, in Europa, in Sudamerica, sono spesso o sempre organizzazioni criminali di tipo mafioso. La magistratura se ne è dovuta occupare infinite volte per un elenco di reati che non lascia nulla di intentato rispetto al codice penale. Gli ultras non sono la frangia minoritaria di un tifo sano. Sono una realtà a parte, con riti di iniziazione, capacità di intimidazione, armi. E con un circuito di business spesso o quasi sempre illecito. Gli ultras della Juventus, i Vikings nel caso di specie, hanno la capacità di lasciare un settore dello Stadium vuoto durante la partita contro l’Inter il 5 febbraio scorso per mostrare chi comanda in curva. L’inchiesta della Dda di Torino sulle infiltrazioni della ’ndrangheta allo Stadium chiarirà le responsabilità dei dirigenti bianconeri. Forse il presidente Andrea Agnelli non ha incontrato un esponente del clan Dominello. O forse lo ha incontrato, ma non da solo e senza sapere chi era. O forse sapeva chi era ma sapeva anche che Rocco Dominello era incensurato, dunque meritevole della presunzione di innocenza. Il punto è che non è questo il punto. La Juventus, non l’ultimo club della Terza Categoria, aveva ceduto in franchising agli ultras la gestione dei biglietti di curva sud. È questo il punto. La società con più scudetti d’Italia, con uno stadio di proprietà, risultati agonistici e finanziari ottimi, abbondanza di steward pagati con fior di voucher, tratta con il tifo organizzato sapendo di piegarsi a criminali con precedenti penali fino all’omicidio. Che questi criminali siano o non siano manovrati dalla ’ndrangheta è solo questione di tempo. Il crimine organizzato maggiore finisce sempre per prendere il controllo delle bande minori. L’avvocato della Juve Luigi Chiappero ha detto all’Antimafia che tutti i club scendono a patti con gli ultras. Già questo merita un’inchiesta a tutto campo della Commissione. Un’ultima osservazione di natura economica. È o non è importante sentire dal legale di una società quotata che, in pratica, gli ultras sono una parte correlata del business? A quando Genny ’a carogna & friends nei comunicati della Borsa?
Genny 'a carogna, Gastone e gli altri. Gli Ultras sono ormai la quinta mafia. I gruppi di tifosi sono diventati vere e proprie cosche autonome, con vertici, picciotti ed eroi. Mentre le istituzioni e le società non lì combattono e il trattamento riservato dalla giustizia sportiva ai responsabili di gesti clamorosi è sempre stato mite, scrive Gianfranco Turano il 9 maggio 2014 su "L'Espresso". Non sono le mafie a infiltrare gli ultras. Gli ultras sono una mafia a sé, con i suoi vertici, i suoi capitani, i suoi picciotti e una grande zona grigia che si identifica nella “cultura ultrà” - c’è davvero chi la chiama così - senza necessariamente violare la legge. O violandola soltanto un poco, portando in curva qualche bomba carta o uno striscione, svuotando un autogrill o declinando il pactum sceleris nei vari aggiornamenti di sistema. Dopo l’indipendenza finanziaria, la quinta mafia italiana ha ormai raggiunto lo status che la distingue da un’organizzazione criminale comune. Il tifo organizzato ha la capacità di intermediare i rapporti fra istituzioni e cittadini. La trattativa o «interlocuzione», per usare l’eufemismo del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, si è svolta in diretta Rai all’Olimpico la sera di sabato 3 maggio sotto gli occhi del premier Matteo Renzi e della seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Piero Grasso, che di mafie se ne intende avendole combattute da magistrato per decenni. Simbolico anche il luogo visto che l’Olimpico è l’unico stadio italiano di proprietà statale, attraverso l’ente pubblico Coni, rappresentato in tribuna autorità dal presidente Giovanni Malagò. Due giorni dopo i fatti è intervenuto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a mettere il veto su questa nuova versione della trattativa. Sacrosanto dirlo, difficile farlo. Sabato 3 all’Olimpico tutto era a favore di Gennaro “Genny ’a carogna” De Tommaso, capo ultrà napoletano nelle vesti di diplomatico, se non di vero e proprio sostituto tutore dell’ordine pubblico. Con lui non si poteva non trattare. Alle spalle aveva le truppe e le armi, che continuano a entrare senza ostacoli dai passaggi riservati agli ultras. Le rassicurazioni dei massimi dirigenti sportivi, dei politici presenti e degli addetti all’ordine pubblico («la partita si sarebbe giocata comunque») sono fanfaronate ex post. Alla seconda bomba carta, o petardo, il portiere di turno sotto la curva dei napoletani se ne sarebbe andato a centrocampo a badare alla salute e dopo un po’ l’arbitro avrebbe rimandato tutti negli spogliatoi. L’Olimpico è pur sempre lo stadio dove il tifoso laziale Vincenzo Paparelli fu ucciso durante un derby da un razzo sparato dalla curva sud a 250 metri di distanza. E una carica della polizia sugli spalti in queste condizioni equivale a una strage. La finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli non è la prima “interlocuzione” tra Stato e ultras ma è di sicuro la più spettacolare. La sceneggiata di Genny ’a carogna fa rivivere un film di dieci anni prima nello stesso impianto, con gli ultras di Roma e Lazio che bloccano il derby del 21 marzo 2004. Certo, lì il casus belli - un bambino ucciso da una camionetta della polizia - era stato inventato dai tifosi. Era una “tragedia”, per usare il termine mafiologico. Era l’incredibile usato per destabilizzare e mostrarsi potenti. Ma è ancora più incredibile che il primattore della trattativa di dieci anni fa, Daniele “Gastone” De Santis, immortalato accanto al capitano romanista Totti mentre gli dice «’a France’, ricordate, io c’ho parlato co la mamma del regazzino», sia di nuovo il protagonista nella tragedia senza virgolette del 3 maggio 2014.
Ironia della storia? Più modestamente, inerzia del potere. I Daspo, le interdizioni dalle partite, la tessera del tifoso, la chiusura delle curve per cori razzisti, i tornelli smart e le perquisizioni per togliere la bottiglia di minerale dalle mani dei bambini non sono serviti a nulla. De Santis, già arrestato per estorsione al presidente giallorosso Franco Sensi nel 1996, è stato prescritto dall’inchiesta per procurato allarme sul derby del 2004. Oggi i suoi ex colleghi dicono che “Gastone” non andava in curva sud da anni. Ma non era un pazzo isolato e si sentiva ancora abbastanza hooligan da aspettare insieme al suo gruppo di fuoco i nemici napoletani, lanciare bombe carta sui loro pullman, lasciare Ciro Esposito a terra in fin di vita e subire la vendetta istantanea con il linciaggio in viale di Tor di Quinto 57, sulla strada che porta all’Olimpico. Lì De Santis lavora e lì si è rifugiato sotto gli occhi inorriditi di Donata Baglivo, produttrice cinematografica passata dall’amicizia con il regista russo Andrej Tarkovskij alla candidatura con Gianni Alemanno alle comunali del 2008 (1 voto di preferenza) insieme al figlio Jonathan Zonin (28 voti). È difficile che sia efficace un Daspo se viale di Tor di Quinto 57, in una zona centrale della capitale, ospita da anni sotto gli occhi di tutti una società di produzione cinematografica (Ciak 2000), un locale da ballo, i campi di calcetto dove De Santis faceva il custode, il circolo di estrema destra il Trifoglio-Popolo per la vita e le partite dell’Unione sportiva Boreale. Tutto su terreni del Demanio. Tutto abusivo. Tutto sotto sequestro dallo scorso marzo. E tutto a disposizione come base per il raid di sabato. Adesso c’è la corsa al provvedimento emergenziale. Un classico. Intanto la cronaca dice che la stagione calcistica 2013-2014, quella dei Mondiali di Rio, è stata trionfale per il potere ultrà. Il coro pro Vesuvio è diventato un must in tutti gli stadi italiani. Serve al tifo organizzato per evidenziare disprezzo delle leggi e, allo stesso tempo, per esercitare pressione sui club. Il risultato - le gradinate chiuse - non ha impedito alla Lega calcio di ottenere un aumento sul contratto dei diritti televisivi. Ma all’estero non vedono con altrettanto entusiasmo una partita giocata con mezzo impianto deserto. Il premier Renzi ha detto che i club devono occuparsi della sicurezza. Si potrebbe obiettare che mancano le coperture finanziarie. O registrare che, se l’esempio viene dall’alto, i grandi club non sono d’esempio. La Juventus, campione d’Italia per tre volte di fila e unica società di A con lo stadio di proprietà, dopo la squalifica delle curve ha riempito il suo settore ultrà con 12 mila bambini che, per imitare gli adulti, hanno urlato “merda” a ogni rinvio del portiere avversario, l’udinese Zeljko Brkic (5 mila euro di multa). Due mesi dopo, il 23 febbraio 2014, gli ultras hanno esposto uno striscione lungo 30 metri che inneggiava alla sciagura di Superga, l’incidente aereo che distrusse il grande Torino 65 anni fa (25 mila euro di multa, tre tifosi denunciati). Così il sindaco di Torino, Piero Fassino, ha "concluso" la sua visita ai tifosi del Torino che commemoravano l'anniversario della tragedia di Superga nel rudere del loro storico stadio, il "Filadelfia", da anni in attesa della ricostruzione. Dopo gli insulti mentre era sul palco, continuati quando è sceso, il sindaco ha rivolto il gestaccio alla folla, accendendo ancora di più gli animi. Poi si è allontanato. In serata ha smentito il gestaccio ma il video non sembra lasciare dubbi. I tifosi granata hanno aspettato che il sindaco Piero Fassino, di fede juventina, celebrasse l’anniversario di Superga, domenica 4 maggio, il giorno dopo Napoli-Fiorentina di Coppa Italia, per insultarlo e ricevere in cambio un dito medio. Fin qui è quasi folklore, come l’irruzione degli ultras milanisti a San Siro per chiedere conto all’allenatore Clarence Seedorf della sconfitta in casa contro il Parma, a marzo. Gli stessi ultras rossoneri a maggio del 2009 avevano fischiato l’ultima partita di Paolo Maldini, capitano e campione che aveva il vizio di evitare i flirt con il tifo professionale. Meno folkloristica è la contestazione dei laziali al presidente Claudio Lotito, sotto scorta da anni per le minacce ricevute dagli ex padroni della Nord, gli Irriducibili, poi colpiti da varie inchieste giudiziarie. L’oggetto del contendere riguardava la gestione del merchandising che Sergio Cragnotti, predecessore di Lotito, aveva dato in outsourcing agli ultras, che avevano anche creato un loro marchio di abbigliamento (Original fans). L’uscita di scena degli Irriducibili nel 2012 è stata un semplice cambio di pelle. Lo slogan “riprendiamoci la lazialità” è stato lanciato dal capo della Nord Fabrizio “Diabolik” Piscitelli, arrestato lo scorso ottobre dopo un mese di latitanza con l’accusa di narcotraffico. Trenta giorni dopo, a novembre, la trasferta dei tifosi biancocelesti per la partita di Europa league contro il Legia Varsavia si è conclusa con il fermo di 200 italiani. Molti, da destra e da sinistra, hanno parlato di affronto ai diritti umani da parte della polizia polacca e per qualche giorno il caso è diventato un bis in salsa pallonara dei due marò detenuti in India. Superata la crisi polacca, Lotito ha incassato un Lazio-Atalanta a marzo con lo stadio vuoto per lo sciopero del tifo. Il fronte napoletano è stato relativamente calmo, fino agli scontri del 3 maggio. Forse un segno del prestigio in curva di Genny ’a carogna, colpito da Daspo martedì ma capace di sollevare in campo la Coppa Italia vinta dal Napoli due anni fa come se fosse il vero capitano della squadra. In questa stagione sono diminuite le rapine ai giocatori ma si è saputo finalmente perché i vari Hamsik, Lavezzi, Cavani erano nel mirino. Lo ha spiegato a dicembre un collaboratore di giustizia, il camorrista Salvatore Russomagno: le rapine erano la punizione degli ultras ai calciatori che si rifiutavano di partecipare ai loro eventi. Ancora una prova di una logica mafiosa a se stante anche se i responsabili non sono stati ancora individuati. L’omertà nel tifo organizzato è ferrea. La punizione, sempre incerta. Il doppio binario della giustizia ordinaria e sportiva continua a provocare incidenti di percorso. Uno dei più gravi di quest’anno riguarda il calcio professionistico di terza serie. Il 10 novembre 2013 il derby fra la Salernitana, controllata dal presidente laziale Lotito, e la Nocerina è durato 21 minuti per insufficienza di personale sul terreno di gioco. Otto calciatori della Nocerina hanno finto l’infortunio perché minacciati dai loro ultras. I tifosi, dopo che la Prefettura aveva vietato loro la trasferta per ragioni di ordine pubblico, hanno stabilito che il match non si sarebbe disputato. A gennaio, per decisione della Disciplinare della Federcalcio, la Nocerina è stata retrocessa fra i dilettanti e dieci tesserati sono stati squalificati. Forti coi deboli? Di sicuro il trattamento riservato ai deferiti (gli indagati della giustizia calcistica) per Genoa-Siena del 22 aprile 2012 è stato molto più mite. Quella domenica gli ultras genoani avevano interrotto la partita e imposto ai loro giocatori di togliersi la maglietta disonorata da una prestazione negativa. Il mediatore tra la curva e la decina di poliziotti presenti era stato il calciatore Giuseppe Sculli, nipote di un boss della ’ndrangheta e unico squalificato per un mese. Il club di Enrico Preziosi, che con gli ultras ha spesso intrattenuto rapporti cordiali e ha subito un Daspo, ha pagato 30 mila euro di multa, il ricavo di qualche centinaio di biglietti di tribuna. I fatti dello stadio genovese di Marassi hanno ispirato i fan del Padova che a marzo hanno imposto il rito della svestizione ai loro beniamini. Ma sempre a Marassi, diciotto mesi prima di Genoa-Siena, si è vissuta un’altra pagina istruttiva del potere ultrà, stavolta in versione internazionale. Il 12 ottobre 2010 il match Italia-Serbia è stato interrotto dai tifosi ospiti, capitanati dal capo-ultrà della Stella Rossa Ivan “il Terribile” Bogdanov, un colosso vestito di nero e con un mefisto in testa che ha tenuto in scacco il sistema di sicurezza e impedito lo svolgimento della partita. Bogdanov ha scontato una condanna a un anno e undici mesi nella sua Belgrado ed è stato scarcerato un anno fa. In Serbia e non solo, molti lo considerano un eroe. Nell’ambiente ultrà lo stesso accadrà a Genny il napoletano e a Gastone il romanista. L’epopea del fuorilegge è indispensabile per ogni associazione di questo tipo.
Alla camorra piace sempre il campione. I clan avvicinano i giocatori per entrare nei giri Vip e ampliare i loro business. Primo obiettivo il Napoli, ma un filone porta anche al presidente del Genoa, Preziosi. Sui cui affari indaga l'Antimafia, scrive Lirio Abbate il 5 luglio 2017 su "L'Espresso". Ci sono le gite in barca a Capri, le feste, i pranzi e le cene e poi le conversazioni registrate dalle intercettazioni autorizzate dai giudici a far emergere il mondo in “fuori gioco” di alcuni campioni del Napoli calcio in compagnia di pregiudicati, alcuni dei quali legati a clan camorristici. Documenti e filmati che fanno riferimento a un periodo che parte dalla metà del 2013 e arriva fino al 2016. Storie che hanno rilievo sociale, calcistico e professionale, segnate dall’ombra delle organizzazioni criminali che tentano di agganciare i calciatori per esibirli pubblicamente come trofei al popolo dei clan, al sottobosco criminale, per far così comprendere la potenza e il prestigio che l’amicizia, o presunta tale, con i beniamini dello stadio gli fanno ottenere. I calciatori sono ignari di questi retroscena, vittime di raggiri e finte amicizie che li trascinano in fondo alla palude. Gonzalo Higuaín con la maglia della JuventusUna serie di immagini riportano alla gita a Capri del bomber Gonzalo Higuaín nell’agosto 2013, da poco arrivato a Napoli e introdotto nel nuovo giro di amicizie da Paolo Cannavaro. Con loro c’è uno dei fratelli Esposito, imprenditori del commercio di giocattoli, arrestati nelle scorse settimane per riciclaggio e accusati di essere vicini ai clan di camorra. Durante quella gita in barca – le indagini non hanno ancora accertato se si tratta di una imbarcazione nella disponibilità di Esposito – Higuaín rimane ferito al mento per un tuffo vicino agli scogli. Solo oggi, attraverso le indagini svolte sugli Esposito, si conosce il vero motivo della gita e chi si trovava in compagnia del bomber. All’epoca il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, aveva usato parole forti contro il capitano azzurro Paolo Cannavaro. C’è un video, ripreso con un cellulare a margine di un incontro con gli studenti, in cui il produttore dà dello «stronzo» a Cannavaro, che reputa l’organizzatore della gita a Capri. De Laurentiis domanda agli studenti: «Il capitano vero chi è?». E i ragazzi rispondono: «Hamšík». Il presidente approva, poi aggiunge: «Ma te pare a te che arriva Higuain e sto’ stronzo di Cannavaro cosa fa? Piglia una barca, senza fattura, pagata al nero, lo porta a Capri e lo fa “infrocià” (sbattere, ndr) su uno scoglio». Il video fa il giro del web e a De Laurentiis tocca precisare con un tweet: «Mi sorprende che vengano prese seriamente battute fatte in un chiaro momento goliardico. Anche con Paolo mi sono fatto quattro risate». Chissà se il presidente si farà ancora quattro risate quando avrà la possibilità di leggere la ricostruzione di quella gita a Capri fatta dagli investigatori. Oppure le intercettazioni in cui sono scivolati i suoi calciatori. Perché di una cosa gli inquirenti sono certi: il Calcio Napoli ha sempre respinto ogni tentativo di infiltrazione dei clan. Ma i campioni del “San Paolo” non hanno saputo riconoscere la camorra. Il procuratore aggiunto di Napoli Filippo Beatrice, che sta coordinando l’inchiesta condotta dalla Dia, sta valutando l’ipotesi di accertare se, oltre a regali e favori fatti ai calciatori da parte degli Esposito, ci siano anche affari in comune con gli imprenditori dei giocattoli, accusati anche di avere intestato a un prestanome un’agenzia di scommesse del brand Eurobet in piazza Mercato a Napoli per evitare sequestri, con l’aggravante di aver commesso il fatto per agevolare i clan. I fratelli Esposito sono imparentati con Bruno, Mario e Vincenzo Palazzo, quest’ultimo ritenuto reggente del clan Sarno. A questi tre detenuti, come accertato durante le indagini, i tre imprenditori hanno fornito sostentamento economico. Gabriele Esposito è stato condannato in primo grado a sette anni di reclusione perché, secondo i giudici, affiliato al gruppo camorristico. Dalle intercettazioni e dalle rivelazioni di collaboratori di giustizia è emerso che i fratelli Esposito hanno avuto assidue frequentazioni con noti boss, in particolare con Ettore Bosti, esponente di vertice del clan Contini. Proprio la vicinanza al clan gli ha consentito di avere protezioni rispetto a richieste estorsive provenienti da altri gruppi camorristici. Gli Esposito sono anche personaggi noti della movida napoletana: nelle foto che hanno postato su Facebook e altri social compaiono accanto a calciatori che indossano, o hanno indossato, la maglia del Napoli. Da Maradona a Higuaín, da Callejón a Reina e Paolo Cannavaro. Selfie scattati durante feste e cene da cui si comprende come non si tratti di casi isolati o sporadici. Secondo quanto emerge dalle indagini infatti, si tratta di ripetute frequentazioni, tanto da far definire agli indagati questi contatti come amicizia. Circostanze, comunque, che non sono oggetto delle indagini penali. Ma un rilievo sportivo forse potrebbero averlo, e lo vuole accertare il procuratore della Federcalcio Giuseppe Pecoraro, il quale ha chiesto gli atti ai magistrati per valutare il profilo di ogni calciatore. Perché se nulla vieta a indagati e camorristi di frequentare i campioni del calcio, c’è invece un articolo della norma della giustizia sportiva che «fa divieto ai tesserati di avere rapporti con sostenitori e associazioni senza autorizzazione del delegato della società». È una figura chiamata “Slo” introdotta dalla Federcalcio poco tempo fa. L’ex prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro vuole vederci chiaro, e per questo ha aperto un fascicolo dentro il quale finiranno conversazioni dei calciatori, intercettate, foto, video e informative di polizia giudiziaria in cui compaiono alcuni campioni del Napoli. C’è pure una conversazione registrata dagli investigatori in cui un intermediario del capitano del Napoli Marek Hamšík contatta Gennaro De Tommaso, noto come “Genny ’a carogna”, coinvolto nei fatti di violenza avvenuti all’Olimpico di Roma il 3 maggio 2014, prima della finale di Coppa Italia Fiorentina-Napoli, per condividere una versione dei fatti: episodi non collegati con i tragici eventi culminati nell’uccisione di Ciro Esposito. L’intermediario di Hamšík chiama “Genny ’a carogna” alla vigilia della convocazione del calciatore davanti agli investigatori, e comunica ciò che Hamšík dirà a verbale da testimone agli inquirenti. Non è stato accertato se il calciatore fosse a conoscenza di questo ipotetico accordo con Genny, e quindi potrebbe essere estraneo al tentativo. C’è un’immagine però che è difficile dimenticare: è la sera di maggio di tre anni fa e il capo ultrà del Napoli è seduto sulla balaustra dell’Olimpico che chiede di parlare con l’incolpevole Hamšík. Quella messa in atto da De Tommaso è una strategia per alzare la tensione che si è venuta a creare tra i tifosi dopo la notizia del ferimento di Ciro Esposito. Genny minaccia l’invasione di campo ma, dopo aver ottenuto di parlare con Hamšík, si placa e le autorità ottengono il via libera per l’incontro. Le intercettazioni ai fratelli Esposito sono un pozzo senza fondo e in parte conducono anche a Genova. E qui si potrebbe aprire un altro filone “sportivo”, perché viene coinvolto in alcuni affari anche Enrico Preziosi, presidente del Genoa. Il contatto iniziale, secondo quanto emerge dalle indagini, parte proprio da uno dei calciatori del Napoli che va spesso a mangiare con i fratelli Esposito. I giocattoli sono il punto in comune fra il presidente del Genoa e gli indagati per riciclaggio. Non ci sarebbe nulla di strano in tutto questo se non fosse che su alcune operazioni dall’ammontare di quasi venti milioni di euro, effettuate fra i due imprenditori triangolando anche con una grossa concessionaria di pubblicità di Milano, sono intervenuti gli ispettori dell’Unità di informazione finanziaria per l’Italia (Uif) della Banca d’Italia. La Uif ha segnalato l’operazione alla Direzione investigativa antimafia come da prassi e ora la procura di Napoli sta valutando quali documenti di questa inchiesta possono essere stralciati per trasmetterli agli uffici competenti che potranno verificare eventuali operazioni sospette.
Di contatti e amicizie con alcuni giocatori del Napoli ha parlato nei mesi scorsi ai pm anche il collaboratore di giustizia Antonio Russo. Il boss era solito assistere agli incontri al San Paolo da bordo campo, grazie a un pass da giardiniere. Per spiegare meglio gli intrecci fra tifosi e campioni del calcio, Lo Russo ha ricordato ai magistrati che lo interrogavano un episodio avvenuto alcuni anni fa e che è stato rivelato alla Commissione antimafia dalla pm Enrica Parascandolo che si occupa dell’inchiesta: «Vi erano stati dei dissidi tra giocatori e società, per cui si paventava l’allontanamento del giocatore Lavezzi dal Napoli, e quindi ci fu l’esposizione di uno striscione a tutela del giocatore, per dimostrare alla società che la tifoseria voleva Lavezzi a Napoli». Il magistrato riportando la versione del pentito dice: «Lavezzi aveva interesse che la tifoseria stesse dalla sua parte e quindi esponesse uno striscione in sua difesa del tenore “Lavezzi non si tocca” o qualcosa del genere e si rivolse a lui (a Lo Russo ndr) per ottenere lo striscione su entrambe le curve, che non è una cosa così facile, così scontata, perché significa avere il placet di due aree geo-criminali diverse». Secondo la narrazione di Lo Russo riportata dalla pm Parascandolo ecco cosa è avvenuto: «Il suo intervento ha consentito, grazie alle conoscenze di personaggi della curva A, che questo striscione venisse esposto su entrambe le curve, a tutela di Lavezzi, facendosi promettere in cambio come favore personale, dato il rapporto di amicizia che lo legava al giocatore, che non sarebbe mai andato a giocare in una squadra come la Juventus o l’Inter, ma solo all’estero. Cosa che poi è accaduta». Il pentito racconta il suo rapporto con Lavezzi, conosciuto come capo ultrà: «Veniva a casa mia, giocavamo alla Playstation». Per comunicare senza essere intercettati usavano cellulari “dedicati”, e quando Lo Russo ha iniziato un periodo di latitanza ha fatto avvisare il giocatore di disfarsene per non essere scoperto. Di relazioni pericolose tra glorie sportive e malavita organizzata è piena la storia del calcio, e neppure una divinità sportiva come Diego Maradona seppe sfuggire alla regola, facendosi travolgere dalla parte negativa di Napoli. Tuttavia neanche lo scivolo nella palude di qualche fuoriclasse ha evitato alla storia di ripetersi. Come dimostra il caso dell’attaccante del Palermo, Fabrizio Miccoli, mito per i tifosi rosanero che però si è schiantato contro un martire della mafia, Giovanni Falcone. Perché Miccoli, frequentando il figlio di un mafioso latitante e poi il nipote di Matteo Messina Denaro, parlando al telefono ha offeso il giudice. La conversazione registrata fra Miccoli e il suo amico indagato, che non aveva una rilevanza penale, ha svelato il lato oscuro del campione e una ricaduta sociale innescata dal clamore suscitato sulla stampa. E, nonostante i tanti gol segnati dall’attaccante rosanero, davanti all’offesa a Falcone i palermitani non hanno avuto dubbi su quale parte sostenere e lo hanno allontanato. Degli intrecci della malavita con i calciatori ha parlato nelle scorse settimane anche il capo della polizia Franco Gabrielli durante un’audizione in Commissione antimafia, presieduta da Rosy Bindi. «Da oltre 15 anni c’è la consapevolezza che l’industria del football è esposta a ingerenze della delinquenza comune e organizzata. Sono documentati casi di contiguità e intrecci con ambienti malavitosi in cui sono coinvolte società sportive, calciatori e indotto del calcio», ha detto Gabrielli, aggiungendo: «Il crimine intravede nella gol economy l’occasione per ampliare traffici illeciti e insinuarsi in modo pervasivo sul tessuto sociale».
Damiano Tommasi: "Ecco perché la mafia è interessata al calcio". I campioni fotografati con i boss. I rapporti fra giocatori e ultras. I proprietari occulti delle squadre. Il caso Donnarumma. Le scommesse pericolose fra i dilettanti. Le squadre giovanili. Parla l'ex centrocampista giallorosso "anima candida del calcio", scrive Stefano Vergine il 6 luglio 2017 su "L'Espresso". La scelta che lo ha trasformato nel simbolo del calcio pulito risale al 2004. Damiano Tommasi, centrocampista centrale della Roma dell’ultimo scudetto, si rompe il legamento crociato durante un’amichevole estiva. Cose che succedono, nel calcio. Un mondo in cui – almeno in serie A - gli stipendi possono essere a cinque zeri anche se la partita si guarda dalla tribuna. Il mediano giallorosso fa però una scelta insolita, quasi unica. Decide di rinegoziare il contratto con la Roma, riducendosi lo stipendio a 1.500 euro al mese finché il ginocchio non sarà a posto. Tommasi diventa così “l’anima candida del calcio”. Veronese di Negrar, sposato da 20 anni con la ragazza conosciuta a scuola, padre di sei figli, l’ex centrocampista veneto è oggi il presidente dell’Aic, il sindacato dei calciatori. Una posizione che non gli ha impedito di criticare apertamente alcune storture del mondo del pallone, come l’accordo firmato l’anno scorso fra Federcalcio e la società di scommesse Intralot per la sponsorizzazione della Nazionale italiana. «Una vergogna», la definì allora il sindacalista dei calciatori, che anche in questa intervista concentra le sue critiche sulle scommesse, soprattutto su quelle che coinvolgono i campionati di calcio dilettantistici.
Tommasi, partiamo dai rapporti tra i giocatori e le mafie. Come giudica chi si fa fotografare insieme a criminali?
«Non li giudico, valuto i fatti. È un fatto provato che la malavita organizzata è interessata al calcio. È interessata a gestire direttamente i club ed è interessata, soprattutto, alle scommesse sulle partite. Ovviamente se si vuole controllare il settore delle scommesse i rapporti diretti con i calciatori possono essere molto utili, perché sono i giocatori a scendere in campo e a determinare i risultati. Per questo le fotografie tra alcuni calciatori ed esponenti della criminalità sono preoccupanti. Bisogna però ricordare che non tutte le foto sono uguali. Anche io, per dire, faccio decine di selfie e non posso certo conoscere tutte le persone con cui mi faccio immortalare. È necessario perciò capire se oltre alle fotografie ci sono dei rapporti personali tra i giocatori e i criminali».
Come abbiamo raccontato su L'Espresso, quando era al Napoli Gonzalo Higuain andò in vacanza con un condannato per mafia. Che cosa farà in questo caso l’Aic?
«Leggeremo, verificheremo e vedremo eventualmente che cosa fare. Comunque posso già dire che il nostro obiettivo non è condannare o meno un comportamento. Quello che possiamo fare è mettere in guardia i calciatori sui rischi che derivano da atteggiamenti del genere. E ricordare a tutti che alla fine stiamo parlando di ragazzi, spesso molto giovani, che si trovano a gestire situazioni a volte davvero difficili».
Come il rapporto con le curve, che può diventare pericoloso e violento. Su questo come intervenite?
«Come Aic abbiamo appoggiato l’introduzione di norme federali che prevedono la squalifica, almeno per un turno, per tutti i tesserati che accettano le minacce degli ultras e interloquiscono con loro».
Dunque anche il presidente della Juventus, Andrea Agnelli, rischia la squalifica se verrà provato il suo rapporto con esponenti della ‘ndrangheta infiltrati nella tifoseria?
«L’indagine della procura federale è ancora in corso, credo. Dipende da come finisce».
Lei ha detto che servono norme più stringenti sulla trasparenza delle proprietà dei club. Qual è l’obiettivo dell’Aic?
«Chiunque detiene oltre il 10 per cento di una squadra oggi deve presentare garanzie patrimoniali e di onorabilità. La nostra volontà è di abbassare la soglia all’1-2 per cento».
Il caso di Gianluigi Donnarumma conferma che i giocatori-bandiera non ci sono più. Lei che ha trascorso quasi tutta la carriera alla Roma cosa pensa di questa storia?
«Ognuno sceglie in base al proprio vissuto, alla famiglia, ai cambiamenti che avvengono nel club. Per giudicare bisogna sapere bene come stanno le cose. E tenere presente che le bandiere piacciono solo se sono vincenti. Di certo è soprattutto sui trasferimenti che i club guadagnano. Per questo motivo sono in tanti a spingere per i cambi di casacca».
Che cosa la preoccupa di più del calcio attuale?
«Mi preoccupa il calcio giovanile sempre più concentrato sulla ricerca del talento, del campioncino, invece che sul tentativo di trasmettere il piacere di giocare a pallone. E mi preoccupa la possibilità di scommettere anche sui dilettanti, sulle partite di Serie D e di Eccellenza, dove ci sono meno controlli ed è quindi più facile che le gare vengano truccate. Almeno in queste categorie le scommesse andrebbero vietate, così si potrebbero sanzionare pesantemente eventuali puntate illegali.
Calcio e mafia, parla Dino Zoff. «Oggi è tutto esagerato: la tensione, i gesti in campo, i soldi. E così si perde ogni bellezza». Parola del portiere campione del mondo, scrive Floriana Bulfon il 31 marzo 2017 su "L'Espresso". Responsabilità e dignità disegnano la sua area di rigore. Quella da difendere sul campo e nella vita. Sono i giorni di un calcio malato, imprigionato in una ragnatela di affari e di interessi criminali. Chiamata in causa è proprio la sua Juventus per i presunti rapporti tra la dirigenza ed esponenti della ’ndrangheta annidati nelle curve. Tifoserie organizzate, bagarinaggio e il calcio che dimentica la poesia e implode in se stesso. «Non conosco i dettagli dell’indagine e per questo, come è mia abitudine, non commento. Vero è che prima le società hanno supportato le curve per sostenere le squadre e poi nel tempo gli hanno permesso di influire sulle scelte. Non credo però che abbiano un potere così determinante. E comunque non diverso da quello di trenta anni fa. Però mi sembra di assistere alla decisione di ridurre il limite di velocità a trenta chilometri orari per quelle strade piene di buche, invece di intervenire sul problema riparandole. In questo Paese accade. Fuori e dentro il mondo del pallone». A parlare è Dino Zoff, il portiere nazionale. Quattro Mondiali, 40 anni di calcio tra i pali e la panchina d’allenatore. Per tutti SuperDino. Più semplicemente, una persona seria. «Con mio padre non si parlava tanto, le regole erano quelle, se avessi trasgredito mi sarei ritrovato fuori dalla porta». Mariano del Friuli, case in fila sulla provinciale e filari di vigna, ai margini dei confini, in una terra di trincea e di mani indurite dal lavoro nei campi. «La scelta era tra studiare e imparare un mestiere. E poi se c’era tempo, c’era anche il calcio. Perché era considerato un gioco, non un lavoro. Un gioco autentico». Fatto di poesia e di essenzialità, dove non si misura tutto in gol e parate. «L’esaltazione di una singola vittoria, sbandierata in maniera esasperata, svilisce la sostanza del calcio. Gli fa perdere la bellezza». È lo Zoff di sempre, ma nel suo consueto rigore si intravede una serena consapevolezza. Non è vero che parla poco, è che ricerca con misura le parole. Gli dà un senso per esprimere concetti importanti, oggi più che mai fondamentali. «Sono vecchio», sorride. «E anche responsabilità è una parola vecchia». In effetti spiazza sentir parlare di responsabilità guardando al mondo del calcio di oggi, ai suoi protagonisti in campo e fuori. «Ci sarebbe bisogno di responsabilità, di avere comportamenti adeguati», ammette. «Nella vita mi sono sempre ispirato a valori fondamentali e mi sono sempre sentito vincolato nel non tradirli. Diversamente, se si vive tutto in maniera troppo esasperata e senza rispetto, si perdono le basi della civiltà». Si fa per un attimo pensieroso per poi chiedere: «Forse sto parlando troppo di me? Sono narciso?». Un ossimoro: Dino Zoff un narciso. Lui diretto, non accomodante, con poca voglia di stare in prima pagina. Non un titolo, ma un contenuto. Ancora oggi mito dello sport. Persino i ragazzini, quelli del nuovo Millennio, lo riconoscono e gli chiedono di farsi una fotografia insieme. «Sono stimato dalla gente che non appare, la maggioranza silenziosa. Dal fornaio al professore, credo apprezzino la mia coerenza». Eroico capitano della Nazionale vittoriosa nel Mondiale 1982, le cui braccia, che alzavano il cielo la coppa, sono finite su un francobollo commemorativo da mille lire. Quella coppa poggiata a lato di un tavolino ha assistito alla partita di scopone più famosa per il nostro Paese. Due coppie: Bearzot-Causio contro Pertini-Zoff. Una foto testimonia gli sguardi concentrati in una sfida senza sconti. «È venuta fuori autentica, non era impostata. Il presidente della Repubblica già sugli spalti aveva dimostrato la tensione e la partecipazione di un vero tifoso. Però in quella partita, abbiamo perso per un suo errore. L’ha ammesso solo dopo anni. Del resto lo scopone pareggia, mette tutti sullo stesso livello». Gli brillano gli occhi, il ricordo è vivo. Ma poi continua fermo: «Rispecchia quel momento perché non era finta. Oggi se ne fanno tante, ma spesso danno l’impressione di essere artefatte». Quella foto non raffigurava solo un momento di successo per l’Italia, ma misurava il senso di appartenenza di tutti gli italiani per il proprio Paese. Un’immagine simbolo ormai ingiallita, impolverata dal tempo trascorso e dalle troppe lacerazioni che ci hanno intorbidito. In un mondo che urla, Zoff prosegue serafico ricordando: «Quelli sono stati Mondiali irripetibili. Facevamo gol su azione, uno spettacolo, una progressione inarrestabile. È stato un crescendo rossiniano. È diventato così sentito perché ha rappresentato il riscatto dei perdenti. Tutti dicevano a Bearzot che non c’era la squadra. Siamo un Paese che spesso non ha memoria. Già nel ’78 eravamo una grande Nazionale, se avessi giocato meglio io saremmo arrivati in finale. Quattro anni dopo però ci consideravano scarsi, insignificanti. È stata una rivincita della Nazionale e della nazione». Le critiche per il ct Bearzot furono aspre, continue, inarrestabili. Diradata la nebbia delle polemiche con quel risultato scoppiò l’entusiasmo. «Per me è stato un secondo padre», confessa Zoff. «Un uomo ferocemente onesto. Solo con lui si poteva vincere quel Mondiale, perché era un comandante determinato, coraggioso con i dirigenti. Aveva la faccia da pugile e credevano non avesse cultura e invece parlava in latino, aveva studiato al liceo classico di Gorizia. Era un uomo puro. Era il suo modo di essere». Enzo Bearzot, friulano della bassa come lui. Di quella terra carsica che ha partorito tanti campioni del calcio italiano. «Una volta», sottolinea Zoff, «eravamo almeno dieci in serie A, tre o quattro in Nazionale. Eravamo abituati al sacrificio e il calcio non era solo un sacrificio, era anche un piacere. Era la cosa più piacevole che c’era. Ora i pochi bambini che ci sono nella nostra regione hanno la possibilità di fare sport diversi o forse hanno cose più piacevoli da fare con meno impegno». Chi invece decide di praticare il calcio oggi troppo spesso lo vive prima ancora di iniziare con un senso di competizione, come una carriera già avviata, dove la sobria fatica è fuori moda e i ruoli vengono interpretati in maniera esasperata, teatrale. «Se la palla è tre metri fuori è inutile che ti tuffi. Mi è sembrato di tradire la Nazionale quando ho bloccato al volo un pallone destinato fuori dai pali. Avevo calcolato male la traiettoria. Serve invece più semplicità. C’è bisogno di ricercare l’essenzialità». Complicato farlo quando non si hanno stabili punti di riferimento. Le squadre hanno delle rose in continuo mutamento «adesso se uno non è esperto di calcio ha difficoltà a riconoscere persino i giocatori della propria squadra. I giocatori hanno contratti a termine, una volta il cartellino era della società, c’era un legame. Tutto questo produce disaffezione». Il calcio che allo stesso tempo continua ad accomunare generazioni di tifosi, ad appassionare a tutte le latitudini, con i paesi emergenti che riempiono gli stadi e danno vita a nuovi interessi e investimenti. Le risorse economiche e finanziarie si sono fatte globali. Cinesi, arabi investono nei club europei. «Ai tempi dell’avvocato Agnelli il rapporto era diretto. Era uno innamorato del calcio. Quando sono arrivato a Torino venivo dal Napoli e avevo già fatto 19 partite in Nazionale. Mi chiese tutti i dettagli, di ogni centravanti incontrato voleva sapere le caratteristiche offensive», ricorda. Era la Juve della famiglia Agnelli e della Fiat. Parlava italiano. «Non era tanto un investimento, quanto una cosa di cuore, di tifo», sottolinea. Zoff ci crede ancora in questo gioco. Ma con responsabilità e dignità. Quella dignità messa in discussione da Silvio Berlusconi all’indomani della sconfitta onorevole alla finale dell’Europeo del 2000. «Ho sempre accettato le critiche, ma in quell’occasione mi ha definito “indegno” e io mi sono dimesso. Secondo me se uno ha un piatto di minestra se non ha la dignità, non è un uomo. Diverso è se uno un piatto di minestra non ce l’ha perché in quel caso è sopravvivenza. Sennò anche se hai tutto sei nessuno». Dimettersi non è stata solo una reazione, ma una scelta di coerenza. Per quella dignità che ha assorbito in una famiglia di contadini, dove le scarpette affondavano nel fango e la palla si faceva pesante. La forza e la voglia di faticare e crescere passava per le uova della nonna preoccupata per la statura di quello che sarà e che rimane il portiere leggenda azzurra. Lui che è partito in salita e all’esordio in A ha subito cinque gol. Dai campi alla città, ma non un emigrato. «Mi sento sradicato. Emigrati sono quelli che non hanno avuto la mia fortuna. Il legame con la mia terra però non è mai stato reciso. Non ricordo di aver mai parlato così a lungo. Forse l’ho fatto perché lei è friulana». Si alza e si avvia verso la porta. «Ariviodisi», arrivederci.
Così il calcio italiano ha toccato il fondo. Fondi offshore. Soldi fantasma. Incroci con la criminalità. Ecco come il nostro campionato è sprofondato. Diventando sempre più lo specchio di una nazione senza anticorpi, scrive Gianfranco Turano il 23 marzo 2017 su "L'Espresso". Il calcio in Italia è una branca delle neuroscienze. Closing sempre aperti. Presidenti proprietari per conto terzi. Stadi che si fanno, o forse no. Ultras e ’ndranghetisti uniti nella lotta. Giustizia sportiva che vorrebbe battersi contro il crimine organizzato ma non riesce a punire gli ululati razzisti negli stadi. E naturalmente una classe dirigente rissosa, cialtronesca, avida di guadagno immediato, incollata alla poltrona e ubriaca di popolarità. Ogni somiglianza con la cosiddetta classe politica vera e propria è puramente volontaria. Il pallone continua a essere lo specchio di una nazione senza anticorpi e non esiste riflesso più fedele. L’unico vantaggio del calcio rispetto alla politica è che riesce ancora, a tratti, a essere divertente. Come al cinema, lo spettatore può dire: è solo un film. E se invece è un documentario neorealista, l’importante è che faccia spettacolo.
Chi può pensare che il Milan valga un po’ più di 1 miliardo di euro fra prezzo d’acquisto, debiti da coprire e 350 milioni di euro da spendere in calciomercato? Un nome sicuro c’è: Silvio Berlusconi. È lui il perno di una trattativa che ha portato nelle casse della Fininvest 300 milioni di euro in quattro tranche (15, 85 e due volte 100 milioni). Intorno al presidente più longevo della serie A con 31 anni da titolare (febbraio 1986), ruota un cast che sembra uscito dai titoli di coda di “Dalla Cina con furore”: Yonghong Li, Chen Huashan, Chiam Tat Yiu e Ren Yubing, unica donna del gruppo. In precedenza sono apparsi sullo schermo Bee Taechaubol, tailandese, e il vicepresidente della camera di commercio italo-cinese Fu Yixyang detto Gianni, che fatica ad amministrare la Consulmarketing (350 licenziamenti annunciati), figurarsi come poteva reggere un club di calcio che, fra stipendi e altre piccole spese, brucia circa 12 milioni di euro al mese. Il closing più lungo del mondo, per parafrasare lo scrittore-calciatore Osvaldo Soriano, è un film che ha davvero molto in comune con le pellicole di Hong Kong. Bisogna essere predisposti con la fantasia ad accettare le piroette antigravitazionali dei duelli kung-fu. La finanza sa essere altrettanto irrealistica. L’ultima rata da 100 milioni è stata passata al setaccio secondo le norme dell’antiriciclaggio. Sarà stato così anche con le precedenti. Quindi, fino a prova contraria, i nuovi azionisti del Milan esistono davvero. Una spiegazione razionale al loro comportamento delirante non starebbe tanto nelle restrizioni sull’esportazione dei capitali decise da Pechino quanto nell’ipotesi che gli acquirenti si siano accorti in corso di pagamento dell’ipervalutazione del club rossonero, escluso dalla lotta per lo scudetto e per la qualificazione in Champions league dalla stagione 2013-2014. A quel punto, i cinesi avrebbero tentato di temporeggiare, magari nella speranza di ottenere uno sconto. La Fininvest, bisognosa di denaro per controbattere la scalata di Vincent Bolloré a Mediaset, non si è mossa dal prezzo concordato. Così gli acquirenti si sono trovati di fronte al dilemma del giocatore d’azzardo in cattiva serata: alzarsi dal tavolo e accettare la perdita o continuare a chiedere carta nella speranza di rifarsi ma con il rischio concreto di rovinarsi. A sostegno di questa tesi c’è il fattore emotivo che spesso ha colpito gli imprenditori del calcio a ogni latitudine del globo. I mao-capitalisti del Regno di Mezzo, che sanno essere negoziatori spietati, con il football hanno già dato prova di sbandamento. Negli ultimi mesi hanno noleggiato a prezzi folli attempati centravanti sudamericani ed europei, con l’azzurro Graziano Pellè a quota 15 milioni di euro netti l’anno. Il Milan rientrerebbe in questa patologia, sempre fino a prova contraria. Ma la prova contraria è, in sostanza, impossibile da trovare. I quotisti del fondo di investimento estero che, alla fine, dovrebbe intestarsi la maggioranza del Milan per consentire alla controllante Fininvest di deconsolidare perdite e debiti rossoneri dal bilancio, sono protetti dall’anonimato come è prassi della finanza internazionale e da una barriera a tre strati. I flussi di denaro che arrivano nelle casse del Biscione partono da conti correnti delle isole Cayman, sono appoggiati su un conto di tesoreria delle British Virgin Islands (la Willy Shine di Tortola) e vengono versati a una società di Hong Kong (Rossoneri sport investment ltd). Alla fine del negoziato, il Milan finirebbe sotto il controllo di una finanziaria lussemburghese annunciata mesi fa ma non ancora costituita. Per vedere chi è dietro questa struttura, del resto simile a quella imbastita quando Eric Thohir ha acquisito l’Inter da Massimo Moratti, ci vorrebbero decenni di rogatorie internazionali, se non secoli. Nessun ufficio giudiziario ha così tanto tempo a disposizione e in ogni caso il risultato non sarebbe garantito. Nella sintesi di un magistrato esperto in materia: «La lotta al riciclaggio è virtuale». In altre parole, nel match infinito tra la finanza e i tre poteri dello Stato secondo Montesquieu, il denaro corre come l’ala rossonera Deulofeu. La giustizia, al massimo, come Thiago Motta. Lo scenario prossimo venturo è che lo schema Inter-Milan venga replicato con varianti in altri club di serie A. Si è appena visto con il Palermo di Maurizio Zamparini, ceduto al fondo Integritas capital rappresentato da un giovane di qualche notorietà televisiva, il tatuatissimo Paul Baccaglini. Integritas è un nome diffuso fra le società finanziarie. Nessuna di queste ha finora confermato un interesse per il club siciliano, impegnato nella lotta per non retrocedere in serie B. Se passerà l’operazione Integritas-Palermo, valutata nell’ordine di 200 milioni di euro, è prevedibile una moltiplicazione di transazioni dalle vecchie proprietà a proprietà sempre meno trasparenti. Ogni volta, l’acquirente avrà una biografia imprenditoriale costruita in modo più o meno verosimile, come accadeva ai tempi dei furbetti del quartierino, gli immobiliaristi rampanti di quindici anni fa, spesso venuti dal nulla, quasi sempre protagonisti di avventure finite con fallimenti o bancarotte. Un passo avanti lo ha già fatto un anno fa Gianpaolo Pozzo, multiproprietario di club europei come Udinese e Watford. Dopo avere ceduto il Granada ai cinesi di Desports per 37 milioni di euro, il secondo presidente più longevo della serie A dopo Berlusconi starebbe studiando di acquistare l’Oud Heverlee Leuven, club della serie B belga, proprio insieme a un gruppo di investitori cinesi.
Il calcio, non solo in Italia, ha sempre avuto rapporti turbolenti con il potere giudiziario. Ma per la prima volta nel campionato di serie A in corso è entrato in campo lo spettro dell’organizzazione criminale più potente del mondo. La ’ndrangheta ha spesso investito nel calcio dilettantistico come sistema aggiuntivo per ottenere consenso e controllo del territorio. La tradizione parte dagli anni Settanta, con la Gioiese gestita dal clan Piromalli, ed è continuata con l’infiltrazione del clan Aquino di Marina di Gioiosa Ionica nella squadra locale. Oggi la mafia calabrese avrebbe fatto il salto di qualità penetrando fra gli ultras della massima serie e partecipando a una sorta di racket dei biglietti. All’ordine del giorno della giustizia sportiva e della Commissione parlamentare antimafia sono finiti i presunti legami fra l’altrettanto presunto boss Rocco Dominello di Rosarno e il presidente della Juventus Andrea Agnelli. Al momento la Direzione distrettuale antimafia di Torino non ha preso provvedimenti nei confronti di Agnelli, che non è nemmeno indagato e smentisce gli incontri con Dominello. Ad aprire l’inchiesta sportiva è stato il nuovo capo della procura federale del calcio Giuseppe Pecoraro, che ha sostituito Stefano Palazzi sette mesi fa. Pecoraro, spinto al vertice della Procura della Figc dal presidente laziale Claudio Lotito, è già apparso nelle cronache sportivo-giudiziarie poco meno di tre anni fa quando era prefetto nella capitale. Il 3 maggio 2014 durante la finale di Coppa Italia Fiorentina-Napoli allo stadio Olimpico si tenne “l’interlocuzione” (termine dello stesso Pecoraro) fra le forze dell’ordine e un gruppo di gentlemen agli ordini di Genny “a carogna” De Tommaso, capo del tifo partenopeo che riuscì a imporre le sue condizioni per consentire di giocare il match. Passato dall’altra parte del banco, il nuovo grande inquisitore del pallone si sta mostrando inflessibile con il potere calcistico italiano per definizione, la Juventus, che non è in rapporti idilliaci con Lotito. In effetti, è un’inflessibilità a corrente alternata. Mentre Agnelli è chiamato a difendersi, la giustizia sportiva si è tenuta fuori dalle vicende giudiziarie dei fratelli Vrenna, i proprietari del Crotone accusati di intestazione fittizia di beni riferibili alla ’ndrangheta. Un garantismo premiato dalla sentenza del tribunale di Catanzaro che alla fine di febbraio ha assolto i Vrenna dall’accusa. Per adesso non si ha notizia di interventi della giustizia sportiva in un’altra vicenda di tifo organizzato. È il caso degli ultras dell’Atalanta, colpiti da un’operazione della magistratura bergamasca che procede per traffico di droga, rapine e violenze negli stadi. Fra gli indagati ci sono un vecchio capo del tifo bergamasco come Claudio Galimberti, già coinvolto in inchieste precedenti, e Francesco Buonanno, figlio del procuratore della Repubblica di Brescia. Si dirà che la giustizia sportiva non ha i mezzi né i poteri per esercitare l’azione penale. Ma anche nelle vicende legate al campionato, dalle scommesse alle partite truccate, la sensazione è che l’indulgenza regni sovrana. Nel caso degli ululati razzisti rivolti al nazionale tedesco Antonio Rüdiger, difensore dell’As Roma, durante l’andata del derby di Coppa Italia (1 marzo 2017), la Ss Lazio è stata assolta dal giudice sportivo Gerardo Mastrandrea perché non era stato possibile determinare in che percentuale gli spettatori laziali avessero ululato contro il calciatore romanista prima che l’arbitro chiedesse ai dirigenti laziali di intervenire con un annuncio via altoparlante. Essendo il calcio lo sport fazioso e dietrologico per eccellenza, si segnalano a titolo di cronaca i rapporti spesso perturbati fra Lotito, da una parte, e dall’altra la dirigenza romanista, in particolare con il direttore generale giallorosso, Mauro Baldissoni, spesso schierato con Agnelli. Anche la nomina di Mastrandrea, che ha sostituito all’inizio di questa stagione calcistica Gianpaolo Tosel, è stata appoggiata da Lotito. Mastrandrea, capufficio legislativo del ministero delle infrastrutture con Altero Matteoli, Corrado Passera e Maurizio Lupi, è un ex magistrato del Tar passato a consigliere di Stato. È proprio fra le sue amicizie nella giustizia amministrativa che, secondo i detrattori, il presidente laziale fonderebbe un potere altrimenti difficile da giustificare. Di certo, è un potere che Lotito non intende abbandonare. In Federcalcio è stato rieletto il suo protégé Claudio Tavecchio. E in Lega di serie A si discute ancora se confermare Maurizio Beretta, che i maligni hanno ribattezzato “pronto, Claudio” per la frequenza dei suoi contatti telefonici con il proprietario della Lazio.
Ma il vero tema è il nuovo statuto della Lega di A, un palcoscenico di narcisismi paralizzato a livello decisionale dalla necessità di votare con maggioranze bulgare: due terzi (14 squadre su 20) per le decisioni ordinarie e tre quarti per le straordinarie (15 squadre su 20). La Lega è alla vigilia del rinnovo del contratto sui diritti televisivi con i network (Sky, Mediaset, Rai, più le piattaforme estere e digitali). Il panorama è molto diverso rispetto al precedente contratto, quando l’advisor della Lega (Infront) non era ancora stato comprato dai cinesi di Wanda e Marco Bogarelli gestiva il negoziato. L’altro tema da riformare è quello del cosiddetto paracadute, ossia la dote che la Lega di A riconosce ai club retrocessi e che, secondo molti, è troppo alta. L’idea, a parole condivisa da tutti i presidenti, è di dare alla Lega quella struttura manageriale che caratterizza le maggiori realtà europee, tutte avanti o in corsia di sorpasso rispetto al campionato italiano. Il nuovo statuto sarebbe lo strumento per fare il salto di qualità.
Lotito ha preparato una bozza in proprio. Una seconda proposta, più elaborata, è stata predisposta da un gruppo di legali delle sei grandi (Juventus, Inter, Roma, Milan, Fiorentina, Napoli) ed è stato consegnato alle 13 piccole. Fra i temi ci sono la trasformazione della Lega da associazione non riconosciuta in associazione riconosciuta, con limitazioni nelle responsabilità dei soci che gestiscono un budget da piccola impresa, se si guarda alle attività proprie (8 milioni di euro), ma in effetti muovono oltre 1 miliardo di euro all’anno, se si considerano i diritti. Il cambio di passo dovrebbe venire dalla governance fondata su un presidente di rappresentanza affiancato da un amministratore delegato esterno, reclutato attraverso una società di head-hunting e responsabile del business, e da un consigliere delegato nominato all’interno del consiglio di Lega, incaricato di organizzare il campionato e gli altri eventi sportivi della Lega di serie A. La bozza del nuovo statuto è stata spedita alle 13 piccole società alla fine di febbraio. Per adesso, nessuna risposta e non è un bel segnale. Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, non gradisce che le elezioni in Lega vadano così in là e ha chiesto formalmente ai presidenti di darsi una mossa in tempi brevissimi. Chi mira a mantenere lo status quo ha gioco facile a fare orecchie da mercante: prima lo statuto o prima il nuovo presidente? Per dirla alla Lotito, tertium datur. È il commissariamento della Lega su disposizione del binomio Coni-Figc. In segreto, per molti club sarebbe una vis grata puellis, un atto di forza che solleverebbe alcuni presidenti dall’atto di schierarsi e, dunque, di crearsi inimicizie. Del resto, il commissariamento della Lega c’è già stato nel 2009, per un breve periodo prima dell’inizio dell’era Beretta. Sarebbe una brutta figura in più ma le questioni di immagine sono sport per signorine.
Guai per Massimo Ferrero: indagato il presidente della Sampdoria. Gli inquirenti sospettano che abbia usato i conti correnti della squadra per le sue operazioni finanziarie. E per comprare casa alla fidanzata, scrive Emiliano Fittipaldi l'1 luglio 2017 su "L'Espresso". Ci sono tre verità. Quella vera, quella processuale, quella documentale, ma se le carte sono a posto, non ti fotte nessuno», diceva Massimo Ferrero nel 2011. Produttore cinematografico, presidente della Sampdoria e oggi tra i personaggi più famosi della serie A, qualche carta dovrà probabilmente mostrarla presto, perché la procura di Roma lo ha iscritto nel registro degli indagati. Non solo per alcuni reati tributari, come già era emerso a fine 2015, ma anche nell’ambito di un nuovo filone d’inchiesta che ipotizza crimini più gravi, come l’appropriazione indebita e il riciclaggio. Indagine in cui, oltre a Ferrero, sarebbero indagati a vario titolo anche altre persone a lui vicine, come la compagna Manuela Ramunni. Il sospetto degli inquirenti, tutto ancora da dimostrare, è che attraverso un giro di bonifici tra vari conti correnti (privati e delle sue società) “l’iper-presidente”, come lui stesso si è definito, abbia usato i conti correnti della Sampdoria per comprare un appartamento alla fidanzata, per rimpinguare le casse di alcune imprese del settore dello spettacolo e del cinema controllate dallo stesso Ferrero e per “spostare” mezzo milione di euro dalla Samp alla compagnia aerea Livingstone, comprata da Ferrero nel 2009 e finita in bancarotta qualche anno fa con un buco da 40 milioni di euro. Ferrero, zazzera bianca e lingua veloce, è uno che ha la pellaccia dura. «Più di sette vite», dice chi lo conosce e ammira. Quando era rinchiuso nel carcere minorile di Porta Portese guardie e compagni di riformatorio lo chiamavano, in effetti, “Er Gatto”. Il soprannome felino, però, sarà solo di passaggio. Perché oggi Ferrero è conosciuto da tutti come “Er Viperetta”. Un serpente velenoso. L’origine del nomignolo l’ha spiegata lui stesso: «Uscito dal riformatorio ero diventato aiuto segretario di produzione» scrive nella sua autobiografia, “Una vita al Massimo”. «Un pomeriggio in un teatro di posa mi ha fermato un costumista gay. Ha osato mettermi una mano al culo. L’ho insultato e gli ho dato anche una testata. Più lo menavo e più questo sembrava godere. “Bravo, sì, dai, mena, Dammene ancora! Vipera, vipera, picchiami Vipera!”, mi diceva. Ecco. Così sono diventato il Viperetta». Testaccino doc, padre tranviere e madre dietro a un bancone al mercato di piazza Vittorio, fulminato giovanissimo sulla via di Cinecittà (prima comparsa, poi autista di vip come Gianni Morandi, infine produttore di registi famosi, Tinto Brass su tutti) dice spesso «sono nato povero, ma morirò ricco». Di affari Ferrero, nei suoi primi 66 anni, ne ha fatti tanti. Su qualcuno di questi, però, la procura di Roma vuole vederci chiaro. Se un anno fa Viperetta ha avuto un avviso di garanzia per conclusione indagini in merito ad alcuni reati tributari perché due società a lui riferibili (la Globalmedia srl e Mediaport Cinema srl) tra il 2009 e il 2011 avrebbe omesso di versare all’erario alcune ritenute entro i termini previsti dalla legge per una somma complessiva poco inferiore ai 2 milioni di euro, ora i magistrati hanno aperto un nuovo filone d’inchiesta. Partito da alcune segnalazioni della Uif, l’autorità antiriciclaggio della Banca d’Italia, e da analisi finanziarie del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza. Andiamo con ordine. Le segnalazioni sono tre, e sono state trattate congiuntamente «in quanto l’operatività ivi delineata è riconducibile, a vario titolo, all’Unione Calcio Sampdoria spa, al suo presidente dottor Massimo Ferrero e ai nominativi a lui collegati», si legge in un’informativa della polizia giudiziaria. Il primo conto finito sotto i riflettori degli inquirenti è un conto privato intestato direttamente a Ferrero, sul quale può operare anche la sua segretaria Tiziana Pucci, che lavora sia per la Sampdoria sia per altre due società della galassia di Viperetta, la Eleven Finance (ex capogruppo della galassia Ferrero) e la Mediaport, il cui rappresentante legale è Giorgio Ferrero. Nipote del patron, membro del cda della Samp e, insieme alla figlia di Viperetta, Vanessa, titolare delle quote della holding che controlla tutto il gruppo del presidentissimo. La Finanza ha scoperto che in dodici mesi, dal gennaio 2014 al gennaio 2015, varie società, tutte nell’orbita di Ferrero, hanno rimpinguato il conto con bonifici per 791 mila euro. La causale spiegherebbe i pagamenti, quasi tutti compensi per l’utilizzo del logo “Massimo Ferrero Cinemas”: in pratica le società di Ferrero pagano lo stesso Ferrero affinché possano usare il suo nome e cognome come logo delle sale cinematografiche (una sessantina, le più famose sono quelle del cinema Adriano a piazza Cavour a Roma) controllate sempre da Ferrero. Nel conto gli inquirenti hanno trovato anche una decina di versamenti in contanti per 52 mila euro, più alcuni versamenti (15 mila euro in un solo giorno) effettuati con il deposito di con una trentina di banconote da 500 euro. Ferrero avrebbe dichiarato alla banca che il denaro versato veniva da un altro istituto, e che l’operazione si «era resa necessaria per l’esigenza di avere immediata disponibilità per l’effettuazione di bonifici urgenti e per l’imminente addebito della carta di credito». Se i primi sospetti della sezione riciclaggio della Finanza sono arrivati proprio per l’uso massiccio di banconote da 500 euro, gli altri dubbi sono dovuti ad alcuni assegni e bonifici che Ferrero ha effettuato a favore della sua compagna Manuela (anche lei dipendente di Mediaport e Eleven Finance): otto assegni per un totale di 350 mila euro staccati a fine 2014 a cui si aggiungono tre bonifici da 257 mila euro, con la causale “acconto prima casa”. L’informativa evidenzia come «elementi del sospetto» sarebbero «da individuarsi alla mancanza di riscontri sulla compravendita immobiliare», ma in realtà dal catasto risulta che la Ramunni abbia davvero comprato il 24 novembre 2014 un appartamento e un box auto a Firenze per 800 mila euro. Possibile che i soldi per l’acquisto dell’appartamento siano arrivati, dopo giri contabili, dalla Sampdoria, come ipotizzano i magistrati? Carte alla mano sembra che il conto di Viperetta, dal quale sono usciti i bonifici a favore della Ramunni, sia stato in realtà rimpinguato esclusivamente dai compensi arrivati dalle sue società cinematografiche. I pm, però, hanno scoperto altre operazioni finanziarie, che dimostrerebbero come i rapporti tra Sampdoria e il resto della galassia Ferrero siano strettissimi. Forse troppo. La seconda segnalazione riguarda infatti altri due bonifici, disposti dall’Unione Calcio Sampdoria spa a favore della Vici srl, la società proprietaria di alcune sale cinematografiche che “comprò” la Sampdoria dalla famiglia Garrone nel 2014 senza spendere nemmeno un euro. È il 18 giugno 2015, il totale dei bonifici è di 610 mila euro. Causale: “Lavori a Bogliasco”, la località dove si trova il centro sportivo in cui si allenano i giocatori oggi guidati da Marco Giampaolo. Ebbene, secondo la Finanza, non ci sarebbe «coerenza tra l’attività svolta con l’oggetto sociale della Vici srl, la cui attività prevalente è quella di fare “proiezioni cinematografiche”. Quello della Sampdoria è “esercizio attività sportive”. Inusuale, poi, l’ingente ammontare dell’operazione». Di più: il giorno dopo aver ricevuto il bonifico dalla Samp, la Vici srl ha emesso 10 assegni circolari per un valore di mezzo milione di euro a favore della Livingstone. La compagnia aerea finita in bancarotta a causa della quale Ferrero è finito sotto inchiesta davanti al tribunale di Busto Arsizio, patteggiando a febbraio 2016 un anno e dieci mesi di carcere. «Qui non è fallito nessuno, non c’è stato nessun crac, la Livingstone è stata messa in amministrazione controllata», chiosò il patron della Samp quando, qualche mese fa, la Figc gli comunicò che per colpa del patteggiamento era decaduto dalla carica di presidente della Sampdoria (ai fini esclusivamente sportivi). «Io resto l’iper-presidente. Un patteggiamento non è una condanna». La scoperta del cadeau della Vici srl alla Livingstone, però, rischia ora di mettere Ferrero in guai più seri: gli inquirenti sospettano infatti che ci sia stato un trasferimento illecito di capitali dalla Sampdoria alla Livingstone, e che la Vici srl abbia fatto solo da schermo. Sospetti che aumentano se si analizzano i movimenti bancari della Samp: il 17 giugno 2015, il giorno prima che la squadra finanziasse direttamente e indirettamente le altre società di Viperetta, era infatti arrivato un bonifico estero dall’importo significativo. Causale: “West Ham - Obiang”. Gli investigatori e la Uif sospettano che la provvista finita alla Livingstone possa essere stata creata anche attraverso la vendita del calciatore Pedro Obiang al West Ham, che Ferrero cedeva in quei giorni per 6,5 milioni di euro. Fossero confermate le supposizioni dei pm, i tifosi della Doria (già preoccupati per le cessioni importanti delle ultime stagioni, quest’anno rischiano di andarsene anche i campioncini Luis Muriel e Patrik Schick) non sarebbero molto contenti. Anche perché la Samp nel bilancio 2015, l’ultimo depositato alla Camera di Commercio, ha segnato un rosso di 1,4 milioni di euro. Che sarebbe stato assai più alto se gli ex proprietari della squadra, i petrolieri della famiglia Garrone, non avessero girato a Ferrero 7 milioni di euro di «indennizzi» a causa di alcune correzioni contabili al prezzo della vendita, avvenuta un anno prima. C’è infine una terza segnalazione analizzata dagli uomini della finanza. Riguarda ancora un conto dell’Unione Calcio Sampdoria spa, sul quale sono stati registrati vari bonifici «a favore di società dello spettacolo e della cinematografia». Tutte, ça va sans dire, gestite da Ferrero e dai suoi parenti: si passa da un versamento da 122 mila euro per la Vici srl, a un altro per la Comunicazione e promozione srl da 11 mila euro, fino a un terzo da 79 mila euro per la Eleven Finance. «Si sospetta» spiega la Finanza «che le operazioni possano essere riconducibili al fenomeno delle frodi nella fatturazione». «Sono nato povero e morirò ricco, non ho paura di nessuno, mando vaffanculo chiunque, anche se di cognome fa Berlusconi», spiegava in un’intervista a Malcom Pagani il mitologico Viperetta, raccontando la sua incredibile cavalcata, da ex autista di Gianni Morandi a presidente di una storica squadra ligure, passando per macellaio, fornaio, strillone, aiuto segretario e produttore di film. Di geni della pellicola come Brass e Bernardo Bertolucci. «Non ho studiato, non frequento i salotti, non ho padrini o amici importanti. Ma dico una cosa: chi ruba a Ferrero, chi prova a fregarlo, deve morire», chiariva a tutti nel 2011. In realtà qualche amico importante, almeno oggi, ce l’ha: come il presidente della Lazio Claudio Lotito, l’ex direttore della Rai Mauro Masi oggi piazzato da Matteo Renzi in Consap, l’attore Ricky Tognazzi. Anche Edoardo Garrone ha deciso di puntare su Viperetta. Il rampollo della famiglia proprietaria della Erg a giugno 2014 ha lasciato tutti di stucco quando ha annunciato di aver trovato un accordo per la vendita della squadra allo sconosciuto (almeno al grande pubblico) Ferrero. “Vendita” è una parola grossa: dopo aver perso nella Samp, come ha scritto su questo giornale Gianfrancesco Turano, 99 milioni di euro in 12 anni, i Garrone hanno di fatto regalato l’attività sportiva. Ferrero non solo non ha sganciato un euro, ma ha visto azzerati tutti i debiti con le banche (Edoardo e i suoi cugini hanno versato alle banche una sessantina di milioni, a mo’ di dote di cessione) e goduto di fideiussioni garantite (circa 35 milioni di euro) direttamente dai Garrone. Che, almeno fino al 2015, l’ultimo bilancio consolidato conosciuto, non hanno reciso il cordone ombelicale né con la Samp né con il nuovo proprietario. Anche per questo sono tre anni che tifosi e addetti ai lavori cercano di rispondere alle stesse domande: perché l’algido e aristocratico Garrone ha scelto la sua nemesi, il vulcanico Viperetta, come patron della Doria? Perché garantiscono (o hanno garantito) ancora per lui? E Ferrero ce li ha i soldi per finanziare un’avventura complicata e costosa come è la serie A, o dietro la sua zazzera bianca e le sue corse sfrenate sotto la curva si nascondono ghost buyer più attrezzati? Di gossip e retroscena, a Genova e in Liguria, ne sono stati scritti tanti. Qualcuno ha ipotizzato che dietro la “Vipera” potesse stagliarsi l’ombra di Antonio Gozzi, un imprenditore di Chiavari chiamato “il Professore” con grandi investimenti nella siderurgia e enorme passione per il calcio (dal 2007 è il presidente della Virtus Entella). Altri invece ipotizzano che la Sampdoria finirà presto o tardi nel carnet di Gabriele Volpi, un imprenditore che non ama la ribalta e che qualcuno considera tra gli uomini più ricchi d’Italia. Ex operaio meccanico ed ex giocatore di pallanuoto, Volpi ha fatto fortuna in Nigeria vendendo servizi alle multinazionali del petrolio, e oggi la sua Intels ha un giro d’affari pari a un miliardo e mezzo di dollari. Amico di Flavio Briatore, di Gianpiero Fiorani e, soprattutto, degli ex vertici politici nigeriani (come l’ex vice presidente Atiku Abubakar, che gli ha persino concesso la cittadinanza), ha comprato nel tempo prima la squadra di pallanuoto Pro Recco trasformandola in una macchina da guerra (sette scudetti consecutivi e 21 titoli finora) poi il La Spezia calcio. Ora in molti credono che punti alla Samp, di cui è da sempre tifosissimo. «Basta con lo stillicidio delle notizie spazzatura, il bilancio della Samp è in ordine e io non vendo» disse Ferrero un anno fa parlando di calunnie mandate via stampa. «Qui c’è un mandante che vuole il male della Sampdoria, solo perché Ferrero non ha santi in paradiso. Forse da’ fastidio il mio lavoro onesto, ma vengano avanti che stavolta meno forte...». Se l’inchiesta della procura di Roma procede, Viperetta va dritto per la sua strada: di recente ha pensato di mettere qualche fiches sulla Ternana, s’è beccato 20 giorni di inibizione dalla giustizia sportiva perché, dopo un gol della Samp contro la Roma, si è messo a cavalcioni su una balaustra mimando gesti osceni, ha scritto una lettera aperta agli italiani per invitarli a votare Sì al referendum dello scorso dicembre. «Sì al cambiamento, sì alla vita» spiegava «Firmato Massimo Ferrero, un italiano orgoglioso».
Chi è Massimo Ferrero, patron della Samp. Il viperetta tra calcio, cinema e crac. È la nuova star tv della serie A, grazie a interviste sopra le righe e sparate e gaffe di ogni tipo. Ma, oltre alla "maschera", ecco chi è davvero il produttore arrivato alla guida della squadra di Genova senza pagare un euro, scrive Gianfranco Turano il 3 novembre 2014 su "L'Espresso". Nel calcio si è subito trovato a suo agio. Il ritmo vertiginoso della serie A non poteva essere un problema per Massimo Ferrero, 63 anni. È una vita che il nuovo proprietario della Sampdoria fa esattamente lo stesso tipo di gioco con le sue aziende: cessioni, liquidazioni, passaggi di mano che coinvolgono familiari e amici, garanzie bancarie spostate da qui a là, niente bilanci consolidati per aumentare le possibilità di contropiede alle banche creditrici. Soldi veri ne girano pochissimi. E certo non ne sono girati nell’acquisto del club blucerchiato. I Garrone stavano per finire come il collega petroliere Massimo Moratti dell’Inter. La holding di famiglia San Quirico ha bruciato oltre 300 milioni di euro in dodici anni e mezzo di gestione segnati da scarse soddisfazioni sportive. Soltanto negli ultimi tre anni Sampdoria holding, il gradino societario intermedio fra San Quirico e l’Unione calcio Sampdoria (il club), ha messo assieme perdite aggregate per 99 milioni di euro. Il giocattolo che i petrolieri usavano come bara fiscale per abbattere le tasse ha rischiato di diventare la bara tout court del gruppo Erg ed è già da un pezzo che i Mondini, eredi della sorella di Riccardo Garrone e comproprietari della San Quirico, avevano chiesto ai cugini di uscire dal calcio. Ma ci sono voluti due anni perché Edoardo Garrone, figlio di Riccardo, riuscisse a vendere. Il verbo suona eccessivo. In serie A non si vende più. Si regala, come dimostra proprio il caso dell’Inter. E si regala con la formula del pieno per vuoto: i debiti se li accolla chi li ha fatti. In collegamento con Stadio Sprint, su Rai Due, il presidente della Sampdoria Ferrero si esprime sulle recenti dimissioni di Massimo Moratti da Presidente onorario dell'Inter: "Io penso che Moratti sia un grande uomo, ho avuto modo di conoscerlo al telefono, mi sembra ingiusto che sia stato trattato così. Io gliel'ho detto a Moratti, caccia via quel filippino..che l'ha preso a fa'..". Ferrero ce l'ha con il nuovo proprietario dell'Inter, Erik Thohir, "che è indonesiano" gli fa notare dallo studio Enrico Varriale. E a quel punto Ferrero aggiunge: "Scusa che vieni dall'Indonesia a insultare un emblema del calcio italiano... Se ero Moratti io gli avevo dato due pizzicotti sulle orecchie". Poi le scuse sul sito ufficiale della Samp: "Non volevo mancare di rispetto al signor Thohir, ai dirigenti dell'Inter e alla gente delle Filippine alla quale da sempre mi legano rapporti bellissimi"Immagini Rai Sport. Zero euro è il prezzo ideale per Viperetta, come Ferrero è soprannominato dai tempi in cui si faceva le ossa distribuendo i cestini pranzo ai divi di Cinecittà. Il produttore e gestore di sale cinematografiche ha rilevato la controllante diretta del club (Sampdoria holding), l’ha ribattezzata Sport spettacolo holding, ha mantenuto il capitale sociale lasciato dai Garrone (950 mila euro) e infine, al posto della San Quirico, ha piazzato la sua personale e nuovissima Holding Max, che controlla la Sport spettacolo holding con mille euro di capitale sociale interamente versato. Come omaggio dai Garrone-Mondini, Viperetta si è tenuto la sede della Samp in piazza Borgo Pila, che sono sempre trenta vani in centro a Genova. I 37 milioni di euro di debito netto del club sono largamente coperti dagli asset immobiliari e dai versamenti in conto capitale fatti dai Garrone-Mondini prima di abbandonare la barca blucerchiata. Se l’operazione è brillante sotto il profilo del business, forse nemmeno Ferrero poteva prevedere il boom di popolarità del personaggio Viperetta. Nei pochi mesi dall’acquisto, annunciato a grande sorpresa a giugno mentre iniziava il Mondiale brasiliano, il neopresidente della Samp è diventato il volto nuovo dei post-partita televisivi, consacrato dall’imitazione di un ex giocatore delle giovanili sampdoriane, Maurizio Crozza. L’ultima delle sue gaffe è diventata un caso, con tanto di indagine della procura sportiva. Parlando del neo proprietario dell’Inter, l’indonesiano Erick Thohir, ha sparato: «Io penso che Moratti sia un grande uomo mi sembra ingiusto che sia stato trattato così. Io gliel’ho detto a Moratti, caccia via quel filippino...». Ma come sempre quando i risultati sono buoni, i tifosi hanno accolto con entusiasmo il presidente che dalla tribuna esibisce il gesto scaramantico delle doppie corna e che, in caso di vittoria, si abbandona a galoppate sul prato di Marassi drappeggiato di sciarpe con i colori sociali. Poco importa se, proprio nei giorni in cui rilevava la squadra genovese, Ferrero patteggiava un anno e dieci mesi per il crac della compagnia aerea Livingston, una delle sue avventure meno fortunate. La condanna non ha impressionato nessuno in Federcalcio. I requisiti di onorabilità, obbligatori per rilevare un club inglese, in Italia non hanno cittadinanza. Al contrario, il palcoscenico della serie A rimane un passaporto diplomatico tra i più efficaci per i presidenti con qualche pendenza giudiziaria. Per restare a Genova, il rivale diretto Enrico Preziosi è in appello contro una sentenza di diciotto mesi per mancato versamento dell’Iva con il Genoa, senza contare i problemi con il calcioscommesse, la retrocessione per illecito sportivo con condanna penale definitiva e il Daspo (divieto di entrare allo stadio) subito nel 2012. È un derby infuocato a Marassi, nel senso dello stadio, e il nuovo arrivato ha già avuto modo di scontrarsi con il fondatore della Giochi Preziosi. È accaduto prima in Lega calcio, la rissosa confindustria del pallone, e poi in campo. La prima stracittadina, giocata lo scorso 29 settembre, se l’è aggiudicata Viperetta 1-0. Non serviva di meglio per diventare l’idolo della torcida doriana e trasformare la comparsata di Ferrero nel film Ultrà (1991) in un segno del destino. Eppure il folklore delle stornellate in diretta Sky a Ilaria D’Amico nasconde una vicenda imprenditoriale vissuta costantemente in zona retrocessione. Ferrero non entra nel calcio da sprovveduto e lo ha dimostrato già nel suo primo mercato, concluso con un saldo positivo di 4,6 milioni di euro fra cessioni e acquisti di giocatori. A questa plusvalenza vanno aggiunti i diritti televisivi. Il recente rinnovo dell’asta sulla serie A ha registrato l’ennesimo rialzo del jackpot a quota 1,15 miliardi di euro complessivi. Gli incassi delle tv sono ossigeno puro per il produttore romano, in costante ricerca di liquidità. La panoramica sulle società in mano a Ferrero, ai figli Giorgio e Vanessa e alla moglie Laura Sini, non induce all’ottimismo. Ma Viperetta si muove con rapidità degna del suo soprannome. L’operazione più importante condotta dopo l’acquisto della Samp ha riguardato la vecchia capogruppo dei Ferrero, Eleven finance, messa sotto il controllo della Sport spettacolo holding (Ssh). In questo modo, gli incassi da diritti tv della Sampdoria, pure controllata dalla Ssh, potranno sostenere le sale cinematografiche in difficoltà. I cinema rilevati da Ferrero hanno il pregio di produrre cassa come un casello autostradale, ma il mercato tende alla concentrazione e non tutte le multisale hanno il successo dell’Adriano in piazza Cavour a Roma. Il multiplex padovano di Due Carrare, per esempio, è fra quelli che hanno deluso le attese. A fine settembre Mediaport cinema, controllata da Eleven finance, ha esaurito le riserve e quasi tutto il capitale sociale per ripianare una perdita di 2,2 milioni. Quello che convince le banche a credere in Viperetta è l’aspetto immobiliare. Se un cinema non rende, si può sempre vendere e trasformare. È il caso del Volturno di Roma. Appena Ferrero ha concluso l’acquisto delle 15 sale appartenute a Vittorio Cecchi Gori, il 30 settembre del 2013, il Volturno abbandonato e occupato da sette anni è stato venduto alla famiglia napoletana Orofino (farmaceutica) che ha ottenuto lo sgombero dei collettivi. Ma l’affare vero è il megasconto ottenuto, dopo una trattativa durata tre anni, dai liquidatori del gruppo Cecchi Gori. Ferrero non ha mai voluto accettare il prezzo di 59,5 milioni di euro fissato per i cinema adducendo uno stato di gestione disastroso delle sale, soprattutto per il costo del lavoro. Alla fine, un anno fa Ferrero ha chiuso l’accordo transattivo con 25 milioni. Poi ha creato una nuova società, la Vici, che ha assunto la proprietà dei cinema Adriano e Atlantic, ha ottenuto 25 milioni di finanziamento e ha girato le sale in affitto a un’altra società di famiglia, la Ferrero cinemas, che è stata messa in liquidazione per le perdite alla fine di luglio del 2014. Sul fronte produzione, la stessa fine ha fatto la Blu cinematografica mentre la Ellemme group ha chiuso i battenti a fine 2013 con un sequestro giudiziario seguito alla lite con l’imprenditore napoletano Gianni Lettieri. Per insistere sulla linea del rigore e salvare il gruppo, Ferrero ha anche assunto Giovanni Stella da Orvieto, tagliatore di teste rinomato. Maschere del cinema e idoli degli stadi sono avvertiti. Fra “er Canaro” e Viperetta sarà dura rinegoziare ingaggi.
Football Leaks, chi sono gli oligarchi che controllano il calcio. Amici di Erdogan. In affari con Trump. Ecco gli Arif, padroni di Doyen, burattinai del calcio. I due fratelli kazaki erano burocrati dell’Urss. Ora sono potenti e miliardari, scrivono Vittorio Malagutti e Stefano Vergine il 21 dicembre 2016 su "L'Espresso". Hanno comprato decine di giocatori. Sono diventati proprietari occulti di intere squadre. Hanno sconvolto in una manciata d’anni un mondo che sembrava impermeabile a ogni mutamento esterno. Sono i nuovi burattinai del pallone. Eppure, fino a oggi, son riusciti a rimanere nell’ombra. D’altra parte l’imbarazzo sarebbe stato enorme se qualcuno avesse scoperto che c’erano loro dietro Doyen, il colosso del management sportivo. Per loro stessi, innanzitutto, terrorizzati dall’idea di poter perdere ogni proprietà. Ma anche per chi li ha appoggiati, per chi ci ha fatto affari insieme. Personaggi eccellenti. Dal presidente kazako Nursultan Nazarbaev all’omologo turco Recep Tayyip Erdogan. Fino al nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Dopo sette mesi d’inchiesta giornalistica, l’Espresso e le altre testate del network EIC sono in grado di rivelare con certezza chi si nasconde dietro Doyen. Si chiamano Arif, sono quattro fratelli kazaki. Oligarchi. Gente che ha fame di soldi e non si accontenta. No, controllare la ACCP, una delle più grandi fabbriche chimiche al mondo, non bastava. Il Kazakistan stava stretto agli Arif, in particolare a Tevfik e Refik, i fratelli più attivi della famiglia. Per loro non era sufficiente nemmeno essere tra i più grandi imprenditori della Turchia. Gli Arif volevano di più. Ed ecco allora l’idea: il calcio. Già, chi l’ha detto infatti che con il pallone non si guadagna? Certo, bisogna creare società offshore, assoldare agenti e giocatori, influenzare presidenti e manager delle più famose squadre. Gli Arif hanno fatto tutto quanto necessario per raggiungere il successo. Hanno investito, fra il 2011 e il 2015, la bellezza di 72 milioni di euro. Affidato ad Arif, il giovane figlio di Tevfik, il compito di gestire gli affari. E scelto un frontman come Nelio Lucas, portoghese, agente di calciatori giovane, ambizioso e poliglotta. L’unico volto noto di Doyen, finora. La società si presenta come un’agenzia di rappresentanza per sportivi. Nel ricco book di atleti ci sono stelle come Usain Bolt e David Beckham, Neymar e Boris Becker. Ma anche calciatori legati alla serie A, dall’ex juventino Alvaro Morata all’interista Marcelo Brozovic. Doyen dice di gestire i loro diritti d’immagine. I documenti di Football Leaks dimostrano però che, almeno fino all’anno scorso, il business della società è stata la compravendita dei diritti economici dei giocatori. Tra quelli targati Doyen, oltre al francese Geoffrey Kondogbia, troviamo il laziale Felipe Anderson, l’interista Gabigol e Radamel Falcao del Monaco. E poi le squadre che hanno ricevuto prestiti in cambio di una percentuale sui cartellini dei giocatori: Atletico Madrid, Getafe, Sporting Gijon, Siviglia, Santos, Porto. D’altra parte Doyen può vantare contatti di prim’ordine. Anche in Italia, dove la società ha più volte incrociato la strada del Milan, per esempio durante il negoziato per la vendita (sfumata) della squadra rossonera all’imprenditore thailandese Bee Taechaubol. Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan, ha dichiarato a l’Espresso, tramite il suo avvocato, che «non ha nessun rapporto con il gruppo Doyen». Dalle carte di Football Leaks emerge però un particolare che collega direttamente il gruppo degli Arif alla famiglia Galliani. A partire dall’ottobre del 2013, Micol Galliani, figlia dello storico collaboratore di Silvio Berlusconi, ha lavorato come consulente per Doyen Sports. Documenti interni a Doyen che l’Espresso ha potuto visionare mostrano che la primogenita di Galliani è stata in contatto costante con top manager del gruppo, come Matthew Kay e Simon Oliveira, e ha seguito alcuni dossier per conto di Doyen, come le relazioni con Panini (l’azienda delle figurine) e un progetto immobiliare a Beverly Hills. L’avvocato di Galliani ha dichiarato a l’Espresso, che Micol Galliani «non ha mai avuto rapporti contrattuali o di collaborazione con Doyen». Le carte di Football Leaks confermano inoltre che già nel 2013 a Galliani furono presentate da Doyen operazioni di mercato, tra cui una con al centro Adem Ljajic, allora alla Fiorentina. Inoltre Galliani e la figlia compaiono nell’elenco degli oltre 200 invitati alla cena di compleanno di Lucas del gennaio 2014 a Londra. Per capire come hanno fatto degli anonimi fratelli kazaki a diventare i protagonisti del calcio europeo, bisogna tornare ai tempi del collasso dell’Urss. Tevfik e Refik Arif lavorano nell’amministrazione sovietica. Burocrati trasformatisi improvvisamente in imprenditori. A metà degli Novanta la famiglia Arif si ritrova a capo della ACCP, una delle più grandi fabbriche chimiche al mondo per la lavorazione del cromo. I file di Football Leaks, ottenuti dal settimanale tedesco Der Spiegel e condivisi con le altre testate del network EIC, non dicono com’è stato possibile. Di certo la ACCP non avrebbe potuto trasformarsi nella macchina da soldi attuale (profitti per 386 milioni di dollari solo fra il 2004 e il 2014) se non avesse trovato la collaborazione della ENRC, colosso minerario controllato da Alexander Mashkevitch, Alijan Ibragimov e Patokh Chodiev. È il cosiddetto “Trio Kazako”: miliardari già coinvolti in casi di corruzione internazionale, considerati vicinissimi all’uomo forte del Kazakistan, Nazarbaev. Sfruttando i profitti della chimica gli Arif spiccano il volo. Tevfik è il primo a lasciare l’Asia Centrale, destinazione Turchia. Il grande salto arriva però nei primi anni 2000, quando emigra negli Usa per fondare Bayrock, società che insieme al tycoon Donald Trump realizza hotel e appartamenti a New York. Le cose non filano lisce. Alcuni investitori sostengono di essere stati ingannati e denunciano i costruttori. Il direttore finanziario di Bayrock, in una testimonianza scritta, sostiene che l’azienda ha investito soldi della mafia russa. Le denunce non hanno portato a condanne, anche se gli Arif hanno preferito ritirarsi dal mercato immobiliare Usa. Pochi anni dopo, nel 2010, un altro scandalo. Sul Savarona, lo yacht un tempo appartenuto al fondatore della Turchia laica, Kemal Atatürk, la polizia turca scopre un giro di prostituzione gestito proprio da Tevfik. Ragazze dell’Est Europa destinate a parecchi uomini, fra cui Mashkevitch, Ibragimov e Chodiev. Dal processo gli Arif escono indenni, ma la vicenda porta a galla i loro legami più importanti. Quelli con Erdogan, allora premier turco. E con il “Trio Kazako”, appunto. È allora che Tevfik e fratelli decidono di entrare segretamente nel calcio. Per i cinque anni successivi gli affari vanno a gonfie vele.Merito dei Tpo , i meccanismi che permettono a società e fondi d’investimento di comprare quote di calciatori. Gli Arif macinano profitti e li trasferiscono in società offshore tra Malta, Emirati Arabi e British Virgin Islands. Il gioco, però, si interrompe presto. All’inizio del 2015 la Fifa vieta i Tpo definendoli «una forma moderna di schiavitù». Sembrerebbe la fine degli Arif. Sebbene l’acquisto diretto di quote di calciatori sia oggi illegale, la Fifa continua però a permettere a società e fondi di investire nelle squadre. Si chiamano Tpi (Third-party investments) e la sostanza non cambia: il club garantisce la restituzione del prestito con la vendita di alcuni suoi giocatori. I documenti di Football Leaks mostrano che a novembre 2015 Doyen ha compilato una bozza di contratto con il club spagnolo del Cadice. La proposta? Un prestito da 1,5 milioni di euro in cambio del 20 per cento di tutti i giocatori della squadra. Chissà com’è andata a finire.
SOLDI E COMPLOTTI NELLO SPORT.
Gli “affarucci” della lobby milanese del calcio, scrive il 18 maggio 2017 "Il Corriere del giorno". “Stop soldi alla Juve”: così la lobby del calcio proteggeva i “suoi” uomini. A svelare tutti gli altarini dietro gli affari che si concludono le quinte del calcio italiano è stato il quotidiano online Business Insider Italia. L’ordine impartito dalla Lega calcio era chiaro: dobbiamo salvare ad ogni costo il sodale Riccardo Silva nonostante “ha pisciato fuori dal vaso” come dice Giuseppe Ciocchetti l’ex direttore generale di Infront intercettato dalle Fiamme Gialle di Milano. Ma dalle indagini delegate dalla Procura di Milano alla Guardia di Finanza sulla “cupola” dei diritti televisivi del calcio vengono alla luce altri particolari imbarazzanti come quello riguardante la cessione dei diritti tv per i siti di scommesse online: un prodotto che la Serie A non aveva commercializzato, ma che Riccardo Silva con il benestare di Infront l’advisor della Lega Calcio aveva ceduto a terzi, senza alcuna autorizzazione , operazione che dimostra la massimizzazione del ritorno per le squadre italiane non è mai stato in realtà il vero scopo dei consulenti televisivi delle squadre di calcio della Serie A italiana. Nell’ambiente Silva è anche noto per delle lussuose feste a suon di modelle (ha un’agenzia) e champagne sul mega-yacht da 70 metri, il cui valore si aggirerebbe tra i 20 e i 30 milioni. La barca è nota perché usata come piattaforma di Pr alla fiera Sportel di Montecarlo. In ogni caso l’imprenditore 45enne, ex manager di Milan Channel (gestita da una società di Marco Bogarelli) e peraltro legato per parte di madre alla famiglia che possedeva la Fabbri Editori, è evidentemente molto capace nella vendita ma i guadagni che arrivano nella cassa della Lega appaiono ridotti e sui bilanci delle società di calcio gli introiti da diritti “audiovisivi” pesano, in media, per il 65%. Per Infront e Silva, da quanto è emerso dalle indagini era fondamentale incassare il più possibile, fregandosene di rispettare le regole del gioco. Antonio D’Addio l’avvocato di Infront, sosteneva nelle intercettazioni che “I soldi alla Lega sono sprecati” e che darli alla Juventus sarebbe stato ancora peggio, quindi meglio “spenderli con Infront” società che teoricamente dovrebbe aiutare le società calcistiche della serie A ad incassare e guadagnare di più. Quando all’inizio del 2015 la Juventus chiese chiarimenti sulla vendita conclusa da Riccardo Silva di un diritto sul quale in realtà non aveva alcun titolo, l’ordine impartito dalla “cupola” attraverso Bruno Ghirardi, avvocato della Lega di Serie A, non lascia spazio ad alcun equivoco: “Se Riccardo ha fatto così bisogna coprirlo” dice a Ciocchetti l’ex direttore generale di Infront. Silva, infatti grazie alla liquidità accumulata all’estero, oltre ad avere aperto persino delle agenzie di modelle, manteneva l’equilibrio economico finanziario di diverse squadre che gravitavano intorno ad Infront garantendo quando necessario iniezioni di capitale con la sua “cassa” per coprire le perdite dei bilanci disastrati, come nel caso più eclatante del Genoa di Enrico Preziosi. Era quindi fondamentale la difesa del sodale Silva per non far danneggiare la lobby di potere sugli incassi dei diritti per le scommesse che gravitava intorno all’accoppiata Galliani-Bogarelli.Infatti Ghirardi scrive a Ciocchetti: “temo che la Juve abbia ragione se mi chiami concordiamo come gestirla perché ci vuole molta testa”.
Silva respinge ogni accusa tramite il suo avvocato Sergio Spagnolo, ritenendole insussistenti e confidando in una rapida richiesta di archiviazione dell’indagine a suo carico. Ipotesi questa che secondo gli investigatori delle Fiamme Gialle sulla base delle evidenze documentali appare pressochè inverosimile. L’ex ad del Milan Adriano Galliani, avrebbe fatto parte col presidente del Genoa Enrico Preziosi e altre persone secondo la Procura di Milano, di “un’associazione a delinquere in grado di interporsi fin dal 2009 tra il mercato e le squadre di calcio, cui spettano” i profitti della “commercializzazione” dei diritti tv in Italia e all’estero, “per appropriarsi di una fetta consistente di questi”. Il coinvolgimento di Galliani, che al momento non risulta indagato, emerge dalla richiesta d’arresto della procura milanese per 2 ex manager di Infront, che è stata disattesa dal gip. “Vi è una sfera di interessi finanziari nascosti comune agli interlocutori”, ovvero l’ex manager di Infront Marco Bogarelli, l’ex ad del Milan Adriano Galliani e il presidente del Genoa Enrico Preziosi, intorno alla trattativa per la tentata vendita del 49 per cento del Milan all’imprenditore thailandese Bee Taechaubol (meglio noto come MrBee, ndr). E’ quanto si legge nella richiesta d’arresto, respinta dal gip, della Procura di Milano nei confronti dello stesso Bogarelli e di altre due ex manager di Infront. In una intercettazione del luglio 2015, Preziosi chiede a Bogarelli: “Ma è vero che siamo dentro anche noi con il Milan?”. Bogarelli: “Non ho capito, Scusami?”. La replica del presidente del Genoa: “Quello che vuole comprare il Milan, e… c’è anche Infront dentro?”. E Bogarelli: “No, no… no, zero, zero (…) Non c’è”. In un’altra telefonata, Bogarelli chiama Adriano Galliani e l’ex numero uno rossonero gli dice: “Senti stasera parlavo con Marina (Berlusconi n.d.r.) va beh, poi ti racconterò… adesso vediamo, vediamo che cosa succede con Mr Bee, poi ragioniamo sulle cose nostre insomma… poi ne parliamo. Va bene”. E Bogarelli conclude la telefonata: “Va bene, a tua disposizione. Ciao”. Le intercettazioni su Galliani: “Agnelli imbecille” non usa molti giri di parole Adriano Galliani l’ex ad del Milan parlando con Marco Bogarelli l’ex manager di Infront per descrivere il comportamento del presidente della Juventus Andrea Agnelli, che hanno bollato con epiteti poco cortesi. Infatti da una intercettazione del 13 marzo 2015, riportata nella richiesta di arresto – poi respinta dal gip – della Procura di Milano nei confronti dello stesso Bogarelli e di altre due persone, il primo riferendosi al numero uno della squadra bianconera dice: “(…) Oltre ad essere un imbecille, per altro è…cioè non è che è un genio…non lo so, poi va in Germania a sputtanare la Lega….io adesso gli scrivo, basta, non si può avere, tutti che sputano sul calcio italiano, come si va a vendere…?”. E Galliani: “Eh, sì (…) io, voglio dire, io ho dichiarato… qualcuno se mi chiede mi richiamo a quello che avevo detto quando hanno fatto quell’attacco famoso… l’arroganza è cosa della Juventus che ad essa non sa sfuggire… commento che io ho fatto, voglio dire, loro bisogna darli… perché il signor Agnelli prende 100 milioni dalla Lega Calcio”. Poco più avanti Bogarelli afferma: “dai un’accelerata”. Dall’ altra parte l’ex amministratore delegato rossonero: “solo sarà bene che risponda qualcun altro perché io, voglio dire, io la botta gliela do, io voglio star concentrato, la botta sarà nella ripartizione dei diritti televisivi, lì gli darò la botta… adesso chiamo Enrico che dice sempre che bisogna parlare con Agnelli”. E ancora Galliani: “adesso faccio un po’ di casino”. Bogarelli: “eh, bravo”. Galliani: “fai un po’ di casino anche tu”. “Agnelli signorino” – “Allora – dice Galliani l’ex ad del Milan intercettato al telefono con Bogarelli nel marzo 2015 – stasera Preziosi (il presidente del Genoa, ndr) va alla cosa della Gazzetta e attaccherà Agnelli”. Bogarelli risponde: “ah bravo…». E ancora Galliani: “Presidente della Lega dovrebbe fare una intervista in cui lo, lo coso… e via, la deve smettere questo signorino eh (…). Continua a sputare sul calcio italiano…. (…) e vive di quello”. Bogarelli: “Esatto”. Più avanti, nella conversazione intercettata dalla Guardia di Finanza, parla sempre Galliani: “(…) Comunque adesso bisogna dargli addosso a questo signore”. Poi più avanti, Bogarelli: “Ma a parte che è impazzito, penso che sia proprio fuori di testa”. E infine ancora l’ex numero uno del Milan: “Eh sì, sì, sì, sì, sì”. Galliani il “tranquillo” – “Sono caduto dalle nuvole, quando ho visto la notizia ho sentito il mio avvocato, Niccolò Ghedini. Mi ha confermato che non sono indagato e mi ha detto di stare sereno e tranquillo”. Così l’ex ad del Milan, Adriano Galliani, interpellato dall’ANSA, ha commentato la ricostruzione dei magistrati di Milano: “Le intercettazioni? Ero vicepresidente di Lega, era normale che parlassi con l’advisor” (cioè Infront n.d.r.). Il problema era scoppia dopo l’inizio del campionato 2014-2015, allorquando la Juventus aveva iniziato a protestare e contestare l’operato di Infront e Silva, avendo scoperto che una serie di siti per le scommesse online utilizzavano i diritti della Serie A su internet senza averne il diritto. Le immagini del campionato italiano venivano acquisite e distribuito attraverso la società inglese Perform che aveva acquistato a sua volta da Silva i diritti che lui ha comprato dalla Lega. L’accordo tra Silva e Perform è relativo al triennio 2012-2015 e lo stesso Silva parla al telefono con Ciocchetti l’ex direttore generale di Infront, ammette che “la Serie A in teoria non ci sarebbe, ma non c’era scritto che è esclusa”. In poche parole Riccardo Silva vendeva all’estero anche diritti di cui non era titolare come se lo fosse: “In questi tre anni – dice – quando ci sono stati un paio di episodi del genere praticamente avevo sospeso per un mesetto, poi si erano placate le acque e avevo ripreso. E su questo Perform e i suoi clienti sono tranquilli”. Circostanza questa che lascia dedurre agli investigatori che tutti i partecipanti alla vendita dei diritti calcistici, fossero assolutamente consapevoli di operare su un sentiero ai limiti della legittimità e quindi dell’illegalità. Per difendere l’intero sistema di potere creatosi all’interno della Lega pilotato da Galliani e partners, era quindi fondamentale concordare ed organizzare la difesa di Riccardo Silva che vorrebbe presentarsi al comitato diritti tv del 24 marzo 2015 dicendo che “probabilmente ci sono stati forse dei test e dentro potrebbe essere finita qualche immagine della Serie A”, aspettandosi che la stessa Lega successivamente decidesse di autorizzarne la commercializzazione di quegli stessi diritti. Circostanza che poi avviene con il bando di gara 2015-2018 per l’estero.
Lo stesso Silva dice al telefono: “Tra qualche mesi ce li avrò”. Ma l ’avvocato della Lega è di parere diverso ed insiste sul fatto che Silva abbia venduto qualcosa che non aveva, e quindi per giustificare tutte queste operazioni illegittime dovrà dire che “non ha venduto niente” facendo ricadere le responsabilità su Perform aggiungendo furbescamente che “quando la Lega me l’ha detto, io sono immediatamente intervenuto”. Intercettazioni da cui emerge la circostanza che il legale della Lega che avrebbe dovuto garantire l’interesse delle società di Serie A, in realtà mostra più interesse e preoccupazione nel proteggere l’operato di Riccardo Silva che gli interessi dei suoi clienti. Persino Antonio D’Addio avvocato di Infront, è consapevole che sarà difficile difendere l’indifendibile ed avere “una linea comune intelligente” dice intercettato, in quanto “conoscendo la vera verità faccio anche più fatica”. Marco Bogarelli grazie al controllo che esercitava sulla Lega attraverso Adriano Galliani, riesce a salvare il “sodale” Riccardo Silva e fu proprio Bogarelli ad istruirlo su quale linea dovrà basarsi la sua difesa: “Può darsi che qualche test sia stato fatto, ma è anche quello che mi ha permesso di fare un’offerta da 200 milioni”. Un anno dopo l’assegnazione dei diritti tv del novembre del 2015, quando venne volutamente favorita Mediaset ai danni di Sky vennero messi a trattativa “privata” i diritti per le trasmissioni per i siti di scommesse online in Italia: e tra gli aggiudicatari vi fu proprio la Perform che adesso li distribuisce anche su tutto il territorio italiano. A danno delle televisioni e dei loro abbonati. Estromettere “dai processi decisionali” Infront, la società advisor della Lega calcio e che era diventata un “soggetto non più gradito”: sarebbe stato questo il nuovo piano dei vari personaggi al centro delle indagini su una presunta associazione per delinquere per la commercializzazione dei diritti tv del calcio. È quanto emerge da un’informativa, datata 7 febbraio scorso, del Nucleo di polizia tributaria della Gdf contenuta nei 12 faldoni depositati al Tribunale del Riesame di Milano dai pm di Milano Roberto Pellicano, Giovanni Polizzi e Paolo Filippini per chiedere l’arresto, rigettato dal gip, di Marco Bogarelli e Giuseppe Ciocchetti, ex presidente ed ex dg di Infront (si sono dimessi il 28 novembre scorso), e di Riccardo Silva, fondatore della MP & Silva. Il “mutamento di scenario” sarebbe avvenuto proprio dopo che i due manager erano usciti da Infront e si stavano riorganizzando “con la creazione di una nuova società, con uffici a Londra e a Milano, operante nel settore dell’acquisizione e vendita dei diritti”. In una telefonata intercettata dello scorso 6 dicembre, Galliani, anche ex vicepresidente della Lega calcio, parlando con Claudio Lotito, presidente della Lazio e consigliere della Lega, diceva: “Noi siamo totalmente nelle mani di Infront, noi dobbiamo prendere l’interfaccia della Lega, dobbiamo prenderla”. Secondo la Gdf, l’ex ad del Milan puntava ad “individuare un top manager, di esperienza internazionale e da remunerare adeguatamente, da inserire nell’organigramma” della Lega calcio, “quale direttore commerciale”. A questa figura avrebbe dovuto essere “affidata la gestione della commercializzazione dei diritti”. In quella che i finanzieri chiamano la “fase 1 delle indagini”, ossia quando Bogarelli e Ciocchetti erano ancora in Infront, non erano mai state intercettate “esternazioni di questo tipo da parte di Galliani”, formalmente non ancora indagato. Sempre il 6 dicembre, invece, Galliani parlando con Bogarelli, che avrebbe continuato ad essere il “perno fondamentale, ancorché occulto, del ‘sistema calciò”, gli diceva: “Dobbiamo avere una direzione commerciale che non abbiamo. Non possiamo lasciare le cose nelle, nelle mani solo di un advisor”. Questo “cambiamento di strategia”, si legge nell’informativa dei finanzieri, “caldeggiato da Galliani e avallato da Lotito (ed anche da Bogarelli)” necessitava “ovviamente del supporto dell’assemblea” di Lega. Un aspetto di cui si sarebbe fatto «carico» il presidente della Lazio che ne avrebbe parlato anche con quello del Genoa Enrico Preziosi (indagato nell’inchiesta come Lotito). Negli atti vengono, dunque, riportate una serie di telefonate in cui Lotito, tra dicembre e gennaio scorso, avrebbe cercato di portare avanti “un’opera di raccolta di adesioni al progetto” contattando il presidente del Torino Urbano Cairo, l’Ad del Sassuolo Giovanni Carnevali, Gino Pozzo, figlio del presidente dell’Udinese, l’Ad della Roma Umberto Maria Gandini, Marco Fassone, poi diventato Ad del Milan, il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, al momento tutti estranei all’inchiesta.
IL CALCIO FALLITO.
Calcio italiano, la lunga lista delle società fallite. Bari e Cesena sono solo gli ultimi due club cancellati dal calcio professionistico: negli ultimi 15 anni i fallimenti sono stati oltre 150, scrive Matteo Politanò il 17 luglio 2018 su "Panorama". Mentre la Juventus accoglie Cristiano Ronaldo e il suo contratto faraonico, il calcio italiano saluta due storici club, falliti e cancellati insieme alla loro storia. La Fc Bari 1908 non si è iscritta al campionato di serie B e ha dato l'addio al calcio professionistico dopo 110 anni di storia, il Cesena è invece fallito dopo 78 anni a causa di un debito economico enorme, 73 milioni di euro dei quali circa 40 con l'Erario. Due vittime illustri che allungano la lista delle società di calcio italiane fallite, un numero sempre in crescita che negli ultimi 15 anni ha fatto contare oltre 150 società scomparse nel nulla. Il primo crack eccellente fu quello della Fiorentina nella stagione 2002/2003, l'anno dopo toccò invece al Napoli che ripartì dalla C1 con il nome di Napoli Soccer. Nella lista ci sono anche record negativi come quello del Gela, società fallita ben tre volte negli ultimi 15 anni.
Le società di calcio fallite dal 2002 ad oggi:
Stagione 2002/2003: Fiorentina, Lecco, Fasano, Sant'Anastasia, Forlì;
Stagione 2003/2004: Mestre, Alessandria, Alzano, Pordenone, Poggibonsi, Gladiator, Thiene, Cosenza e Gela;
Stagione 2004/2005: Napoli, Ancona, Viterbese, Brindisi, Isernia, L'Aquila, Meda, Palmese, Paternò, Pro Vercelli, Potenza, Imolese;
Stagione 2005/2006: Benevento, Como, Cosenza, Andria, Imolese, Perugia, Reggiana, Rosetana, Salernitana, Sora, SPAL, Torino, Venezia, Vis Pesaro;
Stagione 2006/2007: Catanzaro, Sassari Torres, Gela, Acireale, Chieti, Fermana, Gualdo, Monopoli;
Stagione 2008/2009: Castelnuovo, Spezia, Massese, Lucchese, Torres, Nuorese, Teramo, Martina, Messina, Alghero;
Stagione 2009/2010: Avellino, Pisa, Treviso, Venezia, Biellese, Ivrea, Pistoiese, Sambenedettese;
Stagione 2010/2011: Ancona, Arezzo, Figline, Gallipoli, Mantova, Perugia, Real Marcianise, Rimini, Alghero, Cassino, Igiea Virtus, Itala San Marco, Legnano, Manfredonia, Monopoli, Olbia, Pescina, Potenza, Pro Vasto, Pro Vercelli, Sangiustese, Scafatese, Colligiana, Pro Sesto, Matera, Sanremese;
Stagione 2011/2012: Atletico Roma, Brindisi, Canavese, Cavese, Cosenza, Crociati Noceto, Gela, Lucchese, Matera, Ravenna, Rodengo, Salernitana, Sangiovannese, Sanremese, Potenza, Villacidrese;
Stagione 2012/2013: Foggia, Giulianova, Pergocrema, Piacenza, Siracusa, SPAL, Taranto, Triestina, Montichiari;
Stagione 2013/2014: Tritium, Treviso, Portogruaro, Campobasso, Sambenedettese, Andria, Borgo a Bruggiano, Casale, Milazzo;
Stagione 2014/2015: Padova, Siena, Viareggio;
Stagione 2015/2016: Barletta, Grosseto, Monza, Parma, Real Vicenza, Reggina, Varese, Venezia;
Stagione 2016/2017: Martina Franca, Pavia, Rimini;
Stagione 2017/2018: Como, Latina, Mantova, Maceratese, Messina, Modena, Vicenza;
Stagione 2018/2019: Cesena, Bari, Mestre, Lucchese, Reggiana, Juve Stabia, Fidelis Andria, Trapani.
PARMA CALCIO: UN BEL RICORDO.
Addio Parma, buona fortuna, scrive Andrea Rosati su “Vavel”. Con il fallimento alle porte, Parma si avvia a lasciare il calcio che conta, in attesa di una nuova ricostruzione, di un nuovo inizio, sulle orme del passato. Il Parma calcio è arrivato ai titoli di coda, ormai il destino dei ducali sembra segnato e il fallimento resta l’ipotesi più plausibile. Che tristezza, verrebbe da dire. Peccato che la tristezza in questa vicenda c’entri poco; ad emergere è soprattutto la rabbia per il modo in cui questa società è stata fatta passare di mano tre volte in meno di un mese; ad emergere è il rimpianto di aver visto crescere un Club che per anni ha rappresentato quanto di meglio il calcio globale potesse offrire ed assistere ora alla spartizione della carcassa da parte di avvoltoi e sciacalli; ad emergere è il disgusto per il disinteresse totale di una federazione che da tempo sapeva ma ha sperato di poter nascondere la sporcizia sotto l’ennesimo tappeto. Il Parma calcio meriterebbe molto meglio di quanto stia succedendo; so che molti obbietteranno circa queste parole, citando giustamente il primo pseudo fallimento del Parma e lo scandalo che ha investito la famiglia Tanzi. Vero, è tutto sacrosanto e il Parma avrebbe dovuto ricominciare da zero all’epoca, salvato invece in maniera non limpida e poi mantenuto in vita da una dirigenza esterna che – col senno di poi – è stata probabilmente la migliore avuta dal Club negli ultimi anni. Il Parma calcio però ha fatto molto sia prima delle manie di grandeur di Calisto e Stefano Tanzi che dopo il disastro, mettendo in piedi due realtà molto simili ed entrambe estremamente affascinanti. Vi invito a lasciare momentaneamente da parte il crac Parmalat e leggere queste poche righe, scritte di getto per raccontarvi l’altra storia del Parma calcio. Non voglio tornare indietro ai tempi di Massimo Barbuti, nè far riaffiorare Arrigo Sacchi allenatore debuttante o Carlo Ancelotti in versione giovane calciatore, più semplicemente raccontarvi gli esordi di questo piccolo Club sulla ribalta della Serie A. Un clamoroso quinto posto finale al termine della prima stagione in Serie A ha fatto drizzare le orecchie a qualche osservatore neutrale, dalla vittoria della Coppa Italia la stagione seguente a quella della Coppa delle Coppe nel 1993, con tanto di terzo posto finale in campionato e alla nuova finale di Coppa delle Coppe dell’anno successivo – persa contro l’Arsenal – tutti si sono accorti del Parma. L’apoteosi della vittoria in coppa UEFA contro la Juventus ha messo il punto esclamativo su questa realtà. Eppure, quella squadra si allenava ancora in uno dei tanti parchi del centro città, in mezzo alla gente comune; eppure quei giocatori passeggiavano per il centro con famiglia e non rifiutavano mai di fermarsi a fare quattro chiacchiere con questo o quel tifoso. La simbiosi con la città è sempre stata impressionante, probabilmente inconcepibile per un qualsiasi tifoso esterno; all’inizio degli anni ’90, il Parma calcio era sicuramente un modello da seguire per qualsiasi Club di medio livello che aspirasse ad imporsi senza rovinarsi. Poi sono iniziati i guai, le sette sorelle e l’ossessione per quello scudetto che avrebbe coronato una decade di raro successo per un Club come il Parma calcio. Non voglio nemmeno soffermarmi sul disastro che l’ambizione sfrenata della famiglia Tanzi ha causato, preferisco passare oltre e concentrarmi sul lento percorso di guarigione, firmato da un burocrate come Enrico Bondi e fatto brillare da un tecnico di nome Cesare Prandelli, capace di raggiungere il quinto posto per due stagioni di fila pur avendo a disposizione un gruppo di ragazzini di buona prospettiva come Sébastien Frey, Matteo Ferrari, Massimo Donati, Matteo Brighi, Adriano, Adrian Mutu e Alberto Gilardino; certo, a leggere ora questi nomi la sorpresa è un po’ attenuata, però allora nessuno di questi giocatori sembrava certo di costruirsi la carriera che poi ognuno ha effettivamente vissuto – alti e bassi a parte. Quella squadra aveva tante similitudini con il primo Parma che si è affacciato in Serie A, vuoi per la gioventù della squadra, vuoi per il fatto di dover – ancora una volta – trarre il meglio dalle poche risorse disponibili. Dalle mie parti siamo bravissimi a tirare fuori risultati eccezionali con pochi (ma buoni) ingredienti, il calcio ha spesso seguito questa strada. Come per magia, la squadra si è riavvicinata alla città – e viceversa; i giocatori sono tornati ad arrivare allo stadio a piedi (non era difficile incrociarne alcuni alla fine della partita), le Lamborghini che giravano in città sono drasticamente diminuite ed è tornato l’obbligo morale per i giocatori di restare in campo qualche minuto alla fine di ogni partita per ringraziare i tifosi presenti allo stadio. Ricordo che durante i primi anni di Serie A, Nevio Scala aveva l’abitudine di far svolgere un leggero lavoro defatigante subito dopo la partita, direttamente sul prato del Tardini, che veniva spesso accompagnato dagli incoraggiamenti dei tifosi – rimasti ovviamente al proprio posto. E pensare che ad un certo punto perfino fermarsi sotto la tribuna per firmare qualche autografo sembrava troppo faticoso...Quella seconda fase si è conclusa con l’addio di Cesare Prandelli, approdato alla Roma, e la partenza di tutti quelle giovani promesse diventate giocatori da Nazionale. Al Tardini risuonava spesso il coro “chissenegrefa, giocherà la Primavera; chissenefrega, l’importante è star con te...” sulle note di Maledetta Primavera e ricordo di essere stato in Curva Nord quel pomeriggio in cui la seconda epoca d’oro del Parma è finita. Per concludere, vi sprono a non pensare solamente al Parma calcio firmato Stefano Tanzi ma ricordare piuttosto come questo Club abbia rivoluzionato il calcio italiano e abbia saputo ritagliarsi un posto d’onore anche in Europa – dimostrando che è possibile raggiungere certi traguardi senza finire nel baratro. La buona notizia è che nulla è perduto definitivamente; per quanto in basso la società sia costretta a ripartire, la prova che sia possibile costruire un gioiello partendo da materie prime umili l'abbiamo avuta. E non mi riferisco certo alla squadra che ambiva a vincere il campionato, perchè nonostante i Thuram, Cannavaro, Veron e compagnia, se chiedete in città quale sia stata la formazione del Parma più forte di tutte, quasi sempre vi snoccioleranno questa: Taffarel, Benarrivo, Di Chiara, Minotti, Apolloni, Grün, Melli, Zoratto, Osio, Cuoghi, Asprilla (o Brolin, dipende...) Provare per credere...
Parma o dell’orrido infinito del calcio italiano, scrive Nicola Sellitti su “Il Manifesto”. Venerdì 6 marzo 2015 si decide il destino del club emiliano, ma il campionato è di fatto già falsato. Una vicenda che è solo la punta dell'iceberg di un sistema malato. Partite di campionato rinviate a tempo indeterminato, calciatori, soprattutto impiegati e fornitori non pagati da mesi. In alcuni casi, anni. Assieme a mobilia e panchine dello stadio pignorate, computer sequestrati. A Parma ormai si è ben oltre l’avanspettacolo di scarsa qualità. Lo sceneggiatore si è divertito, tra gag, caos, buffoni e truffati: orrido che avrebbe disgustato anche Seneca. Ma ora servono soluzioni immediate. La Serie A 2014/2015 è di fatto un torneo falsato. Non più credibile anche se il Parma arrivasse a giocare sino all’ultimo turno. C’è una squadra che gioca gratis da mesi. Che ha deciso, d’accordo con l’Associazione italiana calciatori, di non scendere in campo domenica scorsa contro il Genoa. Con il tecnico Roberto Donadoni che ha pagato anche il conto con il farmacista di fiducia del club. Il Parma ha un proprietario fantasma, Giampietro Manenti che dice di avere i soldi per pagare i debiti, senza aver avuto il tempo (sono le sue parole…) di fare due conti sulla situazione finanziaria pregressa. E che dopo esser stato aggrdito per strada dai tifosi parmensi si dice pronto a vendere. E le Istituzioni del pallone sono arrivate sulla faccenda con un paio di giri di ritardo. Solo la punta dell’iceberg, sebbene il caso abbia ricoperto pagine dei quotidiani internazionali. È il sistema calcio che non funziona. In Italia chiunque può acquistare una società di calcio. Non ci sono controlli preventivi, nessun antivirus. Nulla. In Inghilterra Massimo Cellino è stato invitato senza troppi fronzoli a mollare il Leeds per la sua condanna per evasione fiscale. Mentre in Serie A – in attesa di sviluppi dalle serie inferiori – per esempio ci sono club con più di 200 tesserati per produrre plusvalenze a bilancio, che comprano calciatori in leasing oppure a rate come gli elettrodomestici, altre che spendono anche se indebitate. E altre come la Sampdoria che ingaggia Samuel Eto’o ma non gioca il derby della Lanterna per campo impraticabile – niente teloni dopo temporale a Genova — per il mancato pagamento da due anni, assieme al Genoa, della ditta che gestisce Marassi. Per il Parma la dead-line è venerdì 6 marzo, ovvero il giorno dell’assemblea della Lega calcio (quella precedente, giorni fa, ha omesso la discussione sull’argomento), mentre il sindaco Federico Pizzarotti prova a mediare tra le parti della farsa. La Lega potrebbe strappare ai club un contributo di solidarietà – 500 mila euro a testa – per far concludere il torneo al Parma. Ma solo a fallimento dichiarato. Sono però in molti a essere contrari, tipo le società con bilanci in regola. Non sono tantissime, ma esistono. Senza una soluzione tampone per restituire un minimo di credito al campionato (non è forse il caso che abbonati del Parma non pensino a una class action contro le Istituzioni del calcio per essere risarciti come parte lesa di questa storiaccia?), con due gare già rinviate, il dossier Parma finirebbe sulla scrivania del governo. La minaccia arriva da Giovanni Malagò, numero uno del Coni, che nei giorni scorsi ha richiamato alle proprie responsabilità sia Lega che Figc. Il presidente della Lega, Maurizio Beretta – quello che contava zero, secondo il consigliere della Figc Claudio Lotito intercettato – ha spiegato come le regole sul controllo dei conti della società, a opera della Covisoc, sarebbero state rispettate e le delibere firmate anche dal Coni. Che però ha dalla sua parte il Governo. Insomma siamo al gioco delle parti, in attesa del gong del tribunale sul fallimento del club, il 19 marzo. Mancano ancora due partite da giocare sul campo. Quella decisiva si gioca invece sui tavoli della politica del calcio. Cioè, chi ha fatto guai dovrebbe anche risolverli.
Parma, debiti e trucchi contabili, scrive Gianni Dragoni su “Il Sole 24ore”. Un tempo il Parma era una delle «sette sorelle» del calcio italiano, una grande, grazie ai soldi (e alle relazioni) di Calisto Tanzi, l’ex patron della Parmalat, travolto da un crac da 14 miliardi di euro nel 2004. Adesso a Collecchio non ci sono neppure i soldi per l’acqua calda. Se, dopo le partite non giocate con Udinese e Genoa, il club dovesse saltare la prossima con l’Atalanta, il Parma verrebbe escluso dal campionato. Per la prima volta la serie A proseguirebbe con 19 squadre. Sempre che qualche altro club non salti prima della fine. Quest’eventualità non sarebbe da escludere se le autorità di controllo, Figc, Lega e Covisoc, facessero il loro dovere con il massimo scrupolo, ad esempio controllando se stipendi e tasse sono pagati con puntualità e ponendo fine alle operazioni di cosmesi contabile, che Il Sole 24 Ore racconta da anni. Sui conti del Parma Football club, come sugli ultimi due passaggi di proprietà a 1 euro che hanno visto arrivare la cipriota Dastraso e ora Giampietro Manenti, c'è molta confusione. Che nei conti del club ci fossero cose che non andavano Il Sole 24 Ore lo aveva riferito già il 5 marzo 2014, in un articolo dal titolo: «Parma salva i conti “cedendo” il marchio». Cos'aveva fatto il Parma? Nell'ultimo giorno dell'esercizio al 30 giugno 2013 il club aveva ceduto il marchio e il contratto con la concessionaria di pubblicità sportiva alla Parma Brand Srl. E per questo il club aveva messo in bilancio plusvalenze nette di 30,7 milioni di euro (di cui 22,7 milioni dal marchio), che gli avevano consentito di contenere la perdita netta in appena 3,2 milioni ed evitare una ricapitalizzazione. Ma era una strana vendita: la società compratrice del marchio apparteneva a quello che era l'azionista unico della squadra di calcio, la Eventi Sportivi Spa di Brescia, cioè la holding di Tommaso Ghirardi e altri soci. Per capire i veri conti del Parma Fc bisogna quindi andare al piano superiore, guardare ai conti del gruppo Eventi Sportivi, perché un pezzo del club è finito dentro la società madre, infatti è questa che Ghirardi ha ceduto il 19 dicembre. Il bilancio consolidato della Eventi Sportivi mostra che al 30 giugno 2013 l'intero “gruppo Parma” aveva una perdita di 34,2 milioni, cioè 31 milioni in più delle perdite ufficiali del solo Parma Fc. Il gruppo Eventi Sportivi aveva un patrimonio netto negativo per 15 milioni, anziché positivo per 23,26 milioni come dichiarava il bilancio del Parma Fc. Nella stagione terminata il 30 giugno 2014 il bilancio consolidato di Eventi Sportivi - che il revisore PwC non ha certificato - è in perdita per 7,32 milioni e il patrimonio netto è negativo per 21,2 milioni, nonostante 44,1 milioni di plusvalenze da calciomercato: i guadagni principali sono i 9,16 milioni per Belfodil e gli 8,1 milioni per Crisetig, venduti all'Inter. Il gruppo Parma ha un giro d'affari simile all'Udinese, 56,8 milioni, ma costi del personale molto più elevati, 52 milioni contro 30. Anche il valore in bilancio dei calciatori è più alto (85,8 milioni contro 37,5 milioni dell'Udinese) e quindi il Parma deve spesare ammortamenti più pesanti (22,3 milioni). Questi valori si sono gonfiati negli anni con il ricorso massiccio alle comproprietà: i controlli dov'erano? I debiti sono esplosi fino a 201,8 milioni al 30 giugno 2014, quattro volte i crediti. Secondo il bilancio consolidato di Eventi Sportivi, al 30 giugno scorso c'erano debiti per 24 milioni verso banche (di cui 11,5 milioni tra Banco di Brescia e Credito Sportivo), 40,6 milioni per factoring su crediti per diritti tv e trasferimento calciatori: con Mps (16,8 milioni), Unicredit (12,1), Ubi (6,1), Ifitalia (3,7), Factorit (1,86). Ci sono inoltre debiti per 45,9 milioni verso squadre di calcio per compartecipazioni e calciomercato, 36,3 milioni verso fornitori e 42,27 milioni di debiti tributari, cioè debiti con lo Stato: 24,56 milioni di debito Iva, 8,4 milioni per ritenute su lavoro dipendente, 7,2 milioni di debiti per Irap. Se il Parma salta, chi li paga?
Crac Parma, si muove la Procura: sotto inchiesta anche i vertici della GdF. Per i pm che indagano sull'ipotesi di bancarotta del club ci sarebbero pericolo di fuga e inquinamento delle prove. Alle 16 vertice Pizzarotti-Tavecchio, scrive “Sport Mediaset”. In attesa dell'udienza fallimentare del 19 marzo, ore d'attesa per nuovi sviluppi sull'ipotesi di bancarotta del Parma calcio. A breve i pm potrebbero prendere infatti provvedimenti clamorosi, visto che hanno riscontrato pericoli di fuga e inquinamento delle prove. Intanto sono finiti sotto inchiesta i vertici della GdF di Parma, accusati di omissione di atti d'ufficio e di aver tardato a far partire l'inchiesta sul crac del club. Ancora Hernan Crespo in merito alla situazione del Parma, questa volta con un messaggio chiaro indirizzato alle istituzioni del calcio: "Se chi doveva vigilare (Figc e Lega) ci avesse fatto sapere che il Parma non si poteva iscrivere tutti noi avremmo cercato una altro lavoro". "Più che grottesca, la vicenda del Parma calcio ha dell’inverosimile, perché è un’insieme di responsabilità che porta ogni addetto ai lavori a dire che lui non c’entrava nulla, e questo è totalmente inaccettabile. La cosa più importante è che nell'assemblea di venerdì i colleghi di questo fantascientifico personaggio arrivato in fondo a questa catena (Manenti, n.d.r.) trovino il modo di salvaguardare almeno la parte sportiva e dare una regolarità completa al campionato che di fatto sarebbe anomalo se il Parma non tornasse a giocare. In attesa di ulteriori sviluppi sulla vicenda, il sindaco di Parma ha chiesto un appuntamento con Tavecchio per fare il punto della situazione. Il vertice dovrebbe tenersi oggi alle 16. Il crac Parmalat coinvolge anche la GdF. Nel mirino della Procura sono finiti il comandante provinciale colonnello Danilo Petruccelli e il suo vice, il capo del Nucleo di polizia tributaria tenente colonnello Luca Albanese. Entrambi sono accusati di aver ritardato a far partire l'inchiesta sul dissesto societario del Parma calcio. Nell'ambito del consiglio comunale è inoltre emerso un nuovo dettaglio sui mancati pagamenti del Parma calcio. In particolare, è stato appurato che dal 2011 il club non ha pagato l'affitto del Tardini, le imposte di pubblicità e l'impiego dei pullman della Tep. In dettaglio, si tratta di un debito di un milione e 400mila euro. Dalle indagini attorno al club emiliano, sono emerse inoltre inquietanti modalità di gestione della società, soprattutto sugli incentivi all'esodo (niente obbligo dei pagamenti trimestrali, diversa tassazione e pagamenti diluiti). Nel dettaglio, a svelare il sistema diffuso del Parma Calcio è stato Hernan Crespo, ora sulla panchina della Primavera del club crociato. "Non mi ero mai accorto della gravità della situazione. I pagamenti arrivavano in ritardo, ma arrivavano. Io ero uno di quelli che aveva l'incentivo all'esodo, e lì si andava in difficoltà. Infatti ho accettato di tramutere l'incentivo nello stipendio da allenatore della Primavera. Era un modo per spostare il debito e aiutare la società. Mi avevano anche promesso che alla scadenza del contratto di Donadoni mi avrebbero dato in mano la prima squadra". Già da qualche tempo in molti avevano intuito che il gioco del Parma girasse intorno ai numerosissimi tesseramenti di giocatori. La Procura è convinta che proprio qui stia la chiave del crac. SI compravano calciatori aumentando a dismisura il costo degli stipendi e quando non si potevano più rinviare i pagamenti si proponeva loro di spalmare il debito su più anni, allungando il contratto. Una parte dello stipendio, inoltre, veniva convertita in diritti di immagine, in modo da eludere i controlli della Covisoc.
A Parma saltano i vertici della Finanza. Comandante e vice avrebbero ritardato l'inchiesta sul crac. Manenti: "Il club non è del sindaco. Semmai lo vendo io", scrive Vanni Zagnoli su “Il Giornale”. «Cerco un centro di gravità, per… Manenti". La canzone di Franco Battiato fa davvero al caso del presidente crociato. Dalle 15 di ieri il presidente è tornato nuovamente al centro dell'attenzione presentandosi negli uffici di Collecchio per tre ore, con il commercialista Andrea Galimberti, mentre il Parma si allenava a buon ritmo. A un tratto Lucarelli urla «Giampietro, Giampietro, esci». Mai sentito un capitano irridere così il proprio presidente. Che tramite il sito della società fa sapere: «Se qualcuno è interessato ad acquistare il Parma, può rivolgersi a me o ai professionisti che lavorano per me. Il sindaco Pizzarotti non è il proprietario». Insomma, il presidente è lui e vuole guadagnarci qualcosa, per lasciarlo. Oppure restare con qualche incarico, sempre che prima non fallisca. Il Comune era già andato incontro all'ex Ghirardi, dal 2011 evitava di fargli pagare l'affitto del Tardini, le imposte di pubblicità e i pullman della Tep, la municipalizzata. «Per un totale di un milione e 400mila euro - spiega l'assessore Ferretti -. Ora valutiamo azioni penali per il comportamento del club negli ultimi mesi». Intanto cadono le prime teste, non sportive, per il crac del Parma: sono stati rimossi i vertici provinciali della Guardia di Finanza, il colonnello Petrucelli e il suo vice, nonchè capo della polizia tributaria, Albanese, entrambi sotto inchiesta per omissione di atti d'ufficio, per avere ritardato la partenza dell'inchiesta. Insomma, altri dettori della città risultano coinvolti in questa storia che ha dell'incredibile. Pizzarotti intanto lavora per riaprire lo stadio di Parma, poichè la squadra rifiuterebbe di giocare al Garilli, offerto dal sindaco di Piacenza Dosi. Del resto aveva già detto no alle porte chiuse con l'Udinese. Il primo cittadino ducale ha incontrato Lucarelli, il vice Gobbi, Cassani e il presidente dell'Aic Tommasi, che aveva confessato un timore diffuso: «Non è così sicuro che vengano recuperate le gare del Parma con Udinese e Genoa». «Con l'Atalanta - spiega il sindaco -, si gioca al 50%». «Dipende da cosa esce dall'assemblea di Lega di venerdì», confermano i calciatori. Mentre l'imprenditore romano Nuccilli rinuncia all'acquisto ("Troppe tensioni attorno al club"), un gruppo americano incontrerà presto il sindaco, puntando al fallimento pilotato: "Pagheremmo tutti gli stipendi", fa sapere tramite l'emissario italiano.
Parma calcio, saltano vertici locali Guardia di Finanza. Finanzieri sono sotto inchiesta per omissione di atti d'ufficio. Tribunale di Bologna nomina curatore speciale dando ragione al socio Energyscrive scrive “La Repubblica” Il crac del Parma Fc investe come un terremoto i vertici del comando provinciale della Guardia di Finanza. La Procura di Parma ha iscritto nel registro degli indagati per il reato di omissione d'atti d'ufficio il colonnello Danilo Petrucelli e il vice tenente colonnello Luca Albanese, capo del Nucleo di polizia tributaria. Entrambi sono stati rimossi dagli incarichi la scorsa settimana. Come anticipato da gazzettadiparma.it, i due ufficiali sono accusati di aver trasmesso in ritardo l'informativa sulla situazione finanziaria del Parma Calcio, ritardando quindi l'apertura dell'indagine per bancarotta fraudolenta. Sarebbe quindi venuto a mancare il rapporto di fiducia con il pool di magistrati che coordina l'inchiesta. Gli ufficiali non torneranno più in servizio a Parma, come disposto dal Comando generale delle Fiamme Gialle: Albanese è stato trasferito nella caserma di Prato, mentre ancora non è stato deciso il trasferimento di Petrucelli che per ora è in ferie. L'indagine penale rimane affidata al Nucleo di polizia tributaria di Parma, da lunedì guidato dal tenente colonnello Carlo Pasquali in arrivo dal comando regionale. I due ufficiali indagati si sono messi a disposizione della Procura per ogni chiarimento sulla propria posizione. Albanese sarebbe già stato ascoltato, Petrucelli lo sarà nei prossimi giorni. Pare che i vertici delle Fiamme gialle non abbiano indagato sulle plusvalenze fittizie, sui debiti spalmati sugli anni ai giocatori oppure scambiati "prestiti infruttiferi" e come tali esenyti da imposte. Un sistema cresciuto in maniera enorme per evitare i controlli della Covisoc, al punto che si profilava l'ipotesi per gli inquirenti di evasione fiscale. Sarebbero stati usati anche incentivi all'esodo (veri o fasulli) in quanto più favorevoli come regime fiscale. Sarebbero stati aggirati dalla società numerosi obblighi anche nei confronti della Covisoc. Il tribunale ordinario di Bologna ha accolto il ricorso del socio di minoranza del Parma F.C., Energy T.I. Group, e ha nominato per la società calcistica un curatore speciale, il commercialista bolognese Mauro Morelli. Il decreto del giudice Anna Maria Drudi è stato emesso lo scorso 18 febbraio e pubblicato dal sito stadiotardini.it. Il patron di Energy T.I. Roberto Giuli aveva presentato il 16 febbraio la richiesta ai sensi dell'articolo 2049 del codice civile, prospettando gravi irregolarità nel Cda del Parma, dove ancora siede dopo aver rescisso il contratto di cessione del 10% delle quote sottoscritto lo scorso maggio. Giuli denunciava di disconoscere i passaggi di proprietà, avvenuti senza consultarlo, e aveva dichiarato di non conoscere Manenti. Lo scorso dicembre inoltre il socio di minoranza si era astenuto dall'approvazione del bilancio del club, il cui debito è lievitato da 50 milioni a 97 nell'arco di sei mesi. Il curatore speciale ha il compito di vigilare su eventuali atti degli amministratori che danneggino la società o i soci di minoranza. Ed è stato l'ultimo colpo di scena in una giornata tutta dedicata al Parma. E' stata una lunga discussione quella in consiglio comunale riguardante il buco che la società calcistica ha lasciato tra l'altro all'amministrazione comunale. In contemporanea il presidente della società calcistica ribadiva che chiunque sia intenzionato ad acquistare in tutto o in parte il Parma calcio deve rivolgersi a lui e non al sindaco di Parma Piazzarotti. Mentre era in corso il Consiglio comunale il sindaco incontrava i rapopresentanti dei calciatori guidati dall'ex romanista Tommasi. Al momento le possibilità che il tardini venga riaperto , dopo che il calendario del Parma ha già subito due stop sono al 50%.
Parma, Ghirardi (sotto scorta) va all'attacco e denuncia Taci. Accusato del fallimento e minacciato dai tifosi, l'ex presidente ripensa ai dirigenti che gli parlarono bene dell'albanese per poi voltargli le spalle...scrive Giovanni Capuano su “Panorama”. Spaventato forse no. Preoccupato certamente, e con la macchina della Digos fissa fuori dalla sua casa a Carpenedolo perché la rabbia dei tifosi del Parma si sta scaricando soprattutto su di lui. Ha letto le scritte minacciose, prova a tenere tranquilla la sua famiglia e, intanto, studia la strategia per uscire dal caos nel quale è infilato insieme a tutti gli altri protagonisti della vicenda del crac della società emiliana. La Procura ha aperto un fascicolo di indagine per reati fiscali e ha messo nel mirino tutti gli amministratori che hanno guidato il Parma in questi anni; i magistrati vogliono vederci chiaro per capire a quanto ammonti il tesoretto non versato al Fisco (16,7 milioni di euro) e se esista una responsabilità penale. Non è però questa l'unica chiesta, perché Ghirardi si è mosso anche in prima persona e questa volta come parte lesa. Ritiene di essere stato beffato da Rezart Taci e lo denuncia: violazione di contratto e truffa. Insieme ai legali sta raccogliendo tutto il materiale, scritto e non solo, che racconta sei mesi di trattative con il petroliere albanese; dal 30 maggio, giorno dell'annuncio dell'addio dopo l'iscrizione negata all'Europa League, fino al 19 dicembre, il momento in cui cedendo le quote alla Dastraso Holdings Ltd ha ritenuto di avere chiuso la sua avventura nel calcio italiano. Nel faldone sono stati raccolti mail, lettere e contatti con Taci e gli uomini del suo board, sempre con la mediazione di uno studio notarile di New York e con la convinzione di lasciare il club in buone mani. Certezze incrinatesi a metà novembre, quando la trattativa sembrava saltata al momento della formalizzazione dell'acquisto, ma mai crollate perché il petroliere albanese si era presentato con tutte le garanzie del caso e con referenze importanti. Quali? In queste giornate, chiuso nel bunker di Carpenedolo, Ghirardi ripensa anche alle telefonate con i vertici del calcio, dirigenti di Lega e Figc, costantemente informati sull'andamento delle cose e che gli avevano dipinto Taci come un personaggio amico di gente potentissima, pieno di soldi e furbo. Molto furbo. Gli stessi dirigenti che ora gli hanno voltato le spalle facendo finta di non aver avuto nulla a che fare con una persona che nel sistema italiano non era stato certo portato da Ghirardi, ma girava già da qualche anno. I nomi non sono difficili da rintracciare, considerando anche chi sedeva nel consiglio della Lega in quel momento. Lontano dal Parma i problemi di Ghirardi non sono finiti. Anzi, si sono moltiplicati e riguardano anche l'azienda di famiglia che sta vivendo un momento di forte fibrillazione. L'ex presidente attendeva di essere liberato dalle fideiussioni personali messe a garanzia dell'attività del club, ma anche questo appuntamento è stato disatteso. Preoccupazioni che si intrecciano con il dispiacere per essere finito al centro di quella che ritiene un'aggressione mediatica non giustificata, puntata più su di lui che su Taci e Manenti. Rispetto a quest'ultimo, ad esempio, Ghirardi ritiene di avere poco o nulla a che fare, non avendogli aperto lui le porte del Parma: un concetto ribadito anche a chi in queste settimane lo ha chiamato dopo aver visto all'opera l'attuale proprietario, che non ha ancora versato un euro nelle casse mentre Ghirardi rifà i conti sul bloc-notes e ricorda di essere stato l'ultimo a staccare un assegno (da 3 milioni di euro) a novembre per pagare gli stipendi dei 22 dipendenti e una mensilità per i calciatori. Soldi versati a fondo perduto e la cui documentazione è (sarebbe) in mano al sindaco Pizzarotti, insieme ad altre testimonianze di quei mesi in cui il primo cittadino ha (avrebbe) affiancato passo passo il proprietario uscente. Nei prossimi giorni Ghirardi farà altre mosse, quasi certamente lontano dalla ribalta mediatica. Al momento non risponderà, ad esempio, alle accuse dei suoi ex calciatori e di chi gli addebita una gestione allegra del Parma. Con un dato oggettivo: fino alla metà di novembre, prima del grande caos, la squadra aveva messo insieme 9 sconfitte e 2 sole vittorie in Campionato. Andamento lentissimo. Le riflessioni sui debiti e sullo stato patrimoniale della società al momento del suo addio le ha affidate all'unica ricostruzione giornalistica uscita in questi giorni ("L'indebitamento corrente ammonta a 73,5 milioni e riguarda fornitori, procuratori, personale federale, dipendenti e tasse. Debiti che potrebbero essere oggetto di trattativa e accordi di rateizzazione"). Poi verrà anche il tempo di ragionare sulla politica dei 200 e passa tesserati, ma ora la priorità è un'altra: poter tornare alla vita di prima senza avere appiccicata addosso per la vita l'etichetta di quello che ha rovinato una storia centenaria. Documenti alla mano, Ghirardi si appresta così ad affrontare l'esame più duro. Pronto a difendersi, ma anche ad attaccare.
Parma calcio compie 100 anni. La storia di un successo (grazie ai soldi di Parmalat), scrive Silvia Bia il 15 dicembre 2013 su “Il Fatto Quotidiano”. Compie un secolo la squadra a cinque stelle dei Tanzi, che - come hanno dimostrato i magistrati - era foraggiata con denaro distratto dall'azienda parmigiana. Le cento candeline cadono negli stessi giorni del decimo anniversario del crac. Era l’estate del 1913 quando, nel centenario della nascita di Giuseppe Verdi, undici ragazzi indossarono le divise gialle e blu per giocare a calcio in quella che, in onore del Maestro di Busseto, si chiamava Verdi Football Club. Qualche mese più tardi, il 16 dicembre, da quel gruppo nacque il Parma Football Club e con esso l’inizio della storia del calcio a Parma e dei suoi giocatori, in campo con una croce sul petto che richiamava lo scudo della città, e che ancora oggi, a distanza di cento anni, è il simbolo della squadra. Il Parma festeggia un secolo di calcio, tra sconfitte e traguardi che hanno segnato l’ascesa di un piccolo club di provincia dalle serie minori fino alle più folgoranti vittorie in serie A e nelle competizioni europee. La città si stringe intorno alla sua gloria calcistica in tre giorni di celebrazioni, e l’unico grande assente è Calisto Tanzi, oggi ai domiciliari in ospedale, che di quella gloria è stato in gran parte il fautore. Fu alla fine degli anni Ottanta che l’ex patron della Parmalat firmò il primo contratto di sponsorizzazione della squadra, che segnò l’inizio dell’era d’oro del Parma Calcio, interrotta molti anni dopo dal crac finanziario dell’azienda di Collecchio. Ironia della sorte, le cento candeline del Parma Calcio cadono negli stessi giorni del decimo anniversario del crac Parmalat, quello che ha segnato la fine del calcio champagne made in Parma, quando sul campo i campioni dello stadio Tardini scalavano classifiche e guadagnavano coppe. In Europa, a Wembley, poi a San Siro e in ogni stadio dello Stivale. Di quel periodo oggi rimangono i ricordi e le inchieste giudiziarie. Di Tanzi, l’imprenditore che fece grande Parma con il suo impero del latte e che rese il Parma Calcio famoso in tutto il mondo sportivo, si parla solo nei tribunali. Allo stadio, il nome del “signor Calisto” che seguiva ogni domenica la sua squadra dalla tribuna, si sussurra sottovoce, e perfino nelle celebrazioni del centenario, cominciate lo scorso ottobre al Tardini, del Parma Calcio di Tanzi e delle grandi vittorie si è fatto solo cenno con imbarazzo, senza mai riferirsi esplicitamente all’ex proprietario della società. Del resto, il crac si è trascinato dietro anche la società sportiva di cui presidente era il figlio di Tanzi, Stefano. I magistrati hanno dimostrato che il calcio a cinque stelle dei Tanzi era in parte foraggiato con soldi distratti dalla Parmalat, da cui dal 1999 al 2003 sarebbero usciti 10 milioni di euro e 11 milioni di dollari. Anche i giocatori inneggiati ogni domenica dai Boys della Curva Nord sono in parte stati travolti dalle inchieste giudiziarie. Proprio di poche settimane fa la notizia della richiesta di rinvio a giudizio per le stelle del calcio Hernan Crespo, Sebastian Veron, Faustino Asprilla, Luigi Apolloni, Enrico Chiesa, Lilian Thuram, Dino Baggio, Hristo Stoichckov, Tomas Brolin, Lorenzo Minotti e Massimo Crippa. Tutti finiti invischiati nel crac finanziario con l’accusa di bancarotta fraudolenta in concorso per false sponsorizzazioni del marchio Parmalat pagate con soldi drenati dalle casse del gruppo di Collecchio, insieme a 15 ex dirigenti, consiglieri, sindaci e procuratori del Parma Calcio. Verso l’archiviazione invece altri nomi eccellenti della squadra di Tanzi, come l’ex mister Nevio Scala e i calciatori Gianfranco Zola, Nestor Sensini, Fabio Cannavaro, Alberto Di Chiara, Sandro Melli, Stefano Cuoghi, Antonio Benarrivo, Stefano Cuoghi e Johnnier Caicedo Montano. Nomi di un’epoca che sembra passato remoto, ma che a Parma per tutti i tifosi è un ricordo stampato nella memoria. Anche se ora, passata la bufera del crac Parmalat e il commissariamento, con la nuova direzione del Parma Football Club di Tommaso Ghirardi, nei festeggiamenti per i cento anni si tende a dimenticare quell’eredità finita nelle aule dei tribunali. Di quel tempo rimangono i trofei: la Coppa delle coppe, le due Uefa, la Supercoppa europea, lo scudetto sfiorato più volte. L’epoca dello stadio sempre pieno e della fila per comprare gli abbonamenti e i biglietti per conquistarsi un gradino in curva o un seggiolino in tribuna per vedere dal vivo lo spettacolo del calcio ducale, che dalla piccola Parma era arrivato in vetta alle classifiche, dando del filo da torcere alle grandi squadre della serie A. La storia del Parma Calcio è fatta anche di quella manciata di anni fortunati finiti con il crac. Nelle celebrazioni del centenario del club si festeggia un secolo di calcio ducale, un secolo di sconfitte e di vittorie, di ascese e di declini, come è per ogni squadra. Pagine di sport, di uomini, di trofei e anche di errori, di una realtà che è sopravvissuta alla fine dell’impero di Tanzi, con l’arrivo del nuovo presidente Ghirardi, che ultimamente è stato travolto nell’inchiesta Public Money, e il suo rinato Parma Football Club. Per celebrare questi cento anni densi di avvenimenti la città di Parma si prepara a una settimana di eventi: una mostra fotografica, la maglia del centenario da indossare durante la partita contro il Cagliari di domenica 15 dicembre, e poi incontri nelle scuole, baby maglie crociate in regalo ai nati all’ospedale il 16 dicembre. Il gran finale al Teatro Regio lunedì sera, nel giorno del centesimo compleanno del Parma Calcio, con una serata condotta da Simona Ventura che vedrà la partecipazione dei campioni giallo blu di ieri e di oggi. Per ricordare le glorie del passato e continuare a guardare avanti.
Parma calcio, quando Tavecchio nel 2013 premiava Ghirardi come miglior dirigente, scrive Andrea Tundo su “Il Fatto Quotidiano”. L'allora numero uno della Lnd riconobbe al presidente della società ducale il prestigioso riconoscimento durante la settima edizione de 'Le Ali della Vittoria'. La motivazione? "Sa coniugare dinamismo e razionalità per una gestione virtuosa del proprio club". Eppure i bilanci erano già ballerini. Il presidente della Figc Carlo Tavecchio dev’essere rimasto molto sorpreso della crisi finanziaria del Parma che sta spingendo il club verso il fallimento. Perché nel marzo 2013 riteneva Tommaso Ghirardi il miglior dirigente di società professionistiche in Italia soprattutto in chiave gestionale, nonostante – come raccontano oggi i bilanci – il crack della squadra crociata sia nato sotto la spinta di un debito cavalcante fin dal primo anno della gestione dell’imprenditore bresciano. Aumentando del 1200% secondo le analisi de Il Sole 24 ore tra il 2007 e il 2014. Ma l’ormai ex proprietario del Parma, poco meno di due anni fa, veniva così descritto dalla Lega nazionale dilettanti presieduta all’epoca proprio da Tavecchio: “Giovane ed intraprendente dirigente sportivo che sa coniugare dinamismo e razionalità per una gestione virtuosa del proprio club. Animato da grande passione, ha rappresentato una delle più felici novità sul panorama calcistico italiano degli ultimi anni”. “Razionalità” e “gestione virtuosa del proprio club”. È scritto proprio così, nero su bianco, nelle motivazioni con le quali Ghirardi venne premiato nella categoria ‘dirigente di società professionistica’ durante la settima edizione de Le Ali della Vittoria, premio istituito dal presidente Carlo Tavecchio nel 2004 che “gode ormai di un prestigio considerevole grazie alla partecipazione in passato di personalità del calibro di Michel Platini e Joseph Blatter”, si legge sul sito della Lnd. Sul palco dell’auditorium della Fiera di Cagliari, il 27 marzo, oltre a Pierluigi Collina e al presidente della Lega Serie A Maurizio Beretta, salì anche il presidente del Parma che, nel ricevere il premio dalle mani del vice di Tavecchio, Alberto Mambelli, pronunciò parole che riascoltate oggi appaiono quanto meno stonate: “Gli obiettivi del Parma? Crescere sempre di più, cercare di investire nel settore giovanile, di trovare talenti per il futuro, cercare di rendere la società sostenibile con dei costi-ricavi che si compensino, cercare di dare continuità a una società gloriosa che ha avuto dei periodi molto felici e dei periodi molto tristi”. Di fatto il Parma non ne ha raggiunto uno. Anzi, ad ascoltare quanto ha dichiarato pochi giorni fa al Corriere dello Sport il team manager gialloblù Alessandro Melli, la situazione era già compromessa dal 2011 quando “ci hanno tolto le carte carburante e dovevamo anticipare noi i soldi della benzina”. All’esterno però non se n’è accorto nessuno. E anche quando la Co.Vi.So.C. – come scoperto da ilfattoquotidiano.it – nell’aprile 2014 lanciava l’allarme consigliando “un attento monitoraggio” e la “necessità di un intervento sull’andamento economico”, le istituzioni calcistiche hanno ignorato l’avvertimento. “Colpa delle regole”, dicono oggi. Sono quelle cambiate il 3 maggio 2007 dal Consiglio federale della Figc, ammorbidendo i parametri per l’iscrizione ai campionati professionistici. Come riportato da Panorama, votarono a favore tutti i membri, da Galliani ad Albertini fino a Tavecchio. Lo stesso che, ignorando quanto la crisi già mordesse il Parma, due anni fa premiava Ghirardi “in onore del colpo d’ali offerto alla causa del calcio professionistico”.
Il calcio verso il crack 1,7 miliardi di debiti il Parma è solo l’inizio, scrivono Giuliano Balestreri Francesco e Saverio Intorcia su “La Repubblica”. LA MAGGIOR PARTE DEI CLUB DI SERIE A VERSA IN CONDIZIONI ECONOMICHE PESSIME, OPPRESSI DALLE PASSIVITÀ E STRETTI FRA GLI INTROITI CALANTI DEI BIGLIETTI ALLO STADIO E I DIRITTI TV NON PIÙ STELLARI. L’UNICA SALVEZZA SEMBRANO ESSERE I RICCHI ORIENTALI. La Serie A è lo specchio del Paese: debiti enormi e zero utili. Come lo Stato, il campionato, ogni anno, spende più di quello che incassa: a fronte di 1,6 miliardi di ricavi, ce ne sono 1,7 di debiti netti e 3 di debiti lordi. Gli utili sono pari a zero e le perdite annue arrivano a 100 milioni di euro. Paradigma di un sistema che fatica a sostenersi da solo è il Parma che rischia di abbassare la saracinesca fra pochi giorni. Poi ci sono le due big milanesi legate agli investitori d’Oriente che, dopo l’Inter, ora posano gli occhi sul Milan. Siamo di fronte a un movimento rassegnato a lasciar partire i propri campioni: per far quadrare i bilanci si rinuncia allo spettacolo. Facendo finta di ignorare l’eccessiva e dannosa dipendenza dalle televisioni, pronte a chiudere i cordoni della borsa qualora l’audience calasse. Il caso più eclatante è quello del club gialloblù, che rischia il fallimento: l’udienza è fissata il 19 marzo. Eppure non è stato un crac improvviso. Il bilancio chiuso al 30 giugno 2014 ha evidenziato una perdita di 13,7 milioni (superiore a un terzo del capitale sociale). L’ indebitamento lordo del Parma è cresciuto in modo spaventoso negli ultimi anni: era di 16,1 milioni nel 2006-07, è salito a 197,4 nel 2013-14. La Federcalcio ha negato la licenza Uefa ma ha permesso al club di iscriversi al campionato: la crisi finanziaria della società ha reso subito impossibile pagare gli stipendi, ad eccezione di luglio. La proprietà aveva garantito la continuità aziendale solo fino al 31 dicembre 2014, e il bilancio 2013 era stato chiuso con una perdita contenuta (3,2 milioni) solo per la cessione del marchio che aveva generato una plusvalenza di 22,7 milioni. I bilanci Lo scudetto dei conti va al Napoli, che al 30 giugno 2014 - ultimo bilancio disponibile - ha chiuso con un utile di 20,2 milioni, migliorando il risultato del precedente esercizio (+12,2 milioni): effetto del ritorno in Champions e della maxi-cessione di Cavani al Psg. Il club di De Laurentiis ha registrato plusvalenze per 69,3 milioni. Altra società virtuosa è la Lazio che ha chiuso con un utile di 7,1 milioni, grazie alle ricche plusvalenze (22,9 milioni) e alla cessione di Hernanes all’Inter. In attivo anche la Fiorentina (+1,4 milioni, 33,4 milioni di plusvalenze), che aveva ceduto Jovetic e Ljajic. L’Inter (+33 milioni nel bilancio del club, -102,4 milioni nel consolidato) ha creato Inter Media and Communications, una newco in cui ha conferito i contratti di sponsorizzazione, i crediti dei diritti tv, le attività di gestione del marchio (già ceduto a Inter Brand srl), incassando ricche plusvalenze. In attivo anche Hellas Verona (+5,3 milioni, con la cessione del marchio) e Genoa (in sostanziale pareggio, con la cessione del ramo d’azienda e dello sfruttamento del brand). La Juventus ha perso 6,7 milioni, dato non drammatico perché il club sta riducendo il passivo (era -15,9 milioni nel 2012/13). Il Milan al 31 dicembre 2013 ha fatto registrare un rosso di 22,5 milioni (-15,7 nel consolidato), l’As Roma Spa ha chiuso con un passivo di 38,6 milioni al 30 giugno 2014. Sugli incassi totali della A, il fatturato netto (diritti tv, biglietteria, sponsor e contratti commerciali) è pari all’80%. Il restante 20 arriva dalle plusvalenze da calciomercato, una zona d’ombra che è stata oggetto d’indagine dei magistrati. Anche quando sono reali, i dati riguardano la cessione di campioni all’estero: per far quadrare i conti, la Serie A è costretta a rinunciare ogni anno ai suoi migliori giocatori. Nel mirino Uefa La Roma, insieme all’Inter, è nel mirino dell’Uefa: 7 club sotto indagine per violazione del fair play finanziario (gli altri sono Monaco, Besiktas, Krasnodar, Liverpool e Sporting Lisbona), in settimana possibili le sanzioni: dalla multa all’esclusione dalle coppe. I due club italiani hanno presentato un piano di rientro, rischiano il blocco dei premi Uefa ma sperano di cavarsela con una piccola sanzione. I debiti Il Parma non è l’unico club di A schiacciato dai debiti. Alla luce dei bilanci disponibili (2013/14 o 2013 per i club che si avvalgono del consolidato), il debito lordo delle squadre di Serie A ammontava a 3,3 miliardi, in deciso aumento sul 2012/13 (2,9 miliardi). Cifra che comprende i debiti, i fondi rischi e Tfr, i ratei e risconti passivi. Il debito netto ammonta a circa 1,7 miliardi, in aumento rispetto alla stagione precedente (1,5 miliardi), ma spesso tra gli attivi circolanti ci sono crediti che mai verranno riscossi. Il fatturato netto della Serie A ammonta a 1,6 miliardi. Osserva Luca Marotta, revisore contabile di bilanci calcistici: “Il rapporto fra passività e fatturato netto della Serie A 2013/14 è pari a 1,982. Questo significa in teoria che serve il fatturato di due anni per restituire la liquidità equivalente al capitale di terzi investito in un esercizio. Maggiore è questo indice, più importante diventa il continuo supporto finanziario della proprietà. Il club col più alto valore è il Genoa, con 5,6. Nel Parma era 4,2 e i problemi sono emersi quando è venuto meno il supporto degli azionisti”. Le luci dell’est L’Inter è già indonesiana, il Milan è nei sogni di thailandesi e cinesi, che sul piatto sono pronti e mettere un miliardo di euro: una cifra a cui la famiglia Berlusconi difficilmente potrà dire di no. Da Bangkok, la cordata con a capo Bee Taechaubol, si dice pronta a chiudere il conto con le banche (il Milan ha debiti per oltre 250 milioni) e a investire per riportare la squadra sul tetto d’Europa. Dalla Cina, il colosso Wanda, che gestisce diritti televisivi, ha smentito di poter chiudere l’affare a queste cifre: “Valutazione irrealistica”, secondo l’azienda che ha rilevato il 20% dell’Atletico Madrid per 45 milioni, e Infront per 1,05 miliardi. In un sistema incapace di camminare con le proprie gambe, dove lo spettacolo latita e i conti proprio non tornano, l’unica salvezza arriva dai cavalieri bianchi d’oriente ancora attratti dalla forza del made in Italy. Schiavi delle tv Nell’ultima stagione la Serie A ha fatturato 1,6 miliardi, al netto dei ricavi dal calciomercato. In questa voce, lo scudetto va alla Juventus (279,3 milioni), davanti a Milan (246), Napoli (165), Inter (154), Roma (128). Il Milan detiene il primato di ricavi commerciali (78 milioni). Ma il telecomando del calcio italiano è in mano ai network. Sul fatturato dei club, i diritti televisivi incidono per il 59%, gli sponsor e i contratti commerciali per il 19%, i biglietti per l’11% (altri ricavi generici ammontano all’11%). Un circolo vizioso: le società non confezionano un prodotto autonomo per poi rivenderlo, ma traggono dai contratti tv i fondi per allestire una stagione. In alcuni casi, come il Parma, le stagioni presenti si finanziano impegnando i futuri ricavi della cessione di diritti. All’estero Come funziona all’estero? Nel modello inglese, le tv incidono per il 51%, ma la Premier League ha appena ceduto il triennio 2016-19 per 5,136 miliardi di sterline, circa 7 miliardi di euro, con un aumento del 70%. Alla Serie A, in base all’ultimo contratto, andranno “solo” 1.003 milioni a stagione. E in Inghilterra i ricavi da gare (21%) e da sponsor (27%) insieme garantiscono l’altra metà dei ricavi. Nel modello tedesco, le tv incidono solo per il 29%, la fetta commerciale è del 42% e la biglietteria vale il 23%. In Spagna le entrate sono più bilanciate: 43% dalle tv, 26% dalle partite, 25% da sponsor e attività commerciali. L’incapacità di incrementare le altre voci del fatturato è il freno principale alla crescita del movimento. La Juventus, prima squadra italiana ad avere l’impianto di proprietà (seguita da Udinese e Sassuolo), dallo Stadium riceve solo il 16% dei ricavi. “Il punto debole – dice Dario Righetti, partner Deloitte – è la dipendenza dai diritti tv. All’estero hanno investito nella gestione degli stadi e del merchandising, creando un clima positivo che adesso permette alle leghe di rinegoziare contratti tv ancora più ricchi”. Laconico il commento dell’ad del Milan, Adriano Galliani: “Tra un anno l’ultima delle squadre inglesi prenderà dai diritti tv più di una grande italiana”. Costi e rischi Dice Marotta: «Se in un’azienda si produce di più spremendo il personale, nel calcio ogni crescita della produzione viene assorbita da premi e spese per i dipendenti». In Italia i costi del personale (calciatori e tesserati) arrivano al 71% dei ricavi, lasciando solo il 29% a copertura delle spese vive e dei costi finanziari: uno sbilanciamento che continua ad alimentare le spirale debitoria nella quale versano le squadre italiane. Ecco perché una fuga delle tv metterebbe a rischio l’intero sistema. Basterebbe anche una minore attenzione o un’asta al ribasso. Certo, l’ultima asta sui diritti tv che Infront, con furbizia e abilità, è riuscita gestire ottimizzando i ricavi tra Sky e Mediaset ha spostato il problema più in la di qualche anno. Ma i dubbi restano. Il Parma è sull’orlo del fallimento, schiacciato dai debiti e dagli scarsi incassi La Lega ha deliberato che da ora in poi le partite alle quali non si presenterà si considereranno vinte per 3 a 0 dagli avversari.
IL CALCIO ED IL BANCOMAT DEL CONSENSO.
Nuovo scandalo nel calcio: la Fondazione-bancomat. Creata nel 2008 per aiutare piccoli club o realtà sportive in difficoltà, verrebbe usata per elargire favori e gestire il consenso, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Un nuovo scandalo rischia di travolgere il calcio italiano. Riguarda la "Fondazione per la mutualità generale negli sport professionistici a squadre", un organismo chiamato ad aiutare l'altra faccia dello sport, quello lontano dai milioni degli sponsor, dai diritti tv e dagli stadi pieni. Secondo un'inchiesta di Repubblica questa Fondazione in realtà sarebbe una sorta di "bancomat" attraverso cui personaggi più o meno spregiudicati si comprerebbero il consenso dei piccoli club. Il meccanismo sarebbe stato svelato da Claudio Lotito nella famosa telefonata fatta al direttore sportivo dell'Ischia, Pino Iodice, finita poi sui giornali (perché registrata e divulgata dallo stesso Iodice). C'è un presidente di Lega Pro che è in grave crisi finanziaria? Nessun problema, un'anticipazione di cassa sui progetti della Fondazione e tutto si sistema. Ma cerchiamo di scoprire meglio il funzionamento di questo bancomat. Bisogna partire dalla Legge Melandri del 2008, che stabilisce che la Lega di Serie A devolva "una quota delle risorse economiche e finanziarie derivanti dalla commercializzazione dei diritti tv allo sviluppo dei settori giovanili delle società professionistiche, al sostegno degli investimenti per la sicurezza, anche infrastrutturale, degli impianti sportivi, e al finanziamento di almeno due progetti per anno finalizzati a sostenere discipline sportive diverse da quelle calcistiche. Insomma, i ricchi club di Serie A devono contribuire al funzionamento dello sport ad ogni livello. Una parte di questi soldi, destinati a una nobile causa, vanno a finire nelle casse della Fondazione, che li gestisce con autonomia. I progetti da sostenere le arrivano dalle singole società e associazioni sportive, più o meno piccole e in difficoltà, e queste segnalazioni dovrebbero arrivare dalle varie federazioni o leghe, anche per fare un'opera di filtro. Ciò che avviene, invece, è un po' diverso. Le valutazioni sarebbero fatte tenendo conto anche di criteri politici, con i soldi che vanno ad aiutare club o società a cui si vuole fare un piccolo (o grande) favore. E i progetti, si legge nell'inchiesta, non sarebbero neanche controllati. Il giochino poi viene fuori (vedasi parole di Lotito) grazie agli anticipi di cassa. Ma alla fine chi è che decide? Per saperlo bisogna vedere com'è composto il consiglio della Fondazione, quello che analizza i casi prende le decisioni. Composto da 12 persone, cinque (compreso il presidente) sono nominate dalla Serie A, uno dalla Serie B, 3 dalla Figc, uno dalla Fip, uno dalla Lega Basket e uno dal Coni. Il "bancomat" viene inizia ad operare nel 2013, lavora quindi da due stagioni. I primi soldi sono stati versati nel giugno 2013, anche se società e leghe (a eccezione della Serie B) non avevano ancora presentato alcun progetto. I soldi però ci sono e vengono distribuiti. Lo stesso avviene l'anno seguente, 73 milioni distribuiti. Repubblica scrive che "molti di quei progetti non sono mai nemmeno partiti. Ma siccome erano solo una scusa per prendere i soldi, sono stati ripresentati identici, quest'anno. Spesso senza nemmeno premurarsi di salvare le apparenze". La Lega Pro presenta ben sessanta progetti, uno per ogni società che rappresenta. Per ognuno viene richiesta la stessa cifra, contenuta nel preventivo spesa: 633.333,3 euro. Possibile che non ci sia una differenza, tra un progetto e l'altro, neanche di un euro? Possibile che quei progetti abbiano tutti, anche se diversi, lo stesso costo? Ma di quali progetti si tratta? Un po' di tutto: dall'acquisto di palloni (ben 140mila) ai lavori per un centro federale il cui progetto è stato fatto dalla società Limonta. La Fondazione viene definita come la "seconda gamba" del sistema che, di fatto, controlla il calcio italiano. La prima è Infront, la società che si occupa dei ricchissimi diritti tv.
Lo scandalo Fondazione, quel bancomat segreto usato per acquistare il consenso nel calcio. L'inchiesta. Milioni distribuiti a pioggia, soprattutto agli amici e alla faccia della legge Melandri. Ecco come funziona il meccanismo deviato della mutualità, evocato da Lotito nella telefonata con Iodice, scrive Marco Mensurati su “La Repubblica”. La chiamano Fondazione, ma in realtà è un bancomat, il grande bancomat del calcio italiano. Quello attraverso cui i "soliti noti" riescono a comprare il consenso dei presidenti delle squadre più piccole. Serve una manciata di voti in Lega Pro per salvare il presidente sull'orlo del burrone? E che problema c'è?, "famo un'anticipazione di cassa sui progetti della Fondazione" e il gioco è fatto, come ama dire Claudio Lotito (vedi telefonata con Pino Iodice). È l'ultimo scandalo del calcio italiano. O, meglio, è l'ingranaggio nascosto che completa il meccanismo di quell'unico sistema di potere, riassunto nella persona del presidente di Infront, Marco Bogarelli, che dal 2008 a oggi ha divorato il mondo del pallone, controllandone l'intera filiera. Il funzionamento di questo ingranaggio è molto più semplice di quanto il nome ministeriale e la regolamentazione burocratica lascino pensare. La Legge Melandri del 2008 stabilisce che la Lega di Serie A devolva "una quota delle risorse economiche e finanziarie derivanti dalla commercializzazione dei diritti tv allo sviluppo dei settori giovanili delle società professionistiche, al sostegno degli investimenti per la sicurezza, anche infrastrutturale, degli impianti sportivi, e al finanziamento di almeno due progetti per anno finalizzati a sostenere discipline sportive diverse da quelle calcistiche". Questi soldi, parecchie decine di milioni di euro l'anno, finiscono nella "Fondazione per la mutualità generale negli sport professionistici a squadre", e da questa vengono gestiti, in totale assenza di controllo. In teoria la Fondazione dovrebbe ricevere attraverso un "ente veicolo" (Lega B, Lega Pro, Lega Dilettanti, Federazione basket e Coni) i progetti delle singole società, valutarli, scegliere i più utili o i più importanti e poi finanziarli. In pratica, invece dei progetti, vengono valutati, ovviamente su base esclusivamente politica, i "veicoli" e cioè i presidenti delle leghe a cui fare un favore. Questi poi li spartiscono tra i club a seconda delle convenienze. Il tutto indipendentemente dai progetti (che non vengono mai controllati). Tutto ciò succede nel migliore dei casi. Perché capita frequentemente che il consiglio, saldamente nelle mani di Lotito e di quella che l'opposizione in Lega chiama la gang di Infront, faccia anticipi di cassa o "premi" progetti degli anni precedenti. Un elemento chiave della questione è infatti la composizione del consiglio, quello che poi decide tutto. Su 12 membri, 5, tra cui il presidente, li nomina la serie A, uno la serie B, 3 la Figc, uno la Fip, uno la Lega Basket, uno il Coni. Partita a singhiozzo (creata nel 2011 e insediatasi nel 2013) la macchina dei soldi funziona a pieno regime da due stagioni visto che i primi anni di gestione sono stati affidati ad accordi più o meno confessabili. La prima erogazione ufficiale è datata giugno 2013. Le società e le leghe (con la mirabile eccezione della Serie B) non erano ancora pronte e non presentarono alcun progetto. I soldi però arrivarono ugualmente. Il secondo anno, nel 2014, le Leghe attrezzarono una specie di "modulo di progetto", un documento Word da copiare e incollare. Anche in quel caso i soldi (73 milioni in due anni) vennero distribuiti senza colpo ferire. Molti di quei progetti non sono mai nemmeno partiti. Ma siccome erano solo una scusa per prendere i soldi, sono stati ripresentati identici, quest'anno. Spesso senza nemmeno premurarsi di salvare le apparenze. Del resto delle apparenze importa ben poco. Quello che conta è la cassa. E così succede che a volte si sfondi il muro del ridicolo. La Lega Pro di Mario Macalli ad esempio ha presentato sessanta progetti, uno per ogni società rappresentata. Sessanta progetti diversi che però in comune hanno, curiosamente solo il preventivo. Che, incredibilmente, è sempre identico, 33.333,3 euro. Ora, al di là dell'imbarazzo di chi dovrà compilare il bonifico con l'insidioso decimale periodico, risulta abbastanza evidente che quel numero non sia stato indicato in ragione del costo dei lavori previsti ma di una semplice, banale, spartizione. Che ha un suo indotto. Spulciando l'elenco dei progetti saltano fuori un po' di nomi e di numeri problematici. Come il caso di un centro federale da 539mila euro il cui preventivo è stato firmato dalla solita Limonta (la ditta famosa per la vicenda dei campi in erba sintetica) o come il caso dei 140mila palloni che la Lega Dilettanti vuole acquistare al costo di 2,2 milioni di euro dalla Molten, ditta che i più maliziosi tra gli osservatori indicano come molto vicina a Tavecchio. Vicinanza stabilita forse a causa di una polemica nata qualche anno fa quando la Lega Dilettanti di Tavecchio comunicò alle varie società la chiusura di un contratto di sponsorizzazione con la Molten che "al costo di 40 euro" (sic!) avrebbe fornito ben due palloni. Al di là dell'indotto, il vero punto è la logica che tiene insieme il tutto. La Fondazione è infatti la seconda gamba del sistema che in questo momento controlla il calcio italiano. La prima è Infront, la società vicinissima a Galliani e Lotito capace negli ultimi cinque anni di impadronirsi di tutte le leve del potere. Oggi è: 1) advisor della Lega di A per la vendita dei diritti tv, 2) advisor commerciale della Figc per la Nazionale di calcio, 3) titolare dei diritti di archivio del campionato italiano, 4) fornitrice di mezza serie A per conto della quale gestisce (in perdita) la pubblicità negli stadi e i rapporti commerciali. 5) producer televisivo delle partite. Da pochi giorni è anche ufficialmente partner della Gazzetta dello sport (Rcs era un competitor nella gara per i diritti della nazionale) nell'avventura di Gazzetta tv. Un potere enorme, come si vede, che però va saputo mantenere. Con la politica e cioè con il consenso degli elettori, che nel nostro sport sono i presidenti dei club. Per i big ci sono i contratti commerciali. Per tutto il resto, la Fondazione.
PAY TV: SPORT E PIRATERIA.
Dagli amici di Galliani al mitico Günter Netzer. Ecco chi c'è dietro la battaglia Mediaset-Sky.
Al vertice del business dei diritti della serie A il nipote di Blatter. Ma nel giro anche tanti manager italiani, come Marco Bogarelli, presidente della filiale tricolore con un passato alla Fininvest, e Riccardo Silva, ex Milan Channel, scrive Stefano Vergine su “L’Espresso”. A guardarlo adesso nelle foto ufficiali si fatica a riconoscerlo. Günter Netzer, il George Best di Germania, uno dei pochi calciatori tedeschi ad essere finito al Real Madrid dopo aver portato il suo Borussia Mönchengladbach sul tetto d'Europa, non ha più l'aria da vichingo ribelle con cui negli anni Settanta si era fatto conoscere nel mondo. Oggi è un signore distinto che siede nel consiglio direttivo della Infront, colosso mondiale dei diritti televisivi del calcio. Quartier generale a Zugo, cantone con uno dei più bassi livelli di tassazione della già generosa Svizzera, la Infront è diventata in pochi anni l'azienda leader mondiale nella compravendita dei diritti televisivi sulle partite di calcio. Sarà casuale, ma al vertice della società siede Philippe Blatter, cognome importante nel mondo del pallone. Lo zio Sepp è infatti dal 1998 a capo della Fifa, l'organizzazione che decide a chi affidare i diritti tv dei Mondiali, compreso quelli in corso in Brasile proprio in questi giorni. Una coincidenza che ha scatenato già più volte le critiche nei confronti del 78enne presidente dell'organizzazione del calcio. Come quando, tre anni fa, la Fifa appaltò proprio alla Infront la vendita dei diritti tv, in buona parte relativi ai mercati asiatici, delle partite dei mondiali del 2018 e del 2022. L'influenza della Infront è particolarmente forte in Italia. La sua importanza è riemersa proprio in questi giorni, mentre Sky e Mediaset si stanno dando battaglia senza esclusione di colpi per aggiudicarsi il diritto di trasmettere le partire dei prossimi tre campionati di calcio di serie A. Infront, ufficialmente advisor della Lega Calcio (che deve decidere a chi affidare l'appalto da 1,08 miliardi di euro in totale), è in realtà ben più che un consigliere. Di fatto, come “l'Espresso” aveva già raccontato, è la società che garantisce la sopravvivenza del campionato. In sostanza, compra e rivende i diritti delle partite di Serie A, pagandoli ancor prima di averli piazzati alle reti televisive. Una potenza di fuoco invidiabile, insomma. Peccato che non si possano conoscere i conti della società né gli azionisti, visto che la Svizzera non obbliga alla trasparenza finanziaria. Di certo, vista l'importanza della serie A per la Infront, non sembra casuale la presenza tra i suoi manager di parecchi nomi italiani. Il più noto è quello di Marco Bogarelli, presidente della filiale tricolore con un passato alla Fininvest. Stessi trascorsi per un altro personaggio chiave di questa storia: Riccardo Silva, nel 2001 nominato amministratore delegato di Milan Channel, il canale ufficiale della squadra della famiglia Berlusconi, da anni affidata alle cure del fedele Adriano Galliani, vice-presidente della Lega Calcio. L'ex manager di Infront, che dice di essere membro del Pd oltre che dell'esclusivo Yacht Club del Principato di Monaco, è oggi il titolare di MP & Silva, gruppo che vende all'estero, tra gli altri, i diritti tv della serie A. Anche Silva ha scelto il domicilio fiscale straniero per le sue scatole societarie. Una, la MP & Silva Holding SA, è basata in Lussemburgo. L'altra, la MP & Silva Ltd, si trova a Dublino, dove le tasse sono basse ma i bilanci pubblici. Emerge così che nell'anno fiscale 2012-2013 la società irlandese ha fatturato 200 milioni di euro, in buona parte frutto della compravendita dei diritti tv delle partite di Serie A, con un margine operativo lordo di 38 milioni. Non male anche il dividendo che il 44enne milanese con residenza a Londra si è staccato: un totale di 18,5 milioni di euro. Molto meno dei 67 milioni del 2012, ma non abbastanza per annullare le critiche che già l'anno scorso gli erano piovute addosso da alcune società calcistiche. La tesi è semplice. Visti i guadagni, è evidentemente troppo basso il prezzo a cui la Lega cede i diritti tv. Troppo bravo Silva a rivenderli o troppo generosa la Lega Calcio?
Soldi, lingua, tifo: così la padrona tv ha cambiato il calcio per sempre. Dal Mundialito comprato da Berlusconi nell’81 all’orgia di partite in diretta di oggi. Conta solo venderle, come spiegava Lotito: “Carpi e Frosinone in A? E chi ci dà i soldi?”, scrive Maurizio Crosetti su “La Repubblica”. L'evoluzione narrativa e la rivoluzione economica imposte al calcio dalle tivù a pagamento sono mirabilmente sintetizzate da Claudio Lotito, presidente laziale, abile imprenditore, raffinato umanista e apprezzato latinista, quando nell'ormai famosa telefonata registrata egli dice: "Se ci abbiamo Latina, Carpi, Frosinone, chi li compra i diritti? Se mi porti squadre che non valgono un cazzo, tra due o tre anni non ci abbiamo più una lira". Che poi Carpi e Frosinone siano davvero salite in A dimostra che la vita ha spesso più fantasia degli uomini, e comunque adesso quei diritti televisivi bisogna pur venderli, e farli valere. Come, lo decideranno Sky e Mediaset Premium, e molto in seconda battuta la vecchia Rai. Anche se è proprio da lei e dal suo paleolitico televisivo che bisogna partire, per capire. Anzi, dall'intuizione di Carlo Balilla Bacarelli, padre di tutti i telecronisti, il quale nel pomeriggio del 5 febbraio 1950 commentò la prima partita di calcio trasmessa in diretta in Italia, ovvero Juventus-Milan 1-7, anche se solo per la zona di Torino e dintorni: troppo debole il segnale emesso dall'unico trasmettitore dell'Eremo, e le telecamere vennero portate dalle gru dei vigili del fuoco. "C'era una gran nebbia, vedevo solo figure vaghe e mi aiutò il monitor. Compresi che l'occhio elettronico è assai più sensibile di quello umano". Da allora e per sempre, Carlo Balilla aggiunse un accento a una congiunzione e nulla fu più come prima. Non "la televisione e il calcio" ma "la televisione èil calcio". Da allora, ogni meccanismo è stato smontato e ricomposto, il linguaggio e il mercato specialmente. Ma è l'avvento della pay per view a segnare l'antropologia del pallone. Se fino al 1981 (anno in cui Berlusconi portò il Mundialito su Canale 5) neppure esistevano i diritti tv (quell'anno venne siglato il primo contratto tra Lega Calcio e Rai, per 3 miliardi di lire), oggi la palla nello schermo vale mille milioni di euro per il campionato e 700 per la Champions League. Senza il denaro di Sky e Mediaset, il calcio italiano semplicemente non esisterebbe, non così, e mai più esisterà altrimenti che così. Da quando c'è Sky Italia (31 luglio 2003, satellite) e da quando è nata Mediaset Premium (20 gennaio 2005, digitale terrestre), il calcio è diventato un palinsesto, uno spettacolo pop, un varietà tecnologico, un racconto su più piani narrativi dal trash all'epico. Si gioca, cioè si guarda, tutti i giorni. Attorno e dentro le dirette e le cronache, approfondimenti e retroscena, veline e showman, opinionisti e clown. La partita è sezionata, scannerizzata, replicata in ogni posizione, in una sorta di kamasutra visivo che alimenta se stesso. Da quando esiste Sky, solo tre squadre hanno vinto lo scudetto: Juventus, Milan e Inter. E neppure la revisione dei criteri di mutualità o l'eventuale riforma dei campionati (assomiglia a quella della scuola, sempre promessa e mai realizzata) daranno la possibilità agli alternativi di diventare campioni d'Italia come accadde al Verona nell'85 e alla Sampdoria nel '91, quando l'IperCalcio delle tv ancora non esisteva, Elkjaer e Vialli invece sì. La dinamica degli ascolti, dei bacini d'utenza e dello share ha prodotto l'estrema mutazione genetica del pubblico: non più e non solo tifosi ma clienti. Gli stadi si sono svuotati e rimpiccioliti, bastano e avanzano arene da 40 mila posti, tanto la platea pagante sta in salotto. L'abbonamento a Sky costa circa 34 euro al mese (4,7 milioni di italiani lo hanno scelto), quello a Mediaset Premium 26 euro (più o meno per 1,7 milioni di abbonati) e pensiamo che neppure uno di loro rimpianga i bei tempi di un'unica partita trasmessa in differita la domenica sera in bianco e nero (e soltanto 45'), oppure le radiocronache a transistor che cominciavano dopo l'intervallo. C'era più poesia, ma oggi ci si diverte il triplo, anche se Novantesimo Minuto resta un'insuperata forma teatrale. Poi, certo, bisogna fare i conti con i conti di Lotito, con lo strapotere (quasi un regime, ormai) che la bizzarra classe dirigente capace di impossessarsi di Figc e Lega esercita quasi senza opposizione, spostando in assenza di logica cifre, partite e persone, come ha appena dimostrato l'atto di forza del presidente laziale per il derby romano, lunedì pomeriggio: senza alcuna ragione che non fosse la propria. Concetti vetusti e astratti come contemporaneità, pari condizioni e uguali diritti sono caduti per sempre, mentre s'ode sempre più forte il refrain di una sigla, s'avanza la gamba lunga della conduttrice e la partita comincia ben prima che l'arbitro fischi. Il calcio un po' sfinisce, ma non finisce mai. E se vi sembra di perdervi dentro una strana nebbia, fate come Carlo Balilla: fissate il monitor, lì dentro c'è tutto.
Diritti tv: perquisizioni in Lega Calcio, Sky e Mediaset. Ipotesi di accordo partita dalle parole di Lotito. Le Fiamme Gialle indagano con l'Antitrust sull'esito finale della vendita dei diritti televisivi per le stagioni calcistiche 2015-2018: i due operatori raggiunsero un accordo che manteneva lo status quo, mentre la Serie A rinunciò a milioni di potenziali guadagni. Il via libera all'accordo, però, arrivo direttamento dall'Autorità per la concorrenza. Mediaset: avevamo le autorizzazioni di Agcom e Antitrust, scrive Giuliano Belestreri su “La Repubblica”. "Io, di bilanci, me ne intendo, sono quello che ha fatto prendere 1,2 miliardi alla Lega di A, ho fatto parlare Murdoch e Berlusconi". Sarebbero state le parole del presidente della Lazio, Claudio Lotito, a spingere l'Antitrust ad aprire un'indagine sull'assegnazione dei diritti tv della Serie A. Nel mirino dell'authority sono finite Sky, Mediaset e la Lega Calcio, oggetto delle ispezioni della Guardia di Finanza. Al centro dell'inchiesta, l'esito finale della vendita dei diritti tv per il triennio 2015-2018, assegnati a giugno 2014: il nodo riguarda l'accordo tra Sky e Mediaset - promosso da Infront - per mantenere lo status quo, impedendo alla tv di Murdoch di aggiudicarsi i lotti più pregiati dell'asta. Un'intesa avallata dalla Lega che pur di non annullare il bando si accontentò di ricavi certi, ma probabilmente inferiori. E, nonostante, le minacce di ricorsi da parte di Eurosport. Insomma a vincere l'asta non furono le offerte migliori, ma piuttosto gli interessi in gioco, alla faccia di ogni regola. Sky - che come emerge dal documento dell'Antitrust si era aggiudicata i lotti migliori - non poteva aspettare i tempi di una causa civile perché era in dirittura d'arrivo la fusione con Sky Germania e BSkyb in Inghilterra, mentre Mediaset, dopo aver ottenuto l'esclusiva per la Champions League 2015-18, aveva bisogno del "meglio della Serie A" per attirare quel partner industriale per la pay tv che cerca da tempo. In Lega Calcio lo scontro fu duro soprattutto tra Lazio e Juventus: da un lato perché Claudio Lotito - come dimostrano le sue parole - è il gran manovratore del Palazzo, forte dei legami con Galliani si dice controlli 17-18 voti (su 20), mentre Agnelli sosteneva la massimizzazione dei profitti (senza dimenticare che John Elkann siede anche nel board della NewsCorp di Rupert Murdoch) e il rispetto delle regole. Pur senza aver mai chiuso all'ipotesi di un'intesa nell'interesse di tutti. A spostare il peso della bilancia fu, soprattutto, Infront, l'advisor della Lega Calcio che avallò le tesi di Mediaset sconfessando il bando preparato: "Sky ha offerto la cifra più alta ma non può vincere sia sul satellite che sul digitale" dicevano lo scorso anno gli ambienti vicini alla Lega controllata - di fatto - dalla cordata del Milan di Galliani. Nel suo ruolo di venditore, la Confindustria del pallone si riservò, quindi, il diritto di scegliere la soluzione preferita, a prescindere dalle regole del gioco. Di più: si decise di aggiungere ex post una clausola non scritta al fine di vietare l'assegnazione allo stesso soggetto dei lotti più pregiati: "Vogliamo massimizzare il ritorno, senza creare un monopolio. Altrimenti - dicevano gli advisor - avremmo venduto per esclusiva e non per piattaforma". Un teorema che l'Antitrust smonta pezzo per pezzo definendo come mercato rilevante non solo i diritti di trasmissione della Serie A, ma anche la Champions League e l'Europa League: se Sky si fosse aggiudicata l'intera serie A, quindi, non si sarebbe potuto parlare di monopolio, perché a Mediaset sarebbe rimasta la Champions. Insomma, dalla Lega arrivò un assist al Biscione uscito sconfitto dall'apertura delle buste (nel frattempo Infront è passata ai cinesi di Wanda, ma Marco Bogarelli è rimasto il deus ex machina del calcio italiano). Per capire di cosa si tratta bisogna fare un passo indietro, tornando all'estate dello scorso anno, quando dopo una battaglia lunga settimane Sky si era aggiudicata l'intero campionato sul satellite e Mediaset le partite delle migliori 8 squadre di serie A sul digitale terrestre (pari all'86% dello share). Un accordo definito al ribasso per tutti: a cominciare dalla Lega che per il triennio incasserà 945 milioni di euro (572 dalla piattaforma satellitare di Rupert Murdoch, gli altri dal Biscione) anziché i 1.100 milioni offerti dai vari concorrenti e i 954 milioni della base d'asta. Anche per questo, già un anno fa, gli addetti ai lavori si auguravano che nessuno degli attori in gara usciti perdenti dall'asta, presentasse ricorso. Sky, infatti, si era aggiudicata il lotto A - i diritti delle migliori 8 squadre per il satellite - per il quale aveva effettivamente presentato l'offerta più alta. La pay tv satellitare, però, ottenne anche il pacchetto D - tutte le altre partite in esclusiva su satellite e digitale terrestre - nonostante la sua offerta fosse risultata inferiore a quella di Mediaset, Fox e più alta di soli 10 milioni rispetto a quella di Eurosport. Peggio: il lotto D arrivo a Sky attraverso Mediaset, dopo che l'Agcom, con l'Antitrust stessa e in accordo con la Lega, diede il via libera alla sub-licenza. Di più: l'offerta del Biscione era stata sì la più alta, ma solo perché vincolata all'aggiudicazione di uno dei due lotti A o B, senza che questa eventualità fosse, peraltro, permessa dal bando di gara. Anche per questo il presidente della Serie A, Maurizio Beretta definì la decisione "nell'interesse del consumatore". Bizzarro anche il modo con cui Mediaset si aggiudicò il lotto B - i diritti delle migliori 8 squadre, ma sul digitale terrestre - nonostante un'offerta economica inferiore a quelle di Sky e Fox. Strana è perfino l'istruttoria aperta oggi dall'Antitrust perché fu proprio l'autorità per la concorrenza a dare il via libera, lo scorso 17 luglio, allo scambio di diritti tra Sky e Mediaset. Dopo il via libera della Lega Calcio, il nullaosta dell'Agcom, l'ultima parola spettava infatti al garante che deliberò di "concedere la deroga al divieto di sublicenza con riguardo al pacchetto D" dei diritti tv. In sostanza l'Autorità mise il suo sigillo all'accordo tra le parti. Di più: il 23 giugno scorso Sky diffidò la Lega ad assegnare i pacchetti in maniera diversa dal risultato dell'apertura della buste. La diffida inviata al presidente della Serie A, Maurizio Beretta, fu recapitata per conoscenza anche all'Antitrust. Insomma l'authority era a conoscenza di tutto l'iter procedurale da quasi un anno. Grazie all'accordo raggiunto, Sky con soli 8 milioni in più rispetto all'ultimo contratto si aggiudicò 132 partite in esclusiva (78 in più), rinunciando, però, ai piani di sbarco sul digitale per cui aveva preparato il decoder unico. Mediaset, invece, spende 373 milioni contro gli attuali 277 per trasmettere meno partite, ma garantendosi - con la Champions League - la miglior offerta di calcio in Italia ed evitando l'arrivo di Murdoch sul digitale. All'apertura delle buste - il 5 giugno 2014 - Sky aveva presentato le offerte più alte per i pacchetti A e B, quelli con le migliori squadre su satellite e digitale terrestre, mettendo sul piatto 779 milioni di euro. Il Biscione, invece, aveva depositato un'offerta più bassa per entrambi i lotti, puntando forte sul pacchetto D, quello con i diritti per le "altre" 12 squadre giocando d'astuzia: aveva vincolato la proposta da 301 milioni (121 più di Fox e 51 più di Sky) all'assegnazione anche di A o B. Un vincolo non previsto dal banda di gara. Nelle tesi dell'Antitrust, invece, A e B sarebbero dovute andare a Sky, mentre il lotto D sarebbe dovuto tornare sul mercato. "Mediaset è assolutamente convinta che l'assegnazione dei diritti tv sia perfettamente regolare". Lo comunica la società in una nota "Mediaset ricorda che gli accordi definitivi hanno ricevuto il benestare sia di Agcom sia di Antitrust in conformità con la legge Melandri", sottolinea il gruppo. Mediaset ricostruisce anche i "fatti precedenti all'accordo finale che ha garantito la visione delle partite di serie A a tutti i telespettatori". Il gruppo tv ricorda che allora "nessun nuovo entrante ha presentato offerte superiori alla base d'asta di ciascun pacchetto e quindi non è possibile supporre sia stato discriminato". Inoltre "la legge Melandri che ha introdotto la vendita centralizzata dei diritti tv impedisce la formazione di pacchetti non equilibrati e di conseguenza l'assegnazione dei pacchetti 'A'+'B' a un unico operatore, eventualità che di fatto avrebbe annullato ogni forma di concorrenze nel mercato della pay tv".
Il vero grande fratello che controlla tutto. Ora il sistema Infront finisce nel mirino, scrivono Ettore Livini e Marco Mensurati su “La Repubblica” . L'ingresso della guardia di finanza nella sede di Infront Italia potrebbe rivelarsi uno snodo cruciale nella storia del calcio italiano. Per la prima volta, infatti, viene acceso un faro ufficiale sulle attività, sui protagonisti e sugli interessi dell'azienda che, partendo proprio dalla gestione dei diritti televisivi, negli ultimi cinque anni ha assunto il controllo assoluto del mondo del pallone, in ogni suo aspetto. Non è solamente simbolico che a mandare i finanzieri ad ispezionare gli uffici di Infront sia stata l'autorità garante per il mercato. Entrata in Lega calcio nel 2008 su presentazione di Antonio Matarrese, proprio con l'incarico di gestire l'asta per i diritti tv, vale a dire l'unica fonte di approvvigionamento del sistema, la società di Marco Bogarelli - oggi branch italiano di una multinazionale controllata dalla cinese Wanda Group - ha lentamente divorato ogni cosa intorno a sé, finendo con l'occupare ogni minimo spazio occupabile e facendo piazza pulita di ogni forma di concorrenza. Dalla consulenza sulla cessione dei diritti tv, Infront è passata direttamente al controllo delle squadre di calcio. Controllo esercitato in un primo momento in maniera indiretta, vale a dire attraverso l'acquisto a prezzi fuori mercato dei diritti commerciali delle varie società che quei diritti non riuscivano in alcun modo a vendere (o comunque non ai prezzi proposti da Infront). E in un secondo tempo in maniera diretta, con l'intervento finanziario in cordate create per l'acquisto dei titoli sportivi di società in crisi, come nel caso del Bari, del Brescia e del Parma. Un giochino dispendioso: il bilancio del 2014 racconta che nonostante un aumento del fatturato del 4 per cento, la redditività dell'azienda si è contratta dagli 11,6 milioni del bilancio precedente a 3,5. Ma si tratta di un costo preventivato. Ogni squadra sotto controllo, un presidente arruolato. Ogni presidente, un voto in Lega calcio. Dove si decide tutto quello che interessa a Bogarelli, e dove ormai non si sposta una pianta da un ufficio ad un altro senza che Claudio Lotito - l'uomo scelto, insieme al vecchio amico Adriano Galliani, per gestire gli affari in Lega - non sia d'accordo. Per capirsi, ad oggi, a parte le eccezioni di Juventus e Roma, le perplessità di Napoli e Fiorentina, le restanti sedici squadre di Serie A sono tutte ascrivibili al "partito Infront". Ma non basta, perché la "vocazione dell'azienda - come dice chi ne conosce bene il management - è totalitaria". Non è un caso che, con una campagna acquisti d'impronta bulimica, Infront abbia preso tutto quello che c'era da prendere: i diritti commerciali della nazionale di calcio (assegnati subito dopo l'ascesa al potere in Figc del ticket Tavecchio-Lotito), la partnership con la Gazzetta dello Sport nell'impresa Gazzetta tv, gli archivi di gran parte delle squadre di calcio. Una cavalcata inarrestabile che prosegue in tutte le direzioni. Con l'ingresso nel business dei nuovi padroni cinesi, leader mondiali nell'entertainment, nel mirino di Bogarelli - per sua stessa ammissione - è entrato il super business degli stadi e le relative attività commerciali. "E' la vocazione naturale di Wanda Group - disse - . Può succedere con il Milan, con la Fiorentina, con il Bologna, con tutti. Ad esempio, stiamo parlando con l'Udinese e abbiamo parlato con il presidente dell'Inter Erick Thohir e il suo management". In attesa di tuffarsi in un mare di cemento, Infront sta però pensando a consolidare il controllo sul marketing delle società di Serie A e B, tanto importante per tenere in mano le redini del sistema. L'acquisto di GSport - società con 34 milioni di ricavi che raccoglieva pubblicità per Fiorentina, Cagliari, Cesena, Parma, Pescara, Livorno, Brescia, Catania (e ha pure un accordo con la federazione rugby e gestisce sei squadre di massima serie di volley e sette di basket) - è cosa praticamente fatta. "Ci stiamo annusando con Infront ma formalmente niente è ancora concluso", dice il numero uno del gruppo Alessandro Giacomini. GSport, nei piani di Bogarelli, andrebbe ad affiancare un altro satellite un po' misterioso ma potentissimo (nonché crocevia dei soliti conflitti di interessi) della sua galassia: la Sport09, sede sociale allo stesso indirizzo di Infront ma controllata formalmente da un ex dirigente Publitalia (anche Bogarelli ha la stessa provenienza) e nata da uno spin off della concessionaria Mediaset. Sport09 ammette nel suo sito di "collaborare con Infront Italia per la commercializzazione dei diritti di marketing acquisiti con le squadre di A (Milan, Inter, Lazio, Udinese, Sampdoria e Palermo), business cui aggiunge, nell'eterno triangolo con Galliani e il Biscione, la vendita delle piattaforme televisive Mediaset premium, Canale 5, Italia 1 e Rete 4. L'accordo con GSport blinderebbe ulteriormente il controllo della Lega, portando altri voti preziosi nel pacchetto Infront. Potrebbero servire subito, per dire, per far passare una proposta che Bogarelli avrebbe fatto all'ultima riunione della confindustria del calcio: concentrare nelle mani di un unico gestore - i bookmakers guarda caso danno per favorita la Infront - la regia delle partite di calcio. E l'immagine, si sa, è potere. Potere per conquistare potere per conquistare potere. Per fare soldi.
Gli imbattibili streaming illegali del calcio, scrive “Il Post”. Sono ovunque, per quanto i network gli facciano la guerra, e il loro successo è legato alla natura stessa del tifo: per contrastarli non bastano le azioni poliziesche, scrive l'Atlantic. Trovare online un link che permetta di vedere una partita di calcio in streaming è facilissimo: spesso basta semplicemente cercare su Google oppure andare a colpo sicuro su uno dei quattro o cinque siti ormai famosissimi che pubblicano ogni giorno i link – link di altri siti, e questo è uno dei motivi per cui non possono essere chiusi – degli streaming. Il problema è che queste dirette in streaming sono quasi sempre illegali, e questo crea una situazione paradossale: i network televisivi pagano moltissimi soldi per trasmettere le partite in esclusiva e quei soldi sono utilizzati dalle squadre per comprare buoni giocatori e in generale alzare la qualità media del gioco e il divertimento; e più un evento sportivo è divertente e spettacolare, più le persone cercheranno di vederlo illegalmente in streaming. La Serie A, per esempio, quest’anno ha guadagnato 945 milioni di euro dalla vendita dei diritti a Sky e Mediaset Premium per la trasmissione delle partite di calcio. La Premier League l’anno scorso ha incassato l’equivalente di 3 miliardi di euro. Per il momento la strategia dei network per contenere gli streaming illegali si articola in due modi. Il primo è offrire un prodotto di sempre più alto livello qualitativo, a cominciare dalla definizione delle immagini. Il secondo è battere internet palmo a palmo, far rimuovere i contenuti illegali e far chiudere i siti che li diffondono. Il problema è che la legge non è del tutto chiara. Inoltre ci sono un sacco di zone grigie ed è impossibile agire così velocemente da impedire che uno streaming di una partita resti online il tempo che serve: cioè il tempo di una partita di calcio. In Italia nel 2013 un gip aveva stabilito che è illegale non solo trasmettere eventi sportivi in streaming se non si possiedono i diritti (e fin qui) ma anche che è illegale linkare i siti che trasmettono eventi sportivi in streaming senza averne i diritti. Qualche tempo dopo una sentenza impedì al Post addirittura di citare – citare e non linkare – in un articolo giornalistico sul tema i nomi di alcuni dei siti più famosi al mondo che raccolgono i link alle trasmissioni di eventi sportivi in streaming. Altrove la legge applica qualche distinzione in più e di fatto è risultato fino a questo momento impossibile chiudere quei tre o quattro siti che tutti gli appassionati di calcio conoscono e che offrono quotidianamente decine e decine di link dove trovare le trasmissioni degli eventi sportivi in streaming: perché non sono loro a trasmetterle direttamente, bensì altri siti che loro linkano. L’Atlantic racconta per esempio la storia di Guilherme Neto, dal Portogallo, che ha messo online nel 2010 uno dei più popolari siti di streaming online. Il sito di Neto non trasmette le partite ma linka i migliori siti dove guardare le partite. La sua pagina Facebook ha oltre 3,5 milioni di iscritti. Dice Neto: «Non tutti hanno i mezzi per pagare tra i 35 e gli 80 euro di pacchetti televisivi per vedere la loro squadra del cuore giocare sei, sette volte al mese. I prezzi ovviamente variano da paese a paese, ma per milioni di persone sono comunque troppo alti». Neto è convinto di non essere perseguibile poiché il suo sito non contiene direttamente lo streaming: lui fornisce il prodotto al pubblico ma non lo “ruba”, lo mette solo a disposizione. «Onestamente non ci vedo nulla di illegale, tutti gli streaming che indichiamo sono aperti al pubblico e si possono trovare comunque con tutti i motori di ricerca». Per quanto sia facilissimo trovare online un sito che trasmetta una partita di calcio in streaming, non è molto comodo né rilassante guardare così una partita. Intanto la qualità video non è sempre buona e capita che lo streaming si blocchi, specie con connessioni non velocissime. Inoltre le pagine che ospitano questi streaming sono poco affidabili, lente e stracolme di pop-up pubblicitari e trappole da clic. Questa è una classica pagina da cui poter vedere una partita in streaming su uno di questi siti. La pagina è piena di annunci e pop-up che confondono e si aprono da soli. Devi aspettare 15 secondi che si chiuda un annuncio, poi devi aspettare altri 15, se clicchi sulla X in realtà si apre un altro pop-up e forse ti prendi anche un malware sul computer. Queste pagine sono fatte così perché questo è il modo con cui quelli che forniscono lo streaming illegale delle partite ci guadagnano dei soldi. Neto spiega però che non sono poi così tanti i soldi guadagnati da chi fornisce questo servizio: «Alla fine molti streamers non guadagnano molti soldi, giusto abbastanza per andare avanti». Un’altra strada intrapresa dai network per contrastare gli streaming online delle partite è offrirli legalmente. Sia Sky che Mediaset oggi offrono tutti i loro contenuti gratis in streaming ma solo ai loro abbonati; chi vuole vedere una sola partita non può farlo sempre e quando è possibile deve pagare fino a 10 euro. Lo stesso fanno i grandi network internazionali. Ma anche gli streaming legali hanno alcuni dei problemi degli streaming illegali: la qualità video non impeccabile, il ritardo rispetto al segnale televisivo, il segnale che salta. Oggi c’è un altro problema in più che riguarda i canali sportivi: dopo la partita molti tifosi cercano e diffondono sui social network i video dei gol e delle azioni più belle della partita. Il video di un gol si può trovare online dopo pochissimi minuti dalla marcatura: ultimamente soprattutto su Vine, un’app per smartphone creata da Twitter che permette di girare video che possono durare al massimo sei secondi e diffonderli sui social network. Durante i Mondiali in Brasile c’erano video di Vine ovunque. La qualità dei Vine è ancora più bassa di quella degli streaming: si tratta di video ripresi direttamente dalla tv, che durano pochissimo e spesso hanno rumori o orribili colonne sonore in sottofondo. Eppure circolano moltissimo: sono in questo momento il modo più rapido ed efficace per cercare e guardare un gol online. Lo stesso avviene da qualche tempo con i file GIF, che sono anche un po’ più complicati da trovare e rimuovere. Quello delle immagini diffuse illecitamente su Vine non è un problema che riguarda solamente i tifosi: anche alcuni calciatori e società hanno caricato video girati all’interno dello spogliatoio o durante il riscaldamento precedente alle partite, contenuti che in Italia sono riservati a Sky. La Lega della Serie A ha quindi comunicato a settembre ai club la proibizione di pubblicare contenuti di questo tipo. Questo video, per esempio, pubblicato dall’account ufficiale della Roma alla prima giornata di campionato, non potrebbe più essere caricato secondo le nuove regole della Lega. Dan Johnson è il direttore della comunicazione della Premier League, il più importante campionato di calcio inglese nonché probabilmente il più bello e incerto al mondo. Johnson ha spiegato all’Atlantic: «So che può sembrare che vogliamo togliere il divertimento ai tifosi, ma dobbiamo proteggere la nostra proprietà intellettuale. La Premier League vende ai canali tv anche le clip delle azioni più belle, che fanno parte di un pacchetto per cui le emittenti pagano molti soldi». In Spagna, dove giocano i due considerati oggi i più forti al mondo (Lionel Messi e Cristiano Ronaldo), è partita una campagna contro gli streaming illegali –”#antipiratería“ – pubblicizzata da un video in cui si vedono dei tifosi che entrano in scivolata, ostacolano o picchiano i giocatori in campo: un modo per far capire alla gente il “danno” che la pirateria causa al calcio, indebolendo i network televisivi che versano così tanti soldi alle squadre di calcio. «La qualità, il successo e la popolarità della Premier League – ma si può parlare ugualmente di tutti gli altri campionati – sono costruiti attorno a un circolo di investimenti. I calciatori di alto livello giocano in stadi pieni, attraggono l’interesse del mondo e quindi tanti investimenti. Tutto quello che mette a rischio questo modello, come il furto della proprietà intellettuale, potrebbe in fin dei conti rendere meno attraente la competizione», ha detto Johnson, spiegando perché secondo lui condividere il Vine di un gol straordinario potrebbe contribuire a danneggiare la Premier League e in ultima istanza avere meno gol straordinari. Il problema è che per ogni sito chiuso ne nascono due; per ogni Vine rimosso ne vengono caricati tre. La lotta alla pirateria delle immagini degli eventi sportivi può sembrare simile a quella contro la diffusione illecita di musica e film online, scrive l’Atlantic, ma in realtà si tratta di fenomeni molto diversi: innanzitutto perché una partita di calcio in sé non è un’opera intellettuale, ma soprattutto perché si tratta di un fenomeno in qualche modo intrinseco alla cultura dello sport. Il calcio è un prodotto globale: spesso si vedono immagini di centinaia o migliaia di persone che guardano le partite intorno a un maxischermo, anche in paesi molto lontani dal reale svolgimento della gara, tutte insieme con un solo schermo. I tifosi delle squadre più famose non sono soltanto nel paese stesso della squadra ma si trovano anche in altri continenti e ogni paese ha la sua giurisdizione, cosa che rende molto complicato andare a caccia dei contenuti illeciti. Non è chiaro comunque quanto gli streaming illegali danneggino i profitti di un campionato. Quello che è certo, scrive l’Atlantic, è che molti tifosi non guardano le partite di calcio solamente in modo illegale. Spesso capita in occasioni isolate, perché sono in ufficio e non casa dove hanno il loro decoder, oppure perché la partita che vogliono vedere non è trasmessa dal network a cui sono abbonati. Spesso capita che siano persone abbonate legalmente a un network che trasmette le partite a filmare un gol dalla propria tv e diffonderlo su Vine, per condividerlo con i propri amici. E quelle stesse persone che guardano le partite in streaming vanno comunque allo stadio di tanto in tanto, o comprano le costose magliette ufficiali della squadra. In alcuni casi lo streaming può quasi essere un vantaggio: quest’estate Real Madrid e Manchester United hanno giocato un’amichevole in uno stadio in Michigan, con il pubblico più numeroso di sempre. Molte di quelle persone hanno probabilmente cominciato a conoscere le squadre e i giocatori – per cui hanno pagato il biglietto – tramite gli streaming illegali. Senza quella esposizione online si sarebbero presentate così tante persone a vedere una partita amichevole? L’Atlantic conclude che gli organizzatori dei campionati di calcio dovrebbero provare a prendere esempio da quello che sta succedendo nelle altre industrie alle prese col problema della pirateria. Netflix era un servizio di film a noleggio: ora è diventata di fatto una pay tv. Uno studio del 2012 ha dimostrato che il download illegale di musica è diminuito dopo l’introduzione di servizi a pagamento a un costo ragionevole, come Spotify. Aumentare la facilità di accesso ai contenuti legali, abbattere i costi che devono accollarsi gli utenti, arricchire la loro offerta con contenuti che è impossibile trovare altrove. Christopher Harris, fondatore di worldsoccertalk.com, un sito dedicato a tutti i maggiori campionati di calcio, ha spiegato come secondo lui si potrebbe risolvere il problema, ed è una soluzione piuttosto semplice: «Di questo passo l’abitudine a guardare le partite online continuerà a crescere, soprattutto per i giovani. Quelli che possiedono i diritti per il campionato hanno il vantaggio di avere un accesso maggiore alle squadre e ai giocatori, che va oltre ai 90 minuti in cui scendono in campo campo. Dovrebbero sfruttarlo per aumentare l’offerta dei loro streaming legali, con contenuti che i siti pirata non possono avere».
Il sequestro non ferma il calcio pirata alla tv, scrive Gabriele De Palma su “Il Corriere della Sera”. Lo streaming degli eventi sportivi continua indisturbato. Quando martedì il Corriere.it ha diffuso la notizia del sequestro preventivo di dieci piattaforme illegali che rilanciavano il segnale – criptato – delle tv sportive a pagamento mi sono preoccupato. Non per me, io di solito queste piattaforme non le frequento e lo sport in tv non mi esalta, ma sapevo che alcuni amici avrebbero messo il lutto al braccio nell'apprendere i termini del provvedimento del procuratore aggiunto di Milano che ha accettato la richiesta di Rti-Mediaset. Ma gli amici servono nei momenti del bisogno e così ho subito pensato di rassicurarli: non sono un tecnico ma ho abbastanza esperienza di Web da sapere che oscurare la Rete, anche in piccola parte, è quasi impossibile. Confidavo sul fatto che sequestrata una piattaforma ne sarebbe spuntata subito un'altra. Così ieri notte, insieme a uno degli amici «pirati» che di fare l'abbonamento alle pay-tv non ha voglia (e nemmeno i soldi a dire il vero) ma è un vero sport-addicted, ho provato a testare la bontà delle mie conoscenze (ripeto non tecniche) e quella del provvedimento di sequestro. Mentre stavamo terminando la parca cena l'amico accende la tv per vedere i quarti di Coppa Italia Inter – Bologna. Ma anziché sulla Rai (dove la partita è in chiaro e si vede benissimo), e solo per motivi sperimentali, proviamo a collegarci tramite una dei più popolari siti che indicizzano le piattaforme che offrono le partite in diretta. Fare nomi è scortese, per intenderci quella piattaforma il cui logo è un celebre ex-arbitro italiano che sventola un cartellino rosso. Ci sintonizziamo all'ottavo minuto del primo tempo su una telecronaca in spagnolo dell'incontro diffusa – suppongo senza riconoscerne i diritti – da Masdesportv (il nome è camuffato, come lo saranno tutti quelli delle piattaforme citate in seguito). La qualità del segnale è buona, abbastanza da apprezzare le espressioni sui volti dei calciatori e per vedere il gran gol di Guarin a fine primo tempo. Dopo il gol ci trasferiamo su un'altra piattaforma (Fuffo Stream) che rilancia il segnale Rai e anche in questo caso nessun problema a vedere il match. All'inizio del secondo tempo decidiamo di dare un'occhiata a quel che succede nella Coppa del Re spagnola: Real Madrid-Valencia. Questa volta il commento è in arabo e si distinguono solo i nomi dei giocatori, motivo per cui azzeriamo il volume. Finalmente al quinto minuto del secondo tempo lo schermo si fa nero e, penso, si vede che il sequestro è avvenuto proprio adesso. Ma invece è solo un appannamento della connessione e il segnale si riprende in pochi secondi. Il mio amico mi avverte che di solito succede che durante la diretta le piattaforme vengano criptate, frustrando l'esperienza dello spettatore via web e allora riproviamo a sintonizzarci su Inter-Bologna. Tutto a posto, si vede come prima e per di più la partita è godibilissima (finirà 3 a 2 per l'Inter con gol all'ultimo minuto dei supplementari). A quel punto avrei anche esaurito le energie e la voglia di vedere altre partite è sottozero, ma l'amico è un fanatico e vuole andare avanti fino a quando vengono trasmesse le partite del basket Nba. Quindi bisogna tirare fino alle 2 del mattino quando inizierà Houston Rockets-Los Angeles Clippers. Che fare nell'attesa? Già che ci siamo e per non far scorrere via liscia la serata come se il sequestro preventivo non avesse alcun effetto, proviamo con altre piattaforme e altre partite. Il menu offre tra i piatti più succulenti Paraguay-Cile under 20. Commento in spagnolo, piattaforma Iustream e tutto tranquillo. Tranquillo dalla nostra parte dello schermo, in campo invece «gioco maschio» come avrebbe detto 30 anni fa Marcello Giannini da Firenze. Partita bellissima e anche qui 3 a 2 con gol decisivo segnato all'ultimo minuto. La telecronaca in spagnolo (l'emittente piratata in questo caso era una pay-tv colombiana) adesso non solo non infastidisce ma anzi arricchisce l'esperienza, anche perché il cronista è di quelli che si scaldano e ogni rete è salutata dal classico e interminabile “goooooooooool!”. Ecco finalmente ci siamo, sono le due ed è l'ora della Nba. Io però stavolta mi limito a seguire il mio amico nella scelta della piattaforma (sempre raggiungibile dallo stesso indice con logo di ex-arbitro italiano) e verificare che anche questa volta il segnale sia pulito e la trasmissione fluida. Seleziono la piattaforma e aspetto i tradizionali 20 secondi per agganciare il segnale in un tripudio di banner pubblicitari. Nessun problema e quindi saluto l'amico che ha recuperato energie non so dove ed eccitatissimo si è seduto in punta di divano aspettando le schiacciate di Blake Griffin. Torno a casa a piedi al freddo e penso che se la notizia del sequestro preventivo fosse rimasta taciuta nessuno tra gli utenti se ne sarebbe accorto e io avrei perso meno ore di sonno. Vero è che tecnicamente non abbiamo utilizzato nessuna delle piattaforme sequestrate (dinozap.tv, freedocast.com, hdcaster.net, hqcast.tv, ilive.to, limev.com, livescorehunter.tv, mips.tv, veemi.com) ma è anche vero che da spettatori non abbiamo notato alcun disservizio. E addormentandomi, felice di aver dimostrato all'amico che non doveva temere e stralunato da tanto sport in tv, mi torna in mente l'unico fastidio della serata, tutta quella pubblicità, non solo banner facilmente eliminabili o le reclame trasmesse dalla tv «piratata» ma anche spot video che interrompono la trasmissione via web. E in italiano, di inserzionisti italiani. E mi chiedo: non è che i detentori dei diritti stanno combattendo il nemico sbagliato?
Ecco come guardare gratis tutte le partire di serie A. Viaggio nei siti che permettono di vedere eventi sportivi italiani ed esteri. Un traffico che sembra tollerato. Per gli spettatori di frodo ci sono anche banner pubblicitari e persino l’opportunità di fare donazioni, scrive Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. Se scriviamo Rojadirecta siamo sicuri che a molti non suonerà un nome sconosciuto. È la piattaforma più nota dai “pirati sportivi” del web. Nel 2011 intervenne addirittura il Dipartimento di Stato americano per chiuderlo (espropriando il dominio internet) temendo che potesse mandare on line anche la finale del Superbowl. Potevano farlo? Per la giustizia spagnola no, tanto che un tribunale iberico ha ritenuto il sito legale considerandolo solo un contenitore di link. Così, in principio fu rojadirecta.org, poi rojadirecta.com, rojadirecta.me e oggi è raggiungibile su rojadirecta.eu. In Italia, proprio la settimana scorsa, il Gip Gaspare Sturzo ha ordinato la chiusura di 124 siti internet illegali con sede all’estero. Trasmettevano le partite del nostro campionato e delle principali leghe straniere. La Guardia di Finanza li ha oscurati. Non Rojadirecta. In passato ci aveva provato anche la Procura di Milano a bloccarlo con una richiesta inviata agli ISP (Internet Service Provider, cioè chi fornisce i servizi internet) ma evidentemente senza grandi risultati. Beghe legali a parte e saltando il complesso sistema di rinvio ai siti stranieri, Rojadirecta è solo uno dei tanti indirizzi attraverso i quali poter vedere tutte le partite del campionato di calcio di Serie A. Basta collegarsi all’home page e digitare nel form “Oggi su internet Tv” (un vero e proprio palinsesto) la squadra che si intende seguire. Ma è possibile vedere anche il basket Nba, il tennis, l’hockey, la Formula 1 e la Moto Gp. Dopodiché compare un elenco di link a siti come Rivo tv, Vsp match, Zonesport, Millox tv, Futbol tv, lacasadeltikitaka, etc (dove però Rojadirecta è indicato come “official partner”). Per ognuno corrisponde un indirizzo che replica la telecronaca di una partita. Può essere in lingua spagnola, rumena, inglese, italiana. Nell’ultimo caso si duplica sul web principalmente quello che trasmette Rai Italia (il canale della televisione pubblica dedicato agli italiani all’estero), Mediaset Premium e Sky Sport. Facciamo una prova: guardare tutte le partite di calcio della ventesima giornata di Serie A. Dall’anticipo Cagliari - Sassuolo al posticipo Napoli - Genoa non perdiamo una gara. Dello stesso incontro è possibile scegliere la pay tv preferita, cambiare da Mediaset a Sky passando per Fox sports e ESPN (un’emittente televisiva statunitense che trasmette eventi sportivi h24). Si può trovare il rispettivo canale HD, anche se la qualità video resta quella dello streaming. All’inizio occorre pazientare un po’ a causa delle varie finestre pubblicitarie che si aprono. Non di rado chiedono di scaricare software per accedere al canale. Va detto che alcuni utenti hanno segnalato casi di phishing (vere e proprie truffe realizzate attraverso l’imitazione di siti - come postepay o paypal - che chiedono i dati della carta di credito o altre informazioni personali) e di spyware (programmi che rubano dal computer le informazioni relative alla propria attività su internet). Tuttavia abbiamo visualizzato correttamente ogni match senza scaricare nulla. La trasmissione in streaming non si interrompe mai, nemmeno durante l’intervallo tra primo e secondo tempo. E’ possibile vedere le interviste a bordo campo, la moviola, i commenti degli ospiti in studio, le riprese esclusive negli spogliatoi o nel tunnel che conduce i calciatori sul terreno di gioco. Il guadagno sarebbe assicurato dalla pubblicità. Non solo quello derivante dall’apertura di finestre pop-up ma soprattutto da tradizionali banner. Per i fanatici del “tutto gratis” è possibile fare anche donazioni. Con tanto di invito che ha un po’ il sapore della beffa: “Aiutaci ad aiutare. Il calcio è di chi lo ama e non di chi ha i soldi o di chi ci specula sopra. Se puoi, Dona! Grazie”. Gli inserzionisti che vediamo sono colossi dell’internet commerce come Yoox, il “partner globale di Internet retail per i principali brand di moda & design” si legge in home page. Oppure Immobiliare.it, il “portale N.1 in Italia negli annunci immobiliari”. Ma il paradosso è che tra gli sponsor dei siti “ pirata” compaiono le stesse Mediaset e Sky che detengono i diritti tv e sono i primi danneggiati dalle dirette in streaming. Su un banner si legge: “Per chi fai il tifo? Scegli la tua squadra … Con Mediaset connect scopri il nuovo modo di vedere il calcio”. O anche: “Abbiamo migliorato un’offerta imbattibile. Passa a Sky”. Ma più imbattibile del “vedo gratis” non c’è niente.
Crispino è l’autore di un servizio video sulle carceri italiane, pubblicato anche dallo scrittore Antonio Giangrande che ha vari canali web di divulgazione. Inchiesta video del bravo e coraggioso giornalista Antonio Crispino, pubblicata su you tube in vari video e su varie fonti, che ne hanno consentito la copia ed il montaggio. Da queste fonti è omessa l’indicazione del logo del detentore dei diritti di pubblicazione. Mancanza non riconducibile al curatore di questo video, ossia il dr Antonio Giangrande, che immediatamente provvede a precisare su sollecitazione dell’autore. La precisazione è doverosa poiché il Corriere della Sera detiene i diritti d’autore delle opere dell’autore (quindi non basta citare l’autore) ed è l’unico soggetto legittimato a disporne la pubblicazione, tanto più che dai video caricati su YouTube risulta tagliato il logo CorriereTv in alto a destra che ne indica la proprietà.
Come dire Antonio Crispino ci tiene alle guarentigie del diritto d’autore, anche se ciò ne limita la conoscenza dell’opera per il pubblico servizio.
Vedere partite calcio gratis su Internet con lo streaming, spiega “Sportivi dentro”. Come si fa a vedere le partite di calcio gratis su Internet? Da tempo ormai le partite di calcio trasmesse in chiaro in TV sono davvero poche e spesso bisogna abbonarsi a servizi come il digitale terrestre di Mediaset o la pay-per-view di Sky per guardare la propria squadra del cuore. Non è però l’unico metodo; grazie alle tv straniere che trasmettono in streaming su Internet le partite della Serie A, della Champions League, della Premiere League inglese, della Liga spagnola e della Bundesliga tedesca infatti, è possibile vedere GRATIS e legalmente le partite che preferiamo. Per vedere le partite di calcio gratis su Internet, servono dei software gratuiti da scaricare e installare sul PC; poi basta andare su dei siti che indicano i canali su cui le partite sono trasmesse e far partire il programma per vedere la gara. I software più famosi che permettono di vedere le partite sono TvAnts, PPLive, PPStream, Coolstreaming, PPMate, Sopcast, TVUPlayer.
E’ legale vedere le partite di calcio gratis su Internet? Si, perchè le TV (cinesi, inglesi o di qualsiasi altro Paese) che trasmettono Serie A, Champions League e altri campionati in streaming hanno acquistato i diritti televisivi di quei campionati. Una volta installati alcuni (o tutti se preferite) dei software sopra indicati, non bisogna far altro che andare su uno dei siti dove sono elencati i canali (ad esempio MyP2P), almeno 15 minuti prima della partita, e cliccare sul link che fa riferimento alla partita che volete seguire. Date il tempo al programma di caricare il canale e poi potrete seguire l’evento scelto live (con alcuni secondi di ritardo). Buona visione.
Vedere il calcio gratis? Ecco come, scrive Dario Ferri su “Giornalettismo”. Decoder, card sharing, streaming: già oggi l’utente può aggirare il duopolio di Sky e Mediaset. La sentenza con cui l’alta corte Ue ha stabilito che non è illegale comprare decoder e schede di decodifica da emittenti straniere fa tremare Sky. La concorrenza si allarga e oltre ai due colossi potremmo presto trovare nei negozi sotto casa offerte convenienti per godere dei match di tutto il Vecchio continente. Ma sul Corriere di oggi si racconta che esistono comunque altri modi per “aggirare” il duopolio: Per la Corte infatti è lecito seguire le partite con smartcard e decoder di altri stati membri. Così ha accolto le ragioni della titolare di un piccolo pub di Portsmouth che usava decoder e scheda greca per far vedere ai suoi clienti le partite della Premier League. A parte il commento in greco, l’affare era vantaggioso: 800 sterline l’anno contro le 700 al mese se si fosse abbonata a Sky nel Regno Unito. Ma sarà davvero rivoluzione per l’utente? Quanti compreranno decoder lettoni, ungheresi o slovacchi per vedere il calcio a prezzi ribassati? Le leghe calcistiche, a partire da quella italiana, ci stanno ragionando. Il presidente Maurizio Beretta a caldo immagina che la sentenza impatti più sul sistema inglese che su quello italiano. Quel che è certo è che i modi illegali di aggirare l’abbonamento alla pay tv sono di nicchia ma più vivi di quanto si creda: In principio fu la smartcard taroccata. Un sistema tutto sommato semplice e «accessibile » a molti, tanto che la pirateria fu uno dei crucci di Tele+ prima e Sky dopo. Fino al 2005 il sistema di codifica Seca che serviva a cifrare lo stream dvb (audio/ video digitale in forma compressa) era facilmente aggirabile. Così Sky fece una grossa operazione per rendere più difficile violare i codici, inventando un nuovo sistema di codifica (Nds) passando ai decoder Nds, prodotti dalla stessa Sky. Fu un’operazione antipirateria non indifferente, perché la pay tv inviò, a proprie spese, agli abbonati un decoder Nds (un milione emezzo di pezzi) e una smartcard Nds (un milione e 900 mila schede). Codifica più sicura ma non impenetrabile. Per lo «smanettone » la soddisfazione di non pagare è pari a quella di aggirare un colosso delle telecomunicazioni. Così appare Dream- Box, un decoder basato su tecnologia Linux dal costo di circa 500 euro. Il sistema è complicato, alla portata soprattutto dei nativi digitali, ma anche in questo caso scaricando i codici da internet si riesca a settare il proprio decoder in modo da accedere al pacchetto Sky (in meno di un anno si ammortizza il costo del decoder). Unico problema: Ogni tanto le pay tv cambiano i codici di «encryption », ma il buco nero dura una massimo due settimane, il tempo di scoprire i nuovi codici e poi torna tutto chiaro. Tranquilli. C’è anche il sistema per aggirare questo scocciatura. La soluzione è il card sharing, una pratica (illegale) attraverso la quale è possibile condividere un abbonamento a una pay tv tra più utenti attraverso internet, sottoscrivendo un solo abbonamento che poi viene smistato a «enne» clienti. Ma per vedere gratis le partite di calcio il sistema illegale più diffuso è quello del live streaming attraverso siti internet, soprattutto giapponesi ma anche spagnoli. Dove è possibile seguire in diretta le partite del campionato di calcio anche in hd, anche con commento in italiano. L’accesso può essere a numero chiuso, perché la banda, a seconda dei siti, può supportare un certo numero di utenti. Ma nello stadio virtuale un posto a sedere smanettando si trova sempre.
Nuova pirateria: calcio gratis... troppo facile, scrive Roberto Pezzali su “DDay”. L'oscuramento di Rojadirecta.me ha lasciato spazio a centinaia di siti che offrono link a canali dove vedere partite in alta qualità e senza pagare nulla. Un fenomeno che sta assumendo dimensioni incontrollabili. Lo scorso 4 luglio 2013 il Tribunale di Milano ha disposto la “censura” mediante oscuramento dell’IP di Rojadirecta.me, il popolare sito spagnolo che offriva (e offre ancora per i paesi dove non è censurato) un servizio di indicizzazione per gli eventi sportivi di tutto il mondo. Rojadirecta è però solo la punta dell’Iceberg, il portale più noto di un mondo che negli ultimi sei mesi grazie anche a nuove tecnologie è esploso a dismisura diventando di fatto la Nuova Pirateria. Un tempo si scaricavano film e musica, oggi lo si fa ancora ma forse la minaccia più grande arriva dalla facilità con cui è possibile guardare una partita di calcio o una gara di Formula 1 con una qualità più che accettabile rinunciando solo (ma non sempre) alla telecronaca nella propria lingua. La chiusura di Rojadirecta ha di fatto aperto la strada a centinaia di portali e siti che prima erano sconosciuti e che offrono un servizio simile, anzi, a volte anche migliore grazie ad una selezione più accurata dei canali di streaming e alla scelta di tecnologie diverse dal classico Flash player con i fastidiosi pupup di pubblicità e i continui blocchi. Il proliferare di siti che indicizzano canali “nascosti” per poter vedere partite e eventi sportivi senza pagare è sotto gli occhi di tutti: basta fare una ricerca in Google inserendo la partita che interessa vedere seguita dal tipo di tecnologia che si vuole utilizzare per entrare in un mondo dove si vede tutto e non si paga niente. Siti che appaiono professionali, ben fatti, con tanto di dislaimer legale e un'interfaccia utente pulita e intuitiva. Una minaccia enorme per un paese come l’Italia dove il calcio è visto come un qualcosa a cui difficilmente si può rinunciare e dove l’intero sistema calcistico italiano è sorretto proprio dai contributi che le pay TV, Sky e Mediaset, versano per i diritti di trasmissione delle partite. Lo streaming da altri paesi è legale? Assolutamente no. Per un breve periodo di tempo si è diffusa la convinzione che guardare partite gratis in streaming trasmesse da altri paesi europei fosse legale. La convinzione è arrivata dopo la famosa sentenza della Corte di Giustizia Europea che ha dato ragione al pub inglese che trasmetteva le partite utilizzando una tessera greca: secondo la Corte di Giustizia Europea è ingiustificato limitare territorialmente le licenze di trasmissione. Secondo una dichiarazione rilasciata a Wired da Fulvio Sarzana, avvocato tra i massimi esperti di diritto d’autore nei nuovi media, con la sentenza “Diventano leciti i link a siti esteri europei che hanno legittimamente acquisito il diritto a trasmettere l'evento. Anche quando la normativa nazionale prevede (come accade in italia) diritti di esclusiva su base territoriale. Secondo la mia interpretazione, quindi, gli utenti sono autorizzati a prendere la partita ovunque la trovino, senza poter essere limitati dal titolare del diritto”. La Corte di Giustizia non ci ha messo però molto a chiarire la posizione: tutte le piattaforme che trasmettono contenuti televisivi in streaming sono tenuti ad accordarsi con i broadcaster per evitare cause legali. Trasmettere le partite in streaming è quindi illegale (era abbastanza scontato) ma nel caso dei siti che indicizzano i canali sui quali queste partite sono trasmesse la situazione è molto più complessa: questi siti non sono altro che una “Guida TV” che fornisce link, spesso senza scopo di lucro, e la stessa Rojadirecta è stata assolta in Spagna dopo 3 anni di causa perché la veicolazione di link non è illegale. In Italia invece Rojadirecta è stato oscurato preventivamente (non si può sequestrare non essendo su server italiani) perché secondo il GIP di Milano Andrea Ghinetti «rappresenta un vero e proprio portale per l'abusiva diffusione di eventi sportivi in violazione degli altrui diritti di privativa». La causa però è tutt’altro che conclusa, anche se sembra uno uno spreco di tempo: tra DNS pubblici, altri siti e altri sistemi Rojadirecta è solo un granello di sabbia che presto sarà dimenticato. Un sistema difficilissimo da fermare. Chi ha provato a guardare almeno una volta una partita in streaming, sfruttando magari un canale in flash, sa bene quanto l’esperienza è tutt’altro che appagante: pubblicità a non finire, rallentamenti, blocchi e problemi di ogni tipo che aumentano con l’aumentare del numero di persone che guardano quel singolo evento. L’aumento però della banda disponibile, soprattutto in upload, e l’arrivo di nuove tecnologie per lo streaming che sfruttano il P2P hanno alzato di diversi livelli la qualità di visione: alcuni eventi, trasmessi con un bitrate di 3 Mbit, hanno la qualità di un buon segnale SD e si vedono praticamente come le partite trasmesse da Mediaset sul digitale terrestre. Il tutto senza pubblicità e senza interruzioni: abbiamo provato a vedere alcune partite dei preliminari di Coppa dei Campioni e il segnale sembrava provenire dal decoder. Questo perché, grazie a programmi peer to peer come Sopcast o Ace Stream (che ha alla base Bittorrent), ogni persona che guarda l’evento contribuisce ad aumentare la banda disponibile per la diffusione dell’evento stesso: un broadcasting globale, diffuso da chi guarda mentre guarda con un unico nodo di partenza che non richiede una connettività esagerata. Basta una buona connessione (e in Europa sono spesso buone) e un decoder collegato al computer per dare il via ad un canale visibile in tutto il mondo. I canali non sono mai fissi, vengono aperti poco prima della partita e chiusi subito dopo: rintracciare il segnale di origine è difficilissimo, anche se molte emittenti si stanno attrezzando per mostrare il numero di tessera sullo schermo nel corso delle partite e in un momento casuale, unico deterrente al momento per evitare la nascita di un punto di diffusione. Si vede anche sulla TV e sullo smartphone. L’abbandono progressivo dei flash player e la diffusione di applicazioni P2P per diffondere canali di web streaming ha portato anche al porting di queste applicazioni su smartphone e tablet: Sopcast è disponibile senza problemi per Android sul PlayStore, e basta quindi una chiavetta Android da attaccare alla TV o un tablet per mettere in piedi un sistema di visione gratuita personale. Per gli utenti di smartphone Android, però, esistono applicazioni già pronte per vedere il calcio gratis senza pagare nulla, liberamente disponibili sul PlayStore senza alcun controllo attivo dal parte della stessa Goole. Allo stesso modo gli altri programmi come Ace Player, lo stesso Sopcast e TorrentStream possono anche essere veicolati tramite un DLNA Server compatibgile con i webstream comePS3Mediaserver e trasmessi quindi sulla rete locale con transcodifica in tempo reale: la necessità di attaccare quindi il computer con il cavo alla TV è superata. Il sistema deve cambiare: iTunes e Spotify gli esempi. Il sistema di trasmissione di eventi sportivi come viene organizzato adesso è destinato a cambiare, soprattutto per quanto riguarda il calcio. La tecnologia Peer To Peer sembra essere infatti più adatta ad un evento Live, dove migliaia di persone sono collegate insieme, che al download occasionale di contenuti e serie TV, e questo vuol dire che entro qualche anno (ma non è escluso già quest’anno) il danno apportato dalla pirateria del “Calcio gratis in streaming” al sistema Calcio italiano diventerà enorme. Il sistema di abbonamento mensile vincolante con il decoder è vecchio e ormai superato: la soluzione potrebbe prendere ispirazione dagli altri servizi web che offrono musica e film, con abbonamenti web leggeri nel prezzo, accessibili da ogni device e dalla TV con la possibilità di acquistare pacchetti personalizzati a seconda degli sport e delle squadre. E non è escluso che, nella prossima ripartizione dei diritti televisivi, non entrino a gamba tesa anche Amazon, Google e Apple per aggiudicarsi i diritti di trasmissione web. La pirateria, e servizi come Netflix e Spotify lo hanno dimostrato, può fare ben poco se gli stessi contenuti sono disponibili in modo più semplice, ad un prezzo molto più basso e senza troppa fatica.
CALCIOPOLI: UNA FARSA ED UNA PIOVRA.
Calciopoli, dopo la sentenza della Cassazione: prescrizione per Moggi, ma le ombre restano. Sui social la polemica e gli antichi sfottò: «Rivogliamo indietro i titoli persi...». Unici assolti gli ex arbitri Bertini e Dattilo che hanno rinunciato alla prescrizione, scrive Fulvio Bufi il 25 marzo 2015 su “Il Corriere della Sera”. Che cosa resta di Calciopoli dopo il pronunciamento della Cassazione che l’altra notte ha rigettato i ricorsi di quasi tutti gli imputati dichiarando prescritti i reati per i quali Luciano Moggi, Antonio Giraudo e altri erano stati condannati in primo e secondo grado? Sicuramente le polemiche, che sono state una costante di questa vicenda sin dal suo avvio nella primavera del 2006. Ma non soltanto quelle. Perché se per capire fino in fondo lo spirito della sentenza emessa dalla terza sezione penale della Suprema corte bisognerà attendere il deposito delle motivazioni, ci sono alcuni punti chiari sin da subito. Il primo è che gli unici assolti tra quanti erano arrivati fino al terzo grado di giudizio, sono gli ex arbitri Paolo Bertini e Antonio Dattilo, i cui ricorsi sono stati accolti dal presidente Aldo Fiale, così come aveva del resto richiesto anche il rappresentante dell’accusa, il procuratore generale Gabriele Mazziotta. Bertini e Dattilo avevano rinunciato alla prescrizione, quindi se i loro ricorsi fossero stati respinti sarebbero stati condannati in via definitiva. Esattamente quello che è accaduto a un altro ex arbitro, Massimo De Santis, che pure aveva rinunciato alla prescrizione e però si è visto confermare la condanna. Ed è proprio il caso di De Santis che riporta a Luciano Moggi e la dice lunga su come l’avvenuta prescrizione, e quindi l’estinzione del reato, non debba trarre in inganno e indurre a considerare innocente l’ex direttore generale della Juventus. Con la sentenza dell’altra notte De Santis è stato condannato in via definitiva per associazione per delinquere, e questo significa che la Cassazione ha riconosciuto l’esistenza di una organizzazione - all’epoca dell’inchiesta fu mediaticamente battezzata la «cupola del calcio» - che agì illegalmente pilotando per i propri interessi (che coincidevano principalmente con quelli della Juventus) l’andamento del campionato di serie A nella stagione 2004-2005. E poiché una organizzazione non può avere un solo componente, e del resto l’ associazione per delinquere prevede per definizione la partecipazione di più persone, è evidente che De Santis quel reato lo ha compiuto insieme con altri. E con chi se non con Luciano Moggi, che di quell’associazione per delinquere è stato ritenuto, con condanne in primo e secondo grado, il capo e il promotore? È quindi evidente sin da ora che la Cassazione non ha contraddetto nel merito quanto stabilito dai due gradi di giudizio che l’hanno preceduta, e se Moggi non è un pregiudicato lo deve alla prescrizione e non ad altro. Che poi i tifosi bianconeri pretendano di essere risarciti e perciò si scatenano sui social network chiedendo la restituzione degli scudetti come diretta conseguenza del pronunciamento della Cassazione («Rivogliamo i titoli oppure i soldi persi») ci può anche stare, perché la fede calcistica fa dire di tutto, e poi le polemiche mediatiche hanno sempre rappresentato una specie di filone parallelo di questa vicenda. Ma la vera questione dei risarcimenti è un’altra, e certo non fa gioire gli ex imputati di Calciopoli, perché la prescrizione non li mette al riparo dall’obbligo di pagare quanto stabilito dalle sentenze emesse prima che si arrivasse in Cassazione.
"Un processo politico di cui sono stato vittima per nove anni e mezzo". Così Luciano Moggi, ex direttore sportivo della Juventus, ha commentato la sentenza della Cassazione che ha portato alla prescrizione dei fatti legati a Calciopoli, in un incontro al Teatro verdi di Montecatini Terme il 2 aprile 2015. "I giudici - ha detto Moggi - hanno appurato che i campionati e i sorteggi arbitrali erano regolari. L'unico sodale della Juventus, secondo loro, è risultato l'arbitro De Sanctis, che in quel campionato arbitrò cinque volte e in quattro occasioni la Juventus perse". "Il pm - ha concluso - diceva che a telefonare ai designatori eravamo solo noi e invece con il tempo è venuto fuori che di telefonate ce ne erano a chili da parte di tutti. È stata tutta una farsa". "De Rossi e Aquilani stavano per arrivare alla Juventus nell'affare che avrebbe dovuto portare Davids alla Roma - ha raccontato Moggi -. Io avevo chiesto 13 miliardi di lire più i due giovani, e la Roma stava per darmeli. Poi, forse, qualcuno si decise ad andare a vedere come giocavano in Primavera e saltò tutto". "Cristiano Ronaldo - ha aggiunto Moggi - aveva già fatto le visite mediche a Torino: allo Sporting avremmo dato Salas più 5 miliardi, ma quest'ultimo rifiutò il trasferimento e arrivò il Manchester United che mise sul piatto 31 miliardi in contanti e se lo prese". "Il processo contro di me è stata solo una farsa". "Nei tempi bui delle prime fasi di Calciopoli mi hanno aiutato la religione e il burraco. Moggi è tornato sull'episodio, che suscitò clamore, con l'arbitro Paparesta quando fu accusato di averlo rinchiuso in una stanza: «Ma quale sequestro! - ha respinto l'accusa - I dirigenti potevano andare a trovare l'arbitro dopo la partita e io l'ho fatto. Lui ci aveva fatto perdere una partita con la Reggina e io gli ho detto che sarebbe stato da chiudere dentro la stanza per poi gettare la chiave in mare. Ma da qui a farlo davvero ce ne passa».
Calciopoli, Bertini: «Io, assolto tra le schede e Biscardi», scrive Guido Vaciago su "Tutto Sport". «Avevano continuato a ritenermi colpevole perché Moggi mi aveva difeso mentre parlava al telefono con il giornalista». Un giorno di primavera di nove anni fa, Paolo Bertini trovò la sua casa assediata da telecamere e giornalisti. Cercavano il mostro. L’uomo che aveva taroccato Juventus-Milan, il sodale più fedele di Luciano Moggi e della sua cupola per alterare i campionati. La scorsa settimana, il marciapiede era deserto, eppure una notizia c’era: Paolo Bertini era stato assolto dalla Cassazione che aveva annullato le sentenze di condanna nei suoi confronti. Dopo aver coraggiosamente rinunciato alla prescrizione, l’ex arbitro aretino vinceva l’ultima battaglia, cancellando anche gli ultimi dubbi sulla sua onestà. E così si è goduto lo stesso, anche senza telecamere, la fine di un incubo assurdo. «Il mio capo di imputazione era quello di associazione per delinquere con cinque frodi (Siena-Juve, Juve-Milan, Fiorentina-Bologna, Siena-Messina, Inter-Fiorentina; ndr) e nel primo grado di giudizio sono stato assolto da tutto, tranne che da Juventus-Milan, per la quale sono stato condannato anche in appello. Perché? Forse perché serviva tenere in piedi l’accusa per la partita più eclatante, quella che poteva decidere lo scudetto. Per accusarmi avevano usato una scheda svizzera. Ovvero avevano associato una delle famigerate sim a me, solo perché si collegava spesso da Arezzo. Ma io quella sim non l’ho mai vista e sono riuscito a dimostrarlo perché, secondo gli inquirenti, avrei avuto contatti con Romeo Paparesta (ex arbitro e padre Gianluca, che aveva ammesso di possedere la sim; ndr) usando quell’utenza. Ma lo stesso Paparesta ha dichiarato di non avermi mai chiamato e questo ha smontato l’accusa, così come il fatto che il tabulato del mio cellulare personale non corrispondeva a quello della sim svizzera: si connettevano a celle differenti e distanti... E io non potevo essere in due luoghi differenti». «Insomma, cadono tutte le accuse tranne quella di Juventus-Milan. E sapete perché? Perché c’è un’intercettazione in cui Moggi, qualche giorno dopo, difende il mio operato con Biscardi! Ma vi rendete conto? Io farei parte dell’associazione perché Moggi mi difende in una telefonata con un giornalista. Il bello è che se non avessero selezionato le telefonate in modo disonesto, avrebbero messo anche quella in cui lo stesso Moggi suggerisce a Biscardi di bastonarmi in trasmissione perché avevo avvantaggiato il Milan contro l’Atalanta, cosa per altro vera, ma per un mio clamoroso errore, mica per malafede». «Me lo ricordo quel fallo di Nesta da ultimo uomo. Una cosa clamorosa... Mi fidai dell’assistente e lasciai correre senza espellerlo. Negli spogliatoi Delio Rossi era incazzato come un lupo, voleva mangiarmi. Gli chiesi scusa: gli arbitri sbagliano, come tutti gli uomini. Ma il bello è che quell’errore avvantaggiò la principale concorrente della Juventus: che cavolo di associato sarei? Avvantaggio il Milan? L’abbiamo detto in primo grado e in appello, ma niente. Abbiamo provato anche con la matematica: avevo arbitrato sei volte il Milan e aveva fatto 14 punti su 6 partite, con una media di 2,6 molto superiore alla media punti del Milan in quella stagione; mentre avevo arbitrato la Juventus 3 volte: una vittoria a Siena e due pareggi, media punti inferiore alla media punti della Juventus di quella stagione. Ero un po’ scarso come associato, no? Per fortuna che lo ha capito la Cassazione, per fortuna mi ha aiutato il mio avvocato Messeri che ha sempre creduto in questa linea». «Le schede svizzere? Non so se sono esistite nel modo in cui le hanno raccontate. Romeo Paparesta e Paolo Bergamo, per esempio, hanno ammesso di averle ricevute. Gli arbitri in attività no... Anche le indagini sulle schede svizzere sono un po’ strane: potevano essere intercettate, ma ufficialmente non lo hanno fatto. Anche se poi è emerso che qualcuna è stata intercettata, ma il risultato è stato omesso, forse perché non favorevole all’accusa. E perché non hanno incrociato i tabulati “svizzeri” con quelli dei nostri cellulari, per verificare che fossero agganciati alla stessa cella? E, infine, come si fa ad accettare che su 170.000 mila intercettazioni, molte delle quali dalle quattro utenze di Moggi, l’ex dg della Juventus non parla mai, e dico mai, di calciomercato? Ma come, il re del mercato che non fa una telefonata per preparare una trattativa? Non è credibile! E’ credibile, invece, che come ha detto lui stesso, usasse le schede svizzere per il calciomercato, onde evitare di essere intercettato da chi lo spiava (vedi processo Telecom e indagini illegali di Tavaroli & C.; ndr). Quanti misteri sono finiti in prescrizione... Perché io non sono mica tanto d’accordo che la prescrizione “salvi” gli imputati. In certi casi serve anche alla parte accusatoria per non vedere crollare un impianto con tante pecche. E forse questo è uno di quei casi».
Calciopoli: Dattilo, fine incubo «Ma ora paghino i pm», scrive Guido Vaciago su "Tutto Sport". La storia kafkiana dell'ex arbitro Dattilo, condannato due volte per errore e assolto dopo nove anni di calvario. «Ma ora voglio che i pm di Calciopoli paghino il conto». Questa non è una storia di Franz Kafka, anche se sembra un plagio. E visto che non è un romanzo, iniziamo dalla fine: Antonio Dattilo, ex arbitro assolto in Cassazione dalla vicenda di Calciopoli, vorrebbe portare in tribunale i pm Beatrice e Narducci, sfruttando la nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati, che include anche i casi di travisamento della prova e del fatto. «I pm dovranno in qualche modo rispondere degli allucinanti nove anni che ha dovuto vivere Dattilo. Oggi c'è uno strumento e intendiamo utilizzarlo, perché quello che si è compiuto è un caso di malagiustizia clamoroso», spiega Alessio Palladino, legale di Dattilo. E il caso inizia a settembre del 2004, quando Dattilo va ad arbitrare Udinese-Brescia. Durante quella partita ammonisce tre giocatori dell'Udinese ed espelle, su segnalazione del quarto uomo Camerota, Jankulovski. «I pm gli affibbiano l'associazione a delinquere proprio per quelle ammonizioni e quell'espulsione, perché, sostengono, con quei gialli e quel rosso ha fatto squalificare quattro giocatori ai friulani in vista della successiva partita contro la Juventus. Dattilo, insomma, è un sodale dell'associazione a delinquere di Moggi, per chi indaga e successivamente per chi giudicherà», racconta Palladino. Piccolo particolare: i tre giocatori ammoniti non erano diffidati e giocheranno regolarmente contro la Juventus. Mentre sul caso Jankulovski, testimonierà in aula il quarto uomo Camerota, affermando che l'espulsione era sacrosanta (pugno in faccia a un avversario con pallone lontano) ed era stata lui a comminarla, come si poteva evincere dal referto (per altro acquisito dagli inquirenti). «Si trattava, insomma, di un errore tecnico. Ma alla fine ci ritroviamo con la condanna in primo grado: assurdo. E sapete perché? Per la scheda svizzera che, secondo gli inquirenti, era nelle mani di Dattilo. Viene scritto nelle motivazioni che c'è un contatto fra quella scheda e quella di Moggi nelle vicinanze della partita. Un contatto muto, naturalmente, perché non si sa cosa potrebbero essersi detti, ma soprattutto dovremmo capire cose significa per la giustizia "nelle vicinanze", perché il contatto indicato risale a fine novembre, mentre la partita era a settembre». Cioè per far ammonire i diffidati dell'Udinese, Moggi chiama due mesi dopo la gara in questione. Direte: vabbé, è stato un errore, sarà stato assolto in appello. «No, anche in appello è stata confermata la condanna». L'incubo continua, i danni aumentano: «Dattilo era un arbitro in ascesa, aveva già esordito in ambito internazionale come quarto uomo, poteva costruire una carriera. Anche sotto il profilo remunerativo». E invece perde tutto. E va in crisi: «E' una situazione purtroppo tipica. Succede spesso con la giustizia italiana». Ma perché Dattilo viene condannato anche in appello? Semplice per l'avvocato Palladino: «Dattilo, così come gli arbitri che sono stati coinvolti e poi assolti tutti tranne De Santis, servivano a "fare numero" e tenere in piedi una logica per la teoria dell'associazione. Altrimenti che associazione sarebbe stata, con due dirigenti, i designatori e un solo arbitro?». E così l'errore Dattilo viene perpetrato fino alla Cassazione. «Anto' fatti prescrivere, se no rischi pure la condanna definitiva», gli dicono tutti. Il suo avvocato, insieme ai legali Dario Andreoli e Lorenzo Radogna, appoggiano invece la sua voglia di combattere, da testa dura «calabrese». E Dattilo rinuncia alla prescrizione, come De Santis e Bertini. Il finale lo sapete: Dattilo lunedì notte è stato assolto, chiudendo una vicenda e aprendone un'altra. Quella dei risarcimenti: «Una carriera andata in fumo, una vita da reinventarsi, tanti soldi persi. Qualcuno deve pagare, magari anche la Figc che lo ha cacciato senza neppure cercare di capire di cosa era accusato». Ma questo succedeva nove anni fa, quando era ancora Kafka lo sceneggiatore della sua vita. Calciopoli è anche questa. L'allucinante caso di Dattilo non è l'unico di una costruzione che non ha solo tolto due scudetti e costretto alla Serie B la Juventus, ma ha rovinato delle vite. Si chiude il capitolo Calciopoli e l'ex arbitro Antonio Dattilo esprime la sua rabbia sulla vicenda: "Non ho mai arbitrato la Juventus, non si possono accettare certe indagini".
Si chiude il controverso capitolo di Calciopoli e l'ex arbitro Antonio Dattilo può tirare un sospiro di sollievo dopo l'assoluzione. L'ex fischietto torna prepotentemente sull'argomento, mostrando tutta la sua rabbia per un periodo vissuto nel caos, scrive “Goal”. Intervistato ai microfoni di "Sport Italia", Dattilo L'ex arbitro Antonio Dattilo rifiuta ogni accostamento alla causa bianconera: "Se ho avuto schede? Se ho avuto contatti con Moggi e la Juve? Mi viene da ridere, non esiste questo problema delle schede, è stato sentenziato dalla Cassazione". Dattilo si discosta categoricamente anche dalla presunta cupola Moggi: "Io volevo solo dire che purtroppo siamo stati messi alla gogna, poi alla fine abbiamo avuto ragione. Io in riferimento al signor Moggi, nel 2004-2005, sul piano sportivo, non l'ho mai incontrato, non ho mai arbitrato la Juve. Dopo quel famoso Udinese-Brescia mi hanno sospeso per 30 giorni, ho arbitrato tre mesi in Serie B, ho ripreso nel mese di gennaio ad arbitrare in serie A. Se avessi fatto parte della cupola del signor Moggi, come si diceva, non sarei stato sospeso, ne sarei andato in serie B". L'ex fischietto ricorda di aver arbitrato solamente poche volte la Vecchia Signora e mostra tutto il suo risentimento: "Io se non sbaglio ho arbitro la Juve 5 volte in 6 anni, ma nel 2004/05 non ho mai visto la Juve nè in Coppa Italia nè in campionato. Sono una persona molto calma di natura, ma sono molto incazzato perchè non è possibile che si possano fare delle indagini come sono state fatte".
Calciopoli, Pieri non ci sta: “Non si può mettere una pietra sopra, la ferita sanguina ancora”, scrive “Canale Juve”. L’eco della sentenza della Cassazione sul processo Calciopoli continua a fare tanto rumore: è evidente la voglia matta che i protagonisti della vicenda hanno di farsi sentire. Ultimo in ordine di tempo Tiziano Pieri, ex arbitro assolto dall’accusa di frode sportiva ed oggi moviolista Rai, che ha rilasciato un’interessante intervista a juventibus.com. Questi i passaggi più interessanti del pensiero di Pieri: “Praticamente tutti i direttori di gara a giudizio hanno rinunciato alla prescrizione, anche chi è stato condannato come Massimo De Santis, e credo quindi vada sottolineata la purezza d’animo di tutti noi. Nelle sentenze i giudici hanno poi riconosciuto colpevole il solo De Santis, anche se alla luce dei fatti trovo assurda questa decisione. Probabilmente anche Racalbuto se avesse rinunciato alla prescrizione sarebbe stato assolto, anche se di fatto non si può dire nemmeno che sia stato condannato perché la sopraggiunta prescrizione non ha permesso di esprimersi nel merito della vicenda”. “Capisco però la sua scelta, se pensiamo infatti che chi ha scelto l’abbreviato, che dovrebbe garantire un giudizio più veloce ma allo stesso tempodà meno garanzie agli imputati perché azzera la possibilità della difesa perché si viene giudicati solo su ciò che presenta l’accusa, è stato giudicato in Cassazione insieme a coloro che hanno scelto l’ordinario. Penso basti questo per riflettere sul fatto che ci sia qualcosa che non va in una giustizia che va a mille velocità differenti credo che il nostro caso sia più unico che raro”. “Credo che ora qualcuno debba prendersi le sue responsabilità e rispondere di tutto quello che in questi 9 anni ci ha fatto vivere e che ci è stato negato. Sento e leggo persone che dicono la loro su Calciopoli dicendo che bisognerebbe ritenerlo un capitolo chiuso e bisognerebbe metterci una pietra sopra. Io però non sono di quest’avviso, anche perché credo che la VERA Calciopoli cominci ora. Qualcuno ci dovrà spiegare per quali ragioni degli innocenti abbiano dovuto vivere questo incubo che a tutti noi è costato tanto non solo in termini economici, ma soprattutto dal punto di vista psicofisico. Nessuno può capire davvero cosa voglia dire se non ci passa attraverso e ti posso dire che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico di vivere una situazione come quella che abbiamo vissuto noi. Non possono quindi chiederci di mettere una pietra sopra su tutto, è umanamente impossibile. Per me Calciopoli è una ferita che sanguina ancora e chissà se smetterà mai di farlo”.
Calciopoli, arbitro Pieri: assolto e rovinato, scrive Dario Pelizzari su “Avvenire”. Oggi moviolista Rai in tv, con il compito di dare conto degli scivoloni più o meno evidenti degli arbitri della Serie A. Ieri giacchetta nera tra le più promettenti del calcio italiano, tanto da ricevere i galloni di "internazionale". Nel mezzo, la bufera di Calciopoli, che nella primavera del 2006 sgonfia il pallone di casa nostra a pochi mesi dal Mondiale tedesco. Per l’arbitro toscano Tiziano Pieri, tra gli imputati della prima ora del processo sportivo e penale, fu un periodo travagliatissimo sotto il profilo professionale e personale, soltanto in parte riveduto e corretto dalla recente sentenza della Cassazione, che dopo nove anni mette (forse) fine a una delle pagine più buie dello sport tricolore.
Chi era l’arbitro Pieri prima di Calciopoli?
«Ero un ragazzo molto diverso dall’uomo che sono oggi, perché questa brutta storia mi ha fatto maturare moltissimo. Ha distrutto l’arbitro, ma ha fatto nascere una persona nuova. Ho dovuto affrontare anni di processo. Ed è solo grazie ai miei figli e a mia moglie Silvia che sono riuscito a far fronte a un’accusa che distruggerebbe chiunque. Ho passato un periodo nel quale ero depresso, angosciato, perché non capivo cosa stesse succedendo. Sapevo di non aver fatto nulla di male e non riuscivo ad accettare quanto mi stava accadendo. Poi ho trovato il coraggio per rialzarmi e combattere».
Nel dicembre 2012, è stato assolto dal reato di associazione a delinquere. Lei, con Luciano Moggi e le sue schede svizzere di cui tanto si è parlato nel corso del processo, non c’entrava nulla.
«Io parlavo con i miei designatori di allora, prima e dopo le partite. Tutte le domeniche. Ma nelle registrazioni depositate nel processo di primo grado non c’era traccia delle mie telefonate. Assurdo, come era possibile? Queste telefonate, non si sa bene perché dimenticate, hanno poi confermato la mia buona fede, come è stato sottolineato dal giudice dell’Appello, che è andato addirittura oltre. Ha detto infatti che qualora avessi ricevuto delle pressioni, non le avevo raccolte. Come dire, due volte innocente. Tanto è vero che la Cassazione ha dovuto rigettare il ricorso della Procura di Napoli contro la mia assoluzione».
Eppure, il suo ex collega De Santis ha recentemente dichiarato che parlare con i dirigenti delle società era una "prassi"...
«Ho ascoltato le intercettazioni nelle quali i designatori parlavano con moltissimi dirigenti. Come ho ascoltato la registrazione di conversazioni tra l’arbitro Collina e due responsabili del Milan, Adriano Galliani e Leonardo Meani (ex addetto agli arbitri del club rossonero, ndr). Insomma, era lecito parlare con i referenti delle società, le regole lo consentivano. Ma io non l’ho mai fatto. Ripeto, mai. Perché non lo ritenevo corretto. Meglio, lo consideravo inopportuno. Avevo un amico, ex arbitro della Serie C, che diventò dirigente di una società importante. Gli dissi: non offenderti, ma è meglio se ci sentiamo a fine campionato. Ecco come la pensavo».
La Cassazione ha detto che il sistema per alterare il risultato delle partite c’era. Ma due soli arbitri sono stati condannati. Per molti altri personaggi, tra i quali Moggi, Giraudo, Pairetto e l’ex vicepresidente della Figc, Mazzini invece la prescrizione è sembrata una specie di assoluzione...
«Io ho scelto di essere giudicato con il rito abbreviato. Che è un rischio per l’imputato, perché ha meno possibilità di difendersi. Il mio stesso avvocato era contrario ma io volevo tornare in campo. Sapevo di essere innocente e desideravo arrivare il prima possibile alla sentenza. Per questo ho rinunciato alla prescrizione. Volevo dimostrare ai miei figli che chi nasce quadrato non può morire tondo. I prescritti? Giudicherò la sentenza dopo aver letto le motivazioni. Dico solo che andrebbero rivisti i tempi della giustizia ordinaria».
Moggi ha detto: “Abbiamo scherzato per 9 anni, il processo si è risolto in nulla e tanti sono stati rovinati”. Lo pensa anche lei?
«No, io non ho scherzato, tutt’altro. Perché per me il processo è stato una cosa seria. E ho pagato il conto pur essendo totalmente innocente. Ho passato anni terribili, l’accusa di associazione a delinquere mi aveva chiuso tutti gli spazi. Nessuno si fidava più di me. Non mi vergogno a dirlo, per qualche tempo ho fatto anche il cameriere perché dovevo dare da mangiare a due bambini. Per carità, so di non essere un supereroe perché problemi come questi li affrontano tutti i giorni milioni di italiani. Ma sono felice di aver insegnato ai miei figli come ci si rialza dopo un colpo del genere».
Il testimone chiave dell’accusa, Teodosio De Cillis, titolare della rivendita di Chiasso nella quale Moggi avrebbe acquistato le schede telefoniche, sarà processato per falsa testimonianza. Lo considera una rivincita personale?
«Risponderà nei tribunali di quello che ha detto e fatto. Era il teste principale dell’accusa. Per anni, i magistrati hanno sostenuto che le sim svizzere fossero la chiave di volta del processo: una tesi che è crollata miseramente».
Perché allora avrebbe dovuto inventarsi tutto?
«L’ho denunciato perché se glielo avessi chiesto non mi avrebbe mai risposto. Lo dirà al giudice. Ho girato pagina, ho reagito e ho dimostrato come stavano realmente le cose. Ora voglio che mi venga spiegato perché ho dovuto subire tutto questo».
Ma se ai tempi fosse stato a conoscenza di manovre poco chiare fuori e dentro il campo, avrebbe denunciato i responsabili?
«Certo che sì, con tutto quello che ho dovuto passare... Ma come si può pensare che fosse possibile avvicinare un arbitro per proporgli le cose di cui si è parlato? Stiamo scherzando?».
Be’, per molti anni si è pensato invece che fosse una consuetudine. Il processo di Calciopoli, in fondo, è nato anche e soprattutto per fare luce su questa intuizione.
«Il processo ha visto assolti quasi tutti gli arbitri. Sembrava che Calciopoli fosse diventata “Arbitropoli”, ma le sentenze hanno dimostrato un’altra cosa, perché il presidente dell’Aia (Tullio Lanese, ndr) è stato assolto. La verità è che questo processo non si doveva fare. Meglio, si poteva fare a livello sportivo, perché ci sono stati probabilmente rapporti sbagliati. Ma non c’è mai stata la compravendita degli arbitri. La prima udienza del processo si è tenuta nell’aula che era stata utilizzata per i maxiprocessi di Camorra. Dopo 9 anni invece, sul banco degli imputati sono rimaste cinque o sei persone. C’è qualcosa che non torna».
La richiesta di risarcimento danni di 443 milioni di euro presentata dalla Juventus al Tar è stata giudicata "una lite temeraria" dal presidente della Federcalcio, Carlo Tavecchio. Lei da che parte sta?
«Se nelle motivazioni della sentenza sarà escluso ogni addebito alla Juventus, non vedo perché la società bianconera, se si ritiene danneggiata, non debba chiedere un risarcimento. E questo vale per tutti, anche per me».
Cosa ci lascia in eredità Calciopoli?
«Non sono d’accordo con chi dice che sia venuto il momento di girare pagina e di lasciarsi alle spalle il processo con tutto quello che ha rappresentato. Io voglio che se ne parli ancora. Perché se sono stati fatti degli errori, è giusto che si trovi il modo di non ripeterli. Mi sembra però che a livello generale non sia cambiato niente. Anzi, Calciopoli purtroppo ha contribuito ad aumentare i pregiudizi nei confronti degli arbitri, la classe meno protetta del movimento, perché nessuno li difende. Credo che sia arrivato il momento che l’Aia si apra al pubblico. Gli arbitri non devono più nascondersi, non se lo meritano».
Quegli scudetti coperti e la vergogna di Calciopoli. Per la partita della nazionale a Torino la Figc ha fatto coprire gli scudetti vinti a suo tempo dalla Juventus: una illegittima invasione di campo, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. In occasione della partita che la nostra nazionale ha giocato contro l'Inghilterra a Torino, il presidente della Federazione italiana giuoco calcio ha fatto coprire gli scudetti vinti a suo tempo dalla Juventus e che ora ne decoravano lo stadio. La decisione - presa per controbattere la trasmissione di Telelombardia su Calciopoli degli stessi giorni? - è stata concomitante con la trasmissione sportiva dell'emittente lombarda che ha raccontato, con dovizia di particolari francamente scandalosi a danno della Juve, le malefatte della stessa Figc inflitte alla società torinese. Teniamo anche presente che lo stadio di Torino è di proprietà della Juventus - ciascuno decora la propria casa come meglio gli pare, tanto più se la decorazione è meritata - e che la Juventus è una società quotata in Borsa. Quella della Figc è stata, dunque, una illegittima invasione di campo - da parte del suo presidente per compiacere i propri grandi elettori? - e una decisione nuovamente dannosa per la Juventus che ha perciò tutto il diritto di chiedere, in sede legale italiana e, se necessario, europea, il risarcimento dei danni di allora e di adesso. Segnalo la trasmissione di Telelombardia perché è stata esemplare nella denuncia delle vergognose accuse letteralmente inventate contro la Juventus, culminate con l'annullamento, ad opera di Guido Rossi, un consigliere dell'Inter!, nominato, alla bisogna, commissario straordinario. Straordinario davvero…. Che dire ? Il processo intentato, dopo Calciopoli, contro la Juventus - senza uno straccio di prova a carico, attraverso testimonianze emerse e scomparse secondo esigenze ambigue e legittimato da una campagna mediatica promossa da giornali palesemente al servizio dell'Inter - era già stato allora una violazione dei principi elementari di uno Stato di diritto; un'autentica commedia diretta da un organismo burletta palesemente al servizio non dello spot ma di interessi esterni. La decisione di Tavecchio - un ometto finito in un posto più grande di lui per grazia ricevuta da quegli stessi interessi - di far coprire gli scudetti che decoravano lo stadio juventino è la prova che le accuse, mai provate, alla Juventus erano state effettivamente una costruzione artificiosa, una commedia dell'arte ad uso degli avversari della squadra torinese che non avevano vinto alcun titolo e ne rivendicavano almeno uno d'ufficio dopo aver speso montagne di soldi senza costrutto. Una pagina vergognosa per lo sport italiano...
Calciopoli è una piovra, scrive di Carmen Vanetti su “Libero Quotidiano”. Biografia: Luciano Moggi nasce il 10 luglio 1937 a Monticiano, in provincia di Siena. Manager e dirigente sportivo del mondo del calcio, è noto al grande pubblico per aver ricoperto dal 1994 al 2006 la carica di Direttore Generale della Juventus. Attualmente è collaboratore del quotidiano Libero. “Se si fosse trattato di un omicidio, qui ci sarebbe stata la premeditazione”, con questa affermazione che dir eclatante è dir poco, un vero coup de théâtre, il pm Remondino ha cercato di mascherare quella verità che invece rivelano le parole pronunciate da Luciano Moggi in quell’ormai famoso ‘Notti Magiche’ del 23 ottobre 2010. Un Remondino che ha trasformato la sua requisitoria in una glorificazione di Giacinto Facchetti, esaltandone ripetutamente la limpidezza con la citazione di frasi tratte dal libro di Luigi Garlando, ‘Il romanzo dell’Inter’, ché in RCS e soprattutto in Gazzetta, nascono interisti (e non per niente subito, su Twitter, il gazzettaro Vernazza si è lanciato in spericolati tweet in difesa di chi, da defunto, è ormai diventato santo; ma, si sa, noi siamo ‘la sbirraglia di Moggi’) e la Gazzetta e tutte le sue truppe cammellate hanno partecipato attivamente alla costruzione del Grande Imbroglio (qualcuno, come Galdi, addirittura collaborando, ricambiato, con gli inquirenti). Addirittura, per Remondino, la reputazione di Facchetti sarebbe paragonabile a quella di Dino Zoff: per carità, nessuno disconosce l’importante carriera calcistica del bergamasco ma, per il resto, il grande Dino non potrà che rabbrividire nel vedere il proprio estremo rigore morale (quello che in definitiva ha allontanato lui, refrattario a qualsiasi compromesso, dal mondo del calcio) paragonato a quello di un dirigente che non solo ha tenuto comportamenti che sul piano sportivo la relazione Palazzi, e non noi, ha bollato come illeciti, ma addirittura ha seguito l’iter operativo dell’operazione di intelligence (leggasi: spionaggio) commissionata da Moratti e poi gestita da Tavaroli; ne hanno dato evidenza sia lo stesso Tavaroli al processo Telecom che l’Inter medesima la quale, per lavarsi le mani nella causa di risarcimento intentata da De Santis (spiato nelle pieghe più intime della sua vita privata), ha prodotto un documento col quale scarica ogni eventuale responsabilità proprio su Facchetti; fatto, questo dello spionaggio, ben più grave di quello dei contatti anche impuri con arbitri e designatori. E’ da ricordare che lo stesso De Santis venne anch’egli, a suo tempo, querelato da Gianfelice Facchetti per aver riferito di aver ricevuto più telefonate da parte del padre Giacinto, dovette rimangiarsi quella che sapeva essere invece la verità, una verità che non poteva però essere provata perché la prova ‘era sfuggita'; solo in seguito lo staff di Moggi, capitanato da Nico Penta, avrebbe disseppellito le telefonate sfuggite e la verità, quella che l’ex arbitro aveva sempre gridato, non creduto; perché nel Grande Imbroglio la credibilità è sempre stata a senso unico, come le indagini. Peregrino appare poi attaccarsi ad una presunta tecnica diffamatoria messa in atto da Luciano Moggi per ‘mettere nel calderone’ anche l’Inter all’insegna del ‘così fan tutti': anzitutto il presunto offeso si può sentire diffamato solo se i fatti riportati sono falsi; ma, per ognuna delle affermazioni contestate, la difesa di Moggi ha potuto portare congrue testimonianze, da Bertini a De Santis, a Pairetto, a Mazzei, allo stesso Moratti e, soprattutto, alla relazione Palazzi che, andando giù in modo certo più pesante, come ha ben fatto rilevare l’avvocato Prioreschi) recepisce quanto emerso a Napoli e fu invece trascurato sia dalla giustizia domestica che dalle informative di Auricchio, trascinate poi avanti dalla giustizia ordinaria. Inoltre in realtà Moggi non ha mai pensato di ‘discolparsi’ all’insegna del così fan tutti: semplicemente ha evidenziato che quelli che gli venivano attribuiti come comportamenti esclusivi, come l’intrattenere rapporti con i designatori, e che avevano portato l’accusa a farne il promotore di un’associazione a delinquere, erano in realtà comportamenti leciti e comuni; con buona pace del pm Narducci che si era lanciato in quell’avventata esclamazione: “Non ci sono telefonate del sig. Moratti.. .ecc ecc”: telefonate che invece c’erano, ed erano state ascoltate e considerate rilevanti (fanno fede i baffi rossi e gialli), ma non inserite nelle informative perché, stando a quanto detto dai carabinieri di via In Selci all’assistente Coppola, l’Inter non interessava. E che invece l’Inter c’entrasse in tutto ciò lo disse già mesi fa e lo ha ribadito alcuni giorni or sono lo stesso ex Procuratore Capo di Napoli, Giandomenico Lepore, non certo un difensore di Moggi, affermando che, se non vi fosse stata la fuga di notizie che aveva portato alla diffusione delle intercettazioni nel Libro Nero (nel quale pure, guarda caso, era ‘sfuggito’ non qualcosa, ma quasi tutto, visto che di tutte le intercettazioni a base Inter non vi era traccia), le indagini stavano arrivando all’Inter. In realtà bisogna dire che, ancora una volta, non sono stati i fatti ad occupare la scena, ma le opinioni e i giudizi sulla persona, quel mostro Moggi creato dai media e che qui viene accusato di aver proferito quelle affermazioni ‘con tono di sufficienza e provocatorio’, esattamente come le motivazioni di secondo grado, anziché ‘ragionare sui reati’, ne avevano bollato la ‘spregiudicatezza non comune': e quando ci si allontana dai fatti per rifugiarsi nelle opinioni, nelle impressioni e nelle sensazioni si torna fatalmente in quell’atmosfera da Grande Imbroglio che ha caratterizzato tutta la vicenda di Farsopoli: un’atmosfera che adesso, a distanza di nove anni, emerge chiaramente, ad esempio, quando si sentono gli arbitri coinvolti, passati per un calvario umano e professionale durato nove anni e infine assolti, raccontare la loro paradossale, kafkiana storia. Del resto a trascinare concretamente Giacinto Facchetti in Calciopoli sono stati, nell’aula 210 del Tribunale di Napoli, i testimoni dell’accusa, segnatamente lo stesso Gianfelice Facchetti, che ha fatto irrompere nel Processo la figura del padre con quegli appunti (che vennero pomposamente definiti memoriale) in cui l’ex presidente nerazzurro sognava di fare dell’Inter un treno per trainare le altre squadre al fine di ridimensionare lo strapotere di Juve e Milan (una controcupola, in fondo), ma anche Fabio Monti, giornalista del CorSera e notoriamente tifoso interista, corso a riferire che “c’era la convinzione da parte di Facchetti che ci fosse, sostanzialmente, una convinzione a cui mancava una prova provata, però una convinzione che vi fosse un sistema che non garantiva la regolarità del campionato”. E lo stesso Facchetti avrebbe potuto dare di persona il suo contributo se, purtroppo per lui, la morte non lo avesse ghermito prematuramente e, come ebbe a dire la dott.ssa Casoria, l’ordinamento non ammette le sedute spiritiche. In ogni caso, come è stata la costante della Grande Farsa, dall’inizio alla fine, prove e fatti zero sottozero. Infine, quanto al fatto che quella di Luciano Moggi sia stata una strategia, anche mediatica, per coinvolgere altro, e segnatamente Giacinto Facchetti, nel calderone di Calciopoli, come asserito dal pm Remondino, gioca far notare che in ogni occasione, anche in questa, Luciano Moggi non ha fatto altro che difendere l’onorabilità sua, e quella della Juventus, dalla persistenti insinuazioni che l’ambiente nerazzurro e filonerazzurro (o più semplicemente bianconero) rivolge nei confronti suoi e dell’operato del club (in questo caso si rivolgeva a Javier Zanetti, uno che del ‘Vinciamo senza rubare’ con annessi e connessi ha fatto il suo motto), dopo essere stato lui stesso, Moggi, il bersaglio mediatico per eccellenza, il mostro sbattuto in prima pagina, vittima di inviati travestiti da inquirenti. Nessuna premeditazione dunque, semmai una meditazione, o addirittura una post-meditazione. E dunque ha ben ragioni da vendere l’avv. Prioreschi quando chiede per il suo assistito l’assoluzione “perché il fatto non sussiste o non costituisce reato”: infatti, a parte il fatto che per molte più ragioni falangi di ‘giornalisti’ dovrebbero essere crocefissi per quello che dal 2006 hanno rovesciato sulla figura di Moggi e degli arbitri coinvolti senza accenni di retromarcia o di attenzione alla verità (lo ha ben evidenziato Tuttosport: “Un giorno di primavera di nove anni fa, Paolo Bertini trovò la sua casa assediata da telecamere e giornalisti. Cercavano il mostro. L’uomo che aveva taroccato Juventus-Milan, il sodale più fedele di Luciano Moggi e della sua cupola per alterare i campionati. La scorsa settimana, il marciapiede era deserto, eppure una notizia c’era: Paolo Bertini era stato assolto dalla Cassazione che aveva annullato le sentenze di condanna nei suoi confronti”), la diffamazione non sussiste perché, in risposta alle annose provocazioni e illazioni, ha risposto elencando fatti concreti emersi in un Tribunale della Repubblica, offrendone puntuale prova testimoniale. E nemmeno dunque può costituire reato, perché la Costituzione con l’art. 21 garantisce a tutti i cittadini la libera espressione del proprio pensiero, pur nel rispetto, ovviamente, della verità effettuale (la grande ignorata di Farsopoli, peraltro). Moggi non ha fatto altro che accennare uno spaccato di cronaca di alcune vicende di Calciopoli, come si fa, con molta meno, o zero, documentazione a supporto, nei suoi confronti (per esempio quando tutti dicono di sapere cosa dicesse Moggi quando conversava con le schede estere). Senza esprimere peraltro alcun giudizio di merito sulla personalità del defunto. Niente di più, niente di meno: a meno di non richiedere una modifica ad personam anche della Costituzione.
Calciopoli, le tappe dello scandalo, scrive Paolo Lauria su “La Stampa”. Nel 2006 la revoca di due scudetti alla Juve e la retrocessione in serie B. Calciopoli scoppiò nell’estate del 2006 con l’inchiesta della Procura di Napoli che disegnò una cupola di dirigenti e arbitri, al cui vertice venne indicato Luciano Moggi, all’epoca direttore generale della Juventus, in grado di alterare le sorti del campionato in favore della squadra bianconera, ma anche di altre squadre amiche. Il cosiddetto «sistema Moggi».
Le accuse. Un ruolo centrale, nell’ambito dell’impianto accusatorio, lo ebbero sin dal primo momento le schede estere di cui Moggi si sarebbe servito per non essere intercettato, e trovate in possesso dei designatori arbitrali dell’epoca: Pierluigi Pairetto (condannato in appello a 2 anni) e Paolo Bergamo (per lui processo da rifare per un vizio di forma).
I rinvii a giudizio. Ventisei le persone che furono rinviate a giudizio tra dirigenti e arbitri: per molti di loro, dopo la condanna di primo grado, è intervenuta la prescrizione del reato. Ma il vero protagonista del processo è sempre stato Luciano Moggi, quello che l’accusa ha subito individuato come il padrone del calcio italiano in grado di condizionarne le sorti a piacimento.
Il principale imputato. Luciano Moggi venne condannato in appello a due anni e 4 mesi per associazione per delinquere (5 anni e 4 mesi in primo grado) mentre le frodi sportive a lui contestate sono state dichiarate estinte per avvenuta prescrizione. Prescrizione che ha riguardato in appello altri protagonisti di Calciopoli, come i patron di Lazio e Fiorentina, Claudio Lotito e i fratelli Diego e Andrea Della Valle.
Prime conseguenze dello scandalo. Nel giro di pochi giorni arrivarono le dimissioni del presidente della FIGC Franco Carraro, di uno dei suoi vice, Innocenzo Mazzini, del presidente dell’AIA Tullio Lanese e dei due principali dirigenti della Juventus, il direttore generale Luciano Moggi e l’amministratore delegato Antonio Giraudo (seguite poi da quelle dell’intero consiglio d’amministrazione della società torinese). Dopo essere stato deferito dalla Procura Federale, si dimise anche il presidente della Lega Calcio Adriano Galliani. Il Comitato Olimpico Nazionale Italiano decise di commissariare la Federcalcio, nominando l’avvocato Guido Rossi come commissario.
Le indagini. Le indagini del Procuratore Federale Stefano Palazzi si conclusero alla fine di giugno 2006. Il processo sportivo di primo grado permise di stilare una classifica definitiva della Serie A 2005-2006, al netto delle penalizzazioni inflitte a Juventus, Milan, Fiorentina e Lazio, utilizzata per determinare i club italiani qualificati alla UEFA Champions League 2006-2007 ed alla Coppa UEFA 2006-2007. Sulla base della medesima classifica, il 26 luglio 2006 la FIGC emetteva un comunicato stampa in cui riconosceva all’Inter, prima classificata dopo le sanzioni inflitte a Juventus e Milan, il titolo di Campione d’Italia 2005-2006.
La sentenza. La sentenza cancellò due scudetti conquistati dalla Juventus (2004-05 e 2005-06), e sancì la retrocessione in serie B della squadra bianconera. Dispose anche pesanti penalizzazioni per Milan, Fiorentina e Lazio.
Il processo penale di Napoli. Il processo penale di primo grado su Calciopoli ebbe luogo tra il 2008 ed il 2011 presso il tribunale di Napoli. L’ 8 novembre 2011, Moggi è condannato a 5 anni e 4 mesi per associazione a delinquere.
Processo d’appello in secondo grado. Il 17 dicembre 2013 in secondo grado Moggi viene condannato a 2 anni e 4 mesi di reclusione, Pairetto e Mazzini a 2 anni, Massimo De Santis a 1 anno, Antonio Dattilo e Paolo Bertini a 10 mesi. Lotito e Della Valle non ottengono sentenza per la prescrizione dei reati a loro imputati.
Le nuove indagini al processo di Napoli. Durante tale processo emersero, principalmente per opera dei difensori di Luciano Moggi, nuove intercettazioni telefoniche che non erano state considerate rilevanti nelle indagini del 2006. Dal momento che il nuovo materiale coinvolgeva fra gli altri i massimi dirigenti dell’Inter all’epoca dei fatti, ossia il presidente Giacinto Facchetti (scomparso nel 2006) ed il patron Massimo Moratti (socio di riferimento del club e successore di Facchetti), la Juventus presentò nel maggio 2010 un esposto al CONI ed alla FIGC chiedendo la revisione della decisione di assegnare ai nerazzurri il titolo di Campione d’Italia 2005-2006. All’Inter fu contestato l’illecito sportivo con accuse analoghe a quelle mosse a suo tempo alla Juventus. Tuttavia Palazzi stavolta non procedette ad alcun deferimento perché i fatti erano ormai caduti in prescrizione. A nulla valse anche il successivo ricorso della società torinese al Tribunale Nazionale d’Arbitrato per lo Sport in quanto anche il TNAS si dichiarò non competente in merito alla revoca dell’assegnazione dello scudetto.
Il ricorso della Juve: La Juventus presentò nel novembre 2011 un ricorso al TAR del Lazio contro la Federcalcio e l’Inter, chiedendo un risarcimento danni di circa 444 milioni di euro derivanti, secondo la tesi bianconera, dalla disparità di trattamento sui fatti di calciopoli fra gli eventi del 2006 e quelli del 2011. Il 30 giugno 2012, la Corte dei Conti respinse il ricorso della Juventus decretando la FIGC non responsabile di danno erariale per essersi dichiarata non competente a decidere nel 2006.
CALCIOPOLI: PIRATERIA E SPORT.
Calcio, Felice Belloli": "Basta dare soldi a quattro lesbiche", scrive “Libero Quotidiano”. Da "Optì Pobà che mangiava le banane e adesso gioca nella Lazio" a "quattro lesbiche" il passo è breve. No, non perché Optì Pobà sia diventato una lesbica. Ma tra le due espressioni c'è un filo sottile ed è quello che lega l'attuale presidente della Figc Carlo Tavecchio a chi ha preso il suo posto come numero uno della Lega nazionale dilettanti, Felice Belloli. Il quale il 5 marzo scorso, in occasione del Consiglio direttivo del dipartimento del calcio femminile, non avrebbe usato mezzi termini nel dire che per le ragazze di soldi non ce ne sono: "Basta, non si può sempre parlare di dare soldi a quattro lesbiche...". Una frase che ha portato all'apertura di un'inchiesta da parte della procura federale della Figc. Il sito www. soccerlife.it pubblica oggi il verbale della riunione. Non vorremo mica chiederne le dimissioni per quattro lesbiche...
Belloli sul calcio femminile: "Basta con queste 4 lesbiche". E' il presidente della Lega Nazionale Dilettanti, uno degli uomini più vicino a Tavecchio. Lui nega: "Non ho detto quelle cose". Intanto la Procura Federale ha acquisito tutti i documenti, scrive “La Gazzetta”. Un'altra bufera sul calcio italiano. Protagonista di una gaffe sessista è il presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Felice Belloli, uno degli uomini più vicini al presidente federale Carlo Tavecchio. In un'occasione federale ufficiale, Belloli si è così espresso a proposito del calcio femminile: "Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche". Una frase pesante, senza garbo e senza alcun rispetto, pronunciata dall'attuale numero uno della Lega Nazionale Dilettanti. La frase incriminata pronunciata da Felice Belloli è riportata sul verbale di riunione del 5 marzo del consiglio di dipartimento del calcio femminile della Lega Nazionale Dilettanti. "Alle ore 14.30 rientra il presidente della Lnd Felice Belloli - si legge sul verbale della seduta del 5 marzo - e risponde al consigliere Picheo che i finanziamenti sono a disposizione della Figc per lo sviluppo del calcio femminile ma, rispondendo a varie domande avanzate dai consiglieri, risponde che il calcio professionistico pur volendo non potrebbe ad esempio stanziare contributi e autotassarsi, perché i soldi non ci sono per nessuno, è inutile sperare in un aiuto in quel senso. Se il calcio femminile vuole vivere e crescere deve solo fare affidamento sulle proprie forze, senza lamentarsi troppo e senza sperare in aiuti dall'alto. Si apre un breve ma acceso dibattito, chiuso poi da Belloli che afferma: "Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche". I lavori proseguono. Purtroppo, non è la prima volta che i dirigenti della Figc negli ultimi anni si esprimono utilizzando frasi che contengono elementi discriminatori. Tutti ricordano l'espressione "opti poba" utilizzata proprio da Carlo Tavecchio durante la sua campagna elettorale prima di diventare il presidente della Figc. Lo stesso Tavecchio aveva parlato di "donne handicappate nel calcio", anche se subito dopo la Figc si era attivata per organizzare eventi e iniziative per sensibilizzare le attenzioni sul calcio femminile. Senza trascurare le parole più recenti di Claudio Lotito a proposito della possibilità di vedere in Serie A squadre (come il Carpi o il Frosinone) espressione di piccoli comuni italiani ("il Carpi non può andare in Serie A", frase pronunciata dal presidente della Lazio e consigliere federale in una conversazione telefonica con il dirigente dell'Ischia Pino Iodice). Ora le offese di Belloli: di questo passo è difficile immaginare dove si può arrivare. Ma Belloli, interpellato dall'Ansa, nega: "Va dimostrato che quelle parole sono mie. Un verbale può essere stato scritto da chiunque. Bisogna dimostrare che io abbia detto quelle cose e io, ripeto, lo nego". Intanto il verbale è stato già recapitato alla Procura Figc.
Il calcio italiano? Il più corrotto al mondo. Solo l'Albania ci precede, il Belgio in fondo alla classifica di Sportradar, scrive “Tutto sport”. Non bastassero le sparate di Lotito al telefono, le solite gazzarre settimanali, le contestazioni per i torti arbitrali, ecco adesso anche lo studio che condanna il pallone tricolore. Sì, il calcio italiano è il secondo più corrotto del mondo. Nella speciale classifica stilata da Sportradar, società esperta nel monitoraggio delle quote e dei flussi di gioco, siamo meno corrotti solo dell’Albania. L’indagine è stata compiuta su oltre 400 bookmaker internazionali. Negli ultimi due anni e mezzo, dice il report, sarebbero 70 le partite manipolate in Serie A, Serie B e LegaPro, per un totale di sei campionati. Per la precisione gli incontri truccati sarebbero stati 20 in serie A, 36 in B e 14 in Legapro. Un dato che proietta l’Italia alle spalle dell’Albania, che si pone al comando della classifica delle frodi con 97 segnalazioni, e davanti alla Moldova, con 66. Ma nella top ten della corruzione troviamo anche l’Estonia (46), Grecia (45), Russia (42), Macedonia (37), Bulgaria (35) e, infine, Lettonia e Lituania a pari merito con 31 incontri manipolati. In coda alla classifica il Belgio, con una sola segnalazione, davanti a Olanda e Francia a quota due. Il campione esaminato da Sportradar comprende 143.472 partite esaminate su 596 diversi campionati e tornei: un numero enorme di eventi, 798 dei quali sono risultati manipolati, ovvero “solo” lo 0,56% sul totale delle partite.
Serie A, Bufera Lotito: accusa e difesa «Querelo». «Questa è mafia». Non si placano le polemiche dopo la telefonata "carpita" al presidente della Lazio con il dg dell'Ischia, scrive “Tutto sport”. Il fuoco di fila di attacchi subito dopo la diffusione della sua telefonata con il dg dell'Ischia non ha fiaccato Claudio Lotito, che si sente vittima di una "manovra subdola" ed è deciso a reagire mettendo in campo anche gli avvocati. Letti i giornali, un coro di condanna, assorbite le dichiarazioni anche di peso contro di lui, il consigliere federale di buon mattino ha annunciato di "aver dato mandato ai legali di tutelare in sede penale e civile la mia persona e la mia posizione istituzionale". Pino Iodice però non sembra spaventato dalle conseguenze, anzi, e afferma che "se Lotito non viene sanzionato per quello che sta emergendo è la prova che nel calcio esiste una cupola mafiosa che va sconfitta". Di più, il dirigente campano dichiara di avere tre registrazioni di telefonate e che almeno una decina di presidenti di Lega Pro sarebbero pronti a testimoniare di aver subito minacce da Lotito in vista dell'assemblea di lunedì di Lega Pro. In attesa degli sviluppi giudiziari, il giorno dopo la bufera non sono mancati altri attacchi al patron della Lazio, come quello di Massimiliano Allegri, che si è detto "scosso e stranito" dalle sue parole, ma nemmeno le prese di posizione a suo favore, sia da società di LegaPro, sia da colleghi come Massimo Zamparini e Vittorio Pozzo. "In Italia sono spariti i valori, e così uno qualunque registra una telefonata privata e la dà in pasto a tutti", ha detto il presidente del Palermo. "Sembra che sia uno scandalo incredibile - ha detto Pozzo -, lo scandalo è invece registrare una chiamata e renderla pubblica ". E' la linea di molti dei sostenitori del consigliere federale, che non ha intenzione di fare passi indietro. "Intendo reagire ad una manovra subdola - afferma Lotito - ed accertare la responsabilità del sig. Iodice e di tutti coloro che hanno utilizzato, o diffuso, un colloquio abusivamente registrato". "Viene attaccato per impedire il cambiamento", sostengono il patron della Reggina (LegaPro) Lillo Foti, e il presidente del Como, Pietro Porro. Lunedì in assemblea di LegaPro, che pure non discuterà dei temi più scottanti come era stato chiesto dagli oppositori della linea Macalli-Lotito, alcuni nodi potrebbero venire al pettine Meno indulgenti con il patron biancoceleste alcuni tecnici, come Allegri o Gian Piero Gasparini, critici soprattutto sul ragionamento secondo cui le piccole non dovrebbero avere spazio in serie A: "Squadre come il Carpi e il Frosinone vivono un sogno e queste sono cose che non si possono togliere", ha affermato il tecnico del Genoa, mentre l'allenatore della Juve, è andato anche più in là, sostenendo che "il calcio italiano deve riacquistare credibilità a livello mondiale". Amaro il presidente del'Aic, Damiano Tommasi: "Queste cose succedono quando il progetto sportivo non è al centro delle decisioni. Certo non si può passare sopra a queste situazioni". Spiritoso l'intervento del pur arrabbiato allenatore Nenad Bjelica, il cui Spezia ha affrontato oggi proprio la pietra dello scandalo Carpi rischiando di perdere per un rigore generoso concesso agli emiliani: "Dopo le dichiarazioni di Lotito fischiare contro le squadre che sono state nominate può essere molto pericoloso - ha detto il tecnico croato -. Tale discorso alla fine si ritorcerà contro le squadre che non sono state chiamate in causa, e quasi avrei preferito che fosse stato nominato anche lo Spezia".
Il caso Lotito finisce in tribunale. Il consigliere federale minaccia azioni legali per la telefonata «rubata». Il dg dell’Ischia: «Lo denuncio io e porto un dossier a Palazzi», scrive Davide Di Santo su “Il Tempo”. Gli strascichi della telefonata Lotito-Iodice continuano a far parlare il mondo del calcio. Tranne a Formello dove ieri, in occasione della conferenza stampa di Pioli per la gara contro l’Udinese, le domande sulla conversazione tra il presidente della Lazio e il dirigente dell’Ischia sono state espressamente vietate dal responsabile della comunicazione biancoceleste. Il patron della Lazio e consigliere federale, che nella telefonata registrata a sua insaputa e passata a Repubblica sparava a zero sul presidente della Lega di A Beretta e sulle «piccole» che ambiscono a raggiungere il calcio che conta, minaccia ora di adire le vie legali. «Ho dato mandato ai miei avvocati di tutelare la mia persona e la mia posizione istituzionale in sede giudiziaria, sia penale che civile - si legge in una nota di Lotito - intendendo così reagire ad una manovra subdola ed accertare la responsabilità del signor Iodice e di tutti coloro che a qualsiasi titolo hanno utilizzato, o diffuso, un colloquio telefonico abusivamente registrato». Il dg dell’Ischia, Lega Pro, rilancia con le denunce per «diffamazione e minacce» sulle quali è al lavoro lo studio Bellacosa di Nocera Inferiore. E soprattutto con un dossier che verrà portato martedì al procuratore della Figc Stefano Palazzi dal legale Eduardo Chiacchio sui contenuti di altre due telefonate con Lotito. Ieri il dirigente campano è tornato ad accusare il patron biancoceleste: «Se Lotito non viene sanzionato è la prova che nel calcio esiste una cupola mafiosa che va sconfitta», ha detto annunciando che ci sarebbero «almeno una decina di presidenti di squadre di Lega Pro pronti a testimoniare in un’aula di tribunale di aver subito le pressioni di Lotito con telefonate dai toni minacciosi in vista dell’assemblea di lunedì. Lotito vuole procedere in tribunale nei miei confronti? Sono io a doverlo fare nei suoi e spero di non essere l’unico. Il mio auspicio è che siano le autorità federali a procedere contro di lui». Il dirigente dell’Ischia spera di non restare solo nella sua battaglia e chiede l’aiuto del governo: «C’è bisogno di un intervento autorevole di Renzi e Delrio per sconfiggere la spirale di minacce ed estorsioni». A dare il fischio d’inizio della partita giudiziaria sono però i Verdi, con l’esposto depositato alla procura di Roma dal portavoce Angelo Bonelli. «I contenuti di quella conversazione privata, che sono stati resi pubblici, riteniamo debbano essere approfonditi in sede giudiziaria», dichiara Bonelli che si chiede: «In serie A le squadre ci vanno perché segnano gol o perché c’è qualcuno che le porta?». La questione è anche politica. Per Daniela Santanchè, deputata di Forza Italia, «Lotito è solo il capro espiatorio di chi vuole portare un attacco concentrico al cuore della nuova Federcalcio» e «chi gli si scaglia con tanto livore appartiene a quella parte del Paese che ha nel suo vocabolario solo le lettere "C" di conservazione, "I" di invidia e forse anche la "F" di frustrazione». Ignazio Abrignani, sempre di FI, parla di «ennesimo uso improprio di intercettazioni abusive e illegalmente distribuite agli organi di stampa per colpire chi vuole portare riforme e innovazione». Solidarietà al consigliere federale arriva anche dall’eurodeputato leghista Gianluca Buonanno: «Lotito avrà pure le sue colpe, ma gli altri cosa hanno fatto? Pena. Chi oggi lo accusa va accompagnato alla porta con un bel benservito». Il presidente dell’Assocalciatori, Damiano Tommasi, è convinto però che «non si può passare sopra a queste cose» che «succedono quando il progetto sportivo non è al centro delle decisioni. Se togliamo la base, i fondamenti - ha spiegato Tommasi - c’è davvero il rischio di destabilizzare tutto».
Lotito, da macchietta a macchia. Ora tocca al governo dello Sport e al sottosegretario Delrio costringerlo alle dimissioni perché incompatibile con le leggi e con l'etica, scrive Francesco Merlo su “la Repubblica”. Neppure Luciano Moggi era stato beccato in modo così plateale a truccare i campionati di A e di B, persino opponendosi alla promozione che il Carpi sta conquistando sul campo. Claudio Lotito, che sembrava solo una macchietta, è invece una macchia da ripulire, un padrino del calcio italiano che truffa, manipola, ricatta per "dare una mission alle leghe, con il sistema mio". Perciò ordina di tenere lontani dalla A i club piccoli perché "se ce stanno Latina Frosinone e Carpi chi cazzo li compra i diritti"? E "se me porti tre squadre che non valgono un cazzo, tra due o tre anni nun ci avemo più na lira". Ora tocca al governo dello Sport, vale a dire al sottosegretario Graziano Delrio intervenire sul pavido presidente del Coni Giovanni Malagò e costringere Lotito alle dimissioni per incompatibilità con le leggi e con l'etica dello Sport. Da solo infatti Malagò non ce la fa: ieri sera ha speso più parole a difenderlo che a censurarlo. Di sicuro a espellerlo dalla Federazione non sarà il suo presidente Carlo Tavecchio che si è esibito in uno slalom doroteo che lo stesso Lotito in serata, da spavaldo impunito, ha commentato così: "casta vixit". E poi, traducendo dal latinorum al romanesco: "è l'ometto mio". A sua volta Lotito è da sempre l'uomo di mano di Galliani, del Milan, e di Preziosi, del Genoa, che fu l'unico presidente di calciopoli ad essere beccato con una valigetta piena di soldi. Dei tre, che fanno allegra combriccola a Forte dei Marmi, lo stesso Galliani ha detto: "Siamo un tris di spiritosi umoristi". Ma nella registrazione che abbiamo mandato in rete su Repubblica.it Lotito non parla più come lo spiritoso cafone che arrivando al Tg3 salutò le signore dicendo "pace e pene" e fu subito buttato fuori. Qui invece dice: "Quando uno ha bisogno di soldi va da un amico, e un amico pesa" che è il linguaggio del sopracciò, del distributore di denaro e di amicizia, vale a dire del potere. E infatti Lotito, dispensando la grazia a Macalli, ha deciso di confermarlo presidente dei semi prof. perché "s'è messo a piagne e ha detto: non m'ho potete fa, me dovete aiutà, è da 35 anni che ce conosciamo". E "l'amicizia pesa". Insomma il presidente della Lazio è una specie di Sindaco del Rione Sanità di Eduardo, quel "pezzo d'uomo che teneva il quartiere in ordine, componeva le vertenze, mangiava il naso ai nemici" e che ha ispirato Francis Ford Coppola per don Vito Corleone. Come il don Antonio di Eduardo, "che rendeva il mondo meno rotondo e più quadrato", e come Marlon Brando, Lotito si vanta di non volere incarichi, non ambisce ad esibire il potere formale: "Vi tranquillizzo, io non sono candidato a niente, non mi interessa ...". Lui è solo "un inventore" e dunque "fammece pensà, possiamo fare un'anticipazione di cassa sui progetti della fondazione". Perché? "Perché decido io". I presidenti infatti non contano nulla, come il suo fidatissimo Tavecchio e come Maurizio Beretta che è liquidato così: "Zero!". Dunque ora tutti sappiamo che c'è sempre stato un progetto furfantesco dietro la comicità di Lotito, di cui abbiamo colpevolmente troppo riso perché è servita al giornalismo spettacolo, dal Processo del lunedì alla Domenica Sportiva e Stadio Sprint... sino alla prosa colta degli intellettuali raffinati che si compiacciono nell'esegesi del plebeismo quasi fosse l'essenza popolare del calcio, un po' come Machiavelli che amava giocare a carte nelle bettole. Per anni hanno riso dei sei telefoni che a volte gli suonano tutti insieme nelle tasche dove tiene rotoloni di contanti. E ci sono i collezionisti della sue frasi strampalate, da "le diastole non sono dialisi " a "prendere le vacche per le zinne e i tori per le palle". Per non parlare delle sue mille insolenze, come quella riservata al dirigente della Juve Marotta, che è un po' strabico: "Lasciatelo sta', quello con un occhio gioca al biliardo, e con l'altro segna i punti ". Ebbene a quel Lotito gradasso che sognando di scendere in politica diceva "fateme lavorà pè la polis" e "l'Italia ha bisogno di un governo con dieci Lotito" e "io in politica sarò meglio de Della Valle perché a Cortina ci ho la casa più grande della sua", insomma al vecchio Lotito del folclore è per sempre subentrato il mariuolo: "In Lega di A ho 17-18 voti " e "ho messo Pozzo in Consiglio federale" e "il rapporto personale ha un peso". Solo nella Figc questo lessico non è messo ai margini. Altrove è tenuto a bada ora dalla buona educazione ora dalla forza pubblica. Nel calcio è il linguaggio del potere, anzi dello strapotere di Lotito: "Ho detto ad Abodi: Andrea se mi porti squadre che non valgono un cazzo ..." Al di là del calcio, Lotito è la controprova del drammatico destino che impedisce a Roma di avere un'imprenditoria normale. Solo pittoreschi palazzinari, furbetti der quartierino, ospedalieri arricchiti in corsia come evoluzione dell'industria del caro estinto. Sposato con Cristina Mezzaroma, Lotito è imparentato con una delle più ricche famiglie di costruttori che un po' lo subisce e un po' lo promuove: lo manda avanti per vedere di nascosto l'effetto che fa. Alla giunta Veltroni, per esempio, Lotito presentò un progetto per una mega cittadella della Lazio sui terreni di famiglia nella via Tiberina: lo Stadio delle Aquile, una giungla di palazzoni, persino un campo d'atterraggio. Veltroni gli disse: "Lotito, guarda che Roma è già stata costruita". E però le sue imprese di pulizia e di vigilanza, che molto devono alla Regione e alla Provincia dei tempi di Storace e della Polverini, sono arrivate sino all'aeroporto di Mal- pensa. Anche nella gestione della squadra è riuscito a spalmare il debito, si è giocato calciatori a biliardino con gli sceicchi arabi ma per i suoi modi aggressivi e verbosi è uno dei pochissimi casi di presidente odiato dai tifosi. E trascina i cronisti sportivi a mangiare da Assunta Madre: "paghi te però" Il ristorante è quello dove Dell'Utri fu intercettato dall'antimafia: in una scenografia nera e in un eccesso di bollicine e di vassoi di pesce, tutti sembrano comparse del film Terapia e pallottole. Lotito mangia il prosciutto con le mani, rimane a tavola almeno quattro ore, in lui ci sono la posa, il codice, il posizionamento e quella schiuma di arraffo sui beni primari che ovviamente non è uno stile ma solo un umore degli imprenditori romani: la lingua greve, la camminata sguaiata, i suoi cappotti neri svolazzanti, i bottoni che saltano sopra la cintura e tutto quel farneticare di Kant, le citazioni di Manzoni che "ispira la poetica della Lazio" e poi Pascoli e la Gazzetta dello Sport , e Renzi che "se deve mette a leggè la pioggia nel pineto", e " mo' ce vuole 'na scossa, io sò la scossa" e " l'umanità o è 'psichiatrica o è chimica". Anche la villa sull'Appia antica è degrado di ricchezza: statue, capitelli, camini di marmo, una grande aquila di legno, un'immensa scrivania sulla quale poggia i piedi e dice "io sò laureato in pedagogia con 110 e lode", "io dormo tre ore a notte", "io sò autorevole ". Ecco, se non fosse stato registrato e smascherato da Pino Iodice, direttore generale dell'Ischia Isola verde chissà con quanto fumo da macchietta ci avrebbe ancora storditi, con quanto altro non sense e latinorum, "io sò sinestetico", "est modus in sciaradis", "io sò un patròn non un cogliòn". Nel film C'eravamo tanto amati l'Aldo Fabrizi/Claudio Lotito resterà solo e disperato nell'immensa pacchianeria della sua villa a consumare l'ultima trippa.
Qui Lotito e qui lo nego, rimarca da par suo Massimo Gramellini su “La Stampa”. Trovo abbastanza surreale che il mondo del calcio si finga inorridito e sconvolto dall’ultima sortita del sor Lotito, intercettato al telefono mentre millanta il suo potere con il dirigente di una squadra minore. Il ducetto della Lazio strilla che il presidente soprammobile della Lega Calcio, tale Beretta, «conta zero» e che squadre come «er Carpi» e «er Frosinone» sarebbe meglio non salissero in serie A perché hanno pochi tifosi. Sai che pensieri originali. Lotito si è limitato a darvi fiato con i suoi accenti da bullo. L’unica sorpresa è il mancato uso del latinorum, rimpiazzato da un italiano ancora più pericolante. Eppure le sue «rivelazioni» hanno suscitato scalpore. Come se l’omarino laziale fosse un’eccezione di pessimo gusto e non soltanto uno dei tanti mostri che sfilano sulle passerelle unte del nostro sport preferito. Vogliamo parlare di quell’assatanato che strabuzza gli occhi roteando la sciarpa della Sampdoria come un lazo? O della macchietta che Galliani e Lotito hanno issato al vertice della cattedrale pallonara, l’incredibile Tavecchio, squalificato in Europa per frasi razziste ma in Italia scrittore di due libretti inutili sul calcio, che egli stesso ha fatto comprare con soldi pubblici alle federazioni da lui presiedute? In Spagna o in Inghilterra simili individui faticherebbero a entrarci, in uno stadio. Altro che recitarvi la parte dei padroni. Se Renzi fosse il dittatore che purtroppo non è, avrebbe già commissariato questa banda di mediocri, sostituendola con un esperto di calcio che parli almeno l’italiano.
Lotito, la voce sguaiata della verità, scrive invece Lorenzo Vendemiale su “Il Fatto Quotidiano”. Censurato da Tavecchio, “incauto” secondo Malagò, attaccato duramente da istituzioni e commentatori del mondo del pallone. Ma cosa ha detto o fatto di tanto sconvolgente Claudio Lotito? Solo essere se stesso, e dire senza troppi filtri come stanno le cose. Non minacciare, perché l’intercettazione divulgata dal direttore generale dell’Ischia Pietro Iodice assomiglia più ad una conversazione fra amici che ad un atto intimidatorio (come dimostra il tono con cui anche il dirigente campano si rivolge all’interlocutore, chiamato più volte “Pres”). E certo non mentire, perché un fondo di vero nelle parole di Lotito esiste, e neanche troppo nascosto. Premessa. Lotito dice che “Macalli sta sul cazzo a tutti e nessuno lo discute”. Bè, lo stesso vale anche per Lotito. Rozzo e sguaiato, col suo fare da padre-padrone non piace a nessuno: persino i suoi tifosi lo detestano cordialmente. Però è anche uno che ha rimesso in piedi una squadra sull’orlo del fallimento, e dal nulla è riuscito a diventare il signore del pallone. Ci sa fare, insomma. E delle sue parole bisognerebbe cogliere anche la sostanza, oltre la forma (su cui c’è poco da discutere). Non è un mistero che in Lega Pro sia in atto una guerra politica pericolosa, in cui i primi a rimetterci potrebbero essere le piccole società che già fanno fatica ad arrivare a fine stagione. Una soluzione andrà pur trovata a quel bilancio non approvato, al taglio dei contributi Figc, alla distribuzione delle risorse vitali per i club. E Lotito – che è anche presidente della Salernitana – quando chiama un dirigente con cui siede in consiglio di Lega fa qualcosa che accade ogni giorno. Certo, sta muovendo mari e monti per salvare la poltrona di Macalli. Ma c’è pure chi fa l’opposto. Nella bufera sono finite anche altre frasi. Quella con cui dà praticamente dello “scaldasedia” al presidente di Lega Maurizio Beretta, che “decide zero”. Bè, neanche il diritto interessato si è offeso più di tanto: due anni fa quando fu eletto al termine di una lunga trattativa, fu scelto proprio in qualità di figura di garanzia, “notaio” delle decisioni dei presidenti vincitori della battaglia (Lotito in primis, ma non solo). Probabilmente è arrivato il momento di nominare un presidente vero, che sappia guidare i club e non solo assecondarli. Ma non perché Lotito abbia detto o meno certe parole. Capitolo Serie B. Le favole delle piccole squadre sono l’essenza del pallone. E i tifosi del Carpi hanno tutto il diritto di risentirsi, protagonisti di una stagione strepitosa che meriterebbe di essere coronata con la promozione. A loro però va anche l’augurio di essere all’altezza della Serie A. Discorso valido per tante altre realtà del nostro campionato, sempre più livellato verso il basso. La crisi parte dall’alto e dal decadimento delle grandi, ma l’Italia oggi non ha la qualità per permettersi una Serie A a 20 squadre; la Serie B addirittura a 22 è una follia, un lunghissimo “gioco dell’oca” dagli esiti imprevedibili; la Lega Pro è scesa a 60 club e sono comunque troppi. La riforma dei campionati, insomma, è una necessità non più derogabile. Si può discutere su come attuarla (il meccanismo ad una sola promozione a cui allude Lotito sarebbe la morte del calcio) ma qualcosa si deve muovere. Perché il pallone ormai è un prodotto, e come tale deve mantenersi di qualità per essere venduto. Altrimenti il declino sarà progressivo e ineluttabile. Questo – al netto dei modi da guappo e degli ovvi, evidenti interessi personali – è il senso dell’intercettazione di Lotito. Da condannare, ma anche ascoltare attentamente. Se poi ci saranno altre e più gravi conversazioni le giudicheremo. Ma per adesso abbiamo ascoltato solo alcune tristi verità del nostro calcio (compreso lo scarso spessore dei suoi dirigenti, di chi usa certi toni e di chi li registra, pubblicandoli casualmente alla vigilia di un’assemblea decisiva). E la verità spesso fa male.
Urticante, ma questo calcio gli dà ragione. Ci sono personaggi che riescono a tirarsi tutti contro, perfino quando non hanno torto, scrive Riccardo Signori su “Il Giornale”. Ci sono personaggi che riescono a tirarsi tutti contro, perfino quando hanno ragione. Il presidente della Lazio, Lotito, è un campione della specie. Riesce ad essere più urticante di una pianta di ortiche. Il suo latino ormai è un vezzo da macchietta. Una volta il latino ti regalava glamour, se non rispetto culturale. Invece l'italiano di Lotito è spesso acido, sebben efficace in alcuni concetti. L'ultima telefonata registrata dal suo interlocutore (ovviamente si parla sempre di rapporti fra gentiluomini) ne ha messo in evidenza la rudezza ma anche la capacità di vedere le cose con realismo. Il calcio ormai è un carrozzone nel quale è da ingenui, se non sprovveduti, cercare prima il lato sportivo poi quello affaristico. Tutto è in mano alle tv e le televisioni, da tempo, lamentano di pagare un prodotto che non vale i danari spesi. Le favole del pallone interessano solo a chi produce sentimentalismo spicciolo, fiumi di retorica. Le piccole squadre raccontano favole, ma poi i soldi chi li porta? Le grandi squadre. Senza Juve, Inter, Milan, Roma e magari Napoli il calcio italiano diventa ricordo, non favole. Tutti a casa o, peggio, a ramengo. Le squadre di piccole città sono un lusso, vanno centellinate. La serie A ha bisogno delle grandi città e dei club con tradizione, il resto è musica. Per acchiappare i danari delle Tv, e degli sponsor, occorrono campionati ben giocati, combattuti, credibili nell'appeal internazionale. Dunque meno formazioni: la seria A con 18 squadre sarebbe già un lusso, quella a 16 potrebbe fare al caso. L'alternativa sarebbe una Superlega europea. Il pallone oggi è un business, gioco e passione solo un corollario. Le scommesse qualcosa di molto preoccupante. Lotito non ha nemmeno torto sul ruolo di Beretta, presidente di Lega («decide zero»): campione del mondo nell'incassare stipendi, non altro. E se il re degli urticanti trova sponda dalla ragione è proprio colpa di questo mondo del calcio: costringe a dargli assenso e non viceversa.
Lotito: «Pentito io? Con le squadre piccole la fabbrica-calcio salta». Il presidente della Lazio dopo la telefonata-scandalo «Il mio è stato solo un ragionamento elementare. Beretta offeso? Macché. Rideva, stava piegato», scrive Fabrizio Roncone su “Il Corriere della Sera”. Si volta, rabbrividendo. «Me sento la febbre... sto proprio accroccato». Si volta ancora. «Quella telefonata è stato un agguato organizzato. C’è una regia... Ma io non mollo, io voglio cambià il sistema, io so’ testardo. Certe volte, per quanto so’ testardo, me faccio paura da solo». Camminiamo in un corridoio con le pareti di marmo, le colonne di marmo, arazzi medievali e lampadari luccicanti, aquile d’argento e putti d’oro massiccio, tappeti persiani, statue, affreschi: lui avanti dentro una grisaglia grigia, tossisce, risponde al cellulare - urla: «Tanto io querelo tutti! Stavolta i soldi me li portano con la carriola!» - tossisce più forte, poi accende la luce della biblioteca di Villa San Sebastiano, il suo quartier generale. Si siede. Seguono dieci minuti in cui Claudio Lotito si esibisce in un monologo, passando dal romanesco al latino, e s’interroga, si risponde, ironizza, polemizza. Dieci minuti bastano.
Va bene, presidente: adesso però cominciamo l’intervista. Le sue affermazioni. in quella telefonata con il dg dell’Ischia, Pino Iodice, sono gravissime, inaccettabili.
«Allora: intanto fatevi spiegare da Corrado Ferlaino che razza di personaggio è questo Iodice...».
Lei gli risponde con tono affabile, però.
«Io rispondo a tutti, purtroppo. Stavo a pranzo. Il cellulare all’orecchio, masticavo, la forchetta in mano... perché come si sa io sono sinestetico, riesco a usare più sensi contemporaneamente. Comunque no, dico, l’ha ascoltata la registrazione? Io a quello gli spiego solo che voglio trovare una soluzione ai problemi della Lega Pro. In quel momento parlo come proprietario, sia pure al 50 per cento, della Salernitana e quindi...».
Poi racconta di aver detto ad Andrea Abodi, il presidente della Lega di B, che se in A salgono squadre come il Carpi e il Frosinone, «che non contano un cazzo... tra tre anni non c’avremo più una lira».
«E certo che gli ho detto così! Provi a immaginare una seria A con Carpi, Frosinone, Latina, Sassuolo, Empoli, Cesena... città magnifiche ma squadre piccole, deboli... economicamente, la fabbrica-calcio salterebbe. È un ragionamento elementare».
È un ragionamento tremendo.
«Vede, io di bilanci mi intendo, sono quello che ha fatto prendere 1,2 miliardi alla Lega di A, ho fatto parlare Murdoch e Berlusconi... Beh, insomma: ho proposto la riforma dei campionati immaginando che dalla B salga in A solo la prima classificata, e che le ultime due della A e la 2, la 3, la 4 e la 5 della B facciano spareggi... Ma quel cretino di Abodi, niente, vuole la certezza che dalla B ne salgano sicure tre! E perché?».
Perché?
«Perché se ne frega dei conti, dei diritti tv, non gli importa che salti il banco del calcio italiano... Lui ha un solo piano: tenersi buoni i voti delle società, screditarmi e puntare alla presidenza della Lega di A».
Torniamo alla telefonata con Iodice. Ad un certo punto, lei afferma: «Beretta conta zero».
«Embè? E perché non è così? Il ruolo di Beretta, come presidente della Lega di A, è quello di garante. Sono i presidenti che decidono».
L’ha sentito, Beretta, nelle ultime ore? È offeso?
«Offesooo? Macché! La registrazione della telefonata l’abbiamo risentita insieme, e come rideva Beretta... poveraccio, stava piegato...». (A Lotito squilla il cellulare. «Mhmm... sì sì, l’ho letto Merlo su Repubblica... ah ah ah! Vabbé, dai, che mo’ sto a fa’ un’intervista col Corriere»).
Presidente, dove trova la forza di ridere?
«Ma no, niente... era il mio avvocato... è fissato... mi ripete sempre che chi mi fa del male... o more, o fallisce, o va carcerato... ma non lo scriva, eh?».
Il direttore della Gazzetta dello Sport, Andrea Monti, l’ha paragonata a Licio Gelli.
«Gelli? Allora se mi paragonava ad Alain Delon voleva dire che so’ bello?». (Squilla il secondo cellulare. «Eh sì, m’hanno fatto una bella mascalzonata... sei caro Luchetto... grazie, grazie, lo so che tu mi vuoi bene... me lo ricordo che mi vuoi bene...»).
Chi era?
«Luca Campedelli, il presidente del Chievo. M’ha voluto esprimere la sua solidarietà... E come lui stanno chiamando decine di presidenti...».
In quella telefonata lei dice di controllare circa 17-18 voti nella Lega di A.
«Non sono potente, sono apprezzato da tutti. Tutti a parte quello che dice di essere il presidente della Roma e Andrea Agnelli... Andreuccio si capisce che m’odia proprio... E ora che ho pure chiesto il sorteggio integrale degli arbitri... Ah ah ah! Gli altri presidenti invece condividono la mia voglia di rinnovamento...».
Lei, insieme a Galliani e Preziosi, ha eletto alla guida della Federcalcio Carlo Tavecchio, uno che fa battute razziste, che ride sugli handicappati e fa comprare dalla Federazione libri, chiamiamoli così, scritti da lui stesso.
«Siete fissati con Tavecchio... è un ex alpino, uno che come me canta... Il Piave/mor-mo-ra-va/calmo e...».
Canterà pure, ma l’altro giorno l’ha scaricata, censurando quella telefonata con Iodice.
«Ma no... Carletto non voleva esprimersi in quel modo...».
Mentre lei, Lotito, ha proprio definito Marcello Nicchi, il presidente degli arbitri, una testa di c...
«Sa, io uso un linguaggio icastico... purtroppo lui è un po’ rigido su certe situazioni, questo sì».
Gira voce che il presidente del Coni, Giovanni Malagò, possa trovare la forza di intervenire nei suoi confronti spalleggiato dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio. Sentito cosa dice Delrio?
«Vabbé, ha scritto una cosetta su Twitter... Se mi chiama, gli spiego chi ha organizzato la trappola di quella telefonata».
Lei è molto potente ma comincia ad avere anche molti nemici.
«Io sono solo un uomo libero che si ispira al Vangelo».
“Il pallone smarrito”. Tra affari, ricordi e geopolitica, scrive Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Gennaro Malgieri, Il pallone smarrito, Tabula Fati, 2015. “Il calcio è il balletto delle masse”. Così lo vedeva Dmitri Shostakovich. Elegante e dinamico. Nobilmente semplice. Povero. Lo immaginava per ciò che era: la sintesi tra un popolo ed il suo gioco che però, è molto più di un diletto. “Il calcio è una delle più formidabili forme culturali del nostro tempo”, che si alimenta nella mistica e negli eroi, nella storia e nella battaglia, nei ricordi. È totale. E’ in un prato tra blocchi di cemento, è d’estate, in un campo di grano appena falciato. E’ al Maracanà e al Santiago Bernabeu, è al Mondiale. “Una partita di calcio, non è sempre una partita di calcio. Per il semplice motivo che il calcio non è solo uno sport” ma uno specchio sincero della collettività, della sua salute e dei suoi vizi. Il “pallone” segue il divenire sociale e ridisegna una propria geopolitica. “Se il Mondiale Brasiliano ha segnato la fine della “centralità” calcistica europea con l’esclusione dalla fase finale delle vecchie potenze continentali, ha proiettato sullo scenario internazionale nuovi soggetti […] come il Cile, la Colombia, la Costa Rica, l’Uruguay, gli Stati Uniti […] in attesa che si confermino le nazionali africane ed asiatiche” (Pag. 49, Capitolo 16 “Il Contagio Globalista” – il titolo dice tutto -). Considerazione che ricorda molto ciò che accade fuori dagli spalti. E’ un mondo parallelo e costante. Con questi occhi d’ammirazione, critici e consapevoli, ce ne parla Gennaro Malgieri nel suo Il Pallone Smarrito (Tabula Fati, 2014, 111 pp, 10 euro). “Altro che Di Stefano, Pelè, Maradona. Non ci sono più i veri fuoriclasse”. Così esordisce Malgieri a seguito di un intenso e piacevole “tete a tete”. Anche il calcio si è massificato. “La globalizzazione, non ha reso il calcio mondiale migliore. Ne ha abbassato il livello. Lo ha reso omogeneo” (Pag.81). Come dargli torto. “Il Pallone smarrito” è una spontanea similitudine. Ma anche un racconto, un piccolo trattato tecnico. Una telecronaca, o per essere fedeli ad un tempo che non c’è più, ad una sofferta ed ardente radiocronaca, quando la voce era tutto, era trasmissione e sentimento, era resa all’amarezza o gioia incontenibile. Malgieri, presenta lo scorso Mondiale di calcio – svoltosi in Brasile – sotto una luce nuova, che fonde tecnica ed intelletto, anima e corpo. Senza forzature. Il libro, che trae spunto da una collaborazione con Formiche.net vissuta proprio nei giorni del campionato del mondo, offre una rilettura della geopolitica calcistica. Non ci sono più i fuoriclasse di una volta. Ma non come fosse l’inutile piagnisteo di qualche nostalgico. E’ amara constatazione, dura e consapevole presa di coscienza di un calcio che si sputtana al denaro, alle trattative dell’ultimo minuto, alla casacca più conveniente, che annulla il “genio”, le proprie peculiarità, frutto di tempo e fatica, di visioni. Di giocatori-pedina, troppo spesso di Club Europei, troppo spesso “migratori” per affari. E’ una critica lucidissima e lungimirante, verso la morte della fantasia, dell’estro tecnico ed umano, nel ricordo, nel tocco in più, inimitabile, che rendeva un uomo un campione, un campione una leggenda, temuto dagli avversari, esempio per ogni fanciullo che tirava calci ad un pallone in strada. Continuando a trasmettere amore ed emozione. Rendendo immagini, memoria. E’ una testimonianza attiva di come anche il gioco del calcio, si sia abbandonato, come un corpo morto, alle mode del tempo, senza preservare la delicatezza e la dignità delle sue gesta, alla globalizzazione sfrenata; si sia massificato, annullando eccezioni e caratteristiche, tradizioni e scuole, identità. “Poi ci si interroga, a dire la verità ipocritamente, sulle ragioni della crisi del calcio. Del calcio inteso come spettacolo, armonia, genialità. Ecco: la dimensione ludica e sportiva, viene bruciata in poche ore dalla venalità. Chi sale e chi scende. Chi vede aumentare il proprio valore economico e chi lo vede scemare”, scrive Malgieri in uno dei capitoli finali del libro-taccuino, ad appena due giorni dalla finale mondiale di Rio de Janeiro, “Neppure il tempo di valutare vittorie e sconfitte […] e già si scatenano le quotazioni, come al mercato della vacche”. La poesia, le genuina povertà, l’anima del calcio, ridotto ad un mercato, in cui la fatica ed il sacrificio, le origini ed i sogni di gloria, costruiti, ponderati, sudati, lasciano spazio a preziosismi e fragilità dei singoli, che si ripercuotono, come vibrazioni sottili ma potenti, sul gioco di squadra. E poi i “Club” e l’affarismo spietato, che, soprattutto in Italia ed in Europa, mozza le gambe alle speranze di tanti giovani. Perchè magari è meglio acquistare “stranieri” di dubbio valore, riempirne i campionati, gli spogliatoi, i turn over. Acquisirli con clausole liberatorie o a prezzi stracciati. Insomma, anche il calcio vive la sua stagione di sterile ipocrisia estetica e si allontana dall’attesa, dalla ponderatezza, quella che magari fa aspettare più tempo, fa saltare qualche turno “mondiale” ma poi da i suoi frutti. “Il Pallone Smarrito”, però, è anche storia sportiva ed umana. Cultura e citazione. Interconnessione intellettiva, interazione tra fisica e metafisica, sapientemente illustrate dalla penna saggia, fine ed elegante di Malgieri che, anche nel caso/capitolo della clamorosa uscita della nostra “Nazionale” – per mano dell’Uruguay -, non si lascia mai andare ad imprecazioni facili. Il mondo fugge a velocità siderale, attratto dal luccichio dell’oro, lontano dalle sue responsabilità. La palla è tonda e corre ancor di più. Ma la speranza che si fermi per tornare alle origini, riscoprendo una tradizione che torna ad essere continuità sportiva, non muffa, un’identità ed un senso di comunità, che una volta si chiamava “fare spogliatoio”, capace di far tornare il genio e l’umiltà nei piedi di qualche campione.
A quel libro si contrappone.....
La Figc gioca in difesa: spesi 107 mila euro per acquistare libro di Tavecchio. Acquistate 20 mila copie del libro «Ti racconto il calcio», dopo delibera votata dal Comitato di presidenza il 19 novembre 2014, scrive “Il Corriere della Sera”. Come ha raccontato ieri Valeria Pacelli sul «Fatto Quotidiano», la Figc ha acquistato 20 mila copie del libro «Ti racconto il calcio», dopo delibera votata dal Comitato di presidenza il 19 novembre 2014. Il libro è stato scritto dal presidente federale, Carlo Tavecchio. Nella delibera si legge: «Il Presidente riporta le richieste promosse da alcuni Comitati Regionali e Provinciali interessati a disporre di copie del volume "Ti racconto il calcio" per farne dono ai giovani atleti tesserati quale strenna natalizia. Evidenziando come l’editore si sia dichiarato disponibile a garantire la fornitura delle 20 mila copie ancora disponibili a soli 5,38 euro più Iva in luogo degli 11,00 indicati dal prezzo di copertina, prospetta la possibilità di dare corso alla fornitura». Nella delibera è stato omesso il nome dell’autore. Ieri in Lega, lo stesso Tavecchio ha dribblato la domanda. «Ma chi è quello lì?», ha risposto a chi gli chiedeva spiegazioni. In serata, il comunicato Figc: «Il Comitato di presidenza non ha ravvisato alcun conflitto di interessi, né anomalia sia perché lo stesso Tavecchio non riceve alcun compenso sulle vendite sia perché il messaggio didattico ed educativo del libro è rafforzato dal ruolo ricoperto in Figc». Nel comunicato non si fa riferimento al fatto che la Figc ha speso 107.000 euro in tempi di revisione della spesa e di tagli al bilancio. Dal 2011 Tavecchio cercava di vendere il libro alla Figc, senza riuscirci per l’opposizione di Abete. Caso chiuso? No, apertissimo.
Figc, 107mila euro per le copie del libro di Tavecchio. Lotito: “Non ci guadagna”, scrive Valeria Pacelli su “Il Fatto Quotidiano”. "Ti racconto...il calcio" è una raccolta di storie del bambini scritta anni fa dal presidente. La Federazione, a novembre, ha deciso di comprarne 20mila copie. Nella delibera c'è il titolo del testo ma non il nome dell'autore. “Non si arresta il successo del libro di Carlo Tavecchio“. Così sul sito della Figc del comitato regionale del Friuli Venezia Giulia nel 2012 veniva rilanciata l’opera Ti racconto… il calcio, un libro nel quale il presidente della Figc spiegava “la meravigliosa storia del Calcio e della Lega dilettanti” alla nipotina Giorgia. Probabilmente il successo invece si era un po’ arrestato, e così è intervenuta la Figc che nel 2014, per un totale di 107mila euro più Iva ha comprato 20mila copie del racconto. Quando è stato approvato questo investimento la Federazione Italiana Giuoco Calcio ha trovato un interessante escamotage: nella delibera del 19 novembre 2014 è stato citato solo il titolo del libro senza indicare l’autore, forse per evitare l’imbarazzo. La delibera, approvata in questo punto dall’unanimità del comitato di Presidenza della Figc, cita: “Il Presidente (ossia Tavecchio stesso, ndr) riporta le richieste promosse da alcuni Comitati Regionali e Provinciali interessati a disporre di copie del volume Ti racconto il calcio per farne dono ai giovani atleti tesserati quale strenna natalizia. Evidenziando come l’editore si sia dichiarato disponibile a garantire la fornitura delle 20mila copie ancora disponibili a soli 5,38 euro più Iva in luogo degli 11,00 indicati dal prezzo di copertina, prospetta la possibilità di dare corso alla fornitura”. E poco dopo: “Il comitato di Presidenza approva all’unanimità”. Quindi il libro, edito dalla Moruzzi’s Group, viene acquistato con lo sconto, con tanto di beneficenza da parte dell’autore. La delibera inoltre è stata emessa dalla Figc dopo che a ottobre scorso il Comitato olimpico nazionale alle Federazioni gli aveva imposto la spending review, tagliando circa 20 milioni di finanziamenti in un anno. Il Fatto Quotidiano ha provato a chiedere spiegazioni al Presidente Carlo Tavecchio, senza ottenere risposta. È stato contattato anche uno dei membri del comitato di presidenza dell Figc, il presidente della Lazio Claudio Lotito, il quale prima non ricordava di essere stato presente alla riunione del 19 novembre scorso, poi si è documentato e con forza ha ribadito: “I comitati nazionali sono 20 per un numero di 700mila tesserati, i libri sono stati distribuiti in funzione del numero di tesserati. Il presidente non percepisce un euro, non ha interessi di alcun tipo. In ogni caso la Figc ha il compito di promuovere il calcio nei settori giovanili e in quelli scolastici oltre che nei comitati regionali. Quindi il libro ha un intento ludico-didascalico. Mi dice dove sta lo scandalo?” Non crede che ci sia un conflitto di interesse dato che la Figc acquista libri del suo presidente? “Lui lo ha fatto gratuitamente. Inoltre è stato un libro molto apprezzato: sono state vendute 140mila”. Rilanciato in pompa magna alla data della pubblicazione dai siti di sport e non solo, il libro Ti racconto.. il Calcio di Tavecchio è il “racconto di nonno Carlo alla nipotina Giorgia” sulla “storia del calcio e della lega dilettanti. Un libro – si spiega nella copertina – per avvicinare i bambini e le bambine allo sport e al calcio vero, ben oltre i videogiochi e la televisione”. Tavecchio già in passato si è ritrovato a dover giustificare situazioni imbarazzanti. Come quando a luglio scorso, in pole position per diventare Presidente della Figc ha dichiarato: “Le questioni di accoglienza sono un conto, le questioni del gioco un altro. L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Noi, invece, diciamo che Optì Poba – afferma inventando un nome – è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio. E va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree”. Una gaffe, che a parte le polemiche, non gli è costata il passaggio dalla Lega Nazionale Dilettanti di cui era numero uno, alla presidenza della Figc. Poco dopo, a settembre 2014, un’altra notizia aveva riportato sulle cronache il nome di Tavecchio, ossia la compravendita con plusvalenza da 9 milioni di euro di un piano di un palazzo nel centro di Roma, vicino a Piazza del Popolo. Nel 2008, quale numero uno della Lega dilettanti, infatti Tavecchio aveva firmato il contratto di acquisto del palazzo dalla Vispa 07 a Lnd Servizi per 20 milioni di euro. La Vispa 07 però aveva comprato l’immobile appena venti giorni prima da Beni Stabili gestioni per soli 11 milioni. Una vicenda dai contorni poco chiari soprattutto perché, come ha raccontato Il Fatto e l’Espresso, gli azionisti della società, che hanno intascato la plusvalenza, sarebbero ignoti perché schermati da fiduciarie. All’epoca la Lega dilettanti spiegò che per comprare quel piano del palazzo “non è stato speso denaro pubblico”. Poi arrivò la spiegazione di Tavecchio: “Ho letto dell’offerta sul giornale, a me quell’operazione non l’ha offerta nessuno”. Adesso Tavecchio dovrebbe invece spiegare per quale ragione la Figc decide di comprare ventimila copie di un libro, scritto proprio dal suo presidente. Con o senza guadagni.
Fernando Pernambuco su “Calcio Mercato”: il libro del Presidente Tavecchio è una bomba! Ma davvero non si può smettere di attaccare Carlo Tavecchio? Davvero i poteri forti del Calcio non accettano le regole democratiche che hanno visto trionfare un loro nemico nelle ultime elezioni presidenziali della F.I.G.C.? Davvero c’è chi rema contro il rinnovamento del Calcio italiano, impersonato da un signore che si è dedicato da più di 40 anni ad aiutare gli italiani a giocare e ad amare il gioco del pallone? Pur di affossarlo, lapidarlo, sfigurarlo, si attaccano a tutto, spalleggiati dai media, da giornalisti impuniti, da invidiosi chiacchieroni, da moralizzatori perdigiorno. Non contenti dei “calciatori banana, dei pedigree femminili, della Juve che ha vinto regolarmente 32 scudetti ma non lo può e non lo deve dire”, continuano a sbeffeggiarlo. Forse perché non si esprime in un italiano forbito o perché non possiede il “physique du role”. A ogni suo piccolo inciampo, vien giù una valanga; una modesta gaffe diventa un oltraggio all’ umanità. Oddio…avere due avvocati difensori nelle persone di Lotito e Preziosi certo non l’aiuta. Ma perseguitarlo in questo modo non ha nulla di umano e probabilmente, davvero, c’è qualcosa sotto. Prendete l’ultimo, presunto scandalo. Quelle 100 mila Euro spese dalla F.I.G.C. per comprare e poi regalare a tutte le società calcistiche e a giovani calciatori di buona volontà “Ti racconto… IL CALCIO”, un volume di 64 pagine più 30 illustrazioni a tutta pagina, scritto dallo stesso Tavecchio. C’è chi vi ravvisa un palese conflitto d’interessi, chi lo trova disdicevole in tempi di doverosi contenimenti di costi (ogni volta che gli chiedono qualche cifra, il Presidente risponde: “Andatelo a dire a Malagò che ci ha tagliato…”), chi urla al ladrocinio. A tutti questi sepolcri imbiancati vorrei dire qualcosa. Primo: il libro risale a qualche anno fa, quando Tavecchio era Presidente della Lega Nazionale Dilettanti, ma se ne accorgono solo adesso. Secondo: già da tempo veniva reclamizzato a manetta sul sito ufficiale della stessa Lega e dall’editore Moruzzi’s Group con il seguente slogan: “Pensato per farti realizzare un guadagno sicuro per la tua Società: lo acquisti a 5,50 e lo puoi rivendere fino a 20 €”. Quindi era un bell’ aiuto per tutti quei dirigenti, allenatori, volontari del settore dilettantistico che compravano a 5 e rifilavano a adepti e genitori mitomani a 20. Terzo: il successo della pubblicazione veniva ribadito in continuazione da comunicati stampa di vari Comitati regionali della L.N.D. con toni ed enfasi da film Luce. Ergo, l’affermato volume non aveva certo bisogno di un riacquisto da parte della F.I.G.C. Ecco il trionfale trafiletto del Comitato regionale Friuli Venezia Giulia: “Non si arresta il successo del libro di Carlo Tavecchio. ‘Ti racconto…IL CALCIO” in pochi mesi si è guadagnato l’attenzione dei media e di tantissimi appassionati (…) Molti tra i Comitati regionali della LND, insieme a tantissime Società, hanno avanzato richiesta di un importante numero di copie, ritenendo il libro un valido strumento educativo. A tale riguardo, la Lega Nazionale Dilettanti, invita tutti gli interessati a formulare le proprie richieste di acquisto, così da poter valutare le opportunità di una ristampa del volume.” E il volume evidentemente è andato a ruba, ristampa su ristampa. Chi avra’ pagato le ristampe? Di solito le paga l’editore, rifacendosi con le vendite. In F.I.G.C. visto il successo stellare delle precedenti edizioni, hanno pensato di non procedere ad alcuna operazione preventiva di marketing e lo hanno comprato direttamente per regalarlo appunto alle Società, ai comitati, agli appassionati... Quarto: Tavecchio non ci guadagna nulla, come ha ribadito Perry Mason Lotito: regala i diritti d’autore in beneficenza oppure con quelli compra altre copie che poi regala nuovamente alle varie Federazioni (Nuoto, Pallacanestro, Sport Equestri…). Quinto: nessuno si è preso la briga di leggerlo questo libro. Noi sì. Trattasi di una vicenda, per certi versi, toccante. Un nonno si rivolge direttamente alla sua nipotina Giorgia, per raccontarle, con quella effusiva semplicità che solo certi nonni (pensiamo a Lino Banfi in “Un medico in famiglia”) posseggono, “La storia, i Valori, la Magia dello Sport più bello del mondo”. Ecco che dunque, rivolgendosi a Giorgia, nonno Carlo racconta: “E adesso che sai tutto sulle magie del calcio, sei pronta a scendere in campo con me? Si? E allora andiamo alla scoperta di tutti modi i cui si può giocare a calcio oggi! La cosa più importante è che si gioca con due squadre e vince quella che fa più gol. Ricordi? Gol vuol dire fare entrare la palla nella porta, quella che i bambini davanti a noi fanno con gli zainetti(…) Sì, brava, il portiere è l’unico che può usare le mani per bloccare la palla! Il tipo di calcio più famoso si chiama Calcio a 11 maschile. A 11 perché ogni squadra è formata da 11 giocatori e maschile perché le squadre sono di maschi (…) Il Calcio di chi gioca per divertimento è stato affidato alla Lega Nazionale Dilettanti che ha il compito di aiutare gli adulti, i ragazzi ecc. A Tutto questo pensa Mamma Lega che continuamente apre i suoi cassetti”. La colorata copertina, dal fresco sapore forse un po’ desueto, raffigura un putto che palleggia in cima a un capitello; di fianco l’effige di due giocatori paffuti e baffuti; in basso un bambino, vestito come il figlio di Wilma dei Flinstone, brandisce due ossa umane cavalcando un coccodrillo con un pallone sul naso. C’è qualcosa di lisergico e parrocchiale, di visionario e domestico, in questo alto messaggio educativo che vuole trasmetterci l’idea di come il calcio attraversi ogni epoca, quanto sia magico e reale, domestico e universale. Perché tirare i primi calci con gli amici? Perché stare col papà davanti alla televisione durante il derby? Perché smanettare su You Tube alla ricerca di eurogoal? Quando puoi semplicemente leggere “Ti racconto…IL CALCIO”? E sapere subito la differenza tra maschile e femminile, apprendere cosa fa Mamma Lega? Non scherziamo con l’educazione e con la cultura! Ecco, se solo qualcuno avesse avuto l’ardire di documentarsi e abbandonarsi a questa bella favola, scritta con semplice amore di nonno, forse si sarebbe astenuto da certi livorosi attacchi, che di sicuro non fanno bene al Calcio italiano. Ma i media e i poteri forti, si sa…A proposito, Giorgia la nipotina, pare che dopo la lettura del libro si sia data alla pallavolo. Ma questa è un’altra storia.
Che l’astio contro Tavecchio nasca dalla sua presa di posizione?
“Calciopoli? Assurda la causa alla Figc, ma quella Juve avrebbe vinto comunque”, scrive “La Repubblica”. Carlo Tavecchio a Repubblica parla del passato e del futuro della serie A. La Juventus sul campo era nettamente la più forte, di scudetti ne ha vinti 32: la squadra non ha rubato nulla e non avrebbe avuto bisogno di certi magheggi. Lo dico da vecchio interista, anche se più tiepido. Però la sentenza Calciopoli, che ha sanzionato i comportamenti del club fuori dal campo, è legge e siamo qui per farla rispettare». Carlo Tavecchio a Repubblica parla dei rapporti con la Juve, che ospiterà Italia-Inghilterra il 31 marzo ma che pretende 444 milioni di danni per le sanzioni del 2006. «Ho accolto le reiterate richieste del sindaco Fassino — spiega Tavecchio —, Torino è capitale europea dello sport ed era ingiusto privarla degli azzurri, che lì hanno già giocato: stavolta però copriremo i simboli incoerenti con le sentenze. Il 23 marzo la Cassazione scriverà la parola fine su Calciopoli: la causa della Juve è temeraria e, vedrete, sarà la Figc a chiedere i danni ». Tavecchio sogna il titolo europeo («Vinciamo noi, non punto al terzo posto, con Conte in panchina è possibile»), e oggi in Lega chiederà che i nuovi calendari esauriscano l’attività entro il 15 maggio 2016, garantendo la finestra per uno stage a febbraio; e, inoltre, che già alla fine di questo campionato i club lascino i giocatori a Conte per un miniritiro prima della Croazia. «Il vero nodo è portare la A a 18 squadre, si può partire dal 2017/2018. Contano i soldi e sarà più facile parlarne perché i diritti tv passeranno da 940 milioni a 1,2 miliardi. La Lega di A è interessata, ma la riforma la fa la Figc e col 75% dei consensi. In caso di stallo, potrei chiedere al Coni di variare i principi degli statuti per abbassare al 66% la maggioranza richiesta. Le ultime riforme le ha fatte solo un commissario, chiediamoci perché». Il presidente continua a promettere novità. Subito, l’occhio di falco sul gol fantasma: «Pagheranno i club, sono disponibili». Poi, forse, l’addio agli arbitri di porta, per risparmiare: «Il Coni ci ha tagliato 25 milioni: 9,2 li recuperiamo dalla sua rinuncia alla mutualità per due anni, 11 dal taglio dei contributi a B, Lega Pro e Lnd, altri 4 deve trovarli l’Aia, nella sua piena autonomia. Gli addizionali ne costano da soli 1,2...». Ancora, l’abolizione della clausola compromissoria «in materia penale. Negli altri casi, c’è prima il Collegio di Garanzia del Coni: vale anche per il caso Lega Pro, solo in un secondo momento autorizzerò Macalli e Gravina ad adire la magistratura ordinaria». Vuole due sole Leghe («una di tutti i pro, una dei dilettanti »), intende potenziare gli organi di controllo per «evitare di ripetere il caso Parma: la Covisoc aveva autorizzato l’iscrizione». Racconta, poi, che l’imbarazzante gaffe sulle banane l’ha reso famoso: a Teheran, un mese fa, l’hanno riconosciuto e gli hanno chiesto un selfie. Di fatto, resta inibito: non potrà essere al Congresso Uefa del 24 marzo. «Ma il prestigio della Figc non è stato intaccato. Ho avuto l’Europeo 2020, i fondi HatTrick per il vivaio, i contributi per il settore femminile, tutto grazie alle mie conoscenze. Non sarò al congresso? Ci andrà Beretta e voterà Platini, candidato unico. Alla Fifa non so, ma non vedo chi può battere Blatter. Ho chiesto scusa mille volte, ma mi dite quali danni ho fatto alla Figc?». Dopo mesi di inattività, avrà un senso anche la nomina di Fiona May: il 21 febbraio da Firenze parte il progetto “Razzisti? Una brutta razza”, 20 eventi, uno al mese in ogni regione italiana, 10mila ragazzi under 18 coinvolti: momenti di riflessione nelle scuole calcio, testimonianze di personaggi famosi (si parte con l’attore Marco D’Amore, Frankie hi-nrg mc, forse Seedorf). La prossima grana può arrivare da Cremona, invece, se il ct verrà rinviato a giudizio per frode sportiva. «Conte ha già pagato, mi pare. E io mi occupo solo di quel che è accaduto, non di quello che potrebbe accadere... ».
Vieri: “Calciopoli creata da Moratti, era l’unico modo per aprire il ciclo nerazzurro”, scrive Ivan Parlongo. Cristian Vieri, annunciando il suo ritiro dal calcio giocato, dalle aule del tribunale dichiara che i giocatori dell’Inter firmarono una clausola che imponeva di non rivelare il piano Moratti-Telecom, ovvero di eliminare le squadre più forti penalizzandole dalla serie A, unico modo per dar vita al ciclo Inter. “Sono pronto a far vedere il documento,tutti sapevano,sono stato ingannato perchè spiato telefonicamente,non mi riesco a tenere dentro queste cose” – dichiara Bobo – che continua : “Il 70% del contratto veniva pagato dall’Inter, mentre il 30% da Telecom, azienda per la quale mi fecero fare da testimonial per una campagna pubblicitaria. Il tutto allo scopo di pagare meno tasse. Di questa questione ne ho parlato unicamente con il signor Ghelfi dell’Inter, concordando il tutto con lui,mi dispiaceva per la Juventus perchè ho affetti con loro,lo stesso per il Milan,ma credevo di fare del bene al mio presidente che come doppie personalità ne ha da vendere”. Ieri è stata ascoltata anche la fidanzata del calciatore Melissa Satta: “Quando la notizia uscì sui giornali nel settembre 2006 Bobo faticava a dormire preso dall’ansia e dalla preoccupazione, arrivando al punto di dover consultare uno psicologo. Da allora esce poco e ha sempre il timore di essere seguito. Abbiamo in passato addirittura pensato di ingaggiare una guardia del corpo, ma poi la fede gli ha dato la forza di ammettere tutto, il vero motivo e ragione per imbrogliare Moggi, la Juventus, il Milan, la Fiorentina, ora non c’è più ragione per fingere”. Soddisfatto l’avvocato di Bobo Vieri Danilo Buongiorno: “C’è grande soddisfazione. Ora dovremo valutare attentamente gli atti penali acquisiti in questa causa, dove sono emersi fatti gravi che potrebbero portare anche alla riapertura del processo disciplinare. Ci rivarremo anche davanti alla giustizia sportiva,questa volta gli scudetti tornerebbero al loro posto, l’Inter sarà declassata da tutto ciò vinto finora e finalmente si farà chiarezza su chi è davvero Moratti e non solo”. La notizia è stata rimossa da ADNKRONOS, ma sembra comunque essere in parte fondata. Dichiarazioni forti, clamorose, per usare degli eufemismi, scrive Alessandro Di Prisco su “Spazio Juve”. Christian Vieri, al secolo “Bobone”, ex giocatore dell’ Inter, dalle aule del tribunale dove ha vinto la causa contro la sua ex squadra, rea di spiarlo di nascosto, ha dichiarato che i giocatori dell’Inter firmarono una clausola che imponeva loro di non rivelare un presunto piano Moratti-Telecom, che prevedeva l’eliminazione delle squadre più forti dalla serie A, con l’unico scopo di favorire l’Inter per la vittoria dello Scudetto e per aprire un ciclo di vittorie. Queste le parole dell’ex centravanti, il quale ha militato anche tra le fila bianconere: “Sono pronto a far vedere il documento, tutti sapevano, sono stato ingannato perchè spiato telefonicamente, non mi riesco a tenere dentro queste cose. Il 70% del contratto veniva pagato dall’Inter, mentre il rimanente 30% da Telecom, azienda per la quale mi fecero fare da testimonial per una campagna pubblicitaria. Il tutto allo scopo di pagare meno tasse. Di questa questione ne ho parlato unicamente con il signor Ghelfi dell’Inter, concordando il tutto con lui, mi dispiaceva per la Juventus perchè ho affetti con loro, lo stesso per il Milan, ma credevo di fare del bene al mio presidente che come doppie personalità ne ha da vendere“. Parole che potrebbero riscrivere la storia recente del nostro calcio, potrebbero riscrivere quell’orribile pagina, alias Farsopoli, cha ha intaccato il nome prestigioso della squadra più amata e più forte d’ Italia. Ora “la palla” passa alla tanto contoversa giustizia sportiva e al PM Stefano Palazzi. L’avvocato di Bobo, Danilo Buongiorno, infatti, sostiene che queste nuove dichiarazioni rilasciate dall’ex-giocatore potrebbero portare anche alla riapertura del processo disciplinare. Se così dovesse essere, l’Inter ed il suo presidente Massimo Moratti rischierebbero davvero grosso! Vieri, dal canto suo, è certo di queste pesanti dichiarazioni e sostiene di essere in possesso di prove che confermerebbero tutto quello da lui detto. Alessandro Di Prisco.
E adesso si capisce di più Calciopoli…scrive la redazione del blog “Oliviero Beha”. Se non si collega la sentenza-Vieri, questa intervista a Tavaroli e l’intiero paesaggio in cui si è sviluppato Calciopoli, vuol dire che si è in malafede. Invito dunque i lettori a verificare quanti (oltre al sottoscritto negli anni…) tra i media e i “mediani” dei media riporteranno le dichiarazioni di Tavaroli ma creando il nesso logico con lo scandalo che ha decapitato Moggi. E a proposito, del suicidio di Bove come mai nessuno parla più? Cliccate sul cognome… e soprattutto collegate, collegate, forse qualcosa si capirà. “Di controllare Vieri me lo chiese Moratti di persona, non al telefono. Le operazioni poi sono state fatte da un fornitore, la famosa agenzia di Cipriani. Sono due episodi, 2001 e 2003. Il primo riguardava l’Inter, la verifica del rispetto contrattuale dei comportamenti di certi giocatori, non solo Vieri. Il secondo invece riguardava la Pirelli perchè Vieri doveva fare il testimonial. In questo caso abbiamo controllato il suo traffico telefonico”. Così Giuliano Tavaroli, ex capo della security Telecom, a La Zanzara su Radio24. “Abbiamo controllato anche altri giocatori dell’Inter – racconta Tavaroli – ma non hanno fatto causa. Vai a sapere perché. Forse non hanno accusato inquietudine e ansia come Vieri. Moratti lo incontrai di persona. C’era un regolamento di squadra sulla vita dell’atleta che andava rispettato, il problema era il rispetto di questo regolamento. Furono sicuramente commessi degli abusi sul traffico telefonico di Vieri”. Avete controllato anche Luciano Moggi, chiedono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo?: “Su Moggi non esisteva un dossier, ma ci fu la richiesta di verificare alcune informazioni date all’Inter da un arbitro su presunti comportamenti di Moggi. Moratti mi disse: abbiamo ricevuto queste informazioni, vogliamo vedere se sono credibili. Parte degli accertamenti vennero svolti con attività illecite. Giraudo invece non venne controllato”.
Dal caso Vieri alla vergognosa pagina di Calciopoli, scrive Sandro Scarpa su "Tutto Juve" e su "Libero Quotidiano". Biografia: Luciano Moggi nasce il 10 luglio 1937 a Monticiano, in provincia di Siena. Manager e dirigente sportivo del mondo del calcio, è noto al grande pubblico per aver ricoperto dal 1994 al 2006 la carica di Direttore Generale della Juventus. Attualmente è collaboratore del quotidiano Libero. Oggi molti sportivi italiani hanno letto della condanna dell'Inter, obbligata in primo grado a risarcire il suo ex-giocatore Christian Vieri con 1 milione di euro, in solido con Telecom Italia, per spionaggio illegale. Bene, visto che Gazzetta, Corriere dello Sport e altri quotidiani non sportivi, così attenti in passato a sviscerare le tardive e ondivaghe confessioni del Non Piu' Credibile Carobbio, pubblica la notizia sganciandola dal quadro complessivo di quella (ennesima) stagione farsesca della Giustizia Sportiva, ci pensiamo noi a fare un breve riassuntino della vicenda. E' acclarato che l'Inter utilizzava Telecom (sponsor col patron consigliere Tronchetti Provera) per pedinare non solo suoi giocatori (Vieri, tra gli altri) violando la loro privacy, ma anche (lo sapremo tra pochi giorni) arbitri come De Santis, e dirigenti avversari come Moggi e Giraudo. Nel 2007, con le stesse notizie di reato, la FIGC archiviò invece la posizione dell'Inter (rischiava penalizzazioni pesanti..e ci ricordiamo nel 2007 chi allenava l'Inter e quanto ha vinto..). La Procura (sempre Palazzi) si espresse in questo modo: "Il Procuratore federale, esaminata la relazione dell'ufficio Indagini sugli accertamenti richiesti dalla Procura federale in ordine a numerosi articoli di stampa riguardanti il comportamento di dirigenti della società Internazionale nei confronti dell'arbitro Massimo De Santis, dei calciatori Christian Vieri, Adrian Mutu, Luis Ronaldo Da Lima Nazario, Vladimir Jugovic e del tesserato Mariano Fabiani, ha disposto l'archiviazione del procedimento, non essendo emerse fattispecie di rilievo disciplinare procedibili ovvero non prescritto. Procedimento archiviato dunque, la Gazzetta, sospetto per chi maneggia bene la nomenclatura giudiziaria, titola "la FIGC assolve l'Inter". Quanta differenza con i titoli "Salvi Bonucci e Pepe" a fronte dell'assoluzione in 1° e 2° grado dei due giocatori. Procediamo. Quei pedinamenti e quello spionaggio industriale ai danni di dirigenti di altre squadre, in altri sport (vedi Formula 1) ha indotto altre Federazioni coinvolte, multe di svariate centinaia di milioni. Nel 2007 (coincidenza) alla McLaren viene infatti comminata una multa da 100 milioni di dollari (basterebbe quasi a far fallire l'Inter?) oltre alla perdita di tutti i punti del campionato precedente. E questo perchè alcuni ingegneri McLaren avrebbe sottratto file e mail secretate di colleghi Ferrari. L'Inter invece, da quanto risulta nei processi in corso, intercettava e pedinava direttamente i dirigenti della Juventus, soffiando notizie relative a strategie commerciali e di mercato. Vedremo come andrà a finire in un tribunale ordinario. Sappiamo cosa è successo invece nell'ampio quadro di Calciopoli. Le telefonate più scottanti e le intercettazioni più "scandalose" (Moggi che si lamenta con designatori..) operate da quella branca occulta della security Telecom che faceva capo a Tavaroli e operava per conto dell'Inter, in qualche modo arrivano al nucleo dei Carabinieri guidati dal Colonello Auricchio (un pc di Tavaroli fu rinvenuto negli uffici dello staff di Auricchio). Così Auricchio e i suoi cominciano a loro volta a pedinare Moggi, Giraudo, designatori ed arbitri. Primo alt: ma perchè Auricchio non denunciò innanzitutto le operazioni illegali Telecom? Proseguiamo. Auricchio e i suoi intercettano, ma omettono le intercettazioni tra Facchetti, Moratti, Galliani ed arbitri, che verranno fuori molto tempo dopo. Particolare importante: non ci sono chiamate tra Moggi e arbitri, ma solo ai designatori. Al tempo stesso, stralci di quelle intercettazioni arrivano "casualmente" alla stampa romana (Il Romanista, Panorama). Ci arrivano precedute da due particolari: il colonello Auricchio è grande amico del dirigente della Roma, Baldini; lo stesso Baldini, intercettato a sua volta al telefono con alcuni esponenti FIGC diceva in quei giorni:"vedrai che farò il ribaltone nel calcio italiano". A seguito di queste pubblicazioni illegali, frammentarie e parziali di intercettazioni iniziate in modo illegale (anche se non si ha ancora la certezza), iniziò quindi nell'estate del 2006 il processo sportivo, Calciopoli, definito con ammissione di colpa non indifferente "sommario" dallo stesso Abete solo qualche mese fa. Nel processo vengono coinvolte, tra le altre, la Juve, la Fiorentina, la Lazio, la Reggina e in seconda battuta il Milan, per alcune intercettazioni riguardanti l'"addetto alle relazioni arbitrali" Leonardo Meani. Ma in quel processo non ci fu traccia del coinvolgimento dell'Inter. Come commissario straordinario della FIGC, chiamato a governare il caos e fare "piazza pulita" venne nominato Guido Rossi, ex-consigliere d'amministrazione ed ex e futuro Presidente Telecom. La storia delle sentenze e della condanne sportive è cosa ampiamente nota. Rossi e gli altri "massacrano" la Juve, inventandosi il reato di illecito strutturato e appellandosi non già alle prove ma al sentimento popolare. La Juve non ricorre al TAR dopo i tempi minimi del processo sportivo per non rischiare radiazioni e per supina accettazione. Nel frattempo parte il processo ordinario, in cui si scoprono clamorosi errori nelle accuse basate su articoli sportivi errati, calcoli su somme di ammonizioni illogici e altre chicche del genere. Il PM Narducci (assoldato in seguito dal Sindaco De Magistris come Assessore, e dimessosi poche settimane fa) col valido aiuto del Colonello Auricchio (anch'egli assoldato da De Magistris con alti incarichi pubblici, anch'egli carriera fulminante) per anni proclamato il celeberrimo "piaccia o non piaccia, non ci sono telefonate dell'Inter". Poi, a spese non dello Stato e delle autorità preposte, ma del cittadino Moggi, negli anni vengono acquisite e sbobinate tutte o quasi le centinaia di migliaia di intercettazioni del gruppo di carabinieri di Auricchio e saltarono fuori clamorose chiamate di Facchetti ad arbitri e designatori, con interventi diretti di Moratti, oltre ad altre inedite chiamate che riguardavano Milan ed altre squadre. A quel punto si disse che le telefonate non avevano rilievi penali -anche se poi Moggi viene condannato in primo grado per "potenziale rete di contatti atta ad alterare il campionato" soprattutto per quelle intercettazioni per delle SIM svizzere attribuite in modo artigianale ad alcuni arbitri e mai intercettate (anche se era possibile farlo) mentre la difesa di Moggi dichiara che erano SIM usate come anti-spionaggio (quanta verità!). In ogni caso, Narducci e i suoi non scoprono, in mesi di pedinamenti e intercettazioni dirette, prove di qualsivoglia alterazione e anzi tentano di ricusare il giudice (strano da parte del PM!). Tuttavia quelle telefonate interiste (e milaniste) avevano ed hanno valore sportivo pesante e avrebbero portato, se uscite nello stesso periodo di quelle di Moggi, ad una pesante penalizzazione dell'Inter e ad un appesantimento della penalizzazione al Milan che, ricordiamolo, riuscì a beccare una penalizzazioni di punti idonea a non perdere la qualificazione in Champions, poi vinta quell'anno. Lo stesso PM Palazzi, sollecitato dalla Juve (e non dalla FIGC!) a fare chiarezza, nel 2011 sente Moratti, non convocandolo in Procura FIGC, ma incredibilmente andando a trovarlo a domicilio, nel suo ufficio nerazzurro. Poi, con estrema lentezza (ca. 18 mesi) per sentire il solo Moratti ed analizzare una decina di intercettazioni (quanta differenza rispetto ai processi sbrigativi e fallaci di questa estate con 2 gradi per decine e decine di tesserati in poche settimane!) Palazzi arriva ad una relazione in cui accusa Inter (e ancora Milan, oltre ad altre squadre) di aver evidentemente messo in atto comportamenti atti ad alterare il torneo, attivando di fatti un illecito sportivo (accuse peggiori o quantomeno simili a quelle a Moggi, per la quale era stato "inventato" ex-novo il reato di illecito strutturato..). A quel punto quindi l'Inter, per quei reati per i quali dovrebbe comunque difendersi in un processo sportivo (abbiamo visto quali armi spuntate hanno gli accusati) meriterebbe la retrocessione, oltre ovviamente alla revoca dello Scudetto tolto alla Juve e magari la revoca di qualche altro scudetto. Ma, come tutti già sapevano, i reati sono prescritti, per pochi mesi. Palazzi avrebbe potuto fare in tempo -lo sapeva- eppure lascia trascorrere i termini e, non solo, invece di deferire l'Inter e Moratti, i quali a quel punto avrebbero potuto appellarsi alla prescrizione ( o rinunciarci andando a processo per chiedere l'assoluzione, anche in nome del compianto Facchetti), Palazzi indica i reati come "prescritti" già nella sua relazione. E Moratti tace e acconsente, dichiarando però ai giornali: "Le parole di Palazzi sono infondate, pericolose e stupide". Non si ricordano interventi di Petrucci a difesa del Procuratori. Ciliegina sulla torta: la prescrizione per questi reati sportivi è cambiata subito dopo Calciopoli, accorciandosi ovviamente. Non ricordiamo poi cosa è accaduto in FIGC quando Andrea Agnelli ha in sintesi rivendicato, vista i reati prescritti all'Inter, quantomeno la revoca del famoso Scudetto di Cartone (o assegnato in Segreteria, che dir si voglia): la FIGC si reputa incompetente nel decidere cosa fare e comunque scopre che non c'è alcun atto di delibera di assegnazione dello Scudetto all'Inter, ma solo un comunicato all'UEFA con la nuova classifica, al netto delle squadre squalificate. Ieri la giustizia ha condannato l'Inter per Vieri, una piccola piccolissima notizia, una faccenda quasi insignificante. Eppure il destino della Juve dai 91 punti e dagli 8 finalisti di Berlino (più Ibra e Nedved), l'epopea dell'Inter del triplete, del Milan vincitore di Champions, e in definitiva la storia recente del calcio italiano germoglia da lì, da quelle piccole faccende. Ma ci si interroga più volentieri se ad essere epulso doveva essere Danilo piuttosto che Brkic.
Vieri: “Inter mi trattò da mafioso, Juve era la più forte”, scrive “Juvemania”. Christian Vieri, in arte Bobo, ha rilasciato oggi una lunga intervista alla Gazzetta dello Sport’. Centravanti giramondo e grande tifoso della Juventus, Vieri ha vestito oltre che la maglia della squadra per cui fa il tifo, quelle di Milan, Monaco, Atletico Madrid, Lazio e Inter. Proprio con i nerazzurri sono arrivate le delusioni più cocenti, soprattutto per una vicenda di mobbing che si trascina in tribunale da anni. “È davvero un peccato che sia finita in un determinato modo. Amavo l’Inter - dichiara Bobo – , ho dato tutto, mi sono ammazzato per la maglia nerazzurra, ogni giorno. Agli allenamenti ero il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. Non mi sono mai tirato indietro e a volte ho giocato nonostante non stessi in piedi. Però, mi dicevano: vai in campo, resta lì davanti anche fermo, che per noi va bene così. E io accettavo, perché ci tenevo davvero, anche a costo di fare figure di merda… Sì, scriva così”. L’Inter, però, non si fidava di lui e lo fece pedinare e intercettare, entrando prepotentemente nella sua vita privata. Eppure il rapporto con il presidente Moratti era ottimo… Il mio rapporto con Moratti era speciale, forte, decisamente forte. Ci sentivamo parecchie volte durante il giorno, anche alle 3 del mattino, ci confrontavamo su ogni cosa. Mi faceva sentire uno di famiglia. Insomma, stavo bene professionalmente e umanamente, e davo ogni mia energia per la squadra. Capite bene la terribile delusione nel momento in cui è emerso che mi pedinavano e addirittura intercettavano. Cavolo, queste sono cose che si fanno coi mafiosi…Vieri all’Inter era convinto di essere un re, poi è arrivato Adriano e Moratti cambiò…Diciamo che dopo l’arrivo di Adriano le telefonate con il presidente si erano fatte meno frequenti… Ma io so come vanno le cose, in particolare nel calcio. Bastava parlarci direttamente e non avrei avuto problemi ad andarmene in buoni rapporti. C’era aria di rinnovamento e dopo sei anni era forse anche normale puntare su altri giocatori. Ma perché non vedercela fra di noi, in amicizia? Perché cercare la rottura in quel modo? Un giorno dissi: ‘Presidente, non ti preoccupare, se devo andarmene basta che me lo dici, non ci sono problemi’. E lui: ‘No, no. L’Inter siamo io e te, le colpe sono sempre nostre per gli altri, le responsabilità ce le prendiamo sempre noi due. Ti voglio al mio fianco…’. Io allora insisto, per essere sicuro: ‘Davvero presidente, se ci sono problemi…’. Risposta secca: ‘Va tutto bene!’. Altro che tutto bene quando poi vieni a scoprire di essere intercettato…Da anni si sente il ritornello che quell’Inter non vinceva perché c’era un “sistema” che voleva favorire qualcun altro. La risposta di Vieri è secca e sulle vicende di Calciopoli non ha alcun dubbio: Juventus e Milan erano semplicemente più forti. Noi sprecammo l’occasione nel 2002.
Massimo Moratti e Luciano Moggi si sono ritrovati faccia a faccia in tribunale a Milano, per il processo che vede l'ex dg bianconero imputato per diffamazione ai danni dello scomparso Giacinto Facchetti. L'ex patron dell'Inter, convocato in qualità di testimone, ha individuato Moggi tra i banchi e gli si è avvicinato prima e anche dopo aver risposto alle domande rivoltegli dal legale dell'imputato. Tra Moratti e Moggi strette di mano, sorrisi cortesi e una breve conversazione Con una battuta infelice su Twitter Luciano Moggi ha rinnegato la stretta di mano a Massimo Moratti. Dopo l'incontro di ieri al Tribunale di Milano, nell'ambito del processo per diffamazione nei confronti di Giacinto Facchetti, e il gesto distensivo che sembrava aver sancito la pace ecco che la temperatura è sprofondata nuovamente sotto zero in serata, precisamente alle 21:21 del 2 febbraio 2015 , con la risposta dell'ex dirigente della Juve a un tifoso che chiedeva spiegazioni: "Mi sono lavato le mani subito". Un tweet che è rimasto lì, senza pentimenti, scatenando i tifosi bianconeri e nerazzurri. Di battuta, presumibilmente, si tratta, anche se a Moggi è sicuramente scappata la mano. Esagerando. Nessuna pace con Moratti e lo si deduce anche nelle dichiarazioni alla stampa: "Lui mi ha porto la mano e io glielo stretta. Cosa dovevo fare? Anche per una questione di educazione". La foto aveva illuso tutti, lo scontro invece continua. Si attende la replica di Moratti. Sarà comunque il Tribunale a dire l'ultima parola su una delle più grandi rivalità nel mondo del pallone. Anche meno di 135 caratteri. Ma più violenti di un intero discorso. L'ex direttore generale della Juventus, Luciano Moggi, ha commentato con una battuta di cattivo gusto l'incontro di ieri, in Tribunale, con l'ex presidente dell'Inter Massimo Moratti. A chi, su Twitter, gli chiedeva spiegazioni sulle immagini della stretta di mano con Moratti (che ieri hanno spopolato sul web), lui ha risposto così: "Mi sono lavato subito le mani". Luciano Moggi ha scritto queste 6 parole utilizzando il suo profilo Twitter, che da un po' di tempo usa con una certa frequenza per commentare le questioni e i fatti più importanti che accadono nel mondo del calcio. Un modo che gli ha anche permesso di mantenere un filo diretto con i tifosi juventini. Al momento, non si registra nessuna rettifica da parte di Moggi. Nè una replica dell'Inter o di Massimo Moratti.
E' stata vera pace o solo un gesto distensivo? Si chiede Giovanni Capuano su “Panorama”. La stretta di mano tra Moggi e Moratti fa discutere e divide i tifosi di Juventus e Inter. Il saluto, andato in scena in un aula al terzo piano del Tribunale di Milano dove si discuteva una causa per diffamazione intentata dalla famiglia Facchetti nei confronti dell'ex dg juventino, ha fatto in poche ore il giro del web diventando un vero caso. Perché non c'è dubbio che Moggi e Moratti rappresentino agli occhi dell'opinione pubblica i due grandi nemici, divisi da anni di battaglie sul campo e separati per sempre dai fatti di Calciopoli e dalle rivelazioni emerse in seguito. Dall'estate del 2006 non era mai accaduto che i due si rivedessero e gli scambi dialettici erano stati all'insegne delle polemiche e dei veleni. Anche per questo la cordialità colta nelle immagini circolare sui social e poi pubblicate dai giornali ha spiazzato molti. Gesto educato o una prova di disgelo? Più probabile la prima delle due interpretazioni, anche se non è chiaro chi abbia cercato il contatto con il nemico. Alcune ricostruzioni raccontano di un Moggi che si sarebbe diretto verso Moratti già presente in aula, mentre lo stesso ex dg della Juventus ha raccontato così l'episodio a Tuttosport: "Lui mi ha porto la mano e io gliel'ho stretta. Cosa dovevo fare? Anche per una questione di educazione". Versioni profondamente discordanti e che non aiutano a trovare un punto d'intesa tra i due eserciti che, infatti, sono schierati dal momento della pubblicazione della foto. La vicenda si è colorata ancor più di giallo dando una scorsa ai profili social di molti tifosi juventini. Improvvisamente nella serata del giorno dell'incontro è apparso, infatti, un tweet di Luciano Moggi in risposta a una domanda di un fan deluso. Sei paroline destinate a rinfocolare immediatamente la polemica. Alla tifosa che chiedeva espressamente Caro direttore, era necessario stringere la mano a uno come MORATTI? Io non lo avrei mai fatto per mille motivi!, Moggi ("di suo pugno", come precisato dall'entourage) dal suo profilo ufficiale replica: Mi sono lavato le mani subito. Tweet postato alle ore 21.21 e mai rimosso, cui sono seguiti consensi e applausi a scena aperta del popolo bianconero. In attesa di conoscere la verità dei due protagonisti, un piccolo giallo. Chi ha salutato chi?
TRUFFE DA SPORT. IL CONI NON PAGA I 13 AL TOTOCALCIO. IL CASO MARTINO SCIALPI.
Vinse al Totocalcio e non fu pagato. Il Coni: quei soldi non gli spettano. Martino Scialpi, insieme al suo legale, ha presentato una denuncia per associazione a delinquere ma l’organizzazione ribatte: «Tutti i tribunali gli hanno dato torto», scrive Monica Ricci Sargentini su “Il Corriere della Sera”. Che Martino Scialpi fosse uno che non mollava in questi 30 anni e passa si era capito. Ma il 15 gennaio il commerciante di Martina Franca (Taranto) che nel 1981 fece 13 al Totocalcio ma non fu mai pagato ha sorpreso più di una persona presentandosi alla procura della Repubblica di Taranto con una denuncia per associazione a delinquere, truffa, falso e distruzione di atti nei confronti di due legali del Coni, di un cancelliere, un funzionario e un dirigente del Tribunale ordinario di Roma. L’esposto è stato firmato anche dall’avv. Guglielmo Boccia, difensore dello scommettitore, che si ritiene danneggiato per non aver potuto esercitare il diritto di difesa. Il Coni però fa presente che «pretese economiche del sig. Scialpi sono già state respinte con sentenze del Tribunale di Roma del 1983 e della Corte d’appello di Roma del 1985, passata in giudicato. Avverso tale ultima pronuncia il sig. Scialpi ha proposto ben tre domande di revocazione, tutte respinte dalla Corte d’appello di Roma, con sentenze confermate dalla Corte di Cassazione (da ultimo nel gennaio 2012). L’unico provvedimento, a carattere provvisorio (si trattava di un’ingiunzione di pagamento), che ha condannato il Coni, adottato dal Tribunale di Roma il 9 febbraio 2012, è stato revocato dallo stesso Tribunale pochi giorni dopo, con ordinanza del 14 marzo 2012. Pertanto, il sig. Scialpi non ha diritto di pretendere alcunché dal Coni». Il Coni sostiene che la matrice del tagliando non sia mai arrivata all’archivio corazzato del Totocalcio, ma la schedina, dopo una serie infinita di traversie giudiziarie, fu dichiarata autentica. Scialpi e Boccia segnalano una serie di «anomalie e discrasie» che avrebbero «influenzato» la decisione del giudice Barbara Perna del tribunale civile di Roma che, il 25 novembre scorso, ha accolto l’istanza presentata dal Coni di sospensione dell’efficacia del titolo esecutivo sul quale si fonda il pignoramento presso la Bnl, conto terzi, della somma di 3,9 milioni di euro nella disponibilità del Coni: «Come è possibile — dice ancora Scialpi — che questa somma sia ancora bloccata grazie, tra l’altro alla presentazione di documenti falsi, quando è ormai acclarato che quei soldi me li devono dare. Quanto vogliamo ancora andare avanti con questa farsa». Nella denuncia si rammenta che il 14 febbraio del 2012 un giudice civile ordinò al Coni di pagare nei confronti di Scialpi la somma di oltre 2 milioni e 300mila euro, ma l’efficacia esecutiva del titolo fu sospesa (dopo l’opposizione dello stesso Coni) dal giudice Massimiliana Battagliese il 2 agosto 2013. Il provvedimento però non fu «mai notificato» allo scommettitore, al suo legale e all’avvocato domiciliatario a Roma. Secondo i denuncianti il Coni avrebbe presentato documenti falsi per attestare l’avvenuta notifica dello stesso provvedimento alle controparti e condizionare la sentenza del giudice. Ma l’organizzazione che cura lo sviluppo e la promozione dello sport in Italia rispedisce le accuse al mittente e promette azioni legali: «Incredibilmente, pur in assenza di titolo esecutivo, il sig. Scialpi ed il suo legale hanno avviato una serie di azioni legali – tutte infondate - tra le quali un’azione esecutiva la cui efficacia è stata subito sospesa dal Tribunale di Roma, sez. IV, dott. Battagliese nell’agosto 2013, e successivamente definitivamente dichiarata inefficace dal medesimo Tribunale di Roma, IV sez., dal dott. Perna nel novembre 2014 con provvedimento che ha anche condannato il sig. Scialpi a rifondere le spese di lite. Nessuna delle calunniose accuse del sig. Scialpi, quali riportate nella nota Ansa, ha il benché minimo fondamento. In relazione a queste, nel manifestare solidarietà a quanti continuano a subirle, il Coni ribadisce che continuerà a difendere le risorse economiche pubbliche che gestisce dai tentativi di aggressione del sig. Scialpi, riservando a sua volta ogni iniziativa in relazione alle offensive e calunniose dichiarazioni di quest’ultimo e del suo avvocato».
Il primo novembre del 1981 Martino Scialpi, commerciante di Martina Franca (taranto), realizzò un 13 al Totocalcio che gli avrebbe fruttato oltre 800 milioni delle vecchie lire, ma la vincita gli è sempre stata negata. Così 33 anni dopo l'uomo ha presentato una denuncia per associazione a delinquere, truffa, falso e distruzione di atti, scrive “Il Mattino”. Il Coni, per varie ragioni, si è sempre rifiutato di corrispondere la vincita. L'esposto è stato firmato anche dall'avv. Guglielmo Boccia, difensore dello scommettitore, che si ritiene danneggiato per non aver potuto esercitare il diritto di difesa. Si tratta di una denuncia nei confronti di due legali del Coni, di un cancelliere, un funzionario e un dirigente del Tribunale ordinario di Roma. Il Coni sostiene che la matrice del tagliando non sia mai arrivata all'archivio corazzato del Totocalcio, ma la schedina fu dichiarata autentica. Scialpi e Boccia segnalano una serie di «anomalie e discrasie» che avrebbero «influenzato» la decisione del giudice Barbara Perna del tribunale civile di Roma che, il 25 novembre scorso, ha accolto l'istanza presentata dal Coni di sospensione dell'efficacia del titolo esecutivo sul quale si fonda il pignoramento presso la Bnl, conto terzi, della somma di 3,9 milioni di euro nella disponibilità del Coni. Nella denuncia si rammenta che il 14 febbraio del 2012 un giudice civile ordinò al Coni di pagare nei confronti di Scialpi la somma di oltre 2 milioni e 300mila euro, ma l'efficacia esecutiva del titolo fu sospesa (dopo l'opposizione dello stesso Coni) dal giudice Massimiliana Battagliese il 2 agosto 2013. Il provvedimento però non fu «mai notificato» allo scommettitore, al suo legale e all'avvocato domiciliatario a Roma. Secondo i denuncianti il Coni avrebbe presentato documenti falsi per attestare l'avvenuta notifica dello stesso provvedimento alle controparti e condizionare la sentenza del giudice.
Totocalcio, fece «13» nel 1981 ma il Coni ancora non ha pagato. Miliardario mancato «Il montepremi era di un miliardo di lire. In questi anni ho perso tutto: moglie, casa e lavoro». Nel 2012 una sentenza condanna l’ente sportivo a pagare, scrive Monica Ricci Sargentini su “Il Corriere della Sera”. Il 7 gennaio 2015 Martino Scialpi si presenterà per l’ennesima volta al tribunale di Roma nella speranza di porre fine alla vicenda kafkiana in cui è sprofondato nel 1981 quando con 500 lire e due semplici colonne vinse poco più di un miliardo di vecchie lire al totocalcio. Allora pensò di essere diventato ricco, invece iniziò la sua rovina. Sono passati 34 anni e quest’uomo non ha ancora ricevuto un centesimo. Non solo: si è dovuto difendere dall’accusa di frode da cui è stato assolto nel 1987. E nonostante nel 2012 un giudice abbia definitivamente stabilito, dopo un’infinita querelle legale che è passata dai tribunali di Lecce, Salerno, Bari, Roma e Taranto, che Scialpi ha diritto di avere dal Coni 2.604.823,59, l’ente si rifiuta ancora di pagare. Oggi la somma che dovrebbe finire sul conto corrente di Scialpi è accantonata in una filiale Bnl di Roma (banca del Coni) in attesa che un giudice decida sull’ennesimo ricorso presentato dal Coni. L’ultima udienza del 3 dicembre è stata rinviata al 6 maggio del 2015. Visibilmente provato, Scialpi vorrebbe chiudere questa vicenda e ricominciare a vivere: «Il Coni è inadempiente da 33 anni - dice al telefono - , hanno persino presentato carte false per non pagarmi. È una cosa inaudita». Oggi, in sede civile, il Coni dovrà provare quello che va dicendo da 33 anni e cioè che la matrice vincente: 625SA77494 della schedina giocata da Scialpi non è mai arrivata a Bari. «Perché si sono sempre rifiutati di farci vedere mostrare i verbali di controllo dei bollini utilizzati per le matrici del 1 novembre 1981, il verbale dello spoglio del giorno dopo, e l’armadio che conservava le matrici? Siamo dovuti arrivare a chiederne il sequestro. Voglio proprio vedere cosa succederà oggi» dice Scialpi che, nonostante gli anni, non ha perso la voglia di combattere. Quando un martedì mattina del novembre del 1981 Scialpi, credendosi miliardario, porta la schedina vincente nella sede del Coni a Bari, si sente rispondere che la ricevuta non è mai arrivata. Per loro non c’è stata nessuna vincita. Su consiglio di un avvocato, l’uomo corre alla ricevitoria. Spera di ricevere spiegazioni dalla signora Annamaria Taiana, che allora gestiva la tabaccheria a Martina Franca. Nel frattempo fa un esposto alla procura di Taranto. Invece dei chiarimenti viene chiamato dai Carabinieri che lo informano che la titolare della tabaccheria lo ha denunciato per minacce. A distanza di poco tempo scopre pure di dover rispondere alle accuse di truffa del Coni e della Guardia di Finanza: Scialpi avrebbe falsificato la schedina. Iniziano le battaglie legali: Scialpi è un ambulante, soldi ne ha pochi, gli pignorano la casa, sua moglie non ce la fa più, lo lascia, ha difficoltà a mandare avanti i suoi tre figli. Le sue fortune se ne vanno in spese legali: oltre 400 mila euro. In compenso è dai tribunali che arrivano le buone notizie. Viene assolto dalla minacce alla tabaccaia e una sentenza del 1987 lo assolve pienamente dall’accusa di aver falsificato la schedina: una perizia dice che è autentica. Riabilitato, a Scialpi viene restituita la matrice, che è conservata nella cassaforte di un notaio. Ma la vicenda non si chiude. L’avvocato del Coni Luigi Condemi, l’avvocato Enrico De Francesco di Taranto e l’ex responsabile Coni per la zona di Bari Mario Bernacca sono persino sotto indagine per aver prodotto documenti falsi nel tentativo di dimostrare che quella schedina non andava pagata. Lui però tiene duro. Disoccupato, «vivo grazie all’aiuto di alcuni amici» dice, in 33 anni ha collezionato 31 processi, «molti più di quelli di Berlusconi», ironizza , ma non ha alcuna intenzione di lasciar perdere. «Certo mi piacerebbe molto poter mettere la parola fine a questa vicenda ma non senza aver ottenuto giustizia».
«La magistratura punisca i responsabili o sarò costretto a farmi giustizia da solo». È ormai al limite della sopportazione Martino Scialpi, il sessantenne ambulante di Martina Franca (Taranto) che il primo novembre del 1981 realizzò un 13 al Totocalcio da oltre un miliardo di lire, ma non ha mai incassato la vincita perchè la titolare della ricevitoria smarrì la matrice della schedina, scrive "Il Corriere della Sera". Da allora ha affrontato un calvario giudiziario che dura da 29 anni e, malgrado 23 anni fa il Tribunale di Taranto abbia attestato l’autenticità del tagliando, il Coni è tornato a contestare e a mettere in dubbio la genuinità della schedina. La vincita oggi varrebbe dieci milioni di euro oltre al risarcimento dei danni morali e materiali. Il commerciante ritiene che vi siano anche responsabilità di funzionari del Coni nella falsificazione di un documento sulla cessione dell’attività del ricevitore da un proprietario all’altro e quindi del rilascio della concessione (già dimostrata da una perizia disposta dal gip di Bari nel 2004). Per questo aspetto della vicenda è in corso un procedimento penale per frode processuale a carico degli ex vertici del Coni. Scialpi ha depositato anche una relazione del commercialista Luigi Perrini che certifica l’esborso di denaro che ha dovuto sostenere in questi anni per viaggi, spese legali e di cancelleria, quantificato in 383mila euro a partire dal 1987.
INCHIESTA SUI MAGISTRATI DI TARANTO - A luglio 2010 la procura di Potenza aprì un fascicolo di indagine sui magistrati di Taranto che nell’arco di oltre vent’anni si sono occupati della vicenda di Scialpi. L’apertura dell’inchiesta a carico dei magistrati tarantini risulta dal provvedimento con cui la stessa procura di Potenza, attraverso il pm Anna Piccininni ha trasmesso alla procura di Roma per competenza territoriale. Si tratta di atti relativi alla denuncia presentata dallo scommettitore nei confronti della titolare della ricevitoria, Maria Luisa Taiana, degli ex funzionari del Totocalcio di Bari Mario Bernacchia e Rocco De Vivo, degli ex segretari generali del Coni Mario Pescante e Raffaele Pagnozzi e del coordinatore degli affari giuridici del Coni Leonardo Zauli, per associazione per delinquere e altri reati. La denuncia di Scialpi si riferisce a comportamenti e dichiarazioni rese dai protagonisti della vicenda fino al 2005 e sostiene che i rappresentanti del Totocalcio hanno esibito un documento, inerente la cessione dell’attività di ricevitore da un proprietario all’altro e quindi del rilascio della concessione, risultato manipolato. A supporto di questa tesi Scialpi dispone di una doppia perizia grafica e merceologica. Tale circostanza, secondo Scialpi, farebbe scattare la responsabilità extracontrattuale del Coni. Dopo che la procura di Potenza aveva trasmesso gli atti a Roma su una parte dell’indagine trattenendo per sè quella sui magistrati tarantini, la procura romana ha chiesto l’archiviazione nei confronti della titolare della ricevitoria e dei funzionari dell’ente olimpico. Scialpi ha presentato opposizione. «Sono stanco - disse già allora l'ambulante - di rincorrere una giustizia che non ha ancora fermato chi ha commesso o dichiarato il falso per impedirmi di incassare una vincita sacrosanta e che in passato ha creato una vera anomalia nel sistema giustizia italiano con poteri forti che hanno coperto le responsabilità del Coni». L’opposizione all’archiviazione è corredata da sei fascicoli e 8500 fotocopie che raccontano una odissea giudiziaria che si trascina da 29 anni. «Nel 1983 - osserva ora Scialpi - mi accusarono di aver cercato di truffare lo Stato, ma una perizia dimostrò che la schedina era genuina e che costituiva valido titolo per il pagamento della vincita. Poi sono emerse varie irregolarità amministrative nella concessione della ricevitoria da parte del Coni, che quindi avrebbe dovuto subito pagarmi». «Devono corrispondermi quella vincita, ne ho diritto - conclude oggi l'ambulante - dalle carte emergono gravi responsabilità, chiedo alla magistratura di fare finalmente giustizia». Altrimenti provvederà «a modo suo».
Il signor Scialpi ed il 13 maledetto. Cerca di riscuotere la vincita dal 1981. Il venditore ambulante di Taranto combatte da 33 anni una guerra legale contro il Coni. La sua vincita (1 miliardo di lire) non è stata mai riconosciuta ma lui non si arrende, scrive di Angela Geraci su “Il Corriere della Sera”. Il pomeriggio del 1° novembre 1981 un ragazzo pugliese di 28 anni si ritrova all’improvviso straricco. Si chiama Martino Scialpi, fa il venditore ambulante e quella domenica ha appena fatto 13 al Totocalcio. Ha comprato una schedina in una ricevitoria di Ginosa, in provincia di Taranto, e ha indovinato tutti i risultati delle partite: ha vinto più di un miliardo di lire. Non sa ancora che tutti quei soldi, però, non li vedrà mai. O, almeno, non li ha visti fino a oggi che ha 61 anni e ha passato gli ultimi 33 a combattere nelle aule di giustizia per riscuotere la sua vincita, tirando in ballo anche il Coni che quella vittoria non l’ha mai riconosciuta. Adesso con la rivalutazione (e il risarcimento danni), ha calcolato Scialpi, quella schedina varrebbe circa 9 milioni di euro. L’ultima speranza rimasta al commerciante è un udienza fissata il 4 novembre al tribunale di Roma: dopo aver ascoltato le parti, il giudice deciderà se accogliere o meno la richiesta di archiviazione dell’indagine contro il Coni fatta dalla pm. E allora Scialpi saprà se deve rassegnarsi o può ancora continuare a sognare. Tutta colpa di una lunga e complicata serie di eventi che parte dalla «sparizione» della matrice della sua schedina vincente. Il Totocalcio si è sempre rifiutato di pagare la vincita affermando che la titolare della ricevitoria aveva smarrito la matrice della schedina. Di fatto il tagliandino che avrebbe cambiato la vita di Scialpi non è mai arrivato nell’«archivio corazzato» della commissione del Totocalcio di Bari. Ma la storia è più complessa e inizia a rimbalzare da un aula di tribunale all’altra, di ricorso in ricorso. Perché c’è un problema anche per quanto riguarda il posto in cui l’uomo ha comprato la schedina. Scialpi coinvolge i vertici del Coni che si difendono esibendo un documento che prova la cessione dell’attività della ricevitoria da un proprietario all’altro, con la conseguente revoca della concessione. Insomma, la ricevitoria dove Scialpi aveva tentato la fortuna non avrebbe avuto le carte in regola per vendere le schedine in quel momento. Scialpi viene anche accusato di truffa e falso ma poi è assolto con formula piena. Una sentenza del tribunale di Taranto nel 1987 accerta l’autenticità della schedina e gliela restituisce. Passano gli anni, il commerciante continua a chiedere giustizia in un turbinio di carte bollate, perizie, ricorsi e richieste di annullamento di sentenze, fra il penale e il civile. Come quando, nel 2008, chiede che venga annullato il verdetto della corte d’appello-sezione civile di Roma che nel 1985 ha dato ragione al Coni. Scialpi e il suo avvocato portano ai magistrati una doppia perizia grafologica e merceologica disposta nel 2004 dal gip del tribunale di Bari: gli esperti (il chimico Roberto Ciarrocca e il grafologo Romeo Di Desiderio) sostengono che le carte presentate dal Coni sul passaggio di proprietà della ricevitoria sono state «manipolate». Sembra addirittura che il documento datato 5 agosto 1981 sia stato in realtà redatto in un’epoca vicino al 1991. I processi vanno avanti, tra i tribunali di Taranto, Bari e Roma. Nel 2012 il giudice civile di Roma emette un’ordinanza in cui intima al Coni di riconoscere a Scialpi oltre 2 milioni e 340 mila euro. Ma il venditore ambulante di Martina Franca deve aspettare ancora: il 19 settembre è prevista l’udienza in cui si dovrà decidere sul procedimento di pignoramento, avviato dal legale del commerciante ai danni del Coni, per un ammontare di circa 4 milioni di euro, su beni immobili e presso terzi riconducibili al Comitato Olimpico. Intanto sono stati indagati, con l’accusa di aver prodotto documenti falsi, l’avvocato Luigi Condemi del Coni, l’avvocato Enrico De Francesco di Taranto e l’ex responsabile Coni per la zona di Bari Mario Bernacca. Ma il pm ha chiesto l’archiviazione dell’indagine. Scialpi si è opposto e il 4 novembre ci sarà l’ennesima discussione fra le parti, dopo di che il giudice deciderà se accogliere la richiesta di archiviare il procedimento o meno . «Da trenta anni inseguo una vincita che doveva cambiarmi la vita e invece me l’ha rovinata - diceva Scialpi all’Ansa nel 2011 - Ho speso più di 400 mila euro, guadagnati con umile lavoro di commerciante in aree pubbliche, in perizie, spese legali, fotocopie e viaggi per seguire in mezza Italia le decine di cause contro il Coni». Da parte sua il Comitato Olimpico non rilascia più commenti su questa storia (che periodicamente, da oltre tre decenni, torna a galla) e rimanda all’ultima nota diffusa, un anno fa: «Non esiste alcuna sentenza del tribunale di Taranto, della Cassazione o di qualsiasi altro giudice che abbia accertato il preteso diritto del signor Scialpi al pagamento di una vincita al Totocalcio - si legge nella nota dell’8 luglio 2013 -. Il signor Scialpi è sempre uscito soccombente da tutti i giudizi intentati al Coni». «Continueremo a tutelare il denaro pubblico che gestiamo - dice ancora il Coni - dai tentativi di aggressione del signor Scialpi». L’avvocato Guglielmo Boccia, legale di Scialpi, è invece fiducioso quando parla al telefono da Martina Franca: «Siamo sereni perché iniziamo a vedere la fine di un percorso lungo decenni e abbiamo fiducia nella giustizia: solo così si spiega la tenacia di Scialpi che ha 33 procedimenti aperti e ha perso casa e lavoro per avere la sua vincita». Un muro contro muro, dunque, che dura dal 1981. I casi sono due: o il commerciante è un folle che ha dedicato metà della sua vita a perseguitare il Coni oppure è un uomo che lotta per un sogno a cui ha diritto. Da una lontana domenica d’inverno di trentatrè anni fa.
INTERROGAZIONE A RISPOSTA ORALE 3/02579 presentata da VICO LUDOVICO (PARTITO DEMOCRATICO) in data 31/ 10/2012.
Atto Camera Interrogazione a risposta orale 3-02579 presentata da LUDOVICO VICO mercoledì 31 ottobre 2012, seduta n.712 VICO. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'economia e delle finanze. - Per sapere - premesso che: il signor Martino Scialpi, nato a Martina Franca (Taranto) il 13 ottobre 1951, e ivi residente, in data 29 ottobre 1981 effettuava presso la ricevitoria del Totocalcio n. 9147 in Ginosa (Taranto) la giocata di una schedina del concorso pronostico del 1 o novembre 1981, munito del bollino CONI figlia 625/A doppia 77494, che totalizzava all'esito dei risultati calcistici, 13 punti, con conseguenziale vincita di lire 1.003.092.000; il CONI rigettava il reclamo, presentato nei termini regolamentari da Martino Scialpi, adducendo di non aver mai ricevuto la matrice della predetta schedina, senza mai fornire neanche dinanzi all'autorità giudiziaria alcun verbale della commissione di zona del Totocalcio di Bari, che accertasse il mancato rinvenimento; la ricevitrice Maria Luisa Taiana, dopo la presentazione, in data 7 novembre 1981, sette giorni dopo la giocata vincente, inviava relazione «per bollini mancanti» sostenendo lo smarrimento del tagliando 625 SA 77494 e in pari data provvedeva a sbarrare la predetta dichiarazione con timbro CONI, sostituendola con altra con la quale sosteneva la «sottrazione del predetto bollino ad opera di terzi», dichiarando successivamente presso la polizia giudiziaria - carabinieri della procura della Repubblica di Taranto che quest'ultima dichiarazione gli era stata così suggerita da funzionari del CONI; il CONI, con lettera del 19 novembre 1981, mai prodotta ed allegata alla ministeriali, chiedeva al Ministero delle finanze di svolgere indagini in ordine alla presunta vincita dello Scialpi e, a seguito del rapporto di P.G. della Guardia di finanza fu instaurato, presso la procura della Repubblica presso il tribunale di Taranto, procedimento penale a carico del signor Martino Scialpi, al quale venivano contestati i presunti reati di truffa, furto aggravato e falso ai danni dello Stato, perchè si sosteneva la sottrazione del bollino vincente, da parte dello Scialpi presso il ricevitore e di aver compilato successivamente la schedina vincente non appena conosciuti i risultati dai campi di calcio; con sentenza - ordinanza istruttoria, lo Martino Scialpi, per tutti i reati a su tempo ascrittigli, fu assolto con la formula più ampia «perchè il fatto non sussiste», dopo aver verificato il tribunale penale di Taranto la regolarità della schedina vincente; la predetta assoluzione del signor Martino Scialpi, peraltro mai impugnata e, pertanto, passata in giudicato, acclarava in maniera definitiva la regolarità della giocata dello Martino Scialpi, tanto che allo Scialpi, quale legittimo proprietario veniva restituita la schedina, a suo tempo sequestrata, perchè potesse essere onorata di pagamento da parte del CONI; stranamente nonostante la più ampia assoluzione di Martino Scialpi «perchè il fatto non sussiste», gli atti non venivano rimessi alla competente procura della Repubblica per eventuali contestazioni nei confronti delle parti civili costituite per il reato di calunnia; il CONI anzichè provvedere la pagamento della vincita, nelle ulteriori fasi processuali civile e penali escludeva la sua mancanza di responsabilità extracontrattuale addossando ogni responsabilità a carico della ricevitrice e, alle contestazioni dello Scialpi di irregolarità nella concessione della ricevitoria alla signora Maria Luisa Taiana, il CONI escludeva ogni responsabilità, anche dei suoi funzionari depositando, a riprova di quanto sostenuto, documentazione, impostando nuove strategie difensive per evitare in maniera fraudolente il pagamento; il signor Martino Scialpi, sicuro delle irregolarità commesse dal Totocalcio sede di Bari nella concessione della ricevitoria, rivenienti dalla sentenza di assoluzione penale, da parte del tribunale di Taranto, inoltrava in data 5 marzo 1999, denuncia alla procura della Repubblica presso il tribunale di Taranto, poi trasmessa per competenza alla procura della Repubblica presso il tribunale di Bari; a seguito del suddetto esposto, veniva instaurato procedimento penale a carico di due funzionari del CONI, presso la procura della Repubblica presso il tribunale di Bari n. 1900/99 R.G.N.P.R. e n. 11201/99 giudice delle indagini preliminari, con imputazione del presunto reato di falso per aver gli stessi falsificato documenti afferenti il procedimento amministrativo di rilascio della concessione alla ricevitrice Maria Luisa Taiana; nel predetto processo, il pubblico ministero della procura della Repubblica presso il tribunale di Bari disponeva l'espletamento dell'incidente probatorio, ritualmente espletato in contraddittorio fra le parti, volto a verificare l'autenticità della «dichiarazione di voltura intestazione licenza» datata 5 agosto 1981, a firma del precedente ricevitore e Maria Luisa Taiana quale subentrante e, del «passaggio materiale in consegna e dichiarazione impegnativa», a firma dei medesimi, priva di data; disposte ed eseguite due perizie, una grafologica e l'altra merceologica, premesso l'accertamento della autenticità della sottoscrizione della Taiana apposta sulla dichiarazione del 5 agosto 1981, i periti concludevano che il documento posto a base della regolarità amministrativa dell'autorizzazione rilasciata alla Taiana per l'esercizio della ricevitoria Totocalcio di Ginosa n. 9147, portante la data del 5 agosto 1981 è manifestamente falso perchè: a) le firme apposte dalla persona che si assume essere il cedente della ricevitoria sul documento datato 5 agosto 1981, denominato «compromesso» e sul documento «passaggio materiale di consegna» privo di data, non sono autografe; b) la firma della Taiana posta sul documento del 5 agosto 1981, era autentica; c) i medesimi documenti, in verifica sono stati redatti in un tempo più prossimo al 1991 che al 1982 e quindi necessariamente non compatibile con una datazione da far risalire all'agosto 1981; i risultati dell'espletato incidente probatorio, prova penale inconfutabile, ovvero fatto accertato con il criterio e la garanzia della fase predibattimentale in contraddittorio delle parti, ha indotto il signor Martino Scialpi ad inoltrare presso la corte d'appello di Roma atto per revocazione ex articolo 395, 2 e 3 codice di procedura civile, della precedente sentenza resa dalla corte d'appello di Roma, che aveva dichiarato lo Scialpi soccombente non avendo la corte ravvisato alcuna responsabilità del CONI nella concessione dell'autorizzazione alla gestione, in capo alla Taiana e conclusosi tale procedimento, con il rigetto della domanda, non rientrante nei casi previsti dall'articolo 395 numeri 2 e 3 codice di procedura civile; Martino Scialpi notificava atto di citazione in data 30 novembre 2009, dinanzi al tribunale civile di Roma, convenendo in giudizio il CONI, i signori Mario Bernacchia, Rocco De Vivo, Leonardo Zauli, Mario Pescante, Raffaele Pagnozzi, quali funzionari dell'ente CONI, la ricevitrice, Maria Luisa Taiana e il Ministero dell'economia e delle finanze per sentirli condannare, in solido tra loro al risarcimento di tutti i danni subiti e quantificati nella misura di euro 10.000.000 circa, per comportamenti illeciti perpetrati dal CONI e dai suoi funzionari sin dal 1981 nonchè il Ministero dell'economia e delle finanze per non aver vigilato sul comportamento dell'ente CONI, nonostante fosse stato portato a conoscenza dei vari illeciti perpetrati; nel predetto procedimento dinanzi al tribunale ordinario di Roma, XII sezione civile n. 86178/09 R.G., G.U. dottoressa Assunta Canonaco, avendo il CONI e l'altro convenuto ex funzionario Mario Bernacchia depositato gli stessi documenti, già accertati falsi nel sopra indicato incidente probatorio, dinanzi al tribunale penale di Bari Martino Scialpi depositava querela di falso in via incidentale per l'accertamento definitivo della falsità dei documenti posti a base dell'autorizzazione alla gestione della ricevitoria n. 9147; il G.U. dottoressa Assunta Canonaco del tribunale di Roma, pur ritenendo rilevanti i documenti ai fini della decisione della causa non autorizzava la presentazione della querela di falso in via incidentale e non provvedeva alla sospensione del giudizio, essendo stata presentata, da parte di Martino Scialpi anche querela di falso in via principale, dinanzi allo stesso tribunale di Roma, che perveniva per competenza, ai fini della riunione e sospensione del processo principale, dinanzi alla stessa dottoressa Assunta Canonaco del tribunale di Roma, che decideva nel merito, rigettando la domanda dello Martino Scialpi; alla suddetta sentenza n. 10331/12 resa dal tribunale di Roma nei prossimi giorni sarà notificato atto di appello da parte di Martino Scialpi; oramai è inconfutabilmente scaturito che, in data 29 ottobre 1981, quando lo Scialpi effettuò la sua scommessa presso la ricevitoria di fatto gestita dalla Maria Luisa Taiana, la stessa in tale periodo non era in possesso del titolo abilitante la gestione del Totocalcio, titolo del quale non era munito neanche il cessionario della licenza che, in data 9 settembre 1981, aveva cessato l'esercizio pubblico di bar con decorrenza 1 o settembre 1981; pertanto, è gioco forza concludere che il CONI, alla data del 29 ottobre 1981, rientrante in un lasso di tempo dal 24 ottobre 1981 al 17 dicembre 1981, che ha determinato di fatto e di diritto un «vuoto amministrativo», si è sicuramente e consapevolmente avvalso di una ricevitoria gestita da persona priva della prescritta licenza - autorizzazione, con la conseguenza che la regolare giocata dello Scialpi si può ritenere senza ombra di dubbio effettuata direttamente sotto la piena ed esclusiva responsabilità del CONI, nella fattispecie del CONI. Sede di zona di Bari competente per territorio, che dovrà rispondere, di conseguenza anche di responsabilità extracontrattuale ex articolo 2043 codice civile oltre che di responsabilità contrattuale; il signor Martino Scialpi notificava inoltre atto di citazione, con richiesta di ingiunzione di pagamento ai sensi dell'articolo 186-ter codice di procedura civile nei confronti del CONI dinnanzi al tribunale di Roma, II sezione civile, per il pagamento della somma vinta al concorso n. 11 del 1 o novembre 1981, portante il n. 18268/11 R.G., G.U. dottor Alfredo Matteo Sacco; il G.U. Alfredo Matteo Sacco, con ordinanza del 9 febbraio 2012 ordinava al CONI il pagamento della complessiva somma di euro 2.343.000,00 oltre accessori, provvedimento non impugnabile, nè appellabile ma revocabile dallo stesso giudice; nella stessa data del 9 febbraio 2012, il dottor Sacco veniva sostituito da altro magistrato, dottor Lorenzo Pontecovo, che a distanza di pochi giorni 14 marzo 2012, sempre si istanza CONI, provvedeva a revocare la predetta ingiunzione di pagamento; il predetto giudizio è attualmente pendente; anche in virtù della predetta ordinanza di pagamento il signor Martino Scialpi inoltrava al CONI e al Ministero dell'economia e delle finanze diffida ad adempiere, ai sensi dell'articolo 1454 codice civile, senza alcun riscontro; il Ministero dell'economia e delle finanze, che aveva obbligo di vigilanza del gioco Totocalcio, non ha stigmatizzato il comportamento del CONI nella vicenda Scialpi, come attestato nelle note del 18 novembre 1988 del 19 marzo 1990, del 6 giugno 1995 del 5 novembre 1995, in cui in risposta ad interrogazioni parlamentari ha continuato a rappresentare una realtà diversa da quella accertata definitivamente e non ha fornito alcun riscontro alle diffide di adempimento di cui all'articolo 1454 codice civile, inoltrate dallo stesso Scialpi; sia il Ministero dell'economia e delle finanze che il Ministero dello sport, turismo, spettacoli e beni culturali, sin dai primi anni della vicenda che ha coinvolto il signor Martino Scialpi nei confronti del CONI, nelle annose liti giudiziarie, erano a conoscenza della regolarità della giocata da parte del signor Martino Scialpi, a seguito della piena assoluzione dello Scialpi in sede penale, limitandosi a fornire alle precedenti proposte interrogazioni parlamentari risposte basate non su accertamenti seri e concreti, ma assecondando il comportamento dell'ente CONI senza intervenire perchè fosse eseguito l'adempimento della prestazione del pagamento in favore del signor Martino Scialpi; tutta la vicenda ed in particolare l'accertata falsità della documentazione di affidamento della ricevitoria, è stata portata a conoscenza anche da varie missive inviate dal difensore del signor Martino Scialpi, ai Ministeri innanzi indicati, tenuti per legge alla vigilanza del gioco del Totocalcio gestito dal CONI e nonostante quest'ultimo coinvolgimento il Ministero dell'economia e delle finanze, in riscontro alle predette missive si è limitato a comunicare «che ai sensi dell'articolo 2 del decreto interdirigenziale 31 ottobre 2002, l'amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato svolge direttamente tutte le attività di organizzazione ed esercizio dei giochi... a decorrere dal 1 o luglio 2003», tacendo sull'obbligo di vigilanza imposto dalla legge; a nulla sono valse le varie istanze inoltrate dal signor Martino Scialpi anche al Ministero della giustizia e per quanto avvenuto processualmente; di tale vicenda è stata informata la stampa locale e nazionale nonchè la televisione a livello nazionale, perchè è inconcepibile ed inaccettabile la circostanza per cui una giocata, regolarmente effettuata sin dal 1981, e riconosciuta tale in data 10 febbraio 1987, dalla Magistratura Italiana, ad oggi non sia stata ancora pagata dal CONI che, invece, si è prodigato per sottrarsi alla sua responsabilità civile e penale, facendo uso di documentazione falsa contro lo Scialpi nelle varie sedi giudiziarie, ministeriali e parlamentari, nell'assoluta indifferenza dei vari Ministri anche preposti alla vigilanza; a questo punto, ritenuta palese la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale del CONI, se il Ministero dell'economia e delle finanze e il CONI intendono finalmente porre termine a questa interminabile odissea giudiziaria, trasformatasi in un calvario del signor Martino Scialpi, pagandogli la sua vincita regolarmente giocata e riconosciuta e chiedendo al Ministero della giustizia di indagare su quanto è accaduto presso il tribunale di Roma e la procura della Repubblica di Taranto in danno del signor Martino Scialpi -: a questo punto, essendo ad avviso dell'interrogante palese la responsabilità extracontrattuale del CONI, se il Governo, il Ministero dell'economia e delle finanze e il CONI intendono finalmente porre termine a questa interminabile odissea giudiziaria, trasformatasi in un calvario anche personale, del signor Martino Scialpi, pagandogli la sua vincita regolarmente giocata e riconosciuta.(3-02579)
IL MARCIO DOVE NON TE LO ASPETTI: NEI TRIBUNALI E NELLO SPORT.
Beni confiscati alla mafia in modo strumentale e fallimenti truccati?
Chi controlla i controllori? Il caso Cavallotti come i casi di Danilo Filippini e di Sergio Briganti.
Venerdì 24 ottobre 2014 si tiene a Taranto la conferenza prefettizia tra il Prefetto, Umberto Guidato, il dirigente dell’Ufficio ordine e Sicurezza Pubblica, sostituito dal capo di Gabinetto, Michele Lastella e le associazioni antimafia operanti sul territorio della provincia di Taranto. In quell’occasione è intervenuto il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, oltre che scrittore e sociologo storico, che da venti anni studia il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSapce.com e Google Libri.
Il dr Antonio Giangrande ebbe ad affermare che nuovi fenomeni si affacciavano nel mondo dell’illegalità: l’usura di Stato con Equitalia, l’usura bancaria e, per la crisi imperante, l’usura pretestuosa, ossia la denuncia di usura per non pagare i fornitori.
Il prefetto ed il suo vice, in qualità di rappresentanti burocratici del sistema statale prontamente hanno contestato l’esistenza dell’illegalità para statale e para bancaria, mettendo in dubbio l’esistenza di indagini giudiziarie che hanno svelato il fenomeno.
Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?
A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»
Chiarificatrice è l’'inchiesta di Salvo Vitale del 31 marzo 2014 su “Antimafia 2000”. Beni confiscati, così non funziona. E’ una storia che parte da lontano, cioè dal 1982, quando, quattro mesi dopo l’uccisione di Pio La Torre, venne approvata la legge Rognoni-La Torre, (in sigla RTL) che consentiva il sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Aggredire i mafiosi nei loro patrimoni era l’obiettivo del nuovo strumento. Dopo 14 anni, a seguito della raccolta di un milione di firme, organizzata dall’associazione Libera, veniva approvata la legge 109/96 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati, una sorta di restituzione ai cittadini di ciò che era stato loro sottratto con la violenza e l’illegalità. Ultimo atto, nel 2011, l’approvazione della cosiddetta legge Alfano che dava o tentava di dare una sistemazione definitiva a tutte le norme sull’argomento e creava l’Agenzia Nazionale ai beni confiscati alla mafia, con sede a Reggio Calabria, che avrebbe dovuto occuparsi gestione dei beni attraverso l’iter dal sequestro alla confisca. Pur riconoscendo che esistono ancora grossi limiti, la legge è ritenuta una delle più avanzate al mondo ed è stata presa a modello per la recente approvazione della normativa europea. Quello dei beni giudiziari è un vero affare, se si tiene conto che il numero dei beni confiscati è, ad oggi, di 12.946, cifra in continua evoluzione, di cui 1.708 aziende e che di questi, circa il 42,60% pari a 5.515 è in Sicilia, particolarmente in provincia di Palermo (1870). Si tratta di un patrimonio da alcuni approssimativamente stimato in due miliardi di euro, ma La Repubblica (22 marzo 2012) parla di 22 miliardi di euro, il Giornale di Sicilia (6 febbraio 2014) di 30 miliardi, di cui l’80% nelle mani delle banche. Di queste aziende solo 35 sono in attivo e solo il 2% genera fatturati. E’ un immenso patrimonio comprendente supermercati, ristoranti, trattorie, residence, villaggi turistici, distributori di benzina, fabbriche, impianti minerari, fattorie, serre, allevamenti di polli, agriturismi, cantine, discoteche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli. Quasi tutti falliti. Molte le difficoltà di carattere finanziario, con i lavoratori da mettere in regola e il pagamento dei contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare a nero, Sopravvive solo qualche azienda, alle cui spalle c’è una grande struttura, come Libera, che può tornare a fatturare, ma, dice Franco La Torre, figlio di Pio, “finché si tratteranno le aziende di proprietà delle mafie come aziende normali, il meccanismo messo in moto dallo Stato non funzionerà mai”. Un fallimento totale di cui nessuno si dichiara responsabile.
Limiti. Quali sono i limiti? Innanzitutto i tempi molto lunghi che passano dal sequestro alla confisca. Poiché all’atto del sequestro il bene è “congelato”, in genere si fa ricorso, da parte del tribunale competente, alla nomina di un amministratore giudiziario. E’ questo il primo punto debole: nella maggior parte dei casi si tratta di persone del tutto incompetenti, senza alcuna capacità manageriale, di titolari di studi commercialistici o di studi legali di cui spesso le Procure si servono per alcune indagini, e che sono in buoni rapporti con il magistrato incaricato di fare le nomine. L’incompetenza di queste persone ha portato al fallimento del 90% delle aziende sotto sequestro, alla rovina economica di parecchie famiglie che nelle aziende trovavano lavoro e alla crisi dell’indotto che gira attorno all’azienda, anche perché, e questo è un altro limite, le aziende sotto sequestro possono e devono riscuotere crediti, ma non possono saldare debiti se non al momento della sentenza che ne sancisca la definitiva sistemazione. La conclusione a cui si arriva facilmente e a cui arrivano le parti danneggiate è che con la mafia si lavorava, con l’antimafia c’è la rovina economica, ed il messaggio è devastante nei confronti di chi dovrebbe rappresentare lo Stato. La valutazione economica del bene confiscato è fatta da un apposito perito, nominato sempre dal tribunale, al quale spetta un compenso apri all’1% del valore del bene da valutare. Spetta al titolare o al proprietario del bene l’onere della prova sulla provenienza del bene, ovvero l’obbligo di dovere dimostrare che il bene è stato costruito, realizzato, gestito senza violazione della legge. Al giudice spetta invece dimostrare i reati di cui è accusata la persona penalmente sotto inchiesta. In tal senso si dà alla magistratura un notevole potere e, molto spesso succede di trovare beni confiscati, senza che i proprietari abbiano ancora riportato particolari condanne penali per associazione mafiosa, oppure altri beni sotto sequestro dopo che i loro titolari sono stati assolti, anche in via definitiva. Per non parlare di debiti e mutui accesi con le banche, che lo stato non si premura di rimborsare e che quindi finiscono co il lasciare il bene nelle mani delle banche stesse. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli stessi amministratori giudiziari: per fare un esempio banale, Andrea Modìca da Moach, uno dei più grossi esperti in queste partite di giro a suo favore, degne di scatole cinesi, liquidatore della Comest dei fratelli Cavallotti, ha messo in vendita un camion con gru per 600 euro, girandolo alla ditta D’Arrigo di Borgetto, di cui è ugualmente amministratore, e quando i proprietari hanno denunciato l’imbroglio al giudice per le misure di prevenzione, la cosa è stata sistemata facendo passare il tutto per una sorta di noleggio.
L’audizione di Caruso. Nell’audizione alla Commissione Antimafia, fatta il 18 gennaio 2012, il prefetto Caruso, al quale è stata affidata la gestione dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia che ha sede a Reggio Calabria, dice: “Altre criticità riguardano la gestione degli amministratori giudiziari, per come si è svolta fino ad ora…., l’amministratore giudiziario tende, almeno fino ad ora, a una gestione conservativa del bene. Dal momento del sequestro fino alla confisca definitiva – parliamo di diversi anni, anche dieci – l’azienda è decotta. Siccome compito dell’Agenzia è avere una gestione non solo conservativa, ma anche produttiva dell’azienda, abbiamo una difficoltà di gestione e una difficoltà relativa a professionalità e managerialità che, dal momento del sequestro, posso individuare e affiancare all’amministratore giudiziario designato dal giudice. In tal modo, quando dal sequestro si passerà alla confisca di primo grado, sarà possibile ottenere reddito da quella azienda….. Facendo una battuta, io ho detto che, fino ad ora, i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente. Ometto di dire quanto succede in terre di mafia quando l’azienda viene sequestrata, con clienti che revocano le commesse e con i costi di gestione che aumentano in maniera esponenziale. Ricollocare l’azienda in un circuito legale, infatti, significa spendere tanti soldi, perchè il mafioso sicuramente effettuava pagamenti in nero e, per avere servizi o commesse, usava metodi oltremodo sbrigativi, sicuramente non legali, e aveva la possibilità di fare cose che in una economia legale difficilmente si possono fare. Siamo in attesa dell’attuazione dell’albo degli amministratori giudiziari, nella speranza di avere finalmente persone qualificate professionalmente alle quali poter rivolgersi e di avere delle gestioni non più conservative ma produttive dell’azienda”.
Il decreto del 6 settembre 2011 n.159 ha , anzi
aveva previsto l’istituzione di un albo pubblico degli amministratori, con
l’individuazione delle competenze gestionali, l’indicazione del numero delle
nomine assegnate e delle competenze in denaro incassate, ma questa norma, per
quattro anni è stata accantonata, perché toglie di mano al giudice che dispone
delle nomine, il notevole potere di agire a proprio arbitrio e consente che
certi passaggi oggi secretati , restino solo a conoscenza o siano a disposizione
del Presidente dell’Ufficio che dispone le misure di prevenzione e del suo
diretto superiore, il Presidente del tribunale, e non diventino di pubblico
dominio. Qualche corso di formazione per amministratori giudiziari è stato
organizzato dall’Afag a Milano, e un master a Palermo nel 2013, da parte del
DEMS, ma tutto è sfumato nel nulla. Solo il 24.1.2014 è stato finalmente scritto
il regolamento per la formazione dell’albo, il quale avrebbe dovuto diventare
diventare operativo dopo l’8 febbraio, ma ancora non se ne sa nulla, addirittura
qualcuno dell’Antimafia Nazionale lo ha ritenuto inopportuno: questo regolamento
se nasce, nasce monco, nel senso che non prevede alcuna norma sulle retribuzioni
degli amministratori e non prevede l’indicazione degli incarichi affidati, i
quali, per strane ragioni di privacy, rimangono secretati e nelle mani dei
magistrati. Si sa che il numero degli amministratori giudiziari nominati dal
tribunale è di circa 150, molti dei quali titolari di più incarichi, grazie a
chi ne dispone la nomina. Proprio il prefetto Caruso qualche giorno fa ha messo
il dito sulla piaga, disponendo la revoca di alcuni “amministratori”
intoccabili: "Alcuni hanno ritenuto di poter disporre dei beni confiscati come
"privati" su cui costruire i loro vitalizi. Non è normale che i tre quarti del
patrimonio confiscati alla criminalità organizzata siano nelle mani di poche
persone che li gestiscono spesso con discutibile efficienza e senza rispettare
le disposizioni di legge. La rotazione nelle amministrazioni giudiziarie è
prevista dalla legge così come la destinazione dei beni dovrebbe avvenire entro
90 giorni o al massimo 180 mentre ci sono patrimoni miliardari, come
l'Immobiliare Strasburgo già del costruttore Vincenzo Piazza, con circa 500 beni
da gestire, da 15 anni nelle mani dello stesso professionista che, per altro,
prendeva al tempo stesso una parcella d'oro (7 milioni di euro) come
amministratore giudiziario e 150 mila euro come presidente del consiglio di
amministrazione. Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la
stessa persona?". Tutto ciò ha provocato le rimostranze del re degli
amministratori Gaetano Seminara Cappellano, titolare di uno studio con 35
dipendenti, detto “mister 56 incarichi”, amministratore di 31 aziende, tra cui
proprio la Immobiliare di Via Strasburgo, della quale gli è stata revocata la
delega. Il nuovo incarico è stato affidato al prof. universitario Andrea Gemma,
del quale si è subito diffusa la falsa notizia che lavora nello studio della
moglie di Alfano. Nuovi amministratori sono stati nominati al posto di Andrea
Dara (Villa Santa Teresa Bagheria, un impero con 350 dipendenti e un fatturato
annuo di 50 milioni di euro) e Luigi Turchio, amministratore dei beni di Pietro
Lo Sicco: l’incarico per la liquidazione è stato affidato a all'avvocato Mario
Bellavista che (come ha lui stesso obiettato) in un passato lontano è stato
difensore di fiducia di Lo Sicco per qualcosa in cui la mafia non c’entrava:
per questo motivo, qualche giorno dopo Bellavista si è dimesso. Non devono
essere piaciute al PD le dichiarazioni del prefetto Caruso il quale, tramite
Rosy Bindi e su sollecitazione di qualche parlamentare siciliano, è stato
convocato urgentemente per un’audizione alla Commissione Antimafia, con
l’accusa, già frettolosamente evidenziata da Sonia Alfano, di mettere in cattiva
luce l’operato dei magistrati che si occupano di Antimafia. Anche L’ANM, la
potente associazione dei magistrati, si è schierata contro Caruso sostenendo
che, invece di rilasciare dichiarazioni sull’operato dei magistrati delle misure
di prevenzione, avrebbe dovuto rivolgersi ai magistrati stessi, i quali così
avrebbero potuto e dovuto giudicare se stessi. In tempi del genere, potrebbe
sembrare che parlare del cattivo operato di alcuni magistrati, sia come fare un
favore a Berlusconi che sui magistrati ha sempre detto peste e corna. Questo
“fare muro” attorno ai magistrati palermitani, anche quelli che hanno gestito i
loro uffici e i loro compiti come una personale bottega, con scelte e preferenze
opinabili, finisce con l’avallare la cattiva gestione del settore, coperto, come
si vede, da protezioni che stanno molto in alto. Qualche illuminato politico ha
dichiarato addirittura che “parlare male dei magistrati significa fare un favore
alla mafia”. Caruso si è difeso sostenendo di non avere a disposizione né
uomini, né mezzi, né strumenti legali per affrontare con successo l’intero
argomento dei beni confiscati: ma tira voce che, se non si dà una regolata,
potrebbe anche perdere il posto: “ In tal senso la Commissione Antimafia è
stata a Palermo il 17, 18. 19 febbraio, per godere di qualche giornata di sole
e lasciare le cose come stanno rimuovendo quel rompiscatole di Caruso. Ciò che
emerge, ha detto la Bindi, è che l’Agenzia ai beni confiscati dovrà subire
alcuni interventi”. E, per quanto si può supporre, non si tratterà di interventi
migliorativi, ma punitivi. Interessante una lettera che l’avv. Bellavista ha
inviato a Rosy Bindi, nella quale sostiene che “concentrando l’attenzione sulla
mia posizione si sia tentato di sviare la Sua attenzione dall’opera meritoria
del Prefetto Caruso che sta scoperchiando pentole mai aperte…. Mi meraviglia
come Lei, invece di insistere sul nome Bellavista, non abbia chiesto quale
magistrato ha autorizzato alcuni Amministratori a ricoprire 60 o 70 incarichi.
Quale magistrato abbia autorizzato pagamenti di parcelle per milioni di euro.
(Le faccio presente che una legge della Regione Siciliana, limita i compensi per
gli amministratori pubblici a 30000 euro lordi per i presidenti dei cda.), se vi
siano familiari di magistrati o di amministratori che hanno ricoperto o
ricoprono cariche o incarichi all’interno delle amministrazioni giudiziarie. Se
qualche amministratore giudiziario si trovi in conflitto di interessi attuale e
non di 14 anni fa. Il Prefetto Caruso la mafia ha combattuto sulla strada e non
da una comoda poltrona a migliaia di chilometri di distanza. Onorevole
Presidente, credo che molto più del Dott. Caruso, sia certa magistratura a
delegittimare se stessa, quando per difendere le proprie posizioni alza un muro
e persiste in comportamenti che rischiano di apparire illegittimi. Sono certo
che la Sua intelligenza non cadrà nella trappola del depistaggio già usata
durante i tempi bui della prima Repubblica della quale Lei è stata una
Autorevole Protagonista”. Nessun dubbio su colui cui fa riferimento Bellavista.
In appoggio all’operato di Caruso si è schierata la CGIL, ma anche il sindacato
di polizia Siulp, mentre Equitalia, che dovrebbe essere depositaria di un fondo
di due miliardi provenienti dai beni di proprietà dei mafiosi, mostra qualche
difficoltà a documentare e a restituire quello di cui dovrebbe essere in
possesso. Da parte sua il prefetto Caruso ha detto: “Io lavoro da 40 anni con i
giudici e nessuno mi può accusare di delegittimarli. Ho solo detto quello che
non va nel sistema”.
Proposte. Da quando nel 2011 è stato approvato il Codice Antimafia, diverse sono state le proposte di modifica, in particolare per la parte che riguarda la gestione patrimoniale. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente la più complessa e strutturata, viene da una Commissione , istituita nel 2013 dal governo Letta, per studiare il problema dell'aggressione ai patrimoni della criminalità organizzata e presieduta dal Segretario Generale della Presidenza del Consiglio Garofoli, che già si era occupato del tema della corruzione. Nel gennaio 2014 la Commissione, con la partecipazione, fra gli altri, dei magistrati Gratteri, Cantone e Rosi, presenta una relazione di 183 pagine in cui si evidenziano le principali criticità in tema di gestione dei beni e si propongono possibili soluzioni e innovazioni legislative, dall'ampliamento del ruolo e della dotazione di uomini e mezzi dell'Agenzia, all'affiancamento di figure manageriali per la gestione delle aziende, dall'anticipo della verifica dei crediti alla regolamentazione degli amministratori giudiziari. Particolare attenzione nella relazione Garofoli trovano le proposte della CGIL, che si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, ribattezzata "Io riattivo il lavoro", sostenuta a loro volta da Libera, ARCI e Avviso Pubblico. Al centro delle modifiche portate avanti dal sindacato ci sono proprio le aziende ed in particolare la tutela dei lavoratori e dei livelli di occupazione. "Due i punti di forza imprescindibili" dice Luciano Silvestri, responsabile Sviluppo e Legalità CGIL "il primo è la creazione dei tavoli di coordinamento presso le prefetture, che dovrebbero coinvolgere parti sociali, istituzioni e società civile nel monitoraggio e nella gestione delle aziende fin dalla fase del sequestro; il secondo è il fondo di rotazione, da finanziare con i soldi (tanti) del Fondo Unico Giustizia e con cui finanziare la fase di "legalizzazione" delle aziende poste in amministrazione statale. Dopo aver raccolto migliaia di firme, la proposta del sindacato è giunta in Commissione Giustizia alla Camera con relatore Davide Mattiello, deputato PD con un lungo trascorso di militanza antimafia. Chissà se e come i due percorsi riusciranno ad incontrarsi!. Il governo, tra i suoi tanti annunci di principio, ha comunicato che trasformerà in decreti legge molti dei suggerimenti della Commissione Garofoli e che lo farà in tempi brevi. Nel dibattito si inserisce anche Confindustria, in particolare la sezione siciliana, che sta mettendo mano ad alcune autonome proposte, stranamente assonanti con quelle dell'on. Lumia. Per ora nulla è troppo chiaro perché, dicono i responsabili: "Ci stiamo lavorando", ma da uno studio elaborato nel 2012 dall'Università di Palermo e da alcune dichiarazioni più recenti dei rappresentanti degli imprenditori, oltre che di alcuni magistrati applicati alle misure di prevenzione di Palermo e Caltanissetta, a loro notoriamente vicini, si deduce che le aree di principale interesse saranno tre: l'inserimento di figure manageriali all'interno delle procure, la riduzione del ruolo dell'Agenzia per i beni confiscati alla sola fase della confisca definitiva e la verifica dei crediti: c'è chi spinge per anticiparla ad inizio sequestro e chi invece vorrebbe procrastinarla addirittura alla confisca definitiva, complicando ulteriormente la vita a chi onestamente vanta crediti nei confronti di aziende sotto sequestro e che in conseguenza di amplissimi buchi creati da queste fatture non pagate rischia il fallimento. A prima vista sembra si tratti del tentativo, degli industriali siciliani, di mettere le mani su quel che resta dell’economia siciliana per operare l’ennesima rapina: non si vuole dire no al tribunale nel privarlo della nomina del suo amministratore e si istituisce un’altra figura con un altro stipendio: nessuna attenzione e nessuna garanzia è prevista per i posti di lavoro dell’azienda. Fra l’altro, da quando Ivan Lo Bello, già presidente di Confindustria Sicilia ha proposto l’espulsione degli imprenditori che pagano il pizzo, tutti gli industriali siciliani fanno professione di antimafia e trovano magari qualcuno da denunciare come estorsore, tanto per farsi una verginità e lavorare, oltre che col consenso di Cosa Nostra, anche con la protezione dello stato. Non è detto che l’asino uscito dalla porta non rientri dalla finestra, nel senso che non si trovino all’interno delle Associazioni o degli enti destinatari quelle presenze mafiose di cui ci si voleva liberare. Un problema centrale è comunque quello di garantire il posto di lavoro e tutelare i dipendenti che, quasi sempre, si ritrovano nella rovina economica. Alla Commissione Antimafia la redazione di Telejato, dopo avere sentito diverse associazioni antimafia, ha avanzato le seguenti proposte:
-Consentire l’immediato pagamento dei creditori dell’azienda sin dal momento della confisca, per evitare di causare il fallimento di aziende fornitrici legate all’indotto su cui l’azienda confiscata opera;
- Legare il momento della confisca a quello dell’iter giudiziario, nel senso che non si può procedere alla confisca di un bene se non è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa;
- Non consentire più di un incarico agli amministratori giudiziari;
- Svincolare l’arbitrio della nomina dalle competenze nelle mani di un solo magistrato e allargarne la facoltà a tutti i magistrati del pool antimafia;
- Individuare e colpire l’eventuale responsabilità penale dell’amministratore giudiziario obbligandolo a presentare annualmente i bilanci, revocandogli l’incarico nel caso di gestione passiva non motivata adeguatamente e obbligandolo a risarcire i danni nel caso di amministrazione fraudolenta;
- Risarcimento, da parte dello stato, dei danni provocati da cattiva amministrazione giudiziaria, nel caso di totale proscioglimento delle accuse e non reiterazione del provvedimento di confisca, come si è recentemente verificato;
- immediata esecuzione, che non vada oltre un mese, del provvedimento giudiziario di conferma o dissequestro della confisca. I casi scandalosi di rinvii, spesso di vari mesi, se non di anni, causati da ritardi, da momentanei malesseri e da altre scuse prodotte dal magistrato incaricato delle misure di prevenzione non possono essere giustificabili, anche perché l’azienda sotto confisca corre il rischio di perdere il suo giro di affari o di essere messa in liquidazione da amministratori giudiziari che girano attrezzature e macchinari, svenduti a prezzi irrisori ad altre aziende sotto il loro controllo;
-Possibilità di revoca, su eventuale richiesta motivata, dell’incarico di amministratore giudiziario da parte di un magistrato inquirente diverso da quello che ne ha fatto la nomina e che è solitamente il giudice addetto alle misure di prevenzione.
Come si può notare, la richiesta più importante è quella di distribuire l’immenso potere di cui dispone il singolo magistrato addetto alle misure di prevenzione, nell’amministrazione di un impero di 40 miliardi di euro, utilizzando le competenze anche di altri magistrati, al fine di non strozzare ulteriormente, sino ad arrivare al collasso, la debole economia siciliana, nella quale, il settore dei beni confiscati, salvo pochissimi casi, ha accumulato fallimenti, gestioni poco trasparenti e disperazione da parte di lavoratori trovatisi sul lastrico. L’affidamento della gestione dei beni ai rampolli di una Confindustria apparentemente verniciata di antimafia, non è la soluzione del problema, ma sarebbe necessario, come già in qualche altra regione, organizzare corsi di formazione fatti da gente qualificata e che non siano occasione, come al solito, di distribuire il finanziamento del corso ai soliti “amici” e rilasciare l’attestato a tutti, senza accertare l’acquisizione di competenze.
La “Latticini Provenzano”. Si tratta di un caseificio con sede a Giardinello, un paese di circa mille abitanti, recentemente assurto alle cronache per la cattura di Sandro e Salvatore Lo Piccolo. Ali inizi del 2000 , grazie ai fondi europei previsti dai Patti territoriali, l’azienda venne ristrutturata e adeguata alle norme, diventando un moderno caseificio dove lavoravano una trentina di famiglie, assieme a un indotto di pastori e vaccari che fornivano il latte. Il rimborso di questi fondi avviene dopo che il proprietario li ha anticipati ed è in grado di documentare i lavori eseguiti. La lentezza di questi rimborsi crea notevoli difficoltà economiche al titolare del caseificio, il quale si rivolge a Giuseppe Grigoli, un imprenditore di Castelvetrano, non ancora indagato, ma già conosciuto come il re dei supermercati Despar, e che si scoprirà come prestanome di Matteo Messina Denaro. Grigoli chiede un aumento del capitale, chiede di assumere il controllo del 51% dell’azienda per accedere a un megamutuo del Monte dei Paschi di Siena, mutuo che viene bloccato quando Grigoli è arrestato, nel 2006. In questo momento l’azienda conta su 52 dipendenti, di cui 13 vengono licenziati. In un ultimo disperato tentativo Provenzano offre la sua quota allo stato, detentore della parte confiscata, per ottenere il prestito, ma ci perde anche quella. Il caseificio, che, in questa vicenda con la mafia c’entrava solo di striscio, come poi confermato dagli sviluppi giudiziari, viene confiscato e affidato a un curatore giudiziario di nome Ribolla, il quale, nella sua somma incompetenza, nel 2012 lo porta al fallimento con una situazione debitoria di 28 milioni di euro. E’ un chiaro esempio di come un’industria di eccellenza può essere condotta sul lastrico e di come i restanti 39 operai, che, pur di mandare avanti l’azienda, sino al gennaio 2012 hanno lavorato senza stipendio, rimangono disoccupati. Con Grigoli contava 52 dipendenti. Nel 2006, con il sequestro, 13 dipendenti vengono licenziati. La chiusura, lo scorso maggio, lascia fuori i restanti 39. Al momento della chiusura la sua esposizione debitoria era di 28 milioni di euro.
Il porto di Palermo. La vicenda riguarda 350 lavoratori facenti parte della “Newport”, società che gestisce i lavori portuali. Nel 2010 la DIA inoltra un’informativa al prefetto di Palermo, nella quale sostiene che tra questi lavoratori ci sono quattro mafiosi e 20 parenti di mafiosi, in gran parte facenti parte del clan di Buccafusca, capomafia di Porta Nuova. Si dispone il sequestro preventivo e viene nominato come amministratore giudiziario il titolare dello studio legale “Seminara-Cappellano”, il quale dispone la sospensione cautelare per 24 lavoratori, i quali, sino al giugno 2013, data in cui interviene la dott.ssa Saguto, cioè la responsabile della nomina di Seminara, sono pagati senza far niente. La vicenda è molto più ingarbugliata di quanto non appaia, in quanto gli operai sono titolari di una quota societaria, ma il dissequestro sarà possibile quando potranno dimostrare di essere esenti da infiltrazioni mafiose. Cioè non si sa quando. Presidente dell’Autorità portuale è stato un uomo dell’on. Lumia, tal Nino Bevilacqua, che attualmente è stato sostituito da un uomo di Schifani, tal Cannatella.
La MEDI-TOUR. E’ un caso più complesso. Si tratta di una cava di pietrisco, in territorio di Montelepre, già di proprietà di Giacomo Impastato, detto “u Sinnacheddu”, fratello di Luigi, il padre di Peppino Impastato. Da lui è passata al figlio Luigi, ucciso a Cinisi il 23 settembre 1981, nel corso della guerra tra i seguaci di Badalamenti e i Corleonesi. La gestione effettiva della cava è stata portata avanti dall’altro figlio Andrea, al quale il 22 febbraio 2008 vengono confiscati beni per 150 milioni di euro riconducibili a Bernardo Provenzano e a Salvatore Lo Piccolo, dei quali Andrea è un prestanome, grazie agli intrallazzi del suo compaesano Pino Lipari, vero ministro dei lavori pubblici di Provenzano, la cui moglie Marianna Impastato ha qualche vincolo di parentela con Andrea. Il provvedimento prevede, innumerevoli immobili e appezzamenti di terreno da Carini a San Vito Lo Capo, il Mercatone Uno di Carini, anche il sequestro di cinque aziende, tutte del mondo dell’edilizia, la più grossa delle quali è la Medi.tour, che si occupa della gestione della cava di Montelepre. Amministratore giudiziario di tutto viene nominato uno dei pupilli della dott.ssa Saguto, la regina della sezione “misure di prevenzione”, un commercialista di nome Benanti, titolare di uno studio a Palermo e, per quel che se ne sa, in ottimi rapporti con un altro curatore giudiziario molto a cuore alla Procura di Trapani, un certo Sanfilippo. Benanti ha avuto occasione di dimostrare di avere buone conoscenze quando, ottenuta l’amministrazione dei beni di un altro costruttore, Francesco Sbeglia, di Palermo, nel 2010, al Centro Excelsior (Hotel Astoria) mandò, a un incontro con alcuni imprenditori che volevano collaborare alla gestione dei beni, lo stesso Sbeglia. In tal caso, grazie alla protesta dei tre imprenditori, gli venne revocato l’incarico, ma solo quello, in quanto non gli venne meno la fiducia della dott.ssa Saguto. Pare che gli siano affidati una ventina di incarichi, si dice che abbia dilapidato una cifra altissima degli introiti del supermercato Mercatone, ma il suo nome non è venuto fuori nemmeno nelle polemiche seguite alle dichiarazioni del prefetto Caruso. Torniamo alla Medi.tour. Andrea Impastato , del quale si vocifera, senza conferme, di una diretta collaborazione con la giustizia,tant’è che nell’ultimo recente processo gli è stata dimezzata la pena, ha quattro figli, due dei quali, Luigi e Giacomo, dipendenti della cava. Nel 2011, su decisione del tribunale vengono licenziati, ma i due fratelli non si perdono d’animo e creano una nuova società, la Icocem, con sede a Carini, riconquistando, a poco a poco, buona parte del mercato che si riforniva nella loro ex cava. Riescono anche a “rifarsi” una verginità denunciando al magistrato diversi tentativi di richiesta del pizzo e iniziando una fitta collaborazione. Da parte sua Benanti, che si presenta una volta ogni tanto alla cava di cui è amministratore, con il macchinone e in dolce compagnia, in una sua relazione accusa gli Impastato, diventati suoi diretti concorrenti, di associazione mafiosa. Con strana sollecitudine il tribunale dispone il sequestro della Icocem, la dott.ssa Saguto ne affida l’amministrazione, indovinate un po’, al solito Benanti, il quale mette in liquidazione la società che è chiamato ad amministrare e che si trova a soli cento metri dalla cava. Nel frattempo vengono licenziati i 20 operai che lavorano nella cava, e alcuni sono assunti “ a tempo”, secondo le richieste di materiale: qualcuno di essi è disposto a dichiarare che Benanti avrebbe disposto l’interramento di rifiuti tossici all’interno della cava, facendo poi riempire il tutto con terra e piantumare con stelle di natale: al giardiniere sarebbero stati pagati 18.000 euro. Gli Impastato presentano ricorso, con una loro relazione, nella quale è dimostrata la tracciabilità e la regolarità di tutte le operazioni che hanno condotto alla creazione della loro società, ma l’udienza, che avrebbe dovuto svolgersi ad ottobre, per indisposizione, di chi, indovinate un po’, della dott.ssa Saguto, è rinviata al 6 febbraio 2013, dopodichè c’è stato un ulteriore rinvio a maggio Quello che più stupisce è la presenza, all’interno della cava, di Benny Valenza, pluripregiudicato e mafioso di Borgetto, da sempre occupatosi di forniture di calcestruzzo, con un pizzo da 2 euro a metro quadrato, da distribuire agli altri mafiosi della zona: gli sono stati sequestrati alcuni beni, è stato condannato per aver fornito cemento depotenziato per la costruzione del porto di Balestrate e per altri reati affini, ma, tornato a piede libero, ha ripreso la sua abituale attività: da qualche tempo agisce come dipendente di un’impresa di legname, allargatasi ultimamente nel campo dell’edilizia, della quale è titolare un certo Simone Cucinella: la ditta il 24.1 ha preso misteriosamente fuoco. L’intraprendente Valenza ha installato, naturalmente attraverso meccanismi apparentemente legali, un deposito di materiali da costruzione in un posto collocato tra la cava e il deposito adesso chiuso degli Impastato: non si sa se la collaborazione con Benanti, all’interno della cava, si estenda anche a questa nuova struttura.
La COMEST e l’affare del metano. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. C’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione. Decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad aggiudicarsi numerosi appalti e concessioni per metanizzare molti comuni,con il sistema del project financing, ovvero offrono ai comuni la costruzione degli impianti di metano, con fondi propri ,con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi lasciare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni stessi. Sul mercato c’è già l’Azienda Gas spa, nata per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale , decide di potenziare la società, e chiede i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica. Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, alla presenza, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità che apre le porte alla Gas spa e al terzetto Ciancimino-Lapis-Brancato, perchè con questo patto di legalità vengono assegnati ai mafiosi direttamente gli appalti senza alcuna celebrazione di gara: unico ostacolo la Comest che già ha ottenuto numerose concessioni in numerosi comuni Siciliani, e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco. Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agira, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Ci vuol poco a incriminare i Cavallotti, che, come tanti, pagavano il pizzo, con l’accusa di associazione mafiosa e di turbativa d’asta, e a disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto e scarcerato “perché i fatti non sussistono”. Dopo di che nel 2002 la Corte d’Appello ribalta la sentenza con una condanna e, dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa: di conseguenza i fratelli non sono ritenuti vicini ad esponenti mafiosi di alcun tipo. Qualche mese dopo, nei confronti dei tre fratelli scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristofaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione , motivando, dopo un attenta lettura della documentazione processuale che i tre fratelli sono stati vittime della mafia, e adducendo, a conferma dell’assoluzione perchè il fatto non sussiste nel procedimento penale, anche le numerose denunce degli attentanti subiti nei cantieri e ai mezzi, nel corso dell’ attività imprenditoriale: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario, da parte del Tribunale di Palermo, un Andrea Modìca de Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TO-SA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. Si tratta di un personaggio legato ad altri fratelli, uno dei quali titolare a Palermo, di uno studio di commercialista, un altro magistrato a Roma e un altro alto dirigente del ministero di Giustizia. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni. L’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dai figli, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un avvocato, un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, i figli titolari, la cui sola colpa è di essere figli di persone che sono state indagate, condannate e poi prosciolti dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili, e pure una parafarmacia già chiusa dal 2013: l’accusa è quella della riconducibilità delle aziende ai fratelli Cavallotti, come al solito, accusati di essere vicini ai mafiosi Benedetto Spera e Bernardo Provenzano, malgrado la definitiva assoluzione dalle accuse e la scomparsa, da tempo, dalla scena, dei mafiosi citati. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per “ ritardo di notifica”. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati e che lascia ampio spazio al sospetto che le confische, in attesa della sentenza d’appello della Cassazione, diverranno definitive e tutto sarà cancellato con un colpo di penna.
E il caso di aggiungere a questa storia alcuni particolari:
Nel 1998 al gruppo Cavallotti sono confiscate le aziende
- Comest spa (valore 50 milioni),
- Icotel spa (valore 10 milioni), Imet srl (valore 10 milioni),
- Cei srl (valore 2 milioni),
- Coip srl (valore 10 milioni:
nel 2012 di tutto ciò rimane solo un valore di 20
milioni per la Comest, mentre è o diventa zero il valore delle altre aziende,
anche di quelle ad esse collegate, come la Calcestruzzi Santa Rita, che aveva un
valore di partenza di 5 miloni di euro e i gruppi Edil Forestale e D’Arrigo,
che, per alcuni aspetti, sono soci in affari con il Modìca.
Il Modìca già nel 2009 è stato denunciato per truffa alla Guardia di Finanza di
Palermo, ma della denuncia non s’è saputo più nulla. Intorno a lui e a suo
fratello ruotano:
- la Advisor Services For Bisness srl, che agisce in stretto contatto con la Mac Consulting srl, di cui è legale rappresentante tal Fabio Uccello,
- la Lamb & Souce Real Estate srl, la Integre Sicilia, azienda oggi in liquidazione, di cui sono soci la Advisor Service, Kodaleva Sonia, , moglie di Emanuele Migliore, socio di Modìca e Di Fiore Giuseppe, avvocato di fiducia di Modica.
- la CS immobiliare srl., del fratello Marco,
- la Immobiliare Il Borghetto srl.,
- la Gam Immobiliare, che fa da tramite per complesse partite di giro,con le aziende confiscate dei D’Arrigo di Borgetto e della Edil Forestale,
- la Servizi e Progetti srl, il cui legale rappresentante è Roberta Ponte, moglie di Andrea Modica,
- la Cogetec srl, azienda costituita per gestire i subappalti del gruppo Cavallotti, di cui risulta amministratore unico un certo Vincenzo Parisi.
Strettamente collegate alla Comest e alle aziende del Modìca le vicende della TOSA costruzioni srl, azienda confiscata che acquista per due milioni di euro il ramo aziendale della Comest, mediante un rilevamento virtuale di debiti creati tramite fatture e parcelle: la Tosa vende i suoi debiti o i suoi presunti crediti alla Italgas per 22 milioni di euro ottenendo 5 posti di lavoro per compiacenti amici del Modìca pronti a prestarsi alle sue manovre speculative. Dalla TOSA, sotto forma di anticipo escono i fondi per alcuni lavori, anche personali, effettuati a Baida, a Cinisi, a Marsala. Oggi la TOSA è stata restituita al demanio dello stato come una scatola vuota, senza una lira e senza che nessuno abbia pagato per la sua dissoluzione. Di tutto l’impero della Comest è invece rimasto un giro di 700 mila euro di utile grazie alla gestione del metano nei comuni di Monreale, Altavilla Milicia, Santa Cristina Gela e Piana degli Albanesi. Nel 2012 il prefetto Caruso ha revocato a Modìca gli incarichi.
La AEDILIA VENUSTA. (ovvero, come l’Acqua santa può diventare acqua diabolica). A Palermo, in via Comandante Simone Gulì n.43 presso la borgata Acquasanta si trova, anzi c’era una villa palermitana del 1700, ma dove si potevano notare visibili tracce di una sua preesistenza risalente al 1.500, o addirittura al medioevo: qualche storico ha parlato addirittura di reperti di origine etrusca. La villa si affacciava sul porticciolo e aveva tutte le finestre con vista sul mare. L’originaria proprietà fu della nobile famiglia dei Gravina, di origine normanna. Gli esponenti del ramo siciliano dei Gravina, che presero il nome da quello di un feudo pugliese da cui provenivano, parteciparono alla prima crociata, ebbero diritto di essere seppelliti nel pantheon reale, furono Grandi di Spagna, possedevano 9 principati, 5 ducati, 7 marchesati, 3 contee ed oltre 24 baronie. Dentro l’attuale edificio scorreva una sorgente di acqua minerale, sulfurea e purgativa, contenente sali alcalini, quali solfato di calcio e magnesio, e cloruro di calcio, sodio e magnesio, considerata miracolosa per i suoi benefici. Di lì il nome di “Acqua santa” dato a tutta la borgata . Attualmente l’acqua è stata incanalata in condutture che sfociano a mare. Da una ricerca pubblicata da Claudio Perna e curata dall’Associazione culturale “I Luoghi della Sorgente” apprendiamo che “la sorgente acquifera era situata in una grotta, un piccolo ambiente ipogeico, che un tempo fu santuario pagano, poi piccola cappella conosciuta come Palermo a S. Margherita di fora, dedicata a Santa Margherita, protettrice dai mostri marini, e infine intitolata alla Madonna della Grazie, come attesta il Mongitore che riferisce di un affresco raffigurante la Vergine, risalente al tempo dei Saraceni e rinvenuto nel 1022. Nel 1774 la grotta e i terreni furono concessi al Barone Mariano Lanterna, che acquistò dai benedettini del Monastero di S. Martino delle Scale il terreno circostante la grotta dell’Acquasanta e vi costruì una tipica casina settecentesca di modeste dimensioni con un semplice impianto su due elevazioni: alcune sale interne mantengono gradevoli decorazioni a fresco tardo-settecentesche. Apprendiamo dalla stessa fonte che nel 1871 i fratelli sacerdoti Pandolfo acquistarono la villa e fecero uno stabilimento per bagni e cure idroterapiche, che sfruttava le proprietà terapeutiche della sorgente di acqua minerale poco distante per la cura di malattie metaboliche. Nello stabilimento si potevano fare dei bagni alla temperatura naturale dell’acqua di 18°-19° , ma grazie al processo di riscaldamento anche i bagni caldi, a 25°-36°, e caldissimi fino a 42°. Successivamente i due sacerdoti decisero di commercializzare l’acqua che poteva anche essere bevuta, con 50 cent alla bottiglia. C’era anche la possibilità di fare delle docce che esercitavano la loro azione meccanica su un punto preciso del corpo con getti d’acqua ascendenti, dal basso verso l’alto, discendenti, dal basso verso l’alto, e laterali in orizzontale. Lo stabilimento aveva in un edificio camerini da bagno distinti in familiari e singolari e nell’altro la macchina a vapore per il riscaldamento dell’acqua, le sale da soggiorno e da pranzo e gli ambienti di servizio. Tale istituto, accresciutosi nel 1892, fu attivo però per poche decine di anni. La struttura dei Bagni Minerali situati nella grotta e nei locali di Villa Lanterna era costituita da due edifici su tre piani collegati da una terrazza, tuttora è ancora visibile l’iscrizione “Fratelli Sacerdoti Pandolfo”, sormontata da un timpano con acroterio. Gli ambienti interni rispettavano l’originaria suddivisione e sul fianco sinistro del prospetto si trovava l’ingresso al mare preceduto da due piloncini, trasformato in abitazione. Le analisi dell’acqua hanno riscontrato proprietà analoghe a quelle della fonte Tamerici di Montecatini Terme. La fonte aveva una portata di 15 litri al secondo e consentiva di effettuare mille bagni al giorno, con continuo ricambio delle acque. Nel 1993 venne effettuato un sopralluogo dai vigili urbani e dalla sovrintendenza e si accertò che la sorgente era ancora utilizzabile e avrebbe potuto essere ripristinata, ma non se ne fece niente: la preziosa acqua, attraverso cunicoli sotterranei, oggi finisce a mare. Tutto questo complesso, comprende le Terme, anch’esse adibite ad appartamenti, la grotta adiacente all’ex chiesetta, un piano terra di 70 mq, in vendita a 100 mila euro, un piazzale e altre tre più recenti costruzioni adibite ad abitazioni o uffici, di circa 250 mq. L’immobile, suddiviso in cinque unità è stato venduto a tre architetti e a una signora romana. Uno degli architetti è Vincenzo Rizzacasa, già preside di un istituto d’arte di Santo Stefano di Camastra, che nel 2005 ha deciso di dar vita a un’impresa di costruzioni, la “Aedilia Venusta”, intestata al figlio Gianlorenzo, specializzata in ristrutturazioni, munita di certificato antimafia e iscritta ad Addio Pizzo, fino a quando non si scopre che al suo interno lavoravano i mafiosi Francesco e Salvatore Sbeglia, legati al campo delle costruzioni e già oggetto di misure di prevenzione, di sequestri e di procedimenti giudiziari. Secondo i giudici gli Sbeglia sarebbero stati soci occulti di Rizzacasa e, attraverso la sua ditta, sarebbero tornati in attività, con metodi e sistemi di illecita concorrenza. Rizzacasa è legato al vicepresidente della Confindustria Ettore Artioli, titolare di un’azienda, la Venti, che ha commissionato a Rizzacasa la ristrutturazione della Manifattura Tabacchi di Palermo. Nei progetti della Aedilia Venustas c’era anche la trasformazione dell’area della villa del Barone Lanterna in un residence di lusso con 15 appartamenti e due studi professionali, il tutto con regolare concessione, rilasciata nel 2009 e con tanto di visto da parte della Sovrintendenza ai Beni Culturali, che, per contro, avrebbe dovuto tutelare la conservazione di monumenti storici di questo tipo, cosa che in Sicilia scatta solo in certe circostanze. Scattano le misure di prevenzione per Rizzacasa, al quale vengono sequestrati le imprese edili Aedilia Venustas, l’Immobiliare Sant’Anna, Verde Badia, un insieme di 33 immobili in via badia, una decina di appartamenti, la villa Barone Lanterna, sei magazzini e sette automezzi. Artioli si autosospende dalla Confindustria, ma continua la sua carriera manageriale, al punto che nel 2012 viene nominato, dal sindaco Leoluca Orlando, presidente dell’Amat. Per Rizzacasa, espulso da Confindustria, inizia un iter giudiziario, una condanna in primo grado per favoreggiamento semplice, cioè senza l’aggravante dell’associazione mafiosa . In appello Rizzacasa è assolto e l’assoluzione è confermata, in via definitiva, nel febbraio 2014, in Cassazione. Assolti anche i suoi consociati Lena e Salvatore Sbeglia. Rizzacasa ha rinunciato alla prescrizione per avere una sentenza di piena assoluzione. Per una di quelle anomalie tipiche della legge italiana e in particolare, di quella sui beni sequestrati alla mafia, il patrimonio immobiliare di Rizzacasa, per decisione del giudice delle misure di prevenzione, per il quale è sufficiente il “libero convincimento” che l’assoluzione non basta, rimane congelato sotto sequestro, malgrado l’ordine di dissequestro dell’azione penale. Ma siamo arrivati al punto: dopo le denunce del prefetto Caruso, è ormai noto che il giudice delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo ha un rapporto privilegiato con lo studio legale di Cappellano Seminara, al quale ha già affidato una cinquantina di beni confiscati alla mafia. Cappellano, diventato amministratore giudiziario della Aedilia Venustas, continua l’attività di smembramento della villa del barone Lanterna con la costruzione degli appartamenti in progetto: per risarcirsi del suo “estenuante” lavoro, da lui stesso stimato in circa 800 mila euro, si impadronisce di due appartamenti: probabilmente ne disporrà la vendita per incassare il compenso. Da una visura notarile storica si rileva che “gli immobili citati vengono venduti a 250 euro al mq. per quanto riguarda la villa antica e le terme, quelli più moderni a 200 euro mq.” Se è vera questa notizia ci vuol poco a dedurre che, fissando un prezzo così basso, Cappellano Seminara può mettere le mani su tutto il complesso edilizio e impadronirsene. Da una nota della Camera di Commercio si deduce che “il fatturato di Aedilia Venustas s.r.l. stimato, nel 2011, tra i 300 e i 600 mila euro, durante il 2011 è diminuito, nello stesso anno, del -1263% rispetto al 2009 e che il risultato netto ottenuto durante il 2011, dopo gli oneri finanziari, le tasse e gli ammortamenti è diminuito del -609,64% rispetto al 2009”. Il tutto grazie all’oculata amministrazione di Cappellano Seminara e a chi lo ha messo in quel posto.
La 6GDO e l’impero Despar. Quella di Giuseppe Grigoli sembra una storia comune, iniziata con l’apertura, negli anni 80 di una piccola attività di vendita di detersivi all’ingrosso e poi diventata, tra gli anni ’80 e ’90 una grande realtà economica, in grado di fatturare 600 milioni di euro l’anno, attraverso l’apertura di una serie di centri commerciali, da Trapani ad Agrigento, a Palermo, con il marchio Despar, in grado di gestire il 10% di tutto il fatturato Despar. La realtà più grossa è “Belicittà”, ovvero il più grande centro commerciale del trapanese, a Castelvetrano. Grigoli crea il gruppo 6GDO , una ditta che distrisce prodotti alimentari a vari supermercati. Si è detto e si è scritto che dietro questo impero finanziario ci sono i soldi di Matteo Messina Denaro, ovvero c’è il riciclaggio di milioni di euro di oscura o illecita provenienza: si è anche parlato, ma senza particolari riscontri processuali, di una gestione spesso intimidatoria nell’imporre, con sistemi mafiosi, particolari condizioni ai fornitori di merce. Il nome di Grigoli viene trovato nelle lettere di Matteo Messina Denaro nel covo di Bernardo Provenzano, l'11 aprile 2006. Grigoli voleva aprire un Despar a Ribera, un paese sotto l’ala protettiva del boss locale Capizzi che, addirittura, gli aveva chiesto il pizzo: pare che Capizzi, in un primo tempo fosse stato assunto nel supermercato, ma che avesse contratto con Grigoli un debito di 297,28 mila euro, che si rifiutava di pagare. Così Messina Denaro si era, per iscritto, rivolto a Bernardo Provenzano chiedendogli di intervenire a favore del “suo paesano". Provenzano si era rivolto al boss di Agrigento Giuseppe Falsone che avrebbe dovuto mettere pace tra i due. E’ caratteristico il tono dei pizzini di Messina Denaro: "Capizzi prima restituisca i soldi che si è preso e dopo gli amici di Ag mi dicono cosa vogliono dal mio paesano ed io sono disponibile a sistemare il tutto. E' ormai una questione di principio. Io ho fatto della correttezza la mia filosofia di vita". E, nell’ultima lettera, : "Solo se Cpz comincia a pagare il mio paesano paga 10 mila euro per ogni sito che ha ad Ag per ogni anno. In questo caso, dato che paga, non darà posti di lavoro. La mia seconda proposta: se il mio paesano non paga niente per come vuole il 28 (è il codice di Falsone - ndr) per rispetto a me, ed io lo ringrazio e gli sono grato per ciò e dica al 28 che io non dimenticherò mai questa gentilezza, allora se il mio paesano non paga, darà due posti come impiegati per ogni sito, impiegherà 2 persone che interessano ad Ag". Nel 2006 Grigoli è arrestato, processato e condannato a 12 anni di carcere per associazione mafiosa: al processo vengono fuori i nomi di capi mafia, a parte quello dell’imputato latitante Messina Denaro, di suo padre, «don Ciccio», di Bernardo Provenzano, di Filippo Guattadauro, il cognato del capo mafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro, i nomi di politici, come quello dell’ex presidente della Regione Totò Cuffaro, che chiede a Grigoli di vendere nei suoi supermercati alcuni vini prodotti da suoi “amici”, o quello dell’ex deputato regionale cuffariano, Francesco Regina, andato da Grigoli a chiedere voti. A Grigoli si rivolge persino, per la vendita di ricotta il boss Vito Mazzara, l’uomo che avrebbe ucciso Mauro Rostagno e che attualmente sconta l’ergastolo. La confisca riguarda 12 società cominciando dalla capofila, il Gruppo 6GDO, punto di eccellenza un maxi centro commerciale, il Belicittà di Castelvetrano, e poi ancora 220 fabbricati tra palazzine e ville, 133 appezzamenti di terreni, uliveti e vigneti per un totale di 60 ettari. Tutte aree di campagna ricadenti in quell’area del Belice, da Zangara a contrada Seggio, dove i boss mafiosi siciliani a cominciare da Totò Riina, per continuare con Bernardo Provenzano e i Messina Denaro, avevano fatto incetta di terreni con l’idea che in quei luoghi doveva sorgere negli anni ’90 la “Castelvetrano 2”, un maxi complesso immobiliare che avrebbe dovuto ricalcare la più famosa “Milano 2” di marca berlusconiana. Il tutto viene affidato a un amministratore giudiziario, Nicola Ribolla. I suoi sette anni di amministrazione sono serviti a smantellare interamente un impero economico e a ridurre sul lastrico, senza lavoro, le 500 famiglie che vivevano all’interno delle attività confiscate. Al processo Ribolla ha tentato di giustificare il suo operato dicendo che “molti supermercati associati hanno chiesto di disdire il contratto con noi, i fornitori non ci hanno fatto più credito, e anche le banche ci hanno chiuso i rubinetti”. Sono in corso ancora trattative, stimolate anche in un incontri tra i lavoratori, ai quali è stata già mandata la lettera di licenziamento e Sonia Alfano, in interventi del sindaco di Castelvetrano Felice Errante e della CGIL: il circuito comprende 43 supermercati Despar, più i 40 affiliati del gruppo 6GDO in provincia di Trapani : Despar, Eurospar, Superstore, Interspar ad Agrigento e Trapani. Hanno già chiuso i supermercati più grossi di Marsala e Trapani, altri lo stanno facendo, poiché non vengono più riforniti di merci, gli scaffali sono semivuoti. Addirittura, nel 2010 alla Prefettura di Trapani si era firmato un “protocollo di legalità” per salvare la “Special Fruit” una delle tante aziende del circuito di Grigoli e affidarne l’attività alla Coop, ma non se n’è fatto niente. La Special Fruit è stata messa in liquidazione, malgrado Ribolla ne avesse disposto un aumento di capitale stornandovi i soldi della 6GDO La chiusura delle banche ha prodotto la mancanza di liquidità per pagare fornitori e dipendenti, ma ha anche sospeso diversi crediti da riscuotere. Recentemente a Ribolla, forse in considerazione della sua scarsa capacità imprenditoriale, è stato aggiunto, come consulente, l’avvocato Antonio Gemma, vicino ad Angelino Alfano, ma la cosa non è servita a niente. L’amara conclusione di chi si trova sul lastrico è che quando c’era Grigoli tutto funzionava perfettamente, l’azienda aveva un attivo di 600 milioni che sono scomparsi nel nulla con l’amministrazione giudiziaria: Insomma, ci troviamo davanti al volto nuovo di Cosa Nostra, così come si è potuto vedere anche col sequestro di un miliardo e 300 mila euro fatto al “re del vento” Vito Nicastri, di Alcamo, nel quale l’imprenditoria diventa l’elemento centrale per l’accumulazione del capitale, oltre le vecchie, ma sempre presenti pratiche del pizzo, e gli uomini d’onore, anche senza bisogno di esplicite affiliazioni, sono imprenditori e professionisti. Rispetto all’intraprendenza di costoro lo stato, avvolto nelle sue pastoie o rappresentato da gente incapace rischia di arrivare, quando arriva, con molto ritardo, si trova davanti al proprio fallimento senza che si imputi tutto ai metodi di un’economia illegale: spesso, come nel caso dei lavoratori della 6DIGI , tutti messi in regola, tutto funziona, almeno apparentemente, nel rispetto della legalità e all’interno di un circuito efficiente e produttivo.
Una parte di questa inchiesta è stata pubblicata sul numero di marzo 2014 de “I Siciliani giovani”. Ringrazio per la collaborazione, nella realizzazione dell’inchiesta, la redazione di Telejato, ovvero Pino Maniaci e Christian Nasi.
Uno dice, meno male che di pulito in Italia ci rimane lo sport. Segno tangibile di purezza, sportività e correttezza.
Giovanni Malagò, n.1 dello sport italiano, un po' abbacchiato per i 16 mesi di squalifica come... nuotatore, scrive Fulvio Bianchi su “La Repubblica”. Un momento difficile per tutto lo sport italiano, specie nelle istituzioni del calcio. Un momento non facile per la Lega Pro e il suo storico presidente Mario Macalli: dossier e denunce sono nelle mani della Procura federale (sperando che Palazzi, almeno stavolta, faccia in fretta) e anche della Repubblica della Repubblica di Firenze. Sono tanti, troppi, i fronti aperti: la Lega Pro ha licenziato il direttore generale Francesco Ghirelli, già braccio destro di Franco Carraro. E Ghirelli ha "confezionato" un dossier (scottante) che Macalli ha fatto avere al superprocuratore Palazzi. Lo stesso Palazzi presto potrebbe deferire il n.1 della Lega, e vicepresidente Figc, per il caso Pergocrema (vedi Spy Calcio dell'8 ottobre). In caso di condanna definitiva superiore ad un anno, decadrebbe dalle sue cariche. Inoltre la Procura della Repubblica di Firenze l'estate scorsa ha rinviato a giudizio Macalli sempre per il Pergocrema. La stessa Procura toscana avrebbe aperto un fascicolo anche sull'acquisto della splendida sede fiorentina della Lega, sede inaugurata da Platini. In ballo ci sono un fallimento e un paio di milioni..
Il presidente del Coni Giovani Malagò è stato condannato dalla Disciplinare della Federnuoto a 16 mesi di squalifica in qualità di presidente dell'Aniene, società per la quale gareggia anche Federica Pellegrini, scrive “La Gazzetta dello Sport”. Per Malagò dunque scatta la sospensione da ogni attività sociale e federale per il periodo in questione. E' stata così riconosciuta la responsabilità di Malagò per "mancata lealtà" e "dichiarazioni lesive della reputazione" del presidente federale Barelli, denunciato dal Coni per una presunta doppia fatturazione. Il caso era nato per una denuncia del Coni, presieduto da Malagò, alla Procura della Repubblica di Roma, per una presunta doppia fatturazione per 820mila euro per lavori di manutenzione della piscina del Foro Italico in occasione dei Mondiali di nuoto. Nel registro degli indagati era stato iscritto il presidente della Federnuoto Barelli, ma il pm aveva chiesto al gip l'archiviazione. La partita giudiziaria era stata poi riaperta dalla decisione di quest'ultimo di chiedere un supplemento di indagini, tuttora in corso. Nel frattempo, nuovi colpi di scena. Barelli, infatti, ha invitato la Procura federale della Fin ad "accertare" e valutare i comportamenti di Malagò, nella sua condizione di membro della Fin come presidente della Canottieri Aniene. Un invito a verificare se ci possano essere state "infrazioni disciplinarmente rilevanti" nelle parole con cui Malagò riassunse la vicenda nella giunta Coni del 4 marzo, parlando, sono espressioni dello stesso Malagò davanti al viceprocuratore federale, "come presidente del Coni e non da tesserato Fin". Il documento-segnalazione di Barelli accusava in sostanza Malagò di aver detto il falso in Giunta accusando ingiustamente la Federazione. La nota Fin citava la "mancata lealtà" e le "dichiarazioni lesive della reputazione", gli articoli 2 e 7, che Malagò avrebbe violato con le sue parole su Barelli in Giunta sulle "doppie fatturazioni". I legali del Coni avevano sollevato eccezioni di nullità, illegittimità e incompetenza, depositando anche il parere richiesto dalla Giunta al Collegio di Garanzia dello Sport, che chiariva la non competenza degli organi di giustizia delle Federazioni su vicende del genere.
Il passato scomodo di Tavecchio, scrivono da par loro Tommaso Rodano e Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano. "Spuntano una denuncia per calunnia contro il super candidato alla Federcalcio e un dossier depositato in procura che lo riguarda. E si scoprono strane storie, dalle spese pazze fino al doppio salvataggio del Messina. Ogni giorno che passa, e ne mancano cinque all’annunciata investitura in Federcalcio, il ragionier Carlo Tavecchio arruola dissidenti, smarrisce elettori: resiste però, faticosamente resiste. Nonostante le perplessità di Giovanni Malagò (Coni), dei calciatori più famosi e di qualche squadra di serie maggiore o inferiore. Il padrone dei Dilettanti, che dal ‘99 gestisce un’azienda da 700.000 partite a stagione e da 1,5 miliardi di euro di fatturato, com’è da dirigente? Dopo aver conosciuto le sue non spiccate capacità oratorie, tra donne sportive handicappate e africani mangia-banane, conviene rovistare nel suo passato. E arriva puntuale una denuncia per calunnia contro Tavecchio, depositata in Procura a Varese due giorni fa, a firma Danilo Filippini, ex proprietario dell’Ac Pro Patria et Libertate, a oggi ancora detentore di un marchio storico per la città di Busto Arsizio. Per difendersi da una querela per diffamazione – su un sito aveva definito il candidato favorito alla Figc un “pregiudicato doc” – Filippini ha deciso di attaccare: ha presentato documenti che riguardano il Tavecchio imprenditore e il Tavecchio sportivo, e se ne assume la responsabilità. Oltre a elencare le cinque condanne che il brianzolo, già sindaco di Ponte Lambro, ha ricevuto negli anni (e per i quali ha ottenuto una riabilitazione) e i protesti per cambiali da un miliardo di lire dopo il fallimento di una sua azienda (la Intras srl), Filippini allega una lettera, datata 24 ottobre 2000, Tavecchio era capo dei Dilettanti dal maggio ‘99. Luigi Ragno, un ex tenente colonnello dei Carabinieri, già commissario arbitrale, vice di Tavecchio, informa i vertici di Lega e Federazione di una gestione finanziaria molto personalistica del presidente. E si dimette. “Mi pregio comunicare che nel corso del Consiglio di Presidenza – si legge – è stato rilevato che la Lega intrattiene un rapporto di conto corrente presso la Cariplo di Roma, aperto successivamente al Primo Luglio 1999 (…). L’apertura del conto corrente appare correlata alla comunicazione del Presidente di ‘avere esteso alla Cariplo, oltre alla Banca di Roma già esistente, la gestione dei fondi della Lega. Entrambi gli Istituti hanno garantito, oltre alla migliore offerta sulla gestione dei conti, forme di sponsorizzazione i cui contenuti sono in corso di contrattazione”. Quelle erano le premesse, poi partono le contestazioni a Tavecchio: “Non risulta che alcun organo collegiale della Lega sia mai stato chiamato a esprimere valutazioni in ordine a offerte formulate dagli Istituti di credito di cui sopra”. “Risulta che non sono state prese in considerazione dal presidente più di venti offerte di condizione presentate in busta chiusa da primarie banche che operano su Roma, le quali erano state contattate dal commissario”. “Non risulta che né la Banca di Roma né la Cariplo abbiano concluso con la Lega accordi di sponsorizzazione”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale del bilancio della Lega non appare, nella voce ‘banche’, la presenza del conto corrente acceso presso Cariplo”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale, alla voce ‘Liquidità/Lega Nazionale Dilettanti’ risulta l’importo di Lire 18.774.126.556, che non rappresenta, come potrebbe sembrare a prima vista, il totale delle risorse finanziarie dei Comitati e delle Divisioni giacenti presso la Lega, bensì è costituito da un saldo algebrico tra posizioni creditorie e posizioni debitorie nei confronti della Lega”. Segue una dettagliata tabella dei finanziamenti ai vari Comitati regionali, e viene così recensita: “Il presidente della Lega ha comunicato che ai suddetti ‘finanziamenti di fatto’ è applicato il tasso di interesse del 2,40%, la cui misura peraltro non è stata stabilità da alcun organo collegiale”. Il vice di Tavecchio fa sapere di aver scoperto anche un servizio di “private banking”, sempre con Cariplo, gestito in esclusiva dal ragionier brianzolo: “Nessun Organo collegiale della Lega ha mai autorizzato l’apertura di tale rapporto (…) e mai ha autorizzato il presidente a disporre con firma singola (…) Trattasi di un comportamento inspiegabile e ingiustificabile, anche in considerazione della consistenza degli importi non inferiore ai venti miliardi di lire”. Ragno spedisce una raccomandata alla Cariplo, e si congeda dai Dilettanti di Tavecchio: “Di fronte all’accertata mancanza di chiarezza, di trasparenza e di correttezza e di gravi irregolarità da parte del massimo esponente della Lega, non mi sento di avallare tale comportamento gestionale e comunico le immediate dimissioni”. Per comprendere la natura del consenso costruito minuziosamente da Tavecchio nella gestione della Lega Dilettanti, un caso esemplare è quello del Messina calcio. La società siciliana approda in Lnd nella stagione sportiva 2008-2009. La famiglia Franza è stufa del suo giocattolo, vorrebbe vendere la squadra, ma non trova acquirenti. Il Messina è inghiottito dai debiti. Dovrebbe militare in serie B, ma il presidente Pietro Franza non l’iscrive al campionato cadetto: deve ricominciare dai dilettanti. Il problema è che il Messina è tecnicamente fallito (la bancarotta arriverà dopo pochi mesi) e non avrebbe le carte in regola nemmeno per ripartire da lì. E invece Tavecchio, con una forzatura, firma l’iscrizione dei giallorossi alla Lega che dirige. L’uomo chiave si chiama Mattia Grassani, principe del foro sportivo e, guarda caso, consulente personale di Tavecchio e della stessa Lnd: è lui a curare i documenti (compreso un fantasioso piano industriale per una società ben oltre l’orlo del crac) su cui si basa l’iscrizione dei siciliani. In pratica, si decide tutto in casa. Nel 2011 il Messina, ancora in Lega dilettanti, è di nuovo nei guai. Dopo una serie di vicissitudini, la nuova società (Associazione Calcio Rinascita Messina) è finita nelle mani dell’imprenditore calabrese Bruno Martorano. La gestione economica non è più virtuosa di quella dei suoi predecessori. Martorano firma in prima persona la domanda d’iscrizione della squadra alla Lega. Non potrebbe farlo: sulle sue spalle pesa un’inibizione sportiva di sei mesi. Non solo. La documentazione contiene, tra le altre, la firma del calciatore Christian Mangiarotti: si scoprirà presto che è stata falsificata. Il consulente del Messina (e della Lega, e di Tavecchio) è sempre Grassani: i giallorossi anche questa volta vengono miracolosamente iscritti alla categoria. Poi, una volta accertata l’irregolarità nella firma di Mangiarotti, la sanzione per il Messina sarà molto generosa: appena 1 punto in classifica (e poche migliaia d’euro, oltre ad altri 18 mesi di inibizione per Martorano). Tavecchio, come noto, è l’uomo che istituisce la commissione “per gli impianti sportivi in erba sintetica” affidandola all’ingegnere Antonio Armeni, e che subito dopo assegna la “certificazione e omologazione” degli stessi campi da calcio alla società (Labosport srl) partecipata dal figlio, Roberto Armeni. Non solo: la Lega Nazionale Dilettanti di Tavecchio ha un’agenzia a cui si affida per l’organizzazione di convegni, cerimonie ed assemblee. Si chiama Tourist sports service. Uno dei due soci, al 50 per cento, si chiama Alberto Mambelli. Chi è costui? Il vice presidente della stessa Lega dilettanti e lo storico braccio destro di Tavecchio. Un’amicizia di lunga data. Nel 1998 Tavecchio è alla guida del comitato lombardo della Lnd. C’è il matrimonio della figlia di Carlo, Renata. Mambelli è tra gli invitati. Piccolo particolare: sulla partecipazione c’è il timbro ufficiale della Figc, Comitato Regionale Lombardia. Quando si dice una grande famiglia."
«Denuncio Tavecchio. Carriera fatta di soprusi» dice Danilo Filippini a “La Provincia Pavese”. A quattro giorni dalle elezioni Figc, Carlo Tavecchio continua a tenere duro, incurante delle critiche e delle prese di posizione - sempre più numerose e autorevoli - di coloro che ritengono l’ex sindaco di Ponte Lambro del tutto inadeguato a guidare il calcio italiano. Tavecchio è stato anche denunciato per calunnia da Danilo Filippini, ex presidente della Pro Patria che ha gestito la società biancoblù dall’ottobre 1988 all’ottobre 1992.
Filippini, perché ha deciso di querelare Tavecchio?
«Scrivendo sul sito di Agenzia Calcio, definii Tavecchio un pregiudicato doc e un farabutto, naturalmente argomentando nei dettagli la mia posizione e allegando all’articolo il suo certificato penale storico. Offeso per quell’articolo, Tavecchio mi ha denunciato per diffamazione. Così, tre giorni fa, ho presentato alla Procura di Varese una controquerela nei suoi confronti, allegando una ricca documentazione a sostegno della mia tesi».
In cosa consiste la documentazione?
«Ci sono innanzitutto le cinque condanne subite da Tavecchio. Poi i protesti di cambiali per una somma di un miliardo di vecchie lire dopo il fallimento della sua azienda, la Intras srl. Ho allegato inoltre l’esposto di Luigi Ragno, già vice di Tavecchio in Lega Dilettanti, su presunte irregolari operazioni bancarie con Cariplo. Più tutta una serie di altre irregolarità amministrative».
Quando sono nati i suoi dissidi con Tavecchio?
«Ho avuto la sfortuna di conoscerlo ai tempi in cui ero presidente della Pro Patria. Quando l’ho visto per la prima volta, era presidente del Comitato regionale lombardo. In quegli anni ci siamo scontrati continuamente. Con Tavecchio in particolare e con la Federazione in generale».
Per quale motivo?
«I miei legittimi diritti sono sempre stati negati, in maniera illecita, nonostante numerosi miei esposti e querele, con tanto di citazioni di testimoni e prove documentali ineccepibili. Da vent’anni subisco dalla Federcalcio ogni tipo di abusi».
Per esempio?
«Guardi cos’è successo con la denominazione “Pro Patria et Libertate”, da me acquisita a titolo oneroso profumatamente pagato, e che poi la Federazione ha girato ad altre società che hanno usato indebitamente quel nome. Per non parlare della mia incredibile radiazione dal mondo del calcio, che mi ha impedito di candidarmi alla presidenza della Figc, come volevo fare nel 2001. Una vera discriminazione, che viola diritti sanciti dalla Costituzione. Sa qual è l’unica cosa positiva di questa vicenda?»
Dica.
«Sono uscito da un mondo di banditi come quello del calcio. E ora mi occupo di iniziative a favore dei disabili: impiego molto meglio il mio tempo».
Tavecchio risulta comunque riabilitato dopo le cinque condanne subite.
«Mi piacerebbe sapere in base a quali requisiti l’abbia ottenuta, la riabilitazione. E comunque, una volta riabilitato, avrebbe dovuto tenere un comportamento inappuntabile sul piano etico. Non mi pare questo il caso».
Insomma, a suo parere un’eventuale elezione di Tavecchio sarebbe una iattura per il calcio italiano...
«Mi auguro davvero che non venga eletto. Questo è il momento di cambiare, di dare una svolta: non può essere Tavecchio l’uomo adatto. Avendolo conosciuto di persona, non mi sorprende neanche che abbia commesso le gaffes di cui tutti parlano. Lui fa bella figura solo quando legge le lettere che gli scrivono i principi del foro. Comunque, ho mandato la mia denuncia per conoscenza anche al Coni e al presidente Malagò. Non ho paura di espormi: quando faccio una cosa, la faccio alla luce del sole».
"La vicenda Tavecchio? Una sospensione molto particolare.. Ma chi stava nell'ambiente del calcio sapeva perfettamente cosa sarebbe successo. Ho letto varie dichiarazioni e mi sento di condividere chi dice: tutti sapevano tutto, e questi tutti sono quelli che sono andati al voto e che, malgrado sapessero che questo sarebbe successo, hanno ritenuto che era giusto votare per Tavecchio. La domanda va girata a queste persone". Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, commenta così la vicenda dei sei mesi di stop al presidente della Figc decisi dall'Uefa, scrive “La Repubblica”. "L'elezione è stata assolutamente democratica, evidentemente non hanno ritenuto che il fatto potesse essere penalizzante per il proseguio dell'attività di Tavecchio. Io come presidente del Coni di questa cosa, può piacere o meno, ne devo solo prendere atto perché il Coni può intervenire se una elezione non è stata regolare, se ci sono delle gestioni non fatte bene, per problemi di natura finanziaria, se non funziona la giustizia sportiva, per tutto il resto dobbiamo prenderne atto senza essere falsi". Anche il sottosegretario Delrio, presente stamani ad un convegno al Coni col ministro Lorenzin, si è tirato fuori: "Il mondo sportivo è autonomo, il governo non può intervenire". Malagò ha anche spiegato che comunque questa vicenda "crea un problema di immagine al nostro calcio". Carlo Tavecchio, presente anche lui al Coni, ci ha solo detto: "Io sono stato censurato dall'Uefa e non sospeso. L'Uefa ha preso una decisione, non una sentenza". E dal suo entourage si precisa che la "lettera che Tavecchio ha scritto alle 53 Federazioni europee era di presentazione e non di scuse". Il 21 a Roma c'è Platini per presentare il suo libro: Tavecchio è irritato col n.1 dell'Uefa, lo incontrerà? Domani comitato presidenza Figc, venerdì il presidente Figc a Palermo con gli azzurri. Il lavoro va avanti. Intanto, il 27 torna in ballo anche Malagò: processo di appello alla Federnuoto dopo la condanna di 16 mesi in primo grado. La speranza è in drastico taglio, in attesa di Frattini...
Caso Pergocrema, Macalli verso il deferimento? Il vicepresidente della Figc e n.1 storico della Lega Pro, Mario Macalli, rischia il deferimento in margine al caso Pergocrema. Il procuratore federale, Palazzi, ha chiuso l'indagine e passato le carte alla Superprocura del Coni come prevedono le nuove norme di giustizia sportiva volute dal Coni: ora Macalli potrà presentare le sue controdeduzioni, ed essere anche interrogato. La prossima settimana Palazzi deciderà se archiviare o deferire (più che probabile). Il caso Pergocrema si trascina ormai da molto tempo: questa estate la procura della Repubblica di Firenze aveva chiesto il suo rinvio a giudizio. Macalli secondo i magistrati avrebbe "provveduto a registrare a proprio nome i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932". In questo caso, il n.1 dell'ex Serie C, come stato scritto su Repubblica la scorsa estate da Marco Mensurati e Matteo Pinci, "intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando un danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento". Macalli aveva sempre assicurato la sua totale estraneità ai fatti. "Chiarirò tutto". Pare sia arrivato il momento. Possibile inoltre il deferimento di Belloli, presidente del Comitato regionale lombardo e fra i candidati alla successione di Tavecchio alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti. Oltre a lui, resterebbero in corsa solo Tisci e Mambelli, mentre avrebbero fatto un passo indietro Repace e Dalpin. Mercoledì prossimo riunione con Tavecchio. Si vota l'11 novembre. Per finire, chiusa l'inchiesta di Palazzi anche su Claudio Lotito: interrogati quattro giornalisti, acquisito il video. Ora le carte sono in possesso di Lotito, che deve difendersi, e del generale Enrico Cataldi, superprocuratore Coni: presto Palazzi dovrebbe fare il deferimento per le parole volgari su Marotta.
La Commissione Disciplinare ha deliberato il 6 marzo 2013 in merito al fallimento dell’Us Pergocrema 1932 ed ha inibito gli ex presidenti Sergio Briganti per 40 mesi e Manolo Bucci per 12, l’ex amministratore delegato Fabrizio Talone per 6 mesi, l’ex vice presidente Michela Bondi per 3 e gli ex consiglieri del Cda Estevan Centofanti per 3, Luca Coculo e Gianluca Bucci entrambi per 6 mesi, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla base delle indagini effettuate dalla Procura Federale, la Disciplinare ha deciso di infliggere sanzioni ai personaggi di cui sopra accusandoli «di aver determinato (i due presidenti) e di aver contribuito (gli altri dirigenti) con il proprio comportamento la cattiva gestione della società, con particolare riferimento alle responsabilità del dissesto economico-patrimoniale».
A sbiadire ancor di più l’immagine di Briganti, però, ci pensa Striscia la Notizia. L’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti, è stato protagonista di un servizio in una delle ultime puntate di Striscia la Notizia, il tg satirico in onda su Canale 5, intitolato “Minacce, spintoni, schiaffi”, scrive “La Provincia di Crema”. Jimmy Ghione è stato avvicinato da una giovane donna che ha segnalato come, nel vicolo del pieno centro di Roma dove si trova il bar di Briganti, le auto non riescano a transitare in quanto la strada è occupata da un lato da sedie e tavolini del locale e dall’altro da motorini. In quel vicolo, il transito è consentito soltanto agli automezzi di servizio, ai taxi, ai motocicli e alle auto munite del contrassegno per i disabili. E proprio un disabile stava sull’auto guidata dalla donna, che si è trovata la strada bloccata. A quel punto, la signora ha chiesto a Briganti di spostare i tavolini, ma la risposta è stata «un vulcano, una cosa irripetibile», ha commentato la donna.
C’è da chiedersi: quanto importante sia il Briganti per Striscia, tanto da indurli ad occuparsi di lui e non delle malefatte commesse dai magistrati e dall’elite del calcio?
Macalli a inizio ottobre 2014 è stato anche deferito per violazione dell’art. 1 dalla Procura Figc (dopo un esposto di Massimo Londrosi, d.s. del Pavia) per aver registrato a suo nome nel 2011 quattro marchi riconducibili al club fallito, e per aver ceduto - dopo aver negato il bonifico che ha fatto fallire il club - quello «Us Pergolettese 1932» alla As Pizzighettone, che nel 2012-13 ha fatto la Seconda divisione con quella denominazione. Macalli patteggerà, scrive “Zona Juve”. Anche su internet non si trova conferma.
Mario Macalli, da 15 anni presidente della Lega Pro di calcio, sarebbe indagato per appropriazione indebita, in merito alla sua acquisizione del marchio del Pergocrema, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla scomparsa della società gialloblu (club dichiarato fallito dal tribunale cittadino il 20 giugno 2012), indagano le procure di Roma e Firenze che hanno ricevuto una denuncia da parte dell’ex presidente dei gialloblu Sergio Briganti, nei giorni scorsi inibito per 40 mesi dalla Federcalcio proprio per il fallimento del Pergo. E’ possibile che le due inchieste vengano riunificate. Macalli è stato vice presidente per alcuni anni della società gialloblu, vive a Ripalta Cremasca ed ha il suo studio in città. La storia dell’acquisizione del marchio venne scoperta e resa pubblica da un gruppo di tifosi che avrebbero voluto rilevare la società, percorrendo la strada dell’azionariato popolare. Con quattro registrazioni di marchi, Macalli ha reso impossibile il loro proposito.
Un altro terremoto scuote le malandate istituzioni del calcio italiano. La procura di Firenze, nel giorno della stesura dei gironi, ha chiesto il rinvio a giudizio per Mario Macalli, presidente della Lega Pro. L'accusa: abuso d'ufficio, scrive “La Provincia di Crema”. Oggetto dell'inchiesta penale condotta dal sostituto procuratore di Firenze, Luigi Bocciolini è la vicenda del fallimento del Pergocrema nell'estate 2012, nata dalla denuncia di Sergio Briganti, oggi difeso dagli avvocati Giulia De Cupis e Domenico Naso, e allora presidente del club lombardo. I dettagli dell'accusa per il manager sono pesantissimi: "In presenza di un interesse proprio, intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi, e che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento".
“Abuso d’ufficio”. E’ questa l’accusa, formulata dal procuratore della repubblica di Firenze, Luigi Bocciolini, che nei giorni scorsi ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio Mario Macalli, presidente della Lega Pro, scrive “Crema On Line”. L’oggetto dell’inchiesta, iniziata nel marzo 2013 riguarda la vicenda del fallimento del Pergocrema, avvenuta nel giugno 2012. L’indagine è partita dalla denuncia dell’ex presidente gialloblu Sergio Briganti. Dai verbali in possesso della polizia giudiziaria fiorentina nell’aprile 2012 l’avvocato Francesco Bonanni, responsabile dell’ufficio legale della Lega Pro, era incaricato di effettuare i conteggi relativi alla ripartizione della quota della suddivisione dei diritti televisivi della legge Melandri. La somma destinata al Pergocrema, allora iscritta al campionato di Prima Divisione Lega Pro, era pari a 312.118,54 euro lordi, al netto 245.488, 80 euro. In quel periodo la società cremasca gravava in una pesante situazione debitoria nei confronti di tecnici, atleti e fornitori. Il 3 maggio 2012 è stata presentata un'istanza da Francesco Macrì, legale dell’Assocalciatori, in rappresentanza di dieci tesserati del Pergocrema che vantavano 170 mila euro di debiti nei confronti del club gialloblu. Il tribunale di Crema ha autorizzato il sequestro cautelativo della somma in giacenza, comunicandolo alla Lega Pro. Il sequestro è stato attivato il giorno successivo. Il dato certo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, è che il 27 aprile 2012 la Lega era pronta a versare la quota: Bonanni ha escluso di aver dato l'ordine a Guido Amico di Meane, al commercialista della Lega Pro, di bloccare il versamento alla società cremasca. L'unico che avrebbe dato disposizione di non effettuare il relativo bonifico agli uffici preposti sarebbe stato Macalli.
Eppure, nonostante l’impegno della Procura, il Gup di Firenze Fabio Frangini ha assolto Mario Macalli, presidente della Lega Pro, dall’accusa di abuso d’ufficio riguardo al caso del fallimento del Pergocrema. Secondo l'accusa Maccalli non avrebbe autorizzato il versamento alla società della quota dei diritti tv relativa alla stagione 2011-2012. Non luogo a procedere, scrive “La Provincia di Crema”. Il presidente di Lega Pro e vicepresidente della Federcalcio, Mario Macalli, è stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio, nell’ambito della vicenda che portò nel giugno del 2012 al fallimento dell’Us Pergocrema 1932. La decisione è stata presa martedì mattina 21 ottobre dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Firenze, che non ha quindi accolto la richiesta di rinvio a giudizio depositata dal pubblico ministero Luigi Bocciolini il 30 luglio scorso. Il reato ipotizzato per Macalli era quello previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale (l’abuso d’ufficio, appunto). Secondo il pubblico ministero, nella sua qualità di presidente della Lega Pro Macalli aveva intenzionalmente arrecato un ingiusto danno patrimoniale al Pergocrema, dando agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione a bloccare, senza giustificazione, il bonifico alla società di 256.488,80 euro alla stessa spettante quale quota per i diritti televisivi. A seguito di ciò, il 28 maggio 2012, due creditori chirografari depositarono istanza di fallimento del Pergocrema, presso il tribunale di Crema, fallimento che veniva dichiarato il 19 giugno. In sostanza, l’accusa puntava a dimostrare che, la società gialloblù fallì perchè non fu in grado di saldare il debito contratto di 113.000 euro con il ristorante Maosi e l’impresa di giardinaggio Non Solo Verde. Il fallimento sarebbe stato evitato se la Lega Pro avesse eseguito a fine aprile sul contro del Pergocrema, come venne fatto per tutti gli altri club, il bonifico dei contributi spettanti alla società stessa. Ma il Gup — come detto —non ha sposato la tesi.
Al termine degli accertamenti, il Gup lo ha prosciolto con formula piena perché "il fatto non sussiste". I difensori del ragioniere cremasco, l’avvocato Nino D’Avirro di Firenze e Salvatore Catalano di Milano hanno evidenziato, tra l’altro, che Macalli non svolge la funzione di pubblico ufficiale e pertanto non si configura il reato di abuso d’ufficio, scrive “Crema On Line”. «Aspettiamo le motivazioni — ha affermato a caldo l’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti — e poi ricorreremo. La cosa non finisce qui».
Quindi l’inghippo c’era, ma non è stato commesso da un pubblico ufficiale? E qui, da quanto dato sapere, il motivo del non luogo a procedere. Come mai questa svista dei pubblici ministeri?
Comunque la storia ci da una versione diversa della vicenda.
Caso Pergocrema: deferito il presidente della Lega Pro Macalli, si legge il 9 marzo 2015 sul sito della FIGC. Il Procuratore Federale, esaminati gli atti acquisiti dall’A.G.O procedente e valutate le risultanze dell’espletata istruttoria, ha deferito al Tribunale Federale Nazionale, Sezione Disciplinare il presidente della Lega Pro Mario Macalli “perché nel corso della stagione 2011/2012 e delle stagioni sportive successive, allorché medesimo rivestiva la qualifica di Presidente della Lega Pro, poneva in essere le seguenti condotte:
- nel febbraio 2011, registrava a suo nome, presso l’Ufficio Marchi e Brevetti della CCIAA di Roma, i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932;
- nel luglio 2012, essendo stato dichiarato il fallimento della U.S. Pergocrema 1932, concedeva in uso gratuito, con potestà di revoca, al sig. Cesare Angelo Fogliazza il marchio Pergolettese 1932 e quest’ultimo per accordi interceduti con lo stesso Macalli provvedeva al cambio di denominazione della Soc. Pizzighettone ed il suo trasferimento a Crema;
- nell’ottobre del 2013, allorché la Pergolettese 1932 veniva promossa dal campionato di Serie D in Lega Pro Seconda Divisione, provvedeva a donare il marchio U.S. Pergolettese 1932 alla stessa società in persona del suo legale rappresentante;
con ciò di fatto stabilendo chi dovesse svolgere l’attività calcistica professionistica nella città di Crema e con ciò venendo meno al suo ruolo di imparzialità quale Presidente della Lega Pro e Vice Presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio e in conflitto di interessi per l’acquisizione di marchi relativi e denominazioni di società sportive rimanendo a tutt’oggi titolare di tre dei quattro marchi registrati a suo nome, sopra indicati”. Macalli è stato deferito anche “perché nei mesi di aprile-maggio 2012, bloccava il bonifico della somma di euro 256.488,80 dovuta alla U.S. Pergocrema 1932 quale quota dei contributi derivanti dalla suddivisione dei diritti televisivi, senza che ricorresse alcuna giustificazione giuridica, con ciò aggravando la situazione di crisi finanziaria della predetta società, che non ebbe la possibilità di ripianare il debito portato nel ricorso di fallimento e che, dunque, veniva dichiarata fallita dal Tribunale di Crema in data 20.6.2012”.
“Sarebbe venuto meno ai suoi doveri di imparzialità'', spiega “Crema On Line”. Con queste parole il procuratore federale della Figc ha deferito Mario Macalli, presidente della Lega Pro, al tribunale federale nazionale nell’ambito dei marchi registrati Pergocrema. Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932. Al centro della vicenda che coinvolge il dirigente cremasco la registrazione dei marchi sportivi legati alla società gialloblu.
Cambio di denominazione. “Nel febbraio 2011 - si legge nel testo del deferimento - registrava a suo nome, presso l’Ufficio marchi e brevetti della CCIAA di Roma, i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932; nel luglio 2012, essendo stato dichiarato il fallimento della U.S. Pergocrema 1932, concedeva in uso gratuito, con potestà di revoca, al sig. Cesare Angelo Fogliazza il marchio Pergolettese 1932 e quest’ultimo per accordi interceduti con lo stesso Macalli provvedeva al cambio di denominazione della società Pizzighettone ed il suo trasferimento a Crema”.
La donazione del marchio. “Nell’ottobre del 2013, allorché la Pergolettese 1932 - prosegue il comunicato - veniva promossa dal campionato di Serie D in Lega Pro Seconda Divisione, provvedeva a donare il marchio U.S. Pergolettese 1932 alla stessa società in persona del suo legale rappresentante; con ciò di fatto stabilendo chi dovesse svolgere l’attività calcistica professionistica nella città di Crema e con ciò venendo meno al suo ruolo di imparzialità quale Presidente della Lega Pro e Vice Presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio e in conflitto di interessi per l’acquisizione di marchi relativi e denominazioni di società sportive rimanendo a tutt’oggi titolare di tre dei quattro marchi registrati a suo nome, sopra indicati”.
Contributi di diritti televisivi e fallimento. Macalli è stato deferito anche “perché nei mesi di aprile-maggio 2012, bloccava il bonifico della somma di euro 256.488,80 dovuta alla U.S. Pergocrema 1932 quale quota dei contributi derivanti dalla suddivisione dei diritti televisivi, senza che ricorresse alcuna giustificazione giuridica, con ciò aggravando la situazione di crisi finanziaria della predetta società, che non ebbe la possibilità di ripianare il debito portato nel ricorso di fallimento e che, dunque, veniva dichiarata fallita dal tribunale di Crema in data 20 giugno 2012”.
Lega Pro, Mario Macalli deferito dalla Procura federale per il caso Pergocrema, scrive Lorenzo Vendemiale su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo la sfiducia nel dicembre scorso e l'attuale guerra interna ai vertici della terza serie con la fronda Ghirelli-Gravina, il vicepresidente della Figc alle prese con una nuova grana. Per la quale era stato prosciolto dalla giustizia ordinaria. Mario Macalli di nuovo nella bufera. Dopo la sfiducia di dicembre e la lunga querelle che ne è derivata (tutt’ora in attesa di risoluzione), il presidente della Lega Pro (nonché vicepresidente della Figc, braccio destro di Tavecchio e vicino a Claudio Lotito) deve fronteggiare una nuova grana. Stavolta giudiziaria: la Procura Federale lo ha deferito per il cosiddetto “caso Pergocrema”, legato ai marchi della squadra di calcio di cui Macalli è stato dirigente per 24 anni (dal ’62 all’86), prima di farsi strada all’interno del palazzo. La vicenda risale al 2011, un anno prima della bancarotta del Pergocrema: all’epoca Macalli, pur essendo presidente della Lega Pro, aveva provveduto a registrare a proprio nome i marchi “Pergocrema”, “Pergocrema 1932”, “Pergolettese” e “Pergolettese 1932”. Nel luglio del 2012 il club lombardo sarebbe poi fallito. Tempistica sospetta, e forse non del tutto casuale: gli ex dirigenti del club denunciarono Macalli di avere sospeso un bonifico di circa 250mila euro per i contributi televisivi senza motivazione. Soldi che avrebbero dato una boccata d’ossigeno alle casse della società, e che invece non arrivarono a destinazione. Dopo il fallimento, alcuni tifosi avrebbero voluto dar vita ad una nuova società sul modello dell’azionariato popolare, ma si videro sbarrata la strada dalla pregressa registrazione dei marchi. E uno di questi (“Pergolettese 1932”) fu ceduto da Macalli al proprietario del Pizzighettone, che cambiò denominazione alla sua squadra e la trasferì a Crema. Una serie di manovre che all’epoca avevano suscitato le proteste di tifosi e dirigenti. E di cui si era interessata anche la magistratura ordinaria. Macalli era stato rinviato a giudizio nell’agosto 2014, per poi essere prosciolto ad ottobre dall’accusa di abuso d’ufficio. La giustizia sportiva, però, sembra pensarla diversamente. Il dispositivo di deferimento è molto pesante: la Procura sostiene che Macalli ha “di fatto stabilito chi dovesse svolgere l’attività calcistica professionistica nella città di Crema, con ciò venendo meno al suo ruolo di imparzialità”. Si parla esplicitamente di “conflitto di interessi”. E si accusa il presidente di “aver aggravato la situazione di crisi finanziaria della società”, trattenendo i contributi “senza alcuna giustificazione giuridica”. Adesso la palla passa al Tribunale federale, davanti a cui Macalli dovrà nuovamente difendersi per il caso Pergocrema. E l’imputazione contribuisce al clima di “accerchiamento” nei confronti dell’attuale presidente della Lega Pro. Già al centro di un dossier dell’ex direttore generale Francesco Ghirelli (nelle cui pagine, tra le altre cose, si punta il dito proprio sulla gestione dei contributi), Macalli sta cercando di resistere agli attacchi di una nutrita fronda interna (capeggiata da Gabriele Gravina e dallo stesso Ghirelli) che vorrebbe le sue dimissioni. L’obiettivo suo (e di chi lo sostiene: leggi Lotito) è arrivare indenne alla scadenza del mandato. Ma, dopo la mancata approvazione del bilancio a dicembre, il suo “regno” vacilla: presto il Coni dovrà pronunciarsi sulla richiesta dei “dissidenti” di convocare un’assemblea per la revoca dell’attuale governance. E se dal Tribunale federale dovesse arrivare una sentenza di condanna, dopo 18 anni potrebbe davvero concludersi l’era di Mario Macalli in Lega Pro.
Il presidente della Lega Pro, il cremasco Mario Macalli, è stato deferito al tribunale federale nazionale per il caso dei marchi del Pergocrema che lui aveva registrato a suo nome nel 2011, scrive “Crema Oggi”. E’ stato il procuratore federale a esaminare gli atti e poi a deferire il presidente alla sezione disciplinare del tribunale. Nel rapporto del procuratore si legge: “Nel febbraio 2011, registrava a suo nome, presso l’ufficio marchi e brevetti della CCIAA di Roma, i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932; nel luglio 2012, essendo stato dichiarato il fallimento della Us Pergocrema 1932, concedeva in uso gratuito, con potestà di revoca, al sig. Cesare Angelo Fogliazza il marchio Pergolettese 1932 e quest’ultimo per accordi interceduti con lo stesso Macalli provvedeva al cambio di denominazione della società Pizzighettone ed il suo trasferimento a Crema; nell’ottobre del 2013, allorché la Pergolettese 1932 veniva promossa dal campionato di Serie D in Lega Pro Seconda Divisione, provvedeva a donare il marchio U.S. Pergolettese 1932 alla stessa società in persona del suo legale rappresentante”. Grazie a questi fatti, sempre secondo il procuratore, il presidente Macalli stabilì chi dovesse svolgere attività calcistica professionistica nella città di Crema. ma non finisce lì, perché il presidente della Lega Pro è stato deferito in quanto nei mesi di aprile-maggio 2012, bloccava il bonifico della somma di euro 256.488,80 dovuta al Pergocrema quale quota dei contributi derivanti dalla suddivisione dei diritti televisivi, senza che ricorresse alcuna giustificazione giuridica, con ciò aggravando la situazione di crisi finanziaria della predetta società, che non ebbe la possibilità di ripianare il debito portato nel ricorso di fallimento e che, dunque, veniva dichiarata fallita dal Tribunale di Crema in data 20 giugno 2012. Per questi motivi la scorsa settimana l’ex presidente del Pergocrema Sergio Briganti ha depositato un esposto e ha chiesto a Macalli e alla Fgci sei milioni di euro per i danni subiti.
Ecco i legami e gli intrighi del trio "Cavaliere oscurato"-Macalli-Tavecchio, scrive Stefano Greco su “sslaziofans”. (Il cavaliere oscurato è Claudio Lotito, presidente della Lazio). “Più che Tavecchio, sono quelli che stanno dietro a lui che mi spaventano. Lui è inadeguato e fatico a capire come i dirigenti oggi possano pensare col metodo Lotito, che crede che il Palazzo della Federazione abbia una porta sola: e la chiave spetti a lui. Non lo accettiamo”. Oggi risuonano come sirene d’allarme le parole pronunciate qualche giorno fa da Renzo Ulivieri. Già, perché oggi è esplosa una bomba che era nell’aria da tempo e che con la sua deflagrazione ha aperto uno dei tanti armadi in cui erano chiusi un po’ di scheletri. L’armadio è quello di Mario Macalli, presidente della Lega Pro, per il quale la Procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per ABUSO D’UFFICIO. Oggetto dell’inchiesta penale condotta dal sostituto procuratore di Firenze, Luigi Bocciolini è“la vicenda del fallimento del Pergocrema nell’estate 2012, nata dalla denuncia di Sergio Briganti, allora presidente del club lombardo”. La notizia è esplosa alla vigilia dell’assemblea delle società di Lega Pro chiamate, proprio oggi, a eleggere i propri consiglieri federali e a nominare i componenti del direttivo; ma il suo vero effetto rischia di produrlo interferendo con la già discussa elezione di Carlo Tavecchio, di cui Macalli è (insieme al “Cavaliere oscurato”) tra i principali sponsor, alla presidenza della Federcalcio. I dettagli dell’accusa per il rinvio a giudizio di Macalli sono pesantissimi: “In presenza di un interesse proprio, intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando danno patrimoniale al Pergocrema, fornendo agli uffici preposti della Lega Pro esplicita disposizione di bloccare, senza giustificazione giuridica, il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi. Soldi che, se disponibili, avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento”. Per capire meglio i dettagli di questo brutto pasticciaccio calcistico-penale che la procura di Firenze contesta a Macalli, bisogna fare un salto indietro: nel 2011, cioè circa un anno prima, il presidente di Lega Pro aveva registrato a proprio nome i marchi “Pergocrema” e “Pergocrema 1932”, ma anche quelli “Pergolettese” e “Pergolettese 1932”. Il 19 giugno 2012 arriva il fallimento della società e a seguito del fallimento, il Pergocrema viene cancellato dal campionato di Lega Pro Prima Divisione. Macalli, come per magia, si ritrova “esclusivo titolare dei marchi con cui il Pizzighettone, club di Eccellenza, si iscrive al campionato di Lega Pro come Pergolettese 1932”. Il tutto a danno del Pergocrema e a vantaggio del legale rappresentante del nuovo club nato da questo pasticciaccio, ovvero Cesare Angelo Ferrazza,“con sensibile incremento di valore attribuibile all’azione del Macalli”. E l’indagine ha evidenziato chiari legami e “relazioni di carattere economico tra Macalli e Ferrazza”. Tavecchio, Macalli e il “Cavaliere oscurato”. Con in mezzo la Salernitana, il Pergocrema e Sergio Briganti, ex proprietario del club lombardo e grande amico del “Cavaliere oscurato”. Ma non solo. Tutto nasce nell’estate del 2011. Il “Cavaliere oscurato” ha capito che il calcio è un business e dopo qualche tentativo non andato in porto (tra cui quello del Torino prima dell’arrivo di Cairo), a fine luglio 2011, arriva l’occasione giusta. La Salernitana, appena scomparsa dopo aver fallito la promozione in serie B, è in attesa di un nuovo proprietario. Il sindaco De Luca ha in mano il titolo sportivo da assegnare tramite lodo e Lotito risponde presente. “Per preservare una società patrimonio del calcio italiano”, dice urbi et orbi, in realtà perché il sindaco De Luca si impegna a garantire sia al “Cavaliere oscurato” che a suo cognato Marco Mezzaroma il via libera per la costruzione a Salerno di una cittadella dello sport, con annessi e connessi. Si riparte dalla serie D (di cui è presidente di Lega guarda caso Tavecchio), è vero, ma questo è un business che una famiglia di costruttori non si può certo far scappare, soprattutto considerando il fatto che l’investimento iniziale è modesto (2 milioni di euro di budget per il primo anno, di cui 700.000 escono dalle casse della Lazio) rispetto al ritorno economico che può garantire subito una piazza che un mese prima aveva fatto oltre 25.000 spettatori in Lega Pro per lo spareggio-promozione perso contro il Verona. E poi c’è il futuro garantito dalla promessa di cemento e appalti. Così, Gianni Mezzaroma (suocero del “Cavaliere oscurato”), tramite la Morgenstern srl diventa proprietario della Nuova Salerno, il cui presidente è ufficialmente il figlio Marco, ma il cui vero “deus ex machina” è il “Cavaliere oscurato”, che alla presentazione parla da proprietario e si presenta con l’intero staff dirigenziale della Lazio, compreso il responsabile della società pronto ad esportare a Salerno la rivista ufficiale, la web radio e la web tv lanciati negli ultimi mesi dalla Lazio. Il “Cavaliere oscurato” sceglie con Tare il nuovo allenatore (Carlo Perrone, fino a giugno 2011 allenatore delle giovanili della Lazio), coordina il mercato e a Formello si fanno le assunzioni e si preparano le buste paga dei dipendenti della Nuova Salerno.
Le nuove regole della Federcalcio consentono al proprietario di una società di serie A di gestire anche una società di serie D, Tavecchio accoglie tutti a braccia aperte e, fin qui, all’apparenza non c’è nulla di strano perché per ora siamo nel rispetto delle regole. Finita qui? No. Il “Cavaliere oscurato” ci prende gusto e, all’improvviso, ad inizio agosto 2011 cominciano a circolare strane voci su un coinvolgimento del presidente della Lazio nella scalata al Pergocrema, società di Lega Pro Prima Divisione passata dalle mani dell’imprenditore Manolo Bucci a quelle di Sergio Briganti (con un passato calcistico non felicissimo a Taranto e Ancona), socio e amico del “Cavaliere oscurato”. Tra i soci della nuova Pergocrema Calcio, figura anche Ciro Di Pietro, imprenditore alberghiero proprietario dell’albergo di Auronzo di Cadore dove va abitualmente in ritiro la Lazio. E lo stesso Briganti, non nasconde il legame con il “Cavaliere oscurato”, anzi. “Con il presidente della Lazio esiste un rapporto di lavoro, amicizia e rispetto: è una persona che conosce il significato del termine azienda, sa fare calcio tenendo i conti a posto, come piace a me. Non nego che sia un modello”. Le stesse identiche parole pronunciate da Marco Mezzaroma a Salerno il giorno della presentazione. E il legame tra la Pergocrema Calcio e la Lazio diventano ben presto ancora più evidenti, visto che nel giro di pochi giorni arrivano da Formello il promettente difensore Adeleke e i suoi compagni di Primavera Di Mario e Capua. Più Concetti, che stava in prestito a Crotone. Doveva andare anche Makinwa, ma il trasferimento del nigeriano sfuma all’ultimo secondo. Finita? No…Il 29 dicembre, il “Cavaliere oscurato” partecipa ad una conferenza stampa dove viene presentato in pompa magna il gemellaggio tra l’aquila laziale e quella del Bolzano, un matrimonio suggerito da Mara Carfagna, grande amica di Michaela Biancofiore che è vice presidente del Bolzano, società dal passato glorioso che navigava nelle paludi della Lega Dilettanti. Tra un latinismo e le solite gaffe (chiama Marano il suo “grande amico” Murano, presidente del Bolzano), il “Cavaliere oscurato” manda in scena il suo solito show. “Ringrazio tutti per l'accoglienza e per la fiducia che avete riposto nella mia persona per quello che ho fatto sinora in questo mondo. Ho accolto con entusiasmo l'iniziativa della mia amica onorevole Biancofiore e del presidente, che mi hanno coinvolto emotivamente in questo rapporto sinergico di affiliazione. Al nostro amatissimo presidente, non bisogna insegnare il calcio, perché è molto ferrato ed è una persona di altissimo livello, ma comunque attraverso le sinergie si possono ottenere importanti risultati sia in termini di giocatori che di strutture che di esperienze maturate. Io ho rilevato una società al funerale che aveva 550 milioni di debiti: oggi è una delle squadre con il bilancio migliore. Questo è importante perché significa che anche nel calcio si può intraprendere un percorso virtuoso nel rispetto delle regole, nel rispetto di un sano bilancio, cercando di coniugare anche i risultati sportivi: dal 2004 a oggi, ho raggiunto il primo anno l’Intertoto(se lo comprò facendo fuori il Livorno, ma chi se lo ricorda?), il secondo anno l’Europa League (e la perse per la condanna che fece prendere alla Lazio per Calciopoli), il terzo anno la Champions (e non investì neanche un euro per rinforzare la squadra), il quarto anno la vittoria in Coppa Italia, il quinto anno il successo nella Supercoppa Europea (Supercoppa Italiana, in realtà, ma tutto fa brodo)e quest'anno possiamo fare ancora meglio, salvo complicazioni mediatiche che in questo momento ci stanno bombardando. Evidentemente creiamo qualche problema, perché in questo mondo esiste una consuetudine, ‘consuetudo magna vis est’, ossia quando la consuetudine diventa norma, anche se è sbagliata. Il sistema è chiuso e diamo fastidio, ma noi siamo per l'apertura, vogliamo la sana gestione e la trasparenza, vogliamo guardare negli occhi la gente. E anche con questo spirito intraprendiamo questo rapporto di collaborazione, per dare impulso alla città di Bolzano e alla sua squadra, con cui ci sono affinità, anche simboliche, vedi l'aquila ad esempio. La Lazio è a disposizione per favorire la crescita di questa squadra, che deve mantenere la sua autonomia, la sua proprietà. Lotito, dunque, non compra il Bolzano, ma con il Bolzano nasce una bella affiliazione, nata con finalità sociali, all'insegna dei sani valori dello sport. E mi auguro che il Bolzano esca da questa palude dilettantistica”.E giù applausi, anche da parte di Tavecchio che benedice il nuovo matrimonio calcistico-politico. Che dura, visto che poche settimane fa il “Cavaliere oscurato” era tra gli ospiti vip (insieme al ministro Frattini) alla presentazione del libro dela Biancofiore…Quell’anno, tutti promossi, mentre il Pergocrema fa la fine che avete letto all’inizio. La Salernitana passa tra i Pro, quindi in base all’articolo 16 bis, che vieta in modo tassativo a proprietari di club di Serie A e a suoi parenti o assimilati di gestire un altro club professionistico, il “Cavaliere oscurato” dovrebbe vendere o la Lazio o il club campano. Invece no. Perché in Consiglio Federale, grazie ai voti decisivi di Macalli e Tavecchio, arriva una deroga fino a dicembre 2012, poi estesa nel silenzio generale fino a giugno 2013. E poi, l’estate successiva, con equilibrismi da circo, esce un’interpretazione secondo la quale il “Cavaliere oscurato” può restare proprietario dei due club perché uno lo ha preso quando era nei Dilettanti, quindi fino a quando resta in Lega Pro (sotto la protezione di Macalli), va tutto bene. Poi, se e quando passerà in Serie B (sotto Abodi), si vedrà. E l’alleanza si rafforza quando dopo l’ennesima condanna c’è da decidere sulla decadenza del “Cavaliere oscurato” da tutte le cariche. Le premesse giuridiche ci sono, ma la mozione viene respinta. E ora, la grande marcia verso via Allegri, nonostante bucce di banane, condanne passate, rinvii a giudizio e inciuci di ogni genere stile Prima Repubblica. I personaggi sono gli stessi d’altra parte, anche si sono travestiti presentandosi come il “nuovo che avanza”.
Calcio Italia, usi e consumi, scrive P. Cicconofri su “Giulemanidallajuve”. L’Italia del calcio viaggia sempre controcorrente. Iniziamo dal caso Tavecchio, il procuratore federale Palazzi esaminati gli articoli di stampa, gli esposti presentati, i filmati acquisiti e la documentazione trasmessa dalla Figc alla Fifa e alla Uefa si è affrettato ad archiviare l’inchiesta perché “non sono emersi fatti di rilievo disciplinare a carico del neo presidente della Figc Carlo Tavecchio sia sotto il profilo oggettivo sia sotto il profilo soggettivo”. Non è della stessa opinione la Uefa che ha dato un diverso valore alle parole del presidente Figc sospendendolo per 6 mesi, periodo in cui non potrà partecipare alle commissioni del massimo ente calcistico europeo e non sarà presente al congresso che si terrà a marzo 2015. Potrà invece seguire la nazionale. La Federcalcio, in una nota, ha fatto sapere che Tavecchio ha accettato la proposta della Uefa per evitare il protrarsi del contenzioso davanti al Tas che avrebbe dovuto eventualmente stabilire se la Uefa fosse competente ad intervenire su questa materia, stante l'avvenuta archiviazione di un analogo procedimento da parte della procura federale. Un accordo tra gentiluomini? La cosa più curiosa è che a furia di strattonarsi nella corsa a chi più si avvicina a Tavecchio, Ghirardi è arrivato a dire: "La squalifica di Tavecchio? L'Uefa doveva confrontarsi con le legge italiane". Nemmeno il buon senso di starsene in silenzio… Arriviamo a Mario Macalli, presidente della Lega Pro, tristemente famoso per i suoi recenti attacchi alla Juventus. La Procura della Repubblica di Firenze, la scorsa estate, ha rinviato a giudizio Macalli per il caso Pergocrema. L’accusa è abuso d’ufficio: bloccò il bonifico che avrebbe salvato dal fallimento il club.( Macalli alla conquista delle prime pagine …). Nonostante il fatto sia noto alla FIGC dal 28 settembre 2012, il procuratore Palazzi, ad oggi, non ha ancora preso nessuna decisione, nemmeno uno scontato rinvio a giudizio. Ricordiamo che in caso di condanna superiore ad un anno, Macalli decadrebbe da tutte le cariche. Chissà perché questa volta la giustizia sportiva, quella a cui basta il sospetto, non si muove nemmeno in presenza di un rinvio a giudizio della giustizia ordinaria …Lotito, attualmente braccio destro del Presidente della Figc, orami padrone del baraccone Italia, si permette anche di insultare Marotta pubblicamente: "Il problema con Marotta è che con un occhio gioca a biliardo e con l'altro mette i punti", senza subire nessuna conseguenza. In passato, per frasi meno offensive, sono partiti deferimenti immediati. Anche questa volta il solerte procuratore Palazzi si è mosso nel silenzio e con molta cautela. Il Corriere dello Sport informa che la procura federale ha provveduto ad aprire un fascicolo d’indagine. Scopriremo a breve (speriamo) se Lotito può fare e dire quello che vuole…Terminiamo con il caso Rocchi, l’arbitro di Juventus-Roma, reo di aver favorito, secondo quel comune sentimento popolare di farsopoliana memoria, i bianconeri. Lasciamo da parte per un momento l’effetto mediatico montato da una stampa sportiva in degrado, la cosa che dovrebbe far riflettere è come la UEFA lo abbia immediatamente designato per la delicata partita tra Albania e Serbia valida per la qualificazione agli Europei del 2016, mentre in Italia, il Corriere dello Sport ha subito messo in evidenza che il designatore lo avrebbe punito con due giornate di stop dopo l’esposizione a pubblico ludibrio. Il nome di Rocchi non appare nella lista delle designazioni per la 7° partita del massimo campionato. E’ uno specchio che riflette una chiara immagine, quella della Giustizia Sportiva italiana che si muove solo e sempre per convenienza e in contrasto con le decisione della Uefa, che delle “chiacchiere” italiane sembra non interessarsi. Per il momento, la cupola formata da Macalli, Tavecchio e Lotito, ha potuto contare su una giustizia sportiva a loro uso e consumo: veloce per archiviare e lenta nel non prendere provvedimenti dovuti. E il famoso sentimento popolare ha avuto ancora la meglio sul buon senso.
IL PRESIDENTE DEL CONI, GIOVANNI MALAGO’ ED IL COLMO DEI COLMI.
La Federnuoto mette sotto accusa Malagò: "Ha criticato la federazione". Il presidente del Coni, tesserato con la Fin, ha ricevuto una convocazione ufficiale dal pm: lo statuto non prevede critiche. Una mossa che si inserisce nel quadro della "guerra" per le fatture sui lavori del Foro Italico, scrive Paolo Rossi su “La Repubblica”. Farebbe ridere, se fosse una storiella raccontata tra amici. Invece è tutto vero: quattro giorni fa Giovanni Malagò, presidente del Coni, ha ricevuto una convocazione ufficiale da parte del pm della Federnuoto, D'Amelio. "Lei è colpevole di aver criticato la federazione, venga a esporre la sua difesa" era più o meno in sintesi l'accusa della Federnuoto. Per capirci Giovanni Malagò, che è anche presidente del circolo Aniene di Roma (esattamente come D'Amelio), è tesserato Fin (come per altre numerose federazioni, esattamente diciassette). E lo statuto Fin non prevede critiche da parte dei tesserati (non si capisce come non abbiano ancora radiato Federica Pellegrini, a questo punto). Malagò, tra il serio e il faceto, ha più o meno risposto "Ma cosa volete, qui non abbiamo tempo da perdere". Una roba che va collocata ovviamente nella guerra Coni-Fin, in attesa che il pm Felici concluda il supplemento d'indagini che gli ha imposto il gip sul caso delle 23 fatture dal valore complessivo di 845 mila euro per i lavori alle piscine del Foro Italico, oggetto dell'accordo con Coni Servizi e le stese fatture, già presentate al Ministero per attestare il vincolo di destinazione del finanziamento statale, sono state altresì prodotte nell'ambito dell'accordo transattivo sottoscritto tra Fin e Coni Servizi per il rimborso dei lavori sulle piscine del Foro Italico in compensazione del credito vantato dalla Coni Servizi sulle utenze degli stessi impianti. Fatture usate due volte, insomma. Ma, in attesa delle decisioni del tribunale, la battaglia sportiva e politica è in pieno corso. Evidentemente a Paolo Barelli, presidente Federnuoto, non pareva vero poter inquisire in qualche maniera il suo grande avversario. Pensando di aprire un caso giurisprudenziale, magari mettere in difficioltá Malagò con le altre federazioni, renderlo più nervoso, ma non rendendosi conto di aprirne un altro di caso, quello che va inserito negli annali delle storielle che fanno sorridere le persone più moderate. La domanda a questo punto è: visto che il gip, nelle sue motivazioni, ha aumentato i capi di imputazione per la Federnuoto, aggiungendo quella di falso in bilancio, chi arriverà primo al traguardo: Barelli, strappando la tessera Fin a Malagò, oppure Malagò a commissariarlo nella Federnuoto? Intanto, a chilometri di distanza, un signore sta aspettando l'esito della vicenda: si chiama Cornel Marculescu, ed è uno dei massimi dirigenti della Federazione mondiale di nuoto: a seconda dell'esito fará delle mosse con la commissione etica della Fina.
La squalifica del presidente del CONI. 29 settembre 2014. Comm. Disciplinare. Malagò inibito 16 mesi, come da documento pubblicato sul sito della Federnuoto. La Commissione Disciplinare della Federnuoto - composta dal Presidente avv. Adriano Sansonetti e dai membri avv. Massimo Mamprin e avv. Roberto Rinaldi - si è riunita in Camera di Consiglio presso gli uffici federali, a Roma, e ha deciso di comminare al dott. Giovanni Malagò, tesserato quale Presidente del Circolo Canottieri Aniene, la sanzione di mesi sedici (16) di sospensione da ogni attività sociale e federale a far data dalla notifica del provvedimento, per violazione dell'art. 12 del Regolamento di Giustizia Federale anche in relazione all'art. 6, n. 4, lett. a) dello Statuto della Federazione Italiana Nuoto e degli artt. 2 e 7 del Codice di comportamento sportivo emanato dal CONI.
A SEGUIRE GLI ARTICOLI CITATI
Art. 12 del Regolamento di Giustizia. Costituisce illecito disciplinare il mancato rispetto delle norme contenute nello Statuto e nei Regolamenti federali, la inosservanza dei principi derivanti dall’ordinamento giuridico sportivo con particolare riferimento ai principi di lealtà, di rettitudine e di correttezza morale che devono sempre ispirare i comportamenti delle società affiliate e dei soggetti tesserati.
Art. 6 Diritti e Obblighi del Soggetti Federali, n. 4, lett. a) dello Statuto FIN. 4) I tesserati hanno l’obbligo: a) di esercitare con lealtà sportiva le loro attività, osservando i principi, le norme e le consuetudini sportive nonché il Codice di Comportamento Sportivo.
Artt. 2 e 7 del Codice di comportamento sportivo
emanato dal CONI. Art. 2. Principio di lealtà
I tesserati, gli affiliati e gli altri soggetti dell'ordinamento sportivo devono
comportarsi secondo i principi di lealtà e correttezza in ogni funzione,
prestazione o rapporto comunque riferibile all'attività sportiva. I tesserati e
gli altri soggetti dell'ordinamento sportivo cooperano attivamente alla ordinata
e civile convivenza sportiva. Art. 7. Divieto di dichiarazioni lesive della
reputazione. I tesserati, gli affiliati e gli altri soggetti dell'ordinamento
sportivo non devono esprimere pubblicamente giudizi o rilievi lesivi della
reputazione dell'immagine o della dignità personale di altri persone o di
organismi operanti nell'ambito dell'ordinamento sportivo.
Giovanni Malagò è stato escluso per 16 mesi dalle attività della Federnuoto, una delle federazioni sportive che lui stesso governa, scrive “Il Post”. La Commissione Disciplinare della Federnuoto (FIN) – la federazione affiliata al Comitato Olimpico Nazionale (CONI) che coordina le attività del nuoto sportivo in Italia – ha condannato lunedì il presidente dello stesso CONI Giovanni Malagò a una squalifica di 16 mesi, in cui dovrà sospendere ogni attività sociale e federale all’interno della Federnuoto per la violazione dell’articolo 12 del regolamento di giustizia federale e degli articoli 2 e 7 del codice di comportamento del CONI relativi al dovere di lealtà e correttezza. La squalifica deriva dalle cose che lo stesso Malagò – che dal 1997 è presidente del Circolo Canottieri Aniene, che aderisce alla Federnuoto – ha detto davanti alla Giunta del CONI lo scorso 4 marzo, accusando Paolo Barelli, presidente della FIN, di truffa aggravata a causa di una doppia fatturazione di circa 820mila euro per i lavori di manutenzione alla piscina usata per i Mondiali di nuoto del 2009 organizzati a Roma (un evento il cui problematico andamento dei lavori è stato oggetto di molte inchieste giudiziarie e giornalistiche negli ultimi anni). Piero Sandulli, presidente di sezione della Corte federale di appello della FIGC – che non c’entra con questa storia, sia chiaro – ha spiegato così ai giornali gli effetti reali della squalifica: «La sanzione inflitta dalla Disciplinare della Federazione Italiana Nuoto nei confronti di Giovanni Malagò non incide in alcun modo sul CONI o sul ruolo del presidente, essendo limitata all’ambito della FIN e all’attività che Malagò può svolgervi in qualità di presidente della società Aniene. Non ci sono riflessi sull’attività del CONI, ma certo la situazione che si è creata non aiuta l’immagine dello sport italiano. La sanzione di 16 mesi, poi, è piuttosto pesante, non se ne ricordano tante neanche nel mondo del calcio per ben altri fatti…». Il litigio tra Malagò e Barelli nasce proprio dall’assegnazione dei Mondiali a Roma: subito dopo l’annuncio Barelli, che era già presidente della FIN, tentò senza successo di estromettere Malagò, presidente del comitato organizzatore, perché lo riteneva inadeguato. I rapporti si rovinarono ulteriormente dopo i Mondiali, quando litigarono sulla loro riuscita; per arrivare a febbraio 2014 quando il CONI (cioè Malagò che ne è presidente del 2013) denunciò la FIN (cioè Barelli) accusandolo di una truffa sui finanziamenti per la piscina. A marzo la procura della Repubblica di Roma aveva chiesto l’archiviazione del caso, ma un nuovo esposto del CONI ha convinto il gip a rinviare le carte al pubblico ministero. Entro dicembre il pm dovrebbe decidere se archiviare nuovamente il caso o chiedere il rinvio a giudizio. Nel frattempo Barelli ha invitato la procura federale della FIN a valutare i comportamenti e le accuse di Malagò, ritenute ingiuste e false. La procura federale della FIN intanto ha dato ragione a Barelli e lunedì ha squalificato Malagò, che nella serata di ieri ha commentato: «È il trionfo dell’illogicità. Mi è stato attribuito un fatto inesistente e per questo sono stato condannato dal primo grado della giustizia sportiva della FIN. La decisione conferma ancora una volta che è stato necessario riformare il codice della giustizia sportiva (riforma che ha permesso di escludere conseguenze della sentenza sul ruolo di presidente del CONI, ndr) perché questo fosse realmente rispettoso di quei principi che regolano l’ordinamento dello sport. E non a caso su 75 componenti, l’unico voto contrario in Consiglio Nazionale su questa delibera è stato del presidente della Federazione Italiana Nuoto. La cosa più sorprendente tuttavia è che la Commissione Disciplinare della FIN, assumendosene la responsabilità, abbia disconosciuto una recente decisione dell’intera Giunta Nazionale del Coni che aveva indicato nel Collegio di Garanzia dello Sport, che è la Cassazione dello Sport, l’autorità massima alla quale richiedere un parere. Parere che esplicitamente escludeva la titolarità in capo alla Commissione Disciplinare della Federazione Italiana Nuoto». La situazione paradossale creata dalla sentenza è commentata severamente nelle cronache sportive di molti giornali. Così ne scrive Daniele Dallera sul Corriere della Sera. Una sentenza che non ha un briciolo di buon senso. Proprio come le parole di Giovanni Malagò (un po’ se l’è cercata) quando accusò la Federnuoto, e quindi il suo presidente Paolo Barelli, di «doppie fatturazioni». Accuse, sospetti che vanno provati, non buttati lì, anche se la Procura di Roma sta ancora indagando perché il gip vuole vederci chiaro. Ed è arrivata la vendetta del nemico personale di Giovanni Malagò, che dà la dimensione della faida, dove la giustizia annega in quest’acqua inquinata da risentimenti e colpi bassi. A infliggere 16 mesi di squalifica è stato Adriano Sansonetti, presidente della Disciplinare. Il ricorso che Malagò presenterà sarà esaminato da Pier Salvatore Maruccio: tenetevi forte, è il cognato di Sansonetti. Bene questa giustizia da ballatoio familiare è inaccettabile (come un’eventuale sostituzione in corsa): è peggiore di qualsiasi «doppia fatturazione». Coni-Federnuoto, Malagò: "La mia squalifica? Il mondo dello sport si vergogna". Replica del n.1 dello sport italiano all'inibizione per 16 mesi decisa dalla Fin: "Bisogna interrogarsi su certi dirigenti che continuano a ragionare con mentalità che sono fuori dai tempi di oggi. Sono sereno: qualsiasi commento è superfluo". Barelli: "Si assume responsabilità sue parole", scrive “La Repubblica”. Sono passate meno di 24 ore dalla decisione della Commissione disciplinare della Federnuoto, che ha squalificato per 16 mesi il 'tesserato' Giovanni Malagò, che è anche presidente del Coni. Dopo la prima reazione, affidata a una comunicato, il n.1 dello sport italiano commenta così la squalifica in una conferenza stampa: "Eterna querelle con Barelli (presidente della Federnuoto, ndr)? Onestamente io volo un tantino più alto. Secondo me il mondo dello sport non solo è rimasto sorpreso ma si vergogna di quello che è successo ieri". Poi aggiunge: "Ora non farò nessuna contromossa. Qualsiasi commento è superfluo. Siamo sereni e quasi divertiti per il non senso di tutto questo. Se affermazioni neanche mie, riportate dagli uffici del Coni, ti portano a questo si commenta da solo: è la dimostrazione che siamo nel giusto nell'aver portato avanti la riforma della giustizia sportiva. Siamo molto tranquilli". La replica del n.1 della Federnuoto: "Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, parla di sentenza vergognosa per il mondo dello sport? Lo dice lui, ovviamente ognuno può esprimere le proprie opinioni e se ne assume la responsabilità. Noi siamo molto sereni, ma dispiaciuti e sconcertati per una vicenda che nasce da una denuncia fatta dal Comitato Olimpico alla federazione e agli organi di giustizia ordinaria". Intervistato da Sky Sport, il presidente del Coni ha spiegato, rispondendo alla domanda se alla base di tutto ci sia un'antipatia reciproca con il presidente della Fin Barelli: "Io ho raccontato i fatti, se è una cosa privata giudicate voi. Io sono un funzionario pubblico e sono obbligato a fare certe cose, sono stato eletto anche e soprattutto perchè queste sono le mie caratteristiche e la mia volontà. Normalmente - prosegue - passo per uno che va d'accordo con il mondo, anzi qualcuno mi rinfaccia che vado d'accordo con tutti, quindi penso che questo non sia un mio problema". Per Malagò "è tutto incommentabile. Come la spieghiamo all'estero? All'estero sanno che nel nostro Paese c'è molta voglia di fare qualcosa di diverso, e che ci sono anche dirigenti che hanno una cultura non adeguata ai tempi che viviamo. Contromossa? Nessuna, andremo avanti con gli aspetti formali, alla fine si tireranno le somme". Malagò, in qualità di tesserato del Circolo Canottieri Aniene, è stato squalificato per aver espresso in Giunta Coni giudizi ritenuti lesivi della reputazione della Federnuoto in merito a una presunta doppia fatturazione da parte della stessa Fin. "Il mondo dello sport si deve interrogare su certi dirigenti che continuano a ragionare con mentalità che sono fuori dai tempi di oggi - aggiunge il n.1 dello sport italiano oggi al Centro Giulio Onesti di Roma -, strascichi di una gestione sportiva che non esiste più, di una giustizia sportiva che appunto ha cambiato corso. Secondo me il mondo dello sport non solo è rimasto sorpreso ma si vergogna di quello successo ieri". "Ricevo tonnellate di messaggi che mi chiedono come sia possibile una cosa del genere - prosegue Malagò - E' molto semplice, gli uffici del Coni riferiscono che c'era un problema. Io riferisco il problema in Giunta né più né meno di come hanno riferito altri uffici del Coni, è un mio dovere istituzionale di vigilianza, siamo nel pieno rispetto del ruolo che credo sia sacrosanto esercitare". "Poi questi verbali sono stati dati ad un procuratore che mi ha deferito ed in primo grado la giustizia sportiva ha combinato quello che ha combinato semplicemente perché sono tesserato, per altro orgogliosamente, di una federazione come di tante altre credo siano 17-18 tanto come dirigente di un'associazione sportiva quanto come praticante. Credo che qualsiasi commento sia superfluo", conclude il presidente del Coni.
Lo sport governato dagli insulti, scrive Aligi Pontani su “La Repubblica”. Nel pieno della sua indiscutibile autonomia, un organo disciplinare di una federazione squalifica per 16 mesi il presidente del Coni, la federazione delle federazioni: in pratica, il capo. Non è uno scherzo, succede in Italia, il paese dove i dirigenti sportivi si distinguono principalmente per la loro lungimirante saggezza, la visione d'insieme dei problemi da affrontare, la convinta partecipazione a un progetto che unisca le menti migliori per un futuro prospero e luminoso. La sentenza - che adesso sarà sottoposta all'appello di un altro organismo disciplinare sempre del nuoto, ma che dovrà essere confermata in terzo grado da una suprema corte istituita invece presso il Coni, governato dal capo squalificato - chiude in bellezza mesi e mesi di una canizza tra due persone che si disprezzano, il presidente del nuoto Barelli e quello del Circolo Canottieri Aniene e del Coni Giovanni Malagò. I due si odiano per motivi caratteriali, ma soprattutto di potere: sempre su sponde opposte all'interno del loro mondo di piscine dorate, insieme ma da galli nel pollaio dell'organizzazione dei mondiali di nuoto del 2009, quindi acerrimi nemici nel gran giorno delle elezioni Coni, quando lo sfidante Malagò bruciò il favorito Pagnozzi, pupillo di Barelli. Divenuto presidente, dicono i maligni, Malagò si è vendicato facendo passare un guaio brutto a Barelli, denunciato dal Coni per una presunta storia di doppie fatturazioni, sulla quale la magistratura ancora non ha detto la sua in modo definitivo. Barelli, si sospetta, ha consumato la sua controvendetta con la squalifica inflitta dal suo nuoto al nemico presidente, per dichiarazioni ritenute offensive sulla vicenda. Ecco fatto, così impari. Una bella storia, edificante, mentre nei corridori del Coni c'è chi febbrilmente lavora ai dossier sulla candidatura olimpica di Roma. Il modo migliore per guadagnare credibilità dev'essere senz'altro fare a cani e gatti a colpi di carte bollate, ci si dimostra gente affidabile ovunque. D'altra parte, la classe dirigente dello sport questo è, un po' dappertutto, e ci perdonino le eccezioni, peraltro chiamate a battere un colpo. Prendiamo il calcio, che degli sport è il più ricco e potente, popolato da tanta bella gente. Un posto dove si lavora per l'interesse comune, come si sa. Infatti nella riunione di Lega di serie A c'è un presidente che prima zittisce a mo' di dittatore un dirigente rivale, poi lo insulta in un modo talmente inverosimile da apparire grottesco, non ci fosse di mezzo una dose di violenza umana intollerabile. Claudio Lotito, l'insultatore di Giuseppe Marotta, sguaiatamente deriso per un difetto fisico, è colui al quale il calcio ha chiesto di approntare le riforme. Il grande suggeritore del presidente delle banane, Carlo Tavecchio. Il grande moralizzatore del pallone. Quello che vuole fare le multiproprietà, essendo l'unico ad avere già più di una squadra. Lui, Lotito, quello che parla in latino, fa un comunicato stampa al giorno, si fa vedere ovunque. Lotito, che in tre giorni non ha neppure trovato tempo e modo di dire: scusa Marotta, era una battuta brutta, pessima, me ne vergogno. No, Lotito tace. Più o meno come gli organi disciplinari della federcalcio, che in piena autonomia, naturalmente, hanno deciso che non vale la pena di intervenire sul consigliere Lotito. E' lo sport, bellezza. Ma davvero nessuno può farci niente?
E dopo la “condanna”? si chiede Stefano Arcobelli su “La Gazzetta.it”. Un’altra puntata. Forse la più clamorosa, paradossale, assurda ancorché vera: come può essere una sentenza, con tanto di carta bollata e lettura. Una federazione che condanna un ente superiore come il comitato olimpico per dichiarazioni ritenute lesive: roba da giurisprudenza assoluta, roba costituzionale. Dunque, il presidente del Coni in quanto presidente dell’Aniene è stato squalificato per 16 mesi dalla Disciplinare della Fin. In Giunta Coni il capo dello sport aveva parlato di presunte «doppie fatturazioni» della Fin, caso per cui parallelamente la Coni Servizi spa s’era rivolta alla Procura della Repubblica che deve ancora mettere la parola fine sulla vicenda (proscioglimento definitivo o rinvio a giudizio del presidente Barelli) in cui l’ipotesi di reato è la truffa aggravata. La giustizia sportiva più veloce di quella penale. Malagò non si era presentato per discolparsi e i suoi avvocati nei giorni scorsi avevano definito illegittima la procedura. Come commentare questa sentenza? Lasciamo perdere, per una volta: non si commentano le sentenze politiche…Ma visto che siamo in politica, quale sarà il prossimo atto? Un nostro ex vicedirettore invitava i duellanti a al calumet della pace, idem Federica Pellegrini ("speriamo la smettano"). Adesso questa è adrenalina pura, frizzante. Fuoco alle polveri. A margine: secondo questa sentenza la sospensione del patron dell’Aniene riguarda «ogni attività sociale e federale». Perciò, il capo del Coni non potrà magari entrare in piscina, ai campionati e magari fare il tifo per l’Aniene. L’ultima volta a Riccione, è sceso a bordo vasca, e sapete cosa ci ha detto: "Ma vi trattano così?". Erano le condizioni di lavoro…Ecco serve il salto di qualità, non servono sentenze come questa. C’è già abbastanza clima di terrore. Nonostante le medaglie, e tutto va bene madama la marchesa. La reazione di Malagò: "E’ il trionfo dell’illogicità. Mi è stato attribuito un fatto inesistente e per questo sono stato condannato dal primo grado della giustizia sportiva della Fin. La decisione conferma ancora una volta che è stato necessario riformare il codice della giustizia sportiva perché questo fosse realmente rispettoso di quei princìpi che regolano l’ordinamento dello sport. E non a caso su 75 componenti, l’unico voto contrario in Consiglio Nazionale su questa delibera è stato del Presidente della Federazione Italiana Nuoto. La cosa più sorprendente tuttavia è che la Commissione Disciplinare della Fin, assumendosene la responsabilità, abbia disconosciuto una recente decisione dell’intera Giunta Nazionale del Coni che aveva indicato nel Collegio di Garanzia dello Sport, che è la “Cassazione dello Sport”, l’autorità massima alla quale richiedere un parere. Parere che esplicitamente escludeva la titolarità in capo alla Commissione Disciplinare della Federazione Italiana Nuoto".
Uno dice, meno male che di pulito in Italia ci rimane lo sport. Segno tangibile di purezza, sportività e correttezza.
Giovanni Malagò, n.1 dello sport italiano, un po' abbacchiato per i 16 mesi di squalifica come... nuotatore, scrive Fulvio Bianchi su “La Repubblica”. Un momento difficile per tutto lo sport italiano, specie nelle istituzioni del calcio. Un momento non facile per la Lega Pro e il suo storico presidente Mario Macalli: dossier e denunce sono nelle mani della Procura federale (sperando che Palazzi, almeno stavolta, faccia in fretta) e anche della Repubblica della Repubblica di Firenze. Sono tanti, troppi, i fronti aperti: la Lega Pro ha licenziato il direttore generale Francesco Ghirelli, già braccio destro di Franco Carraro. E Ghirelli ha "confezionato" un dossier (scottante) che Macalli ha fatto avere al superprocuratore Palazzi. Lo stesso Palazzi presto potrebbe deferire il n.1 della Lega, e vicepresidente Figc, per il caso Pergocrema (vedi Spy Calcio dell'8 ottobre). In caso di condanna definitiva superiore ad un anno, decadrebbe dalle sue cariche. Inoltre la Procura della Repubblica di Firenze l'estate scorsa ha rinviato a giudizio Macalli sempre per il Pergocrema. La stessa Procura toscana avrebbe aperto un fascicolo anche sull'acquisto della splendida sede fiorentina della Lega, sede inaugurata da Platini. In ballo ci sono un fallimento e un paio di milioni...
Il presidente del Coni Giovani Malagò è stato condannato dalla Disciplinare della Federnuoto a 16 mesi di squalifica in qualità di presidente dell'Aniene, società per la quale gareggia anche Federica Pellegrini, scrive “La Gazzetta dello Sport”. Per Malagò dunque scatta la sospensione da ogni attività sociale e federale per il periodo in questione. E' stata così riconosciuta la responsabilità di Malagò per "mancata lealtà" e "dichiarazioni lesive della reputazione" del presidente federale Barelli, denunciato dal Coni per una presunta doppia fatturazione. Il caso era nato per una denuncia del Coni, presieduto da Malagò, alla Procura della Repubblica di Roma, per una presunta doppia fatturazione per 820mila euro per lavori di manutenzione della piscina del Foro Italico in occasione dei Mondiali di nuoto. Nel registro degli indagati era stato iscritto il presidente della Federnuoto Barelli, ma il pm aveva chiesto al gip l'archiviazione. La partita giudiziaria era stata poi riaperta dalla decisione di quest'ultimo di chiedere un supplemento di indagini, tuttora in corso. Nel frattempo, nuovi colpi di scena. Barelli, infatti, ha invitato la Procura federale della Fin ad "accertare" e valutare i comportamenti di Malagò, nella sua condizione di membro della Fin come presidente della Canottieri Aniene. Un invito a verificare se ci possano essere state "infrazioni disciplinarmente rilevanti" nelle parole con cui Malagò riassunse la vicenda nella giunta Coni del 4 marzo, parlando, sono espressioni dello stesso Malagò davanti al viceprocuratore federale, "come presidente del Coni e non da tesserato Fin". Il documento-segnalazione di Barelli accusava in sostanza Malagò di aver detto il falso in Giunta accusando ingiustamente la Federazione. La nota Fin citava la "mancata lealtà" e le "dichiarazioni lesive della reputazione", gli articoli 2 e 7, che Malagò avrebbe violato con le sue parole su Barelli in Giunta sulle "doppie fatturazioni". I legali del Coni avevano sollevato eccezioni di nullità, illegittimità e incompetenza, depositando anche il parere richiesto dalla Giunta al Collegio di Garanzia dello Sport, che chiariva la non competenza degli organi di giustizia delle Federazioni su vicende del genere.
Stadio della Roma, anche Malagò indagato: chiese lavoro per il compagno della figlia. L'incontro con Parnasi al circolo Aniene l'11 marzo scorso. Pochi mesi prima, il Coni aveva cambiato parere (da "non conforme" a "conforme") sui parcheggi del nuovo impianto di Tor di Valle. Il numero 1 dello sport italiano chiede alla procura di essere interrogato, scrive il 15 giugno 2018 "La Repubblica". La Parnasi connection travolge anche il numero uno dello sport italiano, Giovanni Malagò che, in un decreto di intercettazione vistato dal pm in via d'urgenza lo scorso 25 maggio, risulta iscritto al registro degli indagati della procura di Roma. L'indagine della pm Barbara Zuin e dell'aggiunto Paolo Ielo ipotizza che Malagò avrebbe ottenuto "utilità" da Parnasi in cambio di un atteggiamento favorevole riguardo al progetto del nuovo stadio della Roma. Queste "utilità", secondo l'accusa, sono consistite nell'aver procurato un'occasione di migliorare la propria situazione professionale al compagno della figlia Ludovica, tale Gregorio. Agli atti c'è un incontro tra Parnasi, Malagò e Gregorio avvenuto al circolo Aniene l'11 marzo scorso. I due si incontrano all'Aniene e Malagò annuncia subito: "Dopo arriva Gregorio (il fidanzato della figlia, ndr), te lo volevo presentare. Se giù si fa qualcosa sono contento! Se non si fa, problemi per me non esistono!". Alla fine "qualcosa" si fa: il 23 marzo alla sede di Eurnova si presenta Gregorio. Parnasi gli chiede se sia intenzionato a trasferirsi a Roma a parità di stipendio (4,5 mila euro al mese) e quello gli risponde di sì. Negli atti è ricostruito come pochi mesi prima, nel novembre 2017, il Coni abbia improvvisamente cambiato opinione - da "non conforme" a "conforme" - circa il progetto dello stadio della Roma in merito a una questione di parcheggio dello stadio. Malagò, interpellato da Repubblica, smentisce tutto: "Questa cosa qui non esiste, non è mai esistita". Lo stesso presidente Coni, stamattina, "ha subito dato incarico al suo legale, avvocato Carlo Longari, di chiedere alla Procura di Roma di essere interrogato quanto prima per chiarire la sua posizione". Lo fa sapere il Coni in una nota, aggiungendo che il n. 1 del Comitato olimpico ha appreso di essere indagato "dalla lettura di alcuni quotidiani".
Malagòpoli, l'incredibile rete di potere di Giovanni Malagò. Un groviglio di relazioni formidabile, nato in un circolo romano. È la base del potere del presidente del Coni, scrive Gianfranco Turano l'11 ottobre 2016 su "L'Espresso. Se le relazioni si potessero quotare in Borsa, la Giovanni Malagò spa sarebbe di gran lunga la public company più capitalizzata del listino italiano. L’allievo Giovanni ha superato il maestro Gianni Letta, gran tessitore di politica e socio fra mille - sono circa duemila in verità - del circolo. Tutto iniziò nel 1997 quando il figlio di Vincenzo Malagò, concessionario di auto di lusso, divenne presidente del Canottieri Aniene nello splendore dei suoi 38 anni. Già allora era stato ribattezzato Megalò da Susanna Agnelli, madre di Lupo Rattazzi, il socio principale di Malagò. L’autrice di "Vestivamo alla marinara" non sapeva quanto aveva ragione. All’Aniene, nome di un affluente del Tevere, sono affluiti tutti quelli che contano e che una volta erano elencati alla rubrica "generone romano". Ma l’Aniene, circolo "men only" nella tradizione britannica salvo le donne ammesse per meriti sportivi, ha sfondato da anni il confine claustrofobico del Raccordo Anulare per accogliere da ogni parte di Italia gli oligarchi di buona volontà, anche grazie agli accordi di reciprocità cioè ai patti federativi con altri circoli prestigiosi come il Tennis Club Bonacossa di Milano, La Mandria, il circolo degli Agnelli a Torino, o lo Yacht Club di Montecarlo, presieduto da Alberto di Monaco. Il 2017 può essere l’anno dell’apoteosi in tre atti per Giovannino e per la Megalòpoli che gli ruota intorno. Fra pochi mesi cadranno i vent’anni della presidenza dell’Aniene, anche se lui ha annunciato che non si ricandiderà dopo lo choc del canottiere dell’Aniene Niccolò Mornati, positivo al doping prima di Rio. In maggio ci saranno le elezioni per la presidenza del Coni, poltrona conquistata dall’outsider Malagò nel febbraio 2013 e saldamente nella sua disponibilità anche per il quadriennio che si concluderà dopo i Giochi di Tokyo 2020. Ma il passaggio chiave è il 3 febbraio, appuntamento decisivo per la candidatura di Roma 2024 con la presentazione della fase tre del progetto al Comitato olimpico internazionale (Cio). La fase 2 è stata presentata il 7 ottobre. L'11 ottobre Malagò ha annunciato l'interruzione della candidatura di Roma. Ma potrebbe essere una mossa tattica in attesa delle disgrazie del nemico. Pensare che Malagò si ritiri dalla corsa contro Los Angeles, Parigi e Budapest perché lo vuole un sindaco a rischio di commissariamento per dissesto finanziario, nel caso Virginia Raggi, significa sottovalutare l’ambizione dell’uomo. Nella settimana appena passata, Malagò si è unito in Vaticano sotto l’egida di "Sport e Pace" con papa Francesco, con il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon e con l’amico Thomas Bach, presidente del Cio pronto a tutto pur di tenere in piedi la candidatura di Roma in uno dei momenti peggiori della storia dei Giochi. Tokyo ha annunciato uno sforamento di budget a 30 miliardi di dollari per le Olimpiadi del 2020. Il numero uno dei comitati olimpici europei, l’irlandese Patrick Hickey, è stato arrestato per bagarinaggio a Rio il 18 agosto. In lizza per il 2024 potrebbe esserci un Dreamteam di leader politici formato da Donald Trump (Los Angeles), Marine Le Pen (Parigi) e Viktor Orbán (Budapest), tutti assertori delle muraglie anti-immigrati. Roma, anche nella versione attuale romafaschifo.it, sarebbe in vantaggio come male minore. C’è da scommettere che Malagò se la giocherà fino in fondo, qualunque cosa dichiari pubblicamente, comunque vadano le cose nella giunta grillina. Fan ricambiato di Malagò, il premier Matteo Renzi non intende rinunciare a un’avventura sfuggita di mano persino ai giapponesi. Roma 2024 è stata stimata a 5,3 miliardi di euro. Dal conto mancano le infrastrutture, pari almeno al doppio. Se alla somma si applica il coefficiente medio elaborato da The Oxford Olympics Study (156 per cento di aumento dalle previsioni ai costi finali) si va molto vicino alle cifre di Tokyo e dunque oltre i record attuali di Londra 2012 (15 miliardi di dollari) e dei giochi invernali di Sochi (22 miliardi di dollari). Cifre improponibili per l’Italia, salvo che nella infinita campagna elettorale che ha resuscitato anche il Ponte sullo Stretto.
Il sistema Coni. Il sistema Malagò è basato su due poli in contraddizione. Bisogna competere, dunque fare gare. Ma bisogna anche riconoscere i valori dell’amicizia, dunque lavorare fra amici senza bisogno di gare. In quattro anni al Coni, il presidente dell’Aniene si è assicurato il controllo totale di una macchina che ogni anno gestisce oltre 400 milioni di denaro statale (412,9 milioni nel 2016), girato in maggioranza alle federazioni (231,7 milioni di euro nel 2016). Il braccio operativo dell’ente pubblico è una spa, Coni Servizi, guidata da un tandem di fedelissimi. Il presidente è Franco Chimenti, 77 anni, proprietario della Lazio pre-Cragnotti e numero uno della Federgolf, anienista e malaghista ante marcia. L’amministratore delegato è il commercialista milanese Alberto Miglietta, a capo della federazione nazionale badminton, non proprio una potenza fra gli sport italiani. Miglietta è diventato il braccio operativo della spa olimpica in sostituzione dell’ex direttore generale Michele Uva, spostato in Federcalcio nel settembre 2014 senza troppo dispiacere da parte del presidente del Coni. Nel settore emergenti c’è Francesco Soro, avvocato classe 1970 proveniente dallo studio D’Elia e rampante capo di gabinetto di Malagò. Soro è presidente di Sportcast che gestisce il canale Supertennis ed è una controllata della Fit di Angelo Binaghi, ex nemico acerrimo di Malagò. La riconciliazione fra i due si è celebrata intorno al piatto ricchissimo degli Internazionali d’Italia, sponsorizzati dalla Bnl dell’anienista Luigi Abete e gestiti dalla società sportiva dilettantistica Parco Sportivo Foro Italico, controllata da Coni Servizi. In prospettiva c’è l’affare immobiliare legato al nuovo stadio del tennis, che Binaghi chiede a gran voce e che potrebbe finire a Tor Vergata con o senza Olimpiadi. Coni Servizi è anche il contenitore del Comitato Roma 2024, presieduto da Luca di Montezemolo e coordinato dall’ex fiorettista Diana Bianchedi. Roma 2024 è definito "unità operativa" sottoposta direttamente all’ad Miglietta. Le spese del Comitato sono inserite in modo piuttosto confuso fra decine di appalti di Coni Servizi. Da quello che risulta nei documenti pubblicati, a fronte di uno stanziamento complessivo statale di circa 10 milioni per il 2016-2017, nel 2015-2016 Roma 2024 è costata 590 mila euro per la ristrutturazione della sede, l’aula bunker del Foro Italico. La consulenza per il piano trasporti è costata 110 mila euro, pagati alla Steer Davies & Gleave, società inglese con filiale a Bologna. Altri 200 mila euro sono andati alla Wilson Owens Owens che ha collaborato al dossier di candidatura. Per il "video emozionale" a servizio del lancio del logo sono stati pagati 187 mila euro alla società Unica. Cifre molto lontane da quelle usate da Malagò e Raggi per accusarsi reciprocamente di danno erariale. Sul fronte della diplomazia, Malagò ha un tridente di vecchie volpi da schierare. Montezemolo agisce sui rapporti con sponsor e industria. Per le questioni legate ai membri del Cio, giocano gli anienisti Franco Carraro e Mario Pescante. Avversari? Nulla da segnalare, tanto che le prossime elezioni potrebbero vedere Malagò candidato unico. L’unico nemico del supertifoso romanista Malagò resta il laziale Paolo Barelli, da poco rinnovato alla guida della Federnuoto con maggioranza bulgara (83 per cento). L’inimicizia è nata nel 2009 quando per la presidenza del Coni erano in corsa l’uscente Gianni Petrucci, Barelli e il golfista Chimenti. Barelli, dopo tre legislature da parlamentare berlusconiano, riteneva di avere l’appoggio del governo. Sbagliato. L’anienista Letta e il presidente dell’Aniene Malagò, affiliato alla Federnuoto, intervennero in favore di Petrucci che vinse e nominò Giovannino nella giunta del Coni. Quattro anni dopo, quando Petrucci non poteva più essere eletto per raggiunto limite di mandati, il favorito era il braccio destro di Petrucci, Lello Pagnozzi. Stavolta Letta puntò su Malagò, che vinse a sorpresa e, fra le prime cose, denunciò alla Procura di Roma Barelli per truffa nell’amministrazione dei fondi federali iniziando una guerra che, nonostante le archiviazioni dei giudici, non è ancora finita. Oggi Petrucci, uscito dalla porta del Coni per rientrare dalla finestra come presidente della federazione basket, è uno dei sostenitori maggiori di Malagò.
Il sistema Aniene. Molto prima che Malagò diventasse presidente del Comitato olimpico nazionale, il suo circolo era diventato una Hall of fame che ha surclassato club di tradizione come l’Antico tiro a volo. Finanzieri, banchieri, imprenditori, politici desiderosi di stare insieme fra uguali chiacchierano di quisquilie o di affari sotto l’egida dello "spirito Aniene". Intra moenia, nei locali della clubhouse, nella chiatta inaugurata questa estate per le cene sul fiume, nel prato vigilato dalle oche capitoline, ci si dà del tu come ai tempi degli antichi romani, in una sorta di egualitarismo fra ottimati. Lo sfottò è di prammatica. Quando ha debuttato Luca Cordero di Montezemolo, dai compagni sauna gli fu chiesto come volesse essere chiamato, se Luca oppure Cordero oppure Montezemolo oppure, meglio ancora, Di. Chi ha il cognome che rima con quello dei fratelli Angelucci (Giampaolo, Alessandro e Andrea) è classificato nel gruppo degli "ucci". Può suonare divertente oppure no ma la forza, anzi, lo "spirito Aniene" sta nell’abbinata fra cazzeggio e attenzione estrema alla sostanza degli affari. Nessuna legge vieta di trovarsi negli spogliatoi a parlare di Olimpiadi e affari immobiliari, piuttosto che dell’ultimo derby Roma-Lazio. La quota di costruttori e immobiliaristi iscritti al circolo è la componente dominante, come lo è per il settore imprenditoriale a Roma: i Caltagirone, i Toti, Massimo Caputi, Pietro Salini, Duccio Astaldi e Paolo Bruno. Nel circuito delle alleanze può capitare di passare per fasi di contrasto, come quella che divide gli anienisti Luca Parnasi e Francesco Gaetano Caltagirone, molto poco presente al circolo, sul nuovo stadio della Roma. E Giancarlo Abete, fratello minore del presidente Bnl Luigi, è in freddo con Malagò per questioni di politica sportiva. Molto bipartisan è il settore parlamentare, in equilibrio di forze fra centrosinistra e centrodestra. L’idea è di essere sempre filogovernativi, come la vecchia Fiat di Gianni Agnelli. Con Letta al governo, l’Aniene era lettiano. Con Renzi, l’anienista Salini promette di lasciare l’Italia (non il circolo) se al referendum vincerà il no. Tra gli imprenditori affiorano outsider come il veneto Alessandro Benetton e il milanese Marco Tronchetti Provera. Il circolo in se stesso è un’impresa, con una mole di ricavi da attività sociali piuttosto robusta, nell’ordine degli 8 milioni di euro all’anno ai quali vanno aggiunti oltre 5 milioni di euro prodotti dagli impianti dell’Acquaniene, che contano oltre 4 mila iscritti e sono aperti ai "profani".
Gli investimenti privati. Noto tombeur de femmes, Malagò è quello che una volta si chiamava un buon partito. Negli anni ha occupato poltrone in società molto eterogenee. È stato amministratore di Air One dell’anienista Carlo Toto, di Unicredit, a lungo azionista di riferimento dell’amata As Roma. Ha amministrato la fanzine snob giallorossa "Il Romanista" e la Virtus Roma Basket, di proprietà dei fratelli Toti, anienisti, e molto amata dall’ex sindaco di Roma Walter Veltroni, uno dei due soli soci ammessi al circolo senza periodo di prova e per chiari meriti concessori verso l’Aniene insieme all’allora governatore del Lazio Piero Marrazzo. L’attività di famiglia resta concentrata nel gruppo Samofin e nella controllata Samocar, che sfoggia Ferrari e altre auto di lusso dalle vetrine di via Pinciana, davanti a Villa Borghese. È lì che nasce il rapporto con la famiglia Agnelli, la simpatia dell’Avvocato verso Giovannino e il legame con Montezemolo, amico di Cristiano Rattazzi, il fratello maggiore di Lupo che diventerà il principale socio di Malagò. I ricavi annuali della Samocar sono di poco inferiori ai 40 milioni di euro e l’amicizia con l’allora presidente della Ferrari, oltre che del Comitato Roma 2024, è stata una chiave nel successo della concessionaria quando si presentava qualche cliente che non aveva voglia di passare mesi in lista di prenotazione per l’ultima creatura di Maranello. Oltre a Samocar, Malagò custodisce un portafoglio di partecipazioni molto ricco nella GL Investimenti, fifty fifty con l’amico Lupo Rattazzi. GL ha un patrimonio di circa 50 milioni di euro e utili aggregati nel triennio 2014-2016 per 30 milioni di euro. La quota di Giovannino sono 5 milioni l’anno, in gran parte ottenuti vendendo alla fine del 2014 per 9,3 milioni le azioni di Maire Tecnimont, società guidata da Fabrizio Di Amato, altro anienista e amico fraterno che aveva accolto Malagò nel consiglio di amministrazione della controllata Maire engineering. Amicizia a parte, l’unico legame societario fra i due è oggi l’Esperia Aviation, una compagnia di elitrasporto con sede all’aeroporto dell’Urbe. La coppia GL (Giovanni e Lupo) ha mantenuto una lista di partecipazioni in stile salotto buono con una preferenza spiccata per l’energia (Acea, Iren, Terna, Eni, A2A) e la finanza (Azimut, Banca Generali). La partecipazione più rilevante, vicina al 2 per cento del capitale sociale, è quella in Finnat Euramerica, il gruppo di servizi bancari e finanziari, fondato da Giampietro Nattino e amministrato dai figli Arturo e Andrea, soci dell’Aniene. Presso Finnat fiduciaria è intestato il capitale di molte imprese romane. Fra queste c'era il gruppo Sorgente, oggi passato sotto il controllo di Romafid e guidato dall’immobiliarista emergente Valter Mainetti. Anienista, inutile aggiungere. Infine, Malagò è tra i fondatori dell’associazione Amici del Bambino Gesù, l’ospedale romano amministrato dal commercialista Gianluca Piredda, amministratore anche di Salini e del Bologna di Joey Saputo. Fissato di calcio come Malagò, Piredda è uno degli uomini in ascesa del Vaticano avendo preso il posto proprio di Giampietro Nattino come consultore della Prefettura affari economici della Santa Sede. Piredda è socio di Futbol 22, un’iniziativa mirata allo sviluppo delle scuole calcio estesa da Malagò a molti altri anienisti. Non si fa qui l’elenco completo. Sarebbe troppo lungo. In fondo, è solo un mattone della furia relazionale che regna in Malagòpoli.
LO SPORT DELLE EPURAZIONI, SCANDALI, SPRECHI E MALAGESTIONE.
ITALIANI DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA? ABBIAMO SEMPRE DEGNI RAPPRESENTANTI. Da ultima e non per ultima è nata la diatriba, politica o meno, fondata o meno, sulla elezione di Carlo Tavecchio alla Federcalcio. Di sicuro ne esce malconcia la credibilità del calcio e delle su componenti, come se non bastasse quanto già avvenuto prima. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it. Per dovuta esperienza posso esprimere questi pareri. Per quanto riguarda le battaglie di civiltà posso dire che sono battaglie contro i mulini al vento. Non perché esse non siano fondate, in quanto, come specialista del campo, proprio perché ho scritto “Sportopoli, lo sport truccato”, posso garantire che i temi sollevati sono già stati pubblicati sui giornali con degli articoli, da me o da altri, come di seguito indicato, e nulla è scaturito.
Eppure i nemici giurati di Tavecchio hanno avuto una bella visibilità dai soliti giornali. Come nel caso di Massimiliano Nerozzi per La Stampa, giornale degli Agnelli, contrari a Tavecchio. “Figc, l'ex vicepresidente dei Dilettanti, Ragno: Tavecchio non è eleggibile. Magari sarà una questione di cavilli, che sono poi la versione giuridica della buccia di banana. «Guardi che Carlo Tavecchio non è eleggibile», dice con voce pacata Luigi Ragno, 74 anni, ex sottotenente dei carabinieri («ma solo nei venti mesi di leva»), ex direttore di banca, e per trent’anni in Federcalcio. «Basta leggere l’articolo 29 del nuovo statuto della Figc: la riabilitazione è espressamente richiamata in riferimento a provvedimenti disciplinari sportivi, e non quando si parla di condanne penali, dove invece non è indicata. Poi però non ho idea di come andrà, perché ne ho viste di tutti i colori». Specialmente tra il 1999 e il 2000, quando da vice presidente della Lega Nazionale Dilettanti Ragno si trovò proprio al fianco di Tavecchio, al suo primo mandato: il numero uno aveva fatto alcune operazioni bancarie «con gravi irregolarità», secondo Ragno, che aveva presentato immediate dimissioni. «Era il 24 ottobre 2000 - ricorda oggi l’ex vice presidente - e scrissi una lettera a diversi organi federali, anche per tutelare la mia persona: con i precedenti che all’epoca aveva Tavecchio, e che tutti conoscevano, non si potevano lasciare venti miliardi di lire in un conto di private banking, e con una sola persona con potere di firma, lui». Non successe nulla. «L’unico risultato fu che il collegio dei revisori minacciò di querelarmi per diffamazione: bene, risposi, almeno chiariremo tutto davanti a un tribunale. Ho sempre tenuto tutti i documenti. La denuncia non arrivò mai». ? Quindici anni più tardi, tutto può ruotare ancora attorno alle precedenti condanne di Tavecchio (totale, 1 anno e tre mesi) nonostante furono pene sospese e con non menzione sul certificato penale. Su questo tema si erano innescate interpellanze parlamentati, ma Tavecchio aveva alzato lo scudo: un parere sulla sua candidabilità richiesto alla Corte Federale nel 1999, e la riabilitazione ottenuta in base all’articolo 178 del codice penale. Tutto vero, ma discutibile, almeno secondo alcune fonti vicine alla giustizia sportiva della Federcalcio. «Ricordo che emettemmo un parere - dice il professor Andrea Manzella, illustre costituzionalista ed ex presidente della Corte - e molto ben motivato. Certo, era il 1999, e tenemmo conto della normativa sportiva e penale dell’epoca». Nel frattempo, lo statuto della Figc è cambiato quattro volte, l’ultima il 30 luglio scorso, con decreto del commissario ad acta, il professor Giulio Napolitano.? Il punto è l’articolo 29, dove l’inciso «salva riabilitazione», è indicato solo nella frase dei provvedimenti sportivi, non nel periodo seguente, quando si parla di «condanne penali passate in giudicato per reati non colposi» con pene detentive superiori a un anno. Interpretazione letterale: se l’estensore avesse voluto prevedere la riabilitazione anche per le condanne penali, l’avrebbe specificamente indicato. «Forse è la sorpresa di Malagò», sorrideva ieri un giurista. Dopo di che c’è pure la lettura favorevole a Tavecchio, ovvero in linea con i principi giuridici generali: in fondo la riabilitazione, tra le altre cose, serve proprio per evitare gli effetti deteriori che una condanna produce sotto il profilo sociale e lavorativo. Se ne può discutere, insomma: come potrebbe poi decidere di fare il Coni, come organo di sorveglianza, tenuto a ratificare i risultati dell’assemblea”.
Il passato scomodo di Tavecchio, scrivono da par loro Tommaso Rodano e Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano. "Spuntano una denuncia per calunnia contro il super candidato alla Federcalcio e un dossier depositato in procura che lo riguarda. E si scoprono strane storie, dalle spese pazze fino al doppio salvataggio del Messina. Ogni giorno che passa, e ne mancano cinque all’annunciata investitura in Federcalcio, il ragionier Carlo Tavecchio arruola dissidenti, smarrisce elettori: resiste però, faticosamente resiste. Nonostante le perplessità di Giovanni Malagò (Coni), dei calciatori più famosi e di qualche squadra di serie maggiore o inferiore. Il padrone dei Dilettanti, che dal ‘99 gestisce un’azienda da 700.000 partite a stagione e da 1,5 miliardi di euro di fatturato, com’è da dirigente? Dopo aver conosciuto le sue non spiccate capacità oratorie, tra donne sportive handicappate e africani mangia-banane, conviene rovistare nel suo passato. E arriva puntuale una denuncia per calunnia contro Tavecchio, depositata in Procura a Varese due giorni fa, a firma Danilo Filippini, ex proprietario dell’Ac Pro Patria et Libertate, a oggi ancora detentore di un marchio storico per la città di Busto Arsizio. Per difendersi da una querela per diffamazione – su un sito aveva definito il candidato favorito alla Figc un “pregiudicato doc” – Filippini ha deciso di attaccare: ha presentato documenti che riguardano il Tavecchio imprenditore e il Tavecchio sportivo, e se ne assume la responsabilità. Oltre a elencare le cinque condanne che il brianzolo, già sindaco di Ponte Lambro, ha ricevuto negli anni (e per i quali ha ottenuto una riabilitazione) e i protesti per cambiali da un miliardo di lire dopo il fallimento di una sua azienda (la Intras srl), Filippini allega una lettera, datata 24 ottobre 2000, Tavecchio era capo dei Dilettanti dal maggio ‘99. Luigi Ragno, un ex tenente colonnello dei Carabinieri, già commissario arbitrale, vice di Tavecchio, informa i vertici di Lega e Federazione di una gestione finanziaria molto personalistica del presidente. E si dimette. “Mi pregio comunicare che nel corso del Consiglio di Presidenza – si legge – è stato rilevato che la Lega intrattiene un rapporto di conto corrente presso la Cariplo di Roma, aperto successivamente al Primo Luglio 1999 (…). L’apertura del conto corrente appare correlata alla comunicazione del Presidente di ‘avere esteso alla Cariplo, oltre alla Banca di Roma già esistente, la gestione dei fondi della Lega. Entrambi gli Istituti hanno garantito, oltre alla migliore offerta sulla gestione dei conti, forme di sponsorizzazione i cui contenuti sono in corso di contrattazione”. Quelle erano le premesse, poi partono le contestazioni a Tavecchio: “Non risulta che alcun organo collegiale della Lega sia mai stato chiamato a esprimere valutazioni in ordine a offerte formulate dagli Istituti di credito di cui sopra”. “Risulta che non sono state prese in considerazione dal presidente più di venti offerte di condizione presentate in busta chiusa da primarie banche che operano su Roma, le quali erano state contattate dal commissario”. “Non risulta che né la Banca di Roma né la Cariplo abbiano concluso con la Lega accordi di sponsorizzazione”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale del bilancio della Lega non appare, nella voce ‘banche’, la presenza del conto corrente acceso presso Cariplo”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale, alla voce ‘Liquidità/Lega Nazionale Dilettanti’ risulta l’importo di Lire 18.774.126.556, che non rappresenta, come potrebbe sembrare a prima vista, il totale delle risorse finanziarie dei Comitati e delle Divisioni giacenti presso la Lega, bensì è costituito da un saldo algebrico tra posizioni creditorie e posizioni debitorie nei confronti della Lega”. Segue una dettagliata tabella dei finanziamenti ai vari Comitati regionali, e viene così recensita: “Il presidente della Lega ha comunicato che ai suddetti ‘finanziamenti di fatto’ è applicato il tasso di interesse del 2,40%, la cui misura peraltro non è stata stabilità da alcun organo collegiale”. Il vice di Tavecchio fa sapere di aver scoperto anche un servizio di “private banking”, sempre con Cariplo, gestito in esclusiva dal ragionier brianzolo: “Nessun Organo collegiale della Lega ha mai autorizzato l’apertura di tale rapporto (…) e mai ha autorizzato il presidente a disporre con firma singola (…) Trattasi di un comportamento inspiegabile e ingiustificabile, anche in considerazione della consistenza degli importi non inferiore ai venti miliardi di lire”. Ragno spedisce una raccomandata alla Cariplo, e si congeda dai Dilettanti di Tavecchio: “Di fronte all’accertata mancanza di chiarezza, di trasparenza e di correttezza e di gravi irregolarità da parte del massimo esponente della Lega, non mi sento di avallare tale comportamento gestionale e comunico le immediate dimissioni”. Per comprendere la natura del consenso costruito minuziosamente da Tavecchio nella gestione della Lega Dilettanti, un caso esemplare è quello del Messina calcio. La società siciliana approda in Lnd nella stagione sportiva 2008-2009. La famiglia Franza è stufa del suo giocattolo, vorrebbe vendere la squadra, ma non trova acquirenti. Il Messina è inghiottito dai debiti. Dovrebbe militare in serie B, ma il presidente Pietro Franza non l’iscrive al campionato cadetto: deve ricominciare dai dilettanti. Il problema è che il Messina è tecnicamente fallito (la bancarotta arriverà dopo pochi mesi) e non avrebbe le carte in regola nemmeno per ripartire da lì. E invece Tavecchio, con una forzatura, firma l’iscrizione dei giallorossi alla Lega che dirige. L’uomo chiave si chiama Mattia Grassani, principe del foro sportivo e, guarda caso, consulente personale di Tavecchio e della stessa Lnd: è lui a curare i documenti (compreso un fantasioso piano industriale per una società ben oltre l’orlo del crac) su cui si basa l’iscrizione dei siciliani. In pratica, si decide tutto in casa. Nel 2011 il Messina, ancora in Lega dilettanti, è di nuovo nei guai. Dopo una serie di vicissitudini, la nuova società (Associazione Calcio Rinascita Messina) è finita nelle mani dell’imprenditore calabrese Bruno Martorano. La gestione economica non è più virtuosa di quella dei suoi predecessori. Martorano firma in prima persona la domanda d’iscrizione della squadra alla Lega. Non potrebbe farlo: sulle sue spalle pesa un’inibizione sportiva di sei mesi. Non solo. La documentazione contiene, tra le altre, la firma del calciatore Christian Mangiarotti: si scoprirà presto che è stata falsificata. Il consulente del Messina (e della Lega, e di Tavecchio) è sempre Grassani: i giallorossi anche questa volta vengono miracolosamente iscritti alla categoria. Poi, una volta accertata l’irregolarità nella firma di Mangiarotti, la sanzione per il Messina sarà molto generosa: appena 1 punto in classifica (e poche migliaia d’euro, oltre ad altri 18 mesi di inibizione per Martorano). Tavecchio, come noto, è l’uomo che istituisce la commissione “per gli impianti sportivi in erba sintetica” affidandola all’ingegnere Antonio Armeni, e che subito dopo assegna la “certificazione e omologazione” degli stessi campi da calcio alla società (Labosport srl) partecipata dal figlio, Roberto Armeni. Non solo: la Lega Nazionale Dilettanti di Tavecchio ha un’agenzia a cui si affida per l’organizzazione di convegni, cerimonie ed assemblee. Si chiama Tourist sports service. Uno dei due soci, al 50 per cento, si chiama Alberto Mambelli. Chi è costui? Il vice presidente della stessa Lega dilettanti e lo storico braccio destro di Tavecchio. Un’amicizia di lunga data. Nel 1998 Tavecchio è alla guida del comitato lombardo della Lnd. C’è il matrimonio della figlia di Carlo, Renata. Mambelli è tra gli invitati. Piccolo particolare: sulla partecipazione c’è il timbro ufficiale della Figc, Comitato Regionale Lombardia. Quando si dice una grande famiglia."
«Denuncio Tavecchio. Carriera fatta di soprusi» dice Danilo Filippini a “La Provincia Pavese”. A quattro giorni dalle elezioni Figc, Carlo Tavecchio continua a tenere duro, incurante delle critiche e delle prese di posizione - sempre più numerose e autorevoli - di coloro che ritengono l’ex sindaco di Ponte Lambro del tutto inadeguato a guidare il calcio italiano. Tavecchio è stato anche denunciato per calunnia da Danilo Filippini, ex presidente della Pro Patria che ha gestito la società biancoblù dall’ottobre 1988 all’ottobre 1992.
Filippini, perché ha deciso di querelare Tavecchio?
«Scrivendo sul sito di Agenzia Calcio, definii Tavecchio un pregiudicato doc e un farabutto, naturalmente argomentando nei dettagli la mia posizione e allegando all’articolo il suo certificato penale storico. Offeso per quell’articolo, Tavecchio mi ha denunciato per diffamazione. Così, tre giorni fa, ho presentato alla Procura di Varese una controquerela nei suoi confronti, allegando una ricca documentazione a sostegno della mia tesi».
In cosa consiste la documentazione?
«Ci sono innanzitutto le cinque condanne subite da Tavecchio. Poi i protesti di cambiali per una somma di un miliardo di vecchie lire dopo il fallimento della sua azienda, la Intras srl. Ho allegato inoltre l’esposto di Luigi Ragno, già vice di Tavecchio in Lega Dilettanti, su presunte irregolari operazioni bancarie con Cariplo. Più tutta una serie di altre irregolarità amministrative».
Quando sono nati i suoi dissidi con Tavecchio?
«Ho avuto la sfortuna di conoscerlo ai tempi in cui ero presidente della Pro Patria. Quando l’ho visto per la prima volta, era presidente del Comitato regionale lombardo. In quegli anni ci siamo scontrati continuamente. Con Tavecchio in particolare e con la Federazione in generale».
Per quale motivo?
«I miei legittimi diritti sono sempre stati negati, in maniera illecita, nonostante numerosi miei esposti e querele, con tanto di citazioni di testimoni e prove documentali ineccepibili. Da vent’anni subisco dalla Federcalcio ogni tipo di abusi».
Per esempio?
«Guardi cos’è successo con la denominazione “Pro Patria et Libertate”, da me acquisita a titolo oneroso profumatamente pagato, e che poi la Federazione ha girato ad altre società che hanno usato indebitamente quel nome. Per non parlare della mia incredibile radiazione dal mondo del calcio, che mi ha impedito di candidarmi alla presidenza della Figc, come volevo fare nel 2001. Una vera discriminazione, che viola diritti sanciti dalla Costituzione. Sa qual è l’unica cosa positiva di questa vicenda?»
Dica.
«Sono uscito da un mondo di banditi come quello del calcio. E ora mi occupo di iniziative a favore dei disabili: impiego molto meglio il mio tempo».
Tavecchio risulta comunque riabilitato dopo le cinque condanne subite.
«Mi piacerebbe sapere in base a quali requisiti l’abbia ottenuta, la riabilitazione. E comunque, una volta riabilitato, avrebbe dovuto tenere un comportamento inappuntabile sul piano etico. Non mi pare questo il caso».
Insomma, a suo parere un’eventuale elezione di Tavecchio sarebbe una iattura per il calcio italiano...
«Mi auguro davvero che non venga eletto. Questo è il momento di cambiare, di dare una svolta: non può essere Tavecchio l’uomo adatto. Avendolo conosciuto di persona, non mi sorprende neanche che abbia commesso le gaffes di cui tutti parlano. Lui fa bella figura solo quando legge le lettere che gli scrivono i principi del foro. Comunque, ho mandato la mia denuncia per conoscenza anche al Coni e al presidente Malagò. Non ho paura di espormi: quando faccio una cosa, la faccio alla luce del sole».
Da parte sua Gianfrancesco Turano su “L’Espresso” ha messo un carico pesante, naturalmente buttandola in politica: Claudio Tavecchio, chi è il potente del calcio. L'impresentabile che piace tanto a destra. "Il brianzolo, celebre per le sue sparate su neri mangiatori di banane e donne handicappate, è diventato il padrone della Figc. Grazie a un piano che unisce affari e politica e ad amicizie influenti. Come quella con Galliani e Lotito. Il ragioniere, il geometra, il pedagogo. Claudio Tavecchio, Adriano Galliani e Claudio Lotito hanno i titoli di studio in regola. Sono loro la nuova Triade che tenterà di rilanciare il calcio italiano eliminato al primo turno ai Mondiali, bersagliato dalla violenza e dalle scommesse clandestine, squilibrato nella struttura e nei conti, surclassato nei risultati in campo. Alle elezioni della Federcalcio fissate in prima convocazione il giorno 11 di agosto 2014, il candidato Tavecchio ha ottime possibilità di essere eletto al primo colpo con la maggioranza qualificata di due terzi. Dal terzo ballottaggio basterà la metà più uno dei voti. L’unico avversario che ha qualche chance di farlo fuori è lo stesso Tavecchio, protagonista di uno show pre-elettorale indimenticabile a base di un mitologico “Optì Pobà”, calciatore della Lazio mangiabanane, dequalificato e senza “pitigrì” (pedigree). Le scuse successive sono state peggiori della gaffe: esibizioni di fotografie in compagnia di uomini neri, dichiarazioni sulla falsariga “molti dei miei migliori amici sono africani” e il provvidenziale intervento a sostegno del medico della nazionale del Togo. Kossi Komla-Ebri, residente in Ponte Lambro (Como), ha garantito per il candidato: «Quando Tavecchio era sindaco, abbiamo fatto un gemellaggio con Afagnan in Togo». Appena finito di scusarsi con i mangiatori di banane, è arrivata un’altra frase culto. «Prima si pensava che la donna fosse handicappata rispetto al maschio per resistenza ed altri fattori, adesso invece abbiamo riscontrato che sono molto simili». Gaffe del candidato alla presidenza della Figc, Carlo Tavecchio, che durante l'assemblea dei dilettanti, parlando dei giocatori stranieri, ha commentato: "Le questioni di accoglienza sono una cosa, quelle del gioco un'altra. L'Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che 'Opti Poba' è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così". Tavecchio si è poi scusato: "Mi riferivo al curriculum". Sulle sue cinque condanne penali a qualche mese, piccolezze per un dirigente politico italiano, nota che la più recente è del 1998 e la prima è del 1970. Nessuna traccia è rimasta sul certificato penale. Il saldo di queste dichiarazioni è che l’Unione europea, la Fifa di Sepp Blatter, l’Uefa di Michel Platini e il Coni di Giovanni Malagò farebbero volentieri a meno di Tavecchio. Lui, al momento, non se ne dà per inteso e si copre con un alibi storico: lo sport è indipendente dalla politica. Figuriamoci il calcio. Tirèmm innanz verso le elezioni dell’11 agosto. Cinematograficamente Tavecchio è l’anello mancante fra il Lambertoni del “Vedovo” e il cumènda brianzolo Cavazza della “Contestazione generale” (“alegher alegher...”). L’aspirante re del calcio è la quintessenza del ragiunàtt lombardo che entra in banca a 19 anni e per altri 19 è eletto primo cittadino di Ponte Lambro con le liste dello scudo crociato (1976-1995). Nulla di rivoluzionario. Nulla di rottamatorio, soprattutto. Ci è voluta la gaffe su Optì Pobà perché Graziano Delrio, plenipotenziario renziano per lo sport, iniziasse a dubitare dell’uomo che, fino ad allora, gli era parso il successore ideale del dimissionario Giancarlo Abete. In effetti, anche a non considerare l’uscita razzista, l’elezione di Tavecchio consentirà alla destra un takeover totale sullo sport più amato in Italia e nel mondo. Non è un caso se gli unici difensori del ragioniere comasco siano stati Daniela Santanchè e Maurizio Gasparri. Né c’è bisogno di insistere sulle simpatie politiche di Lotito o di Galliani, che da una posizione defilata rimane il vero dominus del calcio italiano, capace di mettere nell’angolo mister trenta scudetti Andrea Agnelli e, in modo assai più agevole, il suo azionista Barbara Berlusconi, che avrebbe voluto in Figc un quarantenne invece del settantunenne presidente della Lega Dilettanti. Altri fan di peso erano in prima fila alla manifestazione romana sfociata nel numero su Optì Pobà. Tre su tutti: il membro del Cio Franco Carraro, l’ex numero uno di Figc e Lega Antonio Matarrese e il presidente della Lega di serie A e capo della comunicazione di Unicredit Maurizio Beretta, ferocemente soprannominato “dimmi, Claudio”, nel senso di Lotito. L’alto-brianzolo Tavecchio non sarà fine di ingegno come il basso-brianzolo Galliani. Sarà anche una figura debole, e perciò stesso gradita, rispetto allo strapotere della Lega di serie A. Sul web spunta il video di un'intervista alla trasmissione Report su RaiTre in cui il candidato alla presidenza del calcio italiano si esprime in questi termini sulle donne: "Noi siamo protesi a dare una dignità anche sotto l'aspetto estetico alla donna nel calcio". Il video, risalente a una puntata del 5 maggio 2014, si sente la intervistatrice interdetta che chiede spiegazioni a Tavecchio delle sue parole. "Finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sotto l'aspetto della resistenza, del tempo, dell'espressione atletica. Invece abbiamo riscontrato che sono molto simili". Ma non va preso sotto gamba. Nello sport italiano l’anzianità di servizio e la capacità di relazione contano molto. E qui Tavecchio non teme concorrenti. Il suo primo sbarco negli organi direttivi della Lega nazionale dilettanti (Lnd) risale al 1987, quando la poltrona di consigliere del comitato regionale Lombardia era giusto un’occasione per l’allora sindaco e presidente della Pontelambrese di rafforzare il consenso locale grazie allo spargimento di qualche contributo finanziario. Oggi, dopo quindici anni ininterrotti di Tavecchio alla presidenza nazionale, la Lnd è diventata una macchina colossale con 1,3 milioni di tesserati, 14 mila società iscritte e un fatturato complessivo che lo stesso Tavecchio stima in 700 milioni di euro all’anno, oltre un terzo di quanto fattura la serie A. In questi anni, il ragiunàtt di Ponte Lambro non ha smesso di allargare il suo perimetro d’impresa prendendosi in carico non solo il calcio femminile, ma anche il beach soccer e soprattutto il calcio a cinque, una delle realtà economico-sportive emergenti di questi anni. Per deformazione professionale l’ex dirigente della Banca di credito cooperativo Alta Brianza sa badare ai danè come pochi altri. Sul modello del Coni, ha dotato la Lega dilettanti di una società di capitali, la Lnd Servizi. La cassaforte della Lega ha un attivo di tutto rispetto (31 milioni di euro) che cresce di anno in anno grazie a varie operazioni immobiliari, finanziate da un prestito infruttifero di 20 milioni di euro da parte del socio unico Lnd e quindi anche dai contributi delle società dilettantische. Oltre a non pagare interessi sui 20 milioni, Lnd servizi ha aiutato le proprie prestazioni contabili tagliando dal 10 al 5 per cento le royalties dovute alla casa madre per l’uso del marchio. In questi anni, Lnd servizi ha comprato, ampliato e ristrutturato le sue due sedi principali a Roma in piazzale Flaminio e in via Cassiodoro, dove ci sono gli uffici della commissione impianti in erba artificiale, cuore del business dilettantistico. Una volta riservato agli amatori dei tornei scapoli-ammogliati, il sintetico è stato esteso all’attività agonistica e trasformato da Tavecchio in un affare dai contorni poco trasparenti con un andirivieni di collaudi di moquette, sottofondi e consulenze tecniche per l’omologazione che ogni anno muovono milioni di euro per sdoganare oltre 2 mila impianti con fondo artificiale. È una realtà che si concilia poco con l’enfasi tavecchiana sul volontariato sportivo e che ha già impegnato il presidente della Lnd come consulente del Ministero dell’economia sulla fiscalità dello sport dilettantistico. Il volontariato è bello e Tavecchio lo esercita anche fuori dai campi in sintetico come consigliere della Healthy Foundation guidata da Sergio Pecorelli, rettore dell’Università di Brescia, presidente dell’Agenzia del farmaco e ginecologo personale dell’ex ministro forzista Mariastella Gelmini. Ma senza soldi non si canta messa e il cattolicissimo Tavecchio lo sa. Così appena ricevuta l’investitura a candidato per la Federcalcio, ai primi di luglio, mentre l’Italia si riprendeva dall’eliminazione al primo turno in Brasile, il ragiunàtt di Ponte Lambro ha concluso il suo progetto di spinoff regalandosi per il settantunesimo compleanno (13 luglio) la Lnd Immobili, dove sarà trasferito il tesoretto di fabbricati e terreni di Lnd servizi e dove continueranno gli investimenti per dotare ognuna delle venti regioni italiane di un centro federale di reclutamento. L’ultimo, in Molise, è stato acquistato a marzo e comporterà lavori per 1,2 milioni di euro. Che poi i grandi club puntino sul Molise - o sul Veneto o sull’Umbria - per rimpolpare le loro squadre, invece di andare a pescare il nuovo Optì Pobà in Africa è tutto da vedere. Anche l’altra idea-guida di riportare il settore tecnico della Nazionale a uno staff di allenatori cresciuti all’interno dei ranghi federali e non nei club sembra anacronistica rispetto ai tempi di Ferruccio Valcareggi, Enzo Bearzot e Azeglio Vicini. Un commissario tecnico oggi è un allenatore di primo livello. Pensare di pagarlo 200 mila euro all’anno significa perderlo in fretta, se è vincente. Ma il programma politico dipende poco o nulla da Tavecchio. La carta di navigazione per rilanciare il calcio italiano è stata scritta da due autori di serie A: Lotito e Agnelli. Al di là del folklore campagnolo sugli handicap femminili e sugli africani poco qualificati, Tavecchio o chiunque vincerà le elezioni avrà scarso margine di manovra rispetto al diktat della prima divisione. Certo, il laureato in pedagogia Lotito è schieratissimo con Tavecchio. Agnelli molto meno. C’è un pregresso di polemiche furiose che risale a tre anni fa quando la commissione federale rigettò la richiesta juventina di revocare all’Inter lo scudetto 2006 di Calciopoli. L’interistissimo Tavecchio si espose sulla ribalta del grande calcio difendendo la scelta della Figc, di cui era vicepresidente vicario, e respingendo gli attacchi juventini a Giacinto Facchetti. Agnelli non gliel’ha perdonata ma è abbastanza pragmatico per accettare le garanzie di Lotito che Tavecchio saprà stare al suo posto limitandosi a qualche battuta infelice di quelle che fanno la gioia dei social network e dei nostri concorrenti all’estero. Quindi, si porterà la serie A a diciotto squadre, si scremeranno le serie minori che già si scremano da sé con la crisi. E il resto continuerà come prima, con le grandi che perdono terreno sulla concorrenza europea e le piccole che tirano a campare con le plusvalenze e il factoring sui diritti televisivi scontato da qua a trent’anni, mentre tutti mostrano grande volontà di cambiamento nimby (not in my backyard). Su una cosa Tavecchio ha ragione. È quando gli scappa detto: «Ora devo occuparmi di questo bordello». Dopo 27 anni che lavora nella politica e nel calcio, forse sa di che parla."
Ciò nonostante, per un eventuale ricorso di annullamento nulla ha potuto fare il Coni, pur pungolato. Per quanto riguarda il ricorso al Tar, già è stato presentato ma per altri motivi che quello della incandidabilità. Un ricorso al Tar del Lazio contro le regole di elezione del vertice della Federcalcio italiana e contro ogni altro atto legato a questo passaggio viene annunciato dal Codacons all'indomani dell'elezione di Carlo Tavecchio. Un ricorso non tanto contro il neo presidente o contro Albertini, se fosse stato questi ad essere eletto a capo del calcio italiano, quanto invece contro il meccanismo che - precisa Carlo Rienzi, presidente del Codacons - "esclude i primi fruitori dell'attività sportiva calcistica, e cioè i tifosi". Secondo Rienzi, infatti, "i tifosi non hanno voce in capitolo, non possono dire la loro sulla presidenza, non è previsto il loro coinvolgimento attraverso una consultazione magari anche online".
Epurazioni, scandali, sprechi e malagestione. Il disastro dello sport oltre Tavecchio e il calcio. L'elezione del nuovo numero uno del pallone italiano ha mostrato quanto sia difficile rinnovare. Ma le altre federazioni del Coni, dal beach volley alla ginnastica, se la passano anche peggio: tra impresentabili in sella da decenni, sportivi cacciati perché critici coi dirigenti e sperperi milionari, scrive Gloria Riva su “L’Espresso”. Non solo Carlo Tavecchio e non solo Figc: di storture nelle federazioni sportive del Coni ce ne sono parecchie, ma fanno meno rumore. L'11 agosto 2014 Tavecchio, 71 anni, è stato eletto presidente della Federcalcio con il 63,63 per cento dei voti, e insieme a lui hanno vinto le potenti quattro leghe e i poteri forti. A restare in panchina è il desiderio di rinnovamento che non si respira solo nel calcio, ma anche in molti altri sport. Infatti, in scia a quanto successo nel pallone italiano, l'Espresso ha ricevuto email e lettere da parte di chi fa parte di federazioni più piccole, dalla ginnastica, al tiro a segno, per raccontarci che anche in casa loro funziona così. Partiamo da Padova, dove vive Riccardo Zillio, astro diciannovenne della ginnastica italiana, condannato prima a un anno di sospensione e poi ad altri sei mesi dalla Commissione di Giustizia sportiva per aver detto che, secondo lui, qualcosa all'interno della federazione ginnastica d'Italia (Fgi) non andava. La sua colpa è aver contestato la procedura con cui, a fine 2012, è stato eletto il presidente della Fgi, Riccardo Agabio, 78 anni, al suo quarto mandato. Zillio, in forza alla società Corpo Libero di Padova, il 15 dicembre 2012, aveva votato all’assemblea per la nuova presidenza e gli organi direttivi. Quel voto, annullato e ripetuto quando alcuni atleti avevano già lasciato la sede delle elezioni, provoca il ricorso del ragazzo, che non essendo stato informato della necessità di una nuova votazione, non lo ritiene regolare. «La battaglia di Zillio, per far valere i propri diritti, viene contrastata dalla federazione perché non vuole un rinnovamento e l'avvento di una nuova classe dirigente più giovane. L'atleta viene squalificato a complessivi 18 mesi per condotta non conforme ai principi della lealtà, della probità e della rettitudine sportiva», racconta Andrea Facci, presidente del team padovano dove il giovane atleta si allena. In buona sostanza la colpa del portacolori della società Corpo Libero Team sarebbe quella di aver contestato la votazione riservata agli atleti: «Nello sport di alto livello, prima di fermare un atleta, bisogna pensarci non una ma dieci volte. Così la carriera di Zillio è stata interrotta perché l'atleta ha avuto il coraggio di contestare il potere di una classe dirigente che comanda da decenni e che decide le nomine dei tecnici e come distribuire i contributi economici, ovvero i soldi pubblici che arrivano dal Coni», dice Facci, che da tempo sta cercando di scardinare questo sistema. Il primo settembre il Tnas, il Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport, un ente diverso dalla federazione, deciderà se Zillio andava davvero punito. E a ottobre si esprimerà anche il Tar su tutta questa storia. Ma intanto un anno di gare e possibili medaglie se n'è andato e la famiglia del ragazzo ha speso 70 mila euro per la battaglia legale, mentre la federazione utilizza i soldi pubblici del Coni per pagare i propri difensori. «L'assurdità è che il procuratore federale che ha promosso i procedimenti disciplinari contro Zillio, l'avvocato Michele Rossetti, è anche colui che presiedeva la commissione verifica poteri dell'assemblea elettiva della Fgi del dicembre 2012, il cui operato è stato ampiamente contestato nei ricorsi di Zillio», racconta Facci. Un meccanismo non molto diverso da quello applicato all'Unione Italiana Tiro a Segno, dove chi critica viene deferito. E' successo ad Attilio Fanini, che fino al 2012 era presidente della sede di Vergato, nel bolognese, della Uits, ma quando ha criticato il bilancio nazionale della federazione, perché secondo lui i conti non tornavano, il consiglio di disciplina lo ha condannato a due anni di sospensione. Fanini, reputando il provvedimento un po' esagerato, ha fatto ricorso alla Commissione d'appello, ottenendo una riduzione della pena a 8 mesi di sospensione da qualsiasi attività sportiva e sociale. Finalmente, il 6 luglio 2014 (8 mesi dopo il 6 novembre 2013) si conclude la sospensione e Fanini chiede di rientrare nella federazione, ma il nuovo segretario generale si mette di traverso. «Ho scoperto, consultando l'elenco del programma gestionale della Uits, di essere stato allontanato dalla federazione fino a novembre 2015, ma non so per quale motivo», racconta Fanini, che ha anche scritto a Giovanni Malagò, presidente del Coni, per chiedere il suo intervento. Ma Malagò gli ha risposto con un'email dicendo di non avere alcun potere, perché le federazioni operano in autonomia. Però ha aggiunto: «Ad ogni modo, tengo a rappresentarle che, animato dall’esigenza di risolvere le non poche criticità che sin dal mio insediamento ho riscontrato nell’ambito dei vari sistemi di giustizia federale, ho fortemente voluto e realizzato la riforma della giustizia sportiva. Uno dei capisaldi della riforma sarà costituito proprio dalla Procura Generale dello Sport, che entrerà in vigore a tutti gli effetti entro il prossimo mese di ottobre e che avrà il compito di vigilare sulle procure federali e di cooperare con le stesse, al fine di evitare il prodursi di situazioni spiacevoli e di non solare chiarezza», scrive Malagò. Riforma che tuttavia potrà poco di fronte agli sprechi e alle storture della Uits, un ente pubblico che era nella lista degli enti inutili da abolire già nel 2008 e invece riceve 1,4 milioni di euro dal Coni. Soldi che servono a pagare i 2.100 euro al mese che il presidente Ernfried Obrist spende per il residence romano dove soggiorna. Più un'indennità di 4,2 mila euro al mese netti. «E a me fan pagare milleduecento euro per depositare il ricorso al Coni», commenta Fanini. Il caso della federazione tiro a segno è una goccia in un mare di sperperi, alimentato da oltre 400 milioni di euro distribuiti dal Coni e provenienti dal Tesoro, quindi dalle tasche dei cittadini. Il record di sprechi lo detiene la Federazione Italiana Sport Equestri, che ha fatto un buco di 7 milioni. Della gestione allegra della Fise se n'era accorta la nuova presidente Antonella Dallara, salita ai vertici nel 2012 e portavoce di un netto cambio di rotta rispetto al passato. Ma è stata subito disarcionata per via del commissariamento, che dura ormai da più di un anno. Il Coni sta continuando a prorogare il tempo del commissariamento nonostante ci sia una sentenza del Tar del Lazio che dice: «Il commissariamento è un fatto eccezionale che il Coni non può continuare a prorogare». E ora la Dallara intende andare a fondo in tutta questa storia: ha chiesto gli atti ufficiali della giunta del Coni e minaccia di ricorrere alla giustizia, anche penale. Quando in Italia si parla di Hockey e pattini, non si può non citare il presidente della sua federazione, la Fihp, che si chiama Sabatino Aracu, al comando da 22 anni, ex parlamentare di Forza Italia e Pdl da 1996 al 2008 e con una condanna in primo grado di 4 anni. In base a un articolo del codice i dirigenti della federazione, dopo una condanna, dovrebbero lasciare. Ma lui resta. Molto più banale la motivazione che ha costretto Tamara Apostolico, ex primatista italiana del lancio del disco, a ritirarsi definitivamente dall'atletica. Non era abbastanza carina per poter entrare fra i gruppi militari sportivi dove il Coni parcheggia i suoi atleti. L'esercito italiano ha 213 atleti, 325 la Polizia, 139 l'Aeronautica, oltre 70 i Carabinieri, 52 la Marina, 128 la Forestale, altri 104 stanno alla Polizia Penitenziaria. Ma per Tamara non c'era spazio. E poi c'è la storia di Greta Cicolari, fuoriclasse italiana del beach volley. La federazione di pallavolo le ha inflitto 2 sospensioni, per un totale di 13 mesi, per aver parlato male del suo allenatore e aver associato la Federazione alla mafia. Eppure pene così severe vengono inflitte solo in casi gravissimi, a chi viene beccato positivo al doping, ad esempio. Greta ha fatto tutti gradi di giustizia sportiva e ora può soltanto fare ricorso al Tar del Lazio, che non può cancellare la sospensione ma giudicare l’operato della giustizia sportiva ed eventualmente chiedere alla federazione di risarcire il danno subito. Anche in questo caso Giovanni Malagò dice di non poter intervenire in sua difesa, ma che grazie alla sua riforma della giustizia sportiva abusi come questi saranno evitati. Però, nel frattempo, il danno per Greta Cicolari è altissimo. «Ho lasciato il campo da migliore giocatrice in Europa e quinta del ranking mondiale e quando tornerò in campo dopo questo stop forzato, avrò perso tutti punti che mi ero guadagnato grazie a 4 anni di sacrifici e di duro lavoro. Ormai ho perso più di un anno di gara internazionale (e anche amatoriale). Sono stata lasciata sola e nessuno mi potrà mai ridare questo tempo perso. Ogni giorno che passa mi crea ulteriori danni a livello lavorativo (a livello di punti, di compagne e di obblighi nei confronti di sponsor) ma è a livello umano che sono molto ferita e credo che il male ricevuto sia irreparabile. Quando tornerò in campo, cercherò di risalire a tutti livelli in mezzo alle mille difficoltà che si sono create. Lo faro prima per me, per la mia famiglia che è stata insultata e minacciata e per i tanti tifosi che non hanno mai mancato di sostenermi», racconta la pallavolista. E la nazionale di beach volley come se la cava senza di lei? E' passata dal primo posto europeo al ventiquattresimo e dal quinto posto mondiale al quarantasettesimo.
Fise, lo spreco va al galoppo. La Federazione sport equestri precipita in un buco milionario. Tra spese faraoniche e compensi d’oro, scrive Gloria Riva. Favoritismi, stipendi d’oro e auto blu. Il cavallo della Fise, la Federazione Italiana Sport Equestri, rischia di non rialzarsi più, schiantato dai debiti. A fine luglio dell’anno scorso l’ente sportivo è stato commissariato dal Coni. Ma sette mesi dopo, il buco di bilancio, inizialmente fissato intorno ai 7 milioni di euro, potrebbe risultare ancora più vasto, superiore ai dieci milioni. Già a fine 2012 l’ultima presidente della Fise, Antonella Dallari aveva nominato una commissione mista Fise-Coni per indagare sullo stato patrimoniale della Federazione lasciatole in eredità dal suo predecessore, Andrea Paulgross, avvocato di Viareggio ed ex ufficiale dei Carabinieri a cavallo. A quanto pare, Paulgross puntava molto sulla televisione, tanto da aver stipulato un accordo con Class Horse Tv, uno dei canali televisivi del gruppo editoriale Class per mandare in onda gare di equitazione. L’avventura è costata 600 mila euro alla Fise. Altri 846 mila euro sono stati versati per chiudere una vertenza con la Infront, società che si occupa di diritti tv. Alla fine, dai documenti ufficiali si scopre che una somma da capogiro, pari a 1,9 milioni, è stata spesa per cause e contenziosi. Il vero buco nero, però, si chiama Equestrian Service. Ovvero la società controllata da Fise che gestiva il maxi centro equestre Pratoni del Vivaro, un’intera collina a sud di Roma, ampia come 22 campi da calcio, con cinque maneggi, due campi da dressage, giostre, piscine e tutto ciò di cui uno sfarzoso sport come l’equitazione necessita. Il centro, creato nel 1960 per le Olimpiadi di Roma, è di proprietà del Coni e assegnato in gestione alla Fise: la liquidazione della Equestrian, assediata da debiti e perdite, gli è costata oltre 1,7 milioni. Negli ultimi anni la disastrata società romana era stata amministrata da Marco Perciballi, consulente fiscale di alcune federazioni. Una specie di uomo ovunque, con incarichi anche nel ciclismo, nell’atletica, nel tennis. Pratoni del Vivaro si è rivelato un pozzo senza fondo, ma nonostante le enormi spese per la gestione la struttura è stata chiusa con il licenziamento di 17 persone che ci lavoravano. Non è ancora finita. L’attuale commissario della Fise, Gianfranco Ravà, già presidente della Federazione Italiana Cronometristi, sta indagando per ricostruire le altre voci che hanno prodotto il disastro. A suo tempo la presidente Dallari aveva già presentato una denuncia alla Procura federale e alla Corte dei Conti raccontando come la Fise spendeva i soldi che avrebbero invece dovuto essere destinati agli atleti. Ad esempio, l’ex presidente Paulgross avrebbe prelevato dalle casse federali (che ricevono un contributo annuo di oltre 4 milioni di euro dal Coni e altrettanti dai tesserati)un gettone da 100 mila euro l’anno, nonostante lo statuto non prevedesse alcun compenso per i dirigenti. Altri 500 mila euro se ne sarebbero andati in auto blu e soggiorni in alberghi a cinque stelle. Rilievi, quelli della Dallari, che non hanno sorpreso più di tanto il Coni che da tre anni continua a respingere il bilancio della Federazione, giudicato irricevibile. Non è finita qui. Il commissario Ravà nelle scorse settimane ha assoldato i revisori dei conti della società PricewaterhouseCoopers per valutare lo stato di salute dei comitati regionali della Federazione e qui stanno emergendo nuovi ammanchi che porterebbero il debito a oltre 10 milioni di euro. Ad esempio, lo scorso 31 gennaio la Fise dell’Emilia Romagna è stata commissariata, lo stesso è successo in Abruzzo. Come se non bastasse, anche l’ispettorato del lavoro si è messo a fare le pulci alla Federazione, scoprendo che decine di dipendenti sono stati assunti con contratti di collaborazione. E ora, per sanare quelle posizioni lavorative, la Fise rischia di sborsare un paio di milioni.
Greta Cicolari, campionessa sospesa "Ma io non mi
arrendo". Dal 2009 è la fuoriclasse italiana del beach volley in Italia. Ma ora
è fuori gioco per colpa di un procedimento disciplinare confermato da una
sentenza dell'Alta Corte del Coni. Retroscena e spiegazioni nella vicenda
giudiziaria dell'atleta, scrive Gloria Riva. «Mi sento presa in giro».
Greta Cicolari, campionessa olimpionica di beach volley, risponde così,
allibita, alla sentenza con cui l'Alta Corte del Coni ha confermato la sua
sospensione dalla Fipav, la Federazione italiana di Pallavolo. Resterà fuori
gioco per sei mesi e successivamente per altri sette: il suo ricorso è stato
respinto. La grande pallavolista, seguita da milioni di Italiani durante le
Olimpiadi di Londra, dovrà insomma restare in panchina per tutto l’anno. La sua
colpa? Aver parlato male del suo ex allenatore e aver associato la Federazione
alla mafia. Eppure pene così severe vengono inflitte solo in casi gravissimi, a
chi viene beccato positivo al doping, ad esempio. È davvero un momentaccio per
il mondo dello sport italiano. Dall’autogol del calcio - segnato dall’ultima
domenica di follia, con capi ultras che fanno da mediatori e fuori dallo stadio
Olimpico di Roma una guerriglia arrivata ai colpi di pistola -, alla Federazione
Sport Equestri con i conti all’aria per una serie di sperperi, fino alla Lega
Basket che promuove come proprio presidente Ferdinando Minucci, indagato per
sospetto pagamento in nero dei suoi giocatori. Ieri sera anche Milena Gabanelli
di Report ha dedicato un ampio servizio sulle storture del Coni e delle sue
Federazioni sportive. Il traguardo è arrivata questa mattina, con la sentenza
dell’ente massimo della giustizia sportiva del Coni, l’Alta Corte appunto, che
impedisce alla Cicolari, 31 anni, bergamasca, dal 2009 la più brava pallavolista
da spiaggia italiana, di tornare a gareggiare. Greta, l’altra metà di Marta
Menegatti nella beach volley fino alla scorsa estate, è un’atleta di indiscussa
bravura: oro agli europei del 2011 e ai Giochi del Mediterraneo l’anno scorso,
quinte alle Olimpiadi di Londra, così come ai mondiali del giugno 2013 disputati
in Polonia. Ma oggi, piuttosto che allenarsi, si sta dedicando anima e corpo a
una battaglia legale contro quello che lei definisce l’ingiusto sistema della
Federazione. La prima colpa di Greta è aver parlato male del suo ex tecnico, il
brasiliano Lissandro Dias Carvalho, che adesso allena il Kazakistan. La seconda:
aver associato la Fipav alla mafia nel corso di un’intervista, anche se Greta
dice che le sue parole sono state travisare dal giornalista. Secondo l’atleta
olimpionica la federazione sta facendo il possibile per impedirle di tornare in
campo, infliggendole una squalifica via l’altra, e per questo si era rivolta
all’Alta Corte del Coni, sperando che un ente terzo (e super partes) le rendesse
giustizia. Lunedì si è riunito l’organo di giustizia del Coni, composto da
quattro giudici e presieduto dall’ex ministro Franco Frattini, che ha ascoltato
l’avvocato della Cicolari e le sue ragioni. Questa mattina è arrivata la
sentenza: il ricorso è inammissibile, trattandosi di “diritti disponibili”. Un
portavoce del Coni spiega all’Espresso che la Cicolari avrebbe sbagliato
tribunale e che per regolamento, essendo il suo un caso di “diritti
indisponibili”, si sarebbe dovuta rivolgere al Tribunale Nazionale di Arbitrato
per lo Sport. Eppure la Cicolari aveva bussato alla porta dell’Alta Corte su
suggerimento di Giovanni Malagò in persona, presidente del Coni, che le aveva
consigliato di presentare un ricorso proprio lì. «A parere mio e con il conforto
dei miei legali, la Corte del Coni ha errato, evidentemente preferendo adottare
una decisione banale e poco approfondita piuttosto che affrontare un tema, ossia
quello del giusto processo, che interessa l'intero sistema della giustizia
sportiva», dice Greta, che oltre alle spese legali ha anche pagato 1.200 euro al
Coni per avviare la procedura di ricorso. «Davvero non riesco a capire perché la
federazione mi abbia dichiarato guerra», dice Greta che ricorda il momento
preciso in cui l’allenatore le ha voltato le spalle. Secondo l’olimpionica
bergamasca risale tutto all’inizio dell’estate scorsa, quando Lissandro chiese a
Greta e Marta di promuovere con la loro immagine un suo progetto. Marta accettò
di buon grado, Greta rifiutò e lì cominciarono i guai. Alla vigilia del Wolrd
Tour di Los Angeles, Lossandro decide di non convocare la Cicolari. Poi il suo
contratto con la Fipav, che doveva durare fino alle olimpiadi di Rio del 2016,
viene improvvisamente rescisso a settembre. Due mesi dopo, a novembre, la
squalifica di sei mesi per aver twittato commenti offensivi contro Lissandro, ma
lei si difende dicendo che in realtà si stava riferendo al suo fidanzato,
Dimitri Lauwers. Poi altri sette mesi di squalifica per aver definito omertosa
la Fipav: «Ma io quelle parole non le ho dette, il giornalista è andato un po’
oltre», dice l’atleta.
Adesso la terza batosta. Dopo mesi di attesa, anche il Coni le volta le spalle.
«Non mi do per vinta e, con il mio studio legale, sto valutando l'ipotesi di
ricorrere al giudice ordinario, forse al Tar competente, convinta del fatto che
la giustizia sportiva non può in alcun caso, così come è avvenuto nei miei
confronti, prescindere dall'applicazione dei fondamentali diritti processuali
che sono stati del tutto ignorati nel corso dell'intero procedimento sportivo»,
dice la pallavolista. E quando finalmente otterrà giustizia tornerà a giocare,
ma non più all’interno della Nazionale, bensì come privata. Anzi, non esclude di
poter competere con un’altra bandiera: «Ho già ricevuto due o tre proposte, ma
non posso rivelare altro, perché ho paura che la Fipav si metta di traverso»,
dice la Cicolari, che comunque dovrà prima ottenere l’autorizzazione dalla
federazione italiana per poter indossare la maglia di un’altra nazione. E non è
così scontato che il nulla osta verrà concesso senza complicazioni. La Fipav,
contattata dall’Espresso, non rilascia dichiarazioni, ma si limita a ribadire
che il motivo della squalifica è disciplinare e non ha nulla a che vedere con le
questioni tecniche. Greta, in verità, un’idea se l’è fatta del perché la
Federazione sta facendo il possibile per tenerla lontana dal campo da gioco: «E
se come privata riuscissi a vincere, dimostrando di essere più forte della
squadra ufficiale della Federazione?», indubbiamente sarebbe uno smacco.
GLI AFFARI SPORCHI DEL CALCIO.
Football Leaks, gli affari segreti del calcio: Cristiano Ronaldo e Mourinho vanno offshore. Società nei paradisi fiscali, triangolazioni: un'inchiesta realizzata da 12 testate europee, con l'Espresso unica italiana, svela i segreti del business del pallone, scrivono Vittorio Malagutti e Stefano Vergine il 2 dicembre 2016 su "L'Espresso". Tra il 2009 e il 2014, il calciatore Cristiano Ronaldo, attaccante portoghese del Real Madrid, superstar globale del pallone, ha trasferito oltre 70 milioni di euro nei conti bancari della Tollin, una società registrata alla British Virgin Islands, paradiso fiscale nei Caraibi. Altri 74 milioni, versati su un conto svizzero, sono stati incassati dal fuoriclasse portoghese negli ultimi giorni del 2014, quando ha ceduto i diritti sulla propria immagine, per gli anni tra il 2015 e il 2020, a un uomo d'affari di Singapore, Peter Lim. Su questi redditi, frutto in gran parte di contratti pubblicitari, Ronaldo ha pagato tasse per un totale di pochi milioni, pochi milioni in tutto. Spiccioli. Tutto è scritto nero su bianco: contratti, bilanci societari, conti bancari, perfino le mail tra i consulenti del calciatore. Le carte che documentano i traffici offshore di Ronaldo fanno parte del gigantesco archivio di Football Leaks. Milioni di file, per un totale di 1,9 terabyte, che raccontano gli affari segreti del calcio. È l’altra faccia del pallone, quella nascosta, dove si muovono finanzieri e imprenditori spesso di dubbia reputazione, banchieri e prestanome con base nei paradisi fiscali. Per sette mesi, i cronisti di 12 giornali europei, tra cui l’Espresso, l’unico italiano, hanno esplorato questo mare di documenti a caccia di notizie. Gli accordi riservati tra le squadre. Le manovre e le alleanze tra i grandi procuratori sportivi, quelli che di fatto controllano il calciomercato. I contratti milionari tra club e calciatori. I flussi di denaro che approdano nei centri offshore e nelle banche svizzere. L’archivio segreto, offerto al settimanale tedesco Der Spiegel da una fonte anonima, è stato poi condiviso con le altre testate riunite nel network EIC, European Investigative Collaborations. Milioni di documenti, centinaia di star del calcio coinvolte, fondi di investimento che speculano sul pallone. I giornalisti dell'Espresso Vittorio Malagutti e Stefano Vergine, gli unici due italiani che hanno lavorato con il team internazionale Eic sui Football Leaks, spiegano in cosa consiste questo lavoro e come è stato sviluppato. Ed ecco Football Leaks, che illumina per la prima volta i traffici, spesso illeciti, all’ombra del business globale del calcio, quello degli sponsor e delle televisioni, delle grandi squadre e dei supercampioni che muovono centinaia di milioni di tifosi in tutto il mondo.
Football Leaks, come nasce l'inchiesta su calcio e fondi offshore. È la più grande fuga di notizie nella storia dello sport mondiale. E rivela un malaffare che danneggia tutti i contribuenti onesti. Ecco da dove parte il lavoro dell'Eic a cui l'Espresso ha lavorato in esclusiva per l'Italia, scrivono Vittorio Malagutti e Stefano Vergine il 2 dicembre 2016 su "L'Espresso". Otto hard disk, 1,9 terabyte di dati. L’equivalente di mezzo milione di Bibbie. O, per dirla più semplicemente, la più grande fuga di notizie nella storia dello sport. Questo è Football Leaks. Il frutto delle rivelazioni di una fonte anonima. Del lavoro di indagine di quasi sessanta giornalisti. Di migliaia di contratti, messaggi, email, fatture. Documenti che mostrano senza filtri i meccanismi - leciti e illeciti - attraverso cui lo sport più popolare al mondo è stato trasformato in una delle industrie più avide e spericolate. Con giocatori trattati come titoli finanziari. Decine di milioni di euro nascosti nei più riservati paradisi fiscali, da Jersey a Madeira, da Panama alle British Virgin Islands. Il tutto a danno dei contribuenti di quei Paesi che avrebbero dovuto incassare questi soldi, Italia inclusa. E dei tifosi, di chi spende denaro - un biglietto per lo stadio, un abbonamento per la pay-tv, una maglia per il figlio - per godere del cosiddetto “beautiful game”. La storia di Football Leaksinizia alla fine del 2015, quando l’omonimo sito internet comincia a pubblicare alcuni contratti di calciatori. Documenti esplosivi, che arrivano da una fonte anonima. La Fifa avvia subito indagini su diverse squadre. In Olanda viene squalificato per tre anni dalle competizioni internazionali il Twente, club segretamente finanziato da un fondo d’investimento diventato così proprietario di alcuni giocatori. Alla Commissione europea viene chiesto di avviare un’inchiesta sul trasferimento di Gareth Bale, passato dal Tottenham al Real Madrid per 100 milioni di euro anche grazie alle garanzie fornite da alcune banche spagnole, le stesse salvate qualche anno prima dal governo locale con 40 miliardi di euro pubblici. Insomma, le rivelazioni provocano un terremoto nel magico mondo del pallone. E il sito, sopraffatto dal suo stesso successo e oggetto di sempre più frequenti attacchi informatici, decide di interrompere l’attività. È qui che inizia il lavoro dell'EIC – European Investigative Collaborations – un network giornalistico europeo formato da 12 testate, di cui l’Espresso è fondatore e unico rappresentante per l’Italia. Dietro la fuga di notizie c’è John, un nome di fantasia usato per identificare la fonte delle informazioni. Nella primavera del 2016, pochi mesi dopo lo stop del sito Football Leaks, il whistleblower decide di condividere i segreti con il settimanale tedesco Der Spiegel. L’obiettivo è quello di non limitarsi più a pubblicare singoli documenti, ma mostrare al pubblico il quadro generale, evidenziando le connessioni e i personaggi che si nascondono dietro questa massa impressionante di documenti. Un lavoro d’indagine lungo e complesso, con ramificazioni in buona parte del globo. Anche per questo, entrato in possesso degli hard disk, Der Spiegel li condivide con l’EIC. Nel corso degli ultimi nove mesi, 52 giornalisti investigativi di tutta Europa, con l’aiuto di una decina di esperti del web, hanno analizzato i dati, si sono incontrati di persona (ad Amburgo, Bruxelles, Parigi, Lisbona), hanno utilizzato una piattaforma internet criptata per comunicare in sicurezza a distanza. Ma chi è John? Chi lo aiuta? E perché fa tutto questo? Sebbene Der Spiegel sia stato in contatto con lui per più di un anno, lo abbia incontrato decine di volte e ci abbia parlato per centinaia di ore, non è ancora chiaro se questo giovane nato in Portogallo, che parla cinque lingue e ne sta imparando altre due, abbia ricevuto aiuti finanziari. Lui si limita a dire che Football Leaks è il prodotto di un gioco di squadra: «Non abbiamo mai hackerato nessuno, non siamo hacker. Tutto ciò che abbiamo sono delle buone fonti». Milioni di documenti, centinaia di star del calcio coinvolte, fondi di investimento che speculano sul pallone. I giornalisti dell'Espresso Vittorio Malagutti e Stefano Vergine, gli unici due italiani che hanno lavorato con il team internazionale Eic sui Football Leaks, spiegano in cosa consiste questo lavoro e come è stato sviluppato. E da domenica 4 dicembre sull'Espresso in edicola i primi nomi che riguardano il campionato italiano. Nel database, in effetti, alcuni indizi fanno credere che il lavoro non appartenga esclusivamente a una persona. Ma su questo la fonte non aggiunge altro. La sua attenzione è rivolta al contenuto dei file. «È ora finalmente di dare una ripulita al mondo del calcio», è la tesi, «i tifosi devono capire che con ogni biglietto dello stadio, con ogni maglietta della squadra del cuore, con ogni abbonamento per guardare le partite in tv stanno alimentando un sistema estremamente corrotto». John sa bene di essersi fatto dei nemici con Football Leaks, e sa anche che i nemici aumenteranno ora che le testate dell’EIC inizieranno a pubblicare le storie. Fra i dati, infatti, si trovano connessioni con la mafia russa, despoti africani, miliardari kazaki e turchi. Gente che ha guadagnato, o ha provato a guadagnare, montagne di soldi con il calcio, ma che ha sempre cercato di mantenere segreta la propria identità. È il caso di Doyen, la società finora più esposta dai Football Leaks, di cui sono stati resi noti alcuni affari importanti ma non i nomi degli investitori. Questa storia non è fatta però solo di coraggio e amore per la verità. C’è anche un tentativo di ricatto. È il 3 ottobre 2015. Meno di una settimana prima il misterioso sito ha iniziato a pubblicare documenti sul mondo del calcio. Una email raggiunge Nelio Lucas, l’agente portoghese che rappresenta Doyen. Il mittente è Artem Lobuzov. Uno pseudonimo, forse. L’unica certezza è che il messaggio arriva da Yandex, provider russo usato anche da Football Leaks. Oggetto della email: documenti di cui Lobuzov sarebbe in possesso. Informazioni pericolose per Doyen. «Possiamo risolvere tutto questo facilmente e nel massimo riserbo, preferibilmente attraverso degli avvocati», scrive Lobuzov. Il 21 ottobre le cose sembrano andare in questa direzione. Da due settimane ormai il sito ha smesso di pubblicare informazioni su Doyen. In una stazione di servizio fuori Lisbona s’incontrano Lucas, il suo avvocato e Aníbal Pinto, il legale scelto da Lobuzov. Lucas fa due proposte. La prima è di dare a Lobuzov 300mila euro in cambio dello stop immediato alla fuga di notizie. La seconda prevede che il presunto hacker inizi a lavorare per Doyen, con un bonus d’entrata da 1 milione di euro. Com’è finita? Gli stessi file di Football Leaks raccontano che l’incontro avvenuto fuori Lisbona è stato registrato dalla polizia portoghese. Il tentativo di ricatto non è dunque andato a segno, e questo è uno dei motivi che ha convinto l’EIC a proseguire nel suo lavoro. L’altra ragione è ancora più importante. Sebbene non siamo riusciti a determinare precisamente chi c’è dietro questa fuga di notizie, insieme a Der Spiegel e agli altri partner dell’Eic l’Espresso ha deciso di pubblicare comunque articoli basati sui Football Leaks perché i dati sono socialmente rilevanti: aiutano a fare chiarezza sul mondo del calcio, di gran lunga lo sport più popolare d’Europa. Un’industria in cui, come dimostrano i documenti dell’inchiesta, si opera spesso illegalmente.
Football Leaks, cosa è il network EIC che ha curato l'inchiesta. Il dossier sugli affari offshore nel mondo del calcio è stato curato da un gruppo di giornalisti di diverse testate da tutta Europa. Ecco cos'è l'European Investigative Collaborations che, in Italia, è rappresentato dall'Espresso. Una squadra di giornalisti. Un gruppo capace di coprire tutta l’Europa, dal Portogallo alla Romania, dal Regno Unito all’Italia. Grazie a queste caratteristiche si è sviluppata l’inchiestaFootball Leaks . Lavoro firmato EIC, European Investigative Collaborations. Il network ha pubblicato a marzo il suo primo progetto, svelando come le armi dei terroristi islamici a Parigi arrivassero dall’Est Europa. Ora tocca al calcio: un’inchiesta in cui la collaborazione di giornalisti di tutta Europa è stata fondamentale, per le ramificazioni globali del business. Oltre che dall’Espresso, Eic è stato fondato da Der Spiegel (Germania), El Mundo (Spagna), Falter (Austria), Le Soir (Belgio), Mediapart (Francia), Newsweek Serbia (Serbia), Politiken (Danimarca), RCIJ/TheBlackSea.eu (Romania). All’inchiesta hanno partecipato anche l’inglese The Sunday Times, il portoghese Expresso e l’olandese NRC.
Cosa sono i Football Leaks: guida all'inchiesta sugli affari del calcio. Sette punti chiave per capire meglio il caso che scuote il mondo del pallone: la fonte dei documenti, il team che ha lavorato ad esaminarli, le tempistiche e molto altro, scrive il 2 dicembre 2016 "L'Espresso".
Cos'è Football Leaks? La più grande fuga di notizie nella storia dello sport: questo è Football Leaks. In altre parole è il frutto delle rivelazioni di una fonte anonima e del lavoro di indagine di quasi sessanta giornalisti raccolti nel network EIC (European Investigative Collaborations), di cui l'Espresso è membro fondatore e unico rappresentante per l'Italia. La fuga di notizie ha permesso ad EIC di studiare, per circa sette mesi, migliaia di contratti, messaggi, fotografie, email, fatture. Documenti che mostrano senza filtri i meccanismi attraverso cui lo sport più popolare al mondo è stato trasformato in un business avido e spericolate. Con giocatori trattati come titoli finanziari, come merce. E decine di milioni di euro nascosti nei più riservati paradisi fiscali, da Jersey a Madeira, da Panama alle British Virgin Islands.
Chi vi ha dato questi documenti? La storia di Football Leaks inizia alla fine del 2015, quando l'omonimo sito internet comincia a pubblicare anonimamente alcuni contratti di calciatori. Le rivelazioni provocano un terremoto nel mondo del pallone. Pochi mesi dopo il sito interrompe però l'attività. Nella primavera del 2016 una fonte anonima fornisce l'enorme banca dati chiamata Football Leaks al settimanale tedesco Der Spiegel. Obiettivo della fonte: non limitarsi più a pubblicare singoli documenti, ma mostrare al pubblico il quadro generale, evidenziando le connessioni e i personaggi che si nascondono dietro questa massa impressionante di informazioni. Per questo viene coinvolta una testata come Der Spiegel, che decide di condividere i file con altri 11 media raccolti nel network EIC, fra cui l'Espresso.
Perché non rivelate subito i nomi di tutte le persone coinvolte? La massa di informazioni di Football Leaks è imponente: 1.9 terabyte, pari a 18,6 milioni di documenti. L'indagine giornalistica è stata perciò lunga e complicata. E non è ancora terminata.
Perché all’estero hanno scritto di calciatori di cui voi non avete scritto? Ogni testata di EIC ha deciso autonomamente quali articoli pubblicare. Poiché i personaggi del calcio coinvolti sono moltissimi, l'Espresso - come le altre testate del network - ha scelto di privilegiare le storie dei personaggi più noti in Italia, e dunque principalmente degli sportivi che giocano o hanno giocato nel nostro Paese.
È illegale quello che viene raccontato nei Leaks? Il network EIC non è stato in grado di determinare precisamente chi c'è dietro questa fuga di notizie, in che modo la fonte sia entrata in possesso della banca dati e quante persone abbiano partecipato al progetto. A queste domande, la fonte da cui il settimanale tedesco Der Spiegel ha ottenuto i file si è limitata a rispondere: «Non abbiamo mai hackerato nessuno, non siamo hacker. Tutto ciò che abbiamo sono delle buone fonti». Insieme a Der Spiegel e agli altri partner dell'EIC, l'Espresso ha deciso di pubblicare comunque articolibasati sui Football Leaks perché i dati sono socialmente rilevanti: aiutano infatti a fare chiarezza sul mondo del calcio, di gran lunga lo sport più popolare d'Europa.
Quali sono i temi dell'inchiesta? Dall'analisi dei documenti di Football Leaks sono emersi due fenomeni di particolare rilevanza pubblica, secondo i giornalisti del network EIC. Uno è quello dei paradisi fiscali: nazioni dove le tasse sono bassissime o nulle, come le British Virgin Islands, usate da calciatori e allenatori per spostare i profitti realizzati attraverso lo sfruttamento dei diritti d'immagine. L'altro tema è quello della proprietà dei calciatori: mentre comunemente si crede che siano le squadre ad essere titolari dei cartellini degli sportivi, spesso i reali possessori sono società o fondi d'investimento.
Quali sono i media che formano EIC? Oltre che da l'Espresso, unico membro italiano, il network giornalistico Eic è stato fondato da Der Spiegel (Germania), El Mundo (Spagna), Falter (Austria), Le Soir (Belgio), Mediapart (Francia), Newsweek Serbia (Serbia), Politiken (Danimarca), RCIJ/TheBlackSea.eu (Romania). All'inchiesta Football Leaks hanno partecipato anche il settimanale inglese The Sunday Times, il quotidiano portoghese Expresso e quello olandese NRC.
Football Leaks, i primi nomi della Serie A: spuntano Higuain, Iturbe e Alex Sandro. L'inchiesta internazionale sul mondo del calcio, tra padroni occulti e conti offshore, investe anche il campionato italiano. Nelle carte ci sono i big del pallone nostrano e squadre come Juve, Inter, Roma, Napoli e Palermo. Ecco chi è coinvolto, scrivono Vittorio Malagutti e Stefano Vergine il 5 dicembre 2016 su "L'Espresso". Non è facile essere Gonzalo Higuain. Certo, lo stipendio milionario. Certo, i gol, la fama e i tifosi ai tuoi piedi. La vita come un sogno, vista dall’esterno. Poi c’è la realtà. Un’altra realtà. Un mondo parallelo, lontano e diverso da quello che ogni giorno finisce sui giornali e in tv. È un mondo popolato di sigle anonime, contratti e conti bancari. Scorre denaro a fiumi, tra holding olandesi e società caraibiche. È una matassa aggrovigliata, il mondo parallelo di Higuain. Per raccontarlo conviene partire da un documento con una data certa, il 22 settembre 2014. È una fattura: la Convergence Capital Partners, società di Amsterdam, paga 190 mila euro alla Paros Consulting ltd, registrata alle British Virgin Islands, paradiso fiscale nei Caraibi. Sono soldi che volano offshore, lontano dagli occhi del Fisco. Per quale motivo, nel settembre di due anni fa, la società olandese paga Paros, che incassa il denaro tramite un conto bancario di Vaduz, nel principato del Liechtenstein? «Servizi prestati in riferimento al Real Madrid e al giocatore G. Higuain», si legge, in inglese, nella causale. Prima di approdare al Napoli, nel 2013, il “Pipita” ha indossato per cinque campionati la divisa bianca dello squadrone spagnolo. Resta un interrogativo, il più importante: chi c’è dietro Paros? A chi vanno quei 190 mila euro partiti dall’Olanda? La risposta è custodita nella cassaforte di un fiduciario delle British Virgin Islands, un paradiso fiscale che non rende noti neppure gli amministratori delle società, tantomeno i soci. Seguendo le tracce del denaro, ricostruendo contratti e documenti bancari, si arriva però a un approdo certo. Paros, così come l’olandese Convergence Capital Partners, fa parte di una scuderia di società che ricorrono decine di volte negli affari di un gruppo di intermediari di nazionalità argentina. Il più noto tra loro, almeno dalle nostre parti, si chiama Marcelo Simonian. Nel 2010, proprio lui, Simonian, gestì il trasferimento dell’attaccante Javier Pastore dall’Huracan di Buenos Aires al Palermo del patron Maurizio Zamparini. Lo schema è sempre lo stesso: le somme versate dalle squadre, formalmente come compenso per gli agenti-intermediari nella compravendita di calciatori, finiscono da principio a una società olandese per poi prendere il volo verso una destinazione offshore, quasi sempre ai Caraibi. La fattura della Paros, così come le altre carte che riguardano Higuain, fanno parte del gigantesco archivio che l’Espresso ha esplorato per sette mesi. I file, per un totale di circa 1,9 terabyte, sono stati offerti da una fonte anonima al settimanale tedesco Der Spiegel, che li ha poi condivisi con le testate riunite nel network Eic (European Investigative Collaborations) di cui l’Espresso fa parte. Nasce così Football Leaks, milioni di pagine che raccontano l’altra faccia del pianeta calcio, la rete di affari riservati che avvolge il gioco più bello del mondo. Sono molti i club italiani citati nelle carte di questo archivio, praticamente tutti i più importanti per giro d’affari e risultati sul campo: Juventus, Roma, Napoli, Milan, Inter, Torino e altre ancora. In questa prima puntata della nostra inchiesta partiamo dal caso Higuain, il giocatore più pagato della Serie A con uno stipendio annuo di 7,5 milioni. Una parte dei guadagni di Higuain sono stati impiegati nella Higuazaca, una società di Madrid, fondata negli ultimi mesi del 2015, che ha realizzato importanti investimenti immobiliari nella capitale spagnola. Nel business sono coinvolti anche Jorge e Nicolas Higuain, padre e fratello di Gonzalo, che tirano le fila di molti affari del calciatore. Tra i documenti di Football Leaks si trova per esempio un ordine di bonifico firmato da Jorge Higuain per la società Premier & co di Londra. Il pagamento, 32 mila euro, viene accreditato su un conto aperto presso un istituto di credito svizzero, la Bank Leumi. Dai documenti riservati che l’Espresso ha potuto consultare emerge che Premier & co, controllata da due fiduciari uruguaiani, ha fatto più volte da sponda agli intermediari argentini legati a Simonian. Non è chiaro per quale motivo il padre di Gonzalo, nel febbraio del 2015, abbia versato quei soldi alla società londinese. Per chiarire la vicenda, l’Espresso ha cercato di contattare il calciatore, che ci ha fatto sapere di non essere disponibile a parlare. Non resta dunque che attenersi alle carte, ai documenti. E andando indietro nel tempo si scopre che fin dal 2007 i diritti di immagine di Higuain sono stati ceduti alla Supat, una società olandese. Come rivelano le carte di Football Leaks, è alla Supat che la Nike versava parte dei compensi per il contratto di sponsorizzazione stipulato con l’attaccante all’epoca in forze al Real Madrid. La sede nei Paesi Bassi offre un duplice vantaggio fiscale: al basso livello di tassazione delle imprese si aggiunge il trattamento particolarmente favorevole per le aziende che gestiscono beni immateriali come marchi, brevetti o, appunto, i diritti d’immagine. Quando Higuain approda al Napoli il vecchio accordo con la Nike viene rivisto. La Supat esce di scena ed è il club del patron Aurelio De Laurentiis a gestire direttamente questo tipo di contratti. La trattativa non dev’essere stata facile, se è vero, come emerge dai documenti, che l’intesa riveduta e corretta con lo sponsor viene siglata solo all’inizio del 2015, ovvero 18 mesi dopo l’arrivo dell’attaccante argentino in Italia. Anni prima, anche il viaggio del giovane Higuain verso Madrid aveva seguito un itinerario piuttosto singolare. Partito dal River Plate, il promettente Pipita fa tappa al Locarno, squadra della serie B elvetica che certo non poteva permettersi un calciatore di quel livello. I soldi, in effetti, arrivano dalla HAZ, società al centro di innumerevoli operazioni che hanno portato in Europa giocatori sudamericani. Fatto sta che Higuain non vestirà mai la maglia del club svizzero, che nel giro di pochi giorni rivende il calciatore per 18 milioni di dollari dopo averlo acquistato per 6. La differenza, cioè il profitto dell’operazione, è andata per oltre il 50 per cento alla HAZ, a cui il River Plate, sull’orlo del crack si era legato mani e piedi. La vicenda, già raccontata in passato, nel 2013 è finita al centro di un’inchiesta giudiziaria in Argentina sull’evasione fiscale nel mondo del calcio. L’indagine è stata di fatto insabbiata e nel frattempo Gustavo Arribas, uno dei tre proprietari della Haz (gli altri sono Fernando Hidalgo e Pini Zahavi), ha fatto carriera: è diventato nientemeno che il capo dei servizi segreti di Buenos Aires, nominato dal suo grande amico Mauricio Macrì, eletto l’anno scorso presidente dell’Argentina. Arribas è stato determinante anche per un altro giocatore famoso in Italia: il laterale della Juve Alex Sandro. Brasiliano classe 1991, il terzino sinistro è arrivato in Europa nel 2011, acquistato dal Porto per 9,6 milioni di euro. A chi sono finiti i soldi? In buona parte proprio all’attuale capo degli 007 argentini. Prima del trasferimento in Portogallo, il cartellino di Alex Sandro apparteneva infatti a due società poco conosciute: il 30 per cento era del Club Atletico de Paranà, una piccola accademia calcistica brasiliana; il restante 70 per cento era invece del Maldonado, club che milita nella seconda divisione uruguaiana. E che negli anni scorsi è stato accusato di essere diventato una sorta di paradiso fiscale sportivo, visto che in Uruguay le tasse sulle società sono molto più basse che negli altri Paesi sudamericani. Ma i documenti di Football Leaks dicono di più. Certificano che per la vendita di Alex Sandro al Porto, il Maldonado ha incassato, su un conto corrente svizzero gestito dalla banca Hsbc, 6,1 milioni di euro. E permettono per la prima volta di identificare chi c’è dietro la misteriosa squadra uruguaiana, dove sono passati anche altri giocatori approdati in Italia, come l’ala sinistra della Fiorentina Hernán Toledo, o Marcelo Estigarribia, transitato da Juventus, Chievo, Atalanta e Sampdoria. Secondo i documenti esaminati dall’Espresso, dietro il Maldonado c’era, almeno fino a giugno del 2015, proprio lui, Arribas. Adesso Alex Sandro non sembra aver più legami con l’attuale capo dei servizi argentini. Nell’estate 2015 il Porto lo ha venduto alla Juventus per 26 milioni di euro. Nel contratto, il club lusitano garantisce che in quel momento «nessuno, eccetto il Porto, era proprietario o controllava i diritti sportivi o economici del giocatore». I fondi d’investimento s’incrociano anche con gli affari dell’Inter. Il caso è quello di Mateo Kovacic, centrocampista croato di 22 anni. Una carriera pazzesca, la sua, per lo meno in termini finanziari. Cresciuto nelle giovanili della Dinamo Zagabria, a 19 anni passa al club milanese, ancora presieduto da Massimo Moratti, per 11 milioni di euro, secondo le cifre circolate sui giornali. Con i nerazzurri, il campioncino slavo però non convince. Eppure, nell’estate del 2015 il Real Madrid decide di comprarlo. Per la cifra astronomica di 29 milioni di euro più 6 milioni di bonus opzionali, recita il contratto. Un investimento non proprio redditizio, visto che in oltre un anno il croato colleziona appena una trentina di presenze. Come si spiega tutto questo? Un aiuto arriva da alcuni documenti inediti. Quando è stato venduto all’Inter, la metà del cartellino di Kovacic apparteneva a un fondo d’investimento basato ad Hong Kong e chiamato Profoot International Limited. I proprietari? Sconosciuti. Di certo però la Dinamo Zagabria all’epoca era diretta da Zdravko Mamic, oggi accusato dai magistrati dell’Antimafia croata (Uskok) di aver realizzato dei guadagni illeciti, grazie alla vendita di alcuni giocatori cresciuti nel vivaio. Uno di questi è Luka Modric, ceduto dalla Dinamo al Tottenham nel 2008 e oggi in forza al Real Madrid. Proprio come Kovacic. Che con Modric condivide un’altra caratteristica: entrambi hanno come procuratore Mamic e la sua agenzia, la Asa International. Una trama intricata a cui si aggiunge un altro tassello. A marzo del 2015, quando i contratti Tpo erano già stati vietati dalla Fifa, la proprietà di Kovacic passa ancora di mano. Il 50 per cento del suo cartellino viene trasferito per la cifra simbolica di 1 euro dal fondo di Hong Kong a un altro fondo, con nome quasi uguale (Profoot International Ltd) ma registrato nel Regno Unito. Anche stavolta la proprietà è sconosciuta: le azioni sono ufficialmente di una fiduciaria, la Atc Nominees Limited. L’Inter sapeva che il cartellino di Kovacic era in parte posseduto dai fondi d’investimento? No, è la riposta del club neroazzurro, che assicura di non conoscere la Proofoot International e di aver «acquisito dalla Dinamo Zagabria il 100 per cento dei diritti economici e sportivi» del giocatore. I trasferimenti internazionali di giocatori minorenni sono illegali. Lo dice la Fifa, che prevede alcune eccezioni. Di queste non sembra far parte Juan Manuel Iturbe, 22enne argentino in forza oggi alla Roma, passato per il Verona e considerato, almeno fino a due anni fa, il nuovo Messi. I documenti di Football Leaks permettono di ricostruire la vicenda del giovane attaccante. Una storia in cui s’incrociano fondi d’investimento, paradisi offshore e agenti senza scrupoli. Con il campioncino trattato alla stregua di un’azienda in cui i soci cambiano continuamente, nascondendosi dietro sigle anonime. Iturbe arriva in Europa nel 2011. Il Porto lo acquista, ancora minorenne, dal club paraguaiano del Cerro Porteño. Il cartellino del calciatore è però solo per un quarto di proprietà del club sudamericano, che in cambio della sua quota riceve dal Porto 1 milione di euro. I restanti tre quarti di Iturbe sono della Pencil Hill Limited, una società inglese che mette a segno un colpo milionario. Cede al Porto solo il 35 per cento del giocatore, incassando la bellezza di 3 milioni di euro, e si garantisce al contempo il diritto di ricevere il 40 per cento di quanto il club lusitano ricaverà da un’eventuale vendita di Iturbe. Vendita che puntualmente avviene, tre anni dopo. Ma andiamo con ordine. Subito dopo averlo acquistato, il Porto rivende il 15 per cento del cartellino al Soccer Invest Fund, basato in Portogallo. A 19 anni l’attaccante ha dunque tre padroni: Porto, Pencil Hill e Soccer Invest. La svolta arriva il primo luglio 2014, quando la squadra portoghese vende Iturbe per 15 milioni al Verona. Che due settimane dopo lo gira alla Roma per 20 milioni (guadagnandone quindi 5). Dietro l’affare c’è Gustavo Mascardi, agente argentino famoso in Italia per aver rappresentato parecchi giocatori, da Asprilla a Veron. Fino a Paulo Dybala, il nuovo bomber della Juventus, pure lui gestito da Pencil Hill quando nel 2012 arrivò al Palermo di Zamparini. Impossibile sapere se il fondo inglese faccia capo a Mascardi. Ufficialmente la società è del commercialista britannico Ayomide Otubanjo. Lo stesso che, secondo le autorità spagnole, gestiva una delle finanziarie usate da Leo Messi per evadere le tasse. Mascardi non è uscito di scena dopo che Iturbe è stato venduto alla Roma. Anzi. Il contratto di trasferimento dal Verona alla Roma prevede che la Lastcard, una società neozelandese rappresentata dallo stesso Mascardi, riceva su un conto corrente svizzero un milione di euro più Iva. La Roma ha inoltre garantito che se venderà Iturbe a un altro club, dovrà versare il 20 per cento del guadagno alla Lastcard. E l’agente, anche in quel caso, dovrà essere Mascardi. E tre mesi dopo le cose cambiano di nuovo. La Lastcard trasferisce tutti i suoi diritti a un’altra compagnia. Si chiama Delta Limited ed è registrata a Panama, uno dei paradisi fiscali più riservati del mondo. L’unico dato pubblico è il nome dell’amministratore della società: si tratta di Francesco Cuzzocrea, un fiduciario svizzero che rappresenta diverse società offshore, incluse alcune riconducibili all’imprenditore italo-nigeriano Gabriele Volpi, proprietario di due squadre di calcio: lo Spezia, in Italia, e il club croato del Rijeka.
Football Leaks, Fabio Capello si fa pagare per la beneficenza. L'allenatore italiano ha negoziato un compenso da 75 mila euro per partecipare al tour di partite per raccogliere fondi per la onlus di Leo Messi. Ecco cosa emerge dai documenti sull'inchiesta del calcio, scrivono Vittorio Malagutti e Stefano Vergine il 5 dicembre 2016 su "L'Espresso". Il grande show vantava un cast di campioni e campionissimi: Leo Messi e Neymar, l’argentino Ezequiel Lavezzi e il brasiliano Dani Alves. Poi i francesi Abidal e Malouda e con loro molti altri fuoriclasse. Siamo nel luglio del 2013 e sotto le insegne del "Leo Messi & friends tour", una carovana di campioni parte per un viaggio nel nome del buon cuore. Gli incassi di tre partite, a Lima, Los Angeles e Chicago, finanzieranno una fondazione patrocinata da Leo Messi, spiegano gli organizzatori. Nello spettacolo c’è una parte anche per Fabio Capello. L’allenatore italiano, uno dei più vincenti della storia del calcio, viene ingaggiato come coach della selezione internazionale che sfiderà gli amici di Messi. Ma nel mondo del pallone non si fa niente per niente. Tutto è in vendita, anche la beneficenza. Il documenti ottenuti da Der Spiegel ed elaborati dall’Espresso insieme al Consorzio europeo di giornalismo investigativo (Eic) rivelano che Capello ha negoziato un compenso di 75 mila dollari per la sua partecipazione al tour. Nel contratto si garantiva all’ex allenatore di Milan, Real Madrid e Roma anche la sistemazione in hotel cinque stelle e voli in business class. Insomma, un ingaggio principesco per uno show di beneficenza, o almeno presentato al pubblico come tale. C’è dell’altro, però. I file esaminati dall’Espresso raccontano una lunga trafila di affari che si snoda da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico. Si scopre per esempio che a formulare l’offerta a Capello, a quel tempo commissario tecnico della nazionale russa, è la società Players Image di Montevideo, in Uruguay. Players Image versa una somma identica, cioè 75 mila dollari al gruppo Doyen, colosso mondiale del business sportivo, dalla gestione dei diritti d’immagine degli atleti fino all’organizzazione di eventi. Nelle carte di Football Leaks, infatti, c’è anche una fattura per 75 mila dollari di Doyen Marketing con sede a Malta per Players Image. Il documento porta la data del 25 giugno 2013. Le partite dei Messi & friends erano in programma il 2 luglio a Lima, il 4 a Los Angeles e infine il 6 luglio a Chicago. Meno di tre mesi dopo, la società maltese emette un’altra fattura, questa volta indirizzata a Capello, per 10 mila dollari. Quindi Doyen avrebbe ricevuto denaro dall’allenatore. A che titolo? «Commissione dovuta per Lionel Messi matches», si legge nella causale. «Fabio Capello non ha mai pagato commissioni a Doyen o a qualunque altra società», replica, per conto del padre, Pierfilippo Capello, avvocato in un grande studio legale. Doyen però, come dimostra il documento di cui l’Espresso possiede una copia, ha emesso una fattura per 10 mila dollari a nome dell’allenatore. Vale la pena segnalare che Malta così come l’Uruguay offrono alle società un trattamento fiscale privilegiato. Seguendo la pista delle fatture si può ipotizzare che Doyen Marketing abbia fatto da intermediario tra Players Image e Capello, il quale avrebbe pagato per il servizio la società maltese. Una parte del denaro ha preso un’altra strada. Nella sterminata banca dati di Football Leaks compare infatti anche la prova di un pagamento di Doyen Marketing alla JAJ communication, una piccola società inglese di pubbliche relazioni. «Commissione per la partecipazione di Fabio Capello ai Messi & friends games nel 2013», si legge nella causale. La londinese JAJ avrebbe quindi ricevuto questo compenso per una prestazione legata all’ingaggio dell’allenatore italiano. La fattura è datata 22 ottobre 2013, mentre l’ordine di pagamento bancario viene registrato quasi un anno dopo: il 26 settembre 2014, quando le partite dei Messi & friends sono ormai un lontano ricordo. Partite tutt’altro che memorabili, peraltro. Il match di Los Angeles venne addirittura annullato con un preavviso di sole 24 ore. Motivo: Messi annunciò di non essere più intenzionato a giocare. A Chicago invece buona parte della squadra del Resto del mondo venne allestita in gran fretta con giocatori americani semisconosciuti. Morale della storia: poco show, ma molto business. E fatture da migliaia di dollari che viaggiano da un paradiso fiscale all’altro.
Football Leaks, le folli clausole dei contratti: el Pocho Lavezzi pagato 57 dollari al minuto. Balotelli pagato per non sputare, Van der Vaart non può usare scarpe rosse, il contratto stellare dell'ex Napoli e le tasse italiane di Thiago Silva. Ecco le pazze condizioni previste negli ingaggi dei calciatori svelate dai documenti dell'inchiesta internazionale, scrivono Vittorio Malagutti e Stefano Vergine il 6 dicembre 2016 su "L'Espresso".
Ezequiel Lavezzi, attaccante dell'Hebei. Uno stipendio da 57 dollari al minuto. Che l'ex attaccante del Napoli avesse scelto di andare in Cina per il lauto stipendio offertogli era cosa nota. Non si sapeva però a quanto ammontasse esattamente il salario del Pocho. Le ipotesi variavano tra gli 8 e i 15 milioni di euro circa. Il contratto ufficiale dice invece che la squadra dell'Hebei China Fortune gli dà molto di più: 56,7 milioni di dollari per 23 mesi. Significa 2,4 milioni di dollari al mese, 82.166 dollari al giorno, 3.423 dollari all'ora, 57 dollari al minuto. Soldi che l'argentino si fa pagare su un conto lussemburghese aperto presso una filiale Unicredit. Tra i benefit più particolari: due case completamente ammobiliate, due auto, un cuoco e un autista.
Hugo Lloris, portiere del Tottenham. Bonus in caso di sconfitta: 3.500 £ a partita. Come molti contratti, anche quello firmato nel 2012 dal portiere del Tottenham prevede dei premi. L'aspetto particolare è che il giocatore francese guadagna anche se la sua squadra perde. Già: se fa parte dell'undici titolare, Lloris incassa infatti 7.000 sterline, oltre 8.000 euro, in caso di vittoria degli Hotspurs, mentre in caso di pareggio o sconfitta si deve accontentare di 3.500 sterline, pari a circa 4.000 euro. Una ricca consolazione.
Thibaut Courtois, portiere del Chelsea. Sei milioni per giocare contro la sua ex squadra. Nella stagione 2013-2014, il portiere del Chelsea è in prestito all'Atletico Madrid. Nel contratto si afferma che, se le due squadre si scontrano in qualsiasi competizione europea, di fatto la Champions League, Courtois non giocherà contro il Chelsea a meno che l'Atletico abbia pagato il club londinese prima della partita. Il tariffario è il seguente: 500mila euro per una gara del girone, 2 milioni per un quarto di finale, 3 milioni per la semifinale, 4 milioni per la finale. Le due squadre in effetti si scontrano in semifinale. L'Atletico ha davvero pagato i 3 milioni previsti? No, perché qualche giorno prima del match la Uefa arriva in soccorso degli spagnoli. Dichiara la clausola «nulla e inapplicabile». Il Chelsea incassa. Anche sul campo, da cui esce sconfitto. Dopo la partita di ritorno, il tecnico dei Blues dichiarerà che Courtois è stato «in gran parte responsabile» della sconfitta del Chelsea grazie a una «parata impossibile».
Thiago Silva, difensore del Paris Saint-Germain. Il Paris Saint-Germain gli paga pure le tasse italiane. E compensa le perdite con la Nike. Quando compra un campione, la squadra controllata dalla famiglia reale del Qatar non bada a spese. Al brasiliano Thiago Silva, arrivato nel 2012 dal Milan, il Psg offre di base uno stipendio da 8 milioni di euro all'anno, cui si aggiungono svariati premi e benefit. Ma non è finita qui. Il Psg si è anche impegnato a pagare i 2,5 milioni di tasse che Thiago Silva deve versare in Italia. E a compensare i mancati introiti con la Nike, il suo sponsor: il marchio americano, come diversi altri, paga infatti i giocatori in base al livello della squadra in cui militano, e un calciatore che gioca nel Milan incassa (o così almeno funzionava all'epoca del contratto di Thiago Silva, il 2012) più di quello che può ricavare un giocatore del Psg. Anche l'agente di Thiago Silva, Paulo Tonietto, se l'è cavata bene: se il giocatore decide di prolungare il suo contratto, Tonietto guadagna una commissione di 2 milioni di euro, oltre ai 3,5 milioni garantiti al momento della firma del contratto.
Mario Balotelli, attaccante del Nizza. Un milione di sterline per non sputare sugli avversari. Prima di andare al Nizza, Balotelli ha cercato di rilanciare la sua carriera con il Liverpool. I Reds avevano investito parecchio su Supermario: stipendio da 85mila sterline a settimana, 150mila di bonus ogni cinque partite giocate, 5mila per ogni gol segnato, mezzo milione di euro nel caso in cui Balotelli avesse terminato il campionato da capocannoniere. Ancora più allettanti le clausole comportamentali previste per l'attaccante italiano, notoriamente poco disciplinato. Il Liverpool aveva previsto un bonus da 1 milione di sterline in caso di buon comportamento. Tradotto in pratica: non venire espulso più di tre volte per comportamenti violenti, non sputare su un giocatore o qualsiasi altra persona, non usare un linguaggio o gesti offensivi.
Matija Nastasic, difensore dello Schalke 04. Niente scarpe Adidas solo se dimostra che fanno male alla sua salute. Il difensore serbo Schalke 04 ha il dovere di indossare scarpe Adidas. Il contratto, firmato nel 2015, prevede infatti che per essere autorizzato ad usare altre scarpe da calcio, il giocatore deve dimostrare di non poter calzare Adidas per ragioni mediche.
Thomas Vermaelen, difensore della Roma. Deve imparare il catalano. Il belga Thomas Vermaelen è un giocatore di proprietà del Barcellona, dove ha giocato dal 2014 al 2016, prima di arrivare alla Roma in prestito. Nel suo contratto con il blaugrana si invita il calciatore «a fare ogni possibile sforzo per integrarsi nella società catalana, rispettare e fare propri i valori della stessa, e impegnarsi soprattutto ad imparare la lingua catalana, veicolo fondamentale di integrazione». Ma c'è un'altra clausola nel contratto del difensore centrale ancora più strana: un bonus di 100.000 euro all'anno elargito affinché «l'allenatore possa farlo giocare nella posizione che può favorire maggiormente la squadra, inserirlo o meno nell'undici titolare e usarlo o meno in ogni altra attività sportiva».
Rafael Van der Vaart, trequartista del Midtjylland. Divieto di indossare scarpe rosse. Il centrocampista olandese Rafael Van der Vaart, quest'anno in prestito al Midtjylland, nella passata stagione ha vestito la maglia del Betis Siviglia. Nel contratto la società spagnola prevedeva per Van der Vaart il divieto assoluto di usare scarpe da calcio rosse. Il motivo non è scritto, ma il rosso è il colore dei cugini del Siviglia. Il fantasista olandese era tenuto anche a finanziare i giocatori del Betis in pensione. La clausola numero 6 del contratto prevedeva infatti che il giocatore "volontariamente" dovesse donare l'1 per cento del suo reddito all'associazione di ex giocatori del club andaluso.
Roberto Firmino, centrocampista del Liverpool. Vietato andare a giocare all'Arsenal. La rivalità fra Arsenal e Liverpool prende forma nel contratto del brasiliano Roberto Firmino. Il centrocampista offensivo si è legato al Liverpool nell'estate del 2015 con un accordo che prevede una clausola rescissoria già altissima: 98milioni di euro. Valida, però, solo «se il club interessato non è l'Arsenal».
Sergio Agüero, attaccante del Manchester City. Quando segna per il City è l'Atletico Madrid a guadagnarci. Difficile per l'Atletico Madrid rinunciare a Sergio Agüero, venduto nel 2011 al Manchester City. Il club spagnolo ha però ancora motivo di gioire, quando l'attaccante argentino gonfia la rete dei Citizens. Grazie a una particolare clausola del contratto firmato con il club inglese, per ogni cinque gol siglati da Agüero con il City, l'Atletico incassa 250mila euro.
Neymar, attaccante del Barcellona 50mila dollari per autografare figurine. Il fuoriclasse brasiliano è tra i giocatori che hanno firmato accordi con Panini, il produttore italiano di figurine. Neymar ha siglato un contratto con la Panini America, società con sede in Texas. Il testo prevede che Neymar incassi 50mila dollari per autografare 600 figurine con il suo volto, il che significa 83,3 dollari per ogni firma. Le stesse condizioni sono state accordate a Cristiano Ronaldo, mentre Xavi si è dovuto accontentare di 40mila dollari. Il mediano catalano può consolarsi pensando che questi guadagni non s'interromperanno una volta appese le scarpette al chiodo. La Panini ha infatti lanciato anche un album sulle vecchie glorie del pallone. Per questa iniziativa il danese Michael Laudrup - che in Italia giocò alla Juventus e alla Lazio e oggi allena il club qatarino dell'Al-Rayyan - ha incassato 12mila euro. Non male per un ex calciatore.
Daniel Agger, ex difensore del Bröndby. Fare pubblicità alle sua società di acque fognarie. Nell'estate del 2014, mentre era ancora capitano della nazionale danese, il difensore Daniel Agger lascia il Liverpool e passa al Brøndby per 3 milioni di euro. «Un accordo storico», per il club danese, che lo descrive come il miglior giocatore mai comprato nel campionato locale. Consapevole di questo, Agger ottiene una clausola molto particolare: ogni volta che il Brøndby gioca in casa, allo stadio deve essere esposto un cartellone pubblicitario della “Kloagger”. Creata l'anno prima dal calciatore insieme al fratello e ad un amico, la società si occupa di gestire le acque reflue nella città di Hvidovre. Il nome "Kloagger" è una crasi di Agger e Kloak, che in danese significa fogna.
"Così funzionano gli affari sporchi del calcio". Le confessioni di un procuratore pentito. Una Spectre globale condiziona il destino dei calciatori e ricicla i soldi della criminalità con il favore dei politici. Solo il calciomercato vale oltre 5 miliardi di euro l'anno. E nel dossier del Gruppo anti riciclaggio del G7 si parla di "traffico di esseri umani che coinvolge anche personaggi legati al mondo del football", scrivono Piero Messina e Maurizio Zoppi su “L’Espresso”. Esiste una Spectre globale nel mondo del calcio, in grado di condizionare il destino dei giocatori e creare immense provviste di denaro in nero, riciclare i soldi della criminalità organizzata e fare favori al mondo politico? Sì, secondo i documenti racconti dal Gaft, il Gruppo anti riciclaggio del G7, che ha lanciato l’allarme sul rischio inquinamento dello sport più seguito al mondo. E’ una ragnatela che ogni anno, soltanto per la compravendita dei calciatori, ha un valore potenziale, senza controlli certi e senza sanzioni, di oltre 5 miliardi e mezzo di dollari, basa la sua operatività su società create ad hoc nei paradisi fiscali, incrementa all’infinito il valore di calciatori anche mediocri e riesce a condizionare decisioni delle magistrature internazionali e del mondo della politica. A livello globale. L'intero sistema opera soprattutto tra l’Europa e il Sudamerica, con profitti “legali” stimati in oltre 264 milioni di euro l’anno (a tanto ammonta il fee indicato dagli advisor della Fifa nei confronti dei procuratori sportivi) e redditi illegali incalcolabili. L’Espresso ha raccolto la testimonianza di un procuratore sportivo, “antenna” operativa di quel sistema globale che rischia di distruggere il calcio, finito nella polvere per un incidente di percorso. E’ un racconto dettagliato, in presa diretta, di come si manipolano e si indirizzano gli immensi capitali che ruotano attorno ai furbetti del palloncino. Andrea (nome in codice per tutelare la fonte) oggi ha i fondi bloccati, dopo che, per un errore banale, il profitto della compravendita di un calciatore sudamericano destinato ad una squadra europea, gli è stato stornato direttamente in bianco sul conto corrente, facendo così scattare le procedure antiriciclaggio per i trasferimenti monetari provenienti dall’estero. Così Andrea ha deciso di raccontare quel che sa. “Ormai tutti si appoggiano a società estere – racconta il procuratore – perché la pressione fiscale italiana è insostenibile per il calciomercato. Esiste una rete di avvocati, anche legati al mondo politico nazionale, in grado di costruire un reticolo di società offshore, dietro cui schermare il giro di denaro che proviene dal calciomercato”. Il meccanismo spiegato dal procuratore sportivo è semplice: “La società che detiene i diritti del calciatore, estera o italiana, riceve dal club che acquista il giocatore i fondi per il trasferimento e ne trattiene una quota. Quindi, di fatto, il giocatore vale meno di quello che i giornali dicono. Perché una parte della torta va ai procuratori e direttori sportivi che acquistano e vendono gli stessi football player. Così, come per magia, quel giro di denaro non può essere sottoposto al fisco italiano”. Le regole sono fatte per non essere rispettate. Così anche le sanzioni comminate dalla Federcalcio ai procuratori dei calciatori che infrangono le regole non sortiscono alcun effetto. Andrea non usa eufemismi: “Una delle nuove frontiere per produrre denaro è acquistare società calcistiche all’estero, in modo da creare un portafoglio buono a riciclare i fondi sporchi. Perché in Italia si dovrebbe continuare ad investire nel calcio? Non è conveniente, e così tutti gli asset si spostano poco a poco all’estero”. Dietro questa fuga di capitali, soprattutto per quel che accade in Sudamerica, spunta l’ombra del crimine organizzato e del narcotraffico, sempre alla ricerca di nuovi canali per ripulire il denaro generato dal malaffare. Le parole di Andrea sono la rivalsa di un professionista che rischia di essere tagliato fuori dal dorato circo del pallone o si basano su riscontri oggettivi? Nel suo racconto confessione, Andrea cita il caso della Vansomatic, società sportiva costituita in Svizzera e partecipata dal guru del calciomercato Pablo Betancourt. La traccia fornita all’Espresso dal procuratore, trova risconto nelle carte giudiziarie che da oltre un anno e mezzo rimbalzano tra Uruguay ed Argentina. La Vansomatic è citata nell’inchiesta sul riciclaggio legato ai sistemi criminali sudamericani, portata avanti dalla magistratura uruguagia e da quella di Buenos Aires. Il dossier, che è stato anche presentato al parlamento argentino da due deputati radicali, Ocana e Garrido, racconta di una connection internazionale che punta direttamente alla Casa Rosada, sede della presidenza argentina. Vansomatic farebbe parte di un gruppo di 148 imprese costituite dalla Helvetica service group, capogruppo con sede nel paradiso fiscale delle Seychelles. L’inchiesta era stata affidata al magistrato Jose Maria Campagnoli, finito sotto accusa per abuso di potere e per avere rischiato di compromettere l’immunità della presidenza argentina. Così, la maxi inchiesta su calciomercato e riciclaggio è ferma, nonostante su quel dossier resti forte la pressione della magistratura di Montevideo. Il rischio di un inquinamento criminale del calciomercato è stato segnalato più volte dagli advisor della Fifa e dal gruppo antiriciclaggio del G7. La parte del leone la fanno i cinque campionati top europei: Inghilterra, Francia, Germania, Italia e Spagna, che da soli valgono più del 70 per cento del mercato mondiale, con un budget di spesa stimato, tra il 2011 e il 2013 di oltre 5,140 miliardi di dollari. Gli agenti e i procuratori sportivi gestiscono la fetta più ricca di questo business, controllando trasferimenti per 1.74 miliardi di dollari. Quasi 600 milioni di dollari partono in direzione dei club sudamericani e il 14,6 per cento della cifra complessiva gestita dai procuratori sportivi, pari a 254 milioni di dollari, finisce direttamente nelle loro tasche. Ma il margine, secondo gli investigatori anticrimine, sarebbe molto più alto. Che fine faccia quella mole di denaro è spiegato a chiare lettere nel documento del Gruppo antiriciclaggio del G7, che ha indicato proprio nel mondo del calcio una delle nuove terre di conquista del crimine mondiale. Per gli esperti del Gaft, il calcio è un settore attrattivo per la criminalità organizzata ed è vulnerabile alla penetrazione criminale, a causa della sua struttura, dei suoi sistemi di finanziamento ed alla cultura diffusa in questo settore. Non c’è limite alla fantasia del riciclaggio legato al football e spesso, secondo l’analisi degli investigatori, il flusso di denaro generato dal calciomercato finisce in un calderone dove confluisce il denaro nero di altri sistemi criminali, dalla corruzione al narcotraffico. Così, quella mole enorme di flussi transfrontalieri di denaro legati al calcio sfuggono al controllo. Allo stesso tempo, le somme di denaro provenienti da investitori privati stanno entrando in massa nei bilanci dei club calcistici per tenerli in piedi. I reati commessi vanno dal riciclaggio all’evasione e alla frode fiscale: si tratta di grandi quantità di denaro di cui è difficile verificare la destinazione finale. Su tutto, la sopravvalutazione di un giocatore che corrisponde ad una tecnica di lavaggio simile al sovrapprezzo di beni e servizi. Secondo le autorità internazionali, i “rappresentanti dei calciatori” sono spesso al centro di queste operazioni illecite, perché non ci sono limitazioni al ruolo dei rappresentanti che gestiscono i giocatori, anche tramite la creazione di fondi. Ma non solo di riciclaggio si nutre la voracità del mondo del pallone. Negli ultimi anni, secondo il rapporto consegnato al G7, dietro al trasferimento di giovani calciatori provenienti dall’Africa e dall’Asia si celerebbe una rete di trafficanti di esseri umani. Nel dossier del Gruppo antiriciclaggio c’è scritto a chiare lettere che esistono “ diversi casi relazionati al traffico di esseri umani in cui sono coinvolti personaggi direttamente o indirettamente legati al mondo del calcio”. Un traffico che, secondo il documento “coinvolge giocatori di età minore ed è iniziato alla fine degli anni novanta” ed ora, oltre a colpire il continente africano “sta abbracciando anche paesi dell’Europa orientale e dell’Asia”.
GLI AFFARI SPORCHI DEL TENNIS.
Scommesse, dopo il calcio tocca al tennis: sotto inchiesta le gare di Bracciali e Starace. Secondo gli inquirenti le gare venivano chiamate "creme" e un solo set poteva valere fino a 50mila euro. Al centro delle indagini anche chat su Skype, scrive Il Fatto Quotidiano. Spuntano anche i nomi di Daniele Bracciali e Potito Starace nel “caso tennis” nato dall’inchiesta sul calcioscommesse. Al centro di puntate non regolari, secondo la Procura di Cremona, non c’erano solo le partite di calcio, ma anche incontri sulla terra battuta e non solo e che in codice avevano il nome di “creme”. In Italia si parlava di 50mila euro non per una intera partita, ma per un solo set. Le chat di Skype e gli sms affiorati dai dispositivi informatici di alcuni dei 111 indagati hanno svelato un fronte nuovo e hanno allungato ombre su atleti anche azzurri, come appunto Bracciali e Starace. Uno scommettitore molto attivo è il bolognese Manlio Bruni, ex commercialista di Beppe Signori, uno degli arrestati della prima ora (finì ai domiciliari nel giugno 2011). Bruni era interessato a fare soldi non solo con il pallone, ma anche con il tennis. Era il 9 luglio 2007. Bruni chattava con ‘braccio78′, cioè Bracciali. Era la vigilia del match del tennista italiano contro Jenkis a Newport. A presentarli fu tale Goret: “Sono con quel mio amico di cui ti parlavo, stai tranquillo, ti puoi fidare, adesso parla lui”. Bruni nelle intercettazioni dice: “Domani a che ora giochi? Primo incontro? Possiamo parlarne di questa partita”. “Dipende” scrive Bracciali. Bruni entra nei dettagli della scommessa: “Per me dipende da come si sviluppa, è importantissimo vincere il primo set e se possibile andare un break avanti nel secondo. E’ possibile in questo caso posso dare molto di più». Il tennista esita: “Se lo conoscevo avrei potuto farlo, così non posso”. Bruni: “Perché troppo scarso?”. “Così mi hanno detto, non lo conosco”. Si parla di cifre. ‘Braccio 78′: “Di solito ci offrono 50 (50mila euro?) poi dipende comunque domani preferisco giocarla, magari per una prossima volta”. Bruni non molla: “Guarda 50 potrei farcela per prova per domani ma è indispensabile vincere il primo se non anche un’altra volta se lo so per tempo possiamo dare di più”. Il tennista risponde: “Molto importante è che quello che ci gioco lo conosca così ci parlo prima perché anche dirti che vinco il primo non è facile“. La trattativa prosegue. Bruni: “Se lo vinci siamo a posto e 50 per te… 50 per un set mi sembra buono”. Ma il tennista non se la sente e risponde che per questo giro giocherà “normale”. Novembre 2007, ‘braccio78′ si mostra preoccupato con Bruni, perché è uscita la notizia della squalifica a 9 mesi di sospensione con una multa di 40mila euro del siciliano Alessio Di Mauro, il primo tennista italiano a subire il provvedimento per aver scommesso. “Ora tocca a noi, mi rompono le p… per 370 euro… è 2 anni e 9 mesi che non gioco più mezzo euro”. “Ti hanno interrogato?”, chiede Bruni. “Ancora no”. Bruni: “Ormai una cavia l’hanno presa”. Bracciali: “Mi hanno già chiamato. La mia situazione è 40 volte meno quella di Di Mauro che ha giocato 7.000 fino a un mese fa”. E Bruni: “I veri ladroni non li prendono”. Bracciali sarà squalificato tre mesi e multato 20mila dollari. Infine i dubbi su Starace. La chat di Skype incriminata è del 10 aprile 2011, a poche ore dall’inizio della finale del torneo di Casalblanca che Starace gioca (e perde in 2 set: 6-1, 6-2) contro Andujar. Con lo spagnolo fino a quel momento aveva un bilancio di 5 successi e 0 sconfitte. Erodiani, l’allibratore di Pescara, parla con tale Corradino (nickname: soldatomercemnario11). “Starace ha fatto un assegno in garanzia?????”. “Sì”. E Corradino spiega che la puntata sulla sconfitta dell’italiano è certa.
Tennis, le intercettazioni. Bracciali: “Di solito ci offrono 50...”, scrive Davide Romani su “La Gazzetta dello sport”. Le chat intercettate dalla procura di Cremona con Bruni e Goretti. Braccio 78: “Molto importante è che conosca quello con cui gioco, così ci parlo prima. Altrimenti anche dire che vinco il primo set non è facile, magari lo perdo”. Nel luglio 2007, in una conversazione su Skype, Manlio Bruni e Roberto Goretti provano a convincere Daniele Bracciali a combinare una partita a Newport.
BRUNI: Come stai?
BRACCIO78: Benone; poco allenato ma l’altro è negato.
BR.: Meglio, possiamo parlarne di questa partita? Per me dipende da come si sviluppa, è importantissimo vincere il primo set e se possibile andare un break avanti nel secondo... E’ possibile? In questo caso posso dare molto di più; garantisce goret per tutti.
BR.78: Lo so... però con questo non posso farlo perché tira una brutta aria; punti su betfair?
BR.: Facciamo dei numeri? Per non rischiare mi basta il primo set.
BR.78: Se lo conoscevo avrei potuto farlo; così non posso. (...)
BR.: Parlami di cifre tu se puoi.
BR.78: Di solito ci offrono 50 poi dipende cmq domani preferisco giocarla; magari per una prossima volta se ne può parlare.
BR.: Guarda, 50 potrei farcela per prova per domani ma è indispensabile vincere il primo se no anche un altra volta se lo so per tempo possiamo dare di più. (...)
BR.78: Molto importante è che quello che ci gioco lo conosca così ci parlo prima perché anche dirti che vinco il primo non è facile magari lo perdo.
BR.: Lo so ma tu prova a vincerlo se poi lo perdi e perdi in due non se fa niente e tutti pari.
BR.78: Oggi Volandri e Luzzi hanno fatto di sicuro così.
BR.: Se lo vinci siamo a posto e 50 per te; 50 per un set mi sembra buono.
BR.78:Non male, però a sto giro gioco normale poi magari perdo lo stesso com’è successo in passato; quando torno a casa magari ci troviamo.
BR.: Ok. Facciamo un’altra volta? Quando hai bisogno parla con goret e lo facciamo........non lo spara nessuno e sei tranquillo...(a Newport Bracciali perde al 1° turno con lo statunitense Jenkins 6-2 6-1, ndr).
BOLELLI — A settembre del 2007 Bruni e Goretti pianificano l’avvicinamento a Bolelli tramite Bracciali.
GORETTI: il 7 ottobre Braccio fa il campionato italiano e cerchiamo di acquistare Bolelli. Il suo nick su skype è simobole o bolesimo.(...)
G.: quando torna Braccio da Rennes vorrei prenderli insieme.
BRUNI: sì, bravo, fargli capire che,paradossalmente, adesso sarebbe il momento migliore.
ANCHE SEPPI — Nell’ottobre dello stesso anno Bruni e Goretti si confrontano sulla possibilità che Bracciali possa convincere Bolelli e Seppi ad «aggiustare» match.
BRUNI: Ci hai parlato? (si riferisce a Bracciali, ndr).
GORETTI: È partito oggi per Parma; domani gioca lì per il campionato italiano.
B.: E lunedì va in Francia? Gioca con Bolelli?
G.:Lunedì va a Rennes... non sa ancora chi sono i suoi compagni oggi ma inizia il lavoro.
B.: Con bole (Bolelli, ndr)?
G.: Vuole provare lui e Seppi.
B.: Importante e vedersi prima di fine anno con poto (Starace, ndr) per tranquillizzarlo che se lo facciamo non se ne accorgerebbe nessuno.
G.: Vorrei farlo la prossima settimana.
Starace c’è — A dicembre sempre Bracciali informa Bruni sul fatto che ha trovato un accordo con Starace.
BRACCIO78: Ci sei? Parlato con poto, tutto ok.
BRUNI:Grandeeeeeeeeeeeee.
BR.78: Anche lui squalifica dal 1 gennaio, quindi abbiamo tempo.
BR.:Mi raccomando stasera lavora bene cioè dal 1 gennaio fino a quando.
BR.78: 6 settimane.
BR.: Lui e tu?
BR.78: Pronto per Sud America.
BR.: Beneeeeeeeee.
BR.78: 3 mesi.
BR.: E tu?
BR.78: Dal 1 gennaio.
BR.: Quindi ti operi subito?
BR.78: Primi di gennaio.
BR.:Ho preso 3 schede e tre telefoni...quindi parla con Mara che poi ci incontriamo.
BR.78: Sì, la vedo domani sera.
BR.:Bene.....ci sentiamo venerdì che mi dici.
BR.:Buon lavoro.
BR.78: Ok.
BR.: Braccialone n.1...
Tennis e scommesse: la vergogna e l'occasione. Da Cremona spuntano intercettazioni imbarazzanti ma che potrebbero essere anche un bene, scrive Andrea Soglio su “Panorama”. Premessa: prima di arrivare a conclusioni affrettate come sempre, anche in questo caso, vale la presunzione di innocenza. Quindi guai a dire che Bracciali, Starace e gli altri tennisti finiti nell'inchiesta sulle scommesse della Procura di Cremona siano colpevoli. Restano innocenti fino a prova contraria. E' però un fatto che leggendo le intercettazioni non si può non provare un senso di rabbia e vergogna; parliamo infatti di esponenti di primo piano del nostro a dir poco malandato tennis maschile. Immaginiamo oggi l'imbarazzo in Federazione, per quello che conta perché in realtà il tennis è uno sport "singolo", personale. Si gioca, si vince, si perde (e si guadagna) per se stessi (la Coppa Davis è cosa a parte e troppo spesso proprio per questo snobbata dagli stessi big che preferiscono riposare). Forse però non tutto il male viene per nuocere. Forse se questa brutta storia fosse confermata dal proseguo dell'inchiesta, si potrebbe trasformarla in una ghiotta "occasione". Si, l'occasione per ripartire da zero, l'occasione per la Federazione Italiana Tennis di partire con un progetto nuovo per cercare di far crescere questo sport in tutti i sensi. Magari entrando dalle scuole, o collaborando in maniera stretta con i comuni che troppo spesso affidano la gestione delle strutture pubbliche a persone non all'altezza; o cercando di far qualcosa affinché il tennis non sia visto come uno sport di "ricchi" dai corsi a costi esorbitanti rispetto ad altri sport (ovviamente più popolari). E poi ripensando anche al fatto che forse sarebbe ora di affidarci ai campi veloci (cemento o altro, molto meno costosi della tradizionale terra battuta, tanto bella ma ormai ridotta nel calendario Atp a superficie di secondo piano se è vero che sul rosso si disputano solo uno slam su 4 e 3 tornei Atp Masters 1000 su 9). Qualcosa va fatto, ed anche in fretta. Perchè la situazione del tennis maschile italiano è la seguente: l'ultimo titolo dello Slam vinto risale ancora ad Adriano Panatta, Roland Garros, 1976. Si giocava ancora con le racchette di legno e le tv erano per la maggioranza in bianco e nero. Attualmente il nostro miglior giocatore è Fabio Fognini, più noto nel circuito per le sue sceneggiate in campo che per i successi (quest'anno ha un terzo turno come miglior risultato negli slam ed un quarto di finale a Cincinnati nei 1000, e la vittoria a Vina del Mar). Il fondo, in parole povere, è stato toccato. O si torna a galla, o si muore soffocati.
Scommesse, soldi e combine nel tennis: nel mirino Bracciali e Starace. La Procura di Cremona indaga su alcune conversazioni via Skype: "50mila euro bastano per un set", scrive “TGcom24”. La bufera era nell'aria, ma ora ci sono le prove e dall'inchiesta della Procura di Cremona sul calcioscommesse emergono particolari inquietanti anche sulle puntate sulle partite di tennis. Nel dettaglio, nei pc, tablet e cellulari degli oltre cento indagati sono state trovare conversazioni inequivocabili che coinvolgono alcuni tra i nomi più noti del tennis italiano (Bracciali e Starace su tutti) e che aprono un nuovo fronte delle combine sulle scommesse sportive. Il materiale sequestrato dagli inquirenti è enorme e ci vorrà del tempo per chiarire tutti i dettagli. Nel frattempo però alcune conversazioni, sms e telefonate cominciano a trapelare e si tratta di trascrizioni shock. Secondo quanto riporta la Gazzetta dello Sport, che ha visionato parte della documentazione, ci sarebbero le prove di molte combine e truffe. Un vaso di Pandora che rischia di far crollare il mondo del tennis italiano e che punta il dito contro alcuni dei volti più noti tra gli azzurri. L'inchiesta si dipana attorno al clan del bolognesi composto da Francesco Giannone e Manlio Bruni, il commercialista di Beppe Signori. Ma non solo. Nel mirino del pm Martino sono finiti anche Francesco Bazzani, Roberto Goretti, attuale ds del Perugia, e Daniele Bracciali. Stando alle conversazioni anche via Skype, è Goretti a gestire un po' tutto e a riferire a Bruni su quali partite di tennis puntare. "Il calcio è rischioso - spiega in un'intercettazione -. Il tennis regala soldi a tutti". Insieme vanno a caccia di atleti per combinare i match e offrono soldi per ottenere un risultato preciso su cui scommettere. Per truccare un set la tariffa è di 50-60mila euro. E dalle carte Bracciali sembra uno dei tennisti coinvolti. Ascolta le proposte, a volte rifiuta, altre accetta. Ma soprattutto tira spesso in ballo altri colleghi quali Starace, Seppi, Volandri e Bolelli (che avrebbe anche incontrato Bruni). Chiaro il meccanismo alla base delle combine spiegato da Bracciali nelle conversazioni finite sul tavolo del Gip Salvini. Basta perdere, oppure mettersi d'accordo con l'avversario per uscire dal campo con un risultato esatto (lo stesso su cui gli scommettitori puntano a SIngapore, vincendo cifre a sei zeri). Un meccanismo che getta ombre lunghe sui match giocati dagli azzurri e che ora rischia di far tremare il mondo del tennis mondiale. Oltre agli azzurri, nelle chat di Bracciali, sono citati anche giocatori stranieri di vertice. Un quadro desolante, che racconta di accordi nel tunnel prima di entrare in campo e di una marea di soldi. Era il 9 luglio 2007. Bruni chattava con braccio78, il tennista Daniele Bracciali. Era la vigilia del match del tennista italiano contro Jenkis a Newport. A presentarli fu tale Goret: "Sono con quel mio amico di cui ti parlavo, stai tranquillo, ti puoi fidare, adesso parla lui". Bruni nelle intercettazioni dice: "Domani a che ora giochi? Primo incontro? Possiamo parlarne di questa partita". "Dipende" scrive Bracciali. Bruni entra nei dettagli della scommessa: "Per me dipende da come si sviluppa, è importantissimo vincere il primo set e se possibile andare un break avanti nel secondo. E' possibile in questo caso posso dare molto di piu'". Il tennista esita: "Se lo conoscevo avrei potuto farlo, così non posso". Bruni: "Perchè troppo scarso?". Bracciali: "Così mi hanno detto, non lo conosco". Si parla di cifre. Braccio 78: "Di solito ci offrono 50 (50mila euro?) poi dipende comunque domani preferisco giocarla, magari per una prossima volta". Bruni non molla: "Guarda 50 potrei farcela per prova per domani ma è indispensabile vincere il primo se non anche un'altra volta se lo so per tempo possiamo dare di più". Il tennista risponde: "Molto importante è che quello che ci gioco lo conosca così ci parlo prima perchè anche dirti che vinco il primo non è facile". La trattativa prosegue. Bruni: "Se lo vinci siamo a posto e 50 per te... 50 per un set mi sembra buono". Ma il tennista non se la sente e risponde che per questo giro giocherà "normale". Novembre 2007, 'braccio78' si mostra preoccupato con Bruni, perchè è uscita la notizia della squalifica a 9 mesi di sospensione con una multa di 40mila euro del siciliano Alessio Di Mauro, il primo tennista italiano a subire il provvedimento per aver scommesso. "Ora tocca a noi, mi rompono le p... per 370 euro... e' 2 anni e 9 mesi che non gioco più mezzo euro". "Ti hanno interrogato?", chiede Bruni. "Ancora no". Bruni: "Ormai una cavia l'hanno presa". Bracciali: "Mi hanno già chiamato. La mia situazione è 40 volte meno quella di Di Mauro che ha giocato 7.000 fino a un mese fa". E Bruni: "I veri ladroni non li prendono". Bracciali sarà squalificato tre mesi e multato 20mila dollari. La chat di Skype incriminata è del 10 aprile 2011, a poche ore dall'inizio della finale del torneo di Casalblanca che Starace gioca (e perde in 2 set: 6-1, 6-2) contro Andujar. Con lo spagnolo fino a quel momento aveva un bilancio di 5 successi e 0 sconfitte. Erodiani, l'allibratore di Pescara, parla con tale Corradino (nickname: soldatomercemnario11). "Starace ha fatto un assegno in garanzia?????". "Si'". E Corradino spiega che la puntata sulla sconfitta dell'italiano è certa.
Bufera sul tennis. Ma Murray l’aveva detto, scrive Alessandro Nizegorodcew su “Tempi”. Tennisti italiani nella bufera. Conversazioni Skype intercettate dal Tribunale di Cremona mettono in luce l’ambigua posizione di Daniele Bracciali (ex numero 49 Atp). Ci sarebbe stato un contatto tra il toscano e Manlio Bruni, ex commercialista di Beppe Signori già finito ai domiciliari nell’inchiesta del 2011. I due si sarebbero messi in contatto tramite la mediazione di tale «Goret» (Roberto Goretti, attuale ds del Perugia) alla vigilia di un match di Newport del 2007 (incontro alla fine non «combinato»). Anche la posizione di Potito Starace, accusato di aver «venduto» la finale di Casablanca contro Andujar, non appare limpida ma non vi è alcuna intercettazione che lo riguardi direttamente. Così come per Bolelli e Seppi, che Bruni e Goretti avrebbero cercato di «reclutare» con l’aiuto di Bracciali.
I precedenti. Non è la prima volta che i tennisti italiani finiscono nell’occhio del ciclone. Nel 2007, infatti, Alessio Di Mauro, il compianto Federico Luzzi, Giorgio Galimberti e gli stessi Bracciali e Starace erano stati squalificati per aver scommesso su incontri di tennis. Negli ultimi anni sono stata bannati a vita dal circuito l’austriaco Koellerer e il serbo Savic, mentre è di pochi mesi fa la squalifica del russo Kumantsov. Neanche a dirlo, tutti pesci piccoli. Per contrastare il fenomeno il circuito professionistico ha messo in piedi l’Atp Integrity Unit, che negli anni è stata affiancata da esperti del settore sino all’accordo raggiunto con Betfair.com, il più importante sito di scambio-scommesse al mondo, che vigila sulle oscillazioni di quote e mette in allarme nel caso di anomalie.
Come si «trucca» un match. «Molti match sono truccati, non solo, tutti sanno che è così. E non è neanche così difficile: bastano un paio di doppi falli al momento giusto, chi se ne accorge?». Testo e musica di Andy Murray, anno 2007. Quando si scommette si possono scegliere varie situazioni come il set betting, il game in cui si realizza il break, il numero di giochi disputati nel match. Se due giocatori si accordano il più è fatto.
La reazione della FIT. Per il presidente federale Angelo Binaghi, «se l'inchiesta dovesse confermare quanto sembra trasparire dalle intercettazioni si tratterebbe di illeciti gravissimi e intollerabili anche se, a differenza del calcio, commessi in eventi internazionali, dunque non gestiti da noi. Visto il danno d'immagine arrecato al tennis italiano, la Fit si dichiara fin d'ora parte lesa dagli eventuali reati commessi sia da propri tesserati sia da terze persone».
«O perdo in due set o mi ritiro». Le scommesse del tennis italiano. Bracciali intercettato sulle combine. L’indagato Bruni: «Acquistato Starace», scrive Arianna Ravelli su “Il Corriere della Sera”. La «crema» c’è anche nel tennis. Decisamente appetitosa. Quando il calcio latita («soccer until april no creme», dice a un certo punto Manlio Bruni, commercialista già indagato, a Thomas Nyghan, ex tennista svedese, i suoi occhi e le sue orecchie sui circuiti, che gli risponde: «Big cremas stanno arrivando»), i maghi delle combine si rivolgono ai campi di tennis. Dove trovano la stessa disponibilità che hanno sperimentato nel mondo del pallone. È questa una delle scoperte cui è arrivata la procura di Cremona, quando ha letto il contenuto di circa 200 smartphone e computer degli indagati del Calcioscommesse. Le millanterie non mancheranno e le responsabilità penali sono tutte da provare, ma il quadro che emerge è una gigantesca figura di... crema. Illuminante una conversazione tra Daniele Bracciali, in chat «braccio78», e Manlio Bruni, il commercialista del gruppo dei bolognesi. È il 9 luglio 2007, siamo alla vigilia del match di Bracciali contro Jenkins a Newport. Il tramite tra i due è tale Goret. Comincia Bruni: «È importantissimo vincere il primo set e se possibile andare un break avanti nel secondo». Braccio78 è titubante: «Tira una brutta aria». Bruni: «Ok, ma facendo in live non se ne accorgerebbe nessuno». Braccio78: «Se lo conoscevo (l’avversario, ndr) avrei potuto. Di solito ci offrono 50. Poi dipende, ma domani preferisco giocarla, magari per una prossima volta se ne può parlare». Bruni: «50 potrei farcela ma è indispensabile vincere il primo»; Braccio78: «Molto importante è che quello che ci gioco lo conosco così ci parlo prima»; Bruni: «Tu prova a vincere il primo, se lo perdi e perdi in due non se ne fa niente». Braccio78: «Oggi Volandri ha fatto di sicuro così»; Bruni: «50 per un set mi sembra buono»; Braccio78: «Non male, però a ‘sto giro gioco normale. Se cambio idea ti faccio sapere»; Goret: «Se decidi mandami sms con scritto Viva il re». Bracciali è incerto: «O perdo in due set, o vinco il primo, gioco 1-2 game del secondo e mi ritiro. In questi due casi a quanto si può arrivare?». Bruni: «Tu provi a vincere il primo e poi ti ritiri dopo alcuni games e siamo d’accordo per 50, altrimenti se perdi il primo poi puoi arrivare a vincere la partita e con me non hai nessun impegno». Braccio78: «Al 90% è no. Ma tra un paio d’ore ti mando sms». Bracciali perse in 2 set. L’11 novembre Bracciali è preoccupato: Alessio Di Mauro, un altro tennista, è stato squalificato per aver scommesso. «Visto Di Mauro? Ora tocca a noi. Mi rompono le palle per 370 euro. Galimberti è nella merda. Ha giocato molto e forse anche su suoi match. Volandri... troppi match sospetti». Il 6/12/2007 Bruni parla con tale Enrico Sganzerla. «Abbiamo acquistato Potito». Sganzerla: «Meno male una buona notizia»; B.: «Dice che lo vuole fare. Lunedì torniamo apposta per parlare con lui. Devo portargli tre telefoni e tre schede. Anche uno per Mara» (Santangelo?, ndr). I due poi parlano di altri tennisti italiani. B.: «Bolell è difficile. Pistolesi (il coach, ndr) non vuole. Unico problema è che Mara è ancora mezza rotta. E Poto è a rischio squalifica. Speriamo solo una multa. Comunque ho convinto Braccio a fare quali a Chennai, non si sa mai». Anche Massimo Erodiani, gestore di un’agenzia di scommesse indagato della prima ora, parla di Starace con tale Corradino. Siamo a poche ore dalla finale del torneo di Casablanca 2011 che Starace gioca (e perde in 2 set) contro Andujar, fin lì sempre battuto. «Starace ha fatto un assegno in garanzia?». «Sì. Ho visto i due assegni loro . Mi hanno detto muovi il max perché è fatta, vince ansimar (poi si corregge: Andujar, ndr). Ieri l’hanno fatto con Montanes (sconfitto in semifinale, ndr). Hanno vinto 1,5 milioni di euro, sul live altrettanti» .
FINE CARRIERA NELLO SPORT: NON E’ TUTTO ROSE E FIORI.
Sportivi e depressione di fine carriera. Come “vincere” anche dopo?, scrive Edoardo Ciofi su “Spazio Psicologia”. «Quando smetti non è facile ritrovare un equilibrio, fisico e psicologico. Si passa da tre ore di allenamenti al giorno a zero, o quasi. Si passa dall’adrenalina ogni domenica, ad un’esistenza normale. Sembrerà una sciocchezza, ma credo che uno psicologo, qualcuno che stia vicino a chi smette di giocare sia necessario. Perché è dura». Marisa De Santis (Moglie di Agostino di Bartolomei). Una notizia recente ha sconvolto il mondo dello sport e, in particolare del calcio slovacco e belga: Marek Spilar, ex difensore del Bruges e della nazionale Slovacca si è tolto la vita lanciandosi dalla finestra di un appartamento situato al quinto piano. Questa terribile notizia ci riporta con i ricordi a casi avvenuti anche qui in Italia come quelli di Agostino di Bartolomei, storico capitano della Roma che si è ucciso con un colpo di pistola nel suo appartamento nel 1994, ccome la morte tragica di Marco Pantani, che, dopo un periodo di depressione, si è tolto la vita in un tragico giorno di San Valentino nel 2004 con un overdose di droghe o, infine, come il caso più fortunato di Gianluca Pessotto, ex giocatore e attuale dirigente della Juventus che, nel 2006, ha tentato il suicidio lasciandosi cadere dall’ultimo piano della sede della Juventus ma che, per fortuna, i medici sono riusciti a salvare. Ci sono anche tanti altri casi di atleti che, pur non essendo arrivati a compiere l’atto estremo del suicidio, sono entrati in uno stato di depressione più o meno grave. Cosa succede a questi atleti? Molto spesso si è cercato di dare, a questa depressione che colpisce gli atleti a fine carriera, alcune spiegazioni esterne rispetto allo sport (spiegazioni che a volte hanno purtroppo a che fare con macabre ricerche di scoop giornalistici come tradimenti, dipendenze da droghe, cattive scelte di vita…) ma, in alcuni casi, la spiegazione è proprio dovuta proprio dal fatto di aver concluso la propria carriera agonistica come atleta. Alcune ricerche hanno dimostrato che il 20% degli atleti in attività soffre di depressione, ma che la percentuale sale addirittura al 50% se si considerano anche gli atleti che hanno concluso la propria carriera. E’ di questi giorni un articolo della Gazzetta dello Sport dove, avendo somministrato un sondaggio anonimo ai calciatori di serie A, tra tante altre variabili studiate, si può notare che il 78% dei giocatori ha manifestato durante la sua carriera almeno un sintomo della depressione. La depressione in generale può avere molteplici cause: psicologiche, fisiologiche, sociali, ecc.., quindi non si può cercare una spiegazione univoca che valga per tutti gli atleti colpiti ma, in generale, si può fare un inquadramento delle maggiori cause che possono portare uno sportivo al pieno delle sue energie oppure con una bella carriera agonistica alle spalle ad attraversare uno stato di depressione che, a volte, può spingerlo fino al suicidio. La carriera di uno sportivo agonista ha, in genere, una parabola anomala rispetto a quella normale lavorativa poiché comincia abbastanza presto (in genere verso i 16 anni un atleta comincia ad entrare nell’agonismo) e termina in una fascia d’età (35-40 anni) in cui, solitamente, per qualsiasi altro tipo di lavoro, si è al massimo delle proprie potenzialità. L’atleta si trova quindi a dover reinventare la propria vita e, soprattutto, la propria identità, essendo troppo giovane per “adagiarsi” sugli allori godendosi i frutti della propria carriera (anche facendo un discorso esclusivamente economico, sono pochi gli atleti che potrebbero vivere di rendita con ciò che hanno guadagnato durante la carriera), ma troppo “vecchio” per poter cominciare da zero una qualsiasi carriera lavorativa. Alcuni atleti scelgono di “trasformarsi” in allenatori, dedicandosi a insegnare tutto quello che sanno a giovani atleti, altri di rimanere all’interno dello sport come dirigente o all’interno di federazioni ed enti pubblici che si occupano di promozione dello sport, altri invece cercano di portare avanti progetti di vita completamente differenti che magari hanno coltivato parallelamente alla carriera. Queste persone riescono quindi a modificare la propria identità di atleta in qualcos’altro. Ma in cosa consiste l’identità di atleta? Gli atleti famosi o che sono arrivati a un livello alto all’interno del proprio sport, costruiscono la propria vita attorno a condizioni di vita diverse rispetto alla normalità dei casi lavorativi. Sono infatti sottoposti a:
Spostamenti e trasferimenti continui
Pressioni da parte di Società e sponsor
Giudizi da parte di tifosi e media
che se vengono gestite in maniera equilibrata portano a grandi soddisfazioni personali dovute dai propri successi, dalla notorietà che si acquisisce e, a volte, da guadagni economici elevati. Il fatto di essere conosciuti, tifati o odiati da centinaia, migliaia di persone che seguono il tuo sport, influenza di molto il modellamento della propria identità. La costruzione dell’identità dell’essere umano si costruisce e si modifica all’interno della cornice relazionale della persona, cornice che può essere più o meno ampia estendendosi dall’ambito familiare a quello più propriamente sociale. Il fatto di concludere la propria attività come atleta di alto livello porta quindi a perdere gradualmente la notorietà dovuta dai riflettori del campo e dei media, di doversi adattare a ritmi e orari e diete diverse, di dover cominciare a cercare altre fonti di guadagno, e di dover cominciare a fissare dei propri obiettivi di vita diversi da quelli sportivi porta quindi la persona a distruggere o comunque a trasformare il modo in cui viene conosciuta dagli altri ma anche, e soprattutto al modo in cui conosce sé stesso, dovendo per forza affrontare un periodo di crisi di identità, periodo che per alcune persone, unito ad alcune caratteristiche di fragilità individuale può portare a depressione con diversi livelli di gravità. Come si previene o si combatte questa depressione? Come abbiamo visto prima, reinventare la propria vita e identità è, per un atleta, una scelta ardua che può portarlo a decisioni che possono rivelarsi anche sbagliate. Per esempio, per diventare allenatore, bisogna aver superato bene il distaccamento dall’identità di atleta; è possibile infatti che alcuni di questi ex-sportivi, da allenatori, proiettino le proprie identità e aspettative sui giovani atleti, cercando di vivere, tramite loro, la propria vita agonistica, ormai conclusa. E’ quindi necessario che la persona riesca a superare completamente questa crisi sia per prevenire una depressione, sia per poter cominciare a costruirsi una nuova vita. Uno psicologo, e in particolare uno psicologo dello sport può essere di molto aiuto per queste persone poiché può fornire un valido supporto di consulenza per poter superare la crisi, ma anche per aiutarle a ridefinire i propri obiettivi, sia che essi siano legati al mondo dello sport, sia che non lo siano ma che comunque necessitano di una ridefinizione delle proprie esperienze e conoscenze acquisite tramite lo sport.
Calcio e disperazione: 3 su 5 finiscono sul lastrico. Prendi i soldi e schiatta. Bravi calciatori, pessimi imprenditori: bambini che si ritrovano una fortuna accumulata troppo presto e la sperperano in tempi ancora più rapidi, come a un monòpoli che non perdona e spesso non permette di ripassare dal via. Tre giocatori su cinque della Premier League, la serie A inglese, finiscono sul lastrico entro cinque anni dal ritiro. È la sconvolgente conclusione di uno studio della XPro, associazione che tutela gli ex calciatori professionisti nel Regno Unito. Guadagnano mediamente 35 mila euro alla settimana ma più della metà si ritrova senza un soldo: investimenti ingannevoli, falsi amici, strade balorde e devastanti come droga e alcol, o semplicemente un accumulo di debiti insormontabili con il fisco. I casi più rumorosi e strazianti provengono proprio dall'Inghilterra: da George Best, il Pallone d'oro morto a 59 anni dopo una vita di prodezze ed eccessi, a Paul Gascoigne, l'ex laziale precipitato nel girone di vizi e follia e costretto a chiedere aiuto al sindacato calciatori dopo aver sperperato oltre 26 milioni guadagnati coi suoi straordinari ricami in campo. Se la gloria può diventare la nemica più subdola, anche l'insuccesso sa essere spietato: sempre in Inghilterra un esercito di giocatori da toccata e fuga nella massima serie ? li hanno inventariati, sono 126 ? sono finiti in carcere per reati legati all'indigenza. Quasi tutti (124) sono sotto i 25 anni: non hanno sfondato nel calcio e non disponendo di altre risorse hanno cercato di rifarsi con carriere alternative, legate soprattutto al traffico di stupefacenti dal Sudamerica alla Gran Bretagna. Come l'ex Newcastle Jason Singh, arruolato prima nella polizia e poi diventato capo gang, o come l'ex Everton Liam Maguire, che ha smesso di giocare per un grave infortunio e si è dato all'import massiccio di cannabis. Il problema non toccherà Messi, che arraffa 100 mila euro al giorno e ha ancora una carriera davanti, ma ha coinvolto tanti illustri colleghi incapaci di gestirsi al di fuori dello spogliatoio. Nel 2005 Maradona lanciò un grido d'aiuto: «Dalla notte alla mattina mi sono trovato senza niente, ora devo ricominciare a guadagnare tutto daccapo», prendendosela con «l'ex amico» e procuratore Guillermo Coppola («Se guadagnavo cinque, a lui davo sette»).Chi la fa l'aspetti direbbe Julio Alberto, l'ex del Barcellona che abbandonò la carriera nel 1991 finendo in un mare di debiti e depressione con cinque tentati suicidi, un record. La sua rabbia esplose proprio contro Maradona: «L'ho chiamato venti volte e non mi ha mai risposto. Io l'avevo difeso quando si era rovinato con la coca».Luiz Antonio Da Costa, conosciuto come Müller, campione del mondo col Brasile nel 1994, nelle tre stagioni al Torino si era comprato una reggia e una Ferrari. Si è bevuto tutto e ora chiede ospitalità alla madre del suo ex compagno di squadra Pavao, periferia di San Paolo. In comune Nyers e Skoglund non avevano solo una prolifica militanza nell'Inter anni 50, ma anche un drammatico post carriera. L'ungherese venne colpito da un ictus nel marzo 2005 ma non aveva soldi per curarsi e la pensione dall'Italia non arrivava mai: morì da solo in una clinica di Subotica in Croazia. Skoglund fu ricoverato in una clinica per alcolisti e a 46 anni venne trovato cadavere in casa, ufficialmente per infarto, per qualcuno fu suicidio. Una bussola per gestirsi oltre il campo viene dal basket: Mike Bantom, ex Roma e Torino negli anni 80 e oggi a 62 anni vicepresidente Nba, ha avviato un progetto per seguire l'atleta prima, durante e dopo la sua carriera. Anche nel calcio qualcosa, ancora poco, si muove: l'esempio viene dagli ex giocatori del Verona: nessuno viene lasciato solo anche quando la maglia è solo da memorabilia. Articolo di Pistone Federico, Pagina 51 (06 marzo 2013) - Corriere della Sera.
"Ex calciatori volete avere un futuro? Studiate". L'appello di Nicola Amoruso, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. “I giovani calciatori devono studiare e pensare al loro futuro fuori dal campo. E le società devono aiutarli”. Durante il corso AIC- Ancora in Carriera, organizzato al Centro sportivo di Coverciano dall’Associazione Italiana Calciatori per valorizzare e sviluppare le capacità manageriali degli ex campioni di Seria A, Serie B e Lega Pro, Nicola Amoruso, Responsabile settore giovanile della Reggina Calcio, lancia un appello ai giovani calciatori e alle società. Più che un appello, le parole di Nicola Amoruso appaiono come una denuncia. “Le società da sempre pensano solo al campione, a migliorare le sue prestazione ignorando totalmente l’uomo e la sua preparazione culturale”. La riflessione dell' ex calciatore di Juventus e Atalanta, nasce dopo la pubblicazione dei dati sulla disoccupazione dei giocatori di calcio al termine della loro carriera sportiva: il 61,1 %, non trova un'occupazione. Ma perché? “I Club non hanno ancora compreso che è fondamentale non perdere, a fine carriera, la professionalità che i calciatori acquisiscono sul campo in tanti anni di attività- continua l’ex campione- quelle conoscenze e quelle attitudini che possono e devono essere reinvestite nel settore calcistico o comunque sportivo ”. Amoruso punta il dito sulle società, che continuano ad ignorare le potenzialità manageriali dei loro calciatori, ma anche e soprattutto sui giovanissimi giocatori e le loro famiglie. “I genitori devono far capire ai figli che per essere bravi calciatori, per poter giocare ad altissimi livelli e soprattutto per avere un futuro professionale dopo quello sportivo, occorre anche essere ottimi studenti, capaci e meritevoli. Insomma bravi sui banchi di scuola e anche sul campo. Altrimenti a fine carriera sono troppe le difficoltà da affrontare”. “Sempre più spesso assisto come dirigente del settore giovanile ad allenatori che tentano di far capire ai ragazzi l’importanza dello studio oltre che della preparazione fisica, ma si scontrano con i genitori e con le società”. “Non di rado questi allenatori vengono richiamati dagli stessi club perché i genitori cambiano la società o minacciano di farlo se il proprio figlio viene ripreso dal mister per lo scarso rendimento scolastico”, continua Amoruso. Al termine della carriera sportiva, i giocatori di calcio non riescono a “riciclarsi” nel mondo lavorativo e se riescono a farlo incontrano moltissime difficoltà. Molto spesso dipende proprio da una scarsa preparazione culturale e scolastica. Secondo una ricerca effettuata dallo Studio Ghiretti, società leader nella formazione sportiva, il 50,2 % dei calciatori della stagione ’88-’89 ha conseguito solo la licenza media; il 45,6% un diploma; il 3% ha frequentato l’Isef e solamente 1, 1% si è laureato. E attualmente la situazione non sembra essersi molto modificata. “L’AIC ha in progetto dei campus estivi per calciatori giovanissimi- confida a Panorama.it, Damiano Tommasi, Presidente dell’Associazione Italiana Calciatori- il nostro obiettivo è proprio quello di valorizzare la formazione culturale dei ragazzi. Un esempio? Se un calciatore è carente in matematica, mentre gli altri compagni sono in piscina lui farà lezione di matematica. Così per tutte le altre discipline scolastiche. Insomma, calcio e formazione culturale contemporaneamente. E' questo il nostro obiettivo futuro ”. L’Associazione Italiana Calciatori, per il secondo anno, ha organizzato un corso rivolto agli ex campioni proprio per aiutarli a “riqualificarsi” professionalmente al di fuori del campo di calcio. Quest’anno hanno partecipato 19 giocatori che hanno per alcuni giorni hanno studiato numerose materie: dalla comunicazione al marketing, dall’economia all’analisi dell’ordinamento sportivo e organizzazione eventi.
Cosa fanno in pensione i calciatori. Guadagnano bene, anche se pochi prendono stipendi milionari, vivono in un mondo dorato, ma a 35-40 anni smettono e non tutti possono vivere di rendita. Così devono inventarsi un’esistenza fuori dal campo. Alcuni restano nell’ambiente del calcio. La maggior parte no. Ecco alcune delle loro storie, scrivono Annamaria Mirri e Giuseppe De Bellis su “Panorama”. Il terzo tempo dei calciatori è la seconda vita. Che cosa fanno una volta che hanno smesso? Lasciano il campo a 35, massimo 40 anni: chi sono? Dove vanno? Antonio Cassano che dice «fra 3 anni smetto» riporta al centro la domanda sul post carriera dei giocatori. Zlatan Ibrahimovic che parla di mancanza di stimoli a trent’anni fa lo stesso. I big se lo possono permettere, in fondo: guadagnano così tanto quando sono in attività che sanno di poter vivere di rendita praticamente per tutta la vita. Prendi Bobo Vieri: 14 milioni di buco e il fallimento imprenditoriale in vista. Preoccupato? Non risulta. Sei, 7, 8 anni di carriera in una squadra di Champions possono garantire il futuro. Il problema è che parliamo di una percentuale non bassa, di più: in Italia ci sono 128 società professionistiche e quelle che possono assicurare stipendi da nababbi sono al massimo 15. Vuol dire che c’è una gran quantità di giocatori che vive comunque da privilegiato fino a 35 anni e poi si deve reinventare. La pensione del calciatore è una stagione pressoché infinita: all’età in cui gli altri entrano nel mondo del lavoro loro ne escono. Lasciano e devono decidere: provare la carriera da allenatore, rimanere comunque nel mondo del calcio con altri incarichi (dirigente, procuratore, osservatore), riciclarsi. Accendi la tv e vedi qualcuno di loro, con qualche chilo in più e molti capelli in meno, costantemente impegnato nel bla-bla postpartita. È una strada, certo. Però anche questa per pochi: quanti possono entrare nel circuito televisivo? Dieci, 15, 20. Le entrate degli ultimi anni sono quelle lì, in fondo: Beppe Bergomi, Zvonimir Boban, Luca Marchegiani, Billy Costacurta. Il tema del post non è loro, ovviamente. Ma degli altri, di quelli cioè che ti vengono in mentre quando Cassano annuncia il ritiro e ti fa sorgere la domanda su che cosa facciano i calciatori una volta smesso di giocare. Quelli alla Alberto Fontana, per esempio: portiere di Cesena, Bari, Atalanta, Chievo, Inter, Palermo. Una buona carriera, fatta di soddisfazioni e di qualche delusione. È finita 2 anni fa, a 42 anni: Fontana è tornato a casa, in Romagna, e oggi gestisce un albergo. Il calcio? Oggi non è né una priorità né un secondo lavoro. È un capitolo chiuso, fatto di cimeli, ricordi, foto, coppe a casa e negli sguardi della gente che lo incontra per strada o in hotel. Lo chiamano Jimmy, il nomignolo che usavano i tifosi per identificarlo: «Salta con noi, Jimmy Fontana» cantavano le curve per assonanza e mezza omonimia tra il portiere e il cantante. C’è un altro portiere che ha lasciato per fare altro: Marco Ballotta. È l’uomo del record di anzianità: ha giocato fino a 44 anni. Per capire e per ricordare: prima di lui, il nonno del calcio italiano era stato Dino Zoff. Ecco, Ballotta superò il primato del portiere della Nazionale campione del mondo nel 1982 durante un derby Roma-Lazio. Come a dire: titolare a un’età nella quale gli altri sono già in pensione e soprattutto in campo ad alto livello. Perché a un certo punto la scelta spesso diventa questa: non lascio, ma scendo di categoria. Un modo per continuare ad alimentare la carriera e per continuare a guadagnare qualcosa. Soprattutto una maniera per allungare il più possibile il periodo di uscita dal mondo del lavoro. Ballotta no, ha mollato tardissimo, ma ancora all’apice. Ha mollato senza rimpianti e gioca ancora, ma nei dilettanti e soprattutto in attacco: centravanti del San Cesario, nella prima categoria emiliana. La vita è un’altra, però: proprietario e amministratore della Geosaving srl, una società di Modena che installa impianti di energia geotermica. Imprenditore, sì. Come altri. Come Riccardo Maspero, per esempio. Una carriera da fantasista talentuoso: Cremonese, Sampdoria, Lecce, Vicenza, Torino, Fiorentina. Aveva classe e tocco, anche se il motivo per cui rimarrà nella storia del calcio italiano è un altro: la buca scavata sotto il dischetto del rigore all’ultimo minuto di un derby Torino-Juventus. Lui lì a rovinare il terreno mentre il bianconero Marcelo Salas si avvicinava al dischetto per battere il rigore che avrebbe potuto far vincere la Juve all’ultimo secondo. Risultato: tiro alto grazie al fosso e Maspero per sempre nella memoria del popolo del Toro. Ecco, Riccardo lo farebbe ancora: lui è un pensionato suo malgrado. Avrebbe continuato: «A un certo punto però nessuno mi ha più cercato. Ci speravo e invece niente. Sono stato dimenticato. Allora sono entrato nel mondo del lavoro vero, perché fare il calciatore è un’altra cosa. Ho visto che Ibrahimovic si sente stressato, che Cassano ha annunciato il ritiro... La verità, però, è che abbandonare è difficile. Io personalmente la penso come Totti che ha detto di voler giocare fino a 40 anni». Maspero ha smesso prima. Gioca ancora tra i dilettanti, sì, ma è diverso. Fa l’imprenditore anche lui: la sua azienda, nel Lodigiano, si occupa di sicurezza sul lavoro, in particolare di sistemi anticaduta. Ricky dice chiaramente che «abbandonare è difficile. Te ne rendi conto subito, c’è il contraccolpo economico, c’è che cambia tutto. Ti devi inserire nel mondo e ti devi adattare». Lui l’ha fatto. Altri anche. Però oggi si calcola che solo il 10 per cento dei giocatori professionisti nel giro di 5 anni dalla fine della carriera agonistica trovi uno sbocco professionale interno o esterno al mondo del calcio. A Carlo Nervo, ex ala destra del Bologna con sei presenze in Nazionale, è riuscito il doppio colpo. Imprenditore prima e politico adesso. Fa il sindaco di Solagna, il suo paese in provincia di Vicenza: «Un mandato solo, però. Finisco nel 2014 e basta. Credo che le esperienze si debbano fare una volta sola. Come ho smesso di giocare a calcio senza rimpianti, così lascerò la politica senza ricandidarmi. Tornerò a fare l’imprenditore». Lui, a differenza di Maspero, non ha sofferto. «Ho messo via tutte le medaglie, tutte le magliette, tutti i dvd. Non mi riguardo mai. Parlerò del mio passato da giocatore ai miei figli e ai miei nipoti, ma ora guardo avanti alla mia nuova vita. Io e mia moglie ci svegliamo la mattina alle 5.30, lavoriamo e stiamo insieme. Essere sindaco è un’esperienza unica: solo facendolo ti rendi conto di quanto sia difficile, di quanto soprattutto molti lo facciano per passione». Eccola la parola chiave: passione. Per lui, per gli altri. Per riprendere a vivere dopo avere smesso di giocare bisogna trovare un’altra passione. Come ha fatto Fabio Macellari, ex terzino di Cagliari, Inter, Bologna, una buona carriera con qualche eccesso e qualche «errore», come lo chiama lui adesso. Oggi vive in provincia di Piacenza: allena i ragazzini, gioca fra i dilettanti, poi vive. Fa il taglialegna per diletto e sempre per diletto canta in un gruppo di musica leggera. «Guadagnavo una barca di quattrini, qualcuno l’ho messo da parte nonostante le mani bucate». È felice oggi più di quanto lo fosse negli ultimi anni da professionista: «Domenica vengono i parenti dalla Germania, adesso devo andare su in montagna a prendere coppa e pancetta. Che cosa c’è di meglio?».
"Quasi quasi faccio il caddie". Il buco nero del fine carriera. Il 77 per cento pensa di restare nel giro, ma non c'è posto per tutti. Per ricollocarsi, team manager e opinionista tv le soluzioni migliori, scrive Claudio De Carli su “Il Giornale” Era l'erede di Gigi Meroni. All'inizio si era sparsa la voce che finita la carriera per campare facesse il sagrestano, in realtà ha preso un diploma abilitativo e fa il badante. Dopo cinque stagioni al Torino, ai tempi di Massimo Giacomini addirittura regista, e poi Parma, Avellino e Perugia, Dante Bertoneri ha scoperto l'altra faccia del calcio. Luciano Favero, una champions con la Juve, ha sbagliato tutto: «Ho perso un sacco di soldi. Avevo aperto un'autorivendita, mi ha mangiato tutti i risparmi di una carriera, un miliardo di vecchie lire». Per arrivare a fine mese ha trovato un impiego come caddie, porta le mazze da golf, e spesso gli è capitato di farlo a ex colleghi. Beppe Signori, tre volte capocannoniere e vice campione del mondo, qualche problema l'ha avuto, un giorno ha fatto outing: «Non ho neppure i soldi per la comunione di mio figlio. Ho messo in vendita la casa. Ho chiesto aiuto ai parenti, ho pensato di scappare». Christian Vieri ha visto fallire quasi tutte le aziende in cui aveva una partecipazione, con Christian Brocchi anche un crack finanziario nel settore della ristorazione. Salvatore Schillaci ha dilapidato cifre impensabili in investimenti sbagliati, il divorzio ha fatto il resto. Suo cugino Maurizio, finchè si sono avute tracce, ha fatto il barbone: «Tutti dicevano che ero più forte di lui. Ma non ho avuto la sua fortuna». Cocaina, eroina, matrimonio fallito, depressione: «Quando giocavo avevo tanti amici. Adesso non ho più nessuno». «Sapete come ho scoperto che ero fuori dal calcio? Quando una sera arrivo, medesimo ristorante, e mi dicono che non c'è posto. Prima facevano alzare la gente per farmi mangiare». L'ha detta uno a caso del 61,1 per cento dei calciatori che terminata la carriera sono rimasti senza una occupazione, il dato è stato rilevato dall'Aic attraverso una ricerca su 2.917 giocatori inseriti nelle rose di 128 società professionistiche nei successivi dieci anni. Non siamo alle cifre della Premier, ma il post carriera è un buco nero anche da noi. Mentre guadagnano forte sviluppano stili di vita sopra le righe, consigli sbagliati, e quando se ne accorgono i soldi non ci sono più. Non hanno una soluzione alternativa, i guadagni crollano drasticamente, i debiti riducono all'indigenza. L'ultima indagine dell'Aic è relativa a due stagioni fa, ai giocatori è stato chiesto se avessero iniziato a pensare al loro dopo carriera, il 44,2 per cento ha risposto no. Quando è stato chiesto loro se il pensiero li preoccupava, il 39,5 per cento ha risposto poco o nulla, e quando gli è stato mostrato il dato sulla percentuale ridotta di ex calciatori rimasti nel calcio, il 70 per cento ha risposto che questo non li allarmava. Fabio Poli, direttore organizzativo Aic, ci ha spiegato: «Si sono abbassati gli stipendi, tantissimi sono al minimo contrattuale e forse proprio per questo la situazione è nettamente migliorata rispetto a dieci anni fa. Generalizzare è sempre un rischio, il problema esiste ma qualcuno è entrato in Parlamento, alcuni sono assessori allo sport nelle loro città, altri hanno corso alla carica di sindaco. A distanza di due anni però questi dati restano validi, si è solo alzato il livello culturale. A fine carriera subentra un evidente contraccolpo psicologico. Per la maggioranza dei lavoratori arriva a un'età che coincide con la stanchezza fisica, qui troviamo ragazzi poco più che trentenni, pesante se non si è preparati». La mazzata finale in Premier è la separazione, Fabio Poli, ci spiega: «Non abbiamo fatto ricerche in questa direzione, il dato forse è di poco superiore a quello nazionale, ma chi ce la fa a 20 anni ha un buon stipendio, la vita gli cambia e si sposa presto». L'Aic ha istituito dei corsi formativi post carriera, quattro anni fa 40 iscritti, oggi sono 120: «Sono master per avvicinarli al mondo del lavoro, anche extracalcistico. La maggioranza sogna di allenare, il 98 per cento ha un patentino ma il 61 per cento è disoccupato. Si sono aperte nuove strade, il calciatore affina la capacità di stare in una struttura gerarchica, l'inserimento come team manager è il più naturale, finito il tempo dei presidenti che ci mettevano i familiari. Sono in aumento, 2 per cento, gli opinionisti tv». Qui i contratti sono da 30mila euro a stagione più gettoni di 1.500 euro a commento. Ma nelle tv locali molti ci vanno senza compenso, per restare nel giro, per far sapere che esistono ancora. O solo per trovare un posto al ristorante.
Il problema, però, non è per tutti.
Perché l’Italia ha atleti militari? E quanti sono? Qualche dato e un po' di storia su una nostra vecchia tradizione, scrive “Il Post”. Durante le Olimpiadi, è facile notare dalle telecronache che molti degli atleti italiani fanno parte delle forze armate o dei corpi di polizia. Si tratta di una caratteristica dello sport italiano: oltre ai professionisti in alcuni degli sport più diffusi – tennis, calcio, basket, pallavolo – gran parte degli atleti che gareggiano nelle altre discipline si allena e riceve uno stipendio grazie all’Esercito, alla Polizia, alla Guardia di Finanza, eccetera. È una tradizione molto antica e tipica dell’Italia ed è, nei fatti, un sostegno diretto dello Stato alle attività sportive, che ha una storia molto lunga e caratteristiche molto particolari. A volte questa tradizione è stata criticata, con l’argomento che lo Stato non dovrebbe fornire uno stipendio unicamente per praticare un’attività sportiva: agli atleti coinvolti è stato allora dato il nome, dalla connotazione negativa, di “atleti di Stato”, richiamando i gruppi sportivi attivamente sostenuti dagli stati comunisti durante la Guerra fredda (Unione Sovietica, Germania dell’Est). Altri sostengono invece che senza questo tipo di sostegno negli sport cosiddetti “minori” molti atleti validi incontrerebbero grandi difficoltà nel trovare il tempo di allenarsi e prepararsi degnamente alle competizioni internazionali. Molti corpi hanno una sezione dedicata a Londra 2012 sul loro sito, che aiuta anche a farsi un’idea dei numeri. Gli atleti che gareggiano per l’Italia alle Olimpiadi di Londra 2012 sono complessivamente 290. Di questi, l’Aeronautica Militare ha 29 atleti, la Marina Militare ne ha 9, l’Esercito 25 e i Carabinieri 22. Tra i corpi dello stato, la Polizia ha 31 atleti (che fanno parte delle cosiddette “Fiamme Oro”, dal nome del gruppo sportivo, nel caso lo sentiate in una telecronaca), la Polizia Penitenziaria 18 atleti (“Fiamme Azzurre”), il Corpo Forestale dello Stato altri 18 e i Vigili del Fuoco (“Fiamme Rosse”) ne hanno uno solo. La Guardia di Finanza ne ha ben 41 (del “Gruppo sportivo Fiamme Gialle”). In totale, quindi, 194 atleti su 290, circa due terzi del totale. Più in generale, il numero degli atleti militari e dei corpi dello stato è di alcune centinaia, dato che ovviamente non tutti gli atleti si qualificano alle Olimpiadi, e che altri non si allenano in discipline olimpiche: secondo i dati forniti dall’Ufficio Sport dello Stato Maggiore della Difesa, gli atleti militari tra Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri, a oggi sono circa 590, quasi il 40 per cento dei quali nell’Esercito. Il CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) ha un’apposita sezione del suo sito per i “Gruppi sportivi militari e Corpi dello stato”, che contiene però solamente qualche recapito degli organismi responsabili delle diverse forze armate. I “gruppi sportivi militari” sono quelli formati da atleti – detti “atleti militari” – che provengono da Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri. Oltre a questi, ci sono atleti che fanno parte di corpi dello stato che non dipendono dal ministero della Difesa, ovvero Guardia di Finanza, Polizia di Stato, Polizia Penitenziaria, Corpo Forestale dello Stato e Vigili del Fuoco. Per comodità, li chiameremo di seguito tutti “atleti militari”. Si diventa atleti militari tramite un concorso apposito, che viene bandito periodicamente dalle forze interessate. L’ultimo bando per l’arruolamento di 25 atleti militari nell’esercito è un buon esempio: si accede attraverso un concorso riservato agli atleti tra i 17 e i 35 anni e che hanno già ottenuto “risultati agonistici almeno di livello nazionale certificati dal CONI”. Il contratto, che è quello iniziale più diffuso per gli atleti militari, è come volontari in ferma prefissata quadriennale. Gli atleti militari ricevono un addestramento apposito, che comprende anche le attività militari di base, e si allenano per la maggior parte del tempo nei centri sportivi dei loro corpi di appartenenza, anche se è possibile ottenere il permesso di allenarsi in altre strutture. Hanno grado e stipendio pari a quello di chi è in servizio nelle forze armate. Ogni due anni, gli atleti sono sottoposti a un controllo che rinnova la loro appartenenza ai programmi atletici; se non si hanno i requisiti, si può lasciare il corpo oppure ottenere un altro incarico al suo interno. Alla fine della carriera sportiva o in caso di non idoneità, gran parte degli atleti mantiene l’appartenenza al corpo in cui si è allenato. Alcuni di loro rimangono nel grande circuito dei centri sportivi e nei programmi di allenamento delle forze armate e dei corpi di polizia, ma il numero degli ex atleti è troppo alto e di conseguenza alcuni vanno a svolgere un altro incarico nel corpo di cui fanno parte, al di fuori del settore sportivo. È possibile anche il passaggio da un corpo ad un altro, fatto che pochi mesi fa – quando ci fu qualche passaggio di atleti di primo piano in vista delle Olimpiadi – venne commentato in modo piuttosto critico, e come un fenomeno da arginare, dal generale Rinaldo Sistili, capo ufficio collegamento tra le Forze armate e il CONI. La storia di come mai gli atleti italiani siano così spesso inquadrati nelle forze armate o di polizia è piuttosto complicata, perché varia notevolmente da corpo a corpo ed è per gran parte frutto di una lunga tradizione, che è stata poi regolata con precisione solo negli ultimi decenni: ogni corpo, si può dire, ha una storia a sé. Atleti che facevano parte dell’Esercito italiano, della Marina Militare e della Guardia di Finanza partecipano a competizioni sportive agonistiche fin dalla fine dell’Ottocento, inizialmente organizzati in squadre speciali o in reparti che si dedicavano principalmente all’attività sportiva all’interno di ogni singolo corpo. Nelle prime edizioni delle Olimpiadi c’erano atleti di quei tre corpi: ad esempio alle Olimpiadi del 1908, sempre a Londra, l’Italia vinse una medaglia d’oro con Enrico Porro, nella lotta greco-romana. Porro era un marinaio del cacciatorpediniere Castelfidardo della Regia Marina. Altri corpi hanno iniziato l’impegno sportivo più tardi. Il Corpo forestale, ad esempio, cominciò solo negli anni Cinquanta, mentre la Polizia Penitenziaria ha iniziato a occuparsi di sport agonistico a partire dal 1985. Con il tempo questo impegno sportivo è stato formalizzato con leggi e regolamenti (ad esempio la legge 31 marzo 2000, n.78). Questi hanno riconosciuto la possibilità, per corpi armati e forze di polizia, di arruolare atleti con risultati di livello nazionale, riconoscendo di fatto una situazione che aveva una lunghissima tradizione. Oggi ogni corpo ha una struttura organizzativa che da molti anni si occupa di allenare e selezionare gli atleti: i corpi più impegnati in questa attività, come l’Esercito e la Polizia, hanno molti centri sportivi in tutto il territorio nazionale. L’Esercito, ad esempio, ne ha sei, uno dei quali, nella caserma “Silvano Abba” di Roma, dedicato in modo specifico agli sport olimpici, mentre gli altri sono dedicati agli sport invernali (a Courmayeur), all’equitazione, alla motonautica o agli sport dei Giochi Militari. Il Centro Sportivo dell’Esercito, che gestisce l’insieme delle attività sportive, è stato creato ufficialmente nel 1960. Anche la tradizione di mandare atleti alle Olimpiadi, e i successi che sono stati conseguiti, variano da corpo a corpo, con settori che hanno una lunga tradizione di atleti militari e altri invece coinvolgimenti più recenti. L’Aeronautica Militare ha inviato un suo atleta alle Olimpiadi per la prima volta nel 1988, a Seul, mentre almeno un atleta dei Vigili del Fuoco – fino a un massimo di 14 ai giochi olimpici di Città del Messico nel 1968 – ha partecipato alle Olimpiadi ininterrottamente dall’edizione del 1920 (tra i più celebri, il ginnasta Jury Chechi) a quella di Pechino del 2008, la prima in oltre ottant’anni senza un rappresentante dei suoi gruppi sportivi.
IL MISTERO DI DENIS BERGAMINI.
La morte di Donato Bergamini: per i periti fu «soffocato e coricato sotto il camion». La svolta negli accertamenti sulla morte, risalente al 1989, del calciatore emiliano nel Cosentino è emersa dall’incidente probatorio davanti al gip di Castrovillari nel corso del quale i periti nominati dallo stesso giudice. Inizialmente si ipotizzò il suicidio, scrive il 29 novembre 2017 "Il Corriere della Sera". Il calciatore del Cosenza Donato Bergamini, trovato privo di vita 28 anni fa - era la sera del 18 novembre del 1989 - sull’asfalto della Statale Jonica 106 al chilometro 401, fu «soffocato ed era già morto prima di essere coricato sotto il camion». Quello sotto il quale si sarebbe buttato volontariamente per togliersi la vita, come si ipotizzò all’epoca. Invece non era così. È quanto emerso dall’incidente probatorio davanti al gip di Castrovillari (Cosenza) nel corso del quale i periti nominati dallo stesso giudice hanno depositato ed illustrato il loro lavoro. A riferirlo è stato l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Bergamini. «È stata assolutamente confermata l’ipotesi della morte per asfissia ed i periti hanno detto che era già morto prima di essere coricato sotto il camion», ha detto. «Il risultato è riservato, ma sono molto soddisfatto di quello che hanno fatto i periti» ha detto il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla alla fine dell’udienza per l’incidente probatorio relativo alla superperizia eseguita sulla salma riesumata di Denis Bergamini, il calciatore morto nel novembre di 28 anni fa in situazioni mai chiarite. «Un lavoro egregio, eccellente dal punto di vista scientifico - ha detto Facciolla - e adesso guardiamo avanti». La sorella: «Fatto ciò che si doveva fare 28 anni fa». «Oggi è stato fatto finalmente ciò che doveva essere fatto allora». Soddisfatta e molto provata, la sorella di Denis, Donata, che ha partecipato all’udienza durata 5 ore. «Si tratta di una morte negata per 28 anni - ha detto la sorella del calciatore del Cosenza, Bergamini - ma sono soddisfatta per il lavoro dei periti e per le spiegazioni che hanno dato. La prima verità è arrivata, perché mio fratello l’hanno soffocato - ha aggiunto Donata Bergamini - e adesso aspettiamo le altre».
La posizione dei due indagati. Alla luce dei risultati della perizia, sembra aggravarsi la posizione dei due indagati dell’inchiesta ter sulla morte del calciatore, l’ex fidanzata dell’epoca Isabella Internò - che era con Denis la sera della sua morte - e l’autista del camion, Raffaele Pisano. Se i due saranno processati e se lo saranno da soli o con altre persone, però, è presto per dirlo. E su questo aspetto Facciolla è stato chiaro: «siamo in piena fase di indagini preliminari quindi questo fa capire che non si può parlare né di quello che si sta facendo, né di quello che si farà; finita l’udienza guardiamo avanti». Il procuratore di Castrovillari, tuttavia, non ha negato la soddisfazione per «quello che abbiamo fatto, di quello che è stato fatto finora e di quello che hanno fatto i periti del giudice oltre che i miei consulenti. Un lavoro egregio, davvero eccellente dal punto di vista scientifico, un grosso passo avanti».
L’indagine del 2011. Un passo avanti che, forse, finalmente consentirà di scrivere la parola fine su una vicenda che da 28 anni è avvolta dal mistero che già due inchieste non sono riuscite a diradare. La prima si concluse sposando la tesi del suicidio. La seconda era stata aperta nel luglio del 2011. Alcune perizie dei carabinieri del Ris e del medico legale, portarono alla notifica di un avviso di garanzia alla Internò e a Pisano con l’ipotesi di accusa di omicidio volontario in concorso. Ma nel 2015 la Procura di Castrovillari chiese ed ottenne dal gup, nonostante l’opposizione della famiglia del calciatore, una nuova archiviazione. Nel luglio del 2017, dopo l’arrivo al vertice della Procura di Facciolla, una nuova riapertura delle indagini e le perizie che adesso sembrano poter indirizzare gli inquirenti a fare chiarezza una volta per tutte.
Bergamini, perizia: "Soffocato e poi posizionato sotto camion". Si inizia a fare luce sulla sorte del calciatore: il suo non fu suicidio. Dagli esami risulta che il giovane centrocampista del Cosenza, il 18 novembre del 1989, morì per asfissia. Ora l'inchiesta prosegue, scrive Alessia Candito il 29 novembre 2017 su "La Repubblica". Ventotto anni e 9 giorni dopo la sua morte, si inizia a fare chiarezza sulla sorte del calciatore Denis Bergamini. Il suo non è stato un suicidio. Il 18 novembre del 1989 qualcuno ha strangolato il giovane centrocampista del Cosenza e poi ha adagiato il suo corpo sotto le ruote di un camion sulla statale 106, nei pressi di Roseto Capo Spulico, nel cosentino. A provocarne la morte non è stato il presunto impatto con il mezzo, ma un'asfissia. È questo il dato che i periti della procura e del gip hanno portato oggi all'attenzione del giudice di Castrovillari nel corso dell'incidete probatorio. Ed è questo il punto di partenza dell'indagine che è stata rimessa nelle mani del procuratore capo Eugenio Facciolla. A nulla sono valse le obiezioni sollevate dai legali degli imputati, Isabella Internò, fidanzata dell'epoca del calciatore e per molto tempo accreditatasi come unica testimone oculare del presunto suicidio, e Raffaele Piano, l'autista del mezzo. Dopo oltre cinque ore di udienza, il giudice non ha avuto dubbi: l'inchiesta deve procedere. E a partire da un dato nuovo e concreto: Denis Bergamini è stato ucciso e di questo, grazie alla superperizia richiesta dal procuratore capo Facciolla, ci sono le prove. Quello dei periti - ha detto il magistrato - è stato "un lavoro egregio, eccellente dal punto di vista scientifico e adesso guardiamo avanti". Quanto al momento non è dato sapere. "Siamo in piena fase di indagini preliminari, ma certamente oggi è stato fatto un grosso passo avanti" si è limitato a dire il magistrato, opponendo un secco no comment a qualsiasi altra domanda. Di certo però, la perizia apre nuovi scenari. Se Bergamini è stato strangolato, è da escludere che ad agire sia stata solo Internò. Quel 18 novembre del 1989 c'era qualcuno con lei, che per oltre 28 anni non solo è rimasto nell'ombra, ma è stato in grado di costringere tutti al silenzio. Allo stesso modo, la stessa o le stesse persone potrebbero aver costretto prima a collaborare e poi a tacere il camionista che secondo la versione ufficiale avrebbe travolto e ucciso Bergamini. Dalla perizia sarebbe emerso che il corpo del calciatore - come del resto già messo in luce dall'autopsia - non sarebbe finito interamente sotto le ruote dell'autocarro, né sarebbe stato trascinato. Tutti elementi che, secondo indiscrezioni, avrebbero indotto gli investigatori a pensare che Piano sia stato minacciato e costretto a partecipare al delitto. Ipotesi che toccherà alla procura valutare ed esplorare. Per quanto tempo, non è dato sapere. Le indagini continuano sotto stretto riserbo. Ma la sorella del calciatore, Donata Bergamini, adesso - dice - sa di poter attendere con serenità. "Oggi è stato fatto finalmente ciò che doveva essere fatto allora" afferma, provata e stanca, alla fine dell'udienza. "Si tratta di una morte negata per 28 anni, ma sono soddisfatta per il lavoro dei periti e per le spiegazioni che hanno dato. La prima verità è arrivata, perché mio fratello l'hanno soffocato e adesso - ha aggiunto - aspettiamo le altre". Accompagnata dal suo legale, Fabio Anselmo, Donata ha assistito a tutto l'incidente probatorio, ma l'avvocato oggi non era l'unico a darle sostegno. Ad accompagnarla c'era anche Ilaria Cucchi, che per ore ha atteso su una scomoda panca l'esito dell'udienza. "La vicenda di Donata mi ricorda molto quello che stiamo vivendo io e la mia famiglia, anche se per noi la battaglia dura solo da 8 anni. Dico "solo" - sottolinea - ma sembrano già tantissimi". Denis e Stefano non si sono mai conosciuti, la loro morte è avvenuta ad anni di distanza e per motivi probabilmente diversi, ma in un certo senso la loro storia corre su binari paralleli. "Anche per noi - ha detto Cucchi - siamo ad una svolta sulla verità per la morte di mio fratello Stefano. Adesso speriamo che lui, Denis e tanti altri possano vedere riconosciuta la giustizia su quanto accaduto. Io credo ancora nella giustizia - ha concluso - e la mia esperienza e quella di Donata devono essere di esempio per tutti, non bisogna smettere di crederci".
Omicidio Bergamini, la nuova testimonianza: “Pisano diceva che Denis era già per terra”, scrive Iacchite il 30 novembre 2017. Sono passate da poco le 23,30 quando Federica Sciarelli annuncia il “pezzo” di Paolo Fattori sull’omicidio di Denis Bergamini a “Chi l’ha visto?”. La popolare trasmissione di Raitre è stata vicino alla famiglia di Denis fin dal primo giorno e nel corso di questi interminabili 28 anni ha sempre seguito con grande risalto tutta la vicenda. Figurarsi ieri, il giorno dell’incidente probatorio grazie al quale periti di grande prestigio hanno definitivamente chiarito che Denis è stato ucciso. Fattori ripercorre ancora una volta tutti i fatti salienti del caso: Isabella e la sua voglia matta di farsi sposare da Denis, Isabella “peggio dell’Attak” che rincorreva dappertutto Denis con la sua gelosia morbosa, il racconto di Tiziana Rota che si sentì da dire da quella specie di donna che “piuttosto che saperlo di un’altra preferisco che muoia”, i due cugini che le fanno da scorta e la telefonata alla nuova fidanzata Roberta alla quale Denis confida che “qualcuno mi vuole male”. L’annunciata testimonianza inedita è quella di un camionista che quel maledetto pomeriggio si trovava proprio a Roseto Capo Spulico, dietro il camion di Raffaele Pisano da Rosarno, quello che nel “piano diabolico” degli assassini avrebbe dovuto investire Denis. Si tratta di una registrazione audio di Donata Bergamini, che è stata rintracciata non molto tempo fa da questo camionista. “… Nel 1989 ero un ragazzo e quella sera mi trovavo proprio lì, dietro a quel camion. Ricordo che frenò improvvisamente, aspettai qualche secondo e mi chiedevo perché non ripartisse. Allora scesi dal camion e mi avvicinai al lato guida e l’uomo che guidava indicando il cadavere di Bergamini diceva: “Non c’era. Non l’ho visto, era già per terra, era già per terra…”. Voltai lo sguardo e dal lato di là c’erano tre persone tra le quali una ragazza che urlava disperata alla quale chiesi se quell’uomo steso a terra fosse un suo parente…”. La registrazione si ferma qui, non viene specificato come quel camionista abbia lasciato la scena del delitto ma è abbastanza semplice supporre che il procuratore Facciolla lo abbia già ascoltato e che la sua testimonianza faccia parte di un fascicolo che ormai ha la verità in pugno. Una verità che, per il momento, inchioda alle loro gravissime responsabilità Isabella Internò e Raffaele Pisano. In attesa di sapere chi sono i loschi figuri che hanno agito in concorso con loro, che ormai hanno le ore contate.
La perizia riapre il giallo sulla fine di Bergamini. «È morto soffocato», scrive Carlo Macrì su "Il Corriere della Sera", 30 ottobre 2017. Non c’è una conferma ufficiale, ma la morte di Denis Bergamini potrebbe essere stata causata da soffocamento. Non si sarebbe trattato di un suicidio. Il calciatore del Cosenza la sera del 18 novembre del 1989 sarebbe stato prima ucciso e poi gettato sotto il camion che in quel momento passava sulla statale ionica, vicino a Roseto Capo Spulico. Il cadavere del giocatore è stata riesumato nel mesi scorsi dopo la decisione del gip di Castrovillari, Teresa Riggio, che ha accolto la richiesta del procuratore Eugenio Facciolla che ha riaperto l’inchiesta sulla morte del calciatore. Il professor Antonello Crisci, uno dei periti nominati dalla procura, non conferma né smentisce la notizia riportata ieri dal Quotidiano del Sud. Dice: «Non abbiamo ancora depositato nulla, dobbiamo riunirci con i colleghi per mettere a punto i dettagli del lavoro che abbiamo portato a termine». Non sa nulla neanche l’avvocato della famiglia Bergamini, Fabio Anselmo. «Sono comunque molto contento e soddisfatto del lavoro che stanno facendo i periti. Non vedo l’ora di poter leggere la relazione finale», dice. Neanche il procuratore di Castrovillari Facciolla commenta la notizia, mentre il maggiore del Ris di Messina, Sergio Schiavone, che sta lavorando alle indagini sulla morte di Bergamini, si dice all’oscuro di tutto. Il Ris ha avuto incarico dalla Procura di Castrovillari di analizzare l’auto di Bergamini nella speranza di trovare qualche traccia che potesse condurre gli inquirenti a ipotizzare la causa della morte del calciatore rossoblù. Il Quotidiano del Sud scrive che il risultato della superperizia non «collima con la tesi del suicidio sotto il camion in corsa e rafforza l’esito della consulenza del Ris di Messina, incompatibile con l’ipotizzato decesso causato dall’impatto con l’autocarro in movimento». I magistrati hanno messo in dubbio che Denis fosse stato travolto da un camion e questa superperizia avrebbe lo scopo di sgomberare il campo dall’ipotesi. La famiglia del giocatore da 28 anni si sta battendo per conoscere la verità sulla sua morte, convinta che Denis non avesse nessun motivo per suicidarsi. Per Donata Bergamini, sorella del calciatore, Denis sarebbe stato ucciso prima di essere gettato sotto il camion. Due precedenti inchiesta non sono bastate per risolvere il giallo. Per la morte di Denis sono indagati l’ex fidanzata Isabella Internò e l’autista del camion Raffaele Pisano. La ragazza sarebbe stata l’ultima persona a vedere il calciatore. Si parlò all’epoca di un litigio tra i due che spinse Denis a buttarsi sotto il camion. Una ipotesi cui sembrerebbe non credere la Procura, che ipotizza scenari criminali. Secondo la famiglia, il corpo di Denis non presenterebbe traumi da schiacciamento e, soprattutto, l’orologio e la catenina al collo avrebbero dovuto frantumarsi con l’impatto sull’asfalto, invece sono rimasti intatti. Altri oggetti che portava addosso Bergamini non hanno subito danni, come accertarono le perizie del tempo. Le prime indagini hanno stabilito che Denis Bergamini è stato schiacciato dalle ruote del camion: l’autista non si sarebbe accorto di lui, pioveva e la visibilità era scarsa.
Svolta sul caso Bergamini. Nuova perizia: "È morto soffocato". A 28 anni dalla morte del calciatore del Cosenza, una nuova perizia sostiene che non sia morto nell'impatto con il camion contro il quale si sarebbe lanciato per suicidarsi, scrive Alessia Candito il 29 ottobre 2017 su "La Repubblica". Denis Bergamini non si è suicidato lanciandosi contro un camion in corsa, ma è stato soffocato. Secondo indiscrezioni sono queste le conclusioni della perizia chiesta dal procuratore capo di Castrovillari Eugenio Facciolla, che riapre il caso Bergamini a quasi 28 anni esatti dalla morte del calciatore del Cosenza. Un suicidio, secondo la sua fidanzata dell'epoca, Isabella Internò, che ad inquirenti e investigatori ha sempre raccontato che il 18 novembre del 1989, dopo un'accesa discussione, il giovane centrocampista si sarebbe spontaneamente tolto la vita, lanciandosi sotto un camion sulla statale 106, all'altezza di Roseto Capo Spulico (Cosenza). Ma i familiari e gli amici di Denis non le hanno mai creduto. E anche magistrati e investigatori hanno sempre espresso dubbi sulla sua versione dei fatti. Per questo la donna in passato è finita sotto indagine, al pari dell'autista del camion che ha investito il calciatore, Raffaele Pisano. Sebbene tanto l'autopsia, come le simulazioni del Ris negli anni abbiano messo in dubbio la dinamica dell'incidente raccontato dai due, non ci sono mai stati elementi sufficienti per procedere contro di loro e le due inchieste sono state archiviate. Adesso però, la nuova perizia chiesta dalla procura e disposta dal gip di Castrovillari, potrebbe segnare una svolta, perché per la prima volta c'è una ricostruzione alternativa della morte del calciatore, che cambia completamente il quadro. Se Bergamini è stato soffocato, tanto Internò come Pisano hanno mentito. E da quasi trent'anni c'è un assassino a piede libero. I magistrati lo cercano da tempo. Da quando il procuratore capo Facciolla ha aperto la terza inchiesta sulla morte del calciatore, le indagini sono state portate avanti a largo raggio. Un nuovo avviso di garanzia è stato recapitato nei mesi scorsi a Internò e Pisano, ma i due potrebbero non essere gli unici nel mirino della procura. Gli investigatori hanno battuto nuove piste e sono stati ascoltati nuovi testimoni, che secondo alcune fonti avrebbero disegnato scenari inediti e indotto i magistrati a iscrivere nuovi sospetti sul registro degli indagati. Chi siano, al momento, non è dato sapere. Tutto viene tenuto sotto stretto riserbo, ma nuove svolte potrebbero non tardare ad arrivare.
Denis Bergamini soffocato, la sorella: "Ho fiducia nella giustizia". Trapelano i primi risultati dopo la riesumazione dei resti del calciatore del Cosenza deceduto 28 anni smentiscono il suicidio. Colpo di scena: si indaga per omicidio, scrive il 30 ottobre 2017 "Tgcom24". "I nuovi esami si sono rivelati fondamentali, troppi elementi smentivano il suicidio e ora, dopo 30 anni, ho fiducia nella giustizia". Commenta così su La Repubblica Donata Bergamini, sorella di Denis, il calciatore del Cosenza morto il 18 novembre 1989, le indiscrezioni sui risultati dell'ultima perizia anticipati dal Quotidiano del Sud. Dalle analisi, infatti, sui resti del giocatore riesumati di recente, risulterebbe che Denis sarebbe morto soffocato e non gettandosi sotto un camion sulla statale ionica, vicino a Roseto Capo Spulico (Cosenza). La rabbia della sorella: "Prima della seconda archiviazione avevamo chiesto queste analisi". Una prima vittoria, dunque, per la famiglia che non ha mai creduto al suicidio del congiunto e che non si è arresa davanti all'archiviazione del caso per la seconda volta. "Ufficialmente non ci è stato comunicato nulla - aggiunge a La Repubblica la sorella del calciatore Donata Bergamini. - Avremo un incontro con il gip di Castrovillari il 29 novembre e non posso anticipare niente. Ma ho tanta rabbia dentro, perché i nuovi esami si sono rivelati fondamentali e ne avevamo fatto richiesta prima della seconda archiviazione per suicidio". "Fin dal principio - continua - tanti elementi non quadravano e da subito sono stati troppi per essere considerati semplici errori. Di certo troppi per chiudere il caso". Così la terza inchiesta riparte con nuovi spunti investigativi.
La vicenda e la terza inchiesta. Dopo 28 anni, dunque, l'esito della super perizia medico-legale disposta dal gip del tribunale di Castrovillari sul cadavere del calciatore del Cosenza contribuirebbe a dare nuovo impulso a una vicenda mai chiarita. Un risultato quello del nuovo sofisticato esame autoptico che, come riporta Il Quotidiano del Sud, "non collima con la tesi del suicidio sotto il camion in corsa e rafforza, invece, l'esito della consulenza del Ris di Messina, incompatibile con l'ipotizzato decesso causato dall'impatto con l'autocarro in movimento". La salma di Denis Bergamini - la cui morte, avvenuta il 19 novembre del 1989 venne attribuita al gesto volontario di togliersi la vita - è stata riesumata a luglio dopo la riapertura dell'inchiesta da parte del Procuratore della Repubblica di Castrovillari Eugenio Facciolla. Due precedenti inchieste della magistratura non erano, evidentemente bastate a sgombrare il campo da dubbi e perplessità per quello che per molti, soprattutto per i familiari e per tanta parte della tifoseria cosentina rimasta fortemente legata al calciatore di Argenta (Ferrara), era stato archiviato come suicidio. Una tesi quella che avrebbe portato Bergamini a togliersi la vita alla quale da subito non avevano creduto i familiari e le persone a lui più vicine. E sono stati loro, in particolare la sorella Donata a lottare contro quel verdetto e a fare riaprire le indagini. L'ipotesi della Procura è quella di omicidio e su queste basi sono attualmente indagati l'allora fidanzata del giocatore, Isabella Internò, e l'autista del camion che investì il calciatore, Raffaele Pisano. Forse Denis era venuto a conoscenza di affari che non avrebbe dovuto sapere. Il procuratore della Repubblica di Castrovillari Eugenio Facciolla, rintracciato telefonicamente dall'Ansa, non ha voluto, al momento, rilasciare commenti.
Il calciatore soffocato con un sacchetto di plastica, la verità ritorna dopo quasi 30 anni. E sconvolge tre famiglie. Il caso archiviato come suicidio è stato riaperto dopo 28 anni. Com'è possibile che un uomo trascinato da un camion che pesa 138 quintali sull’asfalto per 60 metri non abbia nessun segno? Neanche il fango sui vestiti? Scrive Pierangelo Sapegno su "Tiscali News" il 30 ottobre 2017. Adesso Denis Bergamini potrà avere la verità che chiedevano la sua famiglia e sua sorella, Donata, e i suoi amici e tutti quelli che non avevano mai creduto alla versione ufficiale, come Carlo Petrini, centravanti un po’ sfigato del Milan e della Roma, che su questa storia ci aveva scritto pure un libro, «Il calciatore suicidato». Denis Bergamini era un mediano del Cosenza, di quelli tutti anima e cuore come nella canzone di Ligabue, una vita da mediano a rincorrere gli altri e la vita, serie B, e Fiorentina e Parma che lo volevano nel football che conta. Aveva 27 anni, quando il 18 novembre del 1989 fu trovato morto al chilometro 401 della statale Ionica 106 vicino a Roseto Capo Spulico. «Si è buttato sotto il camion», disse la sua ex fidanzata, Isabella Internò. «Non sono riuscito a fermarmi», raccontò Raffaele Pisano, l’autista del Fiat Iveco 180, che passava con il suo carico di mandarini. Il caso fu archiviato subito: suicidio. Ci sono voluti 28 anni e la super perizia medico-legale richiesta dal Gip del Tribunale di Castrovillari, Teresa Riggio, per mettere nero su bianco quello che sua sorella Donata gridava da allora e che la prima autopsia dell’epoca e gli esami del Ris avevano in fondo già ipotizzato: Denis Bergamini è morto «per soffocamento». Dunque, è stato ucciso. Sotto al camion, se davvero c’è mai finito, era già senza vita.
Il primo passo. E’ solo il primo passo di questo mistero così ingarbugliato da essersi perso nella polvere degli anni e di tutte le carte ingiallite ammucchiate sugli scaffali della Giustizia. Perché sin dall’inizio era così pieno di incongruenze e di domande senza risposte da lasciar spazio a un mucchio di ipotesi, anche quelle più fantasiose. Carlo Petrini non aveva scritto cose campate in aria, ma forse s’era sbagliato anche lui, che aveva visto Denis come la vittima di un fosco e tentacolare giro di calcio scommesse. Molto più probabilmente la morte di Bergamini è il delitto di una storia privata. Adesso gli inquirenti ipotizzano il soffocamento con un sacchetto di plastica, e, una volta stordito, un colpo al fianco sinistro con un attrezzo di lavoro per edilizia. Ma se è così, crolla completamente la versione ufficiale, quella che per 28 anni ha retto a tutti i dubbi e a tutte le domande. Quel 18 novembre Denis Bergamini era al cinema con i suoi compagni. I testimoni raccontano che arrivò una telefonata e lui uscì subito. Sulle carte c’è scritto che fuori avrebbe incontrato due persone, rimaste poi non identificate. Isabella Internò, la sua ex fidanzata, disse che lui passò a prenderla a casa alle 16 con la sua Maserati bianca e che andarono verso Roseto, 100 km da Cosenza. Si erano lasciati da due mesi. Era lui che aveva interrotto la storia. Era innamorato di una ragazza delle sue parti, Boccaleone di Argenta (Ferrara), e sua sorella Donata dice che era felice e che voleva sposarsi. La storia con Isabella era durata 4 anni, un amore anche turbolento, tra alti e bassi e con un aborto di poco tempo prima, quando lei gli aveva detto che era incinta e lui si era rifiutato di sposarla: «non posso restare una ragazza madre a Cosenza», aveva pianto l’ex fidanzata, «sarei rovinata». Avevano deciso di fare l’intervento a Londra. E il loro amore era finito così. Ma quel giorno, raccontò Isabella, era venuto a prenderla per chiederle di andare via con lui, che non ne poteva più del mondo in cui viveva. «Voleva andare alle Hawai o in Amazzonia, ma io gli dissi di no». Per questo si sarebbe ucciso, urlando «Ti lascio il mio cuore» mentre si gettava sotto il camion. A verbale, davanti al sostituto procuratore Ottavio Abbate, Isabella Internò a domanda risponde: «Si è buttato sotto le ruote, tuffandosi nella stessa posa che si usa quando uno si tuffa in piscina, le braccia protese in avanti, il corpo teso orizzontalmente». Raffaele Pisano, l’autista del camion, conferma tutto: «Non sono riuscito a evitarlo e l’ho trascinato per più di 50 metri». Cinquantanove, precisa il verbale dei carabinieri arrivati sul posto.
"Quelle mani protese". Ma quelle mani «protese in avanti» non avevano un graffio. E pure i piedi, le gambe, le spalle. C’è solo una piccola abrasione sulla fronte, vicino all’attaccatura dei capelli, sul lato sinistro, una macchia grigio cenere venata di rosso. Anche i vestiti sono intatti, il gilet di raso, la camicia, i pantaloni, le scarpe di pelle, i calzini a losanghe tirati su fino al polpaccio. E pure il suo orologio non è rotto ed è senza segni. L’hanno restituito a Donata, che lo tiene ancora accanto a sé, in camera: il quadrante senza la minima scalfittura, il cinturino in pelle marrone perfettamente liscio, le lancette che girano, e continuano a girare da allora, come una ossessione senza fine che insegue la verità negata. I dubbi sono scritti nero su bianco dai Gis: com’è possibile che un uomo trascinato da un camion che pesa 138 quintali sull’asfalto per 60 metri non abbia nessun segno? Neanche il fango sui vestiti?, perché quel giorno pioveva e c’erano le pozzanghere sulla strada. Però tutto questo non è bastato per riaprire le indagini. Neanche le testimonianze dei suoi compagni che avevano raccontato come lui fosse un ragazzo felice e allegro, che non sembrava proprio pensare a nessun suicidio, molto esuberante, sempre pronto tutti i giorni a organizzare uno scherzo negli spogliatoi. Michele Padovano, calciatore poi passato alla Juve e al Napoli, era un grande suo amico e, come ha rivelato il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, disse che il giorno del funerale lo fecero salire a casa di Isabella e li trovò che avevano le tavole imbandite di paste come a una festa. Forse erano normali usanze. Però, quel giorno l’ex fidanzata si fa accompagnare in un bar, dopo la morte di Denis, e dice al signore che aveva fermato di chiamare lui i carabinieri. Lei, invece, telefona a sua madre e a Gigi Simoni, l’allenatore del Cosenza. Ora che gli esami medici riaprono il caso, anche le cose più banali possono sembrare strane. Isabella oggi ha 45 anni, una bella famiglia felice e due figlie. E’ indagata per omicidio. E Raffaele Pisano che di anni ne ha 79 per falsa testimonianza. La verità che ritorna può diventare un incubo. Anche Donata ha delle figlie. Le hanno sempre chiesto come era morto lo zio. «E io non ho mai saputo cosa rispondere». Gli diceva: «Stiamo cercando la verità». Oggi che è più vicina, ti accorgi che fa ancora più male dopo quasi 30 anni. La verità è come la rivoluzione. Non è una passeggiata.
Omicidio Bergamini, la perizia di Giorgio Bolino: “Denis soffocato con un sacchetto di plastica”, scrive Iacchite il 16 novembre 2017. L’indiscrezione era stata pubblicata il 29 ottobre scorso dal giornalista Paolo Orofino ed è stata puntualmente confermata: è di quelle che buttano la mazzata definitiva a quei pochi che ancora ciarlavano della tesi del suicidio per la tragica morte di Denis Bergamini. La superperizia effettuata sulla salma di Denis non lascia spazio ad equivoci: Bergamini è morto per soffocamento. Un particolare che chi ha seguito il caso ricollega immediatamente alla prima autopsia del professore Avato e alla perizia del medico legale Giorgio Bolino. Il professore Avato fa notare sin dal principio che c’è stato un unico punto d’impatto tra l’autotreno e il calciatore. E come sia impossibile il trascinamento, come le ferite siano concentrate solo su una parte (il fianco destro) e riconducibili a un sormontamento del camion, vale a dire le ruote fatte passare sopra un corpo steso per terra (e già cadavere come diranno le recenti consulenze, a partire da quella del Ris). Avato per spiegare meglio usa la metafora di un frutto schiacciato ed esploso. E’ quello accaduto alla parte destra del fianco di Bergamini. Ma sul resto del corpo il giocatore non presenta ferite, i vestiti (come dimostrano altre foto scattate sul posto da Barbuscio) sono intatti, le scarpe ben strette ai piedi, persino le calze sono tirate su. E poi c’è il viso: secondo i testimoni Bergamini si sarebbe buttato a pesce sotto le ruote e poi trascinato ma sul viso di Denis non c’è neanche un graffio! Questo è raccontato agli inquirenti, ma il presunto suicidio non è mai messo in dubbio nonostante il corpo di uno sfortunato ragazzo dica altro. Gli inquirenti non cambiano idea neppure dopo l’autopsia di Avato. Anzi, quella perizia finisce dimenticata, l’incidente probatorio evaporato. Nessun credito viene dato all’autopsia effettuata dal dottor Francesco Maria Avato. Il pm Ottavio Abbate (che rimarrà al suo posto di presidente del Tribunale di Castrovillari fino a dopo la riapertura del caso Bergamini!!!) e il pretore Mirabile hanno evidentemente giocato sporco. Nel cadavere si riscontravano tracce di alcol etilico pari allo 0,6 e una sofferenza polmonare. Però il giovane era astemio e non ha mai avuto problemi respiratori. Qualcuno ipotizzerà un possibile uso di narcotico a danno della vittima. Ma la spiegazione è un’altra, secondo la perizia del medico legale Giorgio Bolino, della facoltà di Farmacia e Medicina dell’Università La Sapienza di Roma. Bolino, abruzzese di Sulmona, 53 anni, per la precisione, lavora al Dipartimento di Scienze Anatomiche, Istologiche, Medico-legali e dell’apparato Locomotore dell’ateneo romano. Ed è uno dei medici legali di maggiore esperienza de “La Sapienza”. Nell’autopsia, il professore Avato evidenziava una certa qual sofferenza polmonare (aspetti congestizi e di edema, di enfisema acuto) e anche cardiaca. Questo induceva il perito Bolino a ipotizzare che Bergamini potesse essere stato asfissiato meccanicamente magari mediante l’applicazione di un sacchetto di plastica aderente al volto. Ciò avrebbe comportato una morte rapida con rapido stato di sofferenza anossica, tale da consentire il posizionamento del corpo sul manto stradale ad opera di terzi. E’ per questo che non ci sono tracce di condotta difensiva, anche istintiva. E’ evidente che in questa operazione sono state coinvolte più persone in grado di sopraffare fisicamente la vittima. Bolino ha anche scritto un libro su queste scottanti tematiche, dal titolo “Asfissie meccaniche violente” edito da Feltrinelli. “Abbiamo rappresentato al gip l’opportunità di fare degli esami – aveva detto l’avvocato Fabio Anselmo -. Facendo la riesumazione e sottoponendo a Tac il corpo del povero Bergamini si potrebbero ottenere risultati inaspettati”. Questo affermava il legale e finalmente il procuratore Facciolla ha aderito alla richiesta di Fabio Anselmo dopo l’incredibile archiviazione della “maschera di gomma”, il pavido ex procuratore di Castrovillari Franco Giacomantonio. In particolare si cercava di capire se Denis fosse ancora vivo o già morto al momento in cui venne sormontato dal camion. “Potrebbe anche dire quanto tempo prima era morto”, aggiunge il legale. E Anselmo ribadiva che l’anatomopatologo Bolino ha avanzato l’ipotesi che Bergamini fosse stato prima soffocato con un sacchetto di plastica per essere poi steso sulla strada. Questa tesi è stata finalmente presa in seria considerazione da un magistrato che non risponde alle logiche deviate di Ottavio Abbate, Antonino Mirabile e del pavido Franco Giacomantonio. Certo, è ancora presto per dire che l’aria è definitivamente cambiata. Ma non c’è dubbio che Isabella Internò e i suoi protettori hanno ripreso a passare giornate difficili. Il loro castello d’argilla prima o poi cadrà. Questa terra è in mano ai poteri forti ma questo omicidio è una delle pagine più nere della nostra storia. E non può rimanere impunito.
Bergamini è stato ucciso con una sciarpa da più persone, scrive Arcangelo Badolati il 16 novembre 2017 su “La Gazzetta del Sud”. I consulenti medico-legali confermano: il calciatore del Cosenza soffocato. Demolita la vecchia ipotesi del suicidio. Parla Donata, sorella della vittima: abbiamo lottato per 28 anni e finalmente si conosce la verità. Un delitto quasi perfetto. Con la vittima immobilizzata da più persone e poi soffocata usando una sciarpa di lana. Denis Bergamini sarebbe stato ucciso durante un convulso incontro avuto lungo la Statale 106 ionica, lontano da occhi indiscreti, in territorio di Roseto Capo Spulico. Quella del suicidio sarebbe stata, dunque, una messinscena attuata per celare un omicidio posto in essere usando un indumento destinato a non lasciare tracce evidenti. Uno strangolamento, infatti, avrebbe provocato ematomi e lesioni chiaramente rilevabili, mentre il soffocamento produce effetti meno visibili. Siccome, però, i «morti parlano» come sanno tutti gli appassionati di medicina legale, la nuova perizia autoptica eseguita sul cadavere del calciatore del Cosenza a 28 anni di distanza dalla morte, ha rivelato elementi determinanti ai fini delle indagini. Elementi scientifici che dimostrerebbero l’attuazione di un’azione meccanica di soffocamento. Un’azione posta a cagione del decesso e realizzata con una forza sica adeguata. Una forza capace di neutralizzare la naturale resistenza, la veemente reazione, di un atleta ventottenne, nel pieno del vigore e perfettamente allenato. Se, dunque, la consulenza depositata ieri al Gip di Castrovillari offre questo quadro e la chiave di lettura dell’evento è da ricondursi ad un omicidio, a soffocare l’idolo della tifoseria rossoblù non può essere stata una sola persona. Ciò significa che il procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla, che conduce personalmente l’inchiesta, ha già messo gli investigatori al lavoro per individuare le persone che in quella tragica sera di novembre del 1989 erano insieme alla vittima. Con Denis Bergamini non vi era solo l’ex danzata, Isabella Internò, ma qualcun altro che raggiunse la coppia che s’era inspiegabilmente spostata da Cosenza a Roseto a bordo della Maserati del calciatore. Perché lasciare il capoluogo bruzio alla vigilia di un importante incontro di campionato? Mai Bergamini in occasioni simili si era allontanato dai compagni di squadra. Perché dirigersi verso un’area della provincia tanto distante? Se la tesi dell’omicidio dovesse trovare definitiva conferma in sede processuale, se ne dedurrebbe che lo spostamento venne ideato e programmato per consentire agli aggressori di sfuggire ad eventuali testimoni. Denis Bergamini era un personaggio notissimo a Cosenza e Rende, facilmente riconoscibile da chiunque. Se qualcuno aveva deciso di “punirlo” non avrebbe certo potuto farlo nell’area urbana bruzia. Venne pertanto prima soffocato e poi “suicidato” a 100 chilometri di distanza. In una serata di pioggia e lungo un’arteria stradale lontana e trafficata. Il cadavere del calciatore venne ritrovato in una sera sferzata dal vento di tramontana al chilometro 401 della Statale 106. Denis venne travolto e ucciso da un Tir, sotto il quale - dissero la ex danzata e l’autista del mezzo, Raffaele Pisano originario di Rosarno - si era volontariamente lanciato. Una tesi che successivamente i giudici della Corte d’appello di Catanzaro fecero propria nella sentenza che mandò in archivio l’inchiesta sul decesso come «morte per suicidio». Nessuno tenne in considerazione le contraddizioni che pur emergevano dalle carte processuali. Donata Bergamini, sorella di Denis, ieri ha detto: «La mia famiglia ha lottato per 28 anni: mio fratello è morto per soffocamento senza se e senza ma. Finalmente si riconosce la verità».
"Sono a conoscenza che oggi è stato effettuato il deposito. Ma io ero presente alle operazioni peritali. La mia famiglia ha lottato per una verità negata per 28 anni, consentitemi almeno questo: mio fratello è morto soffocato, senza se e senza ma. Lo sapevo già attraverso i miei consulenti. Finalmente si riconosce la verità". È quanto scrive, sul suo profilo Facebook, Donata Bergamini, sorella di Denis, il calciatore del Cosenza che morì, in situazioni ancora oggi poco chiare, nel novembre del 1989. Al presunto suicidio la famiglia non ha mai creduto. Dopo l'ennesima riapertura dell'inchiesta, oggi si apprende che è stata depositata la super-perizia secondo la quale il calciatore sarebbe morto, a 27 anni di età, per soffocamento. La salma del calciatore era stata riesumata lo scorso luglio.
Bergamini, 20 anni di omertà. “Il calciatore suicidato” e le convinzioni (sbagliate) di Carlo Petrini, scrive Gabriele Carchidi su Iacchite il 7 novembre 2017. Con Carlo Petrini abbiamo appuntamento al Punto Snai di Lucca. E’ il 9 giugno del 2008. Ha ancora un fisico aitante ma porta un cappello per nascondere i segni della chemioterapia e si vede lontano un miglio che soffre agli occhi e che è tremendamente travagliato. Ci dice che si è meravigliato molto quando gli abbiamo chiesto di intervistarlo perché ricorda che quando venne a Cosenza, parlare di Bergamini era quasi tabù. Io gli confesso di aver letto molto superficialmente il suo libro “Il calciatore suicidato” ma che comunque ho capito dove vuole andare a parare. Lui mi guarda con un po’ di diffidenza e mi dice che è impossibile che noi cosentini non sappiamo chi è stato ad ammazzare Denis. Diciamo che la prima sensazione è quella di avere davanti uno che ha già deciso da che parte stare: lui pensa che sia stata la malavita cosentina a far fuori Denis e ce lo dice con franchezza. Io gli rispondo che forse ha ragione ma che ancora non ho gli elementi per accodarmi alla sua tesi. Gli chiedo quali sono, a suo avviso, gli elementi più forti che lo portano a questa conclusione e inizio a capire che la longa manus del depistaggio è arrivata fino a lui facendogli scrivere anche delle cose non solo fantasiose ma sinceramente grottesche. Tipo la storia della fantomatica Damatiana De Santis, falso nome di una presunta studentessa di Matematica a Cosenza che gli manda un plico alla Kaos edizioni. Damatiana rivela che a Bergamini venivano date scatole di cioccolatini quando il Cosenza andava a giocare al nord, ma all’interno veniva nascosta la droga da spacciare. Per questo è stato ucciso Donato? Perché ha scoperto il trucco e si è rifiutato di continuare? Resto perplesso perché penso che quella maledetta macchina l’ha comprata appena quattro mesi prima di morire ma non posso dare per scontato che sia una balla, almeno in quel momento.
Carlo Petrini è convinto che domenica 12 novembre 1989, quando passa la notte all’Hotel Hilton di Milano in compagnia di un’amica, Giuliana T., dopo aver giocato la partita di Monza, abbia detto proprio a lei che quella sarebbe stata l’ultima volta, e che per questo sarebbe stato ucciso. L’ultima volta che avrebbe trasportato droga? O l’ultima che avrebbe partecipato a una partita truccata? Sì, perché Carlo Petrini ci apostrofa pesantemente non solo sul fatto della malavita ma anche sull’altra ipotesi, collegata al Totonero e al coinvolgimento della malavita nelle partite truccate e nelle scommesse clandestine sul Cosenza. Di sicuro, ci fa notare che il boss Franco Pino ha confessato in un processo di aver truccato la partita Cosenza-Avellino 2-1 del campionato precedente alla morte di Denis. Ha tenuto in ostaggio sulle tribune del San Vito la moglie di un giocatore ospite per essere certo che si verificasse il risultato atteso. Ce ne erano state altre? Bergamini l’aveva scoperto? Altre balle spaziali, certo, ma non posso dare tutto per scontato e ho ancora paura che ‘sta maledetta malavita c’entri davvero nell’omicidio e sono costretto a ingoiare il rospo ed a farlo parlare. E poi si mantiene per ultima la storia di Michele Padovano, compagno di camera di Denis, che al suo funerale disse al padre Domizio: “Se tuo figlio me lo avesse detto, io conoscevo un pezzo da novanta che avrebbe messo tutto a posto”. Ma cosa bisognava mettere a posto? Me me vado con la testa in fiamme: avrei dovuto fargli io le domande e invece mi sono trovato davanti uno che mi ha quasi aggredito perché riteneva impossibile che non conoscessi la verità. Da quell’incontro non c’è stato più un giorno della mia vita nel quale non ho pensato a Denis Bergamini e a quello che c’è dietro il suo omicidio. Questa storia è come un vortice o una calamita come diceva Oliviero Beha ed è impossibile staccarsene. Dico a Petrini che ci rivedremo presto perché ci sono ancora troppe cose che non mi quadrano. Vado a rileggermi il libro e stavolta seriamente: due, tre, quattro volte…Quando il sostituto procuratore Abbate interroga Isabella, alla domanda se si fosse legata a qualcuno dopo aver interrotto il rapporto con Donato, risponde così: “… Non mi sono legata a nessun altro. Avevo però il conforto delle mie amiche, e anche del mio amico di famiglia a nome Conte Luciano, che è un poliziotto della digos e presta servizio a Palermo… con il Conte intercorrono rapporti telefonici…”. Il particolare viene inserito nel libro “Il calciatore suicidato” a pagina 38, ma di Isabella e del poliziotto della digos, purtroppo, non si tornerà più a parlare nelle pagine scritte con grande ardore da Carlo Petrini. Me la lego al dito, gli ritelefono e gli dico che appena salirò per andare a Ferrara mi fermerò da lui per parlarne approfonditamente. Sì, perché nel frattempo abbiamo deciso che andremo a casa Bergamini subito dopo il ventennale della morte di Denis. E infatti su Cosenza Sport tutto è iniziato il 16 novembre 2009, due giorni prima del ventennale della morte di Denis Bergamini. Abbiamo deciso di dedicare una fortunata copertina al nostro Campione (l’hanno “adottata” praticamente tutti gli organi di informazione, sia sul web che in tv) e abbiamo iniziato da quel giorno una lunga inchiesta.
IL PRIMO EDITORIALE – 16 NOVEMBRE 2009 – Vent’anni fa Cosenza venne messa a dura prova dall’omicidio di Denis Bergamini. Che fare davanti ad un evento così traumatico per migliaia e migliaia di tifoso o magari semplici sportivi? Accettare l’assurda tesi del suicidio o cercare la verità? Nessuno di noi cosentini avrebbe potuto smuovere le montagne dei poteri forti. Sì, perché non c’era dubbio che quell’omicidio fosse stato reso possibile da chi guida le sorti della nostra città. La malavita, le forze dell’ordine, la magistratura, la società del Cosenza Calcio, gli stessi compagni di squadra di Bergamini, i giornalisti. Tutti, nessuno escluso, conoscevamo la genesi di quel “pasticciaccio”. Abbiamo deciso tutti di tacere. “Sulla sua morte – scrive Carlo Petrini nella prefazione de “Il calciatore suicidato” – è stata fatta un’inchiesta superficiale, piena di buchi e di errori, che ha dovuto fare i conti con un muro di omertà costruito all’interno della squadra (e della città, aggiungeremmo noi, ndr). La magistratura prima ha dato credito alla tesi che si fosse trattato di un suicidio, poi ha cambiato idea e il suicidio è diventato omicidio colposo ma alla fine del processo l’imputato – un camionista di Rosarno – è stato assolto. Per la pubblica accusa il giocatore non era un suicida, per i giudici non era stato ucciso. Così si potrebbe concludere che Donato Bergamini è stato suicidato…”. Il calcio ci ha messo subito una pietra sopra, il giornalismo altrettanto. Carlo Petrini ha fatto “quello che nessuno dei giornalisti sportivi ha mai fatto: loro sono troppo impegnati a leccare il culo del potere pallonaro e dei suoi divi per occuparsi di un giocatore di serie B ammazzato come un cane…”. Bergamini è stato ucciso dall’ambiente, purtroppo il nostro ambiente, in cui “era finito – accusa Petrini – e nel quale è rimasto cinque anni senza rendersene conto o senza avere la forza per scapparsene. Un errore o una debolezza che gli è stata fatale”. Noi cosentini, pertanto, dovremmo riflettere a lungo sulla città nella quale abitiamo e lavoriamo. Una città che non è quasi per niente cambiata dal 1989, nonostante il decennio manciniano, servito soltanto a buttare un po’ di fumo negli occhi a tutti.
CARLO PETRINI CAMBIA IDEA. Qualche giorno dopo salgo a Ferrara e mi fermo a Lucca e pongo a Carlo Petrini la domanda che avrei dovuto fargli subito: ma non lo sapevi che Isabella si era maritata proprio con quel poliziotto lì? Mi giura e spergiura che non lo sapeva e stavolta ad incalzarlo sono io: vedi che la malavita non c’entra niente e che, semmai, è stato lo stato deviato a far fuori Denis perché aveva “osato” non sposarsi con quella lì? Petrini annuisce e mi promette che mi darà soddisfazione. Manterrà la sua parola. Diretta Radio Sport, la storica trasmissione di Radio Libera Bisignano (prima che finisse nelle grinfie del mercenario della pubblicità e della politica corrotta), ha rotto gli indugi ed è scesa in campo con decisione per cercare la verità sul caso Bergamini. Eliseno Sposato, Piero Bria e Daniele Mari hanno dato una grande dimostrazione di coraggio. Federico Bria ha ricordato la figura di Denis con commozione e incisività. Poi è toccato a me, che ho fatto il punto sulle ultime novità scaturite dalle inchieste giornalistiche. In particolare, ho anticipato che “Chi l’ha visto?” ha finalmente rintracciato Isabella Internò e il marito-poliziotto. «Il poliziotto – gli rivelai perché ero stato io ad indicare al giornalista Emilio Fuccillo la casa di Isabella – ha apostrofato in malo modo il giornalista di “Chi l’ha visto?”. Minacciandolo quasi in stile mafioso… A questo punto, o il poliziotto ha la coda di paglia oppure sa qualcosa e non collabora alla ricerca della verità». Subito dopo è intervenuto Carlo Petrini. I giornalisti di Rlb l’hanno informato dei fatti nuovi e l’ex calciatore ha affermato testualmente: «Seguire la pista che porta al marito di Isabella Internò non solo è giusto ma potrebbe portare a grosse sorprese». Un’affermazione che apriva realmente nuovi scenari per interpretare il “giallo” e che dimostrava come Carlo avesse cambiato idea. Petrini ha ribadito con forza che Bergamini è stato ucciso, ricordando tutte le incredibili incongruenze delle indagini e l’omertà dei dirigenti e dei calciatori del Cosenza dell’epoca. E per me è stato un grande onore ricevere la denuncia dei coniugi diabolici e vedere che oltre a me tra i querelati c’era anche Carlo Petrini. Un modo come un altro per dirmi che avevo ragione da vendere. Carlo Petrini aveva concluso la sua intervista ai colleghi di Rlb (quelli buoni…) auspicando la riapertura del caso e annunciando il suo arrivo in Calabria. Purtroppo la sua malattia non glielo ha consentito ma quando arriveremo alla verità, non c’è dubbio che un grande riconoscimento pubblico andrà fatto soprattutto a lui. Ciao Carlo, dovunque ti trovi adesso so che stai tifando per noi.
Bergamini, 20 anni di omertà: i depistaggi, la rabbia di Padovano e il nulla di Abbate, scrive Iacchite l'8 novembre 2017. Proseguiamo la ricostruzione dei giorni immediatamente successivi all’omicidio di Denis Bergamini. Martedì 21 novembre 1989, all’indomani del funerale, diversi media pubblicano la notizia della misteriosa intimidazione ai danni di Bergamini in un ristorante di Laurignano. In più, iniziano le congetture sul possibile uso della Maserati per trasportare droga. Si parla di difficoltà economiche, di amicizie chiacchierate e persino di totonero. E’ un’agenzia di stampa romana che avanza quest’ultima ipotesi e l’indiscrezione viene ripresa dai deputati radicali Francesco Rutelli, Emilio Vesce e Mauro Mellini, che rivolgono una interrogazione parlamentare ai ministri dell’Interno, di Grazia e Giustizia e del Turismo. “E’ poco probabile che in questa vicenda possa entrarci in qualche modo una delusione d’amore – si legge nell’interrogazione – visto che lo stesso Bergamini aveva interrotto la propria relazione con la signorina Internò”. L’interrogazione proseguiva poi domandando “cosa ci sia di vero sulle notizie di un coinvolgimento in questa vicenda della malavita del Cosentino e sulle ipotesi che dietro questo episodio ci sia il giro del totonero”, e terminava con la richiesta di “verificare l’eventualità di un coinvolgimento della malavita all’interno del mondo del calcio come già in passato è venuto alla luce”. Quanto basta per indispettire i compagni di squadra. Il giornalista Santi Trimboli, che all’epoca lavorava per il Corriere dello Sport-Stadio, rivela di aver ricevuto una telefonata “di fuoco” da Michele Padovano. «Sto leggendo cose incredibili, assurde – diceva l’attaccante al giornalista -. Sono tutte cattiverie: lo state uccidendo una seconda volta. Da questo momento faremo il silenzio stampa. Donato non aveva alcun motivo per uccidersi, è tutto falso. Denis aveva dei genitori eccezionali, amava il suo lavoro, non aveva rapporti con gente chiacchierata, non soffriva di disturbi psichici. Giovedì sera abbiamo cenato insieme. Nessuno, come invece è stato scritto, è venuto a prenderlo al ristorante. Finito di cenare, siamo tornati subito a casa. Io non so cosa possa averlo spinto sabato, mentre eravamo al cinema, a telefonare a Isabella che non vedeva più da tre mesi e a lasciare Cosenza. Mi sento di poter escludere che abbia voluto uccidersi. Lo dice Isabella, ma come dare credito a una ragazza sotto shock?». In molti si interrogano sui motivi che hanno indotto la Procura di Castrovillari a non autorizzare l’autopsia sul cadavere di Bergamini. Vengono ordinate solo alcune perizie tecniche e viene stilato un calendario di interrogatori (Isabella viene sentita nuovamente cinque giorni dopo la morte di Denis). Ai carabinieri viene anche affidato il compito di indagare nella vita privata di Denis e a quanto pare, sia pure non ufficialmente, è quanto farebbe anche la questura di Cosenza. Giovedì 23 novembre Isabella Internò entra nello studio di Abbate per essere interrogata. Il colloquio dura circa un’ora. Cosa dica la ragazza all’epoca fa parte del segreto istruttorio. Inutile saperne di più. Anche perché Isabella è brava, grazie pure alle premure di alcuni suoi parenti, ad evitare in slalom i giornalisti. Il pm Ottavio Abbate viene intervistato da qualche giornalista volenteroso e le sue risposte sono quantomeno imbarazzanti. «Noi non abbiamo piste privilegiate da cui partire – dichiarerà a Santi Trimboli -. Voglio dire che il magistrato penale si muove nell’ambito delle competenze istituzionali specifiche che prevedono determinati campi di indagine. Che sono poi quelle previste dal codice. Noi dobbiamo fare chiarezza sui fatti, successivamente potremo trarre le opportune conclusioni, che in questo momento sarebbero fuori luogo. Stiamo indagando, il caso non è stato mai archiviato e non c’è mai stata una richiesta di questo tipo: deve farla il pubblico ministero, in questo caso io, e non ho ancora concluso il mio lavoro. Quanto all’autopsia, abbiamo ritenuto che le cause della morte fossero sufficientemente accertate. “Era fin troppo chiara che la causa di decesso del ragazzo fosse lo sfondamento del suo addome travolto dal mezzo pesante. Non c’era bisogno di fare l’autopsia…”. Insomma, il nulla. Con l’aggravante di aver dichiarato che “non c’era bisogno di fare l’autopsia”, salvo poi essere costretto a richiederla solo qualche settimana dopo. No, non si può neanche stendere un velo pietoso. Il 27 novembre il giro degli interrogatori prosegue con l’allenatore Gigi Simoni e Michele Padovano. Il 29 novembre è la volta del presidente Antonio Serra e del direttore sportivo Roberto Ranzani, il 30 novembre toccherà a Domizio Bergamini. Quanto al camionista, lo stesso pm Abbate, dall’alto delle sue “sicurezze”, dichiarerà: «Lo sentiremo, se necessario, nelle forme di legge e, comunque, soltanto dopo il risultato dei rilievi tecnici». Il magistrato, tuttavia, non può fare a meno di riconoscere che, se ha disposto nuovi accertamenti tecnici, non si fida troppo della versione di Isabella. «La ragazza ha raccontato la sua verità – dice Abbate – ma più volte è caduta in contraddizioni». Eppure, non si decide a fare l’autopsia! Quanto agli interrogatori, nessuna indiscrezione. «Personalmente – afferma il presidente Serra – non ho fatto altro che ripetere le cose che sto dicendo a tutti e cioè che Donato era un bravo ragazzo: educato, serio, gran lavoratore. Strano negli ultimi tempi? Assolutamente no. Anzi, era su di giri, lo vedevo assai stimolato. Voleva recuperare il tempo perduto a causa del grave incidente dello scorso anno. Se dovesse emergere qualcosa sul suo conto, sarebbe per me un fatto davvero sconvolgente».
Bergamini, 20 anni di omertà: era già tutto chiaro al funerale, scrive Iacchite il 13 novembre 2017. Dopo aver esaminato alcuni aspetti grossolani dei depistaggi messi in atto dall’associazione a delinquere che ha deciso a tavolino l’omicidio di Denis Bergamini, potendo contare sull’appoggio di pezzi deviati dello stato, ritorniamo al racconto dei giorni immediatamente successivi alla morte del nostro Campione.
COSENZA-MESSINA 2-0. Al San Vito, intanto, il 19 novembre, si gioca Cosenza-Messina. Una gara senza senso in un’atmosfera allucinante. Nessuno osa alzare un solo coro e regna sovrano il silenzio. Anche i tifosi messinesi, rispettosi del nostro dramma, non aprono bocca per tutta la durata dell’incontro. E’ evidente che il fatto sportivo è sovrastato dal fatto umano. L’emozione è grande. Che cosa può valere una vittoria davanti all’immagine ancora palpitante di un ragazzo amato e osannato che ora non c’è più? Nessuno tra gli ultrà e i tifosi del Cosenza crede al suicidio di Denis Bergamini. C’è la sensazione che possa esserci qualcosa di grosso da nascondere alla base della decisione di uccidere Denis ma al suicidio no, non ci crede proprio nessuno. La partita finirà 2-0 per il Cosenza. Michele Padovano, che indossa la maglia numero otto di Denis, segna il primo gol al 36’ del primo tempo. Nel finale raddoppierà Gigi De Rosa.
IL FUNERALE. Nella tarda mattinata di lunedì 20 novembre 1989 oltre diecimila persone partecipano al funerale di Denis Bergamini nella chiesa della Madonna di Loreto. Isabella Internò è presente ed è accompagnata dai “soliti” cugini. Oggi finalmente sappiamo anche chi sono. Alfredo Internò, detto Pippo o Dino, aspirante guardia giurata (lo diventerà successivamente all’omicidio di Bergamini), cugino di primo grado di Isabella, in pratica la “scorta” in ogni momento della celebrazione. L’altro è il marito della cugina, che crede di mimetizzarsi con un paio di occhiali scuri. In realtà quegli occhiali non faranno altro che metterlo ancora di più in evidenza. Si chiama Francesco Arcuri. Sono esattamente i due cugini che Tiziana Rota, la moglie di Lucchetti, vede vicino a Isabella quando la incontra a Rende una decina di giorni prima della morte di Bergamini e che sono ritenuti capaci di “ammazzare” Denis se soltanto sapessero come sono andate le cose. Il particolare colpisce molti cosentini presenti al funerale e si sparge la voce che Isabella sia “scortata” da poliziotti in borghese per proteggerla da eventuali “malavitosi” malintenzionati ma è soltanto una leggenda urbana. A nessuno però viene in mente di chiarire chi fossero questi due “brutti ceffi”. Nella chiesa della Madonna di Loreto ci sono proprio tutti. I compagni di squadra, i dirigenti con in testa il presidente Antonio Serra, il sindaco Giuseppe Carratelli, che fino a pochi mesi prima è stato il presidente del Cosenza, il presidente della Provincia Eugenio Madeo. E ancora: il presidente del Catanzaro Pino Albano, il vicepresidente della Reggina Cuzzocrea, una delegazione dell’Acr Messina, i responsabili di tutti i club organizzati del Cosenza. E naturalmente ci sono anche gli ex compagni di squadra Gigi Simoni, Enrico Maniero, Maurizio Giovanelli e Daniele Simeoni e l’allenatore della Serie B, Gianni Di Marzio. «Io – dice Di Marzio – lo conoscevo bene. Era un ragazzo pieno di vita, innamoratissimo del lavoro che faceva. Introverso? Balle. Discreto, riservato, questo sì. Certo, le sue amicizie le selezionava ma amava divertirsi e scherzare. Ricordo che un giorno mi fece sparire un borsone. Me lo restituì dopo avermi fatto ammattire per un paio d’ore. Ma quale suicidio!». La bara di Denis viene portata a spalla dai compagni di squadra, sgomento e commozione si toccano con mano. «Una morte – dirà don Peppino Bilotta nella sua omelia – avvolta nel più fitto mistero. Sarà interrogata la sociologia, saranno sentiti gli esperti ma le risposte non saranno mai esaurienti». La messa è celebrata da Padre Fedele Bisceglia. Con la voce rotta dall’emozione, il frate cappuccino traccia un breve ricordo di Denis e rivela un particolare. «Un mese fa gli chiesi il favore di far recapitare un libro a Padovano. Lui mi invitò a farlo di persona. Vieni tu, mi disse, siamo tanto soli. Io non andai e questo non me lo perdono. Quel “siamo tanto soli” mi perseguiterà come una maledizione. Forse aveva bisogno di me e io non l’ho capito». «Caro Donato, non siamo qui per darti l’ultimo saluto, siamo qui per dirti arrivederci. Arrivederci in Cielo per continuare la più bella partita, quella vera della felicità eterna». Il presidente Antonio Serra: «Interpretando i sentimenti e lo stato d’animo della società, di tutti i cittadini di Cosenza e della provincia, esprimo i sensi delle più sentite e fraterne condoglianze alla famiglia di Bergamini. Questi, tragicamente e immaturamente scomparso, resterà sempre nel ricordo e nel cuore di tutti noi, come amico schietto e sincero, atleta e professionista encomiabile e leale, esempio di correttezza e di equilibrio nella vita come sui campi di gioco». Dopo la cerimonia, Isabella sarà lasciata libera dalla “scorta” dei cugini. Michele Padovano dirà a Carlo Petrini che il giorno del funerale, dopo la messa, l’ha accompagnata a casa, a Rende. “Una cosa che mi è sembrata strana è che quando siamo arrivati a casa sua, non c’era un clima da funerale ma una certa allegria. Mi hanno perfino invitato a bere…”. Qualche giorno fa, tuttavia, Padovano ha smentito di aver dichiarato questo particolare a Petrini. Non è un mistero che tra i due ci fossero state molte incomprensioni su quella intervista. I parenti di Isabella comunque – festa o non festa – stavano già preparando il tanto atteso matrimonio e il “prescelto” non poteva che essere un uomo in divisa, il poliziotto Luciano Conte.
Omicidio Bergamini: brigadiere, questo le sembra un corpo trascinato da un camion per 60 metri? Scrive Iacchite il 29 ottobre 2017. Lo abbiamo scritto più volte e lo ribadiamo, anche se ai familiari darà fastidio perché si parla di un uomo che non c’è più. Il brigadiere Francesco Barbuscio è stato senz’altro uno dei complici degli assassini di Denis Bergamini e ci sono decine e decine di prove a confermarlo. Non serve essere “scienziati” ma solo intellettualmente onesti. E abbiamo visto in tutti i particolari le vicende grottesche dei suoi “rilievi”…Il brigadiere Barbuscio, dunque, compie i primi rilievi e produce addirittura una piantina del presunto incidente. Cosa succede dopo il presunto impatto. Questo è il racconto del camionista Raffaele Pisano, altro soggetto che fa parte dell’organizzazione criminale che ha deciso l’omicidio di Bergamini. «Dopo qualche minuto un signore sopraggiunto disse di aver sentito chiedere aiuto da una voce proveniente da sotto il camion e allora io, per verificare la veridicità di tale affermazione, ho spostato il camion di circa 50 centimetri ma purtroppo il giovane era morto. Io ho spostato il mezzo all’indietro di 50 centimetri non subito dopo l’investimento ma dopo circa 5-10 minuti». Cosa significa? Che Denis investito sotto il camion è ancora vivo? E chi è il signore che ha sentito chiedere aiuto? Non è stato mai identificato eppure una sua testimonianza sarebbe stata molto importante per capire se una retromarcia forse un po’ maldestra aveva definitivamente ucciso Denis Bergamini…
Attravero le fotografie, recuperate dopo non poche peripezie, si vedono la posizione finale del corpo di Denis Bergamini ma soprattutto le condizioni del cadavere. Com’è possibile che un corpo, dopo l’impatto con un camion di 13 tonnellate e mezzo, che procede a 40-45 kmh, dopo essere stato agganciato e trascinato per 59 metri, strisciando sull’asfalto, rimanga così integro? Le scarpe sono ancora infilate e pulite, i calzini tirati su, il gilet di raso praticamente intatto, la camicia sembra stirata, i capelli a posto, ancora pettinati. Per non parlare dell’orologio (ancora funzionante!), della catenina e delle scarpe, che faranno parte di un altro capitolo di questa incredibile vicenda.Il medico legale del Tribunale Pasquale Coscarelli è il primo a chiarire la dinamica dell’incidente. Denis Bergamini è stato colpito dal camion solo un metro prima rispetto al punto dov’è stato trovato il corpo e non come indicato dalla ragazza e dal camionista all’altezza della piazzola. Ed è il referto dell’autopsia (effettuata oltre un mese dopo la morte dal professore Avato e della quale ci occuperemo più avanti) a fugare ogni dubbio. «L’assenza di lesioni al capo, al torace, agli arti superiori, alle ginocchia, alle gambe e ai piedi conduce a ritenere verosimile l’ipotesi di schiacciamento da parte di un unico pneumatico del corpo disteso al suolo disposto con il capo verso la strada». A Denis è letteralmente esploso l’addome. Non c’è stato urto, abbattimento al suolo, propulsione e trascinamento del corpo. Denis era supino quando la ruota del camion gli è passata sopra lentamente, provocandone la morte. Tutto il resto del corpo è integro!
LE TELEFONATE DI ISABELLA E LA NOTIZIA. Sono da poco passate le 19,30 quando al centralino del Motel Agip di Rende arriva una telefonata. E’ Isabella Internò che chiede di poter parlare con l’allenatore del Cosenza Gigi Simoni. “Venite subito – dice Isabella -. Sono a Roseto Capo Spulico. C’è stata una disgrazia. Donato Bergamini è morto. Mi chiamo Isabella Internò, ero la sua ragazza”. L’allenatore e i calciatori del Cosenza apprendono della morte di Bergamini dalla stessa Isabella Internò. La ragazza, secondo la sua versione dei fatti, una volta al bar –ristorante, non telefona ai carabinieri, come sarebbe stato logico, ma a sua madre, all’allenatore del Cosenza, Gigi Simoni, e al capitano della squadra, Ciccio Marino. A Simoni e Marino biascicherà soltanto qualche frase, utile comunque a conoscere la drammatica verità, senza peraltro tradire nessun tipo di emozione. La reazione dei compagni di squadra invece è disperata e uno di loro, Michele Padovano, scaraventa una sedia su una vetrata, quasi a testimoniare la rabbia per non essere riusciti a evitare quanto è accaduto. Ciccio Marino ancora oggi si chiede perché Isabella gli abbia telefonato e non può fare a meno di avanzare un dubbio: “Credo che mi abbia telefonato per verificare se Denis avesse detto qualcosa a noi compagni di squadra sul motivo del suo allontanamento dal cinema. Ed era evidente, purtroppo, che noi non potevamo sapere nulla”. Seguono attimi di grande smarrimento. In effetti, al Motel Agip, Bergamini non c’è e non può esserci. Manca soltanto lui all’appello. Gli altri, dopo essere stati qualche ora prima al cinema Garden per assistere alla proiezione de “La più bella del reame” con Carol Alt (per ironia della sorte, si tratta del film ispirato alle movimentate esperienze sessuali di Marina Ripa di Meana), sono rientrati tutti. Gigi Simoni informa immediatamente il direttore sportivo Roberto Ranzani, che parte subito alla volta del luogo indicato e conferma alla squadra la veridicità della tragica notizia. L’agenzia giornalistica Ansa, qualche minuto prima di mezzanotte, è la prima a dare la notizia. Scriverà che il centrocampista del Cosenza calcio Donato Bergamini si è suicidato “facendosi volutamente investire da un autotreno”. L’agenzia precisava anche che la notizia del suicidio del giocatore era basata su “una prima ricostruzione dei fatti fornita dai carabinieri”. Nel giro di poche ore, nel cuore della notte, sono già in tanti a sapere dell’omicidio fatto passare per suicidio.
Bergamini, 20 anni di omertà. L’ultimo giorno di Denis: la telefonata al Motel Agip, scrive Iacchite il 20 settembre 2017. Venerdì 17 novembre 1989 Denis Bergamini incontra Francesca, la figlia del suo amico Michele Mirabelli, per prendere la “pappa reale”, ottima come integratore. E cena all’Elefante Rosso in compagnia del proprietario del locale. Nessuno dei due nota comportamenti particolari rispetto al solito da parte di Donato. Non è tranquillo ma ha capito che, in ogni caso, sarà meglio portarsi dietro qualcosa che dimostri quell’aborto del 1987 a Londra. In tasca aveva la ricevuta di pagamento della clinica londinese dov’era avvenuta l’interruzione di gravidanza. Non sapeva nient’altro, non poteva sapere. Eppure qualcuno aveva già armato la mano degli assassini. Denis sapeva solo che presto avrebbe avuto un appuntamento. Forse già nella tarda mattinata di sabato. Di buon mattino, invece, allenamento di rifinitura al San Vito alla vigilia della partita interna contro il Messina, tre quarti d’ora di “stacco” e poi appuntamento per il pranzo al Motel Agip di Rende, storico quartier generale del Cosenza prima delle partite in casa. La mattina del suo ultimo giorno di vita, tra l’altro, l’incitamento ai compagni di Bergamini, con tanto di foto, viene pubblicato dalla Gazzetta del Sud nell’articolo di presentazione della partita. Il solito Denis che scalpita per vincere e dimostrare che il Cosenza può e deve riprendersi. L’intervista, che ci restituisce l’immagine di un calciatore combattivo e grintoso, è stata rilasciata ovviamente il giorno prima presumibilmente al termine dell’allenamento. Finita la seduta di rifinitura, nella quale si è impegnato al massimo come sempre, Denis si lamenta perchè la sua Maserati è rimasta “chiusa” dall’autovettura dell’allenatore in seconda Pini e mostra una certa impazienza per la lentezza con la quale il tecnico faceva la doccia. Il particolare viene raccontato da mister Gigi Simoni, che aggiunge: “… La fretta di Bergamini per la verità non mi apparve giustificata anche perchè la meta era il ritiro di…talchè non vi era giustificazione alcuna alla premura di allontanarsi dal campo. Questa circostanza si verificava verso le ore 11,45. L’appuntamento per il pranzo era fissato alle 12,30. “… E’ pensabile che il calciatore – osserva l’avvocato Gallerani – allora avesse programmato di andare da qualche parte, dove probabilmente aveva appuntamento con qualcuno, tanto da avere fretta di andar via dallo stadio… E’ forse questo incontro da collegare alla telefonata che gli giunge nella stanza d’albergo attorno alle 15-15,30?. Dov’è andato Bergamini con tanta premura a mezzogiorno a bordo della sua Maserati?”. Già, dov’è andato? L’intuito suggerisce che abbia potuto vedere Isabella Internò. Dopo gli abboccamenti dei primi giorni del mese di novembre, la telefonata di Boccaleone e le minacce fuori dal ristorante a Laurignano, è probabile che Denis abbia deciso di vederci più chiaro incontrando direttamente la causa dei suoi problemi. Un incontro di pochi minuti, nel corso del quale l’ex fidanzata potrebbe aver avvertito Denis che qualcuno dei suoi familiari voleva parlargli. Una sorta di “falsa rassicurazione” del tipo: “Questione di cinque minuti, gli dai quella carta dell’aborto a Londra e finisce tutto lì…”. Bergamini, di conseguenza, sembra essere ritornato tranquillo: raggiunge il Motel Agip e va a mangiare con i compagni di squadra. Finito il pranzo, i calciatori salgono in camera in attesa di vedere lo spettacolo delle 16,30 del Cinema Garden: un rituale che era stato introdotto da Gianni Di Marzio e che era continuato anche con gli altri allenatori rossoblu. Denis divide la stanza con Michele Padovano. Sono in camera quando Denis riceve una strana telefonata. “La sveglia era fissata per le quattro – ricorda Michele -, lo spettacolo alle quattro e mezzo. Intorno alle tre-tre e mezzo riceve una telefonata, che dura pochissimi minuti. Lo vedo un po’ così, ma non ci faccio caso, anche perchè non mi dice niente ed era solito estraniarsi da tutto e tutti”. Sembrava che ti volesse dire qualcosa? “Non lo so, dopo ho pensato a tante cose, perchè poi la testa, quando succedono certi fatti, va in mille direzioni. Sì, sembrava che volesse parlare, ma poi non mi disse niente. E allora gli dissi: “Andiamo!”. Ricordo che non mi rispose subito, ma non mi preoccupai più di tanto perchè spesso faceva così, non ci feci molto caso e invece dopo, ripensandoci, devo dire che era proprio assente… Glielo ridissi e mi rispose che stava scendendo. Lo aspettai giù perchè di solito andavamo al cinema con una macchina sola, ma quando mi vide mi disse che prendeva la sua macchina. E’ stata l’ultima volta che l’ho visto”. “Quando ho dato la sveglia ai giocatori per andare al cinema – ricorda il massaggiatore Giuseppe Maltese – Michele era sul letto e Denis era in piedi davanti alla finestra con lo sguardo perso nel vuoto. Sì, l’ho visto molto strano”. Perchè Denis si è incupito? Con chi ha parlato? Questa volta non è facile desumerlo. Di certo, però, c’è un particolare, che ci rivela lo stesso Padovano. A sorpresa, Bergamini decide di uscire con la sua Maserati dal Motel Agip per recarsi al vicinissimo cinema Garden quando invece era solito andare con la macchina di Michele o di qualche altro compagno. Sono le quattro del pomeriggio, anzi sicuramente qualche minuto in più se pensiamo che la sveglia era fissata per le quattro e l’inizio dello spettacolo per le quattro e mezza. La voce al telefono, dunque, gli ha preannunciato che il famoso appuntamento era fissato per il pomeriggio fuori dal cinema Garden. Probabilmente in contrasto con quanto potrebbe avergli detto Isabella per non farlo preoccupare qualche ora prima. E sarà stato anche per questo che Denis, appena entrato al Garden, ha fatto una telefonata con i vecchi “gettoni” alla stessa Isabella, che con ogni probabilità gli ha confermato che il momento dell’appuntamento è arrivato e che è previsto proprio davanti al cinema.
Bergamini, 20 anni di omertà. Gli ultimi giorni di Denis: la telefonata a casa e l’incontro con Graziella, scrive Iacchite il 18 settembre 2017. Siamo a lunedì 6 novembre 1989. Il Cosenza ha giocato al San Vito contro la Reggina e non è andato al di là dello zero a zero ma è sembrato in ripresa. Bergamini ha fatto parte dell’undici titolare ed è stato tra i migliori. La settimana scorre via tranquilla: giovedì 9 novembre, in particolare, Denis cena insieme a Michele Padovano a casa di Michele Mirabelli e non c’è ancora nulla che possa far pensare a qualcuno che gli vuole male. Il 12 novembre il Cosenza gioca a Monza. Allo stadio “Brianteo” c’è anche il papà di Denis, Domizio, con il quale si salutano dopo la conclusione della partita. Fu un pareggio: 1-1 con gol rossoblu di Padovano. Bergamini avrebbe passato la notte in un hotel di Milano. Con lui c’era un’amica, Giuliana Tampieri, ma tra loro non c’era nessun tipo di legame se non quello di una sincera amicizia. Il giorno dopo Denis rientra a casa a Boccaleone. Al momento di mettersi a tavola per la cena, verso le 20, arriva una telefonata. Denis si alza subito e dice: “E’ per me”. Il cognato Guido Dalle Vacche afferma di aver avuto l’impressione che attendesse quella telefonata. Bergamini si dirige verso la stanza del telefono, chiude la porta e torna dopo un minuto. Dopo la telefonata, l’umore di Denis cambia totalmente. Donata ricorda: “A tavola era seduto di fronte a me, improvvisamente diventò tutto rosso intenso in volto e sulla fronte aveva gocce di sudore, non ho mai visto una reazione così, mio padre se ne accorse e gli disse: “Denis, se hai caldo leva il maglione”, ma lui rispose che erano cose sue. Successivamente Denis va a casa di Donata e Guido, che cercano di sapere qualcosa in più rispetto alla telefonata. Donata a un certo punto gli dice: “Denis, papà è rimasto male, ma chi era al telefono?”. Denis risponde: “Gli piacerebbe saperlo a papà cosa sta succedendo”. Il cognato Guido rimane molto colpito dalla frase “gli piacerebbe a papà” e dice, al riguardo: “Subito pensai all’episodio dell’aborto, perché ricordo che il padre di Denis si era lamentato molto di quel fatto, ribadendo a Denis che certe cose non si facevano e poteva succedergli qualcosa di brutto. Il discorso era stato ripreso più volte e il riferimento che Denis fece al padre mi portò a ricollegare le cose. Certo, è una mia sensazione, ma conoscendo Denis interpretai il riferimento in quel modo e credo di non avere sbagliato”. Ricapitoliamo: nella settimana che precede la partita di Monza qualcuno ha detto a Denis che il lunedì gli sarebbe arrivata una telefonata a casa, a Boccaleone. E’ probabile che a Bergamini venissero chieste spiegazioni sull’aborto (ma Denis è a conoscenza solo di quello del 1987) ed è altrettanto probabile che siano partite o siano state riferite minacce più o meno velate. Dietro queste minacce, non può che esserci Isabella Internò.
L’INCONTRO CON GRAZIELLA DE BONIS. Al rientro a Cosenza, nel primo pomeriggio di martedì 14 novembre, dopo aver viaggiato con l’auto del compagno di squadra Massimo Storgato, Denis sembra essere tornato del tutto sereno. Tra martedì 14 e mercoledì 15 novembre, proprio a dimostrazione della tranquillità di Denis, si colloca l’incontro con una ragazza cosentina, Graziella De Bonis, che qualche anno dopo sarebbe diventata “famosa” per aver partecipato al concorso Miss Italia ed essersi fidanzata con il popolare conduttore tv Fabrizio Frizzi. “… La ragazza – riferisce l’avvocato Gallerani nel suo dossier di controinchiesta – ricorda bene di avere incontrato Bergamini sicuramente nella settimana stessa in cui lui morì, all’uscita della farmacia sita nella piazzetta di Commenda di Rende, quando lei si trovava in compagnia dell’amica Elena Terzi…”. Graziella conosceva già Denis, tramite la sorella Rossana. Martedì 14 o mercoledì 15 novembre, Denis è con Michele Padovano quando incontra Graziella De Bonis ed Elena Terzi. Graziella, ascoltata dall’avvocato Gallerani, dichiara che prima di salutarsi, Denis chiese alle ragazze se fossero libere la domenica e, alla loro risposta affermativa, si accordarono di incontrarsi sempre lì, nella piazzetta di Commenda, la domenica successiva dopo la partita e poi andare a mangiare qualcosa insieme. Graziella accettò anche perché sapeva che Bergamini aveva interrotto la sua relazione con Isabella Internò. Tra l’altro, la De Bonis ricorda che “nel corso della conversazione tra noi avvenuta nella piazzetta di Commenda passò proprio Isabella e si salutò con Denis”. La vita del calciatore, dunque, si svolge serena e allegra e anche quelle ombre che si addensavano dietro la telefonata di qualche ora prima sembrano essersi dissipate. Di Graziella De Bonis torneremo a scrivere quando affronteremo gli eventi immediatamente successivi alla morte di Denis. Si tratta di un episodio inedito, ancora non raccontato da nessun media, che quantomeno lascia pensare…
Omicidio Bergamini: la gelosia morbosa di Isabella e il (possibile) secondo aborto, scrive Iacchite il 9 settembre 2017. Dopo la triste esperienza dell’aborto, il rapporto tra Denis e Isabella fatalmente ne risente ma continua ancora, tra il 1987 e il 1988, tra alti e bassi. E’ impossibile conoscere la situazione del rapporto mese per mese dopo l’interruzione di gravidanza dell’estate del 1987 ma sappiamo con certezza che tra maggio e giugno 1988, quando Bergamini festeggia la promozione del Cosenza in Serie B, non c’è traccia di Isabella. Suo cognato Guido Dalle Vacche, il marito della sorella Donata, è rimasto a Cosenza per almeno due settimane e non ha mai visto la ragazza. Anzi, è stato testimone di altre relazioni di Denis, magari durate solo una notte o un pomeriggio, visto che, come abbiamo accennato, era corteggiatissimo dalle ragazze cosentine. “Posso dire che in quei giorni non vidi mai Isabella – afferma Guido -. Già prima di allora Denis mi aveva detto che le cose con lei non andavano tanto bene e che il loro rapporto si era raffreddato. Ricordo che Denis mi disse: “E’ possessiva. Mi fa delle scenate senza alcun motivo”. Anche il suo compagno di appartamento Gigi Simoni sottolinea la gelosia di Isabella. “Nel rapporto con Denis, Isabella era senz’altro gelosa e direi anche possessiva. Spesso arrivavano telefonate di Isabella che voleva sincerarsi che fosse in casa. Quando non c’era e io ero in casa, voleva sempre sapere dove fosse Denis e quando sarebbe rientrato. Io poi riferivo a Denis che Isabella lo aveva cercato e spesso lui commentava, un po’ seccato, “ancora…”. Insomma, capivo che lei era troppo opprimente e che voleva sapere dove fosse in ogni momento della giornata. Diverse volte Denis aveva lasciato la ragazza e mi aveva detto: “Adesso basta con Isabella”. Dopo poco tempo, però, li rivedevo assieme e Denis, pur dopo averla mollata, si rimetteva assieme a lei. Denis non mi ha mai detto di essere innamorato di lei ma certamente, almeno nei primi tempi, posso dire che la ragazza gli piaceva molto, soprattutto fisicamente”. Maurizio Lucchetti e sua moglie Tiziana Rota uscivano spesso con Denis e Isabella e il centravanti rossoblu, insieme alla compagna, sono stati determinanti (per come vedremo) per chiarire una serie di circostanze strettamente legate alla morte di Denis. “Circa il loro rapporto – dichiarerà Lucchetti all’avvocato Gallerani nella sua controinchiesta – posso dire che, anche se stavano bene assieme, avevano una mentalità molto diversa. Sicuramente per Denis il pensiero principale era il calcio mentre per Isabella il pensiero principale era Denis… In particolare posso dire che Isabella era molto gelosa e possessiva, a livello che potrei definire morboso”. “Isa era molto innamorata di Denis – dichiara Tiziana Rota – ma amava anche il contesto in cui lui viveva. Si trovava su un piedistallo, era un bravo calciatore, famoso, lui e i suoi compagni a quei tempi erano visti come degli idoli, io stessa riflettevo l’immagine di mio marito e la cosa mi faceva piacere… Tuttavia, la gelosia di Isa nei confronti di Denis si faceva sempre più morbosa… ad esempio mi telefonava a fine allenamento chiedendomi se Maurizio era già rientrato e capitava che mi rispondesse: “Vedi, Denis non è ancora arrivato, chissà dov’è, chissà cosa starà facendo…”. Controllava persino sotto casa sua per vedere se tornava dagli allenamenti. Per questi motivi litigavano spesso e Denis più di una volta, in presenza mia e di mio marito, le aveva detto: “Te lo dico davanti a loro, se non la smetti con questa gelosia, ti lascio”. Dopo che Gigi Simoni si è trasferito a Pisa, Denis Bergamini è andato a vivere in un appartamento insieme a Michele Padovano. I due hanno caratteri diversi ma si stimano profondamente. Ecco cosa dice Padovano del loro rapporto. “Isabella era la ragazza di Denis, quella che gli aveva fatto perdere la testa. Ogni tanto si lasciavano ma poi si rimettevano insieme…”. Il massaggiatore Giuseppe Maltese la definisce “il contrario di Denis: aveva sì e no 18 anni, ma di carattere ne dimostrava 30… Si muoveva come una donna esperta alle prese con un buon partito… Non mi è mai stata simpatica. Era una ragazzina che mi provocava molta diffidenza, forse ero condizionato dal fatto che nell’ambiente della squadra sul conto di lei si sparlava parecchio. Il soprannome più gentile che le avevano dato era Vedova allegra…”. E’ probabile che Denis abbia riallacciato la relazione con Isabella tra agosto e ottobre del 1988 mentre è certo che a novembre dello stesso anno i due si erano definitivamente lasciati o comunque la loro relazione si era interrotta per più di qualche mese. E’ quanto risponde la ragazza a una precisa domanda del sostituto procuratore riguardante la durata del loro rapporto. Cosa sia accaduto a novembre del 1988 non è dato sapere ma si deve trattare di qualcosa di molto importante o quantomeno a Isabella serve fissare una data per dare un riferimento temporale preciso. Non sappiamo se le serve per le indagini oppure per una “giustificazione” da dare a qualcuno. Questo comunque non significa che Denis e Isabella da novembre 1988 in poi non si siano più visti o sentiti. Denis, tuttavia, anche parlando con i suoi familiari, sottolinea che il suo rapporto con Isabella si è definitivamente interrotto. E così risulta anche agli amici Michele e Francesca Mirabelli, che lo ospiteranno a casa loro nell’estate del 1989. Ma c’è di più. Nel maggio del 1989 Denis aveva riallacciato una relazione avuta anni prima con Roberta Alleati, una ragazza di Russi. “Mi raccontò che era single in quel momento – dice Roberta nel dossier presentato dall’avvocato Gallerani -, che aveva avuto una relazione durata diversi anni con una ragazza di Cosenza e che era finita da un paio di mesi. Era finita perché lui si era disinnamorato. Denis mi disse che era diventato impossibile rimanere assieme a lei per la sua morbosa gelosia e possessività; lo soffocava e lo esasperava…”. A giugno invece Bergamini se ne va a Riccione insieme ai compagni di squadra Padovano e Marino e di sicuro non ha più contatti con Isabella. E frequenta spesso invece Roberta, la ragazza di Russi, in provincia di Ravenna, che aveva conosciuto quando giocava con la squadra del paese romagnolo in Serie D. Torna a Cosenza a metà luglio ma solo per andare in ritiro con la squadra.
LA POSSIBILE SECONDA GRAVIDANZA DI ISABELLA. Ci sono diverse testimonianze che riferiscono di una certa insistenza di Isabella nel cercare Denis, sia telefonicamente che in giro per la città, nei mesi di aprile e maggio e poi ad agosto del 1989. Giovanna Rosapane, una sua amica cosentina, dichiara: “Denis mi disse che non riusciva a liberarsi di Isabella, che gli telefonava e lo “tampinava” dappertutto…”. Anche la stessa Roberta Alleati riferisce che Bergamini gli confidava i tentativi di Isabella di riprendere il rapporto. Michele e Francesca Mirabelli, come accennato, lo ospitano nel loro appartamento ad agosto (mentre loro si trovavano al mare) insieme a Michele Padovano in attesa che si liberasse l’appartamento destinato loro dalla società per la stagione 1989-90. Michele Mirabelli ricorda in particolare che, al rientro dalle ferie, quando i due calciatori già si erano trasferiti nella nuova casa, ascoltò i messaggi che erano arrivati nella sua segreteria telefonica. E trovò alcuni messaggi che erano rivolti a Denis. I messaggi erano tutti di Isabella Interno ed erano tutti dello stesso tenore. Così dichiara Michele Mirabelli: “La ragazza sollecitava (quasi pregandolo) Denis a risponderle. Il loro tenore era il seguente: “Denis, rispondi, rispondi”; “Dè, ti vuoi decidere a chiamarmi?”; “Rispondimi, rispondimi, ti prego”. Ricordo che ascoltai i messaggi con mia moglie Maria e anche con mia figlia Francesca. Tutti noi rimanemmo stupiti e capimmo bene che Denis non intendeva rispondere alle telefonate della ragazza”. Isabella Internò potrebbe avere abortito una seconda volta tra l’estate e l’autunno del 1989. Lo avrebbero appurato gli investigatori acquisendo la relativa documentazione in una clinica di Cosenza. E’ molto probabile che Isabella cercasse Denis per informarlo che, dopo uno dei loro ultimi incontri, era rimasta incinta. Ma Bergamini non le dà la possibilità di parlare. E Isabella potrebbe andare ad abortire a Cosenza, probabilmente con l’aiuto della “zia di Torino”, per evitare che qualcuno dei suoi familiari possa scoprire tutto. Questa volta però i familiari di Isabella vengono a conoscenza della gravidanza (non sappiamo se di una sola o addirittura di entrambe) e tra questi anche un amico di famiglia, un poliziotto in servizio alla digos di Palermo, che qualche tempo dopo sarebbe diventato suo marito. Ma che molto probabilmente faceva “triangolo” con la sua fiamma (porcaria diciamo a Cosenza) e Denis. Nel senso che quella donna lo prendeva per i fondelli. Eh sì, perché quando il giudice le chiede lumi sul periodo della sua gravidanza, la ragazza risponde testualmente: “… Mi è capitato di dover ricorrere alla interruzione volontaria della gravidanza nell’estate del 1988…”. Già, però l’aborto avvenne in realtà l’anno precedente, nel 1987, ed è davvero strano un errore del genere per chi abortisce. A meno che non dovesse dare “giustificazioni” a qualcuno. O forse vi fu un altro aborto?
Bergamini, 20 anni di omertà. I calciatori del Cosenza e le ragazze. Belli e Impossibili, scrive Iacchite il 5 settembre 2017. IL CAMPIONATO 1988-89. Anche nella stagione successiva quella squadra e quel gruppo, appena reduci dall’impresa della promozione, hanno tenuto alto il nome di Cosenza in Serie B. La società ha deciso di confermare praticamente tutti i protagonisti della promozione ma non ha raggiunto l’accordo con Gianni Di Marzio e ha chiamato un tecnico emiliano, Bruno Giorgi. L’ambiente, all’inizio, non è troppo favorevole nei suoi confronti ma Giorgi disarma tutti con la sua squisita gentilezza, con il suo proverbiale savoir fairee anche lui riesce a plasmare la squadra a sua immagine e somiglianza. E se il Cosenza di Di Marzio era cinico e sparagnino, quello di Giorgi sarà offensivo e spregiudicato. E’ un Cosenza che gioca sempre per vincere, che dà spettacolo su tutti i campi e strabilia gli addetti ai lavori: è stata sicuramente la squadra più bella mai ammirata al San Vito. Dopo un inizio altalenante, il Cosenza ingrana la marcia ed entra a far parte dell’elite del campionato. La Serie A è stata a lungo cullata e sognata: per mezzora, a Taranto, quando la Cremonese soccombeva a Licata, si è accarezzata concretamente la possibilità di fare almeno lo spareggio ma la classifica avulsa all’epoca ci penalizzò. Nessuno ha dimenticato quei mesi di passione. Sei vittorie in trasferta, una dimostrazione costante di forza e brillantezza. Partite come quelle di Monza, Padova, Piacenza, Udine, Bari resteranno memorabili così come le esaltanti vittorie al San Vito contro Reggina, Brescia, Avellino, Messina… E il merito è stato quasi esclusivamente di Bruno Giorgi, il grande allenatore gentiluomo. Denis Bergamini è uno dei calciatori preferiti del tecnico emiliano. Dal Torino è arrivato un ragazzotto di belle speranze, Giorgio Venturin, ma il titolare è Denis. L’avvio di campionato è difficile ma dal derby con la Reggina in poi il Cosenza non si ferma più: nove risultati utili consecutivi e quarto posto in classifica. Nella gara casalinga con il Licata Denis segna il suo primo gol in Serie B con una caparbia azione in percussione. La serie positiva si interrompe al San Vito contro il Bari, il 31 dicembre. Da lì inizia un periodo che definire sfortunato è poco. Prima della partita di Udine, il 7 gennaio 1989, Bergamini cade sul campo di allenamento e si frattura il perone. Resterà fuori per tre mesi e poi avrà bisogno di qualche altro mese per riprendere il ritmo. Di fatto, il suo campionato finisce lì ma Denis ha fatto gruppo come non mai. Spesso in Curva a seguire le partite casalinghe e poi sempre sul campo, insieme al fisiatra De Rose, per recuperare al meglio. Ha fatto in tempo a giocare anche qualche altra gara, come a Catanzaro o come in casa col Parma. Ma è chiaro che doveva rimandare tutto all’annata successiva. Nel frattempo, però, a Denis non mancavano certo le richieste. Lo voleva il Parma di Nevio Scala, che gli aveva offerto un ingaggio molto importante ma soprattutto la Fiorentina di Bruno Giorgi, che aveva decisamente puntato anche Michele Padovano. Ecco il ricordo dell’attaccante rossoblu. “Ricordo che Giorgi voleva anche lui a Firenze, era un suo grande estimatore. Denis era un centrocampista moderno, poteva giocare in tutti e quattro i ruoli del centrocampo, ma era molto più bravo al centro, sulla linea mediana, davanti alla difesa. Era un incontrista che non disdegnava di giocare il pallone, anzi gli piaceva cercare la “giocata”, rischiava e poi metteva sempre la gamba, non si tirava indietro. Mi piaceva molto la sua tenacia e mi ha insegnato che in allenamento bisognava sempre dare il massimo”. Ma il Cosenza non vuole perdere Bergamini. Un giorno chiamò Luigi Simoni: «Risposi io – ricorda papà Domizio -, pensando che fosse il suo vecchio compagno di squadra. Era, invece, il nuovo tecnico del Cosenza». Simoni, specialista dei campionati di Serie B, con all’attivo tre promozioni nella massima serie, cerca di convincere il ragazzo a rimanere, ma in un primo tempo senza successo. Poi interviene Ranzani e Bergamini cede: «Denis si sentiva debitore nei confronti di Ranzani, dei tifosi ed anche del Cosenza. La società infatti gli aveva messo a disposizione una macchina speciale per favorire la guarigione e mio figlio non l’aveva dimenticato». E così Denis Bergamini rimane a Cosenza.
I CALCIATORI DEL COSENZA E LE RAGAZZE. Da marzo 1985 in poi (da quando fu ucciso il direttore del carcere Sergio Cosmai), la guerra di mafia diventa per fortuna solo un lontano ricordo e così finalmente a Cosenza e nell’area urbana si ritorna ad uscire la sera. I giovani amano sostare fino a tarda ora nella centralissima piazza Kennedy, che diventa così il luogo ideale per gli incontri e magari per le “avventure”. Ma anche in altri punti di ritrovo come la piazzetta di Commenda, a Rende, vicino al Bar Mary. O la discoteca Akropolis, sulla strada per Castiglione Cosentino. “… Non erano fighetti da copertina i calciatori del Cosenza – scriveva Iole Perito nel 2009 su Cosenza Sport – . All’epoca non erano ancora di moda i calciatori adatti al fashion style e all’essere icone gossip, le veline erano solo fogli di carta da pubblicare o al massimo cose che i giornalisti dovevano passare “per forza” al loro politico di riferimento. Eppure certi appartamenti tra il centro di Cosenza e soprattutto Commenda di Rende, come raccontano residui di cronache pettegole, davano anticipazioni degne dei migliori scoop da rotocalc(i)o. Diverse signore della buona borghesia rischiarono lo scandalo mettendo in pericolo la quiete coniugale… Michele Padovano era il calciatore più “richiesto”, era lui quello eletto come “il più bello”. … Ragazzo della porta accanto con lo sguardo sofferente che ispirava il classico “aspetto che lei venga a salvarmi”. Il suo charme ma anche quello dei suoi compagni, ci mancherebbe altro (e mica poteva “farsele” tutte lui…), ha saputo stamparsi nei ricordi di signorine (e non solo) ammaliate da quei lupi sempre un po’ imbronciati e ideali per lo spot dell’uomo che non deve chiedere mai. Michele l’irraggiungibile (o Bello e Impossibile) si conquistò il titolo di bel tenebroso, bad boy con la faccia da bravo ragazzo che non disdegnava ciambotte insieme agli ultrà…Lui e Denis Bergamini al San Vito spopolavano. Persino oggi che nelle foto risaltano in abbigliamenti grezzi sono sempre due visi d’angelo che strappano un sorriso al pubblico femminile. Per loro le donne hanno fatto follie. La chioma scalata di Padovano fece perdere la testa a teenagers che per incrociarsi con quello sguardo sofferente tiravano filone presentandosi alla sua porta. Nel calcio di allora contava più il fascino che il fashion. E c’era anche la discoteca, una sola, che all’epoca già bastava e avanzava, la mitica Akropolis. E lì andava di moda anche la permanente, ma è improbabile che la cascata di riccioli di Galeazzi e Urban fosse il frutto di una seduta dal barbiere…”. Tra quelli che spopolavano c’era anche Claudio Lombardo, ma veniva ritenuto più “serio” di altri, forse anche perché aveva una fidanzata al Nord che poi è diventata sua moglie. Galeazzi invece alla fine si è sposato davvero con la fidanzata cosentina dell’epoca, Marina, che lavorava all’Hit Shop, dove le commesse erano così belle che erano i calciatori (e non il contrario) a fargli il filo. E Denis Bergamini?
Bergamini, 20 anni di omertà: Denis, l’uomo in più di Gianni Di Marzio, scrive Iacchite il 20 agosto 2017. IL CAMPIONATO DELLA CONSACRAZIONE. Gianni Di Marzio sa già di avere a disposizione una buona rosa per provare l’impresa attesa da quasi un quarto di secolo ma chiede ancora uno sforzo alla società. Urban decide di restare, Rocca viene sostituito da un’altra vecchia lenza come Renzo Castagnini, reduce dalla promozione in Serie B con il Barletta, che Di Marzio aveva già avuto con se a Catania mentre il posto di Messina viene preso da Maurizio Lucchetti, un talentuoso centravanti di manovra garantito da Ranzani. Serve anche un libero e in questo caso Di Marzio va sul sicuro convincendo Maurizio Giovanelli, un’altra sua vecchia conoscenza dai tempi di Catania. E per non lasciare nulla al caso, arriva anche un altro rinforzo per il centrocampo: Gigi De Rosa, proveniente dal Pescara. Il Cosenza è tra le superfavorite del torneo. I nuovi arrivi vanno a completare un’ossatura già collaudata con i ragazzi portati in rossoblu da Ranzani: Simoni, Lombardo, Bergamini, Galeazzi e Padovano. Ai quali si aggiungono l’ormai inamovibile Ciccio Marino, Giansanti e Schio. Quella squadra riuscirà a compiere l’impresa ma non senza patemi d’animo. Le sconfitte iniziali di Foggia e Reggio Calabria provocano parecchi malumori ma Di Marzio tiene duro, motiva la squadra e ne esalta le sue capacità. E’ un gruppo che prende pochissimi gol ma che non segna molto. Tante le partite, dentro e fuori, che finiranno zero a zero. Il vulcanico tecnico napoletano è restio a schierare sempre il “tridente” formato da Lucchetti, Urban e Padovano perché teme per la tenuta del centrocampo e della difesa e allora spesso e volentieri Padovano finisce in panchina e in mezzo al campo giocano sia Bergamini che De Rosa (come si vede nella foto in alto). In realtà, Di Marzio utilizza Denis anche come ala tattica (maglia numero sette) in alternativa a Galeazzi, che nelle prime giornate non trova molto spazio tra i titolari. Per tutto il girone d’andata “Berga” gioca per lo più con la maglia numero undici e qualche volta anche con la dieci. Il 6 marzo, in un Cosenza-Reggina finito a reti inviolate ma pesantemente condizionato da un rigore non concesso ai Lupi per un plateale atterramento di Urban, Bergamini inizia a indossare la sua maglia numero otto, che non mollerà più dalla leggendaria vittoria di Salerno. Sì, perché il campionato dei Lupi si sblocca proprio al “Vestuti” di Salerno dove un gol in contropiede di Padovano sancisce la svolta di tutto. La tifoseria fa il resto, colorando di rossoblu ogni quartiere della città e trascinando la squadra agli ultimi indispensabili successi. Da allora Bergamini non mollerà più quella maglia che diventerà il suo biglietto da visita. Denis Bergamini è uno degli eroi della promozione. Le ragazze lo corteggiano, i ragazzi lo eleggono tra i loro idoli preferiti. “Berga” perde anche un po’ della sua timidezza e si convince sempre di più delle sue grandi qualità. E’ uno dei giocatori più presenti in quella squadra. Disputa 32 partite su 34. Di Marzio lo ritiene indispensabile per l’equilibrio tattico della squadra. Denis, come al solito, corre per chi fa il playmaker davanti alla difesa (in questo caso Castagnini, il capitano) e per consentire a Urban di fare il “fenomeno” lì davanti. Spende un sacco di energie ma non perde un contrasto e una sola occasione per ripartire.
IL RICORDO DI GIANNI DI MARZIO. (Da denisbergamini.com). Potrei raccontare tante cose di Denis, così come di tutti i ragazzi che allenai, ed a cui rimango ancora oggi profondamente affezionato. Sono due gli episodi che mi colpirono di più. Uno, il primo, è un rammarico: senza colpevolizzare nessuno, ma per il mio modo di fare, di vedere il calcio, io ero uno di quelli che seguiva i suoi ragazzi metro per metro, giorno per giorno. Ed avevo un allenatore in seconda, Tonino Ferroni – peraltro, come Simoni, molto amico di Denis – che mi aiutava nel controllarli. Non sono mai stato particolarmente democratico, in tal senso, nella gestione dei calciatori: anzi, ero abbastanza assolutista. Se entravamo in 20 al cinema, in 20 dovevamo uscire, e per questo sguinzagliavo Ferroni che mi sostituiva nel fare da ‘fratello maggiore’ ai ragazzi. Ecco perché, all’epoca, mi meravigliai moltissimo di come, Denis, quel giorno, abbandonò il cinema: lui non l’avrebbe mai fatto. Una cosa del genere non stava né in cielo né in terra. L’altro momento che ricordo è legato ai funerali di Donato. A casa di Denis parlai con suo papà, Domizio: quando mi spiegò che l’orologio, anche a seguito dell’incidente, rimase intatto, oltre a tutto il resto, la prima cosa che gli proposi fu di chiedere un’autopsia. Andava fatta. Denis, in ritiro, con Simoni, Ferroni e Padovano componeva il gruppo – anzi, il quartetto – degli inseparabili. Certo, con lui non avevo un rapporto vero e proprio di complicità, come poteva essere per mio figlio Gianluca, che, essendo più giovane, con lui faceva lunghe passeggiate. Questo era Denis, un ragazzo semplice, sereno e gioviale. Certo, come calciatore mi faceva anche arrabbiare. Era discontinuo e talvolta mancava di intensità: e per questo io, per educarlo, lo spronavo di frequente. Lo incattivivo. Volevo che desse sempre il massimo in campo, e lui lo faceva. Infine volevo che migliorasse ancora, e ancora: ecco perché, alla fine, con me ha sempre giocato. Perché aveva splendide potenzialità. Ottime potenzialità. Tanto che Denis potrebbe essere tranquillamente collocabile, oggi, nel calcio moderno. Personalmente, in lui rivedo una sorta di antesignano di Pavel Nedved. Ecco, Denis era il mio Nedved, anche perché io mi circondavo, soprattutto a centrocampo, di giocatori rapidi, scattanti, proprio come Bergamini. La sua rapidità, accoppiata a quella di Urban, alla capacità agonistica e temperamentale di Giovanelli e Castagnini, dava alla mediana una quantità ed una qualità inaudita. Oggi in tanti usano il 4-3-3: bene, nel ruolo di ala largo, a sinistra, in attacco, Denis si sarebbe perso, ma i ruoli di mezzala mancina nei 3, oppure esterno nel 4-2-3-1, sarebbero stati una vera e propria manna per lui, per le sue capacità, e per chi avrebbe potuto schierarlo. Un pò Mertens, un pò Hamsik, per riferirsi al Napoli, ad esempio. Esplosività, rapidità, dedito agli inserimenti: Denis, in qualche modo, anticipò il calcio di oggi, in cui i giocatori come lui sono richiestissimi. E nel quale lui, Denis, sarebbe stato benissimo. Gianni Di Marzio – Allenatore, opinionista e dirigente sportivo
Bergamini, 20 anni di omertà: Denis e il Cosenza Calcio, scrive Iacchite il 19 agosto 2017. Denis Bergamini, come abbiamo accennato, è stato seguito personalmente dal direttore sportivo Roberto Ranzani, che ne è rimasto entusiasta per le doti di corsa ma anche per come “tocca” il pallone. Per lui, quello della Serie C è un “doppio salto”, con la prospettiva di fare la panchina agli esperti Alberto Aita, Vittorio Petrella e Damiano Morra, che sono i titolari delle maglie di centrocampo. Mister Montefusco, reduce da un bel campionato concluso tra le “grandi”, ha tutta l’intenzione di costruire una bella miscela tra giovani e anziani ma tutto girerà per il verso storto. L’esordio di Bergamini con la maglia rossoblu arriva già alla prima giornata, al San Vito contro la Salernitana, il 22 settembre 1985. Un quarto d’ora, quello finale, al posto di Rovellini, per contenere gli avversari e mantenere il vantaggio siglato da Tivelli. La prima gara da titolare, con la maglia numero sette, a Brindisi, qualche settimana dopo. Ma tutti, e forse anche Denis, sono convinti che c’è ancora un po’ di tempo da aspettare per diventare stabilmente un pilastro del Cosenza. E invece la decisione della società di mettere ai margini della prima squadra Petrella e Morra dà la possibilità proprio a Bergamini e al talento locale Bruno Russo di mettersi in mostra e di conquistare la fiducia dell’allenatore napoletano Enzo Montefusco. E’ alla dodicesima giornata che Denis indossa per la prima volta la maglia numero otto proprio per prendere il posto di Petrella, spedito in panca. E poi ancora una decina di partite con la maglia numero sette fino alla conclusione del campionato. Non è una grande stagione per il Cosenza, beninteso. Nonostante la cessione “miliardaria” del bomber Gigi Marulla al Genoa, la società non allestisce una squadra competitiva e meno male che quel “vecchio diavolo” di Costante Tivelli segna sedici gol che, alla fine, valgono una sofferta salvezza proprio all’ultima giornata in casa contro il Monopoli. Una stagione così stentata che provoca anche l’esonero di Montefusco a otto giornate dalla fine del torneo e il ritorno a Cosenza di quel tecnico argentino, Oscar Montez, che era stato protagonista di memorabili campionati negli anni Sessanta e Settanta. Ma per giovani come Bergamini, Simoni, Lombardo, Marino e Russo è comunque un’annata positiva e per i tre ragazzi del Nord, ai quali si unisce l’indigeno Ciccio, quel campionato significa una conferma a furor di popolo per la stagione 1986-87. Denis, che doveva essere riserva delle riserve, gioca ben 24 partite e si ritaglia, insieme a Simoni e Lombardo, il ruolo di “rivelazione” di quella stagione così avara di soddisfazioni.
STAGIONE 1986-87. Per la stagione successiva la società si decide finalmente a costruire una squadra competitiva per il salto di categoria. L’allenatore prescelto, Franco Liguori, aveva portato con se da Cava de’ Tirreni un giocatore esperto e grintoso come Tonino Rocca, castrovillarese, a fine carriera e reduce anche da esperienze in Serie A e Alberto Urban, un fantasista peperino che aveva giocato una stagione fantastica in Campania. Ma non solo: per la prima linea si decide di puntare su un attaccante di categoria come Gabriele Messina, un lusso per la C1 e su un giovane promettente cresciuto nel vivaio, Walter Mirabelli. E in difesa arrivano ancora altri giocatori di livello come lo stopper Schio, il libero Sassarini e il terzino Giansanti. Tra i giovani, come accennavamo, Ranzani ha “pescato” due piemontesi, Sergio Galeazzi, un esterno di grande corsa e Michele Padovano, attaccante di movimento. Simoni, Marino, Lombardo e Bergamini, dopo la bella stagione precedente, partono da titolari in una formazione che è un mix di esperienza e gioventù e che sembra destinata a far esplodere il Cosenza. Ma non andrà così. Dopo una buona partenza, la squadra, dopo la sconfitta interna contro il Catanzaro di Palanca, entra in crisi e costringe la dirigenza a dare il benservito a Liguori. I giocatori, capitanati dai “fedelissimi” Rocca e Urban, si oppongono con forza all’esonero e solo la grande capacità diplomatica del presidente Carratelli sarebbe riuscita a compiere il miracolo del via libera al nuovo allenatore, Gianni Di Marzio. Il rendimento della squadra migliora ma non al punto di rientrare in lotta per la promozione. Alla fine il Cosenza è quarto ma pone le basi per il ritorno in Serie B. Bergamini disputa 28 partite e segna anche due gol pesanti e decisivi al San Vito contro Sorrento e Benevento. Il gol contro il Benevento, in particolare, è un capolavoro balistico. Gran tiro da oltre venti metri, di destro, e palla all’incrocio dei pali. Per di più a quattro minuti dalla fine, quando il risultato sembrava ormai bloccato sull’uno a uno. Quel ragazzino biondino e apparentemente timido e scontroso, si rivela un mediano di spinta coi fiocchi, bravo sia nella fase di interdizione che nella costruzione del gioco. A vederlo fuori dal campo non diresti mai che sia in grado di svolgere tutto quel lavoro. Denis gioca proprio in mezzo a Rocca, che fa il playmaker davanti alla difesa e Urban, che fa il trottolino tra le linee. Tocca a lui assicurare il collegamento tra i reparti e, soprattutto, correre e recuperare palloni. Il biondino non si risparmia e gioca una partita più bella dell’altra risultando titolare fisso sia con Liguori che con Di Marzio. Salterà solo sei partite, una per squalifica e le altre per un problema muscolare smaltito senza troppi assilli.
Bergamini, 20 anni di omertà: la carriera di Denis. La leva calcistica della classe ’62, scrive Iacchite il 18 agosto 2017. Simoni, Marino, Lombardo, Castagnini, Schio, Giovanelli, Galeazzi, Bergamini, Lucchetti, Urban, Padovano. Non c’è dubbio che sia questa la squadra del Cosenza alla quale i suoi tifosi sono più legati. Non solo perché ha conquistato la Serie B dopo tanta attesa ma anche perché questi stessi uomini, con pochissime variazioni, soltanto un anno dopo, hanno sfiorato una clamorosa promozione in Serie A. E’ questo il gruppo più forte che abbiamo mai visto, grazie anche a due grandi allenatori come Gianni Di Marzio e Bruno Giorgi. E a un direttore sportivo ferrarese, che risponde al nome di Roberto Ranzani, che ha modellato il nucleo storico di questa squadra negli anni precedenti. Gigi Simoni, Claudio Lombardo, Sergio Galeazzi, Denis Bergamini e Michele Padovano sono cinque giovanotti di belle speranze che iniziano a muovere i loro primi passi calcistici nelle squadrette di periferia del Nord. Gigi Simoni e Denis Bergamini abitano a un tiro di schioppo l’uno dall’altro. Gigi è di Comacchio, Denis di Argenta. Provincia di Ferrara. Claudio Lombardo è di Voghera, vicino Pavia. Il loro talent scout è appunto Roberto Ranzani, direttore sportivo ferrarese del Cosenza, una società di un certo blasone che sta cercando di tornare in serie B. Ranzani li recluta tutti e tre tra il 1984 e il 1985. Denis ha 23 anni, Claudio 22 e Gigi 20. Lombardo si prende subito la maglia numero 3 di terzino sinistro con licenza di fluidificare e non la molla più. Simoni, dopo un anno di panchina a Roberto Busi, si prende il posto di titolare alla fine del girone d’andata scalzando Delli Pizzi. Il mediano Bergamini gioca un buon numero di partite (24) ma esploderà l’anno successivo quando ai tre ragazzotti del Nord si aggiungeranno altri due talenti scoperti da Ranzani, Sergio Galeazzi e Michele Padovano, entrambi piemontesi. Sergio ha 21 anni, Michele 20 e sta svolgendo il servizio militare. Si forma così l’ossatura del Cosenza dei miracoli. Uniti sia in campo che fuori, amicizie che lasciano il segno e che si estendono anche alle rispettive famiglie.
DENIS BERGAMINI: GLI INIZI. Denis Bergamini, all’anagrafe Donato (all’epoca i nomi stranieri non erano consentiti…), è nato il 18 settembre 1962 ed è arrivato a Cosenza quando non aveva ancora compiuto 23 anni, reduce da un buon campionato di Serie D a Russi, vicino Ravenna. Viene dalla provincia di Ferrara, precisamente da una frazione di Argenta, Boccaleone. E’ figlio di Domizio, un contadino che ha sempre lavorato duro, anche dodici ore al giorno, e ha tirato su la sua famiglia con grandissima dignità insieme alla moglie Maria, lasciandogli coltivare il sogno di diventare un calciatore professionista. E Denis, già da quando era soltanto un bambino, aveva dimostrato a tutti di poter riuscire in quell’impresa. Spalleggiato e supportato dalla sorella maggiore, Donata, che ovviamente stravede per lui.
L’INTERVISTA AL GUERIN SPORTIVO. «Già, il pallone – sorride Donata -. Denis era fissato. Lo ricordo sempre con la palla tra i piedi e con la Juventus nel cuore. Tra noi c’era un anno di differenza. Si giocava spesso insieme, qui nel giardino di casa. Ovviamente a me toccava stare in porta, mentre lui tirava e correva senza soste». La passione c’è, il talento pure. Il Boccaleone lo arruola presto nei Pulcini: «Era piccolino – rammenta Domizio – , un “cosmo” pelle e ossa. Non avrei mai creduto che con il calcio avrebbe sfondato. Io stavo in disparte, ma chi lo vedeva giocare diceva che era veramente bravo». Proprio così, Denis, biondo e magrolino, in campo è un gigante e si fa notare. Passa poco tempo e un giorno a casa Bergamini si presenta Rino Mazzi, tecnico della vicina Argentana. Vuole parlare con Domizio: «Tuo figlio lo vuole il Bologna». «Ricordo che traballai. Denis era poco più che un bambino. Non me la sono sentita. Gli dissi: “Papà non ha piacere che tu vada”. E lui fu contento. Era attaccato alla famiglia, alla sorella. Un distacco in quel momento sembrava prematuro». Sfumato il grande salto, rimane l’abilità di Bergamini col pallone, tanto che si trova a giocare con i più grandi. Anche se non ha l’età: «Dal Boccaleone era passato all’Argentana e falsificarono il cartellino – ricorda ancora Domizio -: io non sapevo nulla, me lo hanno detto a cose fatte». Denis calamita le attenzioni. E’ un mediano per vocazione: per quel modo di stare in campo, per la sua generosità, per il grande cuore. Presto gli mettono il nomignolo di Cavallino, qualcuno azzarda un paragone con Tardelli, che in quel periodo sta già spopolando con la sua Juventus. Poi una volta succede che segna anche un gol, addirittura in Svizzera, con la maglia dell’Argentana. «Questa è una storia da raccontare – sorride dolcemente la sorella – perché quel testone mica voleva andarci. Avrà avuto dodici o tredici anni. Finito il campionato, l’Argentana lo vuole per un torneo giovanile che si disputerà, per l’appunto, in Svizzera. Mi ci volle tutta la notte per convincerlo. Era attaccato alla casa». «Credo che abbia inciso anche il mio lavoro – interviene Domizio -. Partivo alle quattro di mattina e tornavo alle undici di sera. Ai figli questo pesava. Denis voleva sempre il bacino prima che io partissi. Se non glielo davo, piangeva». L’intervento notturno di Donata, la sorellona, si rivela però decisivo. Denis va e torna vincitore. «Riuscì a segnare anche un gol. Era gasatissimo, ma lo sarebbe stato ancora di più l’anno dopo, quando con la maglia della prima squadra dell’Argentana fece un altro gol, questa volta di testa: una cosa incredibile». Il Bergamini giovanissimo è serio e responsabile ma è anche un ragazzino al quale piace divertirsi. Fa il “vu’ cumprà” in spiaggia per far divertire gli amici e si specializza nel lancio dei gavettoni, decisamente la sua specialità: diciamo che ha lo scherzo in canna. Una simpatica canaglia, ma pure il grimaldello per neutralizzare il catenaccio che papà Domizio ha cucito addosso alla bella Donata. «Non avevo libertà – sorride Donata, mentre rivolge uno sguardo affettuoso al babbo -. Uscivo solo perché c’era mio fratello. Ed è stato grazie a Denis che ho conosciuto il mio futuro marito». Domizio sorride ed annuisce. E ricorda il giorno in cui gli arrivò una notizia che sembrò, in quel momento, azzerare ogni speranza per la carriera di Denis: «Mi dissero che aveva problemi al cuore. Rimasi senza parole, non mi sembrava possibile». Risolse tutto il professor Lincei di Imola, uno che curava i ciclisti. Gli disse: «Hai i battiti del cuore come Eddy Merckx». Voleva dire che i battiti non erano così frequenti come per noialtri comuni “mortali” e proprio per questo gli riusciva più facile resistere alla fatica e macinare chilometri. Proprio come i ciclisti, che di chilometri ne fanno migliaia e migliaia. Spesso i medici generici rimangono spaventati da soggetti come Denis ma per fortuna quelli sportivi ristabiliscono le cose. Il vero problema di Bergamini agli inizi della carriera era la mancanza di ferro. Che si combatteva con fialette ricostituenti e bistecche. Denis così cresce, irrobustisce il fisico e arriva anche a “prenotare” un provino eccellente. Domizio lo ricorda così: «Niente, una volta Denis insieme ad altri ragazzini fece un provino per la Juve. Mai saputo nulla. Molti anni dopo, salta fuori che Denis avrebbe dovuto fare un altro test, ma che a quella seconda prova il dirigente incaricato portò suo figlio». Nel 1982, finalmente, la ruota inizia a girare per il verso giusto e per Denis arriva prima l’Imolese, quindi il Russi, campionato Interregionale. Passano tre anni ed ecco la vera svolta: «Stava giocando contro il Lugo ed a vedere la partita c’era il direttore sportivo del Cosenza Roberto Ranzani, che è di queste parti. In verità, era lì per osservare un altro giocatore, ma rimase colpito da Denis. E lo prese. Da lì è partito tutto». Domizio fa fatica a nascondere la sua avversione per quel trasferimento in una terra così lontana: «Non ero contento. Il Cosenza faceva la C1, c’era un nostro paesano che giocava là, un certo Simeoni. Io suggerii a Denis di prendere un procuratore, ma lui non volle. Allora mi rivolsi al suo vecchio maestro di scuola perché ci assistesse al momento del contratto. A Ranzani dissi: “Questo me lo tieni al massimo due anni”. Il contratto, poi, arrivò per posta. Era un biennale con l’opzione per il terzo anno». Atmosfera particolare in casa Bergamini. Denis è contento, mentre Domizio è combattuto, ma per amore di padre non ostacola il percorso del figlio: «Vedevo Denis soddisfatto e per me andava bene così. Fu subito titolare, legò alla grande coi tifosi, gli allenatori gli volevano bene. Al terzo anno, poi, la Serie B. Di Marzio, il mister della promozione, recentemente lo ha paragonato a Nedved, per la dedizione alla squadra e lo spirito di sacrificio». «Denis era così – aggiunge Donata -, uno generoso, umile ed attaccato alla terra. Quando tornava, si metteva sul trattore ed andava per campi ad arare. E quando si doveva muovere, prendeva la bicicletta e pedalava».
Omicidio Bergamini, la droga non c’entra, scrive Francesco Ceniti su Iacchite il 29 ottobre 2017. A beneficio di quanti ancora agitano motivazioni che non stanno più né in cielo e né in terra con riferimento all’omicidio Bergamini, pubblichiamo l’articolo scritto da Francesco Ceniti nel 2012 sulla Gazzetta dello Sport. L’articolo riportava i particolari del lavoro del RIS dei carabinieri, che escludeva ogni possibile movente legato alla droga. Lo riproponiamo anche a beneficio del procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla, affinché non ascolti chi metta in mezzo questioni (tra l’altro assurde) riguardanti Michele Padovano e quella stramaledetta Maserati. Uno dopo l’altro sembrano sgretolarsi i misteri e le leggende che per 22 anni hanno reso «impossibile» l’accertamento della verità sulla morte di Donato Bergamini, centrocampista del Cosenza, avvenuta il 18 novembre 1989. A febbraio il Ris con una accurata perizia, eseguita sugli oggetti indossati dal giocatore al momento del decesso e sui reperti istologici perfettamente conservati dopo l’autopsia chiesta e ottenuta dalla famiglia visto l’immobilismo degli inquirenti dell’epoca, hanno spazzato via la tesi del suicidio.
LA DROGA NON C’ENTRA. Le carte arrivate nelle mani di Franco Giacomantonio, il procuratore capo di Castrovillari che a luglio 2011 ha riaperto il caso, non hanno margini d’interpretazione: è stato un omicidio e la ferita sul bacino (per 22 anni indicata come la «prova» del suicidio: nel racconto della testimone oculare, l’ex fidanzata Isabella Internò, Bergamini si era tuffato sotto un camion, poi trascinato sotto le ruote per circa 60 metri senza però finire maciullato e con vestiti e orologio praticamente intatti) inferta quando il calciatore era già cadavere. Ma il Ris ha escluso anche un altro aspetto importante, specie per gli sviluppi delle indagini entrate in una fase cruciale: la Maserati di Bergamini, sequestrata ed esaminata da cima a fondo, non aveva nessun doppio fondo o manomissione. La novità dovrebbe portare gli inquirenti ad abbandonare una delle piste più calde sul movente dell’assassinio, quello legato al traffico di droga con Bergamini in qualche modo corriere (inconsapevole?) della ‘ndrangheta. La macchina non aveva le caratteristiche. Cade una teoria diventata realtà anche per i media che davano per acclarata l’esistenza del doppio fondo. Non è la prima volta, in questa assurda storia, che la «verità» è ribaltata in modo clamoroso: solo nei mesi scorsi, ad esempio, si era «scoperto» vivo e vegeto l’autista del camion coinvolto nell’incidente, dato morto per anni.
CACCIA AI COLPEVOLI. Ma torniamo al movente dell’omicidio perché è su questo che si sono concentrate le indagini del nucleo investigativo dei carabinieri iniziate a fine dicembre. Molti passi in avanti sono stati fatti e i tasselli del complicato puzzle sembrano ora ricomporsi. Cerchiamo di capire i possibili sbocchi. Con la messa in soffitta del delitto maturato in ambienti criminali (niente coinvolgimento della ‘ndrangheta nella gestione dell’omicidio), il cerchio si stringe intorno alle persone che frequentavano il giocatore: il movente sarebbe allora da ricercare in ambito personale, magari a seguito di un litigio dopo un chiarimento per una vicenda privata non andato nella direzione sperata. Non ci sono conferme dirette, ma proprio su questa pista si sarebbero rivolte le attenzioni degli investigatori che avrebbero cercato di ricostruire le ultime ore di vita del calciatore, soprattutto su un passaggio. Chi e quante erano le persone che lo avrebbero atteso fuori dal cinema dove si trovava in ritiro con il resto della squadra. Quelle persone sono la chiave del mistero: sono loro che lo hanno condotto verso una morte violenta. C’è un altro aspetto fondamentale: è da capire come sarà inquadrata la posizione dell’ex fidanzata che ha sempre ripetuto la tesi del suicidio, anche a dicembre 2011 quando è stata riascoltata come persona informata sui fatti. Quella testimonianza, però, è in netto contrasto rispetto a quanto sostenuto dai Ris.
Iuliano senior accusa Padovano: "Ha rovinato mio figlio Mark", scrive Francesco Ceniti il 14 dicembre 2011 su "La Gazzetta dello sport". La versione del signor Alfredo: "Sono decine i calciatori sue vittime. Spacciava già da ragazzo. Dio gli diede la possibilità di cambiare e invece portò la sua diabolica inclinazione nel calcio. E sa tutto sul caso-Bergamini". "Quello su Ronaldo? Era rigore...". Alfredo Iuliano è un signore di 63 anni che abita in una casa di campagna tra le province di Salerno e Potenza. E' il padre di Mark, l'ex giocatore della Juve da tutti ricordato soprattutto per l'episodio da moviola nella sfida scudetto del 1998 tra i bianconeri e l'Inter. Ma non è per questo motivo che ieri il cellulare è squillato centinaia di volte "persino giornalisti da Francia e Inghilterra". Il motivo è legato alla condanna di Michele Padovano e al post lasciato sulla sua pagina di Facebook. Accuse nette: "Sono decine i calciatori vittime di Padovano. Spacciava già da ragazzo. Dio gli diede la possibilità di cambiare e invece portò la sua diabolica inclinazione nel calcio". Mark Iuliano, oggi 38enne, ha giocato nella Juve dal '95 al 2005. Al telefono Iuliano senior va oltre: "Certo che confermo tutto. Con mio figlio non parlo dal 2008, da quando è stato squalificato: doping per la droga. Si è rovinato la vita, lui nominato Cavaliere del lavoro da Ciampi. Le racconto un episodio: un giorno Padovano, giocava nel Crystal Palace, si presenta nella casa di Torino dove vivevo con mio figlio. Si chiudono in stanza. Strano. Allora inizio a origliare, sento discussioni tipo "provala è buonissima, lo hanno fatto anche altri tuoi compagni". Entro di forza, mi dicono che avevo frainteso. E invece i giudici sostengono il contrario. E aggiungo che Padovano sa tutto sul caso Bergamini: se non vi fossero stati occultamenti clamorosi, sarebbe stato smascherato da tempo. Mi vuole querelare? Sì, mio figlio tramite il fratello mi ha fatto arrivare questa cosa. Non vedo l'ora di avere con Padovano un contradditorio in tribunale...".
Il padre di Iuliano: “Padovano spacciava ai giocatori della Juventus”, scrive il 13 Dicembre 2011 Marco Di Maro su "Soccermagazine.it". Il caso Padovano sembra destinato ad allargarsi. Il padre di Mark Iuliano, ex difensore della Juventus e della Nazionale ha lanciato pesanti accuse: “Sono decine i calciatori vittime dello spaccio di Padovano. In questi anni ha tenuto stretti contatti di spaccio anche con qualche giornalista spacciatore cosentino. Padovano è un cancro da estirpare, era un trovatello cresciuto in un orfanotrofio, spacciava già da ragazzo, Dio gli diede l’opportunità di cambiare, invece portò la sua diabolica inclinazione anche nel calcio. E’ stato devastante. Mio figlio lo stimava anche perchè quando era bambino era il suo idolo nel Cosenza. Quando gli fece l’assist in Coppa Campioni e Padovano segnò di testa, Mark toccò il settimo cielo, il suo affetto era purtroppo mal riposto”. Alfredo Iuliano ha inoltre aggiunto: “Padovano è colpevole, riforniva anche i calciatori della Juventus tra cui mio figlio: altre vittime sicure Vialli e Bachini (squalificato a vita dopo una doppia positività, ndr), che a causa della droga ha visto troncata del tutto la sua carriera. Inoltre resta ancora aperta la sua responsabilità sul caso Bergamini (giocatore del Cosenza assassinato nel 1989)”.
"Padovano riforniva lo spogliatoio della Juve". Il padre di Iuliano su Facebook: "Vialli e Bachini vittime", scrive "Quotidiano.net" il 13 novembre 2011. Droga, Padovano condannato a 8 anni e 8 mesi. L'attaccante è stato condannato per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio, e il papà del suo compagno in bianconero fa nomi importanti e sfoga tutta la sua rabbia: "Sono decine i calciatori vittime dello spaccio di Padovano. E' un cancro da estirpare". Dalla pagina Facebook del padre di Mark Iuliano piovono ulteriori pesanti accusa su Michele Padovano. Alfredo Iuliano affida al social network tutta la sua rabbia: "Padovano è colpevole, riforniva anche i calciatori della Juventus tra cui mio figlio". L'attaccante è stato condannato per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio, e il papà del suo compagno in bianconero fa nomi importanti: "Altre vittime sicure Vialli e Bachini, che a causa della droga ha visto troncata del tutto la sua carriera". Ma la rabbia di un padre contro quello che era l'idolo di suo figlio esplode tutta: "Sono decine i calciatori vittime dello spaccio di Padovano. E' un cancro da estirpare. Veniva da ambienti difficili, era cresciuto in un orfanotrofio e spacciava già da ragazzo. Ma quando Dio gli diede l'opportunità di cambiare, portò la sua diabolica inclinazione anche nel calcio. E' stato devastante. Mio figlio lo stimava anche perchè quando era bambino era il suo idolo nel Cosenza. Quando gli fece l'assist in Coppa Campioni e Padovano segnò di testa, Mark toccò il settimo cielo. Il suo affetto era purtroppo mal riposto". E come se non bastasse: "Inoltre resta ancora aperta la sua responsabilità sul caso Bergamini", facendo riferimento al calciatore del Cosenza morto in circostanze mai chiarite nel 1989.
IL GIOCATORE CHE VENDEVA COCAINA, scrive il 12.12.2011 Tommaso Caldarelli su Giornalettismo". Condannato Michele Padovano per spaccio di droga; il padre di Mark Iuliano lo accusa: “La dava anche a mio figlio”. Arriva ad un primo punto di svolta la vicenda giudiziaria di Michele Padovano: questo pomeriggio il tribunale di Torino lo ha condannato in primo grado ad otto anni e mezzo di reclusione per associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Michele sarebbe stato uno dei terminali di un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga: cocaina principalmente, ma erano anche altri gli stupefacenti che Padovano trattava, non da solo. “Non c’entro niente”, dice ora, e “lo dimostrerò”. A ripercorrere la sua storia ci si imbatte in una brutta vicenda di malaffare a base di cocaina che coinvolgeva altri nomi noti del mondo del pallone. Indagando su un vasto traffico di hashish importato in Italia dal Marocco, attraverso la Spagna, i carabinieri si sono imbattuti nei nomi di ex calciatori famosi: Michele Padovano, Nicola Caricola e Gianluca Vialli, tutti ex juventini. Avevano ruoli e responsabilità diverse. Padovano è stato arrestato con l’accusa di essere stato uno dei finanziatori dei trafficanti, Caricola è stato denunciato. Per Vialli nessun provvedimento. Così parlava il Corriere della Sera raccontando dell’arresto del calciatore. Atteggiamenti sospetti e ricostruzioni avevano portato al procedimento di custodia cautelare a suo carico. L’ex calciatore avrebbe prestato in due diversi momenti quasi 100 mila euro a quello che i carabinieri ritengono il capo della banda, Luca Mosole, 39 anni, di La Cassa (Torino), un disoccupato dal tenore di vita estremamente elevato. I carabinieri di Venaria (Torino), i primi a indagare, hanno anche accertato un episodio singolare: Padovano si presentò nel piccolo ufficio postale del suo paese per depositare 100 mila euro in contanti, contenuti in una scatola di scarpe. Padovano è nato calcisticamente con la maglia dell’Asti, prima di militare a lungo nel Cosenza: la notorietà è arrivata con le grandi squadre, soprattutto Genoa e Reggiana, e infine con la Juventus. A Torino Padovano è stato due anni, dal 1995 al 1997, prima di avviarsi all’estero e di iniziare gli ultimi anni da calciatore professionista. Poi, il guaio con la droga e l’arresto, nel 2006: solo pochi mesi fa l’udienza era arrivata alle richieste del Pubblico Ministero, che aveva chiesto per Padovano 24 anni. Il giudice, come abbiamo visto, ne ha concessi praticamente un terzo. Su Facebook c’è una fonte decisamente attendibile che commenta la sentenza. Si tratta di Alfredo Iuliano, che, come scrive in un recente aggiornamento del suo profilo, è sicuro che Padovano si meriti la condanna che ha ricevuto: questo perché “vendeva la droga a mio figlio”. Il figlio di Alfredo è Mark Iuliano, altro calciatore della Juventus e della Nazionale anch’esso finito in mezzo ad una brutta storia di droga. Nel 2008 un’ispezione federale ha trovato Iuliano positivo ad un metabolita della cocaina, la “benzoilecgonina”, come raccontava ancora il Corriere della Sera; in quell’annata Iuliano giocava sotto i colori del Ravenna, che soffre per sua sospensione a due anni di un danno di immagine quantificato, secondo i giudici sportivi, in 10.000 euro (un precedente assoluto per il mondo del calcio). Ora, il padre di Mark lo scrive forte e chiaro su Facebook. Iuliano senior chiama in causa Gianluca Vialli, in effetti lambito dall’indagine che ha portato Iuliano dietro le sbarre ma che si è sempre detto estraneo ai fatti; per quanto riguarda Jonathan Bachini, altro calciatore in zona Juventus alla fine degli anni ’90, si tratta di un atleta livornese espulso a vita dalla lega professionisti perchè “recidivo alla cocaina”: dal 2004 al 2006 infatti Bachini è stato trovato positivo ai metaboliti della cocaina nonostante il passaggio dal Brescia al Siena. Recentemente ha chiesto di poter essere riammesso all’albo, essendo passati più di cinque anni dai fatti: “Bachini a causa della coca ha visto stroncata del tutto la carriera”, dice Alfredo Iuliano. E’ ancora lui a tirare in ballo un altro nome. Resta ancora aperta la sua responsabilità sul caso Bergamini.
QUELLA MORTE MISTERIOSA – Donato Bergamini è stato un calciatore del Cosenza morto in circostanze mai chiarite nel 1989, ritenuto suicida: Michele Padovano, allora calciatore nella squadra calabrese, segnò il gol del pareggio nella sua ultima partita. Quando nuove informazioni sulla morte di Bergamini furono divulgate dal libro di Carlo Petrini, il nome di Padovano tornò in ballo: in effetti il calciatore ora condannato aveva qualcosa da raccontare sul suo fu-migliore amico. Oggi il miglior amico di Bergamini, Michele Padovano – lui sarebbe diventato centravanti della Juventus, del Genoa, del Crystal Palace –, ha voluto rivelare come i vestiti che il calciatore aveva indosso al momento della morte non siano mai stati repertati dai carabinieri. “Dopo la celebrazione dei funerali li ho visti sul pullman, dentro una busta. I miei compagni se li passavano, ognuno voleva possedere qualcosa di Donato”. Padovano ha un altro ricordo, preciso, sul 18 novembre 1989. Prima del cinema. Era con l’amico nella stanza d’albergo, il Motel Agip di Cosenza. “Dopo pranzo, riposavamo. La sveglia era fissata per le quattro del pomeriggio, lo spettacolo iniziava alle quattro e mezza. Intorno alle tre Donato ricevette una telefonata in camera. Non ci feci caso, ma lui cambiò espressione. Sembrava volesse parlarmene, non disse niente: diventò assente. Di solito andavamo al cinema con un’auto, quel giorno mi disse che avrebbe preso la sua. Voleva stare da solo. Accese il motore ed è stata l’ultima volta che l’ho visto”. Alfredo Iuliano ricostruisce una breve biografia del calciatore – presunto spacciatore. Padovano era un trovatello cresciuto in un orfanotrofio, spacciava già da ragazzo, dio gli diede l’opportunità di cambiare, invece porto la sua diabolica inclinazione anche nel calcio. E’ stato devastante. Mio figlio stimava padovano anche perchè quando era bambino era il suo idolo nel Cosenza. Quando gli fece l’assist in coppa campioni e padovano segnò di testa, mark toccò il settimo cielo. Il suo affetto era purtroppo mal riposto. Il giovane Iuliano in effetti era originario di Cosenza, anche se non militò mai nel club di casa. “La nostra famiglia è stata segnata per sempre”, dice il padre.
IL NARCO-CALCIO DA PADOVANO A BERGAMINI, scrivono Malcom Pagani, Andrea Scanzi, su il Fatto Quotidiano il 15 dicembre 2011. Nel fango del dio pallone si prega di fare silenzio. Coprendo i rumori di fondo che disturbano il quadro. Tagliando i fili con i portatori sani. “Mi trattano da lebbroso” dice oggi Michele Padovano e sembra un bambino. Ora che gli anni sono 45, le maglie impolverano in un cassetto e i ricordi (Juve, Napoli, Nazionale) sono una condanna quasi peggiore degli 8 anni e 8 mesi di solitudine per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. L’infanzia, l’amicizia con un trafficante, i panetti di hascisc, le fumate a casa dell’erede Grande Stevens, la maledizione del padre di un suo ex compagno, Mark Iuliano, solo l’ultima luce di una galleria di altarini spenti sotto la “neve” da Maradona a Pagotto, da Bachini a Flachi. Iuliano senior sostiene che Padovano fosse il diavolo. “Un cancro da estirpare” che passava la droga al figlio e riforniva mezza Juventus. Ha rotto con Mark, che lo smentisce chiamandolo “il signor Alfredo” e senza sorprendere nega le ricostruzioni pubblicate su Facebook. Alfredo Iuliano tira in ballo anche Vialli. L’ex campione che correva sull’erba e la consumava sporadicamente “fin dai tempi del Chelsea”. Il “Luc Besson” intercettato nel 2004 mentre intima a Padovano “abbondante, eh”. Lo stesso che in un cortocircuito virtuale minimizza su Twitter e più che il “Luc Besson” delle telefonate preferisce recitare da comparsa vanziniana: “Con Padovano, ma già si sapeva, solo qualche canna da ragazzi. Sbalordito dalla sentenza e dalle parole di Iuliano padre. Abbasso la droga viva la gnocca!!”. Su Padovano si dicono tante cose. Basta fare due passi a Reggio Emilia, dove ha giocato ed è stato dirigente, per sentire nere storie sul suo conto. Forse vere, magari false. Padovano, ora, giura di essere “un ingenuo”, lamenta l’emarginazione e rigetta l’allusione più violenta di Alfredo Iuliano. Quella su Donato “Denis” Bergamini, il “calciatore suicidato”, del libro meritorio (e censurato) di Carlo Petrini, l’ex calciatore che più che dribblare la verità l’ha inseguita. Non si può capire la parabola di Padovano senza affrontare il mistero Bergamini. Morì sabato 18 novembre 1989 a Roseto Capo Spulico (Cosenza). Il suo cadavere venne rinvenuto all’altezza del km 401 della statale Ionica ai bordi di una piazzola fangosa da dove si vede il mare. Travolto da un camion per decine di metri, mentre pioveva, a dar retta alla versione ufficiale. Portato in zona solo in seguito secondo la ragionevolezza e le limpide ruote della sua Maserati trovata a pochi metri. Aveva 27 anni ed era compagno di squadra, stanza d’albergo e appartamento di Padovano al Cosenza. Padovano vide Bergamini ricevere la telefonata che forse ne accelerò la fine. Nella stanza non c’era nessun altro. Ha sempre raccontato di averlo visto sconvolto dopo quel colloquio, senza però aggiungere altro. Limitandosi ad affermare che non ha mai creduto al suicidio e alle troppe versioni fornite dall’ex fidanzata di Denis (altra figura chiave), ancora viva, in zona e sposata con un poliziotto. Si è detto che quando Bergamini abbandonò di nascosto il Cinema Garden di Rende, l’allenatore Gigi Simoni e i compagni per andare incontro alla morte, Padovano fosse il solo a intuire dove era diretto. O forse no. Venne ucciso. Da chi? Non si sa. Il caso Bergamini è un domino infinito, “Chi l’ha visto?” gli ha dedicato una puntata anche ieri sera (erano presenti i familiari e Gallerani, il legale dei Bergamini) confutando gli orari del decesso. Denis fu vittima di un delitto d’onore? Oppure venne assassinato perché aveva scoperto di essere coinvolto in un traffico di stupefacenti e ne voleva uscire? La trasmissione che ha già dedicato molte puntate (incasellando querele) alla vicenda ha mostrato le incongruenze sull’orario della morte, la posizione della Maserati e gli “errori” grossolani del brigadiere Barbuscio (il primo ad occuparsene). Nei giorni scorsi, grazie al lavoro da pistard di Francesco Mollo del Quotidiano della Calabria si è scoperto che il camionista considerato in principio responsabile dell’uccisione involontaria di Bergamini, Raffaele Pisano, due volte assolto per omicidio colposo, non era morto come si supponeva. È vivo, ha 73 anni e un figlio, Bruno, pesantemente coinvolto nella più recente e importante operazione antimafia della locale Dda e il suo legale – Domenico Malvaso – fa sapere che non c’è nulla da aggiungere: “La famiglia non vuole più tornare sul tema e desidera dimenticare perché la ferita è troppo dolorosa”. Malvaso è subentrato da poco. Non ha conosciuto il padre di Donato, Domizio Bergamini. La sua ostinazione. Non ha seguito il caso dall’inizio. Non vede collegamenti con Padovano che in onore di Bergamini chiamò Denis il figlio, pianse ai funerali calabresi (10.000 persone) e indossò la numero 8 del Cosenza (quella di Bergamini) dedicandogli il gol, il giorno dopo la morte violenta di Denis, contro il Messina. Malvaso era altrove. Difende padre e figlio con atona professionalità: “Il mio cliente non si è mai finto morto. Fu un errore della stampa e suo figlio, pur coinvolto in storie non edificanti, all’epoca della tragedia Bergamini aveva solo sei anni”. Se insisti o adombri mafiosità ereditarie e contro deduzioni, Malvaso le bolla come ‘congetture’. Oppone un garbato rifiuto su qualunque altra ipotesi pur specificando che le atroci foto pubblicate dalla Gazzetta dello Sport nel ventennale della morte di Bergamini (il corpo, pasoliniano, deturpato su un solo lato ma non sfigurato) lui non le ha mai viste: “Non capisco perché vi stupiate. Io sono abituato a lavorare sugli atti e non sui giornali sportivi. Per ora non siamo stati convocati, ma se riapriranno il caso, il mio assistito deporrà ancora una volta. La sua posizione? È cristallizzata nelle dichiarazioni di allora”. Ventidue anni fa. Oggi.
Bergamini, 20 anni di omertà. Calciatori, dirigenti e malavita: la Maserati di Paese, scrive Iacchite il 31 ottobre 2017. Abbiamo delineato il contesto della città di Cosenza alla fine degli anni Ottanta, una città dai due volti. Da una parte la città oscura e sotterranea, nella quale domina la “cappa” di una cupola politico-giudiziaria-massonica e mafiosa tuttora visibile e operante (almeno fino a quando qualcuno non metterà un vero procuratore capo nel “porto delle nebbie”) e dall’altra la città degli Ultrà Cosenza e dei Nuclei Sconvolti ovvero l’anima progressista e ribelle. I calciatori del Cosenza hanno a che fare, naturalmente, con tutte le diverse anime di questa città. Amano gli ultrà perché loro coetanei e perché hanno gli stessi interessi, dalle ragazze alla voglia di divertirsi e di aggregarsi. Una Curva sempre piena, ottomila anime che ti incitano e ti spingono a spaccare il mondo, del resto, non può che esercitare un grandissimo fascino su un giovane calciatore. Ma devono dar retta anche ai dirigenti, che ovviamente non possono che essere espressione dell’altra faccia della città. Il presidente Carratelli appartiene all’avvocatura (e abbiamo visto che potere esercitava) e ci sono ben pochi dubbi che sia massone, così come il vicepresidente, lo stampatore Umberto De Rose, figlio di Tanino, un grande massone che non si è mai vergognato di dirlo (a differenza di Carratelli). L’altro vicepresidente Salvatore Perugini è avvocato e nipote dell’ex presidente del Cosenza ed ex dominus democristiano della Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania, scomparso prematuramente e medita di entrare in politica come il padre, il senatore democristiano Pasquale. Paolo Fabiano Pagliuso si occupa dell’arredamento di bar e ristoranti ed è imparentato con uno dei boss della malavita, Franco Perna, Antonio Serra (anche lui in odore di massoneria) lavora nel campo dei materiali sanitari, Giorgio Trocini era bene inserito nel mondo dell’edilizia e così via. Il dirigente accompagnatore della società è Santino Fiorentino. Gestisce un negozio di abbigliamento sportivo, “Giocasport Franca”, su via Panebianco ed è il cognato di un boss della malavita cosentina, Tonino Paese (appartenente al clan Perna-Pranno), che passa molto tempo in un biliardo a due passi dal negozio di Fiorentino, che si chiama “Brutia Club”. Paese è sempre stato un grande tifoso del Cosenza, animato da una passione che lo porta a seguire la squadra dappertutto. All’inizio degli anni Ottanta è passato alla “leggenda” perché ha dato una lezione “esemplare” a un gruppo di tifosi reggini che, dal settore ospiti, avevano pensato bene di intonare il coro “Cosenza vaffanculo”. Tonino, che stazionava abitualmente in Tribuna B, chiamò un paio di amici e imitò Bud Spencer e Terence Hill con una scazzottata che in molti ancora ricordano. Paese aveva l’obbligo di dimora ma, quando doveva seguire in trasferta il Cosenza, non esitava un attimo a “rischiare” per amore dei colori rossoblu. Paese è vicino alla squadra e conosce i calciatori, con alcuni dei quali ha anche un rapporto di amicizia. Tra questi c’è certamente Alberto Urban, che spesso fa tappa al biliardo e trascorre un po’ di tempo con Tonino e i suoi amici, magari a giocare a poker e più frequentemente a fare allegre ciambotte. Qualche volta erano ammessi anche i cronisti… Tonino si divertiva a far parlare il dialetto cosentino a Urban, notoriamente di origine francese, che invece era negato. E così una sera gli propose uno scioglilingua cosentino che era tutto un programma. “Cicciu ciangia ca nun ci aiungia a tuccar’a ciongia…”. Roba da sbellicarsi dalle risate. Nel corso della settimana di feste dopo la promozione, il Cosenza viene invitato anche a giocare una partitella nel campetto in terra battuta di fronte al negozio di Fiorentino, nella traversina del Bar Perri, in un’atmosfera di grandissima condivisione e di festa generale. Ancora oggi ce n’è testimonianza su you tube e si può vedere un Denis Bergamini scatenato nei festeggiamenti. Un anno e mezzo dopo, Paese, che gira per la città con una Maserati Biturbo bianca col tettuccio nero e con il radiotelefono vicino al cambio, ha esigenza di vendere la macchina, che risulta intestata a una sua parente. Parla con un po’ di calciatori e alla fine la cede a Denis Bergamini. Pare avesse percorso soltanto mille chilometri e che sia costata 35 milioni al nostro centrocampista.
LA MASERATI DI DENIS. Quella macchina sarebbe diventata il principale mezzo di “depistaggio” delle indagini sull’omicidio di Denis. In molti ritenevano che quell’auto nascondesse chissà quale segreto e che potesse contenere “doppi fondi” per trasportare droga, magari quando Bergamini tornava a casa a Ferrara o quando il Cosenza giocava in trasferta al Nord. Denis la compra ad agosto del 1989, quattro mesi prima di morire. Quella macchina ha percorso solo una volta il tragitto Cosenza-Ferrara e non ha mai seguito il Cosenza in trasferta. Non ha mai nascosto “doppi fondi”, per com’è stato appurato anche dai Ris di Messina ma per decenni ha “terrorizzato” noi cosentini, che ci eravamo erroneamente convinti che potesse rappresentare chissà che cosa. “Chi l’ha visto?”, la popolare trasmissione di Raitre ci aveva montato su un “caso” e l’aveva anche fatta vedere, sottolineando persino i punti dove potevano essere i “doppi fondi”: vicino al serbatoio e dietro il cruscotto. Carlo Petrini, autore del libro “Il calciatore suicidato”, del quale ci occuperemo ampiamente più avanti, riteneva che la Maserati potesse essere una macchina “franca”, pulita, nel senso che, sia a Cosenza, sia al Nord, le forze dell’ordine sapevano bene che non avrebbero dovuto toccarla. E sosteneva che Bergamini si fosse reso conto di essere diventato un “corriere della droga” firmando in pratica la sua condanna a morte. In realtà, Tonino Paese non aveva nessun interesse a far passare la droga dal Cosenza Calcio. Probabilmente esercitava attività illecite e magari spacciava anche droga ma non gli passava neanche per la testa di coinvolgere in queste vicende i suoi amici calciatori, per i quali andava letteralmente pazzo per un semplice motivo: indossavano la maglia della sua squadra del cuore. Il problema è che Paese muore ammazzato neanche due anni dopo l’omicidio di Denis (pare, ironia della sorte, per problemi legati a una donna…) e così non c’è stata più la possibilità di ascoltare quello che sarebbe stato un “testimone” importantissimo anche per quei cronisti che cercavano la verità. E, di conseguenza, cresceva la convinzione “sballata” che Paese avesse potuto avere un ruolo in quella morte. E invece non è mai stato così. Michele Padovano dal canto suo si faceva vedere spesso in giro con Raffaele Mazzuca, altro esponente del clan Perna-Pranno. I due avevano un bel rapporto di amicizia e si divertivano insieme. Una volta, sciando in Sila con Mazzuca e altri amici, Michele si ruppe pure un braccio beccandosi una dura reprimenda della società, mitigata soltanto dall’intervento “paterno” di mister Giorgi. Saremmo ipocriti se dicessimo che i calciatori del Cosenza non frequentassero “amicizie pericolose” (e che dovremmo dire di Diego Armando Maradona?) e ancora più ipocriti se non dicessimo che i dirigenti del Cosenza non avessero rapporti con la malavita, ma è assolutamente falso sostenere che quei legami possano avere avuto un ruolo nella morte di Denis Bergamini. L’omicidio del nostro Campione, come vedremo, risponde a logiche completamente diverse. Del resto, hanno osservato in tanti, quando la malavita vuole uccidere qualcuno mette sempre la firma: o fa sparire il cadavere o lo fa trovare con messaggi inequivocabili. In questo caso, come vedremo, ha messo a disposizione la struttura logistica, creando i presupposti perchè qualcuno potesse uccidere. Ma non è la malavita ad aver ordinato l’eliminazione di Bergamini né tantomeno sono “malavitosi” nel senso letterale del termine coloro che lo hanno ucciso. Se fossero stati “mafiosi” non avrebbero certo combinato quel disastro. Tecnicamente parlando, l’omicidio di Bergamini è stato compiuto da “macellai” senza nessuna esperienza e il gioco è andato avanti solo perché lo stato era complice e connivente. La mafia, quella vera, non agisce così.
Bergamini, 20 anni di omertà. Donata a “Il Romanista”: “Denis, non sarai più solo”, scrive Iacchite il 12 novembre 2017. Tratto da “IL ROMANISTA” di Vincenzo Mulè. «Ti va di parlare?». Le agenzie stampa hanno battuto da poco la notizia che aspettava da circa trent’anni. Donata Bergamini risponde subito: «Certo!». Suo fratello, Donato Bergamini, ha finalmente avuto (una prima) giustizia. La verità racconta una storia diversa sulla fine del calciatore del Cosenza, morto per soffocamento. «Il corpo di mio fratello parla da quasi trent’anni, ma nessuno ha voluto dargli ascolto. Ora, finalmente, c’è qualcuno che ha voluto sentire cosa aveva da dire». Se le anticipazioni troveranno conferma, la storia del «calciatore suicidato» – come scrisse Carlo Petrini in un suo fortunato libro – andrà totalmente riscritta. Donata Bergamini da 28 anni si batte perché venga scoperto il reale motivo della morte del fratello, trovato senza vita la sera del 18 novembre 1989 sull’asfalto della statale 106 nei pressi di Roseto Capo Spulico in provincia di Cosenza. Una tenacia che, ora, sembra aver portato dei frutti anche se, ci tiene a precisare «io di ufficiale non so nulla. Posso solo dire che per la prima volta ho visto i miei consulenti soddisfatti. Non c’è stato mai, dico mai, nemmeno un secondo in cui ho creduto che Denis si fosse suicidato. Prima di tutto perché lo conoscevo come nessun altro e in pochi amavano la vita come lui. Poi, perché stava per coronare il suo sogno, andare a giocare in Serie A. Terzo, perché il week end prima della sua morte era qui nelle nostre zone, vicino la nostra casa di famiglia, per comprare un terreno. Voleva costruirci la casa dove sarebbe andato a vivere con la sua ragazza. Denis – rivela Donata – aveva anche deciso di sposarsi con una ragazza del Nord con la quale si era fidanzato dopo la fine della sua storia con la Internò. Stavamo bene, altro che suicidio! Tutto andava per il meglio, era arrivata anche la Serie A!». L’estate del 1989, infatti, Bergamini aveva ricevuto due offerte: una dalla Fiorentina e una dal Parma di Nevio Scala. La scelta cadde sulla società di Tanzi, sia per valutazioni di carattere calcistico sia perché tornava a giocare a due passi da casa. «Voleva sempre stare qui e appena poteva tornava – riprende ancora Donata -. Non che si trovasse male a Cosenza, anzi, ma amava proprio stare a casa sua. Mi ricordo che una volta, avrà avuto 16 anni, il presidente di una squadra di un paesino delle nostre parti, in provincia di Ferrara, lo voleva portare a giocare un torneo in Svizzera con la squadra dei più grandi. Passammo due giorni a convincerlo. Lui amava la sua terra e la sua casa e più ci stava e meglio si sentiva». Con il Parma, Denis raggiunse un accordo: un’altra stagione a Cosenza e poi il salto definitivo. Voleva guarire per bene da un infortunio e arrivare pronto alla Serie A. Un salto mai spiccato. Non per colpa sua. Bergamini giocò la sua ultima partita il 12 novembre 1989: Monza-Cosenza 1-1, con rete rossoblù di Michele Padovano. «Il mondo del calcio non ci ha mai abbandonato e io non ho mai smesso di seguire il Cosenza – riprende Donata – ma se c’è una cosa che mi ha fatto stare male è stata la mancanza di sensibilità nel far disputare la partita tra il Cosenza e il Messina il giorno dopo la morte di mio fratello». La partita finì 2 a 0 per i calabresi e proprio Padovano segnò uno dei due gol. Quel giorno, l’attaccante aveva chiesto – e ottenuto – di giocare con la maglia numero 8 dell’amico che non c’era più. Padovano, Simoni e Bergamini erano inseparabili. L’esperienza calabrese aveva fatto nascere tra i tre un’amicizia rara nel mondo del calcio. «Fu incredibile – ricorda Donata -, passammo tutta la notte svegli. Tutta la squadra era lì con la nostra famiglia. Non dimenticherò mai i loro volti spaesati, increduli per una situazione inimmaginabile. Però, l’immagine che più mi è rimasta impressa fu quella di Gianni Di Marzio. Era stato allenatore di Denis sempre a Cosenza. Appena saputo della notizia, raggiunse la squadra in albergo e spalancando la porta cominciò ad urlare che non voleva sentire storie e che non credeva alla storia del suicidio. Anche Gigi Simoni, l’allenatore di quella stagione, era d’accordo con lui».Il ricordo di Donata si ferma su Cosenza, la città e la squadra. Ma soprattutto sul gruppo di giovani calciatori che, piano piano, avevano stretto amicizia, coinvolgendo anche le famiglie. E’ un racconto di un calcio andato, difficile da rivivere oggi: «Seguivo tutte le partite di Denis, fin da quando era un bambino prodigio. La domenica non andavo a ballare, ma allo stadio a vedere mio fratello. Partivo con i miei genitori e mia figlia, soprattutto se le trasferte erano al Centro-Nord dell’Italia. Spesso, però, siamo andati anche a Cosenza. Ci organizzavamo anche con le altre famiglie dei compagni di squadra di Denis. Spesso davamo un passaggio anche alle loro fidanzate. Di solito eravamo tre macchine alle quali si univa quella dei genitori di Padovano, che venivano da Torino. I ragazzi erano molto uniti e spesso, nei lunedì dopo la partita, venivano a mangiare qui da noi. E se non mangiavamo da noi, ci vedevamo tutti a casa di Gigi Simoni, il portiere omonimo dell’allenatore, che viveva a 40 chilometri da casa nostra. Anche il Natale lo passavamo tutti assieme. Ricordo ancora il risotto all’anguilla dei Simoni e i tortellini che preparava mia madre. Gli anni più belli della vita di Denis si sono svolti quando lui era al Cosenza. Non seguirla più sarebbe stato come non seguire più mio fratello». Il calcio era la vita per Bergamini: «Non c’è un momento in cui non lo ricordi con un pallone tra i piedi. Tra me e Denis c’erano 18 mesi di differenza. Lui è sempre stato un tipo molto magro. Ed era il piccolino di casa. Quindi, per non dirgli di no, mi ritrovavo sempre in un campo di calcio con lui, però in porta!». Dalla relazione tra i due fratelli prende piede un vero e proprio movimento, tanto che verso la fine degli anni Sessanta ad Argenta, un piccolo comune del ferrarese, si era formata una squadra di calcio di sole donne che appena poteva sfidava i maschi. Ci veniva a vedere la gente del paese!». Ricordi belli, di tanti anni fa e che non l’hanno mai abbandonata. Accompagnandola nel momento più difficile». La riesumazione me la sono seguita tutta, dall’inizio alla fine», ricorda Donata, che racconta dei tentativi fatti dal suo avvocato e da chi le era vicina di distoglierla dal suo proposito. «È stato un avvicinamento lungo, durato due anni – ricorda Donata – L’avvocato (Fabio Anselmo, il legale noto anche per aver seguito la famiglia Cucchi, ndr) me lo aveva detto e ha cominciato a parlarmene due estati fa. Mi diceva che se volevamo arrivare alla verità la riesumazione era necessaria. Mi diceva anche che sarebbe stata un’esperienza da evitare, ma io avevo deciso di non lasciare più solo mio fratello. Su una cosa non transigo più: dove c’è mio fratello, ci voglio essere anche io. Sono rimasta fregata una volta e ora non permetto più che nessuno tocchi mio fratello senza di me». E la preparazione è servita. Lo scorso luglio, durante le operazioni di riesumazione, «ero lì, con gli occhi di tutti addosso. Mentre aprivano la bara, percepivo il loro stato d’animo preoccupato nei miei confronti. Dentro di me dicevo: state tranquilli per me e fate bene il vostro lavoro. Il mio sguardo era vigile su quello che accadeva ma ero serena perché ero pressoché sicura che il corpo di Denis sarebbe stato in condizione di aiutarci. Poter partecipare a quei momenti lo considero un regalo bellissimo, che mi ripaga anche del passato». Cioè di quella maledetta notte del 1989, quando Donata fu la prima a vedere il corpo del fratello: «La prima versione che ci fornirono fu che Denis era stato trascinato per 64 metri da un camion carico di mandarini. Appena lo vidi, mi sentii male. Mi aspettavo di vedere un corpo straziato, invece lo trovai quasi intatto. Il volto era scoperto e aveva un lenzuolo bianco fino ai piedi. Ricordo che aveva un piccolo livido sulla tempia sinistra. Aveva la forma perfettamente circolare, come una moneta da due centesimi». A questo punto accade un episodio che nel corso degli anni ha dato adito a mille interpretazioni: «Faccio entrare i miei genitori per l’ultimo saluto. Mia mamma vuole baciare mio fratello ma un infermiere la blocca dicendole di non farlo perché l’unica parte rimasta intatta era la testa. Appena l’uomo lascia la stanza, solleviamo il lenzuolo dai piedi e riusciamo a vedere fino all’inguine. Il corpo era intatto. Ricordo che riusciamo anche a vedere il colore dei calzettoni che portava». Fu il primo di tanti tasselli che in questa storia non hanno mai trovato il loro esatto posto. Fino a quando qualcuno non ha deciso di (ri)ascoltare il corpo di un ragazzo assassinato e strappato alla vita nel suo momento migliore.
Omicidio Bergamini, “Quarto Grado” e lo stato deviato, scrive Iacchite il 4 novembre 2017. L’attenzione mediatica sull’omicidio Bergamini è ritornata forte e i grandi media e le trasmissioni “specializzate” nei cold case sono tornate in massa sull’intricata faccenda all’indomani delle indiscrezioni riguardanti la superperizia, che affermano senza possibilità di equivoci che Denis è stato ucciso. Per soffocamento. Ieri sera “Quarto Grado” su Rete 4 ha dedicato buona parte della trasmissione a Denis Bergamini. Tra gli ospiti c’era anche Michele Padovano, il quale, intervistato da Gianluigi Nuzzi, ha ribadito quanto ha detto più volte negli anni passati e cioè che non ha mai creduto al suicidio di Denis raccontando gli scherzi che ha fatto fino a quel sabato mattina. Il “bomber” ha poi ricordato quella telefonata che Denis ricevette al Motel Agip prima di scendere per andare al cinema Garden e anche in questo caso ha ribadito quanto detto negli anni passati e cioè che rimase molto turbato da quei pochi attimi di colloquio. Quanto alla dichiarazione relativa ai “festeggiamenti” in casa di Isabella Internò dopo il funerale di Denis, Padovano non ha confermato quanto è stato scritto dall’ormai defunto Carlo Petrini (“Una cosa che mi è sembrata strana è che quando siamo arrivati a casa sua, non c’era un clima da funerale ma una certa allegria. Mi hanno perfino invitato a bere…”). Petrini non c’è più e non può replicare ma tra i due c’è stata più di una incomprensione per quella intervista. Padovano ha sempre contestato quanto ha scritto Petrini nel suo libro e non solo questa dichiarazione. Il buon Carlo aveva tentato di abbozzare un collegamento con moventi legati a questioni diverse da quelle passionali (calcioscommesse in questo caso, poi ci hanno messo anche la droga) e la risposta di Michele era stata aggressiva perché ritenute offensive della memoria di Denis e dell’onestà professionale di tutti i suoi compagni di squadra. Il giornalista Remo Croci era in diretta dallo stadio “Gigi Marulla” ed ha aggiunto diverse note di colore alla storia, facendoci rivedere la curva di Denis, il tappeto erboso e quegli spalti che per anni hanno trepidato per il grande Cosenza dei tempi belli. Scendendo nei particolari dell’inchiesta, è stato spiegato dagli addetti ai lavori che la Tac tridimensionale renderà possibile distinguere le fratture primarie da quelle secondarie e anche le cause della morte. Non sono mancati i riferimenti al soffocamento “dolce”, messo in essere presumibilmente da più persone e, dulcis in fundo, l’eventualità molto probabile che subito dopo il deposito della superperizia, il procuratore Facciolla invierà nuovi avvisi di garanzia ad altri indagati. Donata Bergamini ha ricordato una serie di episodi relativi a Isabella Internò. “… Si erano lasciati da otto mesi ma lei (Isabella, ndr) era come l’Attak, se la trovava davanti in qualsiasi momento… Tempo dopo la morte di Denis aveva anche telefonato a mio padre sostenendo che Denis voleva che la Maserati se la tenesse lei e la risposta era stata positiva ma solo a patto che dicesse finalmente la verità…”. Ha concluso ribadendo che non farà sconti a nessuno e che non concederà mai il perdono a Isabella: “Avrebbe dovuto farlo prima e io glielo avrei anche concesso ma adesso no, non più”. A un certo punto della trasmissione, Gianluigi Nuzzi ha posto il fatidico quesito: “Ma non è che Isabella Internò abbia taciuto e taccia ancora per paura?”. L’interrogativo si è trasformato in farsa quando la regia ha fatto partire le intercettazioni del marito poliziotto ed ex amico di famiglia Luciano Conte prima che Isabella andasse all’interrogatorio a Castrovillari. Oltre a quelle già conosciute, ne è stata (ri)proposta un’altra nel corso della quale Conte dice alla moglie: “… Loro lo sanno ed è per questo che ti chiedono di me…”. Di qualsiasi cosa si tratti, del loro rapporto sentimentale, di quando è cominciato e cosa si sia portato dietro oppure della sera dell’omicidio, poco importa. Nessuna “paura” può avere impedito a Isabella di rivelare quello che era accaduto quella sera, in primo luogo proprio perché si era legata a un servitore dello stato. E qui l’opinionista della trasmissione Carmelo Abbate ha giustamente sottolineato che in questa vicenda lo stato è pesantemente implicato a tutti i livelli perché sono chiare come il sole le responsabilità dei magistrati e delle forze dell’ordine che hanno coperto e insabbiato. Per ironia della sorte, Abbate ha lo stesso cognome di Ottavio, il sostituto procuratore che ha colpevolmente depistato le indagini. E, sempre a proposito di stato deviato, Donata Bergamini ha ricordato che cosa hanno raccontato alla famiglia per i vestiti di Denis. “Prima ci hanno detto che i vestiti erano stati messi in un sacco nero e poi, dopo appena un quarto d’ora, l’infermiere ci faceva sapere che non era possibile riaverli perché erano stati bruciati in un inceneritore”. Toccherà al procuratore Facciolla mettere sotto processo lo stato deviato, protagonista principale dell’omicidio di Denis Bergamini, altro che camorra!
Lettera a Bergamini, il migliore di quel Cosenza (di Luigi Simoni), scrive Iacchite il 3 novembre 2017. Di Luigi Simoni – ex portiere Cosenza Calcio – tratto da Stadio Sport. Le favole a lieto fine iniziano sempre con “C’era una volta…”, ma qui il lieto fine ancora non c’è e comunque non ci sarà mai…Ci siamo conosciuti di persona nell’estate del 1985 ad un torneo di calcio notturno di beneficenza, se non ricordo male. Il luogo esatto non lo ricordo, ma già sapevo che da lì a qualche settimana saremmo diventati compagni di squadra nel Cosenza, dove io già militavo da un anno. Ci prendemmo subito in simpatia, visto che ci accomunò la voglia di vincere, anche nel torneo “del bar”, che poi ci accompagnò nei seguenti 4 anni della nostra permanenza in Calabria. A fine partita ci salutammo con un arrivederci in ritiro. Berga era un ragazzo, un Amico ed un Giocatore eccezionali e in ritiro si mise in mostra sin da subito anche se c’erano alcune gerarchie da rispettare, visto che l’anno precedente il Cosenza arrivò 7° sfiorando la Coppa professionisti, per cui le aspettative erano alte e la squadra era stata rinforzata. Quindi, si decise di mettere i giovani in panchina. Essendo entrambi “quasi” vicini di casa (Boccaleone e Comacchio distano 36 km) decidemmo di condividere un appartamento giù a Cosenza diventando Amici per la pelle da subito. Il campionato 1985/86 non cominciò male, anzi, ma poi nel proseguo i risultati furono deficitari e l’allora grande D.S. Ranzani, con Mister Montefusco, ebbe il coraggio e l’intuizione di fare una “rivoluzione”: fuori alcuni “vecchi” e dentro i giovani. Io e Berga diventammo titolari inamovibili e raccogliemmo numerosi consensi, fino a conquistare una sospirata salvezza! Di quel gruppo facevano già parte Claudio Lombardo, Ciccio Marino, che insieme a noi due diventò la costante di tutte le formazioni che vennero a seguire e che portarono i Lupi dove il calcio comincia a contare qualcosa! Le Amicizie con la A maiuscola si riconoscono da quello che fai tu per gli altri e quello che fanno gli altri per te… la complicità, quando con uno sguardo ti capisci, coprirsi a vicenda ed a volte prendersi le “colpe” anche se non sono tue. Ecco, Noi questo eravamo. Noi eravamo disposti anche a gettarci nel fuoco per l’Amicizia, esserci sempre per qualsiasi cosa l’uno per l’altro, e tutto questo si può riassumere in una parola, in un nome: Donato Bergamini! Per scontato si dice di qualcuno che non c’è più che era il migliore ma Berga lo era veramente il MIGLIORE di tutti noi. Era (e per me ma credo anche per gli altri lo è ancora) il migliore Amico di ognuno di noi: educato, gentile, disponibile; insomma un ragazzo perbene fuori dal campo ed un Guerriero Indomabile dentro il campo, e di cui tu ti potevi fidare sempre. Nei primi 3 anni nei Lupi Denis veniva “usato” per mettere la museruola al giocatore più talentuoso del centrocampo avversario; a tal proposito, ricordo aver “azzerato” Zola, all’epoca nella Torres, ed aver battagliato epicamente contro Rui Barros della Juventus. Ma l’intuizione che ebbe Bruno Giorgi (che stravedeva per Denis tanto da farlo rientrare in squadra “zoppo” dopo l’infortunio) di lasciarlo anche giocare con libertà di inserimenti offensivi (il quarto anno fu il suo campionato migliore) fu una genialata. Se non si fosse rotto la gamba prima di Udinese-Cosenza staremmo qui a raccontare un’altra storia…Quel Cosenza, anzi il Cosenza di quegli anni, aveva un Gruppo Fortissimo, tutti ragazzi che avevano “fame” di vittorie e voglia di diventare Grandi e che non temeva nulla. Spesso si ritrovava a casa da qualcuno per una castagnata o per mangiare anguria o per mangiare uno dei dolci della signora Lucchetti (Tiziana). Sono sicuro di parlare a nome di tutti quei ragazzi… quel 18/11/89 una parte di noi se ne è andata via con Berga. La sua scomparsa, la sua morte, il mistero che circonda quella vicenda ha segnato tutti noi. Sì, certo, la vita è andata avanti, ognuno di noi ha proseguito la propria carriera con gioie e qualche dolore. Ma tutti noi sappiamo che Berga con la sua voglia di vivere e la sua presenza, la sua Amicizia, avrebbe sicuramente reso migliori le vite di tutti quanti noi. Dopo la sua morte hanno cercato di infangare la sua memoria e sporcare la sua immagine parlando di calcio scommesse e droga, ma la sua fama di bravo, onesto e generoso ragazzo, la sua Fantastica Famiglia e noi amici non lo permetteremo mai! Ora, dopo anni di bugie, cazzate e depistaggi si intravede e si sente un vento di libertà, un vento di verità… un vento di giustizia… Sì, Giustizia e Verità per Donato Bergamini. Ovunque Tu sia, un Abbraccio Immenso Amico mio! Gigi
L’attuale mister dello Stresa fu l’ultimo compagno a vedere Bergamini: “Mai creduto al suicidio”. Galeazzi giocava nel Cosenza: i suoi ricordi dopo la riapertura del caso sul calciatore morto nel 1989 a 27 anni, scrive Filippo Massara il 31/10/2017 su "La Stampa”. E’ stato l’ultimo compagno di squadra a vederlo in vita e non ha mai creduto al suicidio. L’aronese Sergio Galeazzi, allenatore di calcio dello Stresa, era un grande amico di Donato «Denis» Bergamini. Giocava con lui nel Cosenza quando il centrocampista morì nel 1989 a 27 anni. All’epoca il caso venne archiviato: l’uomo si sarebbe tolto la vita lanciandosi sotto un camion in corsa sulla statale 106 jonica nella provincia calabrese. Familiari, tifosi e tante altre persone vicine a Bergamini hanno sempre pensato che la verità fosse un’altra: quell’incidente era una messinscena per nascondere l’omicidio. Ora la possibile svolta: il calciatore ferrarese sarebbe morto per soffocamento e non per lo scontro con il veicolo. La tesi trapela dai risultati della super perizia chiesta da Eugenio Facciolla, procuratore capo di Castrovillari. «Sapevamo che prima o poi la verità sarebbe venuta a galla - dice Galeazzi -. Per noi è una conferma. Denis era sempre allegro, poteva andare al Parma e non aveva mai manifestato insofferenza. Eppure all’inizio si parlava di legami con la droga o il calcioscommesse: tutte frottole». Nella nuova inchiesta sono indagati Isabella Internò, l’ex fidanzata di Bergamini, e Raffaele Pisano, l’autista del camion. Anche una terza persona sarebbe coinvolta nel caso che già l’autopsia eseguita nel ’90 e ulteriori accertamenti condotti dai Ris nel 2012 avevano rilevato essere pieno di punti oscuri. «Io stesso – prosegue Galeazzi - sono stato convocato dai carabinieri solo nove anni dopo il decesso per ricordare cosa avessi visto quel giorno. E’ strano perché ero molto legato a Denis: con Michele Padovano e Claudio Lombardo eravamo gli scapoli del gruppo». L’ex amico non dimenticherà mai l’ultimo pomeriggio trascorso con i compagni al cinema Garden di Rende, un’abitudine per la squadra in ritiro il sabato prima di ogni partita casalinga. «Denis era seduto in una fila sotto la mia - spiega -. Gli tiravo le palline di carta per giocare. Lui si alzò poco prima che cominciasse il film e si avvicinò alle scale. Lo vidi con due persone, due ombre, ma era buio e nessuno di noi si accorse se si fosse allontanato». A cena, la brutta scoperta. «Il cameriere spiegò a Gigi Simoni, il nostro allenatore, che la fidanzata di Denis aveva telefonato per dire che era morto – continua -. Ma lei non era più la sua compagna, quindi pensavamo a uno scherzo. Poi però chiamarono i carabinieri: era tutto vero». In questi anni Galeazzi ha incontrato più volte la famiglia Bergamini, “«he non ha mai mollato. Ora - avverte - bisogna andare fino in fondo».
Bergamini, 20 anni di omertà. Parla Fabio Anselmo: “Ora lo Stato finalmente processerà se stesso”, scrive "Iacchite" il 31 ottobre 2017. Il legale della famiglia Bergamini, Fabio Anselmo, in un primo tempo non ha confermato né smentito le indiscrezioni riguardanti i risultati della superperizia sulla salma riesumata di Denis che dimostrerebbero un omicidio per soffocamento. Ma poche ore fa, nel corso della tarda serata di ieri, ha diffuso un suo importante pensiero sul suo profilo di FB. Lo riportiamo integralmente. La verità su cosa sia accaduto a Denis Bergamini potrebbe andare oltre ogni immaginazione. Ho sempre creduto che la medicina legale avrebbe potuto alzare il velo di ipocrisia, falsità e depistaggi che ha coperto fino ad oggi la sua uccisione. È sorprendente come ora a Castrovillari lo Stato sia presente e si sia riappropriato del proprio ruolo dopo tanti anni. Senza arroganza ma con efficienza. Quel che so è che più vado avanti e più sento che questo sarà uno dei processi miei, in tutto e per tutto. Qui lo Stato processerà sé stesso. Finalmente.
Omicidio Bergamini, ecco chi ha paura della verità, scrive "Iacchite" il 30 ottobre 2017. Sono passati quasi tre anni da quel 23 febbraio 2015 quando il pavido e oscuro, ormai ex procuratore della Repubblica di Castrovillari, Franco Giacomantonio, si è messo in prima linea facendoci anche vedere la sua faccia di bronzo. Doveva per forza agire così davanti all’assedio mediatico nella sua cittadella, nel suo muro di gomma creato appositamente per insabbiare i processi delicati. Quelli che coinvolgono i pezzi deviati dello stato. Dall’omicidio Bergamini all’omicidio del magistrato Bisceglia. Tanto per citare soltanto i due casi-limite. Da Castrovillari, tuttavia, appena andato in pensione il pavido Giacomantonio, il nuovo procuratore Eugenio Facciolla ha fatto le cose seriamente per risalire finalmente alla verità sugli assassini di Denis Bergamini. E abbiamo avuto la prova che non è come Giacomantonio. Oscuro burocrate (ahinoi cosentino) al servizio dei potenti e dello stato deviato.
Facciolla è un magistrato serio: ha fatto guerra ai magistrati corrotti, ha fatto emergere molto del marcio che c’è nella giustizia cosentina ed è stato l’unico a perseguire seriamente corruzione, malaffare e delinquenti. Ma ha pagato un prezzo molto alto. Oggi, probabilmente, è stato “assorbito” da quel sistema che prima lo respingeva ma rimane comunque l’unica seria speranza per arrivare alla verità (quella, tra l’altro, che tutti conosciamo) sull’omicidio di Denis Bergamini. Del resto, non era davvero possibile lasciare in piedi la montagna di fandonie costruita ad arte prima dal complice e connivente Ottavio Abbate e dalla sua procura in mano al clan Cirillo e poi dal pavido Giacomantonio, tutto proteso a proteggere i “pezzi da novanta” che temono di essere smascherati dopo aver ucciso il nostro Campione. Per Giacomantonio non sono bastate tre perizie di medici legali di assoluto valore (Avato, Testi e Bolino) nè tantomeno l’evidenza e la logica: per lui Bergamini si è suicidato e non ci sono prove che reggano. Eppure era stato proprio lui a riaprire il caso nel 2011 sottolineando tutti i madornali errori delle indagini dell’epoca. Così com’era stato ancora lui, nell’aprile del 2012, a dichiarare testualmente che “Bergamini non è morto tuffandosi sotto un camion”. Ed era stato sempre lui, nel 2013 (a meno che non abbia un sosia oppure, ipotesi più probabile, uno sdoppiamento della personalità) a indagare per concorso in omicidio volontario Isabella Internò ovvero colei che continua a sostenere, senza vergognarsi, che Denis si è suicidato. Quel 23 febbraio 2015, in maniera del tutto irrituale rispetto alle pratiche consuete della giustizia italiana, Giacomantonio (cioè un procuratore della Repubblica) era addirittura presente nell’aula del tribunale in una udienza nella quale si discuteva una richiesta di archiviazione, per dare manforte alle sue “ragazza” (il gip e il pm). Temeva la vis oratoria dei legali della famiglia Bergamini, Fabio Anselmo ed Eugenio Gallerani.
Fabio Anselmo, sia nelle pause dell’udienza che alla fine del braccio di ferro con quell’omino piccolo piccolo, gli ha assestato una serie di fendenti che devono aver fiaccato il suo precario equilibrismo a favore delle assurde tesi della “mantide” di Surdo. Anselmo, in particolare, ha offerto alla procura di Castrovillari l’opportunità di dimostrare che al suo interno ci sono magistrati seri e credibili. Andato via Giacomantonio, insomma, la partita si è riaperta. Eccome se si è riaperta. “Abbiamo richiesto – affermò all’epoca il legale – una serie di indagini immuno-isto-chimiche suo preparati in formalina dei resti di Denis Bergamini. Si tratta di esami che possono datare le lesioni subite ed accertare senza possibilità di errore se i tessuti erano vitali quando il camion ha sormontato lentamente e parzialmente il corpo di Bergamini. Ma anche una Tac tridimensionale, da effettuare con la riesumazione del cadavere, che darebbe gli stessi risultati delle indagini immuno-isto-chimiche. Ebbene, pur davanti a queste eccezionali possibilità di arrivare alla verità, il pm si è opposto. E noi ci siamo rimasti decisamente male”. L’avvocato Anselmo aveva anche detto ai numerosi cronisti presenti in tribunale che era stato Vittorio Fineschi, il direttore del Dipartimento di Scienze Anatomiche, Istologiche e Medico legali de “La Sapienza” di Roma, a rendersi disponibile per effettuare gli esami. Per quanto riguarda la Tac tridimensionale invece erano stati gli stessi consulenti del pm a consigliarla, senza peraltro essere ascoltati. “Sinceramente – aveva commentato ancora Anselmo – non riesco a comprendere le motivazioni dell’opposizione della procura perché se c’è anche una sola possibilità di arrivare alla verità, un magistrato ha il dovere di seguirla e mi sembra molto strano che un procuratore della Repubblica, che è un uomo dello stato, si rifiuti di farlo. Non bisogna avere paura della verità”.
Richiedendo l’archiviazione, l’ex procuratore Giacomantonio non ha svolto più il suo dovere di pubblica accusa ma si è sostituito, di fatto, a chi deve prendere una decisione. E questo è veramente inaccettabile. Sempre quel 23 febbraio avevamo chiesto all’avvocato Anselmo se Bergamini può ritenersi una vittima dello stato come Cucchi e Aldrovandi. Il legale ci ha pensato qualche secondo e ha risposto così: “Non lo so, ma se non si andasse ad un processo, si potrebbe certamente parlare di negata giustizia”. Ritornando a bomba: chi ha paura della verità oltre al pavido Giacomantonio? Senza ombra di dubbio Isabella Internò e i suoi protettori all’interno dei pezzi deviati dello stato. Se per tutti questi anni nessuno è mai riuscito ad arrivare alla verità, è chiaro come il sole che c’è qualcuno dietro le quinte che manovra affinchè il mistero rimanga tale. Ed è altrettanto evidente che si coprono le gravissime responsabilità della procura di Castrovillari e segnatamente del magistrato che condusse le indagini ovvero Ottavio Abbate. Ma è davvero paradossale come non si voglia arrivare quantomeno ad un processo. E’ possibile che le coperture e le protezioni di Isabella Internò siano così alte e insormontabili? Lo sapremo presto, finalmente. Le prime indiscrezioni sui nuovi esami sono già uscite, novembre è alle porte, la salma di Denis parlerà spiegando a tutti che era già morto quando lo hanno steso sull’asfalto e messo sotto il camion e allora per Isabella e i suoi protettori la pacchia sarà finalmente finita dopo 28 lunghi e interminabili anni.
Bergamini, 20 anni di omertà: i cugini di Isabella Internò, scrive "Iacchite" il 30 ottobre 2017.
IL CAMPIONATO 1989-90. Denis Bergamini parte per il ritiro deciso a dimenticare in fretta l’infortunio della stagione precedente. E’ particolarmente riconoscente alla società rossoblu perchè ha resistito alle offerte di club di Serie A e ha deciso di aumentargli sensibilmente l’ingaggio. Ma anche perchè, per consentirgli di recuperare più in fretta, non ha badato a spese per macchinari e fisiatri. Il presidente Serra ha ceduto qualche pezzo pregiato: Simoni è passato al Pisa, Urban se n’è andato al Genoa, Poggi e Venturin sono tornati al Torino e hanno fatto le valigie anche Schio e Giovanelli. In compenso però la squadra è stata rafforzata con gli arrivi del portiere Di Leo, del fantasista Muro e del Bomber Gigi Marulla, che torna a Cosenza dopo quattro anni di Serie B tra Genova e Avellino. E al timone c’è un allenatore di sicuro affidamento come Gigi Simoni, protagonista di splendide imprese nel campionato cadetto. La squadra però non rende come dovrebbe e incappa in una serie di risultati negativi. Perde a Padova, all’esordio, e anche in casa, sette giorni dopo, contro la Reggiana. I primi punti arrivano dalla doppia trasferta di Barletta e Cagliari (due pareggi), la prima vittoria al San Vito contro il Pescara. Ma è solo un fuoco di paglia. Il Cosenza esce sconfitto rovinosamente a Parma e lascia punti quasi a tutti al San Vito. Urge un cambio di rotta per non sprofondare in Serie C. Bergamini comunque torna ad essere titolare ed è uno dei calciatori più positivi e continui in quel difficile inizio di campionato. Gioca tutte le partite da titolare e il suo rendimento è molto alto nonostante la squadra non decolli.
L’INCONTRO TRA ISABELLA E TIZIANA ROTA. Tiziana Rota, la moglie di Maurizio Lucchetti, è rimasta molto amica di Isabella Internò. A maggio del 1989 partorisce la sua prima bambina e a novembre torna a Cosenza per trovare alcuni amici e ritirare un’auto e in quell’occasione si accorda per incontrare anche Isabella. E’ il 6 novembre 1989. “… Le feci vedere la bambina e bevemmo qualcosa in una pasticceria di Commenda di Rende – dichiara Tiziana Rota all’avvocato Eugenio Gallerani –. Lei mi disse che con Denis era finita e che non riusciva ad accettare la cosa, ma lui non ne voleva più sapere di lei. Isa mi disse che questa non era come le altre volte (che poi tornavano assieme), anche perché era passato troppo tempo. In più mi disse che Denis non la voleva più: non la voleva più vedere e non voleva più sentirla. Isa mi disse: “Stavolta questo non torna, non torna”; “Stavolta l’ho perso”. Io le dissi: “Passano tanti treni, ne hai perso uno, prenderai il prossimo”. Isa rispose: “No, Tiziana, io lo voglio mio; deve essere mio. Piuttosto che sia di un’altra preferisco che muoia”. Ovviamente questa frase mi lasciò scossa ed è rimasta scolpita nella mia mente. Preciso che il discorso su Denis iniziò all’interno della pasticceria, ma per la gran parte proseguì al di fuori. Mi disse anche che i suoi non sapevano che lui l’aveva lasciata, che non poteva dirlo a suo padre per la questione dell’onore. Isa era molto agitata. A un certo punto, dalla nostra sinistra si avvicinarono due ragazzi, mi avvisò che erano i suoi cugini e mi intimò di cambiare subito discorso perché se avessero saputo che Denis l’aveva lasciata lo avrebbero potuto ammazzare. In particolare, disse: “Tizia’, se sanno lo ammazzano”. Si fermarono un attimo, salutarono Isa, che me li presentò, le chiesero se andava tutto bene e se ne andarono. Non ricordo esattamente il loro aspetto, comunque erano due ragazzotti ben robusti e dai tratti mediterranei. Io ero esterrefatta, anche perché non capivo cosa c’entrassero i cugini. Isabella mi rispose: “Tizia’, tu non capisci, qui c’è l’onore, la famiglia. E’ diverso che al Nord”. Parlammo ancora di Denis, le dissi che doveva calmarsi e di lasciarlo andare, di dimenticarlo, poi ci salutammo sempre con l’idea di risentirci. Posso dire che quell’incontro mi è rimasto particolarmente impresso. Ciò non solo per le frasi pronunciate, per l’arrivo dei cugini con la conseguente frase di Isa (“Zitta, se lo vengono a sapere, sono capaci di ammazzarlo”), ma anche perché Isa era molto nervosa e agitata, come non l’avevo mai vista. Mi colpì anche il fatto che Isa, quando vide arrivare i cugini, si spaventò e agitò ancora di più e mi intimò di cambiare discorso”.
Bergamini, 20 anni di omertà: il gruppo su FB, la verità e Alessandro Piersigilli, scrive "Iacchite" il 27 ottobre 2017. Ci sono storie normali che possono diventare storie eccezionali. Incroci di vita, il caso, le situazioni. I canali dell’informazione istituzionale (tutti venduti al potere politico e massonico) bypassati e l’onda della coscienza pubblica che supera gli steccati del tempo. Quarantasette anni, professione dipendente pubblico con la passione del giornalismo, ternano di nascita trapiantato a Milano. Alessandro Piersigilli con le storiacce cosentine degli anni Ottanta non c’entrava nulla. Forse neanche l’orecchio distratto ai tg nazionali prestava, e la città di Telesio la conosceva più che altro per l’antica amicizia fra i rossoverdi ternani ed i supporter silani, i leggendari Nuclei Sconvolti fratelli di strada (e di fumo) degli altrettanto leggendari Freak Brothers. Eppure, in una biblioteca meneghina trova un libro scritto da un ex calciatore, ed il tarlo è bello ed imbucato nel cervelletto: “Il calciatore suicidato” raccontato da Petrini non lo lascia più. Donato Bergamini lo conosce in questa maniera, senza averlo mai visto giocare. Ed in rete, nel mare infinito del web, le cose non sono poi così chiare. Un magma di notizie frammentate, ufficiali, ufficiose, false. Così fa una cosa semplice e ugualmente insolita. Crea un “gruppo” su Facebook, il social network più amato dagli italiani, “Verità per Donato Bergamini”. Prima pochi amici, poi altri utenti, poi molti internauti bruzi. Addirittura alcuni familiari di Bergamini. C’è Donata, la sorella del calciatore rossoblù, c’è suo figlio Denis, c’è la cugina Dilva. Donata rilascia addirittura un’intervista, e quando sente tutto l’affetto nutrito da centinaia di tifosi vent’anni dopo la tragedia riversarsi su quelle pagine, scrive parole commosse di ringraziamento, per la prima volta, dice, “la sua famiglia non si sente sola”. La cosa inizia ad assumere un altro significato. Di massa. Aumentano anche gli “amministratori” che curano il punto di incontro virtuale, come Antonello Renzini e Gianmarco Carbone, due cosentini purosangue. Due ragazzi, nuova generazione di calabresi che il velo dell’omertà vuole squarciarlo. Al primo gruppo se ne affiancano altri due, entrambi portano il nome di Donato. Qualcosa come cinquemila persone si iscrive, vuole sapere. E sulle pagine del signor “Fb” nasce la folle intuizione: fare riaprire il caso. Come si fa? Innanzitutto bisogna riparlarne. Cercare i media nazionali e braccarli. Con e-mail, sms, chiamate. Non si può tacere all’infinito. Oliviero Beha ne scrive sul “Fatto quotidiano” appena nato ed in tv su Rai 3, ne scrive “Tuttosport”. Ne scrivono una miriade di giornali locali. Poi nasce l’Associazione Verità per Denis e i cosentini si svegliano definitivamente dal letargo ma nessuno potrà mai dimenticare il “pizzopazzo”, Alessandro Piersigilli, il primo a credere nell’utopia che potrebbe diventare realtà: assicurare allla giustizia gli assassini di Denis Bergamini. E, a proposito di Piersigilli, noi ci siamo “innamorati” di una sua composizione, che si intitola semplicemente Denis e la verità. Leggetela solo per qualche minuto e vi sentirete migliori.
DENIS BERGAMINI E LA VERITA’ (di Alessandro Piersigilli)
“Ciao Denis!”
D: “ciao!”
“dai allora domani è derby!!”
D:”per domani siamo carichi!”
“che dici lo vinciamo??”
D:”beh, come sempre noi daremo tutto, poi io ho una voglia in più, particolare, per farmi vedere…forse più di una…”
“Davvero? finisce che domani magari segni per noi proprio te?”
D:”Difficile che io segni, però hai visto mai…”
“cosa sono quelle voglie in più che hai?”
D:”vengo da un infortunio, voglio riprendermi il mio posto, tornare in forma più di prima!”
“E poi?”
D:”E poi…te lo dico, forse forse qualcuno mi porta magari in serie A!”
“vorrai mica lasciarci?”
D:”E’ un’occasione unica, amo questo gioco, amo il calcio, e la serie A è un sogno…”
“capisco…”
D:”guarda che per me piazze come Cosenza non esistono, l’amore di questa città che ha per me, è pari a quello che io ho per lei, mai nessuna potrebbe sostituirla…nemmeno in serie A!”
“sei un grande Denis!!!”
D:”scusa ora devo andare, domani c’è il derby, ma per oggi ho altri programmi…un bel film al cinema, poi magari se non mi piace, esco prima, mi faccio un giro in macchina, magari passo a prendere la mia ex e poi hai visto mai…magari mi butto sotto un camion…così giusto per passare la giornata pre derby…”.
“ma come…le voglie di dimostrare, l’amore per il calcio, l’amore per Cosenza, la serie A…”
D:”va beh dai…uno non può cambiare idea??? devo per forza sempre dire la VERITA’??”
DENIS NEL CUORE
Grazie, Alessandro Piersigilli, ternano doc, fondatore del mitico Gruppo “Verità per Donato Bergamini”.
Omicidio Bergamini, le prime (incredibili) interviste del magistrato insabbiatore, scrive "Iacchite" il 24 ottobre 2017. Il magistrato Ottavio Abbate ovvero colui che ha condotto le indagini sull’omicidio Bergamini “insabbiando” l’inchiesta è nato a Longobardi, piccolo paese della provincia di Cosenza sul mar Tirreno, il 5 dicembre 1946. E’ sposato con due figli, è un ex poliziotto e pare vanti nel suo curriculum anche un incarico da vicequestore. Negli anni Ottanta invece entra in magistratura e gli tocca la procura di Castrovillari proprio nel periodo in cui è in mano al clan Cirillo e i magistrati vanno a braccetto con i camorristi nel villaggio Bagamoio di Sibari come diceva Salvatore Frasca, uno che ad Abbate ha sempre fatto guerra perché probabilmente aveva capito che “pesce” era. Resta a Castrovillari fino al 1994, poi i poteri forti lo mandano a dirigere il Tribunale di Sala Consilina ma torna nella città del Pollino nel 2004 per assumere l’incarico di presidente del Tribunale. Quando arriva la bufera del caso Bergamini, Abbate (che sente puzza di bruciato) prova in tutti i modi a farsi trasferire. Nel 2010 fa domanda per il Tribunale di Catania ma occorrerà attendere l’estate del 2012 (quando il caso Bergamini è già riaperto e lui è ancora presidente del Tribunale di Castrovillari!!!) per vederlo andare via a Campobasso, dove concluderà la sua indegna “carriera” di giudice corrotto e insabbiatore. Oggi, visto che è andato in pensione appena da qualche settimana, potrebbe essere tornato in Calabria e speriamo tanto che qualcuno lo abbia informato che le sue malefatte non sono passate inosservate. Il 12 gennaio del 1990, 55 giorni dopo l’omicidio di Denis Bergamini che Abbate vuole far passare a tutti i costi per suicidio, l’inviato della Gazzetta dello Sport Francesco Caruso, oltre ad intervistare Isabella Internò, decide di andare a Castrovillari e di ascoltare cosa ha da dire questo magistrato dalla faccia di gomma. Ed ecco il testo dell’intervista rilasciata allo stesso Francesco Caruso dal dottor Ottavio Abbate.
Mercoledì lei voleva aspettare l’autopsia: ora invece pensa di chiudere in trenta giorni. Perché?
“Perché la pista dell’autopsia non è la più importante (!!!). Da questo accertamento non mi aspetto la soluzione del caso…”.
Come mai questo scrupolo le è venuto solo in un secondo momento?
“Perché dopo la deposizione dei due testimoni (Isabella Internò e il camionista Raffaele Pisano, ndr), tutto collimava e la ricostruzione dei fatti sembrava chiarissima. Poi, quando ho riascoltato la fidanzata del giocatore e l’autista del camion ho notato qualche sbavatura. Niente di trascendentale, comunque, sia chiaro”.
Ma insomma, lei per quale ipotesi propende?
“Non ho mai detto di propendere ora per il suicidio, ora per l’omicidio. Certo, sembra strano che qualcuno per ammazzare una persona scelga di andare proprio in un posto così trafficato…”.
C’è da rimanere allibiti rileggendo queste dichiarazioni, rilasciate ufficialmente ad un giornalista e riportate fedelmente sul giornale che allora e anche oggi risulta il più letto d’Italia. Ma come si fa a dichiarare che l’autopsia non è importante e che da essa non si aspetta la soluzione del caso? E come si fa a dichiarare che le deposizioni della Internò e del camionista collimavano in pieno quando anche un bambino aveva capito che non erano per niente corrispondenti? Ma il colmo lo si raggiunge quando questo signore afferma addirittura che se qualcuno voleva uccidere il calciatore non sarebbe andato in un posto così trafficato. E’ incredibile: il magistrato titolare delle indagini è stato il primo, oltre a non fare il suo dovere, a cercare di depistare le indagini stesse. E non finisce qui. Il giornalista Santi Trimboli, ex vicecaporedattore alla RAI Calabria, ha ricordato, in un suo intervento apparso su Il Quotidiano del Sud, le pessime indagini che vennero fatte dalla procura di Castrovillari nell’immediatezza dell’omicidio di Denis Bergamini. Ed è il primo che, finalmente, ci segue nell’analizzare l’atteggiamento quasi ostruzionistico del magistrato Ottavio Abbate. Ecco il ricordo di Santi Trimboli.
“… E ricordo soprattutto il mio urticante incalzare nei confronti dell’allora titolare dell’inchiesta, il procuratore di Castrovillari Ottavio Abbate. Perché non è stata eseguita l’autopsia sul cadavere di Bergamini? Chiedevo ripetutamente e con forza nei miei servizi. L’autopsia. “Sì, la facciamo l’autopsia”, bisbigliò quasi un mese dopo (!) il procuratore Abbate. Ricordo ancora il tono della sua voce. Quasi di insofferenza e al tempo stesso di liberazione. E così, la mattina del 18 dicembre, nel cimitero di Boccaleone, la salma di Bergamini fu riesumata. Finalmente, il primo passo verso l’accertamento della verità! Una verità che nonostante i tre gradi di giudizio e l’iniziativa, poi stroncata, di riaprire il caso, non è stata ancora rivelata. E che ora il procuratore capo di Castrovillari Eugenio Facciolla, un magistrato di grandissimo spessore umano e professionale, si appresta a scrivere in nome della Giustizia. Quella con la G maiuscola”.
Denis Bergamini, i misteri di una storia sbagliata, scrive Tiziano Carmellini su “Il Tempo”. Un libro per non tacere, per continuare a cercare la verità e scoprire quello che in un quarto di secolo ancora non è emerso. Un modo, forse l’unico, per spazzar via nubi, dubbi...Un libro per non tacere, per continuare a cercare la verità e scoprire quello che in un quarto di secolo ancora non è emerso. Un modo, forse l’unico, per spazzar via nubi, dubbi e capire come sono andate veramente le cose. Già, perché a 25 anni dalla morte di Donato «Denis» Bergamini – il talentuoso centrocampista argentano del Cosenza trovato morto sulla Statale Jonica il 18 novembre 1989 – il suo caso lascia aperti ancora tanti interrogativi. A provare a rispondere a tali interrogativi è un libro fresco di stampa, «Denis Bergamini, una storia sbagliata», scritto dal giornalista sportivo Alessandro Mastroluca, che prova a far luce sulle tante ombre di un cold case senza ancora nessuna certezza, tanto che per lungo tempo si è parlato, oltre che di suicidio, di un omicidio legato alle partite vendute o a un traffico di droga dei quali il calciatore sarebbe venuto a conoscenza, minacciando di spifferare tutto. In tutta questa storia ci sarebbe già una verità, quella giudiziaria basata in gran parte sulla testimonianza della ex fidanzata di Bergamini, Isabella Internò, che parla di suicidio. Ma è una verità che, come evidenziato nel libro, non collima con le prove fisiche e con altre testimonianze – spesso discordanti o ritrattate – tanto che, grazie al lavoro dell’avvocato Eugenio Gallerani, la procura di Castrovillari ha riaperto l’indagine, questa volta per omicidio. Questo libro ripercorre tutti gli aspetti della inchiesta e della nuova indagine, ricostruisce il racconto di tutti i testimoni ascoltati nel 1990 e dei compagni di squadra del calciatore e le nuove interpretazioni emerse in questi ultimi anni. Ripercorre inoltre tutte le dinamiche possibili e i moventi emersi in molti anni di inchieste giornalistiche e «soffiate» anonime: dal giro di droga alle partite truccate fino alla tragedia per motivi passionali. Una ricostruzione obiettiva e dettagliata che mette insieme tutti gli aspetti di una storia ancora incompresa. Insomma, una storia sbagliata. Una storia che di sport alla fine ha ben poco se non il talento del protagonista espresso sui campi di calcio professionistico in una realtà difficile come quella del Cosenza. Denis era un giocatore di quelli che fanno la differenza e non è un caso se è rimasto comunque nel cuore della tifoseria che ogni anno gli dedica tributi... per non dimenticare.
Giallo Bergamini, svolta clamorosa: la fidanzata del calciatore morto nel 1989 è indagata per concorso in omicidio volontario, scrive “Oggi”. Svolta clamorosa nel giallo Bergamini. La fidanzata del calciatore è indagata per concorso nel suo omicidio. Colpo di scena nell’inchiesta sull’ex giocatore del Cosenza, investito da un camion quando era già senza vita. Fu tutta una messinscena? Donato Bergamini, svolta clamorosa nel giallo del calciatore del Cosenza morto nel 1989. Un avviso di garanzia per concorso in omicidio volontario è stato notificato a Isabella Internò, ex fidanzata del giocatore, investito da un camion, il 18 novembre 1989. L’avviso è stato emesso dalla Procura di Castrovillari che ha riaperto le indagini sulla morte del calciatore. L’avviso di garanzia, notificato dai carabinieri del Comando provinciale di Cosenza, scaturisce dalle indagini avviate dalla Procura di Castrovillari dalle quali nel febbraio scorso è emerso che Bergamini era già morto quando fu investito dal camion e non si gettò a pesce sotto il mezzo, come stabilì la prima inchiesta. Ad ipotizzare il primo scenario sono una serie di perizie realizzate dai carabinieri del Ris e dal medico legale dopo la riapertura dell’inchiesta su richiesta della famiglia Bergamini. Era stata sentita in qualità di testimone nel dicembre del 2011 Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore del Cosenza morto il 18 novembre del 1989 a Roseto Capo Spulico (Cosenza) in circostanze mai chiarite. L’ex fidanzata di Bergamini era stata sentita nella nuova inchiesta che la Procura di Castrovillari ha avviato ipotizzando il reato di omicidio. Internò è l’unica testimone oculare di quel presunto incidente stradale che, fino a qualche anno fa, era ritenuto la causa della morte del calciatore. Ad avvalorare la tesi che il calciatore si fosse suicidato erano state, all’epoca, proprio le testimonianze della ragazza e del camionista che era alla guida del mezzo carico di agrumi che avrebbe investito il calciatore, provocandone la morte. L’anno scorso, nell’ambito della nuova inchiesta avviata dopo le denunce dei familiari, la Procura di Castrovillari affidò ai Ris di Messina e a un medico legale l’incarico di effettuare perizie e accertare le cause della morte. Dagli accertamenti scientifici era emerso che Bergamini era già morto quando fu investito dal camion. Le testimonianze della (ex) fidanzata Internò paiono contraddittorie. Era legata a Bergamini sin da quando il ragazzo, ferrarese di Argenta, era approdato al Cosenza nel 1985. Maglia numero “8”. Nel luglio ’87 la Internò, appena maggiorenne, abortisce a Londra. Nell’estate 1988 Bergamini , fino a quel momento mediamente pagato, è corteggiato da alcune squadre di serie A (tra cui il Parma). Viene convinto a rimanere in B con il Cosenza, esigendo però eguale contratto. E’ bello, bravo, ricco . Desiderato. Michele Padovano, compagno di squadra e di camera il giorno del ritiro (e della morte), racconterà di un Denis sgomento dopo aver ricevuto una telefonata alle 15.30. Da quel ritiro, mentre il resto della squadra stava guardando un film al Cinema di Rende, Bergamini fuggirà – o verrà costretto a farlo – fino a Roseto Capo Spulico. Teoricamente la destinazione doveva essere Taranto, da cui si sarebbe voluto imbarcare (con la Internò) per abbandonare l’Italia. Verrà invece ammazzato, forse con un’arma bianca. Non si sa da chi (ma il Procuratore sembra saperlo e a giorni i nomi saranno noti). Bergamini aveva da poco intrapreso una relazione con una donna diversa dalla Internò. Aveva informato Isabella, oggi sposata con un poliziotto che già conosceva all’epoca (“un amico di famiglia”). Perché, nonostante il rapporto finito, Denis era insieme alla Internò quel pomeriggio? Chi c’era con loro? Forse qualche risposta sta per arrivare. ”In un giorno come questo il sentimento che prevale in me è di profonda tristezza. Nel mio cuore il pensiero va solo a mio fratello, cui hanno tolto la vita nel pieno della sua vita”. Sono le parole di Donata Bergamini, la sorella gemella di Denis Bergamini, calciatore del Cosenza, morto nel 1989 in circostanze mai chiarite e che ora stanno emergendo dalla nuova inchiesta. La donna non e’ voluta entrare nel merito dell’inchiesta e si e’ limitata a prendere atto delle evoluzioni.
Denis Bergamini fu ucciso. Ora c’è anche un movente. Secondo la versione ufficiale il giocatore ferrarese morì nel 1989 gettandosi sotto un tir sulla statale calabrese 106. Ma l'ipotesi del suicidio non ha mai convinto, tanto che pochi giorni fa la Procura di Castrovillari ha iscritto alcuni nomi sul registro degli indagati per omicidio volontario e la pista sembra essere "passionale", scrive Andrea Scanzi su “Il Fatto Quotidiano”. Carlo Petrini, il calciatore maledetto che si reinventò (ottimo) investigatore e fustigatore per espiare le proprie colpe, lo aveva capito. E non solo lui. Donato “Denis” Bergamini, quel 18 novembre 1989 sulla statale 106 Jonica nei pressi di Roseto Capo Spulico, fu “suicidato”. Cioè ammazzato. Petrini, scomparso un anno fa, intuì che il ragazzo 27enne era già morto, quando un autocarro Fiat Iveco in transito gli passò sopra due volte, avanti e retromarcia. La versione ufficiale parlò di un Bergamini che, scattando dalla piazzola di sosta, si buttò sotto un camion dopo aver gridato “Ti lascio il mio cuore” alla (ex) fidanzata Isabella Internò, unica presenza certa al momento del decesso con l’allora 51enne Raffaele Pisano, il guidatore (tuttora in vita) del mezzo pesante. Bergamini avrebbe chiesto a Isabella di accompagnarlo in Brasile o alle Hawaii: di abbandonare con lui l’Italia, perché stanco di quel mondo. La Internò si rifiutò, da qui il “gettarsi a pesce” sotto il camion. Se Petrini intuì la dinamica, sbagliò però il movente. Non un omicidio legato al calcioscommesse o al traffico di droga, ma un delitto passionale (d’onore?). Una “banale” morte privata. A questo sembra essere giunta la Procura di Castrovillari, che ha iscritto nel registro degli indagati alcune persone. Per omicidio volontario. Il caso, pieno di incongruenze, morti sospette (due magazzinieri-factotum del Cosenza che dicevano di sapere tutto: scomparsi il 3 giugno 1990 in un incidente stradale sulla stessa statale 106) ed errori marchiani, è stato riaperto due anni fa grazie alla tenacia della famiglia Bergamini e all’avvocato Eugenio Gallerani. sorella Donata, nei giorni scorsi, ha partecipato a Ferrara al sit-in in memoria e difesa di Federico Aldrovandi, il giovane ucciso nel 2005 da quattro poliziotti. In questi quasi 24 anni non tutti hanno dimenticato: non il programma Chi l’ha visto?, che si è sempre occupato della vicenda; non i tifosi del Cosenza, che a Bergamini hanno dedicato la Curva Sud dello stadio San Vito; non parenti ed amici. Troppi i dubbi. I vestiti del giocatore, subito bruciati nel-l’inceneritore vicino all’ospedale invece di essere restituiti ai familiari. Il comportamento della Internò, che prima di chiamare i soccorsi telefonò a Gigi Simoni (tecnico del Cosenza) e Francesco Marino (compagno di squadra). I rilievi non effettuati – o effettuati male – su camion e fondo stradale. La Maserati di Bergamini, che secondo Petrini sarebbe servita a trasportare droga tramite doppi fondi di cui neanche il calciatore era a conoscenza, lavata accuratamente il giorno dopo il suicidio/omicidio. E molto (troppo) altro ancora. Adesso parte del supposto è ufficiale. Bergamini era già morto quando fu investito dall’autocarro per inscenare il finto suicidio. Lo attestava già del 1990 curata a Ferrara dal Professor Avato, ma misteriosamente non fu tenuta in considerazione. Come pure le scarpe e l’orologio di Bergamini, immacolate le prime e tuttora funzionante il secondo: non così sarebbe avvenuto, se il ragazzo fosse stato trascinato per 60 metri sull’asfalto. Le testimonianze della (ex) fidanzata Internò paiono contraddittorie. Era legata a Bergamini sin da quando il ragazzo, ferrarese di Argenta, era approdato al Cosenza nel 1985. Maglia numero “8”. Nel luglio ’87 la Internò, appena maggiorenne, abortisce a Londra. Nell’estate 1988 Bergamini , fino a quel momento mediamente pagato, è corteggiato da alcune squadre di serie A (tra cui il Parma). Viene convinto a rimanere in B con il Cosenza, esigendo però eguale contratto. E’ bello, bravo, ricco . Desiderato. Michele Padovano, compagno di squadra e di camera il giorno del ritiro (e della morte), racconterà di un Denis sgomento dopo aver ricevuto una telefonata alle 15.30. Da quel ritiro, mentre il resto della squadra stava guardando un film al Cinema di Rende, Bergamini fuggirà – o verrà costretto a farlo – fino a Roseto Capo Spulico. Teoricamente la destinazione doveva essere Taranto, da cui si sarebbe voluto imbarcare (con la Internò) per abbandonare l’Italia. Verrà invece ammazzato, forse con un’arma bianca. Non si sa da chi (ma il Procuratore sembra saperlo e a giorni i nomi saranno noti). Bergamini aveva da poco intrapreso una relazione con una donna diversa dalla Internò. Aveva informato Isabella, oggi sposata con un poliziotto che già conosceva all’epoca (“un amico di famiglia”). Perché, nonostante il rapporto finito, Denis era insieme alla Internò quel pomeriggio? Chi c’era con loro? Forse qualche risposta sta per arrivare.
Caso Bergamini, già l'autopsia del '90 smontava il suicidio, scrive Francesco Ceniti su “La Gazzetta dello Sport”. Il viso del calciatore del Cosenza senza un graffio ma fu dato credito al trascinamento da parte del camion per 60 metri. Se questo vi sembra un uomo trascinato da un camion per 60 metri... C’è una foto che parla. C’è una foto che grida. C’è una foto che fa indignare. E’ la foto di Donato Bergamini, un primo piano. Molto stretto. A parte la postura degli occhi, sembra il viso di un addormentato. Con la barba lunga di qualche giorno. Ma quello scatto non è una semplice foto: fa parte della perizia medico legale effettuata nel gennaio 1990 dal professor Francesco Maria Avato, lo stesso che ha contribuito a far riaprire il caso Pantani. Avete letto bene: gennaio 1990. Due mesi dopo la morte del centrocampista del Cosenza. caso riaperto — La foto è arrivata alla Gazzetta dalla famiglia Bergamini. Sono stati la sorella Donata e il padre Domizio a decidere questo passo. Come mai? Fa capire, più di tante parole, quanto era poco credibile da subito la tesi del suicidio, un suicido raccontato agli inquirenti dai due testimoni presenti sulla Statale 106 nei pressi di Roseto Capo Spulico: Isabella Internò, ex ragazza di Bergamini, e Raffaele Pisano, l’autista del camion. Entrambi sono ora indagati, la Internò per omicidio volontario in concorso, Pisano per falsa testimonianza, nella nuova inchiesta riaperta dalla Procura di Castrovillari nel 2011. Prima di andare avanti nel racconto, serve una spiegazione: la Gazzetta ha deciso di non pubblicare sul giornale la foto. Certo, è un documento di grande importanza e non vìola nessun segreto istruttorio, ma potrebbe urtare la sensibilità di qualche lettore. E’ disponibile nel sito della Gazzetta: prima di visionarla si è avvertiti dei contenuti forti. Insomma, una presa di responsabilità. Precisato questo aspetto, torniamo al racconto: perché quella immagine grida e fa indignare? Seguiteci. Il suicidio — "Faccio entrare solo il papà a vedere il corpo: è straziato perché è stato trascinato per oltre 60 metri". Così il carabiniere Barbuscio accoglie, dopo un bel po’ di anticamera, i familiari del povero Bergamini il giorno dopo quel maledetto 18 novembre 1989. Hanno viaggiato da Argenta tutta la notte, con un dolore lancinante per la notizia piombata all’ora di cena: l’amato figlio, il calciatore lanciato verso una carriera importante in A, morto in circostanze misteriose. Quando arrivano nella caserma di Roseto Capo Spulico, sanno poche cose. Domizio entra nella stanza, gli fanno vedere solo il viso del figlio: il corpo è coperto da un lenzuolo. Barbuscio gli spiega: «Si è gettato sotto un camion, poi è stato trascinato per quasi 60 metri. Non lo tocchi». Il volto è pulito, tranne un piccolo graffio sulla fronte. Il papà sbotta: "Ma che cosa sta raccontando, ho guidato dei camion di quella portata: se uno ci finisce sotto finisce maciullato. Non può essere andata come dite voi". La battaglia lunga 23 anni inizia quel giorno. Come è stato possibile credere a una versione che faceva acqua da tutte le parti a iniziare da un viso pulito? Come è stato possibile che quel volto senza ferite ispezionato la mattina del 19 novembre anche dal pm di allora, Ottavio Abbate, non abbia instillato neppure il minimo dubbio sul suicidio, dando pieno credito al trascinamento? Ma c’è molto di più. Lasciamo stare i rilievi sballati (con piazzole di sosta spostate di 40 metri) effettuati da Barbuscio nelle ore seguenti al ritrovamento del cadavere (tutti confutati negli anni seguenti), quello che qui ci preme far notare è come si arriva alla foto in questione: con inspiegabile ritardo il pm solo a gennaio decide di far eseguire l’autopsia su Bergamini e ordina la riesumazione del corpo. La perizia è condotta dal professor Avato che scatta una serie di foto fondamentali e fa le sue ipotesi in una consulenza che avrebbe dovuto ripetere durante l’incidente probatorio, diventando una prova da utilizzare in un eventuale processo. Ma questo non accade: Avato non sarà mai sentito, né durante l’incidente probatorio, né al processo del 1991 con Pisano unico imputato (poi assolto) per omicidio colposo. I giudici sentenziano: Bergamini si è gettato sotto il camion. E poco importa se la foto scattata da Avato e la relazione medico-legale suggeriscano altre conclusioni e hanno un nome molto diverso dal suicidio. Il professore fa notare come sia impossibile il trascinamento, come le ferite siano concentrate solo su una parte (il fianco destro) e riconducibili a un sormontamento del camion, vale a dire le ruote fatte passare sopra un corpo steso per terra (e già cadavere come diranno le recenti consulenze, a partire da quella del Ris), Avato per spiegare meglio usa la metafora di un frutto schiacciato ed esploso. E’ quello accaduto alla parte destra del fianco di Bergamini. Ma sul resto del corpo il giocatore non presenta ferite, i vestiti (come dimostrano altre foto scattate sul posto da Barbuscio, immagini che ripubblichiamo) sono intatti, le scarpe ben strette ai piedi, persino le calze sono su. E poi c’è il viso: secondo i testimoni Bergamini si sarebbe buttato a pesce sotto le ruote e poi trascinato. Questo è raccontato agli inquirenti, questo non è mai messo in dubbio nonostante il corpo di uno sfortunato ragazzo dica altro. Gli inquirenti non cambiano idea neppure dopo l’autopsia di Avato. Anzi, quella perizia finisce dimenticata, l’incidente probatorio evaporato. La foto parla e spiega come mai la famiglia non si sia mai rassegnata. Sta ancora aspettando una risposta: proprio in queste settimane la Procura di Castrovillari sta per chiudere l’inchiesta riaperta nel 2011 (ipotesi omicidio volontario) e condotta dal procuratore capo Franco Giacomantonio e dal pm Maria Grazia Anastasia. Il lavoro del professore Avato è agli atti insieme ad altre novità importanti (consulenze e testimonianze). La tesi del suicidio dopo 25 anni è stata spazzata via dalle nuove indagini. La strada per capire cosa sia accaduto nel 1989 è ancora lunga, ma è arrivata l’ora di capirlo. E magari un giorno qualcuno spiegherà alla famiglia e all’opinione pubblica come mai 25 anni fa sia stato possibile non porsi delle domande guardando un viso di un uomo che doveva essere irriconoscibile, ma aveva solo un graffietto sulla fronte.
Bergamini, 25 anni di misteri e bugie. Tutti i punti dubbi sulla sua morte. Denis, calciatore del Cosenza,fu trovato morto davanti a un camion il 18 novembre del 1989. Suicidio, si disse per anni. Ora sta per chiudersi la nuova inchiesta: per omicidio, scrive di Angela Geraci su “Il Corriere della Sera”. C’è un orologio che continua a ticchettare in una casa di Boccaleone di Argenta (Ferrara) da venticinque anni. È in perfette condizioni: la cassa dorata lucida, il quadrante senza un graffio, il cinturino in pelle marrone liscio e intatto. Le lancette girano, imperterrite, dentro il cassetto di Donata e scandiscono il tempo che passa senza giustizia per suo fratello Donato, Denis come lo chiamavano tutti. Quell’orologio, infatti, racconta la storia di una morte mai spiegata, lasciata – per scelta, interesse e incuria di qualcuno – senza spiegazioni. Anzi, sepolta da una montagna di bugie. Denis Bergamini ce l’aveva al polso la sera piovosa del 18 novembre del 1989 quando venne trovato morto sul ciglio della Statale Jonica 106 al chilometro 401 vicino a Roseto Capo Spulico, a 100 chilometri da Cosenza. Il corpo del ragazzo, centrocampista del Cosenza di 27 anni, era a pancia in giù sull’asfalto, davanti alle ruote di un camion carico di mandarini che pesava 138 quintali. L’autista, Raffaele Pisano, raccontò subito di aver investito Denis, di non essere riuscito a frenare e di averlo trascinato «per quasi una cinquantina di metri» sotto il suo gigantesco mezzo. Per 59 metri, precisarono e misero a verbale i carabinieri arrivati sul posto. Denis, disse immediatamente il camionista, si era buttato volontariamente tra le ruote del suo Fiat Iveco 180 e c’era un’altra persona che lo aveva visto e poteva testimoniare: Isabella Internò, la ex fidanzata del ragazzo che era insieme a lui proprio in quel momento. «Si è voluto suicidare», furono le prime parole che la 20enne rivolse all’autista del camion. «Si è buttato sotto le ruote tuffandosi nella stessa posa che si usa quando si fanno i tuffi in piscina: le braccia protese in avanti, la testa leggermente reclinata in avanti, il corpo teso orizzontalmente», dichiarò poi davanti al sostituto procuratore Ottavio Abbate. Nessuno, venticinque anni fa, si volle soffermare sul fatto che sul corpo del calciatore non ci fosse alcun segno compatibile con la dinamica raccontata. Un corpo stritolato per metri tra l’asfalto e la mole di un mezzo così pesante sarebbe dovuto essere maciullato, con i vestiti quantomeno stracciati in qualche punto. Invece quelle mani «protese in avanti» non avevano un graffio. Così come i piedi, le gambe, le spalle, il volto di Denis (su cui c’era solo una piccola abrasione sulla fronte, vicino all’attaccatura dei capelli sul lato sinistro). I suoi vestiti erano intatti: il gilet di raso, la camicia, i pantaloni, le scarpe di pelle, i calzini a losanghe ancora perfettamente tirati su sul polpaccio. E quell’orologio da polso integro e funzionante. L’unica ferita, grave, era all’altezza del bacino. Denis Bergamini di certo non è stato investito e trascinato come hanno raccontato i testimoni e come è stato avallato dai carabinieri e dai due gradi di giudizio che nei primi anni Novanta hanno assolto il camionista dall’accusa di omicidio colposo. Quella sera di venticinque anni fa le cose non sono andate così come sono state ricostruite. Adesso si sta per chiudere l’inchiesta riaperta nel 2011 dalla procura di Castrovillari, grazie alla tenacia della famiglia Bergamini e al lavoro del loro avvocato Eugenio Gallerani: l’ipotesi di reato, questa volta, è omicidio volontario. Ci sono almeno due indagati: Isabella, per concorso in omicidio, e l’autista del camion per false dichiarazioni ai pm. Ecco, punto per punto, i principali elementi che non tornano in questa vicenda resa difficile dalle menzogne e dal passare degli anni, ma che complicata, in fondo, non doveva essere.
1. La macchina di Denis. La Maserati bianca. Il rapporto scritto dal brigadiere Francesco Barbuscio, il comandante della stazione dei carabinieri di Roseto Capo Spulico arrivato sul luogo dell’“incidente” alle 19,30, contiene una macroscopica incongruenza a proposito della macchina di Bergamini, una Maserati bianca. Nel testo del militare si legge che «sul luogo del sinistro […] l’autocarro era preceduto dall’auto». Quell’auto che, precisa il carabiniere, lui stesso aveva fermato a un posto di blocco due ore prima: a bordo c’erano un ragazzo e una ragazza. Non vedendo la giovane, il brigadiere chiede al camionista dove sia finita e gli viene detto che «con un automobilista di passaggio si era recata a Roseto forse per avvertire i congiunti». Allora Barbuscio scrive di essere andato in paese e di aver trovato vicino a un bar «la ragazza che prendeva posto sulla Maserati di cui sopra». In poche righe la macchina della vittima cambia di posto e si trova contemporaneamente in due luoghi diversi. Ma nessuno ci fa caso. E c’è di più: dagli ordini di servizio in cui i carabinieri registrano tutte le loro attività è sparita proprio la nota, allegato B, con l’elenco delle auto fermate dalle 17 in poi di quel pomeriggio al posto di blocco. C’è poi un altro punto oscuro: Barbuscio scrive di essere stato avvisato che «c’era un morto in mezzo alla strada» dai carabinieri di Rocca Imperiale, un paese vicino, per telefono. Ma chi ha avvisato i carabinieri? Finora non si è mai saputo. Si sa invece che più volte, dopo la morte di Denis, Isabella ha telefonato ai suoi familiari chiedendo che le fosse data la Maserati che Bergamini aveva comprato poco prima da un parente di un dirigente del Cosenza: «Lui me l’aveva promessa in eredità», sosteneva.
2. L’accompagnatore misterioso. Isabella era insieme a Denis quel pomeriggio, anche se (dopo una storia complicata durata quattro anni tra alti e bassi) non stavano più insieme da un paio mesi, ed è la testimone numero uno di quanto accaduto. Al sostituto procuratore dice di aver «chiesto a un ragazzo che si era fermato e aveva una macchina bianca di accompagnarmi a telefonare per chiedere aiuto». Arrivati al bar del paese lei telefona alla madre (e anche alla società del Cosenza e a un giocatore, Marino) mentre «il ragazzo che mi aveva accompagnato telefonò ai carabinieri». Ma i militari sono già sul posto visto che, come dice il brigadiere, sono stati avvisati dai colleghi e Isabella sulla Statale 106 non c’è. Il proprietario del bar, Mario Infantino, dichiara invece che la ragazza arriva nel suo locale insieme a un signore e che, mentre lei parla al telefono, questa persona gli dice di aver lasciato la sua auto sul luogo dell’incidente con dentro la moglie incinta. Per accompagnare Isabella il signore ha usato la Maserati di Denis e poi sempre con quella, dichiara il barista, è tornato dalla moglie lasciando la ragazza nel bar. Come è arrivata davvero Isabella al bar? E come mai l’accompagnatore non si è mai fatto avanti, allora e in tutti questi anni (né lui né l’ipotetica moglie incinta)? Adesso sembra che l’uomo sia stato identificato e ascoltato dagli inquirenti.
3. In viaggio da Taranto. Isabella ha raccontato che quel giorno Denis la passa a prendere in auto sotto casa intorno alle 16. Iniziano a dirigersi verso Taranto e alle 17,30 vengono fermati al posto di blocco dei carabinieri di Roseto. Rimarranno due ore a discutere nella piazzola di sosta vicino a dove sarà trovato il calciatore. Di cosa? Lui voleva lasciare il mondo del calcio e partire per l’estero, Amazzonia o Hawaii. Strano visto che non aveva con sé denaro a sufficienza per una fuga né valigie né passaporto o carta di identità. E poi dal porto di Taranto non ci si imbarca per nessuna destinazione: partono solo merci. Ma quindi, dunque, aveva deciso di scappare o voleva suicidarsi? E se voleva uccidersi perché farlo a 100 chilometri da Cosenza e davanti a una ex fidanzata? Oltretutto il giorno prima di un’importante partita che lui ci teneva a giocare? La domenica il suo Cosenza, salito in serie B l’anno prima e in cui lui stava da quattro anni, doveva affrontare il Messina: Bergamini si era allenato sabato mattina ed era in ritiro con la squadra. «Il calcio era la sua vita – racconta la sorella Donata – e non era mai mancato a un allenamento, anche quando giocava nelle serie minori». Che Bergamini fosse un professionista serio e preciso è stato sempre confermato da tutti: dalla società sportiva, dai suoi compagni di squadra, dall’allenatore.
4. I segni sul corpo. Che Denis non sia stato investito e trascinato per 59 metri dal camion lo capiscono subito sia i tifosi del Cosenza che si precipitano all’obitorio di Trebisacce non appena si diffonde la notizia, sia la famiglia del calciatore che riesce a vedere il corpo la mattina successiva, dopo una notte di viaggio in macchina da Ferrara alla città calabrese. Ai parenti del calciatore, il brigadiere Barbuscio dice che il ragazzo è inguardabile, «distrutto». «Mi ero preparata a vederlo “ammaccato” – ricorda oggi la sorella – ma quando lo vidi in faccia rimasi stordita e scioccata: sembrava che dormisse, notai solo una piccola macchia rotonda grigio-azzurra sulla fronte». L’autopsia non viene fatta subito. Ci sono i funerali a Cosenza (a cui partecipano 8mila persone), poi Denis viene riportato ad Argenta per un’altra funzione religiosa e per essere sepolto. Due mesi dopo, nel gennaio del 1990, viene riesumato e finalmente si fa l’autopsia: 25 pagine in cui il professor Francesco Maria Avato riporta quello che vede. Risultano «indenni le cosce, le ginocchia, le gambe, i piedi», «gli arti superiori» sono anch’essi «indenni da lesioni», «la teca cranica appare integra». Intorno al collo, «indenne» pure quello, non c’è alcun segno eppure Denis indossava una collanina d’oro (restituita alla sorella dai carabinieri insieme all’orologio e al portafoglio) che avrebbe dovuto lasciare qualche traccia nel trascinamento. Il professore spiega anche che nei casi di investimenti ci sono cinque fasi contraddistinte da lesioni tipiche ma su Bergamini non ci sono tutti questi traumi: c’è solo una «lesività di tipo addominale», gli è stato schiacciato il fianco sul lato destro. Cioè il lato opposto a quello che, stando alla ricostruzione, sarebbe dovuto essere stato colpito dal camion. È verosimile dunque, si legge poi nell’autopsia, «l’ipotesi di schiacciamento da parte di un unico pneumatico del corpo disteso al suolo», un «arrotamento parziale» connesso a un «mezzo pesante dotato di moto “lento”» che ha causato «lesioni da scoppio». Denis è morto in poche decine di secondi per l’emorragia, schiacciato da un camion che gli è salito in parte sul fianco mentre lui era steso a pancia in su. Questo dicono quelle 25 pagine messe da parte e dimenticate per anni. Il professore Avato non è stato mai ascoltato durante il processo all’autista.
5. Il camion. Il camion viene sottoposto a un tipo di sequestro particolare: è lasciato in uso al signor Pisano che quindi risale a bordo e se ne va. Nessuno esaminò quindi il mezzo che aveva investito un uomo. E nessuno controllò bene neppure il cronotachigrafo del quattro assi. Sul dischetto di carta che a quei tempi i camionisti erano obbligati a compilare e inserire nel cruscotto – era una sorta di scatola nera – c’era scritto che Pisano era partito da Rosarno, un paese in provincia di Reggio Calabria, e aveva percorso circa 160 chilometri in quattro ore prima di investire Denis, come scrissero i carabinieri. Ma i conti non tornano: tra Rosarno e Roseto Capo Spulico ci sono circa 230 chilometri. E poi se il camion era andato in media a 40 km orari come era stato possibile che non fosse riuscito a frenare in tempo dato che, con i fari accesi nel buio, un ragazzo che indossava vestiti chiari al bordo della strada doveva essere visibile?
6. Il mistero dei vestiti spariti. Sarebbe stato utile anche poter sottoporre a perizia, appunto, i vestiti che il calciatore indossava quando è morto ma qualcuno pensò bene di fare sparire quelle prove importanti per capire cosa fosse davvero accaduto. Finiti nell’inceneritore, disse un infermiere ai familiari. Le foto scattate dai carabinieri però restano: gli indumenti di Denis sono sani, integri, le scarpe allacciate, i calzini perfettamente tirati su. Non è pensabile che siano gli abiti trovati addosso a una persona vittima di un incidente stradale come quello raccontato. Mesi dopo al signor Bergamini furono fatte recapitare le scarpe del figlio, scampate al “raid” per fare scomparire gli oggetti. Gliele diede il direttore sportivo del Cosenza, Roberto Ranzani, che le aveva avute da uno dei factotum della squadra insieme a un messaggio da portare: a fine campionato quella persona sarebbe andata dai genitori di Denis e avrebbe raccontato quello che sapeva sulla sua morte. Tornando in Calabria dopo l’ultima partita di quella stagione, a Trieste, i due factotum del Cosenza però morirono in un incidente stradale sulla Statale Jonica, a pochi chilometri da dove era stato ritrovato il corpo del giocatore. Negli ultimi anni i familiari sono stati chiari e hanno detto che non vogliono che i nomi dei loro cari vengano associati al caso Bergamini.
7. Le indagini del 1994. Cinque anni dopo la morte di Bergamini qualcuno della questura di Cosenza inizia a fare delle indagini, delle ricerche. Vengono anche messe sotto controllo alcune utenze telefoniche ma poi si ferma tutto. Alcuni funzionari vengono trasferiti ad altri uffici e i risultati di quella inchiesta non ufficiale rimasta incompleta finiscono in qualche cassettiera.
La tesi del suicidio e i progetti per il futuro. Tutti quelli che l’hanno conosciuto, hanno sempre ritenuto impossibile che Denis Bergamini si sia suicidato. Lo ripete da 25 anni la sorella: «Ricordo la sua felicità dell’ultimo periodo – dice Donata - stava raggiungendo tutto ciò che desiderava: l’anno dopo avrebbe giocato in serie A, pensava di costruire la sua casa ed era andato già a vedere dei terreni qui vicino da noi, perché cercava un azienda agricola. Giorni dopo la sua morte sapemmo anche che aveva una ragazza che voleva sposare... Non l’avevo mai visto così felice, era l’anno dei grandi progetti per lui». La fidanzata di Denis si chiamava Roberta, era delle sue parti, si conoscevano da anni e a Cosenza ancora non era mai stata. «Quando ci dissero che era morto e che con lui c’era Isabella – continua Donata - noi cademmo dalle nuvole: perché c’era lei? A 100 chilometri da Cosenza? Abbiamo capito male?». Ma al suicidio non hanno creduto mai neppure i compagni di squadra di Denis, i ragazzi che passavano con lui tutti i giorni. Lo hanno detto da subito: era allegro come sempre, professionale in campo, faceva i suoi soliti scherzi nello spogliatoio, era stranissimo che avesse abbandonato il ritiro sapendo che per punizione poi non avrebbe potuto giocare la partita contro il Messina. Nessuno di loro però, in tutti questi anni, ha saputo o voluto dire di più degli ultimi giorni di vita del calciatore. Neppure Michele Padovano, il compagno amico fraterno con cui Denis divideva la casa e le camere d’albergo durante le trasferte (Padovano poi giocò anche nella Juventus e nel 2011 è stato condannato in primo grado a 8 anni e otto mesi per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga). Nei giorni e nei mesi prima che Bergamini morisse nessuno ha notato nulla di diverso in lui, nessuno ha raccolto qualche sua confidenza? Eppure la vita dei giocatori di una squadra di calcio è cameratesca, soprattutto se ci si trova a vivere in una piccola città come Cosenza, lontani dalle proprie case.
Il Totonero e la droga. Le voci, le ipotesi, le chiacchiere e le congetture intorno alla morte di Bergamini sono nate presto. Si disse che il calciatore fosse stato ucciso perché implicato nel Totonero, la compravendita di partite fatta in quegli anni da alcuni calciatori. Il direttore sportivo Ranzani ripete da anni che non ci ha mai creduto: chi avesse voluto corrompere un giocatore – ha ragionato più di una volta - avrebbe scelto un difensore o un portiere o un attaccante, non certo un centrocampista. E poi si parlò di ‘ndrangheta e traffico di droga. Si diceva che la malavita usasse il pullman del Cosenza per portare la droga al nord; una misteriosa ragazza (che poi sparì nel nulla) telefonò più volte a casa Bergamini sostenendo che invece la droga veniva nascosta in scatole di cioccolatini che Denis inconsapevolmente doveva recapitare durante le trasferte. Ci fu chi disse che nella Maserati del calciatore ci fossero doppi fondi in cui venivano nascosti, sempre a sua insaputa, gli stupefacenti. Ma la macchina di Bergamini è stata analizzata dal Ris e risulta esattamente uguale a come uscì dalla fabbrica, senza vani segreti e nascosti. «Qui a Cosenza c’è stata per molto tempo un’atmosfera pesante creata ad arte per fare paura alle persone e spingerle al stare zitte - spiega Marco De Marco, nel direttivo dell’associazione “Verità per Denis” – La curva, con i suoi striscioni allo stadio, è stata l’unico spicchio della città a rivendicare la verità su quello che era successo a Bergamini». «Quando si parlava di lui – continua De Marco - vedevi sui volti dei tifosi un misto di vergogna e timore». L’associazione, per i 20 anni dalla morte del calciatore, ha organizzato una grande manifestazione che è partita dal tribunale per finire allo stadio San Vito. «Non abbiamo mai ricevuto minacce per quello che facciamo, nessuno è venuto a spaventarci o intimidirci – conclude De Marco – e da pochi mesi è stata aperta anche una scuola calcio intitolata a Denis». La verità allora forse va cercata altrove, nella sfera dei rapporti personali del calciatore. Forse qualcuno voleva punirlo per qualcosa che Bergamini aveva fatto o detto, oppure doveva essere solo una dimostrazione di forza andata troppo oltre. Poi c’è stata la maldestra messa in scena del suicidio, rimasta incredibilmente in piedi per così tanto tempo.
La nuova inchiesta. La procura di Castrovillari da tre anni sta cercando di mettere ordine nei pezzi di questa storia. Isabella Internò oggi è una donna di 45 anni, sposata con un uomo che appartiene alle forze dell’ordine e madre di due figlie. «Si è chiusa in un mutismo assoluto» ha detto il suo legale quando, nel 2013, la donna è stata iscritta nel registro degli indagati. L’autista Raffaele Pisano ha più di 75 anni e anche lui si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il brigadiere Barbuscio è morto pochi anni dopo Bergamini. Gli atti della nuova inchiesta sono secretati ma, intervistati dal Quotidiano della Calabria già un paio di anni fa, i medici legali incaricati di esaminare i reperti biologici del calciatore avevano parlato chiaramente: «Non abbiamo scoperto la luna, era già tutto scritto nella perizia di Avato», ha detto Roberto Testi; «allora nessuno l’ha mai letta bene», ha ribadito Franco Bolino.
La mancanza del diritto alla verità. «Quando penso a mio fratello la prima immagine che mi viene in mente è il suo sorriso, la sua voglia di vivere», confida Donata. Tra lei e Denis c’erano solo 16 mesi di differenza, oltre che fratello e sorella erano amici. «Siamo cresciuti insieme, dormivamo nella stessa camera, la sera da piccoli dopo il telegiornale facevamo degli spettacoli casalinghi per i nostri genitori e i nostri nonni: imitavamo i cantanti, loro ridevano», ricorda. Ai suoi figli che da bambini le chiedevano come fosse morto lo zio e perché, Donata all’inizio non sapeva rispondere. Poi per anni ha ripetuto loro: «Stiamo cercando la verità, noi eravamo lontani quando è successo». «Il dolore per una morte è un conto, essere privati di un diritto un altro – conclude oggi –. Messe insieme le due cose rendono la vita invivibile, un inferno». Intanto l’orologio senza graffi di Denis continua a ticchettare.
GIALLO PANTANI.
"Pantani è tornato", ecco il libro di De Zan. Da dieci anni, Davide De Zan, giornalista e grande amico di Marco Pantani, indaga per scoprire cosa si nasconde dietro alla morte del Pirata, avvenuta il 14 febbraio 2004 e troppo frettolosamente archiviata come overdose di cocaina, un altro modo per dire suicidio. Collaborando con la madre di Pantani, che da sempre sostiene la tesi dell’omicidio, e con i legali della famiglia, De Zan ha raccolto documenti e prove che accertano quanto sta emergendo ora e che hanno convinto la magistratura a riaprire il caso. In questo libro racconta non solo quello che ora tutti sanno, e che in buona parte nasce da sue scoperte, ma anche i retroscena di come si è arrivati a questo punto. Un’indagine nell’indagine che lascia senza parole. E che squarcia il velo su un secondo inquietante aspetto della vicenda: la cacciata di Pantani in maglia rosa per doping a Madonna di Campiglio. È lì che Marco ha cominciato a morire, ed è lì che iniziano i misteri. Ci sono molti elementi nuovi, raccolti dall’autore e qui presentati per la prima volta, che ridisegnano lo scenario di quel giorno e svelano i tratti di un complotto. Anche su quello incombe un’inchiesta giudiziaria.
"Un'indagine sconvolgente su un campione ucciso due volte": la storia raccontata dal nostro Davide. Tutti ricordano le immagini di Marco Pantani scortato dai carabinieri a Madonna di Campiglio il 5 giugno 1999. Un numero, 53, il valore del suo ematocrito al controllo, gli costa un Giro d’Italia condotto trionfalmente. Per qualcuno, quel giorno crolla un mito. Per Pantani è il mondo stesso a crollare. Insieme alla maglia rosa gli sfilano l’onore, e un gran pezzo di vita. È una discesa agli inferi, che il Pirata compie scalino dopo scalino e si consuma il 14 febbraio di cinque anni dopo nel residence di Rimini dove viene trovato morto. Overdose è il verdetto del giudice. Qualcosa di molto simile a un suicidio per il resto del mondo. Qualcuno continua a nutrire dubbi su quella conclusione ma servono nuovi elementi e molto coraggio per spingere la magistratura a riaprire il caso. Tre persone non hanno mai smesso di lottare per restituire l’onore a Marco Pantani e trovare finalmente la verità. Tonina, la mamma, che ha sempre rifiutato la versione ufficiale. Antonio De Rensis, l’avvocato della famiglia, che ha messo testa e cuore in questa battaglia. E Davide De Zan, un giornalista ostinato, che di Marco era amico. Grazie a un lavoro d’inchiesta puntiglioso e serrato, dettagli, fatti e clamorose dichiarazioni si accumulano sotto gli occhi dell’autore e qui vengono documentati e analizzati nella loro sconvolgente evidenza. È così che hanno preso corpo due parole: complotto e criminalità organizzata. Due parole che gettano la loro lunga ombra fino al tragico epilogo, e impongono di evocarne una terza, ancora più terribile: omicidio. A Campiglio hanno ucciso il campione, a Rimini l’uomo. Un solo uomo ucciso due volte. "Tutti i ragazzi che mi credevano devono parlare" esortava Marco Pantani in un messaggio ritrovato dopo la sua morte. Finalmente i ragazzi hanno parlato. Pantani è tornato. Adesso, fate giustizia.i Marco Pantani. Gli ultimi giorni del Pirata
Liti, fughe e sospetti incrociati. La ricostruzione degli ultimi 40 giorni di Marco secondo i racconti dei genitori, del medico, della manager e del "tutore". E la strana "eclissi" del soggiorno milanese, scrive Davide Di Santo su “Il Tempo”. Quello strano e fragile cerchio magico torna a riunirsi intorno a Marco Pantani qualche giorno dopo il primo dell’anno. È il gennaio del 2004, ultima salita della vita del Pirata. Unico assente è il padrone di casa Michael Mengozzi, gestore di discoteche della riviera, professionista della notte scelto come custode a tempo pieno di Pantani. Intorno al tavolo della casa di Predappio siedono Tonina e Paolo, genitori di Marco, il dottor Giovanni Greco del Sert di Ravenna, diventato nel tempo anche il medico personale del campione, e la manager Manuela Ronchi in compagnia del marito Paolo Tomola e del figlio piccolo. Secondo quanto raccontano i protagonisti prima e durante il processo agli spacciatori di Pantani, il campione non ne vuole sapere di essere ricoverato. «Sono adulto e ho il diritto di essere libero», ripete. Tutti i precedenti tentativi di metterlo in una struttura specializzata per la cura delle dipendenze erano andati in fumo. I rapporti tra Michael e la famiglia Pantani sono già erosi dai sospetti, così come quello tra Marco e l’uomo della notte di Predappio. Si tratta di una vecchia conoscenza della famiglia. Mengozzi era andato qualche volta a caccia con Paolo, il padre di Marco, e quando si era sparsa la voce dei problemi di droga del campione si era presentato al chiosco di piadine della signora Tonina. In passato, dicevano di lui, aveva aiutato un altro ragazzo della zona a sconfiggere la dipendenza con una ricetta semplice ed efficace che userà anche con Marco: aria buona, cibo genuino, battute di caccia e qualche ragazza. In quel periodo il Pirata non ha problemi a procurarsi la droga. Rotoli di banconote in tasca, milioni sul conto, basta sfuggire qualche ora al controllo per acquistare grandi quantità di polvere bianca. Quella sera alle suppliche dei genitori risponde minimizzando la gravità della sua dipendenza: bastano le cure del dottor Greco e magari cambiare aria per un po’, in Spagna o in Sud America. Ancora una volta niente di fatto. Arriva il compleanno di Marco, Michael la sera del 13 gennaio organizza una cena con amici vecchi e nuovi. Pantani si presenta in forte stato confusionale, alterato dalla droga. Pochi giorni prima aveva prelevato 10mila euro in contanti, usati per la coca e per Barbara, nome d’arte di Elena Korovina, escort russa. È lei cosiddetta Dama Nera. La serata è un fallimento, il festeggiato è stravolto e delira, il giorno successivo i genitori chiamano Greco che propone un trattamento sanitario obbligatorio. Paolo e Tonina, persone semplici, taciturno lui, sanguigna lei, si oppongono, ancora una volta. Il 15 il marito della Ronchi arriva in macchina a Predappio per prendere Pantani e portarlo nella loro casa di Milano. Passa giorni tranquilli, senza consumare la «sostanza», come la chiamava lui. Continua a rifiutare il ricovero ma si dice favorevole e una vecchia proposta della manager, un periodo in Norvegia accanto Renato Da Pozzo, atleta e motivatore. Allo stesso tempo, però, cerca in tutti i modi una scusa per tornare a Predappio o in riviera. L’occasione si presenta il 26 gennaio, prende l’auto della manager per andare a Cesenatico a prendere l’attrezzatura da montagna da usare per un’escursione col padre della Ronchi. Nella valigia preparata da mamma Tonina anche i famosi giubbotti da sci, poi spuntati misteriosamente a Rimini. Durante il viaggio preleva 22mila euro e fa il pieno di coca e di crack, che consuma di nascosto a casa della manager fino a quando i coniugi lo vedono parlare con la tv. Dice di essere in comunicazione subliminale con il presentatore Rai Massimo Giletti. Il marito di Manuela trova la droga e la getta nel water. La situazione è esplosiva, in casa c’è anche un bambino. Venerdì 30 gennaio c’è l’atteso incontro con il dottor Ravera in una clinica di Appiano Gentile. La data fissata per il ricovero è il lunedì successivo, il 2 febbraio. Marco dopo il colloquio ha una crisi nervosa, piange e si chiude nel mutismo. Il giorno successivo il “cerchio”, senza Greco e Mengozzi, si riunisce a Milano in casa della Ronchi. Quando arrivano Tonina e Paolo la tensione è già alta, con Marco e Manuela che discutono animatamente. Pantani è lucido, e determinato a fare di testa sua. I toni salgono ulteriormente, i genitori vogliono convincere Marco al ricovero immediato, senza aspettare il lunedì, oppure a partire subito per Cesenatico. La lite inizia nell’appartamento e continua sulle scale. Paolo alza le mani, il figlio lancia le valigie appena fatte per la scale, la madre ha un malore e si accascia al suolo. Marco indica la guancia e provoca il padre: «Picchia, picchia qua». Emergono vecchi rancori, il Pirata accusa i genitori di aver fatto di tutto per allontanare Christina, la sua ex fidanzata danese che non vuole più saperne di lui, e maledice il «complotto» di cui è stato vittima a Madonna di Campiglio, l’esclusione dal Giro d’Italia del ’99 per ematocrito fuori norma dopo la quale il campione non è stato più lui. Marco torna in casa, chiama il 118: «venitemi a prendere, mio padre mi ha picchiato». I medici arriveranno ma potranno assistere solo Tonina. Nelle mani del padre resta il cellulare Nokia di Marco, lui è già andato via, al Jolly Touring Hotel di Milano. Ci rimarrà, secondo le ricostruzioni ufficiali, dieci giorni, barricato nella propria stanza con le serrande chiuse, tra cartoni di pizza e lattine di Coca Cola. Eppure, come svelato da Il Tempo la ricevuta dell’albergo riporta ben quattro notti, quelle dal 2 al 5 febbraio, in cui Pantani ha pagato la doppia per intero e non uso singola. Forse c’era qualcuno con lui, o forse la stanza era occupata da qualcun altro mentre Marco era altrove. In quei quattro giorni, a differenza dei precedenti e dei successivi, non risultano telefonate dalla sua stanza. Un’eclissi inspiegabile. Il 6 febbraio Pantani lascia un messaggio nella segreteria di Manuela: «Sono nell’albergo che tu sai, i cagnolini tornano all’ovile». Il giorno successivo chiama Greco, dice di essere in un periodo terribile, costretto a centellinare i pochi farmaci rimasti. Il medico telefona alla Ronchi e le manda un fax con la prescrizione - che resterà nella disponibilità di Pantani – da portare a Marco insieme a qualche vestito pulito. Lei lo chiama: «Vengo ma devi farti ricoverare». Lui replica: «Sono adulto, decido io della mia vita». Si accordano che sarà il marito della Ronchi - sempre più esasperato dalla situazione - a lasciare al personale della reception la sportina con i medicinali appena acquistati, i cambi e la ricetta, lei resterà in auto per evitare ogni contatto. Così avviene. Marco richiama la Ronchi alle 8.30 di lunedì 9 febbraio. Chiede di raggiungerlo per organizzare un soggiorno nella sua casa di Saturnia. Lei risponde che sarà in hotel alle 14 ma Pantani fa retromarcia, replica che sta pagando il conto con l’intenzione di andare verso casa. «Da allora non l’ho più sentito e non riesco a spiegarmi le ragioni per cui si sia recato nell’hotel in cui poi è stato trovato senza vita», dirà la Ronchi. Quello che emerge dagli atti è che Marco sale su un taxi, a Milano, direzione Rimini. Con sé una bustina di plastica e pochi oggetti, e senza quei famosi giubbotti da sci inspiegabilmente trovati nell’appartamento D5 del residence Le Rose. Alle 21.30 del 14 febbraio lo studente trapanese Pietro Buccellato, che fa il turno alla reception, entra nella stanza con un passepartout, sale le scale del soppalco e vede riflesso sullo specchio il cadavere di Marco Pantani riverso sul pavimento. In mezzo a queste poche evidenze - alcune delle quali messe in discussione dall’esposto presentato dalla famiglia Pantani che ha permesso alla procura di Rimini di riaprire il caso - il mare di dubbi e incongruenze di cui abbiamo scritto da questa estate a oggi, oggetto della nuova inchiesta per omicidio volontario. Per coprire i tanti, troppi tasselli rimasti vuoti nel mosaico degli ultimi giorni di Marco Pantani.
Pantani, il mistero della fuga di Milano. Pochi giorni prima di morire isolato in hotel ma forse c’era qualcuno con lui Il giallo delle telefonate. Marco non aveva le sim: una ha contattato la madre, continua Davide Di Santo. Si allungano nuove ombre sugli ultimi giorni in vita di Marco Pantani. Alcuni documenti di cui Il Tempo è venuto in possesso fanno emergere uno scenario inedito: il Pirata potrebbe non essere stato solo durante una parte del suo soggiorno al Jolly Touring Hotel di Milano. Siamo tra il 31 gennaio e il 9 febbraio 2004, penultima tappa dell’esistenza di Pantani, trovato morto il giorno di San Valentino dello stesso anno nel residence Le Rose di Rimini. Ufficialmente per overdose, anche se dopo l’esposto presentato dall’avvocato della famiglia Pantani, Antonio De Rensis, la procura romagnola indaga per omicidio volontario. Secondo quanto ritenuto finora, Pantani si sarebbe volontariamente isolato con i suoi demoni per nove giorni dopo la «fuga» dalla casa milanese della manager Manuela Ronchi e dagli stessi genitori che da Cesenatico erano venuti a prenderlo. Una lite, vecchi rancori e qualche schiaffo, Pantani va via senza valigie e senza cellulare e prende una camera. Ma dalla fattura dell’albergo milanese, rinvenuta a Rimini dopo la morte, emerge che per il 31 gennaio e il primo febbraio sono stati messi in conto - solo per la camera - 132 euro a notte. Il pernotto sale a 180 euro per i quattro giorni successivi per poi tornare a quota 132 dal 6 all’8 febbraio, ultima notte passata al Jolly Touring. Da escludere che l’oscillazione sia dovuta a un cambio di tariffa per un periodo di alta stagione: non si spiegherebbe il ritorno alla cifra di partenza. È possibile che l’«appartamento», così viene chiamato nella ricevuta, sia stato preso come doppia a uso singola e che il prezzo sia salito, in quei quattro giorni, perché c’era un ospite in stanza. L’avvocato De Rensis dovrà capire cosa c’è dietro questa ennesima anomalia che non ha suscitato la curiosità degli inquirenti, prima e durante il processo ai pusher del Pirata. L’albergo, però, è passato alla catena Nh e scovare registrazioni e ingressi a dieci anni di distanza non sarà facile. Pantani, inoltre, era senza cellulare. Per comunicare usava il telefono dell’hotel, come si evince anche dal conto di 1.960,15 euro saldato a fine soggiorno e che comprende qualche centinaio di euro per pasti e frigo bar. Il 7 ad esempio chiama il suo medico, Giovanni Greco, perché rimasto a corto di farmaci, che gli saranno poi portati alla reception dalla Ronchi. Eppure c’è un buco di quattro giorni nel quale non risultano chiamate, un’«eclissi» che coincide con le date in cui si può ipotizzare la presenza di un’altra persona nella stanza. Con chi era Pantani? Per comunicare può aver utilizzato un altro cellulare? A questi interrogativi si aggiunge la possibilità che Marco, se la camera era in uso a due persone, in quei quattro giorni sarebbe potuto anche trovarsi altrove. La questione delle chiamate è centrale. Il campione romagnolo aveva in uso quattro numeri, quattro sim usate alternativamente con il suo Nokia Communicator, rimasto al padre Paolo. Da una delle sue utenze, non quella abituale ma usata ad esempio tra l’11 e il 12 gennaio per chiamare lo spacciatore Fabio Miradossa e l’amico Michael Mengozzi a Predappio, parte una chiamata la sera dell’8 febbraio, l’ultima passata a Milano. È una telefonata riportata dai tabulati alle 22.20 e 55 secondi. Il destinatario è la madre di Marco, Tonina Belletti, e la chiamata dura 0 secondi: il cellulare della donna è spento, lei e il marito sono in viaggio per la Grecia. Ebbene, quella sim non è mai state trovata, come le altre due che non erano nel cellulare. Non risultano tra gli oggetti repertati al Le Rose, come Il Tempo ha potuto verificare, e neanche tra gli oggetti personali riconsegnati alla famiglia. Chi aveva quelle schede? Chi ha chiamato quella sera la signora Pantani e perché? Domande, queste, che nessuno si è fatto in questi dieci anni. E che attendono risposta.
Mamma Pantani: "Ma perché i poliziotti vogliono querelarci?". L'avvocato della famiglia del Pirata sulle persone sentite nell'inchiesta di Rimini: "O gli credi o li indaghi. Non si va avanti facendo passare tutto", scrive Luca Gialanella su “La Gazzetta.it”. Il gioco si sta facendo duro. Antonio De Rensis, l'avvocato della famiglia Pantani che è stato decisivo nella riapertura delle inchieste a Rimini e Forlì, sbotta durante la presentazione del libro Pantani è tornato, scritto dal giornalista televisivo Davide De Zan: "Sto ultimando l'istanza per chiedere lo spostamento dell'inchiesta da Rimini a Bologna. La decisione spetta alla Procura Generale di Bologna. Il clima non è più sereno. E bisogna avere risposte, al più presto". De Rensis si riferisce alla decisione di cinque poliziotti, che indagarono nel 2004 sulla morte di Pantani, "di procedere in giudizio contro quanti diffondono notizie lesive della nostra reputazione". Mamma Tonina Pantani, presente con il marito Paolo, aggiunge decisa: "Perché questa decisione dei poliziotti? Se sono puliti, e lo sono, perché si comportano così? In questi dieci anni ho avuto tante difficoltà, ne ho passate di tutti i colori, ma non ho mai abbandonato la mia idea che Marco sia stato ucciso. Io voglio avere delle risposte che ancora non ho avuto. Abbiamo offeso la Polizia? Se la Polizia vuole, perché non unire le nostre forze? Perché vogliono querelarci? E comunque sappiano che io non ho paura". De Rensis sposta la discussione sul piano giuridico: "Due di quei poliziotti sono già stati chiamati a testimoniare e in futuro potrebbero essere chiamati tutti a farlo. È la prima volta, per quanto ne so io, che dei testimoni, appartenenti alla Polizia e che sono persone informate sui fatti, si ergono al ruolo dimostrato ieri con quel comunicato diffuso dall'Ansa, durante un'indagine in corso. I poliziotti hanno parlato di linciaggio mediatico. Se lo fai a indagine aperta, e l'inchiesta è svolta da altri poliziotti, posto che gli essere umani sono fatti di conscio e inconscio, questo non aiuta certo il clima. Sono veramente stupito. Il procuratore capo Giovagnoli è un galantuomo, ma l'indagine è fatta di tanti compartimenti. A Rimini non c'è serenità". Ci sono state testimonianze nuove, come quelle dei tre infermieri "i primi a intervenire nella stanza di Pantani", che hanno posto il problema della pallina di coca e pane davanti al corpo di Marco: i tre affermano di non averla mai vista, l'hanno detto nella testimonianza giurata all'avvocato De Rensis e poi l'hanno ripetuto in Procura. Loro lasciano la stanza alle 21.20, ma nel video della Polizia Scientifica, che inizia alle 22.45, la pallina c'è. "La pallina di cocaina è il grimaldello dell'indagine, essendo venuta fuori da testimoni che non erano mai stati sentiti dieci anni fa e che spontaneamente sono venuti a cercarmi per raccontare la loro verità - continua il legale -. La pallina è l'emblema dell'indagine: in uno spazio di 81 centimetri per 250 centimetri, gli infermieri hanno detto che non c'era. Servono risposte: o gli credi o li indaghi, ma non si va avanti lasciando passare tutto, e mettendoci una X sopra. Visto che ci sono orari e circostanze, e sappiamo quando sono andati via gli infermieri, o questi hanno detto una bugia, e allora devono essere indagati, o bisogna credergli. Esigo delle risposte. Andiamo a dare le risposte, il movente poi verrà da solo. La notte del 14 febbraio 2004, l'ambulanza che è intervenuta era partita da Riccione. Era San Valentino, era sabato sera, ci avrà messo almeno quindici minuti? Ebbene, la volante della Polizia che partiva da Rimini è arrivata dieci minuti dopo". Quindi il video della Scientifica: "Un girato di due ore e 56 minuti è diventato un video di 51 minuti, interrotto 35 volte, di cui una per 30 minuti, con gli investigatori che mettono anche una mano davanti all'obiettivo per non fare inquadrare. Io voglio una risposta. E se dirlo vuol dire essere querelato, allora io sono fiero di essere querelato. Il filmato parla, eccome. Uno che vede Marco Pantani nella stanza capisce tante cose, dalle ferite, dalle macchie di sangue, dalla posizione", conclude l'avvocato De Rensis.
"Sparirono 5 schede sim di Marco". Pantani, tutti i dubbi di mamma Tonina. L'intervista: "A Milano, e non solo, successero molte cose strane". Tonina Pantani svela tutti i dubbi sugli ultimi giorni di Marco ad Affaritaliani.it con Lorenzo Lamperti. Chiamate misteriose, sim scomparse, incomprensibili spese d'albergo, depistaggi e tanto altro. Gli ultimi giorni di Marco Pantani (ricostruiti cronologicamente in un articolo di Libero) nascondono molti misteri per ora insoluti. A partire da quel periodo trascorso a Milano, poco tempo prima di quel maledetto 14 febbraio del 2004. Ora Tonina Pantani, la mamma di Marco, ripercorre i dubbi su quell'ultimo oscuro periodo in un'intervista ad Affaritaliani.it.
Signora Pantani, partiamo dal 26 gennaio quando la manager di Marco, Manuela Ronchi, racconta che il marito andò a prenderlo perché non stava bene. Che cosa successe?
«Il 26 gennaio il marito della Ronchi venne a prenderlo a Predappio con me presente. Tutte le volte che Marco non stava bene arrivavano a prenderlo e se lo portavano a casa, non perché. Tanto lei come Mingozzi, l'amico dal quale Marco era andato spesso a stare. Il 26 gennaio comunque Marco arrivò a casa e mi disse che doveva fare la valigia».
Si ricorda che cosa si portò dietro?
«Sì, prese una valigia di quelle a righe, non era un trolley. Non era una valigia molto grande e dentro c'erano solo tre giubbotti e due maglioni. Io stupita gli chiesi se era tornato a casa solo per quelle poche cose, lui mi rispose che se gli sarebbero servite altre cose le avrebbe comprate».
Secondo le testimonianze il 30 gennaio Marco parlò con il professor Ravera e rifiutò di entrare in clinica per disintossicarsi.
«Io anche sta cosa qui l'ho saputa dalla Ronchi. Sono cose che dice lei, io non ho mai saputo nulla del professor Ravera».
Il 31 gennaio invece si racconta che ci fu una lite molto accesa, con lei presente, a casa della Ronchi. Che cosa successe?
«Al nostro arrivo a Milano nacque una grossa discussione al termine della quale io svenni. Quando tornai dall'ospedale Marco era sparito. Tra l'altro è stato detto che io e mio marito tornammo subito a casa quella sera ma non è assolutamente vero. Ho ancora la ricevuta dell'albergo dove abbiamo dormito».
Quella sera non riuscì più a entrare in contatto con Marco?
«No, la Ronchi ci disse che aveva telefonato a tutti gli alberghi e che non si trovava. Tra l'altro non aveva portato con sé il telefono quindi era irraggiungibile. Dopo anni poi sono tornata per capire dove Marco aveva alloggiato e ho visto che l'hotel si trovava vicino all'ufficio della Ronchi».
Vista la discrepanza nelle ricevute di pagamento dell'hotel (132 euro per i primi giorni, 180 per i successivi) crede che qualcuno possa aver alloggiato con lui?
«Non lo so, l'ho pensato subito anche io quando ho visto quelle ricevute e ho notato subito che il pagamento non era uguale per tutti i giorni».
Poi lei non sentì più Marco?
«No, non l'ho più sentito. Ci telefonò la sua manager mentre eravamo a pranzo per dirci di firmare un fax per mandare il dottore a comprargli delle medicine. La cosa mi stupì perché Marco non era uno che prendeva delle medicine. Invece qui hanno detto che aveva persino mandato uno che lavorava nell'hotel a comprargli le medicine, cosa che il portiere dell'albergo mi ha poi smentito».
L'8 febbraio però risulta che da una delle schede di Marco partì una chiamata verso di lei...
«La storia del telefonino mi ha messo molti, molti dubbi. A me Marco non mandò nessun messaggio, magari l'avesse fatto. Come faceva a chiamarmi se non aveva dietro il telefono? Nell'ultimo periodo Marco abitava a Predappio dall'amico che aveva chiesto a mio marito un telefono per tenerlo sotto controllo. L'amico poi fece intendere che Marco si era suicidato e non venne al funerale. Mi ricordo che mi chiese di guardare il telefono di Marco e dopo un po' me lo diede indietro. Un'altra cosa strana è che sparirono da casa non tre, ma cinque schede telefoniche che appartenevano a Marco. E penso che da una scheda telefonica si possano capire molte cose, anche perché Marco usava molto il telefono».
Le sembra che ora le indagini stiano andando nella direzione giusta?
«Guardi, non lo so. Purtroppo mio figlio non me lo dà indietro più nessuno, io spero solo si possa arrivare alla verità anche per evitare che altre cose brutte come quella successa a lui non succedano più a nessuno».
Tonina Pantani ad Affari: "Ci sono tante cose che non posso dire...". "Prima di uscire sui giornali penso che il procuratore che sta facendo le indagini doveva avvisare l'avvocato e me". Tonina Pantani, la mamma del Pirata, intervistata da Affaritaliani.it, commenta le parole del procuratore Paolo Giovagnoli, secondo il quale non ci sono elementi che facciano pensare all'omicidio per la morte di Marco Pantani. "Le cose non stanno così, ne sono convintissima. Anche perché ci sono tante cose che non posso neanche dire". E ancora: "Io so com'è mio figlio. So quali sono le sue abitudini, conosco tutta la sua storia. Ne hanno dette tante, ma non è così. Ne ho dovute mandar giù di cose brutte. Ma non ce l'ho con nessuno. Voglio solo delle risposte e voglio solo vivere in pace gli ultimi anni che mi sono rimasti".
Il procuratore Paolo Giovagnoli ha dichiarato che non ci sono elementi che facciano pensare all'omicidio per la morte di suo figlio Marco. Come ha accolto questa notizia?
"Di questo non so niente. L'ho letto sui giornali. Ma prima di uscire sui giornali penso che il procuratore che sta facendo le indagini doveva avvisare l'avvocato e me".
Lei non è stata avvisata?
"No".
Lo ha saputo dalla stampa...
"Sì".
Lei continua ad essere convinta che le cose non stanno così?
"Io sono convintissima, anche perché ci sono tante cose che non posso neanche dire. Se sono dieci anni che lotto per questa cosa e se ho speso un capitale è perché penso che qualcosa non funzioni e che non sia andata così. Altrimenti avrei lasciato perdere".
Allora perché i magistrati continuano a dire il contrario?
"Lo sapessi! Non lo so. Io non punto il dito su nessuno, non so se le indagini sono state fatte bene oppure no. Dico solamente che come mamma voglio sapere come è morto mio figlio. Ho diritto, io come cittadina italiana, di sapere come è morto mio figlio. Poi se le cose sono andate diversamente me ne farò una ragione però io ho diritto ha delle risposte alle domande che ho fatto da dieci anni".
E finora queste risposte non sono arrivate...
"Nemmeno una".
Lei ha ancora fiducia nella giustizia italiana?
"Io ho fiducia perché spero che qualcosa venga fuori. Io ho fiducia. Non dico che il procuratore di prima abbia lavorato male, dico solamente che io come mamma voglio delle risposte. Quando mi daranno queste risposte me ne farò una ragione e basta".
Lei non crede al fatto che non sia stato omicidio...
"Non ci ho mai creduto".
E forse non ci crederà mai...
"Io so com'è mio figlio. Mio figlio è mio figlio. So quali sono le sue abitudini, conosco tutta la sua storia. Ne hanno dette tante, ma non è così. Ne ho dovute mandar giù di cose brutte ma io mio figlio lo conosco bene".
Che cosa l'ha delusa maggiormente in questi anni?
"L'indifferenza".
Di chi?
"In generale. Non do colpe a nessuno io, voglio solo delle risposte. Non ce l'ho con nessuno. Voglio solo vivere in pace gli ultimi anni che mi sono rimasti".
Vallanzasca sentito in carcere sulla morte di Marco Pantani. In una lettera dal carcere alla madre del Pirata, la tesi del giro di scommesse truccate gestito dalla criminalità, scrive “Il Corriere della Sera”. Renato Vallanzasca, martedì, ha risposto ai carabinieri che lo hanno sentito in carcere sulla morte di Marco Pantani. A differenza del silenzio davanti al pm di Trento Bruno Giardina e alla mamma di Marco Pantani, il «bel René» — che fu capo della banda della Comasina — ha risposto ai carabinieri che lo hanno sentito su delega del pm di Forlì-Cesena, Sergio Sottani: sua la decisione di riaprire il caso, archiviato, sul presunto complotto ordito ai danni del Pirata per alterarne le analisi del sangue del 5 giugno ‘99 a Madonna di Campiglio ed escluderlo dal Giro d’Italia che stava dominando. Dal fitto riserbo che circonda l’indagine forlivese si è appreso solo che le indagini cercano i primi riscontri alle nuove dichiarazioni di Vallanzasca. Vallanzasca sostenne all’epoca di essere stato avvicinato in carcere a Opera (Milano) da uno sconosciuto sedicente membro di un clan di camorra. Il quale lo avrebbe invitato a puntare milioni sul Giro d’Italia ma non su Pantani. «Non mi permetterei mai di darti una storta. Non so come, ma il pelatino non finisce la gara». Suggerimento insistito, anche mentre il Pirata dominava il giro. Il 5 giugno 1999, l’affondo: «Visto? Il pelatino è stato fatto fuori. Squalificato». Secondo Vallanzasca, dunque, dietro la morte del ciclista ci sarebbe stato un complotto: è quanto scritto anche nella lettera spedita dal carcere alla signora Pantani: «Quattro o cinque giorni prima che fermassero Marco a Madonna di Campiglio — le parole del malavitoso contenute nella missiva — mi avvicinò un amico, anche se forse lo dovrei definire solo un conoscente, che mi disse: “Renato, so che sei un bravo ragazzo e che sei in galera da un sacco di tempo. Per questo mi sento di farti un favore”. Ero in vero un po’ sconcertato ma lo lasciai parlare. “‘Hai qualche milione da buttare? Se sì, puntalo sul vincitore del Giro! Non so chi vincerà, ma sicuramente non sarà Pantani”». La tesi di Vallanzasca è che le scommesse clandestine sulla vittoria finale del Pirata erano talmente tante da poter «sbancare» chi le gestiva. E poiché si trattava della criminalità, era stato più facile eliminare il campione dalla competizione. Esattamente la tesi sulla quale sta indagando la Procura di Forlì.
Il capitolo Pantani si arricchisce sempre più di nuovi capitoli. L'ultimo e forse più importante in ordine di tempo è l'ulteriore interrogatorio sostenuto da Renato Vallanzasca in carcere, nel quale l'ex malvivente avrebbe confessato di aver identificato il detenuto che nel 1999 gli consigliò di non puntare sulla vittoria del Pirata, scrive “TGCom 24”. All'interno del carcere di Bollate, infatti, a Vallanzasca sono state sottoposte dieci diverse fotografie di detenuti tra i quali, alla fine, si trovava il camorrista che gli annunciò l'esclusione di Pantani al Giro. Il "bel René" dunque, ha riconosciuto l'uomo, che ora si trova dentro il carcere di Novara. Anni fa invece, l'ex boss si rifiutò di fornire qualsiasi tipo di commento sulla vicenda, per poi spedire una recente lettera alla mamma di Marco, nella quale confidava di aver ricevuto la seguente soffiata: "Non posso dirti quello che non so, ma è certo che 4 o 5 giorni prima di Madonna di Campiglio sono stato consigliato vivamente di puntare contro il tuo ragazzo".
Pantani, si riapre il caso Giro ‘99: tra camorra, scommesse e Vallanzasca, scrive Francesco Ceniti su “La Gazzetta.it”. A inizio settembre, la Procura di Forlì ha aperto un fascicolo per “associazione per delinquere finalizzata a frode e truffa sportiva”. Il ruolo del famoso bandito milanese. Associazione per delinquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva. Dieci parole per riportare l’orologio indietro di oltre 15 anni. La Procura di Forlì ha aperto a inizio settembre un fascicolo a carico d’ignoti con questa ipotesi di reato in relazione all’esclusione subita da Marco Pantani il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, durante il Giro d’Italia. In poco più di un mese le inchieste sul Pirata si sono raddoppiate: a fine luglio c’è stata la riapertura del caso sulla morte (s’indaga per omicidio volontario) da parte della Procura di Rimini. Campiglio e Rimini. Rimini e Campiglio. Per anni la famiglia del Pirata, i tantissimi tifosi del campione rimpianto e molti sportivi hanno ripetuto come un mantra il nome delle due località: "È stato prima fregato e poi fatto fuori". Adesso gli interrogativi, i dubbi, i tanti sospetti saranno chiariti (si spera) dagli inquirenti. A Forlì l’indagine è condivisa dal Procuratore capo Carlo Sottani (da sostituto a Perugia si è occupato di vicende scottanti come le inchieste sulle Grandi opere e il G8) e dal pm Lucia Spirito. Già affidata la delega per gli interrogatori: il pool è coordinato dal maresciallo Diana dei carabinieri. Da loro bocche cucite, ma una cosa è filtrata da Forlì: ci sono tutti gli elementi per andare fino a fondo a uno dei punti più controversi della vita di Pantani. L’inizio della fine, per molti. Compresa mamma Tonina: "Senza Campiglio non ci sarebbe stato mai Rimini". Difficile sostenere il contrario. Ma perché Forlì ha deciso d’indagare 15 anni dopo? E perché l’ipotesi parte con una inquietante associazione per delinquere? Domande che hanno una risposta e rimandano a un cognome che ha segnato la cronaca nera della storia italiana: Renato Vallanzasca. Le indagini — Da settembre a oggi, gli inquirenti hanno già ascoltato diverse persone informate sui fatti. Quali fatti? Quelli legati all’esclusione dal Giro di Pantani: una vicenda che secondo l’accusa potrebbe avere dei mandanti pericolosi (clan della camorra) e degli esecutori sul posto. Di certo, chi è sfilato in Procura ha raccontato di un clima tesissimo durante la corsa rosa, con continue minacce anonime che arrivavano a chi stava intorno al Pirata. Minacce chiare: non doveva concludere la gara. E si arriva all’episodio di Cesenatico. Il Giro d’Italia arriva a casa del Pirata il 25 maggio 1999. La mattina dopo, i giornalisti sono allertati: "Pantani è fuori, ha saltato il controllo del sangue". Non sarà così, il capitano della Mercatone Uno passa quel test, ma i commissari dell’Uci lo vorrebbero lo stesso squalificare per un ritardo di circa 20’ sull’ora prevista per il prelievo. Alla fine tutto si risolve, ma l’ispettore dell’Unione ciclistica internazionale, Antonio Coccioni, lo ammonisce pubblicamente: "La prossima volta non te la caverai". Ecco, per Forlì l’ipotesi di reato inizia quel giorno. Nel senso che la criminalità organizzata aveva già deciso che Pantani non doveva giungere a Milano. Certo, è tutto da dimostrare che le parole di Coccioni siano legate a questa volontà. Possono essere solo una coincidenza, ma chi indaga ha le idee chiare: la storia è legata alle scommesse clandestine ed è stata già narrata da Vallanzasca.Pantani, nel film lo choc di Madonna di Campiglio Il banco a rischio sbanco — Nel 1999 in Italia le scommesse sul ciclismo non esistono. Meglio: sono clandestine, le gestisce la criminalità organizzata. Quando la camorra si rende conto di aver accettato troppe puntate su Pantani vincente, è troppo tardi. Lui si dimostra il più forte. Si parla di decine di miliardi di lire, il banco rischia di saltare. C’è un solo modo per evitare il flop, trasformandolo in un affare d’oro: non far trionfare Pantani. Ma il Pirata straccia gli avversari e la sfortuna sembra aver cambiato direzione. Sembra. In realtà per gli inquirenti la camorra pianifica per tempo la cacciata di Pantani. E qui arriviamo a Vallanzasca: il bel Renè nel 1999 si trova nel carcere di Opera (Milano) per scontare uno dei 4 ergastoli rimediati per le scorribande negli Anni Settanta. È avvicinato da un altro detenuto che non conosce. Dice di essere un affiliato a un importante clan della camorra e gli suggerisce di puntare tutti i risparmi sui rivali di Pantani. Vallanzasca strabuzza gli occhi: "Sai chi sono?". Risposta disarmante: "Certo, non mi permetterei mai di darti una storta. Non so come, ma il pelatino non finisce la gara". Il Giro è iniziato da poco: nelle tappe successive Pantani domina. Vallanzasca è scettico, ma l’altro insiste: "Fidati". E il 5 giugno il detenuto dalla dritta giusta va all’incasso: "Hai sentito? Il pelatino è stato fatto fuori, squalificato". Vallanzasca ha raccontato questo episodio nella sua autobiografia, uscita a fine 1999. E nei mesi successivi è stato sentito da Giardina, p.m. di Trento, titolare di un fascicolo dopo Campiglio. Fascicolo che all’inizio vedeva Pantani parte lesa (gli avvocati ipotizzavano lo scambio di provette), ma poi fu lui a finire indagato per frode sportiva. L’accusa finirà nel nulla, come quelle delle altre sei Procure che lo misero nel mirino per lo stesso motivo, inseguendo un reato che non esisteva (fu introdotto nel 2000). Vallanzasca non rispose a Giardina: troppo paura, il clan era pronto a vendicarsi. Vallanzasca 2014 — Adesso le cose potrebbero cambiare: nei prossimi giorni il procuratore Sottani andrà a Milano per interrogare Vallanzasca una seconda volta, ma questa volta gli investigatori hanno già un’idea sull’identità di quel detenuto e quindi del clan a cui era affiliato. Le deduzioni sono state fatte ricorrendo ai registri penitenziari del tempo e grazie ad alcune acquisizioni di filmati tv recenti, dove Vallanzasca a telecamere spente racconta dei particolari inediti. Non solo, tra le persone sentite anche giornalisti, gente vicina a Pantani e soprattutto medici che hanno spiegato come era possibile e semplice alterare l’ematocrito di quel 5 giugno (trovato a 51,9). Il sangue sarebbe stato deplasmato e la firma di questa operazione si troverebbe nel valore delle piastrine, piombate a livelli di un malato. Piastrine che invece erano normali (come l’ematocrito: sempre a 48) la sera del 4 giugno, quando il ciclista si fece l’esame del sangue nella sua stanza d’albergo per verificare se era nella norma (50 il valore consentito dall’Uci), e il 5 pomeriggio, quando si fermò a Imola per fare un test prima di arrivare a casa e iniziare la sua lenta discesa verso Rimini. Questa ipotesi ipotizza un complice in grado di operare sulla provetta (che non era sigillata). Ecco perché saranno interrogati anche i dottori che hanno effettuato il prelievo al Giro e l’ispettore Coccioni. L’inchiesta è all’inizio. Il procuratore Sottani ha informato da settimane il collega Giovagnoli che indaga sulla morte di Pantani, segno che nulla si può escludere: neppure una correlazione diretta tra i due fatti. Campiglio e Rimini sono distanti 414 chilometri e meno di 5 anni. Da ieri viaggiano fianco a fianco nel nome di Marco.
Marco Pantani con ematocrito alto nel ’98. Ma fu cacciato il gregario Forconi, scrive Paolo Ziliani su Il Fatto Quotidiano del 23 ottobre 2014. L'anno prima della squalifica di Madonna di Campiglio, al posto del Pirata fu spedito a casa il collega grazie a un presunto scambio di provette. Panorama parlò della vicenda nel '99, ma non ci furono reazioni. Il complotto contro Pantani? Certo che c’è stato. Ma la mala, la camorra e il mondo delle scommesse c’entrano poco; per rispetto della memoria di Marco – e con buona pace di Vallanzasca –i complottisti dovrebbero essere cercati altrove: nei palazzi del Coni, della Federciclismo, degli organizzatori del Giro, dell’Università di Ferrara. Ricordate il professor Conconi? Era il rettore dell’Università di Ferrara cui il Coni aveva affidato, a inizi anni ’80, l’assistenza medica degli atleti di ciclismo, sci di fondo, canottaggio, nuoto e altre discipline. Ingaggiato per combattere il doping, fece invece – per la gioia del Coni – esattamente il contrario: studiò nuove forme di doping e le fece mettere in pratica portando lo sport italiano a trionfi impensabili. Riconosciuto colpevole dei reati contestatigli dal Tribunale di Ferrara (sentenza del 16 febbraio 2004), ma salvato dalla prescrizione, Conconi fu il primo a somministrare Epo a Pantani negli anni dal ’93 al ’95. Il collega del Pirata raccontò tutto al suo ex ds, che rilasciò un’intervista. Non ci furono smentite né querele. Nel file DLAB sequestrato nel suo computer a Ferrara si vede come nel ’94 l’ematocrito di Pantani passa da 40,7 (prima del Giro) a 54,5 (durante il Giro). Pantani esplode, vince il 4 giugno a Merano, il 5 sul Mortirolo e il 13 giugno, all’indomani della conclusione, il suo ematocrito è da ricovero: 58%. Poi Marco va al Tour e finisce terzo. Al ritorno dalla Francia Conconi lo “testa” e l’ematocrito è assestato a 57,4. Gli sbalzi di valori di Pantani, dovuti al pompaggio di Epo, sono drammatici: come il ricovero al Cto di Torino, dopo la caduta alla Milano-Torino del ‘95, evidenzia (valori oltre il 60%). È triste dirlo, ma Pantani passa tutta la carriera con l’Epo nel sangue: parlare di complotto per il fattaccio di Madonna di Campiglio, il 5 giugno 1999, è quindi una presa in giro. Anche perché Marco, l’anno prima, ha vinto il Giro in modo strano. Come ci raccontò Ivano Fanini in un’intervista uscita su Panorama nel 1999, “nessuno sa che anche l’anno prima, al Giro del ’98, Pantani avrebbe dovuto essere mandato a casa. Invece al posto suo fu cacciato Riccardo Forconi, un gregario. Che il giorno dopo, visto che era un mio ex corridore – era stato con me 6 anni all’Amore & Vita – venne a trovarmi in ufficio e mi raccontò tutto: “Hanno fatto uno scambio di provette e hanno mandato a casa me, che alla Mercatone sono l’unico ad avere i valori bassi”. Riccardo era un modesto gregario, uno da 20-30 milioni di lire l’anno. Beh, dopo quell’episodio, e quella squalifica, si è costruito una villa sulle colline di Empoli: e si è fatto una posizione”. Per la cronaca: Pantani vinse quel Giro con 1’33” di vantaggio su Tonkov, russo della Mapei. La mattina della cronometro finale, che Pantani corre come una moto (lui scalatore finirà terzo), dopo un controllo a sorpresa di tutta la Mercatone Uno, il gregario Forconi, centesimo in classifica, viene mandato a casa con l’ematocrito oltre i 50: il tutto l’ultimo giorno e prima di una crono in cui non avrebbe nemmeno dovuto aiutare il suo capitano. Strano, non vi pare? Ma non è finita. Dopo l’intervista a Fanini, il giudice Guariniello apre un’inchiesta per fare luce sulla vicenda. Chiede di recuperare la provetta incriminata (di Forconi? Di Pantani?), all’ospedale Sant’Anna di Como dov’è depositata, per stabilire di chi effettivamente sia il Dna. Sorpresa: la provetta non c’è più, è sparita. Guariniello deve archiviare. Dopo due mesi dalla morte di Pantani, la sua ex fidanzata al settimanale Hebdo: “Si dopava e sniffava cocaina”. Domanda: se voi vincete un Giro d’Italia e qualcuno vi accusa di averlo fatto con l’inganno, fate finta di niente? Ebbene: dopo l’intervista a Fanini (che fece i nomi dei testimoni del racconto di Forconi, come il ds Salvestrini) non arrivò né a lui né a chi scrive non si dice una querela per diffamazione, ma nemmeno una richiesta di rettifica, di precisazione. Meglio far finta di niente: così magari l’anno dopo il teatrino si ripete nell’indifferenza dei più. Deve averlo pensato, Pantani. Anche la mattina del controllo a sorpresa (sic) all’hotel Touring a Madonna di Campiglio. Christine Jonsson, 37 anni, danese, fu la dama bionda di Pantani negli anni belli e negli anni bui: “Marco si dopava e prendeva la coca – raccontò la fidanzata, che oggi vive in Svizzera, a Hebdo, settimanale svizzero, due mesi dopo la morte di Pantani – stando con lui ho sempre avuto l’impressione che prendesse dei farmaci. Era la sua scelta, pagava di tasca sua i prodotti: diceva che bisognava prendere delle porcherie per avere successo. Aveva sempre dei prodotti in un contenitore di plastica nel frigorifero. Talvolta si faceva delle punture e io lo aiutavo tenendogli il braccio”. Ancora: “Dopo la cacciata dal Giro cominciò a prendere la cocaina: mi chiese di farlo con lui. Ero disperata perché io ho paura delle droghe. Marco ne assumeva delle quantità industriali. La famiglia se ne accorse e pensò che la colpa fosse mia”.
Giallo, la morte di Pantani e i misteri della Rosa Rossa. Strano suicidio, quello di Marco Pantani. Così strano da spingere la magistratura a riaprire l’inchiesta a dieci anni di distanza da quel 14 febbraio 2004. Più che un suicidio, scrive l’avvocato Paolo Franceschetti, sembra un omicidio “firmato”, con implacabile precisione, dall’ “Ordine della Rossa Rossa”. Fantomatica organizzazione segreta internazionale, secondo alcuni studiosi sarebbe una potentissima cupola eversiva di tipo esoterico, con fini di potere, dedita anche all’oscura pratica dell’omicidio rituale. «Un’ipotesi sempre scartata come irrealistica dagli inquirenti», scrive nel suo blog lo stesso Franceschetti, autore di studi sulla presunta relazione tra crimini e occultismo iniziatico, incluso il caso del cosiddetto “mostro di Firenze”. Di matrice rosacrociana, fondata sul simbolismo della Cabala e dell’ebraico antico come la londinese “Golden Dawn” rinverdita dal “mago” Aleister Crowley, secondo alcuni saggisti la “Rosa Rossa” sarebbe una sorta di super-massoneria deviata e criminale. Problema: non esiste una sola prova che questa organizzazione esista davvero. Solo indizi, benché numerosi. Chi esegue una sentenza rituale di morte, per “punire” in modo altamente simbolico un presunto “colpevole” o addirittura perché pensa – magicamente – di “acquisire potere” dall’uccisione “satanica” di un innocente, secondo Franceschetti ricorre sistematicamente a pratiche sempre identiche: in particolare la morte per impiccagione (la corda di Giuda, traditore di Cristo), con la vittima fatta ritrovare inginocchiata, e la morte per avvelenamento (o overdose di droga). Decine di casi di cronaca, tutti contrassegnati da circostanze ricorrenti: manca sempre un movente plausibile, non si trova l’arma del delitto, i nomi delle vittime hanno spesso origine biblica, la somma dei “numeri” (data di morte, data di nascita) riconduce a numeri speciali, per la Cabala, come l’11 e i suoi multipli. Oppure il 13, il numero della morte dei tarocchi. E poi, la “firma”: Pantani fu ritrovato morto a Rimini all’hotel “Le Rose”. Accanto al corpo, un biglietto in codice dal significato criptico: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Sul caso Pantani, sono stati scritti fiumi di parole, reportage, libri. Tra chi non ha mai creduto alla tesi del suicidio c’è un giornalista come Andrea Scanzi, che sul “Fatto Quotidiano” scrive: «Troppe incongruenze. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?)». Inoltre, il campione aveva chiamato per ben due volte la reception, parlando di «due persone che lo molestavano», ma l’aneddoto è stato catalogato come “semplici allucinazioni di un uomo ormai pazzo”. In più, Pantani «fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta (segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio)». Uniche tracce di cocaina, quelle ritrovate su palline di mollica di pane. Indagini superficiali: «Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera, non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza». Dettaglio macabro e particolarmente strano, il destino del cuore di Pantani: «Venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno», scrive Scanzi. Prima di morire, a Rimini il ciclista aveva trascorso cinque giorni, «per nulla lucido, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano?». Altre domande: «Perché il cadavere aveva i suoi boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato?». Certo, aggiunge Scanzi, Pantani morì per overdose di cocaina, «ma troppi particolari lasciano pensare (anche) a una messa in scena». L’autopsia, peraltro, confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, «segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti». E poi, tutte quelle “incongruenze”, reperibili in libri-denuncia come “Vie et mort de Marco Pantani” (Grasset, 2007) e “Era mio figlio” (Mondadori, 2008). E poi, soprattutto: «Che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere?». Colori e rose, “la rosa rossa è la più contata”. Anche i suoi amici, ricorda Franceschetti, dissero che la morte di Pantani in quell’hotel non può esser stata casuale: forse Marco voleva «lasciare un messaggio a qualcuno», perché «era un uomo che non faceva nulla a caso». Meglio ancora: «Non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso», chiosa l’avvocato, sempre attento ai possibili “segni invisibili”: «Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata». Pantani “costretto” ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse “firmato”? «Ovviamente, dire che dietro un delitto c’è la “Rosa Rossa” significa poco: essendo la “Rosa Rossa” un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra». Un’affermazione «talmente generica da essere pressoché inutile a fini investigativi». Tuttavia, «dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio». Franceschetti considera «evidente» l’origine «massonica» degli attacchi a Pantani, citando l’anomalo incidente che, anni prima, lo vide protagonista a Torino: fu travolto da un’auto che era penetrata in un’area interdetta al traffico, lungo la discesa della collina di Superga, quella dove si schiantò l’aereo del Grande Torino. La basilica di Superga, sull’altura che domina la città, fu costruita nel 1717, «anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria». Basta questo, all’avvocato, per concludere che si tratta di «una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente». Tra gli “incidenti non casuali”, Franceschetti inserisce pure quello ai danni del cantante Rino Gaetano: come anticipato in modo inquietante dal testo di una sua canzone, “La ballata di Renzo”, peraltro gremita di “rose rosse”, l’artista morì a Roma nella notte del 2 giugno 1981 dopo esser stato rifiutato da 5 diversi ospedali. «Statisticamente, le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono… nulle». Molto strana, aggiunge Franceschetti, è anche la tragica fine del ciclista Valentino Fois, della stessa squadra di Pantani: anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano subito di overdose, «e già questo fa venire qualche sospetto». Premessa: in Italia, muoiono per omicidio circa 2.500 persone all’anno. E altrettante finiscono suicide. Giornali e Tv si disinteressano della stragrande maggioranza di questi episodi. «Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda: perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois?». Premesso che nello sport professionistico il doping (entro certi limiti) è pressoché inevitabile, Franceschetti sospetta che Fois sia morto «per aver “tradito”, come Pantani». Ovvero, i due avrebbero «pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano». Secondo Franceschetti, c’è anche «non il sospetto, ma la certezza» che la verità non verrà mai a galla. Del resto, «la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità, la maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio». E racconta: «Io stesso, dopo il primo incidente che mi capitò, pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole, potevo morire senza sapere neanche perché, e pochi avrebbero sospettato qualcosa». E aggiunge: «Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un’auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una Procura come è successo al capo dei vigili testimone della Thyssen Krupp». La storia italiana, aggiunge l’avvocato, è troppo gremita di “coincidenze”, depistaggi e collusioni: le bombe nelle piazze, Ustica, Moby Prince. «In quei casi i familiari delle vittime ormai hanno capito, ma negli altri?». La storia infinita del “mostro di Firenze”, ad esempio, sembra il frutto di un “normale” serial killer solitario. Secondo Franceschetti, invece, tutti quegli omicidi non sono altro che precise esecuzioni rituali, settarie ed esoteriche, meticolosamente pianificate da un clan criminale protetto da amicizie potenti. «Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo», scriveva Franceschetti nel 2008. «Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio». Continua Franceschetti: «Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte”, mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto: “Sì, Paolo, lo sapevo. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista di medico-legale”». L’esoterismo «è un linguaggio: se non lo conosci è come camminare per le strade di una nazione straniera, vedi le scritte ma non ti dicono nulla, sembrano segni innocui e invece sono messaggi precisi”». Difficile parlarne, «perché ti prendono per matto». E il guaio è che, «quando capisci il sistema», è problematico «continuare a fare la vita di sempre senza impazzire».
Strano suicidio, quello di Marco Pantani, scrive “Libreidee”. Così strano da spingere la magistratura a riaprire l’inchiesta a dieci anni di distanza da quel 14 febbraio 2004. Più che un suicidio, scrive l’avvocato Paolo Franceschetti, sembra un omicidio “firmato”, con implacabile precisione, dall’ “Ordine della Rossa Rossa”. Fantomatica organizzazione segreta internazionale, secondo alcuni studiosi sarebbe una potentissima cupola eversiva di tipo esoterico, con fini di potere, dedita anche all’oscura pratica dell’omicidio rituale. «Un’ipotesi sempre scartata come irrealistica dagli inquirenti», scrive nel suo blog lo stesso Franceschetti, autore di studi sulla presunta relazione tra crimini e occultismo iniziatico, incluso il caso del cosiddetto “mostro di Firenze”. Di matrice rosacrociana, fondata sul simbolismo della Cabala e dell’ebraico antico come la londinese “Golden Dawn” rinverdita dal “mago” Aleister Crowley, secondo alcuni saggisti la “Rosa Rossa” sarebbe una sorta di super-massoneria deviata e criminale. Problema: non esiste una sola prova che questa organizzazione esista davvero. Solo indizi, benché numerosi. Chi esegue una sentenza rituale di morte, per “punire” in modo altamente simbolico un presunto “colpevole” o addirittura perché pensa – magicamente – di “acquisire potere” dall’uccisione “satanica” di un innocente, secondo Franceschetti ricorre sistematicamente a pratiche sempre identiche: in particolare la morte per impiccagione (la corda di Giuda, traditore di Cristo), con la vittima fatta ritrovare inginocchiata, e la morte per avvelenamento (o overdose di droga). Decine di casi di cronaca, tutti contrassegnati da circostanze ricorrenti: manca sempre un movente plausibile, non si trova l’arma del delitto, i nomi delle vittime hanno spesso origine biblica, la somma dei “numeri” (data di morte, data di nascita) riconduce a numeri speciali, per la Cabala, come l’11 e i suoi multipli. Oppure il 13, il numero della morte dei tarocchi. E poi, la “firma”: Pantani fu ritrovato morto a Rimini all’hotel “Le Rose”. Accanto al corpo, un biglietto in codice dal significato criptico: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”.
Sul caso Pantani, sono stati scritti fiumi di parole, reportage, libri. Tra chi non ha mai creduto alla tesi del suicidio c’è un giornalista come Andrea Scanzi, che sul “Fatto Quotidiano” scrive: «Troppe incongruenze. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?)». Inoltre, il campione aveva chiamato per ben due volte la reception, parlando di «due persone che lo molestavano», ma l’aneddoto è stato catalogato come “semplici allucinazioni di un uomo ormai pazzo”. In più, Pantani «fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta (segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio)». Uniche tracce di cocaina, quelle ritrovate su palline di mollica di pane. Indagini superficiali: «Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera, non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza». Dettaglio macabro e particolarmente strano, il destino del cuore di Pantani: «Venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno», scrive Scanzi. Prima di morire, a Rimini il ciclista aveva trascorso cinque giorni, «per nulla lucido, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano?». Altre domande: «Perché il cadavere aveva i suoi boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato?». Certo, aggiunge Scanzi, Pantani morì per overdose di cocaina, «ma troppi particolari lasciano pensare (anche) a una messa in scena». L’autopsia, peraltro, confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, «segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti». E poi, tutte quelle “incongruenze”, reperibili in libri-denuncia come “Vie et mort de Marco Pantani” (Grasset, 2007) e “Era mio figlio” (Mondadori, 2008). E poi, soprattutto: «Che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere?». Colori e rose, “la rosa rossa è la più contata”. Anche i suoi amici, ricorda Franceschetti, dissero che la morte di Pantani in quell’hotel non poteva esser stata casuale: forse Marco voleva «lasciare un messaggio a qualcuno», perché «era un uomo che non faceva nulla a caso». Meglio ancora: «Non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso», chiosa l’avvocato, sempre attento ai possibili “segni invisibili”: «Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata». Pantani “costretto” ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse “firmato”? «Ovviamente, dire che dietro un delitto c’è la “Rosa Rossa” significa poco: essendo la “Rosa Rossa” un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra». Un’affermazione «talmente generica da essere pressoché inutile a fini investigativi». Tuttavia, «dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio». Franceschetti considera «evidente» l’origine «massonica» degli attacchi a Pantani, citando l’anomalo incidente che, anni prima, lo vide protagonista a Torino: fu travolto da un’auto che era penetrata in un’area interdetta al traffico, lungo la discesa della collina di Superga, quella dove si schiantò l’aereo del Grande Torino. La basilica di Superga, sull’altura che domina la città, fu costruita nel 1717, «anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria». Basta questo, all’avvocato, per concludere che si tratta di «una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente». Tra gli “incidenti non casuali”, Franceschetti inserisce pure quello ai danni del cantante Rino Gaetano: come anticipato in modo inquietante dal testo di una sua canzone, “La ballata di Renzo”, peraltro gremita di “rose rosse”, l’artista morì a Roma nella notte del 2 giugno 1981 dopo esser stato rifiutato da 5 diversi ospedali. «Statisticamente, le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono… nulle». Molto strana, aggiunge Franceschetti, è anche la tragica fine del ciclista Valentino Fois, della stessa squadra di Pantani: anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano subito di overdose, «e già questo fa venire qualche sospetto». Premessa: in Italia, muoiono per omicidio circa 2.500 persone all’anno. E altrettante finiscono suicide. Giornali e Tv si disinteressano della stragrande maggioranza di questi episodi. «Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda: perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois?». Premesso che nello sport professionistico il doping (entro certi limiti) è pressoché inevitabile, Franceschetti sospetta che Fois sia morto «per aver “tradito”, come Pantani». Ovvero, i due avrebbero «pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano». Secondo Franceschetti, c’è anche «non il sospetto, ma la certezza» che la verità non verrà mai a galla. Del resto, «la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità, la maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio». E racconta: «Io stesso, dopo il primo incidente che mi capitò, pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole, potevo morire senza sapere neanche perché, e pochi avrebbero sospettato qualcosa». E aggiunge: «Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un’auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una Procura come è successo al capo dei vigili testimone della Thyssen Krupp». La storia italiana, aggiunge l’avvocato, è troppo gremita di “coincidenze”, depistaggi e collusioni: le bombe nelle piazze, Ustica, Moby Prince. «In quei casi i familiari delle vittime ormai hanno capito, ma negli altri?».
La storia infinita del “mostro di Firenze”, ad esempio, sembra il frutto di un “normale” serial killer solitario. Secondo Franceschetti, invece, tutti quegli omicidi non sono altro che precise esecuzioni rituali, settarie ed esoteriche, meticolosamente pianificate da un clan criminale protetto da amicizie potenti. «Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo», scriveva Franceschetti nel 2008. «Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio». Continua Franceschetti: «Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte”, mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto: “Sì, Paolo, lo sapevo. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista medico-legale”». L’esoterismo «è un linguaggio: se non lo conosci è come camminare per le strade di una nazione straniera, vedi le scritte ma non ti dicono nulla, sembrano segni innocui e invece sono messaggi precisi». Difficile parlarne, «perché ti prendono per matto». E il guaio è che, «quando capisci il sistema», è problematico «continuare a fare la vita di sempre senza impazzire».
Marco Pantani per Paolo Franceschetti fu ucciso da un complotto, scrive Sonia Paolin su “Delitti”. E’ la tesi di Paolo Franceschetti, esperto di massoneria ed esoterismo Marco Pantani aveva dato fastidio a molti poteri forti che si sono uniti per eliminarlo. La morte di Marco Pantani? Frutto di un complotto che pare da lontano e che mescola misteri ed esoterismo, medicina, poteri forti e massoneria. A sostenerlo è Paolo Franceschetti, noto esperto della materia che insieme a Fabio Frabetti e Stefania Nicoletti da qualche tempo ha anche aperto un blog specifico, "Indagine sulla morte di Marco Pantani". Diverse le colpe di cui si sarebbe macchiato il campione, tutte punite con la sua morte: parlava senza peli sulla lingua senza aver timore di nessuno, infangando il sistema del doping, delle case farmaceutiche e delle sponsorizzazioni; vinceva troppo, non voleva piegarsi alle regole del gioco, e non permetteva a nessuno di dirgli quando e come vincere; destabilizzava anche gli equilibri geopolitici internazionali. Ora, intervistato sul blog di Vice, la trasmissione di approfondimento e inchiesta di Sky Tg24, Franceschetti ha chiarito i suoi sospetti: “La stranezza di questo caso è sempre stata considerare la morte di Marco come un suicidio e non un omicidio. La morte di Marco è un stato un omicidio eccellente, con coperture e depistaggi eccellenti. È sempre stato chiaro, a chiunque, non solo a me. Credo proprio che in questo momento qualcuno stia tremando. Magari stanno pensando a un cambio di potere, ai vertici, qualcosa così. I gruppi di potere a cui dava fastidio Pantani. Basta vedere la sua storia per vederlo. Nella sua vita si è messo contro un sacco di gente. con battaglie, anche in tribunale. Pantani era scomodo, sosteneva verità che normalmente nel mondo dello sport non vengono portate avanti”. E cita fatti già noti, peraltro già accantonati da molti: “Il declino di Pantani iniziò quando rifiutò la sponsorizzazione della Fiat (divenne testimonial di Citroen, ndr). Quella decisione gli è costata cara. C’è la droga poi, il doping, ma anche altro. Tanto per dirtene una c’è anche la pista americana. Marco vinceva tutto, forse troppo. Gli americani tengono parecchio alla loro immagine nel mondo e in quel momento avrebbero voluto che Armstrong diventasse il loro nuovo numero uno. Pantani si era messo in mezzo”. E qui si arriva ai mandanti: “C’è la firma dell’organizzazione che ha commissionato il fatto, che è l’ordine della Rosa Rossa. E’ uno degli ordini più potenti nel mondo, e i suoi componenti di grado più elevato sono ai vertici di banche, multinazionali, istituzioni di alto livello. Non sono teppisti da quattro soldi. Sono ovunque. Pantani muore all’hotel Le Rose, di fianco al cadavere, sul comodino, la polizia trova un bigliettino su cui c’è scritta una sorta di poesia, di filastrocca. “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata.” Poi c’è la data del delitto. Marco muore il giorno di San Valentino. San Valentino è il santo dell’amore e quindi delle rose, e se fai la somma dei numeri che compongono la data, uno per uno, il numero finale è 13. Se guardi i tarocchi il tredici corrisponde alla morte, e i tarocchi sono ovviamente un’espressione dell’esoterismo”.
L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti, scrive Paolo Franceschetti. Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati. Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso. Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo. Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze). Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale. I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente. Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore. L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande. Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)? Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti). Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro? Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso. Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo? La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore. Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti. Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre. Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente. Senz’altro queste due motivazioni ci sono. Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente. La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo). Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta. E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso. Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa. Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato. E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso. Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo. Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime. La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani. Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina. Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave. Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca. Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani). Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico). Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina. Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”). Il mio articolo termina qui. Non voglio approfondire per vari motivi. In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho. Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire. E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto. La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi. Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce. Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra. Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce. Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa. Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo. E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti. (Io speriamo che non mi suicido).
L’omicidio massonico - Il caso Pantani e il caso Fois, scrive ancora Paolo Franceschetti.
Premessa. In questo articolo approfondiamo alcuni degli argomenti trattati nel precedente articolo sull’omicidio massonico e chiariamo alcuni dubbi che l’articolo aveva suscitato specialmente in merito al caso Pantani. In primo luogo l’articolo precedente terminava con una domanda. Mi chiedevo cioè il motivo dell’immenso numero di persone “suicidate” (come si dice in gergo) mediante impiccagione, e facendo toccare alla maggioranza di essere le ginocchia per terra. Voglio poi rispondere alle molte domande che mi vengono spesso rivolte: come si distingue l’omicidio massonico? E perché dico che Pantani fu quasi sicuramente ucciso?
Impiccagioni e avvelenamenti, overdose. In primo luogo un lettore mi ha inviato la sua spiegazione. il "suicidio in ginocchio" rappresenta "l'omicidio consacrato" cioè la morte per "volere divino"... cosi come si viene investiti degli onori alla vita, cosi si viene investiti degli onori alla morte. Mi è pervenuto inoltre uno scritto, tratto dal libro di un esoterista che ha, appunto, trattato questo argomento che riportiamo. Il libro è di Lino Lista e si intitola: “Raimondo di Sangro. Il principe dei veli di pietra”. In forma romanzata vengono rivelati alcuni aspetti del ritualismo massonico che hanno quindi dato una risposta alla mia domanda sul motivo dei tanti impiccati. La corda e l’impiccagione sono i simboli di Giuda e del tradimento di Cristo. Ma il lavoro di Lino Lista svela anche un altro mistero. Un’altra modalità frequente di uccisione, tanto frequente da gettare più di un sospetto, ad esempio, è quella dell’avvelenamento da overdose, in cui sono incappati, per fare qualche nome, il ciclista Pantani, poi di recente un altro componente della sua squadra, il ciclista Valentino Fois, e a Viterbo il medico Manca, ovvero il medico che pare abbia curato il boss mafioso Bernardo Provenzano. Muoiono poi avvelenati anche molti testimoni di processi importanti. Morì avvelenato in carcere Sindona. E poi molti “malori” improvvisi, talvolta nell’anticamera di un giudice, in un tribunale, o nella buovette di Montecitorio come capitò al generale Giorgio Manes. Voglio citare integralmente il passo del libro di Lino Lista: La corda...(omissis)...è il segno dominante, che mai deve mancare, di una vendetta massonica. Con riferimento alla leggenda di Hiram, volendo spandere un maggior numero d’indizi, convenientemente si potrebbero lasciare accanto al cadavere del giustiziato, seppur di veleno: dell’acqua, in ricordo della fontana alla quale il Vendicatore smorzò la sete; un osso spezzato di cane, in onore dell’Incognito che si mutò in tal bestia; un abito nero, in memoria del lutto per Padre Hiram. Volendo eccedere, ma mai una società segreta dovrebbe eccedere perchè troppi indizi talvolta sono considerati alla stregua di una prova, si potrebbe collocare sulla salma del traditore un mattone, simbolo muratorio. Queste morti da overdose, quindi, non sono un caso. Anche l’avvelenamento è una modalità “massonica” perché simboleggia la morte per mano del serpente, simbolo dell’infedeltà e dell’inganno. Ecco quindi perché Pantani morirà dopo aver ingerito diverse dosi di coca. Perché sostengo che sia un omicidio? Perché ogni qualvolta l’incidente, o il malore, o il suicidio, sono provocati, e sono quindi un omicidio, immancabilmente partono, a seguito del fatto, i depistaggi e gli occultamenti che solo un potere come quello massonico è in grado di fornire: sparizione dei fascicoli dai tribunali, morte dei testimoni, la pervicace volontà degli inquirenti nell’ignorare determinate prove (per collusione, paura, o per la mancata conoscenza del problema), le irregolarità procedurali, ecc…
Il caso Pantani. Esaminiamo il caso Pantani, così come ce lo descrive un giornalista, Philippe Brunel, in un recente libro “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” su cui ci basiamo per la nostra ricostruzione. E’ noto che Pantani morirà all’hotel Le rose di Rimini per una presunta overdose da cocaina. Anche qui troviamo tutti gli elementi di un omicidio massonico, ovverosia le firme, nonchè tutte le modalità procedurali investigative che gli inquirenti seguono quando il delitto è massonico.
Ad esempio troveremo:
- testimoni che cambieranno versione;
- gli inquirenti che ignorano particolari fondamentali nell’indagine: ad esempio nel cestino dei rifiuti della stanza dell’hotel verranno rivenuti resti di una cena presa da un ristorante cinese. Ma Pantani non mangiava cibo cinese. Allora chi c’era con lui quell’ultima notte?
- Sul corpo compaiono segni di colluttazione ma nessuno accerterà mai se, ad esempio, sotto le unghie compaiano o meno dei resti di DNA altrui per verificare se Pantani fu forzato a ingerire cocaina (v. pag. 278).
- Errori e omissioni varie nelle autopsie.
- Una volante della polizia, con due agenti, interverrà sul luogo dell’incidente, ma non redigerà mai il verbale relativo. Perché questa irregolarità nelle procedure?
- Le varie perizie medico legali fanno una gran confusione sull’ora della morte che collocano tra le 11,30 (la perizia del dottor Fortuni) e le 19 (il medico Toni).
Dire esattamente quanti siano i massoni a Bologna è difficile, per quanto si parli di circa 450 affiliati. Vicino alla massoneria viene indicato il medico legale Giuseppe Fortuni, che si occupò di alcune perizie sulla morte del ciclista Marco Pantani, stroncato da un’overdose di cocaina il 14 febbraio 2001 in un residence di Rimini, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. E lo stesso accade per l’imprenditore Vittorio Casale, uomo di Massimo D’Alema e che, tra le molte opere di cui si è occupato, ha partecipato a progetti di ristrutturazione del patrimonio di Propaganda Fides e di enti religiosi.
- Il medico legale che dopo l’autopsia si accorge di essere seguito.
- La camera fu trovata in disordine come se ci fosse stato un corpo a corpo.
Poi ci sono le domande irrisolte.
- Perché Pantani, volendosi suicidare, prende una stanza in un albergo a pochi chilometri dalla casa dove abitava?
- Perché prima di suicidarsi ci resta qualche giorno? Cosa lo fa rimanere in una stanza di albergo quando aveva la sua abitazione lì vicino?
- Uno degli inquirenti dichiara al giornalista di avere avuto pressioni dal Ministero dall’interno per concludere in fretta l’indagine. Ma il ministero non dovrebbe avere fretta di concludere; casomai dovrebbe avere la volontà di accertare la verità senza lasciare dubbi. Curioso poi che il Ministero si disinteressi del fatto che dopo decenni non sia mai venuta fuori la verità per stragi come Ustica, o per il sequestro Moro, e improvvisamente abbia fretta di concludere per un personaggio come Pantani. Difficile pensare che sotto ci sia una voglia di arrivare velocemente alla verità, dato che l’occultamento della verità è sistematico nella storia giudiziaria italiana. Mai abbiamo sentito un politico affermare che nel programma elettorale c’era la volontà di scoprire la verità sulle tante stragi impunite per dare giustizia alle migliaia di morti e alle decine di migliaia di famiglie delle vittime delle stragi. Mai. Anzi, in compenso alcuni degli autori di crimini assurdi, come l’ex terrorista D’Elia, hanno addirittura avuto incarichi istituzionali (sottosegretario alla camera nel governo Prodi). Personaggi che hanno avuto pesanti responsabilità in vicende come il sequestro Moro verranno addirittura fatti presidenti della Repubblica (Cossiga). Nessuna fretta di scoprire chi ha abbattuto l’aereo di Ustica, nessuna fretta di arrivare alla verità sul Moby Prince, nessuna fretta di scoprire chi c’è dietro ai delitti del Mostro di Firenze, dietro ai Georgofili, dietro a Piazza Fontana, dietro alla strage di Bologna. Ma una gran fretta di chiudere il caso Pantani. Curioso no? Tutte queste contraddizioni, depistaggi, ecc., sono sempre l’indizio sicuro della presenza della massoneria. In alternativa può ipotizzarsi che si tratti di incuria o superficialità nell’indagine. Ma si tratta di incuria e superficialità troppo ricorrenti per essere casuali. Poi ci sono le firme. Quelle firme che chi non si è mai occupato di massoneria non riesce a vedere. Ma immediatamente visibili per chi vive in mezzo a queste vicende. Anzitutto Pantani muore all’hotel Le Rose, il cui nome potrebbe non essere casuale ma essere la firma della Rosa Rossa. D’altronde anche i suoi amici diranno che la morte di Pantani in quell’hotel non deve essere un caso, ma forse voleva lasciare un messaggio a qualcuno perché lui era un uomo che non faceva nulla a caso (pag. 52). Forse, aggiungo io, non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso. E poi viene trovato accanto al corpo un biglietto con una frase apparentemente senza senso: Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata. Non sono in grado di capire il senso di questo biglietto; ci vorrebbe un esperto e pochi in Italia sono in grado di capire questi messaggi. Ma indubbiamente sembra un messaggio in codice. Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata. Qualcuno ipotizza che abbia un senso anche la data della sua morte: 14/02/2004, data la cui somma fa 13, che nelle carte dei tarocchi non a caso è la carta della morte. Nonostante non sia in grado di decodificare tutti i particolari è evidente però che Pantani fu in qualche modo costretto ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse firmato. Ovviamente dire che dietro un delitto c’è la Rosa Rossa significa poco. Essendo la Rosa Rossa un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra. Cioè significa affermare una cosa talmente generica da essere pressocchè inutile a fini investigativi, e tuttavia dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio. D’altronde che gli attacchi a Pantani provenissero da ambienti massonici risulta evidente dal fatto che qualche anno prima ebbe un incidente anomalo nella discesa di Superga. Un auto entrò nella zona vietata al traffico e investì Pantani e altre due persone. Un incidente casuale? Difficile, da pensarsi, perché sulla collina di Superga sorge quella cattedrale omonima, che venne costruita nel 1717, anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria. Una basilica e una collina, insomma, che hanno un particolare significato per la massoneria. Per chi sa anche solo poche cose sulla massoneria si tratta di una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente (inspiegabile ad esempio è come avesse fatto la macchina a inserirsi nella zona vietata, tanto che Pantani fece causa alla città di Torino per questo fatto).
La parola ai testimoni. Per chi conosce le vicende delle stragi italiane gli incidenti stradali per rottura dei freni o dello sterzo, non sono una novità, I testimoni di queste stragi, i personaggi scomodi, muoiono sempre così: non solo impiccati e avvelenati, ma anche in incidenti banali in cui l’auto (o la moto) escono di strada all’improvviso per un malfunzionamento. Qualcuno ogni tanto si salva. Ricordo a memoria – tra gli scampati - il carabiniere Placanica (implicato nei fatti del G8), il giudice Forleo (ma non così fu per i genitori, che morirono in un incidente analogo senza ovviamente che gli inquirenti volessero indagare). Persino il famoso Enrico Berlinguer disse di aver avuto un incidente da cui si era salvato per miracolo, durante un suo viaggio in Bulgaria nel 1973, in cui morirono però altre due persone; disse che l’incidente era voluto, ma nessuno gli credette. Di recente Fabio Piselli, scampato al rogo della sua auto, più volte nominato nei miei articoli. Ma in tanti hanno avuto “incidenti anomali” e non si sono salvati. Ne abbiamo parlato in precedenti articoli e non voglio ripetermi. Voglio invece ricordare alcuni morti del mondo dello sport e dello spettacolo. Ayrton Senna, cui fu montato male lo sterzo della sua formula 1. Per non parlare del Torino Calcio; l’aereo ebbe un guasto imprecisato e si schiantò contro – guarda tu che caso - la collina di Superga. Il cantante Rino Gaetano che ebbe due incidenti identici, con la stessa auto; nel primo incidente si salvò; nel secondo morì, anche perché 5 ospedali si rifiutarono (misteriosamente) di prenderlo in cura. Il cantante morì il 2 giugno 1981 nello stesso identico modo in cui muore il protagonista di una sua canzone, La ballata di Renzo. Statisticamente le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono…. nulle. E statisticamente, le probabilità che qualcuno svolga veramente delle indagini sono le stesse di questi incidenti: nulle.
Mass Media e delitti. Molta strana è anche la morte del ciclista Valentino Fois, della squadra di Pantani. Anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano di overdose. E già questo fa venire qualche sospetto, in quanto probabilmente muore nello stesso modo del suo ex amico. Occorre a questo punto fare una considerazione di ordine generale sui mass media in Italia. In Italia muoiono per omicidio circa 2500 persone all'anno. E altrettante ne muoiono suicide. Giornali e Tv si disinteressano di questi fatti, selezionando accuratamente solo le notizie che piacciono e sono funzionali al sistema. Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda. Perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois? E perché poi, nei pochi secondi che i TG dedicano alla notizia, occorre precisare che era implicato in un furto di portatili? Quand’anche si voglia dar risalto alla morte di un uomo, non c’è alcuna necessità di informare il pubblico che costui – forse – aveva rubato dei PC. In primo luogo perché la notizia è generica e posta in forma dubitativa. In secondo luogo perché non si capisce quale collegamento possa sussistere tra un furto di PC e una morte per overdose. Il sospetto che sia un omicidio, e che la televisione abbia volutamente voluto riportare l’immagine di una persona drogata e dedita al furto, è molto forte. Il messaggio che si vuole trasmettere è questo: è morto un ladro e per giunta drogato e depresso. Ma chi invece ha capito come funziona l’informazione in Italia capisce chiaramente un altro messaggio: probabilmente si tratta di un omicidio e c’è sotto qualcosa. E allora il pensiero corre al fatto che qualche prima avesse rilasciato un intervista alle jene. Aggiungiamo poi una cosa. Chi frequenta a livello professionistico il mondo dello sport sa che il doping è un fenomeno assolutamente diffuso, nel senso che probabilmente non è possibile partecipare a qualsiasi tipo di sport senza doparsi. Nella mia esperienza del passato, per anni ho praticato Body Building e ho seguito corsi per diventare istruttore di questa disciplina. E il doping era una materia di studio assolutamente ufficiale, nel senso che nella preparazione atletica di uno sportivo professionista non si poteva prescindere dal doping. Il problema era solo come eludere i controlli, stare attenti ai tempi di eliminazione della sostanza ecc... C’è quindi il forte sospetto che Fois sia morto in questo modo per aver “tradito”, come Pantani, e che i due abbiano pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano.
Considerazioni finali. C’è anche (non il sospetto
ma) la certezza, che la verità non verrà mai a galla. Anzi, a dire queste cose,
purtroppo, si rischia di passare per matti o visionari. La cosa che mi dà
tristezza, in tutta questa vicenda, non è la gravità delle collusioni
istituzionali a tutti i livelli, né la scarsa preparazione di molti inquirenti
in materia che si traduce in una mancata tutela del cittadino. Questo ho
imparato ad accettarlo, perché viviamo in una democrazia troppo giovane perché
sia veramente una democrazia. Le mentalità e i costumi di secoli non possono
cambiare in pochi anni. L’oligarchia mascherata in cui viviamo, in fondo, un
giorno dovrà finire per dare spazio ad una nuova era. Ciò che mi dà tristezza è
pensare che la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la
verità. La maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio. Io
stesso dopo il primo incidente che mi capitò pensai ad un caso. E dopo il
secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso
contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare
danni a lei. In altre parole; potevo morire senza sapere neanche perché e pochi
avrebbero sospettato qualcosa. Solo dopo qualche tempo mi spiegarono chi ce
l’aveva come me e perché. Ora, perlomeno, so che mi potrebbe succedere qualcosa
e so anche il perché. Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo
sterzo potrà non funzionare, che un auto che viene in senso inverso
all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un
malore nell’anticamera di una procura come è successo al capo dei vigili
testimone della Tyssen Krupp. Ma all’epoca dei primi incidenti, non avevo
neanche il sospetto di essere stato “condannato a morte”. Perché non ero
consapevole di quale colpa avessi commesso e di quale peccato mi fossi
macchiato.
Mi domando se Senna sapeva il destino che lo aspettava, se i familiari avranno
capito. I familiari del Torino Calcio cosa penseranno di quell’incidente
terribile? E i genitori di Fois? E la Forleo, cui scrissi “una lettera aperta”
dalle pagine di questo blog… avrà capito esattamente cosa le è successo oppure
penserà che il suo incidente d’auto sia stato casuale? I familiari delle vittime
di via dei Goergofili, di Ustica, del Moby Prince, hanno capito. Lì sono troppo
grosse le collusioni, troppo evidenti gli omicidi e i depistaggi perché qualcuno
non capisca. Ma gli altri? I familiari dei testimoni di processi apparentemente
normali, come quelli della Tyssen Krupp, o del Mostro di Firenze, che
apparentemente sembra un normale caso di un serial Killer? E i familiari di
tutte quelle persone che parevano condurre una vita normale, perché il delitto è
maturato in un luogo ove nessuno sospetterebbe l’ingerenza così pesante dei
cosiddetti poteri occulti, come il mondo sportivo? Ho telefonato ai genitori di
Pantani prima di scrivere questo articolo. Dal loro silenzio successivo al mio
fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca
di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte
delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio. Allora
voglio ricordare le parole dell’onorevole Falco Accame, a proposito degli
incidenti anomali (come quello capitato ai genitori del giudice Forleo) o dei
suicidi dei vari testimoni di processi importanti. Parlavamo dell’incidente
capitato al giudice Forleo, e mi disse “inizialmente, quando mi occupai di
queste cose, credevo al caso. Non volevo credere che fosse una cosa voluta
perché mi pareva fantascienza. Poi, quando mi accorsi che i testimoni morivano
tutti, sistematicamente, ho capito… E’ una cosa che è difficile da accettare.”
Questo articolo, come il precedente, è scritto per tutti i familiari di persone
suicidate, impiccate, morte in incidenti inspiegabili che hanno sempre capito
che la versione ufficiale data dagli inquirenti non quadrava, affinchè perlomeno
loro sappiano la verità. Oramai sono troppe le vittime sparse per la penisola,
perché non si cominci a sospettare. E sono troppi i sopravvissuti perché
qualcosa prima o poi non venga fuori. Oramai parlo con tante persone esperte e
mi confronto. Molti, tanti, hanno capito. Un mio amico medico legale, a cui ho
raccontato le mie “scoperte” mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto “si
Paolo, lo sapevo. Lo sapevo perché da medico legale mi rendo conto quando ci
prendono in giro in TV e sui giornali. Tutti quei suicidi in carcere per
soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista di medico
legale. Analizzando alcuni dei più importanti casi dal punto di vista medico
legale mi sono accorto che ci prendono in giro. E poi sono un appassionato di
esoterismo, e quindi i loro simboli e messaggi io li vedo. Vedi? L’esoterismo è
un linguaggio. Se non lo conosci è come camminare per strade di una nazione
straniera; vedi la gente, vedi le scritte, ma non ti dicono nulla; in certi casi
potrebbero sembrarti innocui disegnini. Ma se invece lo conosci allora riesci a
leggere oltre la superficie e capire i messaggi profondi che vengono lanciati e
gli innocui disegnino diventano frasi precise. Capisci tutto, ma con la maggior
parte delle persone non puoi parlare perché ti prendono per matto. E il problema
principale, quando capisci il sistema, è continuare a fare la vita di sempre
senza impazzire”. Questo, signori, è il sistema in cui viviamo ma con un po’ di
studio e di intuito si può imparare a capirlo. Il paradosso è che non sono mai
stato un appassionato né di gialli, né di spionaggio, né di esoterismo; ma credo
che neanche la più fervida fantasia di qualsiasi scrittore abbia mai immaginato
un sistema del genere. La realtà, per chi la vuole vedere, supera sempre di gran
lunga la fantasia. Anche quella di Stephen king, che forse non a caso ha scritto
una serie di telefilm che si intitola The Red Rose, e che forse per i suoi libri
non si è ispirato alla sua sola fantasia (ad es. nei “Lupi del Calla”, occorre
proteggere una sola rosa rossa che sta in una Torre nera; e se la Rosa venisse
distrutta per qualche motivo la Torre cadrebbe insieme alla Rosa). Ps finale.
Quando facevo il quarto ginnasio rubai tre biscotti (erano dei Ringo per la
precisione) al mio miglior amico, Daniele. Voglio precisare, in caso di suicidio
da parte mia, che i due fatti non sono collegati, al fine di evitare che i media
mi facciano lo scherzo di Fois e che riportino la notizia facendomi passare per
un ladro di biscotti. Peraltro confessai il mio crimine a Daniele, il quale dopo
25 anni non manca mai di ricordarmelo.
Pantani, un altro giallo. Un fax cambia l’ora della morte. Il medico legale refertò il decesso alle 11-12.30 Ma lo stesso perito indicò al pm anche le 17, scrive Marco Bonarrigo su “Il Corriere della Sera”. Un fax dimenticato tra carte investigative vecchie di dieci anni colora ancora più di giallo la morte di Marco Pantani, sulla quale la Procura di Rimini, lo scorso agosto, ha riaperto un’indagine con l’ipotesi di omicidio. È un fax partito alle 20.50 del 16 febbraio 2004, 48 ore dopo la scoperta del cadavere del corridore. Mittente il medico legale Giuseppe Fortuni, destinatario il magistrato di Rimini Paolo Gengarelli, che aveva incaricato Fortuni dell’autopsia. Il medico, con la dicitura «riservato e urgente», scrisse: «Al termine dell’esame autoptico sulla salma, la informo che il decesso può datare attorno alle ore 17 del 14 febbraio 2004... Allo stato attuale delle indagini medico-legali, la causa può essere indicata in un collasso cardiocircolatorio terminale». Ma nelle 240 pagine del rapporto definitivo, depositato un mese dopo, la collocazione del decesso cambiò radicalmente: secondo Fortuni, Pantani muore tra le 11.30 e le 12.30, come dimostrato dai dati raccolti da chi per primo ispezionò il cadavere al Residence Le Rose di Rimini (il dottor Francesco Toni) e dalle evidenze dell’autopsia. Orario confermato dalla recente perizia del professor Francesco Maria Avato, consulente della famiglia Pantani, che si limita a posticipare la morte di 15 minuti. Giuseppe Fortuni è un’autorità del settore: sul suo tavolo autoptico sono passati i corpi di Ayrton Senna e Meredith Kercher. Per quale motivo formalizzare un orario di morte incompatibile con le evidenze scientifiche? Ma su quell’orario c’è un altro aspetto inquietante. Quando la polizia scopre il cadavere, al polso di Pantani, ben visibile nel filmato della scientifica che il Corriere della Sera ha visionato per intero, c’è il Rolex Daytona cui Marco era legatissimo. L’orologio è fermo. Segna cinque meno cinque. Un dettaglio che (come le impronte digitali o la cocaina presente su un bicchiere e su una bottiglia a fianco del corpo) viene trascurato. Il Daytona fu restituito alla famiglia che l’ha conservato come un cimelio. Secondo i tecnici (ma adesso il cronografo, mai più utilizzato, è stato avviato a una perizia accurata) un modello così sofisticato, a carica automatica, si ferma solo quando resta immobile per almeno cinquanta ore o subisce un forte colpo. Il colpo l’orologio di Pantani l’ha subito alle 5 meno 5 del 14 febbraio. Alle cinque del mattino Pantani era certamente vivo. Alle 17 era morto da cinque ore secondo la perizia medica legale ufficiale oppure stava morendo secondo il primo rapporto inviato da Fortuni. E qui il giallo vira verso il nero, perché se Pantani è morto attorno alle 12 (come confermano dati oggettivi e incontestabili) bisogna spiegare perché l’orologio si ferma alle 17, la medesima ora indicata nel primo rapporto di Fortuni. Davanti al procuratore capo di Rimini, Paolo Giovagnoli, in questi giorni sfilano vecchi e nuovi testimoni dell’inchiesta. Tra loro almeno due, indicati da Antonio De Rensis, il legale dei Pantani, in grado di smontare uno degli assunti incrollabili degli investigatori: quello che nella stanza B5 del Residence Le Rose di Rimini non sia entrato nessuno da tre giorni prima della morte del Pirata al momento della scoperta del cadavere. In quella stanza entrò sicuramente qualcuno prima della morte e, probabilmente, anche qualcuno dopo. Qualcuno la cui azione potrebbe aver causato il blocco dell’orologio e provocato l’ormai palese messa in scena di una camera «messa a completamente soqquadro in un delirio da cocaina» dove però non venne trovato un solo oggetto danneggiato, compresi specchi e ceramiche, delicatamente appoggiati sul pavimento. Caos organizzato in una morte che di organizzato ormai comincia ad avere un po’ troppo.
Pantani: un video conferma l'inquinamento delle prove, scrive Mirko Nicolino su “Outdoorblog”. Su Marco Pantani, la verità sembra ancora molto lontana. La famiglia dell’ex ciclista non si è mai rassegnata, convinta com’è che loro figlio non si sia suicidato, bensì sia stato ucciso da qualcuno, che poi ha architettato una scena di follia all’interno della camera d’albergo presso la quale il ‘Pirata’ è stato trovato senza vita. Dopo il giallo sull’orario del decesso, con il fax del perito che indica un’ora diversa rispetto a quella assodata inizialmente, ora spunta anche un video inedito che confermerebbe la tesi della famiglia Pantani e del suo legale, secondo cui la scena del crimine sia stata contaminata e non tutte le prove siano state raccolte dagli esperti che sono stati chiamati a fare luce sull’accaduto. Oggi 14 ottobre 2014, l’edizione delle 13 di Sportmediaset ha mandato in onda uno spezzone di un video inedito: in tutto, il filmato consta di 51 minuti, su un totale di tre ore di sopralluogo nella stanza del Residence Le Rose in cui si trovava Pantani al momento del decesso. Già qui c’è qualcosa che non quadra e la Procura di Rimini, che ha aperto un fascicolo per fare luce sulla morte del Pirata, vuole vederci chiaro: se il sopralluogo è realmente stato di tre ore, il video dovrebbe avere la stessa durata, altrimenti si potrebbe pensare che sia stato "tagliato". Perché? Dallo spezzone del video mostrato dal biscione e commentato in studio da Davide De Zan e in collegamento dal generale Garofalo, capo dei Ris di Parma dal 1995 al 2009, emergono dettagli per certi versi inquietanti. Sono passati oltre 10 anni e chiaramente le tecniche per raccogliere le prove sulla scena di un crimine oggi sono più all’avanguardia, ma dal filmato emerge una sostanziale incuria da parte delle persone, dovrebbero essere quattro, che hanno effettuato il primo sopralluogo. Si vedono chiaramente persone che vagano per la stanza senza protezione e toccano un po’ di tutto. Addirittura, qualcuno fa cadere delle posate per terra, che poi non vengono raccolte, ma filmate esattamente così come sono, quasi a voler far sembrare che fossero parte del caos trovato in albergo. L’elemento che desta più scalpore, però, è una bottiglia d’acqua che potrebbe essere stata usata per far ingerire la cocaina a Pantani: il medico legale chiede di poterla toccare, ma gli dicono di lasciarla così dov’è. Fin qui tutto bene, meglio non contaminare anche quella. Peccato, però, che quella bottiglia non sia stata mai presa in esame per individuare oltre alle evidenti tracce di cocaina, eventuali impronte digitali. Incuria e approssimazione, in definitiva, che gettano nuove nubi sulle indagini effettuate a suo tempo.
Pantani e quei tagli nel video della polizia che mostra le ferite del Pirata. Girato dalla scientifica nel residence dove fu trovato il corpo. Il filmato dura 51 minuti, ma ci sono salti temporali. Da alcune immagini pare che il cadavere sia stato trascinato, scrive Marco Bonarrigo su “Il Corriere della Sera”. Sarà che siamo abituati alla gelida efficienza delle serie tv forensi americane, mentre queste immagini sono tremolanti e disordinate. Sarà che quel corpo martoriato riverso sul pavimento non è un attore o un manichino. Ma Marco Pantani. Sarà per questo che si esce sconvolti dalla visione del video girato dalla polizia scientifica nella stanza D5 del Residence Le Rose a Rimini, la sera del 14 febbraio 2004. 51 minuti registrati nell’arco di tre ore, con salti temporali e d’inquadratura che sorprendono il professor Francesco Donato, docente di Tecniche investigative applicate all’Università di Bologna: «Per avere valore - spiega Donato - un video girato sulla scena di un crimine deve essere un continuo d’inquadratura. Il video è stato tagliato? E perché?». Se lo chiede anche la parte civile che ha chiesto una perizia. Il filmato mostra, oltre al sangue e alle ferite sul corpo di Pantani, inspiegabilmente minimizzate dal perito del tribunale, anche le debolezze della tesi che ha orientato l’inchiesta fin da subito: morte da overdose. Il corpo di Pantani è costretto in uno spazio microscopio tra letto e parete, dove è quasi impossibile sia precipitato in seguito a un malore. Le striature allungate di sangue attorno al volto mostrano segni di trascinamento. La cintura dei jeans disegna un’ampia, innaturale asola sul lato destro del corpo, suggerendo in maniera immediata che questa sia servita per trascinarlo. Poi l’obbiettivo si sofferma sul Rolex bloccato sulle 5 meno 5, sul medico legale che indica della polvere bianca sul collo di una bottiglia, mai periziata. Nella stanza, al contrario di medico e operatore, girano senza indumenti di protezione cinque investigatori. E si sentono almeno due volte in sottofondo rumori di posate che cadono sul pavimento. E ci sono, ripresi in maniera incoerente, i dettagli di quel «caos ordinato» su cui punta forte Antonio De Rensis, l’avvocato della famiglia Pantani: si possono divellere uno specchio da un muro o un lavandino da terra, rovesciandoli sul pavimento, senza minimamente danneggiarli e, stando ai vicini di stanza, senza il minimo rumore? «Quando un investigatore entra in una scena del crimine - spiega il professor Donato - dovrebbe osservare e filmare con curiosità ed obiettività, sgombrando la mente da idee preconcette per individuare il maggior numero di elementi utili sia alla ricostruzione dell’evento, sia all’identificazione del suo autore. Altrimenti si rischiano errori enormi». Frammentario e incoerente, il filmato oggi resta prezioso: tra i testimoni che stanno sfilando questi giorni in Procura a Rimini c’è chi - mai ascoltato prima - forse è in grado di dare una motivazione a quel caos fornendo una chiave decisiva alla nuova inchiesta.
Pantani, via agli interrogatori, perizia su video Polizia, scrive Francesco Ceniti su “La Gazzetta dello Sport”. I dubbi sulla versione di Mengozzi, l'amico del Pirata. Adesso tocca alla manager Ronchi. Le immagini sono state tagliate? Entra nel vivo l'inchiesta Pantani. La Procura di Rimini ha iniziato gli interrogatori delle persone informate sui fatti: già sentito Michael Mengozzi, l'amico del Pirata che avrebbe dovuto tenerlo lontano dagli spacciatori, ma che nel dicembre 2003 gli presentò l'escort russa Elena Korovina diventata l'ultima "compagna" del Pirata in una relazione che poco aveva a che fare con l'amore. Ascoltato pure il dottore Giovanni Greco, entrato in scena nella vita di Pantani in modo prepotente nell'ultimo anno e spesso in contatto con Mengozzi. Tra oggi e domani toccherà a Manuela Ronchi, manager del ciclista dal 1999 al febbraio 2004, giorno della tragica scomparsa. Che cosa è emerso da questi primi interrogatori condotti dalla polizia giudiziaria delegata dal procuratore capo Paolo Giovagnoli? Dentro il residence — La presenza di Mengozzi a Rimini nella notte del mistero non era passata inosservata. L'amico (poi non tanto amico, secondo mamma Tonina) piomba al Residence le Rose intorno alle 22.15. Di certo la polizia lo fa passare, facendolo entrare nei luoghi delle indagini, mentre tiene lontano la sorella e la zia di Pantani. Mengozzi avrebbe confermato una certa confidenza con l'ispettore Laghi: è lui a sentirlo la mattina del 15. L'imprenditore di Predappio (gestore di una discoteca) avrebbe detto di essere andato a Rimini una volta appresa la notizia della morte da una amica (informata dalla tv), ma sugli orari forse è necessario un approfondimento. Mengozzi racconta di trovarsi a cena a Milano Marittima: "Ho corso più veloce che potevo", avrebbe riferito. Fatto sta che alle 22.15 è già a colloquio con la polizia, ma le prime agenzie (e quindi i primi rimbalzi in tv) arrivano 15 minuti dopo. Non solo, per raggiungere Rimini da Milano Marittima ci vuole almeno mezz'ora. Domanda: chi a quell'ora era già a conoscenza della morte di Pantani? I 3 giubbini da sci — Il dottor Greco, invece, avrebbe riconfermato quello messo a verbale 10 anni fa: "Pantani aveva un atteggiamento compulsivo nei confronti della cocaina: si isolava per giorni assumendone quantitativi impressionanti, fumandola e inalandola". Nulla di nuovo in sostanza, neppure sul fronte medicinali che lui stesso aveva prescritto al Pirata per evitargli crisi pericolose. Medicinali presi dal romagnolo con puntualità anche la mattina del 14 e che, secondo la perizia del professor Avato, sono incompatibili con i 20 grammi segnalati dall'autopsia. Attesa anche per la deposizione della Ronchi: dovrà spiegare i vari intrecci legati a Mengozzi e Greco, ma soprattutto ricordare a chi consegnò i tre giubbini da sci lasciati da Pantani nel suo appartamento di Milano e trovati misteriosamente dentro la stanza della tragedia. Altra novità: finisce sotto perizia il video girato dalla Polizia nell'hotel la notte del 14 febbraio. Le immagini durano 51', ma il lasso di tempo coperto è di circa 3 ore. Anomalia bella grossa: di solito non sono possibili black out. I periti nominati dall'avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, cercheranno di stabilire se il video ha subito dei tagli oppure se la telecamera è stata spenta più volte.
Caso Pantani, il mistero del lavandino spostato, scrive Francesco Ceniti su “La Gazzetta dello Sport”. È una testimonianza raccolta all’inizio della settimana a raccontare lo stato dell’appartamento del Pirata. Ma negli atti giudiziari il lavandino è al suo posto. "La scena non potrò mai dimenticarla: appena entrato nell’appartamento occupato da Pantani c’era il lavandino al centro della stanza... Una cosa incredibile, poi ho visto tutto il resto e il povero Marco...". Tenete bene a mente questo verbale: rischia seriamente di portare ai primi indagati della nuova inchiesta sulla morte del Pirata. La scena raccontata non lascia molti margini di manovra. La testimonianza chiave è stata resa a inizio settimana da una persona informata sui fatti. Una delle prime a entrare nell’appartamento D5 del residence Le Rose a Rimini. Siamo intorno alle 20.30, molti minuti prima dell’arrivo di medici e polizia. La presenza del lavandino smontato dal bagno e posizionato in mezzo alla stanza potrebbe essere inquadrato come un’alterazione dei luoghi. Perché il lavandino in tutti gli atti ufficiali è al suo posto. Stessa cosa nel video girato dalla polizia scientifica a partire dalle 23 del 14 febbraio. Insomma, chi ha spostato il lavandino e soprattutto perché? le ipotesi — Certo, qualcuno potrebbe sostenere che il testimone racconti il falso o ricordi male. La prima ipotesi è alquanto poco credibile: quale motivo avrebbe avuto una persona che aveva un alibi di ferro e non è mai stato indagato a esporsi in questo modo? Quanto alla memoria, c’è da raccontare un particolare: nel 2004 questo stesso testimone era stato ascoltato, ma non aveva fatto menzione al lavandino. Come mai? E’ la stessa domanda posta nell’interrogatorio di lunedì (durato 30 minuti) dalla polizia giudiziaria delegata dal procuratore Giovagnoli. La risposta è stata disarmante: "Nessuno me lo aveva chiesto". A chiederlo per primo è stato l’avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, nel corso delle indagini difensive svolte nei mesi scorsi. Lì il lavandino è uscito per la prima volta. Uno dei punti forti dell’esposto era proprio questa testimonianza. La Procura ha fatto il resto: chiedendo conferma. E la conferma è arrivata, senza esitazioni: "Il lavandino era al centro della stanza, come si fa a dimenticarlo". Già, come si fa? La stanza di Pantani è stata trovata a soqquadro, con molte cose messe fuori posto. "Un disordine ordinato" lo ha definito il professor Avato nella perizia contenuta nell’esposto. Come a dire: una messinscena per coprire quello che era realmente accaduto nella stanza. Per l’inchiesta del 2004 le cose andarono diversamente: quel caos era stato provocato da Pantani nel delirio da overdose di cocaina che lo avrebbe condotto alla morte. E quindi in preda a questo delirio se la sarebbe presa con qualunque cosa, fino a smontare un lavandino a mani nude senza farsi neppure un graffio! Perché per la versione ufficiale nessuno entra nella stanza del Pirata. E quindi alle 20.30, quando il testimone vede il lavandino, può essere stato solo Pantani a metterlo lì. Poi torna al suo posto, misteriosamente. Come mai? Forse chi è arrivato dopo si è reso conto che non poteva reggere la tesi di un lavandino smontato a mani nude? E allora si rimette in fretta al suo posto prima d’iniziare il sopralluogo ufficiale? La Procura dovrà interrogare varie persone e capire cosa è accaduto. E magari toccherà anche al nuovo perito, il professor Tagliaro, visionare foto e video per verificare il lavandino. Non solo, il testimone afferma un altro fatto: "È stata la polizia a tranciare i materassi". Anche questo negli atti ufficiali del 2004 non risulta. Il registro degli indagati forse è stato già aperto...
Pantani, l’omicidio svelato dall’orologio fermo? Continua Francesco Ceniti. Nuove rivelazioni: era al polso del Pirata e segnava le 17.05: un guasto possibile solo se battuto. Spostavano forse il corpo? E c’è quel fax del perito Fortuni che riporta la stessa ora... L’orologio. Quello al polso di Marco Pantani. Ha scandito le ultime ore del Pirata, come una cronometro. E adesso dopo oltre 10 anni potrebbe segnare una svolta nella nuova inchiesta riaperta a luglio dalla Procura di Rimini con ipotesi omicidio volontario. Tra le tante anomalie delle indagini di 10 anni fa, ne spunta un’altra clamorosa. Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, presenterà un nuovo documento per evidenziare una serie di fatti inquietanti: il Rolex Daytona del Pirata potrebbe aver registrato l’ora nella quale qualcuno ha spostato il cadavere, entrando nella stanza e forse mettendola a soqquadro per la messinscena finale. E il mistero diventa sempre più fitto: c’è un documento ufficiale mandato dal professor Fortuni al pm di allora Gengarelli che collima alla perfezione con l’orario sospetto: 17.05. Quando la polizia consegna alla famiglia gli effetti personali di Pantani considerati non importanti per l’indagine, c’è pure il Rolex. E’ al polso di Marco ormai cadavere, ma nessuno prende le impronte o ordina una perizia (cosa che potrebbe accadere ora se il professor Tagliaro, incaricato da Rimini per una nuova consulenza, chiederà di esaminarlo). L’orologio è fermo alle 17.05 del 14 febbraio. Non è un problema di carica: si è rotto un meccanismo come scopre mamma Tonina quando lo porta in un negozio di Rimini. Può il Rolex aver continuato a camminare per ore, bloccandosi poi per fine carica? Non può, perché quel modello una volta indossato e mosso anche solo per pochi minuti va avanti per almeno 12 ore. Può essersi rotto parzialmente nella caduta del Pirata per poi fermarsi alle 17 e 5? Non può, perché qualunque guasto meccanico blocca le lancette quasi istantaneamente. E allora qual è l’ipotesi? Presto detta: qualcuno può aver fatto sbattere il polso di Pantani (contro il pavimento, un mobile o la scala) mentre spostava il cadavere. Tesi confortata da altri due aspetti. Il primo: il professor Avato dopo aver esaminato le foto dell’autopsia segnala una ferita al polso compatibile con una forte botta o una compressione. Il secondo: sempre Avato evidenzia tracce di trascinamento del cadavere osservando il sangue intorno al Pirata, tracce lasciate tra le 15 e le 18 del 14 febbraio. Dopo non sarebbe stato possibile: il liquido ematico era diventato cemento. E arriviamo al fax di Fortuni. Il 16 febbraio 2004 il professore dopo l’autopsia manda un fax urgente al pm Gengarelli: «La informo che il decesso di Pantani può datarsi intorno alle 17». Guarda caso proprio l’ora indicata dall’orologio. Magari è una coincidenza, ma resta l’errore (singolare, a quei livelli) di un professore universitario che sbaglia di parecchio l’ora della morte che lo stesso Fortuni correggerà nei giorni successivi, portandola tra le 11.30 e le 12.30. Nel frattempo l’orologio è già sparito dall’inchiesta. Anzi, non c’è mai entrato...
MARCO PANTANI. ASPETTANDO GIUSTIZIA.
Marco Pantani, perché il caso della sua morte può riaprirsi, scrive il 13 Febbraio 2019 Tommaso Lorenzini su Libero Quotidiano. Domani saranno passati 15 anni dalla morte di Marco Pantani, avvenuta all' Hotel Le Rose di Rimini. Un caso avvolto ancora da punti oscuri, evidenziati da mamma Tonina e dal lavoro di molti professionisti fra i quali l'avvocato De Rensis, che la Procura di Rimini non ha mai chiarito. E ieri, un servizio delle Iene ha posto nuovi interrogativi su quella morte indicata come overdose di cocaina ma, dopo tre perizie, attribuita a un mix letale di droga e psicofarmaci. Tuttavia, la famiglia di Marco (foto del cadavere alla mano e trasmesse in tv) sostiene che fu picchiato e costretto a ingerire la sostanza. E dichiarazioni inedite, come quelle di Fabio Carlino (assolto in Cassazione dall' accusa di aver ceduto la dose di coca letale) e Elena Korovina (ultima amante del Pirata) potrebbero portare alla riapertura dell'inchiesta.
Pantani, le testimonianze raccolte da Le Iene riaprono il caso? Scrivono Le Iene il 12 febbraio 2019. Il corpo del campione di ciclismo Marco Pantani è stato trovato il 14 febbraio di 15 anni fa in una camera d’albergo a Rimini. Per la giustizia è morto da solo per un’overdose di cocaina. Alessandro De Giuseppe ha ascoltato in esclusiva le parole di tre testimoni che potrebbero far riaprire le indagini. La morte della leggenda del ciclismo Marco Pantani è una delle più grandi tragedie sportive italiane. Il 14 febbraio di 15 anni fa verso le 20.30, il suo cadavere è stato trovato in una camera d’albergo di Rimini, Marco aveva 34 anni. Stiamo parlando di uno dei più grandi ciclisti degli ultimi anni, vincitore di Giro d’Italia e Tour de France nel 1998 e fermato per i livelli di ematocrito troppo alti nelle analisi di Madonna di Campiglio il 5 giugno 1999, quando stava per vincere il suo secondo Giro. Pantani, prima di morire, stava attraversando un periodo terribile, fatto anche di depressione e uso di sostanze stupefacenti. “Marco non ero più il mio Marco, perché usava cocaina”, dice la madre Tonina al nostro Alessandro De Giuseppe. Restano dei dubbi sulla ricostruzione della sua ultima notte.
Primo, nel filmato fatto dalla scientifica il lavandino del bagno si vede chiaramente che è attaccato al muro, ma tre diversi testimoni entrati prima della polizia sostengono di averlo visto in terra.
Secondo, perché, sempre nel video della scientifica, accanto al corpo di Pantani si vede una grossa pallina di cocaina ma i soccorritori arrivati prima della polizia non la vedono.
Terzo, perché se la mattina Marco ha chiesto alla reception di chiamare i carabinieri perché delle persone gli davano fastidio, nessuno l’ha fatto?
Quarto, l’ex spacciatore che al tempo riforniva Pantani sostiene che il ciclista non avesse con se una dose di cocaina sufficiente a ucciderlo. Secondo lui l’unica spiegazione è che ne abbia presa dell’altra da qualche altra parte.
Quinto, le ferite sul corpo di Marco per l’avvocato della famiglia Pantani e secondo il primo del 118 ad arrivare sul posto non sarebbero state autoinflitte, come sostiene la magistratura.
Per i giudici c’è soprattutto una verità inoppugnabile che metterebbe a tacere ogni eventuale stranezza: Marco nella sua stanza all’Hotel le Rose di Rimini era solo e nessuno poteva entrare o uscire da lì senza essere visto e quindi solo lui può essere stato causa della sua morte. Questa verità potrebbe essere però messa in discussione. Per uscire ed entrare nell’hotel si poteva utilizzare anche una porta secondaria che dava sui garage, come vi abbiamo raccontato anche in un precedente servizio di Alessandro De Giuseppe. Non solo Marco poteva uscire dunque senza essere visto ma, secondo il titolare di un bar poco distante, Pantani il giorno prima sarebbe andato a prendere un caffè nel suo locale. La testimonianza più clamorosa è quella di un ragazzo che sostiene che Marco i giorni prima della morte avrebbe dormito in un altro hotel e chiacchierato con altre persone, tra cui una ragazza. Di questo nelle inchieste non risulta nulla, ma se fosse vero metterebbe in discussione la tesi che nei giorni prima della morte Marco fosse isolato e non avesse visto nessuno. C’è anche una prostituta che conferma questa versione, dicendo che una sua amica e collega, sarebbe stata con il ciclista il giorno della sua morte.
Marco Pantani, a 15 anni dalla morte si riaprono le indagini? Scrivono Le Iene il 12 febbraio 2019. La leggenda del ciclismo Marco Pantani è morto il 14 febbraio 2004 in circostanze che, nonostante il caso sia stato chiuso come morte da overdose di cocaina, sollevano ancora molti dubbi. A distanza di 15 anni, le testimonianze raccolte da Alessandro De Giuseppe potrebbero far riaprire il caso. Esattamente 15 anni fa, il 14 febbraio 2004, Marco Pantani viene trovato morto in una stanza dell’Hotel Le Rose di Rimini. Il campione di ciclismo, vincitore di Giro d’Italia e Tour de France nel 1998, squalificato per livelli di ematocrito troppo alti rilevati nelle analisi di Madonna di Campiglio il 5 giugno 1999 (clicca qui per il servizio, sempre di Alessandro De Giuseppe, sui molti dubbi anche su questa storia). Aveva 34 anni. Nonostante la giustizia abbia chiuso il caso come morte per overdose da cocaina, a distanza di anni sono ancora molti i punti che non tornano nella dinamica che avvolge la sua morte. Abbiamo evidenziato questi dubbi nel servizio di Alessandro De Giuseppe di ottobre 2018. A cominciare dal lavandino del bagno, che nel filmato della scientifica è chiaramente attaccato al muro, ma che tre testimoni entrati prima della polizia dicono di aver visto a terra, fino alla pallina di coca accanto al corpo di Marco che i soccorritori affermano di non aver mai visto. E sono solo alcune delle incongruenze che gettano ombre sulla ricostruzione della morte del ciclista (clicca qui per leggere tutti i dubbi). Per la giustizia c’è però una verità inoppugnabile: Marco nella sua stanza d’hotel era solo e nessuno poteva entrare o uscire da lì senza essere visto. Quindi solo lui può essere stato la causa della sua morte. E’ proprio questa verità che potrebbe essere messa in discussione dalle testimonianze raccolte da Alessandro De Giuseppe nel servizio del 13 febbraio 2019. Non solo Marco poteva uscire ed entrare dall’hotel utilizzando una porta secondaria che dava sui garage (come vi abbiamo raccontato in un precedente servizio), ma, secondo il titolare di un bar poco distante, Pantani il giorno prima sarebbe andato a prendere un caffè nel suo locale. C’è inoltre la clamorosa testimonianza di un ragazzo secondo cui Marco i giorni prima della morte avrebbe dormito in un altro hotel e chiacchierato con altre persone, tra cui una ragazza. Di questo nelle inchieste non risulta nulla, ma se fosse vero metterebbe in discussione la tesi che nei giorni prima della morte Marco fosse isolato e non avesse visto nessuno. A confermare questa versione è anche una prostituta, che racconta alla Iena che una sua amica e collega sarebbe stata con il ciclista il giorno della sua morte. “Io voglio arrivare alla verità”, dice Tonina, la mamma di Marco, ad Alessandro De Giuseppe. “Sono 14 anni che lotto, ho speso un capitale ma non me ne frega niente. In onore di Marco voglio arrivare alla verità”.
"Il mio amico Pantani. Vi spiego perché lui vivrà per sempre". Cipollini ricorda il grande e sfortunato campione «Un giorno facemmo come Coppi e Bartali...», scrive Pier Augusto Stagi, Giovedì 14/02/2019, su Il Giornale. «Avevo vinto una tappa al Giro del Mediterraneo e per festeggiare quel successo, ma soprattutto la ricorrenza di San Valentino, ero a cena con l'allora mia moglie al ristorante Rampoldi di Montecarlo. Ad un tratto vedo entrare un amico italiano che si dirige verso di me scuro in volto e mi invita a seguirlo. Non proferisce parola, si limita a passarmi il suo blackberry e leggo le notifiche che scorrono: «Trovato morto in un residence Marco Pantani». In quel momento, in quel preciso istante, in me è calato il buio». Quindici anni sono passati da quella terribile sera nella quale Mario Cipollini ha saputo della morte di uno dei suoi più cari amici. «Cosa mi è rimasto di Marco? Tutto, ma solo le cose belle. Nel cuore mi sono rimasti solo frammenti felici di vita quotidiana, di zingarate pazzesche da Amici miei, al limite della follia». E i due di bischerate ne hanno fatte a iosa. «Tappa del Giro del 2003 (l'ultimo corso dal Pirata, 13°, ndr). In un tratto di strada tra l'Abruzzo e le Marche, io e Marco decidiamo di scambiarci le ruote. Lui vuole assolutamente provare le mie, molto più leggere e scorrevoli, così ad un certo punto, come due ragazzini, ci fermiamo a bordo strada e velocissimamente eseguiamo l'operazione. Nessuno si accorge di niente, ma quel giorno io ho visto negli occhi di Marco la felicità». Uno scambio che non divide l'Italia, ma rinsalda un'amicizia «Sarebbe potuto essere come il famoso scambio della borraccia tra Bartali e Coppi, solo che di questo gesto, non c'è un'immagine che una. Siamo stati due folli, ma almeno siamo stati bravi a non farci beccare da nessuno. E non sai poi le risate». Tante le risate, ma anche qualche rammarico. «Il più grosso? Non essere riuscito a coronare il sogno di correre con lui in squadra. Io avevo da poco conquistato il titolo mondiale a Zolder, ciclisticamente avevo raggiunto lo zenith, e potevo solo ritirarmi. Però mi era venuta l'idea di portare alla Domina Vacanze il Pirata. Ne parlai con lui, che si mostrò subito entusiasta. Diede mandato alla sua manager (Manuela Ronchi, ndr) di seguire la cosa, la quale s'interfacciò con il team manager della Domina Vincenzo Santoni e con Franco Cornacchia della Mercatone Uno che sarebbe dovuta entrare come sponsor nell'operazione, ma nonostante noi due fossimo assolutamente d'accordo su tutto, non se ne fece nulla». Non chiedetegli però perché non se ne fece nulla: Mario sull'argomento glissa con abilità. «Questo lo dovreste chiedere a loro, in particolare alla Ronchi. Di tutta quella vicenda mi è restata nel cuore solo una telefonata: restammo a parlare per quasi un'ora. Io ero seduto su un finestrone in avenue de Grande Bretagne, a Montecarlo. Io e Marco sognavamo entrambi ad occhi aperti, ma quel sogno rimase tale». Mario parla di Marco con dolcezza infinita, come si fa con chi ha lasciato un segno profondo del suo passaggio. «Un'immagine di noi? Io e lui in fondo al gruppo che parliamo come due ragazzini di donne, motori e caccia. Ci siamo conosciuti in una riserva, nei pressi di Pavia. Entrambi ospiti di un amico (Alcide Cerato, ndr): ci ritrovammo immediatamente a ridere e scherzare come vecchi amici». Oggi sono quindici anni senza il Pirata, mentre mamma Tonina insegue con tenacia la verità sulla morte del figlio. «E fa bene. Capisco il suo dolore, e rispetto tutto quello che fa». Se poi gli si chiede chi fosse Marco Pantani, Mario prende fiato, tira un lungo sospiro e con un filo di voce risponde: «Era l'emozione compressa in uno scatto. Un brivido infinito. Un soffio al cuore. L'amore per uno sport e un corridore che ha fatto girare la testa a tanti. Pantani è amore e passione. Lo è ancora adesso, perché Marco nei cuori di tutti noi non è mai davvero morto».
Marco Pantani: 15 anni fa moriva il "Pirata", scrive Edoardo Frittoli il 14 febbraio 2019 su Panorama. Il "Pirata" Marco Pantani aveva già vinto il Giro d'Italia nel 1998. Sarebbero bastati pochi giorni di quell'anno eccezionale per passare dalla maglia rosa alla maglia gialla. Prima della doppietta del ventottenne di Cesenatico, solamente i campionissimi della storia del ciclismo del calibro di Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Stephen Roche e Miguel Indurain erano riusciti a fare altrettanto. Non fu un Tour facile, quello di 20 anni fa. Non tanto per le difficoltà del percorso, quanto per gli effetti dell'esplosione dello scandalo doping. Tutto era cominciato l'8 luglio 1998, tre giorni prima dell'inizio del Tour, quando fu fermata alla frontiera tra Svizzera e Belgio un'ammiraglia della squadra francese Festina, per la quale correva uno dei favoriti di quell'anno, lo svizzero Alex Zulle. All'interno dell'auto i doganieri trovarono centinaia di dosi di farmaci dopanti, in particolare 235 dosi di eritropoietina (EPA). Il conducente, il massaggiatore Voel, fu condotto in carcere ed interrogato. Le sue dichiarazioni indicarono come colpevoli i dirigenti del team francese. Il direttore sportivo Bruno Roussel fu a sua volta arrestato in seguito ad ulteriori perquisizioni nella sede di Festina e nelle camere d'albergo dei corridori, che nel frattempo avevano iniziato il Tour partito quell'anno dall'Irlanda.
Il Pirata comincia in sordina. Nel clima teso che seguì lo scandalo Festina, erano previste le prime tappe del Tour 1998 che vedeva come favorito il vincitore dell'edizione dell'anno precedente, il tedesco Jan Ullrich (team Deutsche Telekom). Ed infatti Ullrich indossava la maglia gialla già alla settima tappa (la cronometro da Meyrignac-L'Eglise a Corrèze) dando al pirata (che non era un velocista) ben 4 minuti. Nel frattempo il connazionale Mario Cipollini aveva vinto due tappe di fila il 16 e 17 luglio, mentre Pantani seguiva a distanza attendendo le tappe a lui più congeniali, quelle di resistenza in salita.
La maglia gialla, la protesta, la vittoria. All'undicesima tappa, da Luchon a Plateau dei Beille sui Pirenei il campione di Cesenatico taglia il traguardo per primo e "mangia" più di due minuti al vantaggio del rivale Ullrich, vittima durante la gara di una foratura. Il 27 luglio Pantani vince tappa e maglia gialla, che non toglierà più fino al trionfo. Ancora una gara in montagna, questa volta da Grenoble a Les Deux Alpes dove il Pirata farà ricordare il mito di Fausto Coppi sotto una pioggia battente. Pantani parte in sordina poi a metà gara, già in quota, raggiunge il gruppo di Ullrich e saluta tutti. Al traguardo darà al tedesco oltre 8 minuti portando la sua Bianchi giallo-celeste a compiere l'impresa davanti a milioni di spettatori entusiasti. Gli sviluppi dello scandalo doping, che aveva portato alla squalifica del team Festina e del favorito Alex Zulle, porteranno a nuove perquisizioni e arresti nel vivo del Tour 1998. Per questo team e corridori, che si sentivano sottoposti ad un regime poliziesco, decisero di scioperare fermando la tappa n° 17 da Albertville ad Aix-Les Bains dove fu annunciata la volontà di diversi team di ritirarsi dalla competizione. Anche Marco Pantani aderiva pienamente alla protesta, togliendosi simbolicamente la maglia gialla di un Tour che presagiva già il trionfo e la doppietta stagionale. La camera d'albergo dello stesso Pantani era stata perquisita nei giorni precedenti in cerca di sostanze proibite. Su 189 partecipanti, solamente 96 arriveranno a Parigi per l'ultima tappa. Pantani manterrà il vantaggio e la maglia gialla fino all'ingresso trionfale sugli Champs-Elysées il 2 agosto 1998, concludendo il Tour con un tempo totale di 92 ore, 49 minuti e 46 secondi.
Dalla luce alle tenebre. La squalifica del 1999. Marco Pantani rompeva un digiuno che per i ciclisti italiani durava dal 1965 con l'ultimo trionfo di Felice Gimondi. La gloria folgorante del doppio successo del Pirata durerà poco, affievolita dal buio del doping. L'anno successivo ai trionfi in maglia rosa e gialla Pantani sarà squalificato dal Giro d'Italia per i valori troppo alti di ematocrito. Non sarà più in grado di recuperare nè di tornare alla gloria di quella stagione fino alla tragica fine, giunta il 14 febbraio 2004.
La solitudine, il residence e la coca. Quegli ultimi giorni del Pirata, scrive Alessandra Nanni su “Quotidiano Nazionale”. La morte di Marco Pantani comincia il 9 febbraio del 2004, quando arriva a Rimini a bordo di un taxi. Sta scappando da Milano, dopo una lite furibonda con i genitori. Sarà l’ultima volta che vedranno quel figlio in fuga da se stesso, dal campione che era stato e di cui lui per primo non vede più che l’ombra. È l’inchiesta che ha portato al processo, a ricostruire i suoi ultimi giorni di vita. Il Pirata è sprofondato nella cocaina, e mentre il suo corpo tiene ancora il colpo di 15 grammi al giorno, il suo cuore batte di una rabbia smisurata. Come quando correva è di nuovo irraggiungibile, ma la sua ‘vetta’ ora è solo la coca, e in riviera c’è il suo fidato fornitore, Fabio Miradossa. Al processo riminese, testimoni, investigatori e imputati hanno messo insieme i pezzi di quei cinque giorni. Pantani si fa scaricare dall’autista lungo il viale, e va dritto a casa degli amici che ospitano lo spacciatore. Ma Miradossa non c’è, mamma Tonina ha minacciato di farlo arrestare se avesse continuato a vendere droga al figlio. Si è spaventato ed è tornato di corsa a Napoli. Per lui, per tutti, il campione è diventato un cliente che scotta. Ma Pantani non accetta un rifiuto, pianta una grana: devono trovare il napoletano. Capiscono che non mollerà, e fanno pressione su Miradossa: liberaci di Pantani. Lo spacciatore cede e incarica il suo galoppino di accontentare il campione. È Ciro Veneruso, quella stessa sera, a consegnare a Pantani i 30 grammi di cocaina che lo uccideranno il 14 febbraio. Appartamento 5D, al quinto piano del residence Le Rose. Il Pirata ci arriva a mezzogiorno di quel lunedì, e da allora lo vedranno di rado. Racconteranno di un uomo rinchiuso in un mondo immaginario, frasi sconnesse, insofferenza. Scende solo a fare colazione, qualche incursione al bar per una pizzetta. Non mangia altro e tollera a malapena la donna delle pulizie. Come un animale braccato che si lecca le ferite dell’ingiustizia, sceglie il buio. Le tapparelle della stanza sono abbassate come in una grotta, sta macinando migliaia di chilometri solo con se stesso. «Si lamentava del rumore — racconteranno i clienti — bastava un passo per fargli spalancare la porta». «Chiamate i carabinieri» urla in un delirio che riempie di pena chi è testimone di tutto quel dolore. Alle 11,30 di sabato, Pantani chiama la portineria e chiede di non essere disturbato più, non gli interessa che la camera venga rifatta. Sono le 19, quando il portiere suona alla porta del 5D. Nessuna risposta, scende in cortile per cercare una luce al quinto piano, ma non riesce a vedere e il telefono della stanza dà sempre occupato. È preoccupato, decide di entrare con una pila di asciugamani. Usa il passepartout, ma la porta si apre solo di uno spiraglio, il mobile della tv e del telefono sono rovesciati. Dentro l’appartamento il caos, come un uragano. «Poi sono salito nel soppalco, era a terra adagiato su un fianco, non respirava più». Fine della corsa.
CHI HA UCCISO PANTANI ? A DIECI ANNI DALLA SUA MORTE, IL CASO RIAPRE E SI INDAGA...........
PANTANI, CASO RIAPERTO DOPO 10 ANNI: “FU UCCISO? DOBBIAMO APPROFONDIRE”, scrive Guglielmo Buccheri per “la Stampa”. Cinquemila pagine fotocopiate, decine di testimonianze e immagini. L’esposto voluto dalla famiglia di Marco Pantani è finito sul tavolo del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli ed ora l’indagine è aperta come riporta la Gazzetta dello Sport. «Non fu suicidio volontario, ma Pantani fu ucciso...», sostengono i familiari del campione romagnolo e, da ieri, è l’ipotesi a cui lavoreranno gli inquirenti. «Nessun commento, dobbiamo approfondire. Bisognerà fare delle valutazioni anche alla luce del risultato del processo che ci fu a suo tempo. Quando - precisa il procuratore Giovagnoli - arriva un esposto-denuncia per omicidio volontario è sempre un atto dovuto aprire un’indagine...». La svolta, clamorosa, è sul tavolo. E, in un attimo, i fatti della notte del 14 febbraio di dieci anni fa tornano sotto i riflettori. La procura di Rimini si metterà al lavoro, lo farà dopo l’estate e l’indagine appena aperta durerà almeno un anno prima di arrivare alle sue conclusioni. La famiglia del Pirata, da sempre, ha sostenuto come non fossi possibile che il loro Marco avesse deciso di chiudersi nella stanza della pensione sul lungomare per dire basta. Ora, dopo un decennio di dubbi e perplessità, ecco il primo passo: l’esposto presentato in procura dall’avvocato Antonio De Rensis, e accompagnato da una perizia accurata, è stato giudicato fondato, ma dire oggi quale potrebbe essere il punto di arrivo è fin troppo prematuro. «Non fu suicidio, ma Pantani fu ucciso...», sostengono nella loro dettagliata ricostruzione i familiari del Pirata. «Ora esca la verità...», così gli ex colleghi, ma, soprattutto, amici del romagnolo, Claudio Chiappucci e Davide Cassani. «Non capisco perchè ci sia stato tutto questo ritardo, è giusto che si vada a fondo sulla tragica morte di Marco...», sottolinea Chiappucci. «Forse - così Cassani - si sono date per scontate troppe cose che non lo erano. Chi ha voluto bene a Marco vuole capire cosa realmente sia accaduto quella notte...». Il lavoro della procura di Rimini non sarà facile. Come detto dal procuratore Giovagnoli occorrerà ripartire nell’inchiesta tenendo conto degli sviluppi che hanno portato alle conclusioni del processo già celebrato. Da tempo la famiglia Pantani non perdeva occasione per chiedere la riapertura del caso che, adesso, riaccendere l’attenzione sugli attimi di vita del campione delle due ruote. Per presentare l’esposto c’è voluto un faticoso impegno, fra difficoltà nel reperire il materiale e riuscire nella visione di documenti e faldoni datati quasi dieci anni. Dopo l’estate, i pm si metteranno in azione.
AVEVA CHIESTO AIUTO E FORSE NON ERA SOLO NELLA STANZA MALEDETTA, scrive Giorgio Viberti per “la Stampa”.
Domande e risposte sui misteri di quella notte.
Perché Marco Pantani è uno dei campioni più amati e insieme discussi nella storia dello sport e non solo nel ciclismo?
«Perché si dimostrò pressoché imbattibile sulle montagne, dove fece entusiasmare i tifosi quasi come ai tempi di Bartali e Coppi, ma subì poi una sospensione dalle corse molto discussa e morì ancora giovane, a 34 anni, in circostanze quasi misteriose».
Per molti Pantani non fu soprattutto il simbolo di un ciclismo diventato ostaggio del doping?
«In quegli anni tanti corridori usarono farmaci vietati e alcuni in seguito lo confessarono, eppure Pantani in 12 anni di professionismo non risultò mai positivo all’antidoping».
Ma non morì per un eccesso di cocaina?
«È quanto asserì l’inchiesta dopo la sua morte, avvenuta il 14 febbraio 2004. E paradossalmente fu quella l’unica volta in cui Pantani risultò positivo a una sostanza dopante».
Pantani assumeva cocaina anche quando correva?
«Non venne mai rilevata nei tanti test ai quali si sottopose da corridore, ma è probabile che Pantani abbia cominciato ad assumere cocaina dopo lo choc per l’esclusione dal Giro d’Italia 1999, che aveva ormai quasi vinto, a due tappe dalla fine per ematocrito alto, cioè perché aveva il sangue troppo denso».
Perché si torna a indagare sulla morte del Pirata dopo dieci anni dalla sua morte?
«La mamma Tonina e il papà Paolo non hanno mai accettato la tesi del suicidio involontario per overdose di cocaina. Insieme con i loro legali hanno raccolto una serie di dati e testimonianze che hanno convinto i giudici a riaprire l’inchiesta».
Ma è lecito pensare che la prima inchiesta non sia riuscita a fare piena luce sulle cause della morte?
«Secondo molti ci sarebbero tante incongruenze e contraddizioni che quantomeno lascerebbero molti dubbi sulle conclusioni delle indagini di dieci anni fa. Di sicuro, se è stata riaperta l’inchiesta, devono essere emersi elementi nuovi e importanti di valutazione».
Per esempio?
«C’è l’ipotesi che Pantani non fosse solo nella stanza del residence in cui fu trovato senza vita. Lo farebbero pensare alcuni abiti che non dovevano essere lì, del cibo che il Pirata non amava e non avrebbe mai mangiato, il disordine troppo «ordinato» della stanza, una doppia ma vana richiesta di aiuto che il Pirata fece alla reception, l’enorme quantità di cocaina trovata nel suo organismo come se fosse stato costretto a ingerirla, le escoriazioni sul suo corpo, i segni sul pavimento come se il cadavere fosse stato trascinato... Incredibile poi che l’hotel nel quale morì Pantani sia stato ristrutturato pochissimo tempo dopo, come se fosse urgente cancellare ogni prova residua».
Chi è riuscito, dopo tanto tempo, a trovare tanti nuovi indizi?
«L’avvocato Antonio De Rensis, per conto dei signori Pantani, ha studiato i faldoni sia delle indagini di allora, sia quelli relativi al successivo processo. Ma non basta, perché sono stati sentiti di nuovo alcuni testimoni chiave di quella vicenda. È stata poi molto preziosa una perizia medico-legale eseguita dal professor Francesco Maria Avato, che ha aggiunto tantissimi elementi nuovi».
Ma perché queste cose non emersero subito?
«È quanto eventualmente stabilirà questa seconda inchiesta. Di sicuro la prima autopsia sul corpo di Pantani sbagliò a indicare l’ora presunta della morte e si rivelò molto superficiale anche nel valutare alcuni dati di medicina legale che avrebbero potuto aiutare a fare chiarezza sul caso».
Chi avrebbe avuto interesse a falsificare l’esito dell’inchiesta?
«Difficile dirlo, di sicuro Pantani era finito in un giro di droga che magari coinvolgeva anche persone molto importanti. Avrebbe potuto parlare e fare dei nomi».
Per questo potrebbe essere stato ucciso?
«È questa la tesi sostenuta dai legali dei genitori di Marco. Ed è quanto dovrà appurare questa seconda inchiesta. L’ipotesi di reato è addirittura di omicidio volontario a carico di ignoti e alterazione del cadavere e dei luoghi. Il procuratore capo di Rimini, Paolo Giovagnoli, ha affidato il fascicolo a Elisa Milocco, giovane sostituto procuratore. Toccherà a lei far luce su quanto avvenne quel giorno».
«LO SCRISSI GIÀ ALLORA: TROPPI PUNTI OSCURI», scrive ancora Giorgio Vibereti per “la Stampa”. Philippe Brunel, giornalista francese e inviato speciale del quotidiano parigino L’Équipe, l’aveva già scritto nel suo libro «Gli ultimi giorni di Marco Pantani»: la morte del Pirata ha molti lati oscuri.
Brunel, che ne pensa di questa nuova inchiesta?
«L’avevo già detto dieci anni fa. Nella morte di Pantani ci sono troppe incongruenze, troppi episodi inspiegabili per poter accreditare la tesi del suicidio involontario».
È quanto però emerse dalla prima inchiesta...
«Mi interesso da molti anni di ciclismo, soprattutto italiano, e fui incaricato da L’Équipe di indagare, cercare di capire, raccogliere testimonianze e prove sulla morte di Pantani. E le cose non quadravano».
Che cosa soprattutto la lasciò perplesso?
«Tante cose. Marco era una persona precisa, quadrata e amabile. Impossibile che si sia messo a urlare e spaccare tutto nella sua stanza d’albergo, come dissero invece gli inquirenti della prima inchiesta».
Tutto qui?
«No, certo. Nella camera del residence Le Rose era stato portato del cibo che Marco odiava e non avrebbe mai mangiato, e poi le escoriazioni sul suo corpo, la bottiglia d’acqua mai analizzata, certi indumenti che non avrebbero dovuto essere lì, quel disordine troppo ordinato, il mancato rilevamento delle impronte...».
Per lei Pantani non era solo in quella stanza, vero?
«Ne sono sicuro. In quel residence si poteva entrare anche dal parcheggio sul retro, di sicuro Marco è stato raggiunto dal suo pusher ma credo anche da altre persone. Incredibile poi che quell’albergo, cioè la scena della morte di Pantani, sia stato completamente ristrutturato dopo pochissimo tempo, cancellando di fatto anche le eventuali possibili prove rimaste».
Ma chi e perché avrebbe voluto la morte di Pantani?
«Temo ci fossero sotto interessi molto grossi, che magari coinvolgevano anche persone importanti. Una storia di droga e prostituzione. Pantani era diventato un tossicodipendente, che frequentava gente senza scrupoli. A un certo punto non ha più saputo controllare la situazione, e ci ha rimesso la vita. Una morte oscura e irrisolta, però, come quelle di Tenco o Pasolini».
Brunel, che cosa si augura ora dalla nuova inchiesta?
«Marco era una persona sensibile e generosa che spesso si spingeva fino agli estremi, come faceva in bici. Per lui il ciclismo era finito e si sentiva smarrito, perduto. Ma era un uomo sincero e molto intelligente, che diceva sempre ciò che pensava e che sarebbe potuto diventare scomodo. Non può essere morto come un disperato, per un’overdose, da solo in una stanza d’albergo. Non è andata così. Marco merita giustizia».
«Verità lontana dagli atti ufficiali». Da una parte gli atti di un processo che non ha mai convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte dall’avvocato Antonio De Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal professor Francesco..., scrive “Il Tempo”. Da una parte gli atti di un processo che non ha mai convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte dall’avvocato Antonio De Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal professor Francesco Maria Avato per la sua perizia, il cuore dell’esposto che ha fatto riaprire il caso Pantani con l’ipotesi di reato, per ora a carico di ignoti, di omicidio volontario. Il medico legale - perito, tra l’altro, del caso Bergamini - per definirsi usa lessico da ciclista: «Ho solo aggiunto un tassello da umile gregario al lavoro del legale», commenta. «La mia esperienza mi ha portato a conclusioni diverse sulla morte di Marco Pantani. Si è trattato di rivedere gli atti di causa e non solo, ma anche informazioni recuperate dalle indagini difensive mettendo insieme i frammenti come in un puzzle. È stato un lavoro di equipe con De Rensis». Il lavoro del professor Avato si è basato sull’autopsia del campione morto a Rimini il 14 febbraio 2004 e sull’analisi di foto e video delle indagini, giungendo a conclusioni differenti rispetto alla prima perizia e all’esame autoptico effettuato quasi 48 ore dopo il ritrovamento del cadavere di Marco Pantani. «Sono questioni di pertinenza dell’autorità giudiziaria - aggiunge il medico legale - non posso esprimermi al di là del fatto che il quantitativo di cocaina rinvenuta suggeriva modalità di assunzione diverse da quelle classiche. Sono indagini molto delicate e complesse. Non vogliamo creare confusione o disagio». La parola adesso è ai magistrati. «Il mio lavoro finito? - risponde Avato - Dipende dalle informazioni ulteriori che possono giungere, tutto è perfettibile nella vita».
«Pantani non è stato ucciso». Parla Fortuni, il medico della prima perizia sulla morte del campione. «Overdose al termine di un delirio da cocaina. Lo provano i suoi scritti», scrive Davide Di Santo su “Il Tempo”. «Non ci sono veri nuovi elementi oggettivi» che facciano pensare a «una overdose "omicidiaria"». A parlare è Giuseppe Fortuni, il medico legale nominato dalla Procura di Rimini per eseguire la perizia sul corpo di Marco Pantani ai tempi del processo ai suoi pusher. È l’uomo «famoso» per essersi portato il cuore del Pirata a casa, dopo l’autopsia terminata nella notte del 16 febbraio 2004. Pensava di essere seguito da auto sospette - più tardi si apprese che si trattava di giornalisti - mentre tornava al laboratorio per depositare i tessuti. Le sue conclusioni di allora sono messe oggi in discussione dall’esposto presentato dal nuovo legale della famiglia Pantani, Antonio De Rensis, secondo il quale il campione cesenate, quel giorno di San Valentino di dieci anni fa, nel residence Le Rose di Rimini nel quale si era barricato, in realtà sarebbe stato ucciso. La ricostruzione si basa sulle indagini del legale e sulla nuova perizia di parte del professor Francesco Maria Avato. Pantani avrebbe ricevuto la visita di uno o più uomini che dopo un diverbio lo avrebbero aggredito e immobilizzato, costringendolo a bere un cocktail letale di acqua e cocaina. Per Fortuni, però, il Pirata è morto da solo e in preda ad allucinazioni. «Nessuno parla degli scritti deliranti di Pantani che furono ritrovati nel residence - le sue parole - prova certa del suo delirio e in alcun modo causabili da un overdose "omicidiaria" ma solo da un uso continuo e crescente della cocaina». Il riferimento è a quanto scritto dal campione nelle sue ultime ore. Pensieri affidati a fogli e quaderni, ma anche scritti sul muri del bagno del bilocale riminese. Si va da accuse inquietanti, cariche di astio («Hanno voluto colpire solo me», forse un riferimento alla vicenda del doping) alle composizioni nonsense («Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata». E ancora: «Con tutti Marte e Venere segnano per sentire»). Prove certe di un «delirio da cocaina», per il perito della Procura. Eppure molti amici di Marco sostengono che anche quando era lucido il campione scrivera poesiole e pensieri dello stesso tipo. La madre, la signora Tonina, conserva ancora fogli e quaderni con quelle strane poesie. L’altro elemento sottolineato nella prima perizia è la morte sopraggiunta dopo l’assunzione prolungata di droga, circostanza che si scontra con l’ingestione coatta, in un solo atto. Nell’organismo c’era una quantità sei volte superiore a quella considerata la dose letale minima, ma nel sangue «periferico» la concentrazione era addirittura tredici volte più alta, mentre l’esame del midollo ha mostrato una compatibilità con un uso cronico della sostanza. Il tutto in un quadro in cui omissioni e incongruenze sono superiori alle certezze.
Morte Pantani, professor Avato: “Provinciale l’approccio alle indagini”. "Ogni ricostruzione di un delitto dovrebbe partire dalla medicina legale" afferma il professor Francesco Maria Avato sul caso Pantani. La sua perizia ha contribuito all'indagine sulla morte del Pirata. "Un cold case è sempre il segno di una primitiva sconfitta", scrive Alessandro Mastroluca su “Fan Page”. Pantani è stato costretto ad assumere un enorme quantitativo di droga. È questa la conclusione principale della nuova perizia medica completata dal professor Francesco Maria Avato, incaricato dalla famiglia del Pirata e dall’avvocato De Rensis. Il suo esame, insieme ai risultati delle prime indagini di De Rensis, ha convinto Paolo Giovagnoli a riaprire il caso per omicidio. Avato, coordinatore della sezione di Medicina Legale e delle Assicurazioni dell’Università di Ferrara, ha eseguito la prima autopsia sul corpo di Denis Bergamini, il “calciatore suicidato”. È il perito incaricato dalla difesa di Alberto Stasi, accusato di aver ucciso la fidanzata, Chiara Poggi, a Garlasco. Nel febbraio 2011, poi, insieme a Giuseppe Micieli della Neurologia dell’Università di Pavia e a Francesco Montorsi dell’Urologia del San Raffaele di Milano, incontra Bernardo Provenzano, per valutarne i problemi di salute che lo avevano indotto a chiedere il permesso di poter uscire dal supercarcere di Novara. Il suo esame sul corpo di Pantani si è basato sull’autopsia del professor Fortuni e sull’analisi di quasi 200 foto a colori e del video della Scientifica, ed è giunto a conclusioni diverse dal primo esame autoptico effettuato quasi 2 giorni dopo il ritrovamento del cadavere. Avato accerta la presenza nel corpo di un quantitativo di cocaina sei volte superiore alla dose letale. La droga, ci spiega il professor Avato che abbiamo raggiunto telefonicamente, “era in quantità tale da lasciar intuire un’assunzione in forme diverse da quella classica. Il conteggio però è complicato, eviterei le semplificazioni”, aggiunge. “Se poi l’abbia bevuta disciolta nell’acqua o l’abbia mangiata, attiene alla ricostruzione di competenza dell’autorità giudiziaria”. Fatto sta che nella stanza D5 del residence Le Rose c’erano molliche di pane rigurgitate, con presenza di polvere bianca, e una bottiglietta d’acqua mai esaminata dalla scientifica. Avato sposta l’ora della morte tra le 10.45 e le 11.45 della mattina di San Valentino del 2004 e conclude che il cadavere sia stato spostato, probabilmente nel pomeriggio, perché anche nel video della polizia si notano segni di trascinamento spiegabili solo se il sangue fuoruscito non si era ancora rappreso. “Il corpo era poggiato sul fianco sinistro” sottolinea Avato, “con la parte destra più alta. Rimanendo così per molte ore, a causa dell’emorragia il sangue sarebbe defluito maggiormente nel polmone sinistro”. Invece è il destro a pesare di più, circa 200 grammi. Come nel caso della morte di Denis Bergamini, anche la gestione delle prime ore dopo il ritrovamento del cadavere “aprirebbe un discorso davvero molto ampio sulle indagini investigative, sulle modalità di approccio al delitto che definirei un po’ ‘provinciale‘” spiega Avato. “La medicina legale dovrebbe essere la genitrice prima di ogni ricostruzione. Noi avevamo un sistema di indagine che è stato un modello per tutto il mondo, ma l’abbiamo trascurato e abbiamo sviluppato un approccio inglese, alla Scotland Yard, che è antico”. Ogni vicenda delittuosa, prosegue Avato, “ogni episodio che richieda competenze medico-legali è sempre diverso”. Nelle inchieste sulla morte di Bergamini e di Pantani, tuttavia, c’è uno schema ricorrente: un’indagine frettolosa, una tesi accettata dal primo momento come vera, sopralluoghi tutt’altro che da manuale sulla scena. “Qui si tratterebbe di considerare dall’inizio tutti i passaggi, le decisioni che hanno portato alla formulazione iniziale. Il punto sostanziale è che le competenze richieste in situazioni del genere devono sempre essere intese come competenze di altissimo livello”. Ma così non è stato, come dimostra lo stesso video della Scientifica in cui si vedono addetti che perlustrano la stanza senza protezioni, senza guanti e non prendono le impronte digitali. Per questo, conclude Avato, “il cold case non va inteso come un’occasione per mettere in rilievo le capacità tecniche. Possiamo discutere se l’insufficienza originaria dipenda da un’impostazione organizzativa o da altre cause. Ma la riapertura di un cold case è sempre il marchio di una primitiva sconfitta”.
Marco Pantani non aveva più controllo sul
proprio patrimonio economico e immobiliare, scrive “Il
Tempo”. È quanto filtra da ambienti investigativi di polizia, secondo cui il
Pirata di fatto aveva un vitalizio che gestiva con la carta di credito
trovatagli nel portafoglio messo sotto sequestro l'altro ieri, come tutta la
stanza del residence Le Rose dove ha trovato la morte nel giorno di San
Valentino. Questo spiegherebbe anche i rapporti tesi con la famiglia, di cui si
è parlato nelle ultime ore, e l' allontanamento del campione da Cesenatico, dove
non si faceva vedere da parecchio tempo. Non ci sarebbero però accuse ai parenti
fra i biglietti trovati nella stanza del residence, affermano fonti
investigative. Le stesse fonti smentiscono categoricamente le indiscrezioni sul
contenuto dei foglietti riportate da alcuni giornali, in realtà una sorta di
testamento di una persona molto provata psicologicamente che si è sfogata
devastando la camera dell'albergo dove aveva preso alloggio e affidando i propri
pensieri a parole e frasi sconnesse, non riconducibili una all'altra, di
interpretazione impossibile. L'unico riferimento al mondo del ciclismo che
Pantani avrebbe fatto su un pezzo di carta dell'albergo è quello alla sua
bicicletta, una sconclusionata dichiarazione d'amore. Il ciclista nella sua
carriera aveva accumulato una fortuna: si parla di sei milioni di euro che erano
stati investiti in varie società, soprattutto immobiliari a Cesenatico e in
Romagna. Di queste società il campionissimo risultava essere l'amministratore
unico. Amministratore unico insieme al padre Ferdinando. Questo già nel 2003, e
forse da prima. Dopo il ciclone Marco continuava a seguire le vicende delle sue
aziende partecipando alle assemblee ordinarie. Lo testimonierebbe, ad esempio,
il verbale dell'assemblea della società immobiliare «Sotero» del 30 maggio 2003
che aveva come ordine del giorno la presentazione del bilancio 2002.
All'incontro erano presenti Marco Pantani e Ferdinando Pantani in qualità di
amministratore unico. La precaria situazione psicofisica del figlio aveva spinto
il genitore a subentrargli nelle vicende finanziarie. Marco avrebbe reagito
male. In un momento delicato della sua vita, segnata dalla fine della carriera
sportiva, dallo scandalo mal digerito e dall'accentuarsi dei problemi
psicologici, forse l'ingerenza del padre è suonata come una prova ulteriore del
suo fallimento. È anche vero che negli ultimi tempi la deresponsabilizzazione di
Marco era diventata un fardello pesante.
Vita notturna sfrenata, serate in discoteca che si prolungavano fino all'alba,
amicizie discutibili. Quelle vecchie che appartenevano a un mondo passato,
cancellate. «Non mi cercate più» aveva detto a tutti quelli che avevano cercato
di ributtarlo nel mondo delle due ruote. Poi quel lungo viaggio a Cuba in
novembre. Una fuga, la precisa volontà di allontanarsi dalla famiglia, da casa.
La rottura coi genitori, nella quale ha un peso determinante anche la molla
economica, sembrerebbe pure il motivo per cui Pantani a un certo punto era
andato a vivere nella casa di un amico a Predappio. Michel, l'amico che lo ha
ospitato e che non ha nulla a che fare con il mondo del ciclismo, in questo
momento è chiuso nel suo dolore e non vuole parlare. Sembra però che durante un
colloquio informale si sia lasciato andare affermando che nella scelta di Marco
di allontanarsi dalla famiglia c'era pure il suo zampino.
La morte di Pantani è iniziata a Campiglio, scrive Xavier Jacobelli su “La Provincia di Varese”. Marco era un ragazzo generoso, trasparente. Gli hanno teso un tranello perché dava fastidio. La gente era tutta per lui e per il ciclismo; il calcio e la Formula Uno perdevano seguito e milioni di euro: per questo lo hanno fatto fuori». Col du Galibier, 2.301 metri di altitudine, Alta Savoia, Francia, 19 giugno 2011. Paolo Pantani ha gli occhi lucidi. Come Tonina, sua moglie. Lui e lei hanno appena assistito all’inaugurazione del monumento dedicato a Marco, voluto con tutte le proprie forze da Sergio Piumetto, piemontese di Cherasco trapiantato a Les Deux Alpes dove il 27 luglio 1998 il Pirata firmò una delle imprese più memorabili della sua straordinaria carriera. Quella che lo lanciò al trionfo nel Tour, due mesi dopo avere vinto il Giro. Quel giorno di giugno sono sul Galibier, accanto a Paolo e a Tonina. Dirigo quotidiano.net, l’edizione on line dei giornali della Poligrafici Editoriale (Il Resto del Carlino, La Nazione, il Giorno, Quotidiano Nazionale). Piumetto era venuto a trovarmi un anno prima, a Bologna, per raccontarmi il suo sogno. Erigere un monumento al Pirata lassù, sulle montagne francesi. E siccome chi sogna non si arrende mai, sino a quando la vita che s’immagina diventa realtà, noi di quotidiano.net avevano deciso di accompagnare passo dopo passo la costruzione di quel sogno. Le parole di Paolo Pantani mi sono tornate alla memoria in queste ore in cui ha fatto il giro del mondo la notizia della riapertura delle indagini sulla fine di Marco, trovato morto nel bilocale D5 del residence Le Rose di Rimini. L’ipotesi di reato è: «omicidio e alterazione di cadavere e dei luoghi». La magistratura si è mossa dopo avere ricevuto l’esposto dall’avvocato Antonio De Rensis, legale dei Pantani. Né Paolo né Tonina hanno mai accettato la tesi che Marco fosse morto per overdose lui spontaneamente assunta. Mai. Ecco perché, adesso, Tonina ripete le parole che aveva pronunciato quel giorno sul Galibier, che i due genitori hanno pronunciato sempre da quando Marco se n’è andato: «Da una parte sono contenta, finalmente non sto più urlando al vento. Ma dentro di me c’è anche rabbia, rabbia e ancora rabbia: perché tutto questo tempo? Perché nel 2004 diverse cose non erano al loro posto e nessuno ha fatto nulla per darmi delle risposte?». Tonina e Paolo hanno sempre difeso strenuamente la memoria di Marco. E lo avevano sempre difeso anche prima della notte di San Valentino in cui se ne andò. Lo avevano difeso dalle accuse di doping, lui che non era mai stato positivo a un controllo; avevano chiesto invano di sapere che cosa fosse esattamente successo a Campiglio, quando il 5 giugno del ’99, mentre stava vincendo il Giro, venne squalificato per un valore dell’ematocrito alterato di un punto. Ai cialtroni e ai mentecatti che da quel giorno hanno sputato solo veleno addosso a Marco, spingendolo nel tunnel senza ritorno della depressione, bisogna ricordare le parole del campione: «Ero già stato controllato due volte, avevo già la maglia rosa e il mio ematocrito era del 46 per cento. Ora invece mi sveglio con questa sorpresa: c’è qualcosa di strano». Pantani lascia Madonna di Campiglio alle 13.05. A Imola, nel pomeriggio, si sottopone a un esame del sangue in un laboratorio accreditato dall’Uci: nei due test il suo ematocrito risulta pari a 47,8 e 48,1. Regolare. Ma dal Giro l’hanno fatto fuori per sempre. La mattina di Campiglio un giornale aveva titolato: Marco pedala nella leggenda. Il giorno dopo l’ha scaricato come un pacco postale. Paolo e Tonina non hanno mai dimenticato. Ora hanno il diritto di sapere la verità anche su Campiglio. Mentre le jene sono andate a nascondersi.
Pantani, un uomo sempre solo quando vinceva e quando sbandava. Non era un angelo né un diavolo: arrivava da un ciclismo antico, parlava una lingua diversa, sulla canna della sua bici c’era l’Italia. Dieci anni fa la morte misteriosa, scrive Gianni Mura su “La Repubblica”. Dieci anni, di già. Ma siete ancora qui a esaltare un drogato? Oppure: ma non avete ancora capito che era l’agnello sacrificale? Dieci anni dopo la morte, Marco Pantani continua a dividere, come dieci giorni dopo. Solo quando correva e vinceva tutti lo sentivano loro. Io non mi riconosco in nessuna delle due fazioni, quella del diavolo e quella dell’angelo. Troppo estreme, in un certo senso troppo comode. Sarebbe meglio conciliare: anche i diavoli hanno slanci positivi, anche gli angeli non resistono alle tentazioni. E, comunque, Pantani era un uomo. Un uomo solo al comando quando staccava tutti in salita. Un uomo solo allo sbando dopo Madonna di Campiglio. La lunga, sofferta discesa in fondo alla quale non sapeva più distinguere gli amici veri dai finti, quelli che si preoccupano della tua infelicità e quelli che la rivestono di polveri bianche e donne a pagamento. Mi riconosco pure in un libro appena uscito: «Pantani era un dio». L’ha scritto Marco Pastonesi, collega della Gazzetta che ha per primo amore il rugby ma che nel ciclismo tiene bene la ruota dei grandi suiveurs sui fogli rosa. È uno che sa osservare e sa ascoltare, Pastonesi. E anche onesto. Prime righe della prefazione: «Pantani non era uno dei miei. Nessun campione, nessun capitano, nessun vincitore né vincente né vittorioso è uno dei miei. I miei sono i corridori che, da professionisti, non ne hanno vinta neanche una». Dunque non Pantani. In questi dieci anni sono usciti molti libri sulla vita e la morte di Pantani, scritti da giornalisti italiani e stranieri, dalla manager, dalla madre Tonina. Più un film per la tv e un lungo, doloroso e umanissimo spettacolo del Teatro delle Albe di Ravenna (romagnoli come lui) e una decina di canzoni, dai Nomadi ai Litfiba, da Lolli agli Stadio. Più le processioni: sui blog, al cimitero di Cesenatico, sulle salite di Pantani. Quelle domestiche, l’amato Carpegna, il Centoforche, il Fumaiolo. Quelle più famose. Mortirolo, Alpe d’Huez, Galibier, Ventoux. Per come correva, posso dire che tutte le salite erano di Pantani. Erano il suo pascolo naturale, il suo mare verticale, erano croce e delizia. La croce era quella che chiamava agonia, la fatica più dura. La delizia era quel suo attaccarle stando in coda al gruppo e poi un po’ alla volta sorpassare tutti gli altri guardandoli in faccia. Lo faceva apposta, non era un caso. Non era un caso l’alleggerirsi in vista dell’attacco, era un segnale per gli avversari, un avvertimento, come il drin di un campanello: tra un po’ comincio a darci dentro, mi venga dietro chi può. Non a caso, ancora, Pastonesi dilata il quadro, dà voce a tutti i gregari di Pantani, a chi s’è allenato con lui e ha corso con lui, anzi per lui, perché la Mercatone Uno prevedeva un solo capitano, Pantani, e tutti gli altri al servizio della causa, Se vinceva lui, vincevano tutti. E se perdeva, tutti perdevano. Nella dilatazione del quadro ci sono i grandi ciclisti romagnoli del passato, e i grandi scalatori come Gaul, Bahamontes, Massignan. Come il primo dei grandi scalatori, René Pottier, vincitore del Tour 1906, che s’impiccò a una trave delle officine Peugeot il 25 gennaio del 1907. Delusione d’amore, dissero ai tempi. Nessun biglietto lasciato, un’altra morte misteriosa. Come quella di Pantani. Che ha due grandi punti interrogativi su due stanze d’albergo. Una è quella di Madonna di Campiglio, 5 giugno 1999, l’inizio della fine. Come mai, trattandosi di una visita annunciata, non a sorpresa, il sangue di Pantani presentava un ematocrito a 52? E cosa accadde veramente nella stanza D5 del residence Le Rose, a Rimini, la fine della fine? Un libro di Philippe Brunel dell’Equipe ha documentato quante smagliature e lacune ci fossero nell’inchiesta. I dubbi restano e quel residence non c’è più, è stato demolito in tempi brevi, sorprendenti per la burocrazia nostrana. I dubbi non restano in chi parla di Pantani solo come di un drogato, in bici e giù dalla bici, o solo come di un angelo innocente tirato giù dal cielo. Rivivere quegli anni, tra la fine degli ’80 e poco oltre il 2000, è come seguire le piste dell’Epo. Pantani ne ha fatto uso? Sì, come tutti. In che misura? Pastonesi cita livelli alquanto alti. Avrebbe vinto ugualmente? Sì, a parità di carburante. Ma, a Pantani morto, è saltato fuori che su qualcuno (Armstrong) l’Uci teneva aperto un larghissimo ombrello. Per onestà, come Pastonesi ha scritto che Pantani non era uno dei suoi, devo scrivere che Pantani è stato uno dei miei. Perché, come i vecchi ciclisti, in corsa faceva di testa sua, non usava il cardiofrequenzimetro e quando s’allenava dalle sue parti beveva alle fontane e mangiava pane e pecorino. Perché, più ancora delle vittorie, ricordo l’attesa delle vittorie, o comunque dell’attacco in salita. E l’entusiasmo della gente, come un ascensore sonoro fra tornante e tornante. E l’Italia sulla canna di quella bicicletta, e i francesi che s’incazzavano, ma neanche tanto. Perché gli piaceva ascoltare Charlie Parker. Perché dipingeva. Perché era piccolino. Perché parlava una lingua diversa. Pontani (Aligi, quasi un omonimo) mi chiamò dalla redazione quel 14 febbraio 2004. Ero in ferie, stavo cenando a Firenze. È morto Pantani. Non si sa di preciso, in un residence. Serve un coccodrillo, di corsa. Taxi, albergo, speciale Tg, dettare. Trovo ancora lettori che mi dicono che quel pezzo a caldo, in morte di Pantani, è tra i più belli che ho scritto. Non avrei mai voluto scriverlo e non l’ho scritto, è venuto fuori così. Come aprire un rubinetto, o una vena.
Pantani, dopo quella morte speculazione infinita, scrive Eugenio Capodacqua su “La Repubblica”. Avevo fatto un patto con me stesso, in nome dell’amicizia che mi ha legato per breve tempo a Marco Pantani, e cioè che non avrei più scritto un rigo su di lui e sulle sue tragiche vicende. Pur conoscendo la sua storia nei minimi particolari non ritenevo di dover puntualizzare fatti e situazioni; proprio per rispetto di un uomo che ha comunque pagato il prezzo più alto. Ma evidentemente non c ‘è pace sotto gli ulivi. E, con la riapertura d’ufficio dell’inchiesta sulla morte, riecco Pantani pronto ad essere di nuovo immolato sull’altare della cronaca. Quella più bieca e nera che allunga un triste velo di grigio sull’ immagine dell’uomo e dell’atleta, comunque rimasto profondamente nel cuore di molti appassionati e tifosi. Un atto dovuto da parte dei magistrati dopo l’esposto dei genitori e l’accurata perizia dell’avvocato di parte che ipotizza l’omicidio. Diciamo subito che se ci sono dubbi (e ce ne sono) sulle circostanze di questa tragedia è doveroso andare fino in fondo. Anche se il cammino delle indagini, a dieci anni di distanza dai fatti, risulta piuttosto difficile. Ma, più in generale, sembra arrivato il momento di fare un minimo di chiarezza. Per lunghissimi dieci anni l’informazione (specie la tv di stato) ha contribuito a mistificare un dramma che è e resta umano prima ancora che sportivo. Pantani trasformato in un eroe. Pantani campione, esempio da seguire e imitare. Pantani vittima di chissà quale complotto. Pantani “capro espiatorio” di una realtà che invece tutti conosciamo, purtroppo. E cioè la realtà di un ciclismo all’epoca stradopato che ha tradito la passione degli spettatori propinando uno “spettacolo” al di fuori e al di sopra di ogni umana credibilità. Pantani faceva sognare e del sogno in questa dannata società c’è fame come dell’aria, dell’acqua, del pane. Lui incarnava l’attacco, il successo, la botta vincente. Quello che tanti “travet” covano nell’intimo. Il “come” poco importava. Quanti erano in grado di capire, o volevano capire il “come”? E forse poco importa, adesso. Da questo punto di vista Pantani è stato un grande. Ha toccato nel più profondo l’animo degli appassionati. Ancorché alle prese con un problema esistenziale che tormenta spesso, troppo spesso, la vita di tanti protagonisti. Un problema che Madonna di Campiglio ha acuito e fatto esplodere. Mettendo in risalto tutta la fragilità dell’uomo, ma anche l’insensibilità, l’egoismo e l’ignoranza di qualcuno che gli è stato accanto. Vediamo di ragionare con un minimo di freddezza. Pantani è stato un eccellente ciclista. Un eccellente scalatore che, doping o meno, probabilmente avrebbe inebriato ugualmente le folle con le sue gesta in salita, con il suo carattere e la sua personalità. Perché comunque il ciclismo si fa e si esalta in salita. Ma che facesse come tutti gli altri lo ammette anche la stessa madre che – è comprensibile: è la mamma – continua una sua battaglia infinita. La capisco: la mia, di mamma, è andata fuori di testa alla morte del figlio 25enne in un incidente aereo di cui non si è mai data ragione. E comunque si vuole restituire dignità. Ma quale dignità? Quella del “così fan (hanno fatto) tutti”? Ben magra consolazione… Perché che facesse come tutti i ciclisti della sua epoca è ormai chiarissimo. E adesso, dopo l’indagine del Senato francese sul Tour 1998, è addirittura comprovato al di là di ogni sospetto. Niente da aggiungere. Niente da chiedere al mondo ipocrita del ciclismo. La dignità a Pantani la si restituisce non arzigogolando attorno a presunti complotti, ma spiegando come la vita possa mettere trappole mortali anche sulla strada degli uomini di più grande successo. Insegnando a diffidare della notorietà, della gloria effimera (un giorno sugli altari, il giorno dopo nella polvere); ad essere guardinghi e mai esagerati. La breve vita del Pirata è un paradigma dove c’è tutto: dall’esaltazione nel momento della gloria, alla più profonda depressione quando un mondo costruito con cura crolla davanti al test di Campiglio. Pantani come gli altri. Tanti altri. L’osservatore un minimo distaccato tocca con mano la profondità del baratro quando si finisce nei meandri della droga. Vede come sia facile scivolare, cadere definitivamente. Eppure cosa era è successo, in fondo, a Madonna di Campiglio? Nient’altro che quello che è successo a decine di altri corridori. Uno stop (di soli 15 giorni, neppure una squalifica…) per essere fuori dalle regole stabilite in quel momento. Scontata quella pena che all’epoca non aveva neppure il marchio del doping (“sospensione a tutela della salute”) tutto era finito. Ma paradossalmente è stata proprio la sensibilità particolarissima dell’uomo, la coscienza e il sentimento di vergogna per essere stato scoperto e messo a nudo, a perderlo. Non ha retto, dicono, e si è rifugiato nella droga, trascinato in un mondo che gli turbinava attorno da tempo. In un mondo di cinici si è comportato come l’ultimo dei romantici. Ciò che lo rende umano, umanissimo. Tutt’altro che un dio: umanissimo uomo. Per questo ancora più apprezzabile. Per questo, a me non danno fastidio le celebrazioni e i ricordi. Men che meno che si scavi per chiarire i dubbi sulla morte. Mi da fastidio il sentimento peloso che trasuda interesse economico attorno a tutta la vicenda. Mi da fastidio chi su quella morte ci ha guadagnato e continua a guadagnarci, speculando sull’emozione. Pantani è stato un business milionario da vivo e ancora di più da morto. I libri basati sulla sua tragica epopea sono andati a ruba. Al ritmo di 25-27 mila copie vendute. Fra il 2003 e il 2005, raggranellando cifre di gadget, dvd, bandane, donazioni, libri, poster, foto e tutto il merchandising connesso sono arrivato a calcolare quasi un milione di euro. Una cifra che si può tranquillamente moltiplicare per 3, per 5 arrivando ai nostri giorni. Chiaro che a questo mercato serva l’eroe. Anche se eroe non è. Pace all’anima sua. Il sistema che in qualche modo lo ha messo in un angolo, continua a succhiarne la linfa. Come? Raccontando la favola dell’eroe tragico. Della vittima predestinata. Del campione che suscita invidia e viene eliminato. Emozione, sentimento, partecipazione. Sul piano umano è tutto più che comprensibile, dopo la grande tragedia. Ma se vogliamo dare un esempio ai giovani non possiamo continuare a proporre tesi senza fondamento. Complotto? E chi mai avrebbe avuto interesse a complottare contro il Pirata? La Fiat perché lui aveva scelto la Citroen come sponsor? Ma, andiamo! Chi lo voleva in squadra ottenendo il rifiuto? E come si sarebbe realizzato il complotto? Corrompendo i medici prelevatori? Quello che si è letto negli anni e di recente appare chiaramente strumentale. E a mio avviso infondato. Oggi c’è di mezzo la giustizia ordinaria e un’indagine ufficiale, ma se ne sono viste e lette in passato… Soprattutto per assecondare la tesi della trappola. Qualcuno ha tirato fuori perfino la provetta di quel tragico prelievo ematico a Campiglio che sarebbe stata scaldata per alzare l’ematocrito. Ma – è addirittura banale – scaldando il sangue si scalda e aumenta di volume anche la parte liquida non solo quella corpuscolare e il rapporto in percentuale dell’ematocrito resta inalterato. Insostenibile scientificamente, eppure c’è chi ne ha fatto un elemento saliente della tesi complottistica. E poi: chi l’avrebbe scaldata? Il medico prelevatore? I medici dell’ospedale di Parma che nella serata di quel 5 giugno 1999 hanno ripetuto i test su ordine del pm di Trento Giardina trovando gli stessi valori dei medici Uci? Si può sostenere un’accusa così grave, che sfiora la calunnia, in modo così generico? Chi fa riferimento al complotto deve anche spiegare chi, come e dove può aver complottato. Per questo dico che sono solo speculazioni per suscitare emotività e vendere copie (o altro) al tifoso. Pantani era la gallina dalle uova d’oro per il ciclismo di quel tempo. E non solo. L’atleta che era riuscito a riportare milioni di tifosi sulle strade del Giro e con loro gli sponsor, cioè il potere economico. Cioè il dio denaro. Tanto e disponibile per tanti. Su Campiglio ha indagato la Procura di Trento. Il verdetto è stato univoco: nessuna truffa, nessuna sostituzione di provette (il sangue era di Pantani, come hanno provato i test del DNA), nessun complotto, nessuna manomissione. Resta solo l’ombra delle scommesse. Ma le indagini fin qui fatte non hanno portato a nulla. E ad anni di distanza il nome di quell’ “amico” di Vallanzasca che gli avrebbe consigliato di non scommettere su Pantani perché non sarebbe arrivato a Milano nonostante la maglia rosa sulle spalle e la classifica ormai blindata dai risultati, ancora non viene fuori. Su Pantani si specula. Come definire altrimenti il sottolineare l’irregolarità della procedura punto centrale in una delle ultime pubblicazioni? La provetta sarebbe stata scelta da uno dei medici prelevatori e non dall’atleta come vuole il regolamento. Un vizio di forma ininfluente ai fini del test. A meno di non chiamare in causa la stessa ditta produttrice delle provette, che sono sigillate e sottovuoto. Tutte. E anche qui senza prove si sfiora la calunnia. Ma a cosa può servire tirare fuori un vizio di forma di fronte al quale oggi non si può fare nulla se non instillare senza motivo il dubbio generico che qualcosa di irregolare sia accaduto? Facile rispondere: è una mossa furba per accalappiare ancora di più il tifoso. Ma dire, 14 anni dopo, che si sarebbe potuto fare ricorso contro le modalità di quel test, non toglie nulla alla realtà storica: l’ematocrito fuori norma per le regole del tempo. Controllato otto volte sul sangue del Pirata. Valori fiori norma. Non per la prima volta, come del resto provano i dati emersi nel processo Conconi alle cui cure Pantani si era affidato già dal ‘94. E baggianate come “il prelevatore ha messo la provetta in tasca alzando la temperatura, ecc. ecc.” dicono sopratutto dell’ignoranza se non della malafede di chi sostiene tale ridicola tesi. Basta pensare alla temperatura corporea: 38 gradi circa. Ci sono 38 gradi in una tasca? Difficile. Dunque caso mai la provetta si sarà raffreddata non riscaldata. Ma tant’è. Lo dico chiaro: queste “spiegazioni postume” non mi convincono. Come quella che la macchina da analisi (Coulter Act) avrebbe “visto” un ematocrito alto per via del raggrumarsi delle piastrine. Ma gli esperti sono chiarissimi: “E’ impossibile – sostiene Benedetto Ronci ematologo di fama dell’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma, consulente dei pm nella inchieste doping più clamorose – anche se le piastrine hanno tendenza ad aggregarsi non incidono sul volume corpuscolare; non possono modificare in alcun modo l’ematocrito”. Piuttosto al medico che avrebbe fatto l’ematocrito a tutta la squadra in quei giorni andrebbe posta una semplice domanda. Perché? Si sa che con lo sforzo prolungato per settimane l’ematocrito cala. Che bisogno c’era di controllare? Altro discorso è la morte nel residence. Ma qui la scelta è ancora più netta. O si sposa la tesi dell’esagerata ingestione di cocaina (sette volte la dose mortale), overdose accidentale, come dice il referto di morte e dunque si spiega così il delirio la gran baraonda trovata in quella tristissima camera n.5 del Residence Le Rose, che è poi la tesi ufficiale di chi ha indagato. Oppure si allineano una serie di elementi di dubbio. Particolari incerti che dall’ora della morte, al cibo cinese (odiato dal Pirata), trovato in camera, alle ferite sul corpo, ai boxer che farebbero sospettare un trascinamento, al particolare del cuore portato via dal medico che eseguì l’autopsia timoroso che venisse rubato (da chi?); alimentano dubbi concreti. Cui dovrà rispondere l’indagine. Si continua a confondere il piano umano che merita il massimo della comprensione per una morte assurda con quello sportivo sfruttando la mozione degli affetti. Cosa dobbiamo fare? Giustificare tutto in nome della tragedia? E cosa raccontiamo ai nostri figli? Segui quell’esempio e sarai felice?
Protagonisti e comparse. Ecco il dizionario del mistero Pantani. Chi poteva volere morto il campione? L'inchiesta della Procura di Rimini parte da nomi e ruoli dei personaggi dell'affaire, scrive Pier Augusto Stagi su “Il Giornale”. «Pantani è stato ucciso». Questo è il titolo del «romanzo noir» di questa estate italiana poco assolata e calda. A gridarlo da anni mamma Tonina. A raccogliere il suo grido di dolore e le prove per presentare un fascicolo presso la Procura di Rimini che ha competenza sull'accaduto è l'avvocato De Rensis. La richiesta: riaprire il caso sulla base dei molti fatti nuovi contenuti nelle pagine (120) dell'istanza. Un romanzo che ha una storia buia, molti protagonisti e qualche comparsa. Ecco un dizionario per orientarsi, mentre la Procura rinvia a settembre la decisione su chi assegnare la delega a indagare, carabinieri o polizia.
A come avvocato. Antonio De Rensis è l'avvocato della famiglia Pantani, che in nove mesi di lavoro ha raccolto una serie impressionante di contraddizioni e anomalie. È a lui che si deve l'esposto per la riapertura del caso.
D come dubbi. Il lavoro del professor Avato si discosta di molto dalle conclusioni prospettate all'epoca dal collega Giuseppe Fortuni, che aveva eseguito l'autopsia su incarico della Procura. Quali sono i rilievi di Avato? Molti. A partire dall'ora della morte: posizionata tra le 10.45 e le 11.45. La quantità di droga trovata su Pantani equivarrebbe a diverse decine di grammi, tale da essere paragonabile ai pacchetti ingeriti dai corrieri per eludere i controlli. Impossibile per qualunque persona mangiare o inalare una dose simile. L'unico modo per farlo è diluirla nell'acqua e farla bere a forza (la bottiglia trovata nella stanza, non viene nemmeno analizzata). Le numerose ferite sul corpo di Pantani sono compatibili con opera di terzi, con evidenti segni di trascinamento del cadavere. Il corpo di Pantani è poggiato sul fianco sinistro ma per Avato è il polmone destro a pesare 200 grammi di più: quindi, il corpo di Marco è stato spostato dalla posizione originaria della morte. E poi c'è la stanza, con il suo «disordine ordinato». L'ipotesi è fin troppo chiara: far passare Pantani in preda al delirio per celare altro. Nessuna impronta fu presa e non sarà più possibile farlo neppure 10 anni dopo.
E come esperto. Francesco Maria Avato è il perito di parte, il medico-legale (lo stesso che ha contribuito a far riaprire dopo 23 anni il caso Bergamini, il calciatore «suicidato») che ha fornito un contributo fondamentale per completare e avvalorare l'esposto preparato da De Rensis.
I come imputati. Dieci anni fa l'indagine sulla morte di Pantani viene svolta dal sostituto procuratore romagnolo Paolo Gengarelli, con la Squadra mobile di Rimini e la Polizia di Napoli. Tre mesi dopo la morte del Pirata, il 14 maggio 2004 vengono arrestati Fabio Miradossa (il fornitore napoletano di cocaina del romagnolo già dal dicembre 2003), Elena Korovina (la cubista russa che ebbe una relazione con il corridore), Fabio Carlino (leccese, titolare di un'agenzia di immagine) e Ciro Veneruso (il corriere napoletano che portò la dose letale a Pantani). Viene rinviato a giudizio anche il barista peruviano Alfonso Ramirez Cueva. Il processo di primo grado inizia il 12 aprile 2005 davanti al Gup di Rimini. Vengono in seguito accettati i patteggiamenti di Miradossa (4 anni e 10 mesi) e di Veneruso (3 anni e 10 mesi) e Cueva (1 anno e 11 mesi). Gli altri accettano di affrontare il dibattimento. La russa viene assolta. Fabio Carlino viene condannato in primo grado e in appello, ma poi prosciolto in Cassazione.
M come manager. Manuela Ronchi è la manager del campione romagnolo. La sua è una figura non marginale in tutta questa vicenda, anche perché è una delle ultime a vedere Marco vivo. Doveva andare a sciare con suo marito, per questo Marco passa il 26 gennaio da Cesenatico per prendere tre giacconi che porta su a Milano. Il 31 gennaio Marco ha una lite con la manager davanti agli occhi di mamma Tonina e papà Paolo, chiamati per l'occasione dalla Ronchi. Il 9 febbrario Marco decide di andare a Rimini. La Ronchi gli fa recapitare una «sportina» di effetti personali (non ha valige) ad un hotel in piazza della Repubblica. Marco qualche giorno dopo parte per Rimini. Uno dei grandi misteri di questa vicenda è: come ci sono arrivati i tre giubbotti al residence Le Rose?
P come procuratore. Paolo Giovagnoli è il procuratore capo di Rimini al quale è stato consegnato il fascicolo, il quale a sua volta l'ha assegnato ad Elisa Milocco, giovane sostituto procuratore, arrivato a Rimini da pochi mesi. Toccherà a lei far sul luce su quella sera del 14 febbraio 2004.
Pantani, il legale accusa: "Inchiesta piena di buchi". Nove mesi di indagini private e una perizia medica hanno messo in forse la tesi del suicidio. L'avvocato di famiglia contro il pm che archiviò: "Troppi silenzi", scrive Pier Augusto Stagi su “Il Giornale”. Quando facciamo suonare il suo cellulare l'avvocato Antonio De Rensis è alla buca 18. Cerca, dopo mesi duri e difficili, di rilassarsi un po', di liberare la mente dalle tossine accumulate durante la preparazione di un'indagine difensiva molto delicata. «In verità forse mi conveniva restare a casa, perché sono riuscito a giocare pochissimo». Per dirla con un linguaggio molto caro al nostro presidente del Consiglio, l'avvocato De Rensis per certi versi assomiglia a un «rottamatore»: non vuole mandare a casa nessuno ma smontare teorie e ricostruzioni fatte dieci anni fa, quello sì. E grazie ai suoi nove mesi di lavoro, di indagini e alla perizia di parte effettuata dal medico-legale, il professor Francesco Maria Avato, la ricostruzione originaria sulla fine tragica di Marco Pantani è stata smontata pezzo per pezzo. Ci vorranno mesi, per arrivare ad una nuova fase di questa storia che in dieci anni non ha finora trovato la vera parola fine. E una verità. Al momento il bandolo della matassa è nelle mani del procuratore Capo di Rimini Paolo Giovagnoli e in quelle della pm Elisa Milocco. «È esattamente così - spiega l'avvocato De Rensis -, ci vorranno mesi di lavoro, anche perché ovviamente sono tantissime le cose che la dottoressa Milocco dovrà esaminare. Bisognerà solo avere pazienza». Si parte dalle accuse di mamma Tonina, che non ha mai creduto al suicidio del figlio, ai nove mesi di indagini condotte dall'avvocato Rensis, trascorsi a recuperare carte e materiale di ogni tipo e studiandole successivamente con assoluta minuzia e passione. «Il tutto è concentrato in centodieci pagine, dense di dati e osservazioni», puntualizza il legale. Lui, però, non se la sente di stilare una graduatoria tra le tante incongruenze che nella sua inchiesta ha portato alla luce. «Mi creda, non voglio apparire per quello che vuole eludere ad una legittima curiosità o a una domanda, ma si fa fatica a dire quali di queste incongruenze possa essere più decisiva rispetto ad altre. Vedrà, sono e saranno tutte decisive perché concatenate l'una all'altra». Paolo Gengarelli, il pubblico ministero della prima inchiesta, non si è soffermato molto su questo nuovo capitolo della storia tragica di Marco Pantani, limitandosi a dire stizzito che «non sono abituato a commentare le notizie, come del resto dovrebbero fare in tanti». L'avvocato De Rensis, non esita a rispondergli: «Anche noi cerchiamo di parlare con i fatti. Anche noi cerchiamo di rispettare le indagini. Ma soprattutto noi vogliamo raccontare che all'epoca dei fatti non sono state prese le impronte digitali; che il video dei carabinieri dura 51 minuti mentre il girato è di due ore e cinquantasei minuti e via elencando. Non mi sembra di parlare di atti dell'indagine. Mi sembra solo di evidenziare cosa è stato fatto o meglio, non è stato fatto all'epoca. Anche noi staremo zitti nel momento in cui si tratterà di affrontare le cose da fare, ma queste sono fatti accaduti in passato ed è giusto portarli alla luce. Se il silenzio è luminoso ha un senso, i silenzi con le ombre a me non piacciono neanche un po'». L'avvocato De Rensis è capace di attaccare, ma si dimostra abile anche in fase difensiva. Quando gli chi chiede se ha un'idea di chi abbia ucciso Marco, si chiude a riccio. «Se sia stata una persona o più persone che fanno sempre parte del giro dei pusher? Se si tratta di persone fuori da questi giri? La prego, non mi chieda nulla. Sui nomi non mi esprimo. Non posso e non voglio». Più morbido all'ultima domanda: ma se la pm Milocco, alla fine dovesse decidere di chiudere il tutto con un nulla di fatto, quale sarebbe la sua reazione. Si griderebbe al complotto? «È una eventualità che non voglio nemmeno prendere in considerazione. Ho grande fiducia nel procuratore Capo Paolo Giovagnoli e nella dottoressa Elisa Milocco. Il procuratore capo è un galantuomo e la dottoressa Milocco - che ho conosciuto da poco - mi ha dato l'idea di essere una persona molto rigorosa. Quindi...».
Pantani, l’avvocato di famiglia: «Leggendo le carte la strada s’illuminerà da sola», scrive “Giornalettismo”. Antonio De Renzis, legale della famiglia del Pirata, parla della perizia che potrebbe far emergere una nuova verità sulla morte del ciclista romagnolo. Intanto, il ristoratore che consegnò l'ultima cena ricorda: «Non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi». Ufficialmente per la giustizia italiana Marco Pantani, trovato morto in una stanza d’albergo il 14 febbraio del 2004, è deceduto «come conseguenza accidentale di overdose». Per la famiglia del campione romagnolo, invece, la verità è un altra. Il Pirata sarebbe stato ucciso da una o più persone che lo avrebbero raggiunto quella sera al Residence Le Rose di Rimini, forse dopo essere stato costretto a bere cocaina disciolta nell’acqua. A parlare dopo la riapertura del caso è innnanzitutto la mamma di Pantani, Tonina Belletti, che ha provveduto a presentare un esposto-denuncia per omicidio volontario in Procura. Ma ad esporsi è anche l’avvocato della famiglia del ciclista, Antonio De Renzis, che alle telecamere di Sky racconta oggi di «mancanze», «lacune», «incongruenze», «anomalie», «accertamenti non fatti», che avrebbero condizionato la prima inchiesta sulla morte del Pirata che risale a 10 anni fa e che fu chiusa a tempo di record, in soli 55 giorni. Il legale, descrivendo la segnalazione alla Procura, parla di «rilettura» di quegli «atti d’indagine e processuali» che avrebbero determinato una verità giudiziaria a suo parere lontana dalla realtà, di una rilettura che contiene «elementi che convergono e vanno in una direzione precisa» e opposta rispetto a quanto emerso finora. Secondo De Renzis, in sostanza, la tesi seguita poche ore dopo la scoperta del corpo di Pantani, e «mai più abbandonata», andrebbe dunque «assolutamente rivisitata», ed è possibile che fancendo luce sulle «mancanze» della prima inchiesta emergerà un’altra verità. «Le carte e il video parlano molto», ha detto l’avvocato parlando della «corposa e approfondita consulenza» (perizia medico-legale) realizzata da professor Francesco Maria Avato. E ha aggiunto: «Credo che leggendo bene le carte sia possibile colmare queste lacune», «la strada si illuminerà da sola». Molto chiara è stata la signora Tonina, la prima ad annunciare, su Facebook, la riapertura del caso Pantani. «Me l’hanno ammazzato. La mia sensazione, sin da subito, è che avesse scoperto qualcosa e gli abbiano tappato la bocca», ha dichiarato nei giorni scorsi la madre del Pirata. «Non vedo altre ragioni – ha spiegato a TgCom24 -. Non mi sono mai sbagliata su Marco. Così come non credo siano stati gli spacciatori». «Sono dieci anni – ha aggiunto – che lotto e non mollerò, fino alla fine. Voglio la verità, voglio sapere cosa è successo a mio figlio. Da subito ho detto che me l’hanno ammazzato e, infatti, me l’hanno ammazzato». La signora Tonina ha poi parlato anche di una richiesta di aiuto del Pirata nelle ultime ore di vita: «Ha chiamato i carabinieri, parlando di ‘persone che gli davano fastidio’». E infine: «Marco aveva pestato i piedi a qualcuno, perché lui quello che pensava diceva: parlava di doping, diceva che il doping esiste».
Morte di Marco Pantani, legale: “Realtà è molto diversa da quella ufficiale”. Per l'avvocato Antonio De Rensis le indagini che vennero condotte dieci anni fa "presentano lacune e contraddizioni". Il legale ha ottenuto la riapertura delle indagini da parte della procura di Rimini che indaga per "omicidio volontario a carico di ignoti". La tesi della famiglia e della difesa è che il campione non morì di overdose ma venne ucciso, scrive “Il Fatto Quotidiano”. La realtà che emerse dieci anni fa sulla morte di Marco Pantani è “molto diversa” da quello che è accaduto realmente la mattina del 14 febbraio 2004, nel bilocale del residence Le Rose di Rimini. Ne è convinto l’avvocato dei familiari del Pirata, Antonio De Rensis, che spinto dalla tenacia della madre del campione, Tonina, ha riletto e analizzato migliaia di pagine che compongono le indagini e il processo. Per il legale le conclusioni a cui gli inquirenti giunsero dieci anni fa sono piene di “lacune e contraddizioni”. Pantani non morì per un’overdose, ma venne ucciso da una o più persone che il campione romagnolo conosceva e a cui lui stesso aprì la porta. Nella stanza scoppiò una lite. Il Pirata ebbe la peggio. L’aggressore (o gli aggressori) fecero bere al ciclista una dose letale di cocaina diluita in acqua. In sostanza, gli investigatori condussero le indagini su una messa in scena. Quelle certezze sono state messe nero su bianco dall’avvocato De Rensis che ha presentato un esposto alla procura di Rimini. “Accolto”. Il fascicolo accantonato per dieci anni è stato riaperto per “omicidio volontario a carico di ignoti”. “Mi limito a dire – ha dichiarato all’Ansa il legale – che è già importante comprendere tutti che la realtà fattuale è molto diversa. E già questo è tanto, perché porta poi in direzioni molto precise. Intanto facciamo emergere le enormi lacune e contraddizioni, facciamo emergere ciò che si poteva comprendere facilmente all’epoca e poi partiamo tutti insieme da qui per arrivare a ristabilire una verità. È un’indagine nuova che si apre con una ipotesi di reato grave. Sarà un’indagine che durerà molto, perché comunque è complessa. Gli elementi che dovrà valutare la procura sono tantissimi, però il nostro intendimento è di evidenziare in modo chiaro che la verità ufficiale è piuttosto lontano da quella fattuale”. De Rensis, avvocato del foro di Bologna, è un legale abituato alle battaglie che legano lo sport alla giustizia: ha assistito Antonio Conte nella vicenda del calcio scommesse. Il lavoro dell’avvocato su carte e riscontri investigativi è suffragato dalla perizia medico scientifica del prof. Francesco Maria Avato, che con un suo lavoro aveva portato alla riapertura del caso di Denis Bergamini, il calciatore del Cosenza morto il 18 novembre 1989 a Roseto Capo Spulico (Cosenza). Un caso che per anni è stato considerato un suicidio poi è stato riaperto per omicidio. “Un lavoro faticoso e impegnativo – dice De Rensis – anche di rilettura. Gli atti non è stato nemmeno semplice acquisirli. Questi faldoni sono negli archivi, sono migliaia e migliaia di pagine che sono state analizzate, sezionate, studiate, confrontate. Poi il lavoro scientifico del prof. Avato, che si è andato a confrontare e intrecciare continuativamente con le analisi degli atti di indagine e processuali, a confronto reciproco e intreccio reciproco. Quindi le indagini difensive che sicuramente, seppure assolutamente riservate, hanno evidenziato elementi importantissimi”. “Io nutro un grande rispetto per la magistratura – precisa De Rensis – Noi abbiamo lavorato pensando che dovevamo aprire una pagina nuova sulla base di enormi lacune e enormi contraddizioni“. “Queste lacune e incongruenze per noi possono essere colmate – conclude – possono essere riviste e credo che questo sia un dovere morale, oltre che giudiziario, da parte di tutti. Dobbiamo lavorare insieme per riscrivere la pagina di quella dolorosissima vicenda il più possibile vicino alla realtà”. Un ricordo di Pantani lo offre in queste ore anche Oliver Laghi, il ristoratore di Rimini che in albergo consegnò al campione romagnolo la sua ultima cena, un’omelette di prosciutto e formaggio. Il Piarata appariva stanco , ma sereno. «Ricordo – ha detto Laghi al Corriere della Sera – come ieri il volto di Marco: stanco, le occhiaie profonde, la barba un po’ lunga, ma ho pensato che fosse colpa del viaggio e che una bella dormita avrebbe rimesso tutto a posto, tanto che prima di andarmene gli chiesi se potevo tornare il giorno dopo con mio figlio piccolo per un autografo e lui mi rispose con un sorriso timido e una pacca sulla spalla: ‘Va bene, a domani’». E ancora: «Il Marco con cui ho parlato quella sera non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi». Ora gli occhi sono tutti puntati sulla procura di Rimini che dovrà esprimersi sulla perizia del dottor Aveta (secondo la quale le ferite presenti sul corpo di Pantani «non sono autoprocurate, ma opera di terzi») e che dovrà esprimersi relativamente alla nuova ipotesi«omicidio con alterazione del cadavere e dei luoghi». Il lavoro spetta innanzitutto al pm Elisa Milocco, cui è stato affidato il fascicolo dell’indagine bis, e comincia senza che alcuna persona risulti indagata. Va ricordato che tre anni fa la corte di Cassazione aveva assolto il presunto pusher di Pantani, accusato di aver provocato la morte del campione vendendogli cocaina purissima, «perché il fatto non costituisce reato».
Il timer fissa la durata del girato in due ore e 56 minuti, ma ne restano solo 51. Caso Pantani, un buco di 125 minuti nel video della polizia scientifica. Per i pm cinque nuovi testimoni che potrebbero raccontare una verità diversa sulla morte del Pirata. Tutti i punti oscuri del caso, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Un «buco» di 125 minuti nel video della Polizia scientifica e almeno cinque nuovi testimoni che potrebbero raccontare una diversa verità sulla morte di Marco Pantani. Riparte da qui la nuova indagine avviata dalla procura di Rimini e si concentra su almeno sei anomalie denunciate dalla famiglia del «Pirata» con l’esposto presentato dall’avvocato Antonio De Rensis. Ricomincia da un’imputazione di omicidio volontario che non sarà facile dimostrare a oltre dieci anni di distanza da quel San Valentino che il ciclista trascorse nell’appartamento D5 del Residence «Le Rose». Anche perché la struttura alberghiera è stata completamente modificata, ma soprattutto perché l’ipotesi più probabile è che se davvero qualcuno è entrato in quel bilocale e ha picchiato Pantani, è possibile che lo abbia fatto per fargli pagare uno «sgarro», non per ucciderlo. E che la situazione gli sia poi sfuggita di mano. Il campione era un uomo disperato, preda dei suoi demoni e della sua totale dipendenza dalla droga. Ma - questo dicono alcune nuove testimonianze - non sembrava affatto «fuori di testa» come qualcuno ha voluto far credere. «L’ho trovato stanco ma lucido - ha raccontato Oliver Laghi, il ristoratore che la sera del 13 febbraio 2004 gli portò un’omelette al prosciutto e formaggio -, mi disse di tornare il giorno dopo con mio figlio che voleva l’autografo». Secondo l’inchiesta svolta dieci anni fa e chiusa avvalorando la tesi del suicidio, Laghi è stato l’ultimo a vedere Pantani vivo. Il procuratore Paolo Giovagnoli e il sostituto Elisa Milocco dovranno stabilire se è davvero così. Ma la convinzione è che qualcuno sia comunque entrato in quella stanza prima delle 20,30 del 14 febbraio, quando i soccorritori accertarono che per Pantani non c’era ormai più nulla da fare. Agli atti del processo contro i due spacciatori Fabio Miradossa e Ciro Veneruso - hanno patteggiato condanne rispettivamente a 4 anni e 10 mesi e 3 anni e 10 mesi - c’è un video girato dai poliziotti della Scientifica che comincia alle 22,45 del 14 febbraio e termina all’1.01 del 15 febbraio. Il timer fissa dunque la durata in due ore e 56 minuti ma il «girato» è di soli 51 minuti e termina prima dalla fine dell’ispezione. Chi ha effettuato i «tagli»? Perché ci sono dei «salti» tra una scena e l’altra? Eppure è proprio il filmato a fornire le tracce più evidenti di una ricostruzione diversa da quella ufficiale mostrando indizi evidenti per accreditare l’ipotesi che, almeno in un certo lasso di tempo di quel giorno, Pantani non sia stato da solo. Ma anche per dimostrare quelle che appaiono alcune «lacune» nelle indagini. L’avvocato della famiglia ha infatti denunciato come nel fascicolo processuale non risulta la rilevazione di alcuna impronta digitale durante il lungo sopralluogo. E questo nonostante ci fossero molti mobili spostati, alcuni rotti, un filo dell’antenna tv legato come un cappio e pendente dal soppalco, una confusione pressoché totale. Lo stesso filmato mostra svariate dosi di cocaina. Secondo quanto accertato al processo, Pantani aveva acquistato 20 grammi di droga. La nuova relazione medico-legale, firmata dal professor Francesco Maria Avato e basata sulla rilettura delle analisi effettuate dieci anni fa, assicura invece che Pantani aveva assunto cocaina in quantità sei volte maggiore di quanto una persona possa sopportare e altra sia rimasta inutilizzata. Proprio questo accredita l’ipotesi che qualcuno l’abbia portata durante la giornata. Nella denuncia si parla di «costrizione a bere cocaina sciolta nell’acqua», una circostanza difficile da dimostrare e che probabilmente costituirà uno dei punti più controversi della nuova inchiesta. Strano anche quanto accertato riguardo ai pasti consumati da Pantani. Secondo la versione ufficiale l’ultimo cibo ingerito è l’omelette portata da Laghi. Per l’autopsia Pantani ha invece fatto colazione, i resti vengono rinvenuti nello stomaco. I dipendenti del residence hanno sempre dichiarato che il Pirata non ha mai lasciato l’appartamento e che nessuno è entrato. E allora come ha fatto a procurarsela? In realtà rileggendo quanto verbalizzato all’epoca, il legale ha scoperto il racconto di un custode che ha spiegato come fino alle 21 fosse «possibile entrare passando dal garage». E dunque potrebbe essere proprio questa la strada percorsa da chi voleva incontrare il campione senza essere visto. E che potrebbe aver lasciato almeno due indizi: nel bilocale non c’era il frigobar, ma è stata trovata la carta di un cornetto Algida; Pantani era arrivato con un piccolissimo bagaglio, «una sporta», ma lì c’erano tre giubbotti pesanti. Un quadro indiziario nuovo, lo definiscono gli stessi inquirenti che prima di riaprire il fascicolo, sia pur come «atto dovuto», hanno avuto un lungo incontro con il legale della famiglia. E adesso dovranno concentrarsi sulla visione del filmato incrociata con la relazione medico-legale che evidenzia due punti: il corpo trascinato sulle tracce di sangue e dunque spostato dopo il decesso; lesioni ed ecchimosi incompatibili con l’autolesionismo, sia pure in una persona completamente stravolta dalla cocaina.
Caso Pantani, depistaggi e buchi nell'indagine. "Quando lo trovammo non c'era sangue". I racconti dei primi soccorritori contraddicono la perizia fatta all'epoca dal medico legale. E le testimonianze di chi lo vide nelle sue ultime ore si smentiscono a vicenda, scrivono Marco Mensurati e Matteo Pinci su “La Repubblica”. Testimonianze stridenti, perizie divergenti e protagonisti dimenticati s'intrecciano intorno alle ultime ore di vita di Marco Pantani. E con il passare dei giorni i dettagli inquietanti sembrano quasi sommarsi, alimentarsi uno con l'altro, accentuando i depistaggi, le lacune nella versione ufficiale, ma anche nei racconti di chi per primo intervenne sul corpo dell'atleta, fino a quelli dei testimoni della primissima ora. "Non c'erano tracce di sangue". Così lo raccontano i medici del 118, i primi a intervenire dopo la segnalazione del portiere del residence Le Rose. Eppure, i filmati della polizia dimostrano come Pantani sia stato trovato riverso a terra in una pozza di sangue, il viso una maschera rossa. La lettura dell'esame autoptico rivela poi anche una serie di ferite sul corpo, sulla fronte, sul naso, intorno al capo. Eppure, chi arriva per primo nella stanza D5 di viale Regina Elena, a Rimini, proprio non riesce a ricordarle: "Marco non aveva alcuna ferita sul viso". Incongruenze curiose, come le divergenze sulle macchie di sangue presenti nella stanza. Quegli schizzi secondo la perizia del professor Avato allegata alle indagini condotte dal legale della famiglia, Antonio De Rensis, non possono essere frutto della caduta. Non la pensava così però il dottor Fortuni, il medico legale che condusse l'autopsia, seppur 48 ore dopo il ritrovamento del corpo: volevano lui, anche a costo di doverlo aspettare due giorni. E pensare che Fortuni e Avato hanno sostenuto tesi opposte anche sul caso Aldrovandi, controverso almeno quanto la morte del Pirata: il primo consulente della difesa dei poliziotti sotto accusa, l'altro per la famiglia del giovane. Ma incollato come un'ombra al nome di Fortuni è rimasto soprattutto il dettaglio macabro del cuore del Pirata portato via dal laboratorio e custodito in casa per una notte, per evitare furti. Un pezzo del cuore del campione di Cesenatico che rappresentava "un corpo di reato, sotto la mia custodia in qualità di perito, che ovviamente non poteva andare né perso né distrutto". Procedura non inconsueta, eppure oggetto di attenzioni quasi morbose. Il cuore di un uomo farneticante: così almeno lo raccontavano le indagini dell'epoca. Un ritratto che nasce dalle dichiarazioni notturne di tre ragazzi, giovani, 27 anni appena: si presentano spontaneamente alle 23.30 della notte di San Valentino per consegnare la loro verità sul campione scomparso a un ispettore mentre nella stanza D5 del residence Le Rose si muovono ancora inquirenti al lavoro e civili, filmati impietosamente dall'occhio delle telecamere della polizia. Avevano incontrato Pantani, dicono, la sera prima, sul pianerottolo, intorno alle 22.15. Avevano impiegato un po' a riconoscerlo, poco curato, una barba sciatta. Lo avevano sentito dire cose surreali, lo avevano salutato con un generico "a domani", salvo sorprendersi nel sentirlo rispondere in dialetto "non so se ci sarà un domani per me". Visibilmente turbato, poco lucido e tragicamente inquieto, quasi consapevole del proprio destino irreversibile. Testimonianza ritenuta credibile al punto da essere inserita nella consulenza medico legale. Quella testimonianza diventa l'elemento per dare coerenza alla tesi di un Pantani in preda al delirio, quello che avrebbe potuto demolire la stanza del residence o barricarsi in camera e drogarsi fino a morire. Apparentemente affermazioni utili a raccontare lo sviluppo delle ultime ore del campione caduto. Eppure, nessuno sentirà la necessità di ascoltarli ancora: né durante le indagini, né durante il procedimento giudiziario. Curioso, almeno. Viene da chiedersi perché, al contrario, durante la pur fugace indagine non sia venuto in mente a nessuno di ascoltare se avesse qualcosa dire l'ultima persona che, con certezza, ebbe occasione di incontrare Pantani vivo. Eppure era proprio lì, a pochi metri dalle stanze ormai demolite e rivoluzionate del Le Rose. Oliver Laghi è il ristoratore a cui viene ordinata l'ultima cena del Pirata, un'omelette prosciutto e formaggio, qualche succo di frutta che prende dal concierge dove scopre che il cliente da servire, stavolta, è il suo idolo. Tra le 21 e le 21.30, Pantani gli apre la porta: se qualcuno lo avesse sentito all'epoca, Laghi avrebbe detto quello che dice soltanto ora. "Non aveva la faccia di chi voleva suicidarsi", dice. Racconta che emozionato per quell'incontro inatteso gli chiese di poter tornare con il figlio, che sarebbe impazzito per un suo autografo. Marco gli diede una pacca sulla spalla e rispose "va bene, ci vediamo domani". L'esatto opposto di quello che solo un'ora dopo, un Pantani sconvolto e delirante avrebbe detto ai tre ragazzi. Almeno stridente, se non inquietante. In un'ora scarsa, Pantani avrebbe dovuto mangiare la cena ricevuta per poi imbottirsi di cocaina e uscire dalla stanza per apparire instabile, in preda a manie persecutorie, perso in discorsi surreali ai giovani che lo incontrano sul pianerottolo. Rimini parla, racconta, aspetta. La pm Elisa Milocco dalle vacanze genovesi inizia a cercare risposte.
Pantani, il giallo dei pusher. Contatti frenetici al telefono mentre Marco era già morto. L'indagine per omicidio: cellulari impazziti tra le 13 e le 20. Il gelo del magistrato che archiviò: per me parlano gli atti. Si riparte da zero: il fascicolo affidato a una giovane pm, l'ultima arrivata nella procura. Dall'esame dei tabulati l'ultimo mistero sulla fine del Pirata nel motel Le Rose di Rimini.Il legale della famiglia: "Possibile colmare le lacune", scrivono Marco Mensurati e Matteo Pinci su “La Repubblica”. La nuova indagine sulla morte del Pirata ripartirà da una serie di tabulati telefonici. Numeri che si incrociano in maniera convulsa nelle ore immediatamente successive all'omicidio di Marco Pantani, in quel tragico pomeriggio del 14 febbraio 2004, e che disegnano una strana, fittissima triangolazione tra Fabio Miradossa, Ciro Veneruso - vale a dire il fornitore e lo spacciatore del ciclista (successivamente per questo condannati) - e altri numeri per il momento non meglio identificati. Cosa c'era all'origine di quel febbrile giro di chiamate rimbalzato nell'etere tra le 13 e le 20 di quel giorno? Chi sapeva cosa? Per quale motivo, di punto in bianco, due "pesci piccoli" dello spaccio in Riviera cominciano ad agitarsi in maniera scomposta? Ci vorranno mesi per saperlo. Le indagini penali, si sa, hanno tempi lunghi, specialmente quando diventano tecniche. Ma ormai la macchina si è messa in moto, e comunque vada, alla fine, una risposta definitiva sulla morte di uno dei campioni più amati di sempre dovrà pur venire fuori. Almeno questo è l'intento del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli. "Abbiamo appena ricevuto le carte presentate dai familiari e aperto un'indagine. È un atto dovuto quando arriva un esposto-denuncia per omicidio volontario. Leggeremo le carte, se ci sarà l'esigenza di indagini chiederemo al giudice". Le carte, in realtà, Giovagnoli le aveva già lette la scorsa settimana facendo in tempo ad aprire il fascicolo "contro ignoti" e ad affidare l'inchiesta a una giovane fidata collega, il pm Elisa Milocco. In procura - dove tutti si nascondono dietro il più assoluto segreto istruttorio - nessuno sottovaluta la difficoltà di un cold case del genere, con una vittima tanto famosa e amata, uno scenario alternativo così suggestivo, e con dieci anni di distanza a rendere tutto, se possibile, ancor più complicato. Basti pensare che il luogo del delitto, semplicemente, non c'è più: il residence Le Rose, nella cui stanza D5 venne ritrovato, il 14 febbraio 2004, il cadavere di Marco Pantani, è stato demolito. E non è un dettaglio da poco. Molto, nella ricostruzione originaria, quella fatta a pezzi dalle indagini difensive condotte dall'avvocato Antonio De Rensis, ruotava attorno al fatto che nessuno fosse entrato o uscito in quei giorni dalla stanza di Pantani, visto che nessuno era passato per la portineria chiedendo di lui. In realtà, si è scoperto, quella stanza, così come tutte le altre in quel residence, poteva essere raggiunta comodamente e con la massima discrezione dal garage (non c'era nemmeno una telecamera di controllo). Insomma, in quei giorni chiunque potrebbe essere entrato e uscito dalla stanza di Pantani, spacciatori, vecchi amici del posto, gente venuta da Milano. Chiunque, insomma, oltre allo stesso Pantani e ai suoi eventuali assassini. Purtroppo però non sarà possibile effettuare alcun sopralluogo. Ciononostante la voglia di fare luce su un caso che da anni avvelena le acque di questa piccola procura è tanta. Ancora ieri Paolo Gengarelli, il pm della prima inchiesta, quella oggi sotto tiro ha rilasciato una dichiarazione non proprio amichevole: "Io non commento la notizia, sono un magistrato con l'abitudine di non parlare come dovrebbero fare in tanti, lascio che siano gli atti a farlo". La scelta di affidare l'incartamento a un magistrato "nuovo" dell'ambiente, lontano per definizione da ogni possibile pressione locale non appare casuale. La strada dell'indagine a questo punto è abbastanza scontata. La dottoressa Milocco al ritorno dalle vacanze (ha chiuso ieri l'ufficio portando con sé il fascicolo) avvierà i primi accertamenti, delegando la polizia giudiziaria. Poi disporrà una nuova perizia. Il cuore delle accurate indagini effettuate da De Rensis e il suo staff è infatti la perizia medico legale del professor Francesco Maria Avato che ha parlato di "ferite non autoprodotte, ma inferte da terzi" sul corpo di Pantani, di "evidenti segni di trascinamento del cadavere", e della "probabile ingestione della cocaina da una bottiglia di acqua" ritrovata sulla scena e "mai repertata". Elementi che, se confermati, non lascerebbero più dubbi sull'omicidio di Pantani. Resterebbe a quel punto da rispondere alle altre domande: chi e perché ha ucciso Pantani, e chi e perché ha coperto l'assassino? Nell'istanza presentata da Rensis ci sono numerosi altri elementi che potrebbero aiutare a rispondere anche a queste domande. E i tabulati telefonici sono uno di questi. "Quando i genitori di Marco mi hanno contattato, mi sono riservato prima di capire perchè non volevo creare false illusioni ma non c'è voluto molto per comprendere che c'era molto lavoro da fare - racconta l'avvocato De Rensis ai microfoni di Sky -. La stessa consulenza scientifica è stata inizialmente un percorso esplorativo ma abbiamo capito subito che dovevamo buttarci a capofitto con una rilettura della vicenda. Sono stati mesi molto faticosi, dolorosi, pieni di tensione e speranza. Adesso sappiamo che abbiamo molto lavoro da fare insieme e mi concentro sul fatto che inizia un nuovo percorso faticoso, lungo, ma che affronteremo con determinazione massima. La prima indagine? Penso al passato soltanto in proiezione futura, sono molto concentrato su quello che dobbiamo fare". L'esposto presentato, spiega De Rensis, "è una rilettura, un esame degli atti di indagine e processuali, c'è una corposa e approfondita consulenza scientifica, tutti elementi che convergono verso una direzione molto precisa. Ci sono state molte mancanze, molte lacune, accertamenti non fatti e una tesi seguita poche ore dopo la scoperta del corpo di Marco mai più abbandonata e che credo vada invece assolutamente rivisitata". Ancora nessuna pronuncia su possibili sospetti: "Iniziando a fare luce sulle mancanze, sulle lacune, sulle incongruenze, sulle anomalie, credo che la strada si illuminerà da sola, il percorso sarà molto chiaro e preciso. Il perchè certe cose sono venute meno non lo devo dire io, chi fa le indagini avrà molti punti da chiarificare e credo che questo sia assolutamente possibile. Colmare le lacune credo sia possibile, le carte parlano molto, il video parla molto, leggendo le carte nel modo giusto, leggendo il video e altri dati credo che sia possibile colmare queste lacune". "Credo che adesso inizierà un'indagine molto faticosa - conclude De Rensis - ma il procuratore capo di Rimini è un galantuomo, la dottoressa Milocco mi ha dato l'impressione di una persona molto rigorosa. C'è grandissima fiducia nell'opera della magistratura e daremo il nostro piccolo supporto perchè i fatti vengano chiarificati e la verità fattuale prevalga su quella ufficiale che penso sia molto lontana dalla verità dei fatti".
IL CALCIO: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL TIFOSO.
Tavecchio è il recordman degli scivoloni Ma quanti corvi e «No Tav» gli girano attorno. Tutti quelli a cui ci può far piacere l'uscita di scena del presidente gaffeur, scrive Tony Damascelli il 03/11/2015 su “Il Giornale”. Carlo Tavecchio non è Roger Rabbit ma qualcuno lo ha incastrato. Cercasi corvo all'interno del mondo del calcio, qualcuno che abbia deciso di far fuori il presidente di turno, l'uomo benvoluto da tutti. E da tutti, allo stesso tempo, deriso e provocato. Carlo Tavecchio sta seduto su una poltrona oggi scomoda ma da sempre fortissimamente desiderata da chi vive di football, non sui campi ma dietro le scrivanie. Tavecchio è un uomo solo e nemmeno al comando, circondato da collaboratori e collaborazionisti, da amici e cortigiani. Di certo è lui il primo a cadere nelle trappole, sia queste radiofoniche, telefoniche, ufficiali in pubblico, ogni tipo di comunicazione e conversazione con lui può diventare denuncia e farsa, insieme. L'elenco ormai si allunga ma anche l'odore fastidioso di qualcosa e di qualcuno che si sta muovendo alle spalle del presidente, uomini fatti fuori dalla cosiddetta lotta per la Lega Pro, un centro di potere che non è affatto marginale come qualcuno potrebbe credere, così come ha un peso notevole il mondo dei dilettanti. Nell'ombra restano anche antiche statue di cera del nostro calcio, uomini che hanno scritto la cronaca e la storia e che sono rimasti immuni e impuniti da scandali clamorosi che hanno coinvolto altri dirigenti. I «No Tav» sono numerosi, Damiano Tommasi presidente del sindacato calciatori e Renzo Ulivieri presidente dell'associazione allenatori e poi una specie di ragnatela che mette assieme l'ex direttore generale Francesco Ghirelli e Gabriele Gravina che ha lasciato il consiglio federale in chiaro contrasto con l'attuale presidente. E sopra tutti Franco Carraro che, pur essendo fuori da tutto, mantiene ancora il carisma e le chiavi per entrare in diversi palazzi dello sport. Il mondo del football ha assorbito il peggio del mondo della politica, è spaccato in correnti, vive di compromessi, nasconde bilanci profondi, è corrotto e corrompe; il suo capo, in quanto presidente, è stato votato in assenza di veri leader e proprio per questa ragione dietro Tavecchio si agitano le vecchie figure, fantasmi che fanno più paura dei viventi. Giovanni Malagò, presidente del Coni, ha censurato le ultime parole di Tavecchio, aggiungendo però che non esistono presupposti per il commissariamento della federcalcio, stante l'articolo 7 comma F dello statuto del Coni che prevede il commissariamento solo in caso di accertate gravi irregolarità nella gestione o in caso di constatata impossibilità di funzionamento. Sopra il calcio il cielo è nero di corvi ma Carlo Tavecchio guarda ancora in basso.
Se i nemici di Israele ora condannano l'incauto Tavecchio. Ci risiamo con Carlo Tavecchio, presidente della Federazione italiana gioco calcio. Ce l'hanno a morte con lui perché non sa usare le posate da pesce, perché parla in un linguaggio approssimativo, scrive Vittorio Feltri Mercoledì 04/11/2015 su "Il Giornale”. Ci risiamo con Carlo Tavecchio, presidente della Federazione italiana gioco calcio. Ce l'hanno a morte con lui perché non sa usare le posate da pesce, perché parla in un linguaggio approssimativo, perché si lascia sfuggire opinioni pesantucce per quanto con toni e - suppongo - intenzioni scherzose, perché qui, perché là. Sono d'accordo, l'uomo non è raffinato, in Inghilterra non lo farebbero mai baronetto. Ma non merita neppure di essere linciato per quello che dice, visto che quello che fa è impeccabile. Nel nostro spensierato Paese pieno di problemi che nessuno risolve, e molti si impegnano ad aggravare, ti perdonano tutto tranne qualche battuta infelice. Mesi orsono, Tavecchio rischiò la fucilazione per avere dichiarato col sorriso sulle labbra che il nostro campionato impiega numerosi mangiatori di banane, cioè neri. Espressione inelegante, non vi è dubbio, ma in fondo dal significato per nulla offensivo. Io, come tanti connazionali, anche non essendo negro sono un divoratore di banane, frutti prelibati. Che c'è di male a nutrirsene? Gli italiani sono comunemente definiti mangiatori di pizza e di spaghetti, ma non hanno mai chiesto l'intervento dell'Onu affinché la si finisca di metterli alla berlina in quanto adoratori della dieta mediterranea. Non si capisce per quale motivo un africano debba sentirsi mortificato perché preferisce la banana alla «margherita» e ai bucatini alla carbonara. Nonostante ciò, il presidente ha passato un guaio. E un altro guaio è stato costretto ad affrontare avendo detto che le donne calciatrici, sino a poco tempo fa, sembravano handicappate rispetto ai maschi. Una folla di commentatori politicamente corretti lo ha aggredito, e lui si è salvato per un pelo da chi gli chiedeva immediate dimissioni per indegnità lessicale. Alcuni giorni fa, il reprobo è stato nuovamente al centro di uno scandalo del piffero, provocato da un'altra sua frase giudicata addirittura razzista, pronunciata in privato, ma resa pubblica da qualcuno che l'aveva registrata, commettendo una scorrettezza. Quale frase? Non l'ho udita, pertanto la riporto a senso: «La sede della Lega nazionale dilettanti comprata da quell'ebreaccio di Anticoli; non ho niente contro gli ebrei, ma conviene tenerli a bada». Poi, l'incauto dirigente del ramo pedate ha dedicato una battutaccia anche agli omosessuali: «È bene che stiano lontani da me, io sono normalissimo». Figurarsi, è successo il finimondo. Chiunque è soggetto a sfottimenti di ogni genere: i carabinieri sono i principali protagonisti delle barzellette, i meridionali da secoli devono sopportare di essere chiamati terroni, i bergamaschi sono considerati polentoni rozzi, i leghisti sono sistematicamente ricoperti di insulti, le persone di destra vengono tacciate di fascismo, il berlusconiano medio è leccaculo per definizione e via andare. Tutti possono essere presi, più o meno bonariamente, per i fondelli tranne i gay e gli ebrei. I tifosi del Napoli, rimproverati da quelli veronesi perché si lavano poco, risposero spiritosamente così: «Giulietta è una zoccola». Non scoppiò una guerra. Già. A una burla si replica con una burla. Inoltrare petizioni, invocare dimissioni, organizzare ostracismi è infantile, suscita chiasso e non dirime il contenzioso. Meglio una risata «tombale» che una tragedia insanabile. Inoltre, buttarla in politica è ridicolo. La sinistra, che si agita per l'«ebreaccio» di Tavecchio, a ogni conflitto tra palestinesi e israeliani, si schiera apertamente con i primi e condanna i secondi, che non nascondono l'ambizione di cancellare Israele dalla carta geografica. Ma la stessa sinistra nostrana si scaglia contro chi, citando un luogo comune, dice che gli ebrei sono tendenzialmente tirchi o parsimoniosi. Che sarà mai? Tutto il razzismo si fermi qui. Tra l'altro il presidente della Federazione si è battuto contro la Palestina che voleva impedire la partecipazione della rappresentativa israeliana alle competizioni internazionali, e ha vinto lui. Questo è un fatto, non una parola. Ma in mancanza di logica, noi italiani trascuriamo i fatti e siamo perennemente in battaglia per riformare il vocabolario. Non ci interessa la concretezza delle azioni, ma il modo in cui le raccontiamo. E lo chiamiamo politicamente corretto.
L'unico frutto del rancor è la banana... Tavecchio è il Mostro di Mezz’Estate per una frase scema su calcio & banane, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Non so chi sia questo Tavecchio, cos’abbia fatto nella vita e se meriti di guidare la federazione calcio oppure no. Per ragioni onomastiche e anagrafiche è forse incompatibile con l’era puerile di Renzi, ma non è di vecchiaia che si parla. Lui è il Mostro di Mezz’Estate per una frase scema su calcio & banane. Neanche una frase razzista, perché non era quello lo spirito, solo cretina. Che in un paese maturo dovrebbe concludersi con un giudizio: hai detto una scemenza, punto. Nossignore. Per una specie demente o infantile di gioco dell’oca, appena uno pronuncia la parola scorretta, anche a mezza bocca, salta su il circo dell’inquisizione, una versione buffonesca del Sant’Uffizio, lo porta alla gogna, lo massacra e lo caccia. È un sistema che si ripete come un rito antropofago; se uno, per dire, ha vissuto una vita degna e incensurata, ha fatto tante cose buone, ma una volta allo stadio ha fatto buu, diventa per sempre, lapidato o sulla lapide, «quello che ha fatto buu» e additato al pubblico disprezzo eterno. Ci sono sui giornali dei serial killer che si occupano di far fuori chi dice la parolina scorretta. «Hai toppato,sei entrato nella casella sbagliata, e ci vai ind a’morte, ’a furtuna ’nzerra ’a porte». Non si valutano mai meriti e demeriti, si sorvola su curriculum disastrosi, danni ed errori, si può avere alle spalle una vita fallimentare, da porco o da terrorista, ma la banana, ma la banana...No, quella è peccato mortale, ti giochi tutto. Bestemmia Dio e la Madonna, ma non nominare la Banana invano.
Carlo Tavecchio e la Repubblica delle Banane, scrive Mariateresa Nuzzi. Carlo Tavecchio, già Vicepresidente e ora candidato alla Presidenza della FIGC viene criticato per aver rilasciato la seguente dichiarazione razzista: «L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Pobà è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree… ». A questo proposito SKY TG24 lancia un sondaggio in cui chiede ai telespettatori di pronunciarsi e di dire come la pensano sulla candidatura di Tavecchio alla Presidenza: è giusto dopo questa affermazione, che Tavecchio diventi Presidente? Tavecchio è adeguato? Facciamo una piccola incursione nella vita e nella carriera di Carlo Tavecchio e cerchiamo di capire chi è l’uomo che definisce i giocatori africani, dei mangia-banane. Ci aiuta in questa operazione la sempre utile enciclopedia on-line Wikipedia, dalla quale riporto questi estratti: “Esponente della Democrazia Cristiana, diplomato in Ragioneria ed ex dirigente bancario presso la Banca di Credito Cooperativo dell’Alta Brianza, all’età di 33 anni diventa sindaco di Ponte Lambro (suo comune di nascita, in provincia di Como) conservando la carica per quattro mandati consecutivi, dal 1976 al 1995. Nel 1974 è tra i fondatori della Polisportiva di Ponte Lambro e, in ambito calcistico, per sedici anni diventa presidente dell’ASD Pontelambrese, società dilettantistica che durante la sua gestione arriva a disputare anche il campionato di Prima Categoria. La sua carriera dirigenziale all’interno di Federcalcio inizia con l’incarico di consigliere del Comitato Regionale Lombardia della Lega Nazionale Dilettanti (LND) mantenuto dal 1987 al 1992, diventando poi nei successivi quattro anni vice presidente della LND e venendo eletto nel 1996 al vertice del medesimo Comitato Regionale Lombardia. Il 29 maggio 1999, a seguito delle dimissioni del suo predecessore Elio Giulivi a causa dell’affaire Rieti – Pomezia, è votato presidente della Lega Nazionale Dilettanti. Dal maggio 2007 diventa vice presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio assumendone la funzione di vice presidente vicario nel 2009. Durante la sua pluridecennale carriera, Tavecchio è stato anche consulente del Ministero dell’Economia per le problematiche di natura fiscale e tributaria riguardo alla sfera dell’attività sportiva dilettantistica e componente della Commissione Ministeriale, presso il Ministero della Salute, per le problematiche dell’impiantistica nazionale. Inoltre nel biennio 2002/2004 riceve la nomina di esperto in materia di problematiche riferite al calcio dilettantistico e giovanile e ai campi in erba artificiale e, dal 2007, viene designato dall’Uefa membro effettivo della Commissione per il calcio dilettantistico e giovanile. Scrive anche un libro per spiegare il calcio ai più piccoli, dedicandolo alla nipote Giorgia, dal titolo «Ti racconto… Il Calcio». È tifoso dell’Inter, squadra di cui è stato anche membro del consiglio di amministrazione sotto la gestione di Massimo Moratti. Carlo Tavecchio è stato processato e condannato cinque volte. È stato condannato a 4 mesi di reclusione nel 1970 per falsità in titolo di credito continuato in concorso, a 2 mesi e 28 giorni di reclusione nel 1994 per evasione fiscale e dell’Iva, a 3 mesi di reclusione nel 1996 per omissione di versamento di ritenute previdenziali e assicurative, a 3 mesi di reclusione nel 1998 per omissione o falsità in denunce obbligatorie, a 3 mesi di reclusione nel 1998 per abuso d’ufficio per violazione delle norme anti-inquinamento, più multe complessive per oltre 7.000 euro.” Ora, anche tralasciando le condanne, che a me qualche dubbio sulla sua adeguatezza me lo farebbero venire, non posso fare a meno di chiedermi come si possa ricoprire una carica così alta, una posizione che dovrebbe essere super partes per eccellenza, che dovrebbe dare continuo esempio in senso antirazzista, di fairplay, di onestà e di trasparenza, quando poi si decide di esporsi pubblicamente con una frase dai potenti connotati razzisti. Significa forse che quest’uomo non ha la minima idea del ruolo che vorrebbe ricoprire? Oppure vuol dire che non si rende conto della gravità delle sue parole? O forse crede che chi lo ascolta non faccia caso a quello che dice? Quando si è accorto che invece lo si ascoltava eccome, tanto che anche la stampa estera gli ha dedicato qualche riga, allora è corso a scusarsi agli stessi microfoni della sopracitata dichiarazione. Sostiene che non abbiamo colto il succo del suo discorso, quello dei mangiabanane non è il punto, lui si riferiva alla professionalità, che c’entrano ora queste banane? «Le banane? Non mi ricordo neppure se ho usato quel termine, e comunque mi riferivo al curriculum e alla professionalità richiesti dal calcio inglese per i giocatori che vengono dall’Africa o da altri paesi». Problemi di memoria? Sarà perché sei Ta-vecchio? Io vorrei tanto fargli questa domanda: che tipo dovrebbe essere il Presidente della FIGC secondo lei? In attesa di una sua risposta voglio provare ad immaginare un Presidente che parla ai microfoni assolutamente senza filtro. Uno che da tifoso, il giorno della sconfitta dell’Inter contro la Roma – faccio un esempio – dichiari robe del tipo: “Questi romani coatti e mangia trippa hanno avuto solo fortuna!”. Ma poi non riesco a smettere di domandarmi: come può un uomo con il suo curriculum vitae pronunciare una frase del genere? Forse basterebbe solo rivoltare la domanda: come può uno che pronuncia una frase simile, aver fatto tanta strada? Insomma, siamo sempre più la Repubblica delle Banane e la nostra classe dirigente vanta persone come Carlo Tavecchio.
Tavecchio è il degno numero uno del calcio italiano, scrive Massimiliano Gallo su Il Rottamatore. C’è una premessa fondamentale da fare: la politica è sangue e merda. E su questo assunto, siamo tutti più o meno d’accordo. E il calcio, lo sport, la gestione dello sport è politica. Non altro. Non averlo compreso, continuare a recitare il ruolo della bella addormentata del bosco non fa onore alla nostra intelligenza. Lo sport è business. Punto. Non c’è nemmeno più bisogno di specificarlo. Sì, ogni tanto, ogni quattro anni a voler essere precisi, il mondo finge di commuoversi per storie ai confini delle realtà, come quelle dei tiratori al piattello, dei lottatori che conquistano medaglie d’oro alle Olimpiadi e si guadagnano il loro meritatissimo quarto d’ora di celebrità. Ma sono fette sempre più marginali di una torta che è giustamente farcita di denaro. De-na-ro. Il resto è menzogna decoubertiniana che qualcuno di buona volontà ancora prova, in maniera encomiabile, a insegnare ai bambini. Fatta questa doverosa premessa, e aggiunto che il nostro business calcistico è ormai un business di serie B (nemmeno da alta classifica in serie B), possiamo dire che la cagnara sollevata per l’inqualificabile uscita di Carlo Tavecchio è la solita chiassosa sceneggiata ipocrita all’italiana. Di che cosa ci stupiamo? Che uno dei più longevi dirigenti del nostro calcio definisca mangiabanane extracomunitari sconosciuti che vengono a giocare da noi? Davvero? E dove eravamo quando uno dei più autorevoli signori del calcio italiano, un certo Adriano Galliani, signorilmente invitò Boateng a non uscire più dal campo per protesta contro i buu razzisti del pubblico avversario? Nessuno disse nulla, allora. Si infiocchettò la pillola. Galliani aveva parlato col solo scopo di non dare ulteriore risonanza a quattro razzistelli. Finì che al termine della stagione, Boateng ha lasciato il Milan ed è andato a giocare in Germania. In Spagna, invece, quelli del Villarreal hanno impiegato non più di due giorni per individuare il lanciatore di banane a Dani Alves e bandirlo per sempre dallo stadio. È una questione di senso civico. È il termometro della civiltà di un Paese e dei suoi abitanti. Per carità, le malattie possono essere curate, anche con terapie shock. Ma allora vanno intraprese. Subito. Il calcio italiano o la nostra politica si è fermato un attimo a ragionare dopo che i calciatori della Nocerina si accasciarono in campo fingendo malori perché i lori tifosi li avevano minacciati di non giocare? Non ricordiamo. Così come non ricordiamo un dibattito, un convegno, una presa di posizione del governo per i cori razzisti che da anni infestano i nostri stadi. E sorvoliamo sul nulla che il governo Renzi ha prodotto dopo gli incidenti di Roma e la morte di Ciro Esposito. Ci limitiamo a tre esempi, ma potremmo proseguire per pagine e pagine. Il calcio è business. Di serie B. L’elezione del presidente della Federcalcio – così come di tutte le poltrone sportive – è una battaglia politica. Ci sono in gioco quei quattro spiccioli che ancora versano le tv. E quegli incarichi di sottogoverno, quelle piccole “amicizie” che un presidente amico può garantire. Parliamo di poca roba, eh. Nulla che cambi il mondo. Ma il calcio italiano non ha la pretesa di farlo. Abbiamo perso dal Costa Rica ai Mondiali e ancora pensiamo di essere il centro del mondo. Non ci calcola più nessuno. Il giocatore più forte della serie A è un signore che in Inghilterra manco giocava più: Carlos Tevez. Qui vengono professionisti a fine carriera oppure in cerca di un improbabile rilancio. Allo stadio non ci va quasi più nessuno perché gli impianti fanno schifo ed è anche pericoloso. Sia chiaro, sarebbe così anche con Demetrio Albertini presidente. Pensate davvero che con lui possa cambiare qualcosa? Ovviamente è più presentabile, per carità. Non ha mai definito mangiabanane nessuno. Ma nemmeno con lui il nostro calcio diventerà uno sport come lo è in Inghilterra o in Germania. È solo una guerra di potere che Roma e Juventus (sostenitori di Albertini, cui ora si è aggiunta la Fiorentina) hanno perduto. Magari alla fine i sostenitori di Tavecchio si arrenderanno alle pressioni esterne – il mondo è tornano a indignarsi, come ai tempi di Berlusconi. Ma non avverrà prima di trovare nuovi equilibri. Perché tra qualche giorno il mondo dello sport penserà ad altro, e vuoi che un Lotito, un Galliani o un De Laurentiis rinuncino a piccole prebende in cambio di una posa nello spot “Respect” contro il razzismo? Suvvia, sembriamo tanti Pancho Pardi. La purezza ora la vogliamo dal calcio. Meglio Tavecchio, la sua faccia ci ricorderà chi siamo. Senza illusioni destinate a rimanere tali.
Banane & pallone. Un boiardo immortale alla Figc. Potere e amicizie, know-how e grane giudiziarie. Ecco il regno del supermanager Carlo Tavecchio, scrive Marco Fattorini su “L’Inkiesta”. «È vero, ho 71 anni. Che cosa devo fare? Devo ammazzarmi?». Quella che fino a pochi giorni fa rappresentava la critica principale rivolta al futuro presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio è stata rispedita al mittente dal diretto interessato. Eloquio informale e piglio decisionista. «Questo è un Paese addormentato, io ho voglia di fare e di tenere sveglia la gente, il calcio è da salvare». Poi però la bufera si è spostata dalla questione anagrafica a quella razziale, dopo che all’assemblea della Lega Dilettanti Tavecchio ha dichiarato: «L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che “Opti Pobà” è venuto che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così». A molti non è andato bene. Nel giro di qualche ora monta l’indignazione di tifosi, opinione pubblica e addetti ai lavori. Nasce un caso politico. Gaffe o razzismo? Un fronte trasversale chiede a Tavecchio di ritirarsi dalla corsa (già vinta) alla poltrona della Federcalcio. Se per i famigerati «cori territoriali» si chiudono le curve degli stadi, viene da domandarsi quale provvedimento ricorra per la frase pronunciata da un rappresentate istituzionale. Scendono in campo parlamentari e giornalisti, osservatori accorti e critici dell’ultim’ora. Gli attacchi del Pd e la difesa di Forza Italia. Dalla «forte irritazione» del sottosegretario allo Sport Graziano Delrio alla chiosa del premier Matteo Renzi: «Espressione inqualificabile, un clamoroso autogol». Mentre il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti auspica che «se Tavecchio non rinuncia spero non sia eletto», il grande accusato rilancia: «Accetto tutte le critiche, ma non l’accusa di razzista perchè la mia vita testimonia l’esatto contrario. Se sarò eletto presidente, la federazione condurrà una politica fattiva contro ogni discriminazione». La tempesta lo piega ma non lo spezza. E i suoi grandi elettori del mondo pallonaro, con poche eccezioni, lo seguono in un silenzio assordante. Ma l’esternazione sulle banane, pur traballante in un contesto falcidiato da ordine pubblico e cultura sportiva, non può essere la sola causa dell’«inadeguatezza» che più di qualcuno addebita a Tavecchio. Non bastano nemmeno le dichiarazioni “genuine” sulla rosa dei papabili ct azzurri: «Conte? Mai visto. Quello delle Marche, come si chiama? Ah, Mancini. Non conosco nemmeno lui. Quell’altro del Friuli? Sì, Guidolin. Non ho ancora deciso, comunque mi occuperò di questo bordello». Fuori dal palazzo c’è chi non gli perdona il fattore anagrafico e la lunga esperienza prodiga di conoscenze in Figc. «L’uomo sbagliato al posto sbagliato». Agli occhi dei detrattori Tavecchio diventa emblema della continuità e del potere costituito. Per dirla con Aldo Grasso «è il trionfo dello status quo e il candidato ideale per non cambiare nulla». E l’uscita infelice sul misterioso Opti Pobà viene digerita come una sorta di dichiarazione programmatica. Classe 1943, «educazione brianzola» e cultura del lavoro sin dal primo impiego all’età di 19 anni. Ex dirigente bancario con in tasca un diploma di ragioneria, Tavecchio nasce a Ponte Lambro, comune di cui è stato sindaco in quota Democrazia Cristiana dal 1976 al 1995. Scuola diccì come quella del predecessore Giancarlo Abete, deputato forlaniano per tre legislature. Ma la scalata sportiva del manager brianzolo comincia con la presidenza della Pontelambrese e nel 1987 prosegue con l’ingresso al consiglio regionale lombardo della Lega Nazionale Dilettanti. Nel 1996 approda a capo del comitato regionale, mentre la poltrona di presidente nazionale gli arriverà nel 1999, inizio di un regno longevo. Dal 2007 Tavecchio è pure vicepresidente della Figc e due anni dopo diventa il vicario di Abete. Nel curriculum si notano una consulenza per il Tesoro e altri incarichi in commissioni ministeriali. Ultimo, non per importanza, un libro dedicato alla nipotina Giorgia: “Ti racconto…Il Calcio”. Solidi contatti, amicizie importanti e grinta da vendere in un Palazzo dalle mille correnti. Gli endorsement del «poltronissimo» Franco Carraro e di Antonio Matarrese. La stima dell’ex Coni e oggi uomo Cio Mario Pescante. Le sponde del vicepresidente Figc Mario Macalli e del kingmaker della Lega Calcio Claudio Lotito. In via Allegri Tavecchio è considerato «uomo dell’apparato» nonché profondo conoscitore del mondo del pallone. Il know-how che gli riconoscono deriva dai quindici anni al comando della Lega Nazionale Dilettanti, con lui realtà consolidata e cassaforte strategica di consenso. «Il cuore del calcio», si legge sul sito ufficiale Lnd e non è un modo di dire. La Lega Dilettanti è il Paese reale del pallone italico: ha in pancia 1,3 milioni di calciatori dall’attività ufficiale a quella amatoriale e ricreativa, 15mila società e 70mila squadre impegnate in 700mila partite stagionali per un giro d’affari di 1,5 miliardi di euro tra tesseramenti e iscrizioni ai campionati. Bastano questi numeri per capire che la Lnd rappresenta «la quasi totalità del calcio italiano». Nel percorso coi dilettanti emerge la questione dei campi sintetici delle società, che devono essere omologati. Nella Lnd c’è un unico laboratorio autorizzato a testarli, pratica richiesta periodicamente. L’azienda “fortunata” è la Labosport di Roberto Armeni, figlio del capo della Commissione impianti in erba sintetica della Lega Dilettanti. Conflitto d’interessi? Interpellato da Report, Tavecchio rispondeva: «Non voglio che mi venga in mente di andare alla Rai e vedere quanti amici, conoscenti, parenti e amanti ci sono. Poi andare in Federazione, scendere le scale e arrivare fino al Coni e vedere quanti ce ne sono. Io ce n’ho uno, dicasi uno». Ma i critici puntano la lente d’ingradimento anche su un altro aspetto. A margine della sua candidatura alla Figc è tornata a circolare un’interrogazione parlamentare dell’ex deputato Pdl Amedeo Laboccetta che, partendo dallo statuto della Figc secondo cui «sono ineleggibili coloro che hanno riportato condanne penali passate in giudicato per reati non colposi a pene detentive superiori a un anno», andava all’attacco del presidente della Lega Dilettanti. «Carlo Tavecchio - si legge nell’interrogazione - annovera condanne penali per anni uno, mesi tre e giorni ventotto di reclusione, oltre a multe e ammende per euro 7.000». I provvedimenti, spiegava Laboccetta, si riferiscono a «falsità in titolo di credito continuato in concorso», «violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto», «omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali», «omissione o falsità in denunce obbligatorie», «abuso d’ufficio» e «violazione delle norme per la tutela delle acque dall’inquinamento». Il curriculum giudiziario ha fatto mormorare più di qualcuno prima che il diretto interessato, rispondendo agli articoli de La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, chiarisse la questione. «Le condanne - spiega Tavecchio - si riferiscono a fatti accaduti dai 50 ai 25 anni fa, e si riferiscono a situazioni nelle quali sono stato coinvolto esclusivamente in funzione della posizione che ricoprivo, e non come autore delle omissioni contestate, compiute invece da terzi». Le condanne non sono menzionate nel casellario giudiziale, Tavecchio ha goduto della riabilitazione e il certificato penale «è immacolato». Fa sapere anche che prima di candidarsi alla Lnd chiese alla Corte Federale se fosse idoneo a ricoprire la carica in questione. Risposta affermativa e caso chiuso. Oggi la nuova avventura si chiama Federcalcio. Dopo il tracollo azzurro in Brasile e le pressioni dell’opinione pubblica per azzerare tutto, lui è già a bordo campo con l’esperienza di chi del pallone conosce il giorno e la notte. Con buona pace di rottamatori e quarantenni, la candidatura di Tavecchio procede rapida e ben oliata. Dall’inizio può contare sui voti della Lega Pro dell’amico Macalli, oltre che sul serbatoio della sua Lega Dilettanti. Solo con queste due componenti Tavecchio veleggia al 51% garantendosi l’elezione virtuale. La percentuale stana gli scettici e scoraggia chi tra i grandi elettori era rimasto alla finestra per esplorare candidature alternative. Albertini è minoritario in partenza, le componenti tecniche (Assoallenatori e sindacato dei calciatori) e gli ammiccamenti di un gruppetto di club di serie A non bastano. Volenti o nolenti, quasi tutti convergono su Tavecchio perchè è meglio l’accordo col futuro capo che lo scontro ideologico. Arriva l’ok della serie B di Abodi, mentre la A torna all’ovile grazie alla regia di Lotito. Diciotto squadre su venti (Juve e Roma) decidono di appoggiare il presidente Lnd e di queste almeno sei lo fanno dopo aver abbandonato Albertini. Che qualche giorno prima era stato filosoficamente accantonato da Lotito in un’intervista al Foglio. «Kant - spiegava il presidente della Lazio a Salvatore Merlo - dice che ce stanno il noumeno e il fenomeno. Il fenomeno è ciò che appare, il noumeno invece è la realtà. Ecco Albertini è kantianamente un fenomeno. Il calcio adesso ha bisogno di gente che sappia fare, che abbia esperienza manageriale». Dalle parole ai programmi. Quello di Tavecchio è ambizioso, conta undici punti sovrastati dallo slogan “Il gioco del calcio al centro dei nostri pensieri”. Dice che non scenderà a compromessi. Parla di revisione della governance federale, lotta contro la violenza, riqualificazione del prodotto calcio, rilancio del Settore Tecnico e sviluppo dei Centri di Formazione Federale, ripensamento del Settore Giovanile e Scolastico, miglioramento della comunicazione, maggiore interlocuzione con Governo e Coni, autoconsistenza finanziaria e riforma dei campionati. Tavecchio propone pure l’abolizione del diritto di veto portando dal 75% al 65% la soglia per cambiare lo statuto. Circostanza che trova lo sbarramento delle componenti tecniche (calciatori e allenatori) che non a caso tifano Albertini e vogliono continuare a pesare in consiglio federale. Pazienza, Tavecchio tira dritto. Liquida il quarantenne Albertini con un paio di battute in conferenza stampa, risponde per le rime a Barbara Berlusconi e Andrea Agnelli che tifavano rottamazione. Evita il politichese, ma non si lascia scalfire dal putiferio politico del post-banane. Boiardo di lotta e di governo, la corsa alla Federcalcio non è un pranzo di gala.
Il “caso Tavecchio”, ennesima riconferma della follia in cui siamo scivolati. In un Paese che va a rotoli e dove la moralità più elementare è stata uccisa e sepolta da tempo, si scatena l’indignazione conformista per una frase che, al più, può essere considerata come una battuta infelice. Siamo al di là dell’ipocrisia, siamo alla demenza. E poi, cerchiamo di capire chi sono i veri razzisti, scrive Paolo Deotto su “Riscossa Cristiana”. Premetto che non conosco il signor Carlo Tavecchio e che non seguo il gioco del calcio da decenni. Ma sento verso di lui un’istintiva solidarietà, perché lo vedo vittima di questa strana demenza che ha ormai investito come un uragano la nostra povera Italia. Ordunque, pare che il sig. Tavecchio, aspirante alla presidenza della Federcalcio, lamentandosi per la facilità con cui le nostre squadre assumono giocatori stranieri che alla prova dei fatti sono schiappe, abbia detto questa terribile frase: “Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Lo dicevo prima, non seguo il calcio e quindi non so se questa valutazione di Tavecchio sia corretta. Ma non so neanche quale crimine abbia commesso, solo perché ha voluto “caricare” il suo discorso con l’esempio estremo di un selvaggio chiamato a giocare nella Serie A. Ha detto una battuta infelice? Può darsi, ma mi ricorda molto un “caso” di anni fa, di un generale che era stato oggetto di critiche feroci perché, per deprecare il comportamento di alcuni soldati che avevano danneggiato la loro caserma, aveva usato un linguaggio, appunto, “da caserma”, ossia un linguaggio non delicato e politicamente corretto, ma che andava subito, senza alcuna delicatezza, al nocciolo del problema. Il caso del generale è di alcuni anni fa; il tempo è passato e l’ipocrisia è aumentata, fino a divorare anche il cervello degli ipocriti, che hanno perso del tutto il senso della misura. Siamo alla demenza. Per una frase, ripeto, al più infelice, si è scatenato il coro perbenista, che comprende ovviamente ormai più o meno tutti. Ne parlano esponenti politici, giornalisti, addirittura ieri su Zenit, agenzia cattolica di informazione, leggo che una “Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport” straparla di un dirigente calcistico “pronto a calpestare la dignità umana degli atleti”. Un’angosciata Giovanna Melandri invoca: “Fermatelo!” (ma dove stava andando?); il PD trova compattezza nel chiedere che Tavecchio si ritiri dalla corsa alla presidenza della Federazione; Cecile Kyenge non perde l’occasione per far sapere che esiste ancora e dichiara che Tavecchio “ha il tipico atteggiamento paternalistico nei confronti di chi si pensa inferiore e da civilizzare”. Il meccanismo è sempre quello. Quando la Voce del Padrone indica la vittima contro cui accanirsi, inizia la gara a chi è più severo, implacabile. Nessuno vuole restare fuori dal coro che da la garanzia di essere politicamente corretti e di poter quindi in futuro partecipare, a seconda dei livelli ricoperti, al banchetto o almeno alla merendina di regime. Poi il colpevole, dopo un processo in cui giustamente gli sarà negato il diritto alla difesa, perché è uno sporco razzista, verrà portato al patibolo, appeso alla corda tra gli applausi democratici e poi si potrà iniziare anche a sputare sul suo cadavere. I giustizieri torneranno a casa appagati. Certo, quest’ultima descrizione è di fantasia, ma è la strada su cui ci si avvia se non si recupera un minimo di capacità di discernimento. In quest’orgia di moralismo, è impossibile non pensare che la cosiddetta “società civile” (per inciso, non ho mai ben capito cosa voglia dire, visto che di “civile” è rimasto ben poco) ogni giorno ammazza senza alcun turbamento circa 300 bambini (si chiama aborto, anzi IVG, che sta per interruzione volontaria di gravidanza. Così è più delicato); progetta allegramente le fecondazioni in provetta, riducendo l’uomo a un animale e preventivando senza alcun scrupolo la distruzione di altre vite umane (la fecondazione extra corporea nasce per la selezione delle razze negli animali da allevamento); tiene in gran conto, e tra poco legittimerà, l’eutanasia, ottimo sistema per liberarsi dal peso di vecchi e malati; promuove le perversioni sessuali, insegnandole fin dalla scuola materna, mentre non fa nulla per aiutare la famiglia, l’unica famiglia esistente; lascia nella miseria e nella disperazione tante famiglie in cui non si riesce più a tirare la metà del mese, perché c’è chi ha perso il lavoro, c’è chi non lo trova, c’è chi, disperato, si toglie la vita. E così via. Una società allo sbando morale completo, fiera e tronfia del suo relativismo, si rotola nella disperazione e nel disastro, e poi si crea le nicchie di moralità contro uno dei nuovi mostri: il razzismo! Insieme all’evasione fiscale e ovviamente alla cosiddetta omofobia, il razzismo è uno dei mostri da combattere. Scusate, dimenticavo la mafia, lì c’è addirittura la scomunica. Gli altri? Beh, vedremo; per ora occupiamoci di questi, siamo sicuri che avremo il consenso dei salotti buoni. È razzista un uomo perché pronuncia una frase come quella detta da Tavecchio? Ma per favore, cerchiamo di essere, se non seri (non pretendiamo troppo), almeno non ridicoli. E se proprio vogliamo parlare di razzismo, sentimento quanto mai deprecabile, allora facciamo il punto. Anzitutto vorrei togliermi una curiosità personale: per quanto sforzi abbia fatto e faccia tuttora non sono mai riuscito a capire perché se dico “negro” (traduzione del latino “niger”) sono razzista, mentre se dico “nero” sono bravo e buono. Mistero. Ma questi sono dettagli. Piuttosto vorrei chiedere: chi è il vero razzista: un Tavecchio che dice una frase infelice, o chi favorisce un’immigrazione indiscriminata di negri o bianchi che siano, per mostrarsi bravo e buono e così non fa altro che dare false speranze a masse di disperati, che approdano in un paese che non è più in grado di dare lavoro e pane nemmeno ai suoi cittadini? Non sono razzisti questi ipocriti che si fanno belli con operazioni come “Mare Nostrum” (con tutto il rispetto per i militari, che devono eseguire degli ordini), vero festival dell’incoscienza più totale, che spinge ogni giorno centinaia (o migliaia) di disperati a mettersi in mare e a trovare spesso la morte? Non sono razzisti questi predicatori dell’accoglienza – purché la facciano al solito “gli altri” – che usano queste moltitudini di immigrati, negri o bianchi o gialli che siano, per auto premiare la loro incommensurabile bontà? Bontà costruita sulla sofferenza e sulla pelle degli altri. Signori, smettiamola di dire idiozie a ruota libera. O siete ipocriti o siete ormai del tutto fuori di testa. Il vostro buonismo demente – buonismo a senso unico, perché quando volete essere spietati sapete esserlo perfettamente – è vero razzismo. I poveri, i diseredati, i negri che fuggono disperati dalle loro terre, e che voi imponete di accogliere a occhi chiusi, sono la vostra merce per abbellire la vostra immagine. Promettete ciò che sapete di non poter mantenere, incentivate col vostro cinismo i cinici mercanti di carne umana e poi vi permettete di dare lezioni di morale a un uomo che ha detto una frase infelice? Avete creato tutte le condizioni perché gli italiani, che razzisti non sono mai stati, lo diventino ora, di fronte allo spettacolo di città invase da immigrati che si trovano a vivere alla disperata e alla fine, fatalmente, per delinquere. Meraviglioso risultato della misericordiosa accoglienza fatta alla cieca, senza mai chiedersi dove e come sistemare tanti sbandati, profughi, rifugiati e anche tanti personaggi che magari sono fuggiti dai loro paesi semplicemente perché delinquenti. Ma a voi che ve ne frega? Voi li avete accolti, quindi siete buoni e bravi e democratici. Signor Carlo Tavecchio, non la conosco, non so cosa lei faccia, se lei sia o meno adatto a ricoprire la posizione di presidente della Federcalcio. So che lei ha detto una frase, una frase forse infelice o goliardica. Punto e basta. So che la stanno mettendo in croce per questa sciocchezza. Anche lei è una vittima di quest’orgia di ipocrisia ormai sfociata nella demenza. Non se la prenda, questa è l’Italia attuale, retta dai soloni di una ex-sinistra smarrita e di una ex-destra che cerca di sopravvivere scimmiottando le scemenze della ex-sinistra. È vittima di questa Italia dove i politici ormai hanno fuso il cervello e la Chiesa cattolica è preoccupata di non dare seccature a nessuno e pronta ad accodarsi al coro del politicamente corretto. Signor Tavecchio, lei ha tutta la nostra simpatia e solidarietà.
In difesa di Tavecchio. Quante critiche ipocrite sull’affaire banane, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. L’Italia perbenista e ipocrita ha trovato il suo nuovo mostro: Carlo Tavecchio, classe 1943, candidato alla presidenza della Federcalcio. Questa la frase che ha fatto innalzare i lamenti e scendere le lacrime alle prefiche del politicamente corretto: “Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Apriti cielo: Tavecchio deve rinunciare alla corsa per la presidenza (richiesta più o meno unanime del Partito Democratico), fermatelo! (Giovanna Melandri), non ha credibilità (Davide Faraone, Pd), ha il tipico atteggiamento paternalistico nei confronti di chi si pensa inferiore e da civilizzare (Cecile Kyenge). Solo per riportare alcuni dei commenti più stizziti. Ma in rete, per fortuna, si trovano anche divertentissimi e godibilissimi fotomontaggi che ironizzano sull’infelice battuta. Perché, sia chiaro, la battuta è piuttosto infelice per una lunga serie di motivi (non fa più ridere nessuno da almeno una ventina d’anni, non era l’occasione adatta, Tavecchio non può essere così non accorto da non pensare che le sue parole possano essere usate – strumentalmente – contro di lui). Ma non è una frase che trasforma un uomo in un razzista, non è una battuta – seppur di cattivo gusto – a far cadere su una persona la mannaia di un’etichetta così odiosa. E – diciamo la verità – la sua è una frase che almeno una volta nella vita ci è capitato di sentire, e non abbiamo denunciato o preso a pugni in faccia chi l’ha proferita. Basta con questa ipocrisia e questa dittatura del politicamente corretto. Io non so chi sia Tavecchio, non l’ho mai incontrato e non sono a conoscenza del suo curriculum vitae, magari ci sono decine di motivi per ritenerlo indegno di un ruolo così importante nel mondo dello sport, ma non questa boutade. Quelli che adesso inarcano il sopracciglio inorriditi davanti a cotanta barbarie, sono quelli che spesso trasecolano davanti alle parole, ma non muovono un dito davanti ai fatti. Questo improvvisato, ma ben nutrito, movimento No Tav(ecchio) è il solito salottino che ama indignarsi, che se dici “negro” sei un razzista da bacchettare, stigmatizzare ed emarginare, ma che poi non batte ciglio per aiutare chi è realmente in difficoltà. Sono quelli del venite tutti in Italia, del fiore dell’accoglienza e del multiculturalismo da infilare nell’occhiello della giacca in cachemire, della pelosa beneficenza da esibire e ostentare e dei viaggi in Africa a favor di telecamera (ve la ricordate quella pubblicità in cui Bono, il filantropo, atterrava, sovrastato da valigioni di Louis Vuitton, in mezzo a un prato? Ecco la scena me la immagino così). Poco importa che poi in Italia non ci siano le condizioni per poter offrire una vita decorosa a questa folla di disperati. A loro interessa solo, lustrandosi le unghie, aprire le porte di una casa che non è certamente la loro. Perché poi quando il “negro” dorme nel portico del loro palazzo, sono i primi a chiamare la polizia. Insomma, il razzismo è una questione di fatti. Non di parole. Le battaglie politiche contro le parole sono sterili e sciocche. Tavecchio è scivolato su una buccia di banana. Ma non facciamone un mostro.
Calcio, zingari e l'ipocrisia del vocabolario. Se dai del banana al Cavaliere sei un sincero democratico dotato di senso dell'umorismo, se dai del banana a un africano sei un grandissimo bastardo, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Il nostro eccellente Giuseppe De Bellis si è già esibito sul Giornale scrivendo cose giuste sul caso Carlo Tavecchio, un cognome che ha una componente offensiva: in una società nella quale l'unico settore che non cala, bensì cresce, è la chirurgia plastica, accompagnata da terapie antiossidanti e roba simile, evidentemente la vecchiaia è considerata un'infamia. Chiedo scusa se mi cito. Su Twitter - la palestra dell'insulto elevato a categoria del pensiero - vi sono numerosi gentiluomini che, quando non sono d'accordo con me, non si limitano a dirmelo: mi coprono di contumelie fra cui spiccano quelle riferite alla mia non verde età, tipo «vecchio stronzo», «vecchio rimbambito», «brutto vecchio, cedi il tuo posto privilegiato a un giovane», «vecchio bollito» (la variante è «brasato»). La parolaccia è entrata prepotentemente nei conversari correnti e quella che ferisce di più è «vecchio porco». Una volta si chiamavano «vecchi» i genitori, e nessun papà e nessuna mamma si adontavano. Ma oggi il sostantivo/aggettivo «vecchio» ha un significato talmente negativo da essere impronunciabile. Provate a dire a una signora che è vecchia: vi mangia vivi per dimostrare di avere ancora denti buoni e un'ottima digestione. Torniamo a Tavecchio. Lo sciagurato, aspirante presidente della Federazione italiana giuoco calcio, in un discorso programmatico in cui ha espresso concetti condivisibili, si è lasciato scappare una frase che i più moderati hanno giudicato infelice. Questa, all'incirca: «Nel nostro Paese i club pedatori trascurano i giovani e inseriscono nella rosa dei titolari ragazzi modesti che fino a ieri si nutrivano di banane». Vogliamo esagerare? Non si è trattato di proposizione elegante, ma simile a mille altre che quotidianamente si odono in ogni ambiente. Anche nei giornali. Per esempio: il soprannome più diffuso di Silvio Berlusconi è il Banana, che viene usato regolarmente su giornali e in spiritosissimi (si fa per dire) programmi televisivi satirici. Dal che si evince che c'è Banana e banana. Se dai del banana al Cavaliere sei un sincero democratico dotato di senso dell'umorismo, se, viceversa, dai del banana a un africano abbronzatissimo sei un grandissimo bastardo, sinonimo delicato di figlio di puttana. E ti espellono dal consorzio civile. Mi domando: come mai la banana ha una doppia reputazione a seconda di chi la mangia o, meglio, la interpreta? Trattasi peraltro di un frutto nobile, buono, nutriente e, fino a mezzo secolo fa, raro, il che lo rendeva prezioso. Quando ero bambino, soltanto Babbo Natale provvedeva a regalarmene una (di numero) per allietare la mia povera mensa. La trovavo la mattina sul tavolo della cucina accanto a due o tre pipe di zucchero rosso, un paio di arance e un'automobilina di latta. Se non ricordo male, c'era tra quel bendidio anche qualche carruba: forse non è un dettaglio importante per voi che leggete, ma, a mio avviso, rende l'idea del mondo in cui vivevamo, ammesso che ciò sia interessante. Ecco. Abbacinato dai doni piovuti dal cielo, rimanevo in contemplazione dei medesimi per alcuni minuti, poi afferravo la banana, la incartavo e la portavo a un vicino di casa che sapevo esserne golosissimo. Suonavo alla sua porta e non appena egli si affacciava gli porgevo il frutto. Lui mi abbracciava e ringraziava. Per me era una soddisfazione, anche se non ero iscritto all'Arcigay. Il costume è mutato. Se oggi facessi omaggio di una banana all'inquilino del mio piano, sarei preso a calci nel deretano (eufemismo di culo). Tavecchio ha 71 anni, quanti ne ho io. Sono certo che per lui, come per me, la semantica bananiera non ha alcuna valenza respingente. Sarebbe assurdo il contrario. Constato che ormai in Italia non si discute più sui contenuti, ma sull'involucro lessicale. Personalmente, ai tempi in cui gli extracomunitari furono malmenati e sfruttati a Rosarno (Calabria), pubblicai questo titolo sul Giornale : «Hanno ragione i negri». Non l'avessi mai fatto. Le penne di lusso, su numerosi quotidiani, mi redarguirono aspramente. Pier Luigi Battista del Corriere mi crocifisse. L'Ordine dei giornalisti mi processò dopo avermi tenuto sotto inchiesta quattro anni: fui assolto, e me ne stupii piacevolmente. Avevo dato la causa per persa, poiché nessuno aveva letto l'articolo che difendeva i poveracci: tutti si erano soffermati con indignazione solo sul termine «negri». Il nostro direttore Alessandro Sallusti è pure stato sottoposto a procedimento disciplinare (si attende la sentenza) perché ha chiamato zingari gli zingari. E come doveva chiamarli? Extraterrestri? Le fobie linguistiche contrassegnano la nostra epoca politicamente corretta, forse, sicuramente imbecille. I netturbini non sono più spazzini, anche perché non spazzano una mazza, ma operatori ecologici. Guai a non attenersi al nuovo bon ton. Magari non ti denunciano, ma ti sputtanano, ti danno del razzista. Veniamo ai sordi. Che non sono più tali anche se non sentono: meritano l'appellativo di audiolesi. Tra poco definiremo così gli impotenti: tirolesi. Ovviamente gli orbi non sono orbi ma ipovedenti. E i ciechi non sono ciechi ma non vedenti. Con angoscia mi chiedo: come posso etichettare uno stitico seguendo lo stesso metodo glottologico? Sono in imbarazzo. Il vituperato Tavecchio immagino sia sorpreso dal trattamento ricevuto per avere detto la verità con parole sue, brutte ma chiare. Condannato per una banana. Non è serio. Anche perché egli ha centrato il problema. Il nostro calcio è in declino in quanto esterofilo: apre le porte all'Africa e le chiude alla Campania e al Friuli, vivai di campioni o almeno di ottimi giocatori. Anche all'estero hanno arricciato il naso per le banane di Tavecchio. Ridicolo. Noi italiani, anche orobici, valdostani e veneti, veniamo dileggiati con i soliti luoghi comuni: spaghettari, mandolinari, pizzaioli. E ci tocca stare zitti o, al massimo, sorridere. Se però evochiamo la banana siamo rovinati. E i primi a rovinarci sono i nostri compatrioti spaghettari della malora.
Italiani ipocriti, come se il problema del calcio fosse solo una banana.
La follia dell’accesso allo stadio in Italia: storia di una domenica pomeriggio qualsiasi, scrive Leonardo Daga. E’ mattina presto, è la befana. Non cerco vicino un camino che non ho se ho regali nella calza, cerco solo le mie cose per proteggermi da un freddo che non ci sarà e partire alla volta di Parma. C’è una partita, Parma-Toro, che il Toro perderà meritatamente, ma non è questo il punto. Io parto da una località sulla costa Marchigiana, 390 Km di autostrada destinazione Parma, appuntamento con i miei amici di Roma nei pressi di Bologna per andare insieme allo stadio. A loro tocca percorrere circa 460 Km. Non ci spaventa. Non abbiamo i biglietti, la società che li emette ha chiuso l’emissione negli ultimi giorni per motivi non precisati, anche ai detentori della tessera del Tifoso. Abbiamo deciso di andare lo stesso, come l’anno scorso faremo i biglietti per la curva dei tifosi locali e poi ci faranno entrare lo stesso nel settore ospiti… tipica follia italiana. Arriviamo un’ora prima al casello, la polizia ferma le macchine e ci costringe ad entrare in un parcheggio nei pressi del casello di Parma. Dobbiamo prendere un autobus per arrivare allo stadio, per motivi di sicurezza e perché nei dintorni dello stadio non ci sono abbastanza parcheggi per le macchine. Non ci scomponiamo, siamo abituati in quanto tifosi a questo essere trattati da extracomunitari appena approdati a Lampedusa. Aspettiamo pazienti, non siamo tifosi turbolenti come gli steward dicono essere i tifosi dell’altra squadra di Torino. Ma passa il tempo, molto tempo. Mezz’ora ad aspettare, ci giungono voci di file ai botteghini, incomprensibili. Ci chiedono quanti di noi non hanno il biglietto, pensiamo che sia perché ce li vogliono mettere da parte in biglietteria, ma non è per questo. La polizia che fa i fatti propri, noi che ci lamentiamo ma cerchiamo di mantenere la calma. Si parte finalmente. Lo stadio è al centro della città, la città viene bloccata al passaggio dei tifosi, un servizio di almeno 6-7 poliziotti ci fa da scorta manco dovessimo recarci ad un penitenziario. Arrivo allo stadio. Ci rechiamo alla biglietteria sotto il settore ospiti. I biglietti sono in vendita solo per i possessori della tessera del tifoso. Bisogna andare alla biglietteria della tifoseria locale. E’ una follia. Corriamo, una lunga fila si prospetta davanti a noi, per la maggior parte tifosi del Parma, la fila avanza lenta perché i terminali funzionano male o gli operatori non sono sveglissimi. Inizia la partita, noi abbiamo ancora una ventina di persone davanti a noi. Ci giunge notizia del gol di Immobile, è il 20′ minuto. Siamo contenti per il risultato ma siamo ancora fuori, ancora 6-7 persone davanti a noi. Facciamo finalmente il biglietto, è il 30′ minuto, ci chiedono il documento ma non il codice fiscale, quindi praticamente il controllo riguardo ai diritti di accesso è nullo. Facciamo il biglietto per la curva del Parma perché non si può fare il biglietto per la curva ospiti, ma poi corriamo in quella ospiti e ci fanno entrare lo stesso. La partita non è stata un granché, il Toro viene recuperato e sorpassato come succede spesso negli ultimi anni a Parma, ma non è questo il punto. La partita allo stadio è solo uno spettacolo ma i tifosi vengono trattati come se fossero dei criminali. Qualcuno dovrebbe chiedersi se questa è la ragione per cui molta gente smette di andarci. Qualcuno dovrebbe chiedersi quanto i comuni che ospitano queste manifestazioni perdono economicamente perché la tifoseria ospite viene trattata come un bagaglio scomodo da fare entrare ed uscire velocemente dalla città piuttosto che ospitarla a dovere e promuovere l’immagine della città. Qualcuno dovrebbe chiedersi questo, non solo i politici locali, anche gli stessi responsabili (all’interno del club) dei rapporti con le tifoserie. Soldi e opportunità buttati al vento, in città italiane che avrebbero tanto da offrire e che invece mostrano solo sbarre e polizia.
Caro Direttore, (scrive Giuseppe di Paola a Xavier Jacobelli) conosciamo tutti le traversie che sta passando il nostro calcio, a livello sportivo e dirigenziale. Eppure tutti i disastri letti ed ascoltati in questi giorni non sono nulla rispetto a quanto mi è capitato la settimana scorsa. Vado a rinnovare l'abbonamento della mia squadra del cuore, armato di personale Tessera del Tifoso, modulistica, autorizzazioni e visti che manco andassi in guerra. Con l'occasione, e sfidando i rimbrotti della mia famiglia, penso sia arrivato il momento di regalare il primo abbonamento a mio figlio, che a 9 anni comincia ad appassionarsi al calcio. Mi piace l'idea di tramandare la passione, come mio nonno e poi mi padre hanno fatto con me. Altra modulistica, documento d'identità, segnalazione delle generalità dell'accompagnatore, ma ... la signorina del box office mi chiede: "Dov'è la Tessera del Tifoso del bambino?". "Come, scusi? Ma è un bambino di 9 anni, che Tessera del Tifoso dovrebbe avere? Le garantisco che non ha carichi penali". "Mi spiace, ma l'abbonamento si carica nel chip della Tessera del Tifoso, ed in mancanza di questa non posso fare a suo figlio alcun abbonamento". Ma come, i bei discorsi sull'avvicinare le famiglie allo stadio, riempire le curve di bambini appassionati che saranno la nuova linfa dello sport ... Tutte balle. Obbligare un bambino ad avere la Tessera del Tifoso è spregevole. Chi ha generato questo mostro giuridico non ha mai messo un piede allo stadio, e se l'ha fatto è per andare dritto in Tribuna Elite, con tanto di scorta. Vergogna. Altro che banane. Un papà deluso e scoraggiato.
CORRERE FA MALE?
Ma correre fa male al cuore? Continua negli Usa il dibattito tra chi pensa che l'esercizio fisico estremo sia dannoso per la salute, e chi smentisce questa tesi. Come racconta un articolo del New Yorker, scrive “Panorama”. Il primo fu Filippide. Che, dopo aver corso per i 42 chilometri mitici che avrebbero dato origine alla maratona, crollò a terra morto. Da allora la storia di questa competizione è costellata da incidenti e anche lutti. Il maratoneta Alberto Salazar, a 48 anni, è stato colpito da un attacco di cuore ed è stato salvato da un intervento d'urgenza. Micah True, l'ultramaratoneta protagonista del libro best seller Born to Run, è morto durante una corsa nel deserto del New Mexico. Ryan Shay invece morì durante gli allenamenti per le Olimpiadi del 2008. Tutte queste tragedie colpiscono anche perché la condizione fisica degli atleti dovrebbe proteggerli dalle malattie cardiache. Negli ultimi anni, un piccolo gruppo di cardiologi ha avanzato l'ipotesi che un eccesso di esercizio fisico in realtà danneggi il cuore. Lo scrive il New Yorker in un articolo che cita gli studi di James O'Keefe, direttore di cardiologia preventiva del Mid America Heart Institute di Kansas City, Missouri. O'Keefe sostiene che l'esercizio fisico oltre una certa soglia può portare a malattie cardiache, e diminuire i benefici dell'esercizio fisico moderato. In una video-intervista O'Keefe sostiene che l'esercizio fisico estremo "non è favorevole alla salute cardiovascolare a lungo termine". "Darwin aveva torto su una cosa", dice O'Keefe. "Non è quello che si adatta meglio a sopravvivere, ma quello moderatamente più in forma". Per quelli che credono che la regola del "tutto con moderazione" si possa applicare in vari campi, questo argomento ha un senso. Secondo l'articolo, l'esercizio fisico rimane una delle cose migliori che si possa fare per migliorare la salute cardiovascolare, ma non c'è bisogno di correre maratone per ottenerne i benefici. O'Keefe sostiene che l'esercizio fisico oltre una certa soglia aumenti il rischio cardiovascolare. Ma, data la complessità del cuore, la sua tesi è difficile da smentire. L'eccessivo esercizio è stato costantemente associato alla fibrillazione atriale, un disturbo del ritmo che aumenta il rischio di ictus e lascia in alcune persone la sensazione di debolezza e di essere senza fiato. Uno studio ha esaminato i tassi di fibrillazione atriale in oltre cinquantamila uomini svedesi che avevano partecipato alla Vasaloppet, un evento di novanta chilometri di sci di fondo, per dieci anni. Coloro che hanno portato a termine il maggior numero di gare o che hanno avuto i tempi più veloci sembravano avere un rischio maggiore di fibrillazione atriale. Ma quanto è alto questo rischio? Alcuni suggeriscono che il rischio di fibrillazione atriale per atleti estremi sia cinque volte più alto rispetto a quello dei sedentari. Ma Brian Olshansky, specialista del ritmo cardiaco in Iowa, ha contribuito a ridimensionare questo dato catastrofico: "Diciamo che nell'arco della vita il rischio di fibrillazione atriale è dello 0,3 per cento" (il rischio varia a seconda di diversi fattori, come l'età e l'obesità). "Un aumento di cinque volte, lascia ancora il rischio di fibrillazione atriale ad appena l'1,5 per cento." Però anche John Mandrola, un cardiologo al Baptist Medical Associates di Louisville, Kentucky, mette in guardia contro l'esercizio fisico estremo. Mandrola è stato un ciclista per decenni, e qualche anno fa ha subito un grave incidente motociclistico. Nonostante le fratture dolorose, si rimise rapidamente in sella alla bici, percorrendo 20 miglia nella sua prima corsa dopo l'incidente. Mandrola rimase rapidamente a corto di fiato e stordito, con poche forze. La sensazione era quella descritta più volte dai suoi pazienti: era in fibrillazione atriale. Una volta passata la paura di essere vittima di un ictus, la sua vita però cambiò completamente: per anni, era stato un ciclista a cui era capitato di essere un cardiologo. Adesso era solo un cardiologo. Alcuni scienziati ipotizzano che l'infiammazione possa avere un ruolo nella fibrillazione atriale, e Mandrola cominciò a vedere i danni del suo precedente stile di vita come dovuti a un eccesso di infiammazione: "Non è solo il problema durante una gara. Ma è l'essere in allenamento perenne, che genera il problema". Come Mandrola, anche O'Keefe era una volta un super atleta, e aveva vinto diverse gare di triathlon. Poi, con la mezza età, ha deciso di cambiare il suo approccio. Nell'editoriale O'Keefe e il suo collega Carl Lavie suggeriscono che l'esercizio fisico vigoroso dovrebbe essere limitato a "trenta, cinquanta minuti al giorno." Ma c'è davvero qualche ragione per credere che anni di allenamento duro accorcino la vita, o peggiorino la salute cardiovascolare? Per il momento, no. Infatti altri studi, la maggior parte dei quali della Health Study Runners, suggeriscono che i fattori di rischio per le malattie cardiovascolari continuino a diminuire con l'aumento delle quantità di esercizio fisico. "Dopo aver esaminato i dati, spiega Lisa Rosenbaum, autrice dell'articolo sul New Yorker, la mia impressione è che non ci sono dati convincenti che suggeriscano che la mortalità differisca significativamente tra chi pratica esercizi moderati ed estremi. Ma mentre l'esercizio costante diminuisce la probabilità di avere un attacco di cuore, se siete destinati ad averne uno è più probabile che questo accada mentre vi state sta esercitando. E conclude l'articolo con una riflessione: "La scienza è una risorsa inestimabile per aiutare le persone a condurre una vita più sana, ma non dovrebbe essere un arma per spaventare le persone che non lo fanno".
Quando troppo esercizio fisico fa male al cuore. Gli ultramaratoneti, i ciclisti e gli atleti che fanno triathlon sono gli sportivi a più alto rischio, scrive Marta Buonadonna su “Panorama”. Mi piace correre e ogni volta che, dopo settimane di allenamento, partecipo a qualche garetta, in genere mai più di 10-12 km, nel pacco-gara che mi viene consegnato come premio per il mio modesto sforzo trovo sempre un numero arretrato di qualche rivista per podisti, che sfoglio senza davvero leggerla, perché come podista non mi prendo granché sul serio. Quello che però mi colpisce sempre sono i resoconti delle moltissime gare organizzate in giro per il mondo che prendono la maratona (42 km e 195 metri) quasi come punto di partenza invece che come punto di arrivo, proponendo agli atleti di percorrere distanze ben maggiori, dai 50 ai 100 km e anche oltre. Se la maratona è ormai diventata un'impresa ultrapopolare, alla portata di chiunque abbia il tempo e la voglia di allenarsi a dovere, c'è bisogno di nuove sfide per darsi la carica e sentirsi in forma. Una ricerca pubblicata sulla rivista Mayo Clinic Proceedings getta però un'ombra sulle conseguenze che l'esercizio fisico "estremo" può avere sul cuore. La morte improvvisa a fine marzo, durante un allenamento di routine, dell'ultramaratoneta Micah True all'età di 58 anni è forse uno degli esempi più eclatanti dei rischi cui può andare incontro chi spinge il proprio organismo oltre una certa soglia di sforzo sottoponendo in maniera cronica il proprio cuore a un notevole stress. Micah True, soprannominato Caballo Blanco, non temeva la fatica: poteva arrivare a correre fino a 160 km in un solo giorno. Difficile immaginare una persona più in forma di lui, anche indipendentemente dall'età anagrafica. Eppure l'autopsia svolta sul suo copro ha rivelato che il suo cuore portava tutte le cicatrici degli sforzi fatti. Il sospetto dei medici è che il muscolo abbia subito dei cambiamenti patologici legati proprio all'esercizio fisico estremo cui True si sottoponeva, e che in ultima analisi ne ha provocato la morte per aritmia. Un attimo, ma fare sport non faceva bene? Cosa passo a fare le mie domeniche mattina a sfinirmi di "ripetute" insieme a molti miei volenterosi concittadini se, invece di avere un effetto protettivo, tutto questo sport rischia addirittura di portarmi alla tomba più rapidamente? James O'Keefe, cardiologo del Saint Luke's Hospital di Kansas City, autore dell'articolo, ribadisce che fare attività fisica tutti i giorni è una pratica raccomandatissima e che chi fa sport è molto più sano di chi conduce un'esistenza sedentaria. Il punto è quanta attività fisica fa bene e quando comincia a fare male. L'allenamento di resistenza estremo, come quello che seguiva Caballo Blanco, ma anche quello di chi si allena e fa gare di triathlon, o i ciclisti che percorrono lunghe distanze, può causare, secondo O'Keefe e colleghi, cambiamenti cardiovascolari strutturali transitori e un innalzamento di alcuni biomarker cardiaci che tendono a tornare normali nel giro di una settimana. Ma, per alcune persone, mesi e anni di lesioni ripetute possono portare a sviluppare una fibrosi miocardica e un'aumentata suscettibilità all'aritmia atriale e ventricolare. In uno studio preso in esame dalla rassegna compilata da O'Keefe, circa il 12% di maratoneti apparentemente sani mostravano segni di lesioni miocardiche e nel follow-up dei successivi 2 anni gli eventi coronarici erano molto più frequenti nei maratoneti rispetto al gruppo di controllo. Questa nuova consapevolezza non cambia di una virgola il programma dei miei allenamenti, che non hanno mai raggiunto il livello "estremo" giudicato potenzialmente pericoloso. Per tutti quelli che invece corrono seriamente, lo studio di O'Keefe deve rappresentare un monito a non strafare. Anche perché, spiega l'autore, per godere della maggior parte dei benefici dell'esercizio fisico al cuore basta un livello di sforzo moderato. Superati i 30-60 minuti di sport al giorno il beneficio comincia a diminuire. E la corsa non vale la medaglia.
LA FIDAL ED I VERI ATLETI.
«Obbligo di tessera per le gare»: la «tassa sul sudore» sui ciclisti della domenica. Linus: «Che delusione». Introdotta dalla Federazione da gennaio, costa 25 euro l’anno. Amatori in rivolta, scrive Marco Bonarrigo il 28 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Nel solco di una non proprio nobile tradizione parlamentare, anche la «tassa sul sudore» è stata promulgata all’ultimo secondo utile, nel pomeriggio del 22 dicembre, poco prima che la Federazione Ciclistica Italiana (Fci) chiudesse i battenti per la pausa natalizia. L’effetto è immediato: da lunedì prossimo decine di migliaia di ciclisti italiani che ogni anno si misurano con gare o garette di paese o semplici passeggiate cicloturistiche dovranno pagare un canone di 25 euro l’anno alla Fci ricevendo in cambio una Bike Card senza «nessun servizio assicurativo» o di altro genere. I social network l’hanno subito battezzata «tassa sul sudore».
4 milioni di biglietti. In Italia si staccano ogni anno 4 milioni di «biglietti» per partecipare alle corse ciclistiche. Per acquistarli, dagli anni Cinquanta a oggi, è sufficiente aderire a uno dei 19 enti di promozione sportiva (Eps) autorizzati dal Coni. Nati nel dopoguerra per iniziativa di partiti politici, associazioni di volontariato e patronati sindacali, gli Eps rilasciano centinaia di migliaia di tessere (in genere a buon mercato) dietro presentazione di un certificato medico. Nel nostro sport amatoriale vale da sempre un leale principio di reciprocità: scelgo l’ente più affine a me dal punto di vista geografico, culturale o religioso ma conservo il diritto di partecipare agli eventi organizzati da tutti gli altri. La Federciclismo (cui il Coni ha appena contestato un deficit di bilancio di oltre 2 milioni di euro) non ci sta più e vuole il controllo su chiunque pedali. Dopo aver tentato invano in passato di imporre agli organizzatori un obolo di un euro su ogni partecipante e agli enti un contributo di 1,5 euro a tessera, ha deciso di rivalersi direttamente sui pedalatori. Esclusi Uisp e Acsi — che si sono arresi a un accordo privato — gli altri enti dovranno vendere ai loro soci anche la Bike Card per farli ammettere alle corse.
Soldi per la giustizia sportiva. «Ma quale tassa — si accalora Renato Di Rocco, presidente della Federciclismo — la nostra è un’iniziativa politica per combattere chi ci fa concorrenza sleale con i contributi pubblici. I soldi serviranno a gestire servizi comuni come la giustizia sportiva. Non raccoglieremo più di 70-80 mila euro. Chi non vuole acquistare la Bike Card abbandoni gli enti e si tesseri direttamente con noi: siamo i più seri. La Bike Card offrirà comunque anche dei servizi. Quali? Ci penseremo. L’ha fatto l’atletica, possiamo farlo anche noi». Già, l’atletica leggera. La federazione italiana (Fidal) ha la sua Run Card dal 2014, basata però su un principio diverso da quella ciclistica: invitare alla corsa «organizzata» chi si limita al jogging solitario nei parchi. L’intento è riuscito (50 mila adesioni) ma la tentazione del monopolio resta forte.
Il monopolio Fidal. Dallo scorso anno i 200 mila runner tesserati agli enti di promozione sportiva devono acquistare (15 euro l’anno) anche la Run Card per partecipare alle corse su strada più popolari e gettonate, quelle mezze maratone e maratone su cui la Fidal ha deciso di esercitare il monopolio e dove le tessere Uisp o Libertas da sole non bastano più. Già vessati da spese e tasse, alcuni organizzatori stanno inscenando una ribellione tra il creativo e il sacrilego: limano ad arte le distanze (21,1 chilometri invece di 21,097 e 42,2 al posto dei canonici 42,195 della maratona) e cambiano nome alle gare per mantenerle democraticamente aperte a tutti.
"Dopo le donne, i veri atleti" in Sardegna è bufera sul presidente Fidal. Protesta delle tesserate: frasi sessiste. Ma lui minimizza: volevo solo dire che la gara maschile è più dura, scrive Cristina Nadotti il 30 gennaio 2017 su “La Repubblica”. Stanca e infangata, dopo otto chilometri di corsa campestre, si è guardata intorno esterrefatta, incredula di aver sentito proprio quelle parole. Una volta a casa però Giulia Andreozzi ha deciso di non stare zitta, almeno su Facebook, e ha scritto questo post: "Ci sono cose che nel 2017 non si dovrebbero sentire. Specialmente da chi ricopre cariche pubbliche di un certo rilievo. Oggi a Villacidro si sono disputati i campionati societari di corsa campestre, evento in cui la corsa da sport individuale diventa uno sport di squadra. Una bellissima giornata di sole e di sport. La gara femminile è stata molto combattuta, un percorso molto duro che tutte, dalle prime alle ultime arrivate, abbiamo onorato dando il massimo per le rispettive società. Tuttavia, al termine il presidente della Fidal Sardegna (Sergio Lai n.d.r.), nel presentare la gara maschile che seguiva, ha dichiarato: "Ora arriva la GARA CLOU, vedremo gareggiare i VERI ATLETI". Prendo atto che per lui le donne che avevano appena finito di gareggiare non sarebbero vere atlete. Sono ammissibili simili affermazioni nel 2017? Probabilmente sì, visto che il presidente della Figc si è distinto per analoga attenzione al tema delle donne sportive ed è ancora saldamente al suo posto. Come donna e come sportiva però non ritengo che si possa fare finta di niente o minimizzare. Sono affermazioni gravi e inaccettabili, di cui si dovrebbe essere chiamati a rendere conto". Da Villacidro, comune del Campidano, il post di Giulia ha fatto un balzo verso l'universo mediatico. Assist, l'Associazione nazionale atlete, annuncia che oggi scriverà al presidente del Coni Malagò e al presidente della Fidal Sardegna "che ha pronunciato queste parole offensive e intollerabili" mettendo in copia il ministro dello Sport Lotti e la delegata del governo alle Pari Opportunità, Maria Elena Boschi "Perché siamo stufe e stufi di questi episodi. E se non sentiremo scuse ufficiali, chiederemo le dimissioni". Moltissime le condivisioni del post di Giulia Andreozzi, e tanta, davvero tanta, la solidarietà degli uomini. "È ciò che mi ha colpito di più, dice oggi Giulia - perché in qualche modo l'attenzione delle donne me l'aspettavo. Ho cancellato alcuni commenti che offendevano il presidente, perché ci tengo a precisare che non voglio fare un attacco alla persona, ma al modo in cui si interpreta una carica pubblica. Finora nei confronti di noi atlete avevo notato una sorta di benevolo paternalismo, mai mi era capitato di sentire un'affermazione così grave. Sul momento non ho detto niente per non rovinare la festa e mancare di rispetto agli atleti che stavano ancora gareggiando, ma una volta a casa ho deciso che non si può più stare zitti, gli attacchi alle donne nella nostra società sono davvero troppi". Il presidente Lai cade dalle nuvole: "Cosa? Chi l'ha scritto? Un post su Facebook? Non credo a quello che mi sta dicendo - dice al telefono - un attacco così a me che esalto tutti i miei atleti, uomini e donne. Ho calcato un po' la mano sulla gara dei 10 chilometri perché è la più dura, le donne non li fanno 10 chilometri". Quando gli si fa notare che a scrivere il post è stata appunto una donna, che aveva appena concluso una gara altrettanto massacrante pur se di otto chilometri, Lai taglia corto: "Non ho offeso nessuno, ho un consenso enorme e nel mio consiglio regionale tantissime donne. Proprio non riesco a capire perché tirare fuori una cosa del genere invece che parlare di sport, ma tanto voi parlate soltanto di calcio!". A Villacidro, la società che ha organizzato la gara dà un colpo al cerchio e uno alla botte: "Noi dell'organizzazione non ci siamo accorti del commento in questione - dice Nicola Pittau, dirigente della Olympia Villacidro - il presidente Lai era al microfono per presentare le gare da otto ore, un momento di stanchezza capita. Forse ha voluto calcare la mano sulla gara dei 10mila perché c'era anche un atleta di livello internazionale che ha gareggiato alla maratona di Boston. Però condividiamo il pensiero di Giulia, l'atletica è uno sport bellissimo e nella nostra società maschi e femmine si allenano tutti insieme almeno fino alla categoria allieve".
Running sempre più donna, tutti i numeri di un boom femminile. I dati sulle iscrizioni alle gare e sull'acquisto di scarpe da corsa fotografano la crescita esponenziale delle donne nel podismo amatoriale italiano. Un fenomeno che negli Stati Uniti ha già registrato i primi sorpassi statistici rispetto agli uomini, scrive Maurizio Ricci il 3 febbraio 2017 su "La Repubblica". Le ho viste per anni. Comparivano con gli ultimi freddi di marzo, quando a Villa Pamphili spuntano le prime margherite. Spesso pesantemente infagottate per sudare di più, di solito fra i 30 e i 50 anni, quasi sempre sole e incupite, si infittivano man mano che si accorciava il tempo che le separava dalla prova costume. Correre al femminile, allora, era soprattutto una strategia estetica (e naturalmente parliamo del running amatoriale, certo non dell'atletica agonistica). Quando si scavallava il momento della temuta passerella sotto l'ombrellone, sparivano d'incanto, ibernandosi fino alla primavera successiva. Non più. Sedetevi su una panchina lungo qualche percorso classico di allenamento e le vedrete passare a plotoni, molte semplicemente trotterellando per diporto, parecchie impegnate in fartlek o ripetute. Oppure, date un'occhiata alla vetrina di un negozio di sport e vedrete che le sofisticate multinazionali del settore non dedicherebbero tante ricerca hi-tech e tanto design ad un top o a tute ben disegnate per un corpo femminile per un passatempo occasionale ed effimero. "Sono tante, è un fenomeno in crescita" nota Gianni Giacinti, che presiede una società romana, Rcf-Romasud. "Una parte importante l'hanno avuta le grandi kermesse. A Race for the Cure, per dire, il 50 per cento dei partecipanti è donna". Secondo Giacinti, la spinta iniziale è ancora quella della prova costume: dimagrire. "O anche poter mangiare senza farsi troppi problemi, ma anche senza ingrassare". Ma, sempre più spesso, la corsa diventa presto un'altra cosa. Correre in rosa è, oggi, un'attività sportiva a tutto tondo, in fase di boom, contorno agonistico compreso. L'ultima domenica di gennaio, al tradizionale appuntamento romano della Corsa di Miguel, sono arrivati in fondo ai 10 chilometri della corsa competitiva 3.412 uomini, ma anche 1.003 donne, quasi una su tre. Rispetto a cinque anni fa, gli uomini sono lievemente diminuiti, le donne cresciute di oltre il 10 per cento. Contare chi pratica la corsa senza impegno non è facile. Ma l'unica cosa che non si può fare (o quasi) è correre senza scarpe. Nel 2008, la Saucony, una marca che produce scarpe soprattutto tecniche, realizzava il 71 per cento del suo fatturato con le scarpe per uomini e il 25 per cento con quelle per donne. Oggi, le scarpe femminili sono salite al 35 per cento delle vendite. Nel running, tuttavia, anche le gare sono un indicatore importante. Perché, quando la corsa diventa una cosa più seria, la gara è uno sbocco inevitabile. Si può avere, dunque, un'idea della diffusione del running, guardando ai dati delle iscrizioni alla Fidal, passaggio necessario per arrivare a mettersi un pettorale. Prendiamo solo gli ultratrentacinquenni, partendo dal presupposto che, oltre quell'età, difficilmente troviamo iscritti o iscritte dediti al lancio del disco o alla 4x100. In realtà, perdiamo probabilmente qualche numero: a 25-30 anni, una ragazza che vuol fare sport è facile che cominci a correre, mentre i suoi coetanei maschi è più probabile siano su un campo di calcetto, se non davanti alla playstation. "E' vero - dice Giacinti - che le ragazze che corrono sono mediamente più giovani degli uomini. Forse perché avvertono prima il problema di sentirsi in forma". A naso, si potrebbero spiegare anche così i dati della categoria senior, cioè iscritti e iscritte fra i 23 e i 35 anni. Stagnanti per tutti i primi dieci anni del secolo, dal 2010 hanno avuto un balzo: gli uomini sono aumentati del 40 per 100, le ragazze, però, sono raddoppiate. Ma torniamo agli ultratrentacinquenni. Nel 2000, dunque, il 15 per cento degli iscritti alla Fidal di età superiore ai 35 anni, era donna. Nel 2014, abbiamo superato il 23 per cento, un balzo, in proporzione, della metà. L'anno scorso, se si tiene conto dell'introduzione della Runcard, che consente di svolgere attività agonistica senza passare attraverso una società, la quota di donne abbastanza seriamente impegnate nella corsa da pensare alle gare è stata il 22 per cento, più di un quinto degli iscritti. La conferma viene dalla gara delle gare, qualcosa che si affronta solo con un patrimonio di dedizione e mesi di allenamento intenso: la maratona. Nel 2007, le italiane che avevano concluso una maratona erano 3.664. Dieci anni dopo sono state quasi il doppio: 6.394. Rispetto al totale dei maratoneti sono passate dall'11 a oltre il 16 per cento. E, nel futuro, è possibile che ci sia il sorpasso. In America, c'è già stato. Anche senza considerare chi, anche oltreoceano, ha in mente soprattutto la prova costume, chi si limita alle pedane dei centri fitness o fa soltanto su e giù per i giardini pubblici con un'amica, la corsa negli Stati Uniti è, ormai, uno sport femminile. I maligni dicono che è perché, correndo, al contrario che nel tennis o nel nuoto, si può chiacchierare. Ma, anche qui, il termometro sono le gare. L'anno scorso il 57 per cento degli atleti che ha concluso una gara agonistica, dai 5 chilometri in su, era donna. Non è una novità: il sorpasso sugli uomini, dietro un pettorale, è avvenuto nel 2010. Le gare per sole donne, comuni fino a qualche anno fa, non ci sono più. "Ormai le donne sono la maggioranza in quasi tutte le corse" ha detto al Wall Street Journal Mary Wittemberg, che per anni ha gestito la maratona di New York. Proprio nell'impegno più duro, ancora non ci siamo. Ma anche nella grande classica, siamo sempre più vicini. I partecipanti alle mezze maratone d'oltreoceano sono già per il 61 per cento donne. Per la maratona siamo al 44 per cento.
L’ITALIA DEGLI ABILITATI. ESAME DI ABILITAZIONE ANCHE PER CORRERE.
Non solo gli avvocati, o gli altri professionisti, possono svolgere la professione unicamente se abilitati, ma anche i podisti non possono correre se non abilitati FIDAL.
«Mens sana in corpore sano, dice un vecchio adagio. Che il corpo troppo sano dia alla testa? Se non sei tesserato (abilitato) FIDAL non puoi correre nelle manifestazioni da loro organizzate. Se, invece, sei un tesserato FIDAL non puoi correre nei raduni organizzati da altri.»
Questo denuncia il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” ed autore del libro “Sportopoli.”
Nell'atletica leggera, la corsa su strada comprende gare su strade comuni, generalmente in asfalto o di campagna, e su distanze che vanno dai 5 ai 100 km.
Queste corse possono essere competitive e non competitive.
Corse competitive. Le specialità più celebri tra le corse su strada sono la maratona, che si corre su una distanza di 42.195 m, e la mezza maratona, che si corre su una distanza di 21.097 m.
Sempre più diffuse sono le gare di ultramaratona, specialità che identifica gare di corsa che hanno una distanza superiore a 42,195 km (distanza ufficiale della maratona). L'ultramaratona su strada più conosciuta è la 100 km, ratificata dalla IAAF. In tutto il mondo vengono anche organizzate svariate competizioni, su distanze comprese dai 5 ai 30 km. La IAAF riconosce ufficialmente le gare su distanze di 10, 15, 20, 25 e 30 km, ratificando per ognuna di queste specialità i propri record mondiali e continentali. Data la varietà di competizioni, le gare più brevi rappresentano anche un utile e realistico allenamento per atleti normalmente impegnati su distanze maggiori, che le includono a volte nei loro programmi di allenamento. In ambito italiano, la FIDAL organizza attività su strada a livello nazionale, regionale e provinciale. Esistono anche manifestazioni agonistiche organizzate dagli enti di promozioni sportiva come UISP, CSI, LIBERTAS, AICS, ecc.
Corse non competitive. In ogni parte d'Italia si organizzano corse non competitive denominate anche marce o camminate per il fatto che sono a passo libero, cioè vi partecipano sia podisti che camminatori. Queste manifestazioni non sono riconosciute dalla FIDAL (la federazione sovrintende solo l'attività agonistica) e vengono organizzate sotto il patrocinio degli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI o da organizzazioni non riconosciute come ad esempio la FIASP. Molti gruppi o comitati amatoriali organizzano corse per puro divertimento per fare sport e passare un momento di relax in compagnia ed all’aria aperta. Queste gare vedono spesso la presenza anche di atleti tesserati che le affrontano per allenamento. Esse rappresentano comunque un modo per avvicinarsi al mondo dell'atletica.
Come si è spiegato la differenza tra le corse sta nel riconoscimento degli eventuali record, nell’individuazione di eventuali futuri campioni e nell’antagonismo delle squadre iscritte. Nelle corse competitive ci sono i direttori di gara. Per entrambe le corse si paga un ticket di partecipazione.
La differenza tra Agonisti o non agonisti sta principalmente nel fatto che, per essere considerati agonisti e per partecipare all'attività competitiva (organizzata sia dalla FIDAL che da altri enti), è necessario avere l'idoneità alla pratica agonistica. L'idoneità viene rilasciata dopo un'approfondita visita medica, dalla sanità nazionale o da centri autorizzati. Nella maggior parte delle manifestazioni, comunque, oltre alla gara competitiva, viene proposta una prova non competitiva sulla stessa distanza e/o su distanza ridotta, per incentivare la partecipazione e permettere anche alle persone prive di un'adeguata preparazione atletica di vivere un momento di sport e socializzazione.
Quando questo succede, nelle manifestazioni simultanee, spesso ai non agonisti non viene riconosciuto un premio per la vittoria di categoria. Non è raro che qualcuno di questi, però, sia più forte degli agonisti. Chi partecipa alle corse lo sa.
Qualcuno dirà: Cosa si denuncia con questo articolo? Dove è l’inghippo?
Con questo articolo si da voce a tutti coloro, comitati od associazioni, che organizzano unicamente le corse non competitive e che sono destinatarie degli strali della FIDAL. Spesso e volentieri la FIDAL cerca di impedire, con diffide legali inviate agli organizzatori di corse non competitive ed alle autorità locali, lo svolgimento delle manifestazioni da questi organizzati.
Non ci si ferma qui. Nelle pagine facebook di gruppi di podisti agonisti e non agonisti vi sono intimidazioni da parte degli iscritti alla FIDAL nei confronti dei loro colleghi, avvisandoli che nel partecipare a corse non competitive comporta per loro l’adozione di sanzioni.
A riprova di ciò basta cercare “minacce FIDAL” o “polemica FIDAL” su un motore di ricerca web e si troverà tutto quello che finora non si è cercato. E cioè provare che il monopolio delle corse è in mano alla FIDAL, perché sono impedite le gare non competitive, non foss’altro, anche, inibendo la partecipazione a queste manifestazioni ai suoi tesserati. Tesserati che a loro volta, ignavi, si fanno intimorire.
La corsa podistica non è cosa loro, della FIDAL e simili.
Un abominio, non fosse altro che ognuno di noi, anche i tesserati di un organismo sportivo, siamo soggetti agli articoli 16 e 17 della Costituzione italiana e quindi liberi di muoverci in compagnia….anche di corsa.
TIFO E POLITICA.
La connessione tra tifoserie e politica, soprattutto nel mondo del calcio, è un fenomeno piuttosto rilevante, che emerge in maniera molto evidente in alcuni club calcistici. La connotazione estremista, sia di destra che di sinistra, è la caratteristica più evidente della politicizzazione delle curve. Va tenuto presente che, vista la presenza di fazioni ultras schierate politicamente, talvolta le curve sono state viste e strumentalizzate come bacino elettorale. La politicizzazione di una tifoseria si manifesta principalmente nei cori, negli striscioni e nei simboli utilizzati dagli ultras ma va registrata anche la comparsa o la distribuzione di fogli e fanzine politiche in curva. Alcuni striscioni sono stati condannati dall'opinione pubblica, dai mezzi di comunicazione e dalle istituzioni poiché riconducibili al razzismo o all'antisemitismo, inneggianti a figure dittatoriali quali Stalin, Hitler o Mussolini accusabili di apologia del fascismo o di derisione delle vittime delle foibe.
Di destra, di Sinistra e un po' di Lega: la mappa politica del tifo, scriveva già Luca Valdiserri a pagina 25 (10 agosto 1993) sul Corriere della Sera. Politica? E in che squadra gioca? Molti ultrà risponderebbero così: per la maggior parte di loro le partite sono la realtà e i partiti una cosa astratta. Difficile costruire una mappa italiana del voto nelle varie "curve" Nord e Sud. Lo conferma il sociologo Alessandro Dal Lago, autore di "Regalateci un sogno, miti e realtà del tifo calcistico in Italia": "L'interesse degli ultrà per la politica è minimo. Spesso l'argomento viene liquidato con rapidi accenni e luoghi comuni del tipo: "i politici sono una massa di deficienti...quando vanno al potere pensano solo ad incassare i soldi". La scelta politica, quando c'è, è del singolo e non del clan. Eppure, per tradizione e per scelta, una spaccatura c'è. Fama di destra hanno i gruppi organizzati di Inter, Verona e Lazio, spesso al centro di episodi a sfondo razzista (i cori contro Gullit, le scritte contro Winter). Parte dei Drughi bianconeri (il nome viene dal film "Arancia meccanica") ha eletto a suo idolo Paolo Di Canio per le simpatie politiche dell'ex laziale. Atalanta e Brescia hanno visto crescere nelle curve i simboli e le sciarpe della Lega Lombarda. Roma e Milan hanno invece una tradizione popolare e di sinistra. La Fossa dei Leoni rossonera, nata nel calderone del '68, sventolava un bandierone con il ritratto di Che Guevara. Abbandonato con il "riflusso" degli anni Ottanta. Nelle zone "rosse" del centro Italia c'è stato anche l'intervento diretto delle Cooperative nelle società, come per la Reggiana: solo Cesena ebbe anni fa una spaccatura nelle "Weiss Schwartz Brigaden", opera di "secessionisti" di destra. Bologna fece la sua scelta nel basket: "rossa" la Virtus e "bianca" la Fortitudo, ma la distinzione si è persa negli anni. La politica resta un pretesto. Sull'aria del tradizionale motivo comunista "I morti di Reggio Emilia" è facile sentire cantare negli stadi italiani: "Sangue nei popolari, sangue giù nei distinti. Le abbiamo prese, ma non siamo vinti". E all'estero? Nella ex Jugoslavia, cetnici serbi e ustascia croati hanno trovato buoni serbatoi di arruolati tra le tifoserie di Stella Rossa Belgrado e della ex Dinamo Zagabria (come dimostrato da F. Radin, in uno studio dell'Università di Zagabria). In Germania i naziskin hanno spopolato a Est (Dynamo Dresda, Lipsia), crescendo con il malcontento dopo la caduta del Muro. In Francia la dirigenza del Paris Saint Germain ha annullato a tempo indeterminato le trasferte organizzate per tifosi dopo gli scontri al Velodrome di Marsiglia. A guidare i facinorosi, i soliti skinheads.
Salve a tutti, scrive Maicol su “Lupinaria”. Mi è stato chiesto, in quanto esperto del fenomeno ed assiduo frequentatore di stadi in giro per l'Italia, di catalogarvi tutte le curve "nere". L'impresa (purtroppo) appare ardua ma con un poco di impegno cercherò di chiarire la situazione ai più profani e nello stesso tempo conoscere la geografia politica del movimento Ultras in Italia. Juventus: un tempo orientata a sinistra (i Fighters nel loro primo striscione come simbolo aveva la chiave inglese), la curva bianconera negli anni '80 si è "spostata" a destra. Presenti celtiche e simboli fascisti fino a quando la legge italiana non ne ha vietato l'ingresso, molti sono stati gli striscioni a carattere razzista esposti.
Torino: da segnalare in curva i Granata Korps, nati nel 1985 da una scissione con gli Ultras Granata proprio per motivi politici. Il gruppo è passato alle cronache quando il suo massimo esponente, lo Yeti, ha annegato un marocchino nel Po. Nella curva del Toro molte furono le scazzottate con gli UG a causa delle divergenze politiche. Oggi vi è una convivenza pacifica in quanto vige il patto che la politica deve rimanere fuori dalla curva.
Milan: curva un tempo molto orientata a sinistra, oggi presenta come gruppo di destra i Rams (il cartello stradale divieto di svolta a sinistra il loro simbolo). Comunque la curva rimane in mano alla Fossa dei Leoni e Brigate Rossonere i quali sono i gruppi più numerosi ed organizzatori del tifo nella Sud.
Inter: curva interamente di destra, passata alle cronache per striscioni a caratttere fortemente razzista verso extracomunitari e meridionali ("Hitler: prima gli ebrei oggi i napoletani" diceva uno striscione che scatenò parecchie reazioni nei primi anni '90). Il gruppo skinheads è conosciuto anche per azioni fuori dagli stadi tipo pestaggi a barboni e caccia agli stranieri. Curva nota anche per i suoi continui ululati verso giocatori di colore.
Udinese: come molte tifoserie del Nord-Est la curva bianconera si trova schierata a destra anche se nella loro curva simboli di destra se ne sono visti pochi. Amici dei Korps di Torino hanno varie volte esposto striscioni in solidarietà dello Yeti.
Varese: molto orientata a destra, ha per gruppo trainante i Blood and Honours. Canti riconducibili al ventennio sono routine nel loro settore, mentre celtiche ed addirittura svastiche sono state più volte esposte. Da registrare molti scontri con tifoserie "rosse".
Trieste: motivi storici hanno portato a fare della curva triestina una delle più anticomuniste in Italia. Esposizione di svastiche e simboli riconducibili al periodo nazifascista era quasi obbligatorio ed in tutte le partite dalla curva triestina viene cantato l'inno di Mameli. Ultimamente per la partita contro la Slovenia a Trieste si sono registrati scontri causati per lo più da ragioni storico-politiche.
Verona: la curva veronese è passata alle cronache nazionali molte volte a causa della sua connotazione politica. Oltre alla massiccia presenza di svastiche e celtiche in curva, hanno colpito l'opinione pubblica con l'esposizione in curva di un manichino nero impiccato quando la società gialloblù stava per acquistare un giocatore di colore. Per la cronaca l'acquisto non fu fatto. Molti gli scontri con tifoserie di sinistra, negli anni '80 molte battaglie contro gli Ultras Granata. Anche loro conosciuti per gli immancabili ululati ogni domenica a giocatori di colore.
Lazio: con gli Eagles supporters i tifosi della Lazio non avevano una spiccata connotazione politica, ma con il loro scioglimento e la fondazione degli Irriducibili la svolta a destra è stata rilevante. Svastiche e celtiche sempre presenti, canti a Mussolini inneggiati in ogni stadio di Italia, scontri con tifoserie di sinistra e l'eclatante striscione per la tigre Arkan hanno tenuto gli Irriducibili sempre al centro dell'attenzione dei media. Gemellati con i veronesi sono conosciuti anch'essi per azioni fuori dallo stadio contro extracomunitari.
Roma: un tempo di sinistra, la curva della Roma negli ultimi anni ha subito una fascistizzazione. Con lo scioglimento del Commando Ultrà Curva Sud causato anche da motivi politici sono venuti fuori diversi gruppi di destra che hanno preso in mano la curva Sud. Non sono mancate le esposizioni di simboli neofascisti in questi ultimi anni.
Ascoli: curva molto "nera" è guidata dal Settembre Bianconero. Presenti simboli nazifascisti, soprattutto in passato nei derby contro l'Ancona e la sua tifoseria "rossa", oggi si può vedere sventolare anche bandiere palestinesi. Cori di stampo fascista si elevano domenicalmente dalle gradinate, da ricordare l'amicizia con i laziali.
Reggina: curva tendenzialmente di destra, cori e simboli fascisti sono stati presenti nella loro curva. I Boys, gruppo trainante sono molto amici con i Korps di Torino. Meno politicizzati il CUCN, da segnalare come gruppo minore gli Oltranzisti.
Palermo: la curva rosanero è molto orientata a destra. Oltre ai soliti simboli sono stati al centro dell'attenzione per uno "scontro" politico con il ministro Giovanna Melandri.
Ho voluto qui elencare alcune delle curve più "nere" d'Italia, ma ve ne sono altre che per vari motivi non ho inserito. Ho voluto parlare di quelle curve dove sono avvenuti i fatti più rilevanti e che anagraficamente sono più vecchie. Vorrei in queste righe ricordare come tifoserie di destra i comaschi (Blue Fans), i padovani (Hells Angels Ghetto), i trevigiani, i Jacobins di Perugia, i baresi. Inoltre per la cronaca ricordo che in curve come quella bergamasca e veneziana ci sono anche gruppi leghisti.
Calcio, la mappa dei gruppi ultras: domina l'estrema destra, oltre 40 mila tifosi. I dati sono forniti dall'Ucigos, l'ufficio del Viminale che si occupa del tifo più violento. Nelle curve italiane, sono attivi più di 41mila hooligan organizzati in quasi 400 sodalizi: 45 di questi si caratterizzano per posizioni filofasciste. In calo gli episodi di razzismo, in aumento quelli di discriminazione territoriale, scrive Il Fatto Quotidiano. Domina l’estrema destra nelle curve italiane, dove dettano legge più di 41mila ultras organizzati in quasi 400 gruppi. E’ questo il quadro restituito da Carlo Ambra, vice questore aggiunto Ucigos, l’ufficio del Viminale che si occupa del tifo estremo. Dall’analisi delle forze dell’ordine, emerge come siano più contenuti gli episodi di razzismo, ma allo stesso tempo aumentino gli interventi per discriminazione territoriale. E ancora, al contrario di quanto si possa pensare, la maggior parte dei gruppi ultras sono disponibili alla mediazione con le forze dell’ordine. Il ritratto delle curve italiane tracciato da Carlo Ambra è a tinte fortemente nere. Dall’ultimo censimento effettuato ad agosto scorso, “risultano attivi 388 gruppi ultras, composti da 41.120 supporter – spiega Ambra – Di questi 388 sodalizi, 45 sono di estrema destra, 15 di estrema sinistra e 9 misti, perché al proprio interno comprendono sia elementi di estrema destra sia gruppi di estrema sinistra”. Delle formazioni filofasciste, riferisce Ambra, “17 sono in serie A, 18 in serie B, 6 in Lega Pro-prima divisione e 4 in seconda divisione”. All’interno dei gruppi misti, invece, “convivono diverse anime. Si possono trovare simpatizzanti di destra e sinistra nello stesso pulmann per le trasferte o nell’organizzazione delle coreografie. A riprova del fatto che la fede calcistica, in alcuni casi, è più forte dell’appartenenza politica”. Un dato inaspettato è quello dei rapporti con le forze dell’ordine. Ambra riferisce che se “43 gruppi non accettano il dialogo, ve ne sono invece 138 che hanno un’altra predisposizione” e perciò più inclini alla mediazione. Nella scorsa stagione calcistica, si evince ancora dai dati Ucigos, per violazione della legge Mancino sono state arrestate 3 persone, 15 le persone denunciate. “Le tifoserie che più si sono messe in evidenza per questi aspetti -sottolinea Ambra- sono quella della Lazio, con 8 episodi, seguiti dalle tifoserie di Juventus (3 casi) e Roma (2 casi)”. Sono stati “18 gli episodi di cori razzisti. La quasi totalità si è concretizzata con il "buuu", il verso scimmiesco all’indirizzo dei calciatori di colore”. Quanto alla distribuzione dei gruppi ultras per regione, “la maglia rosa va alla Lombardia, con 56 sodalizi. A seguire la Campania con 50, Liguria e Toscana ne hanno 42”. Nello scorso campionato, spiega ancora il vice questore aggiunto Ucigos, “si sono sciolti 30 gruppi, a fronte di 22 che si sono creati ex novo”. Tra le cause delle scissioni, la fa da padrone “in 14 casi, il venir meno degli aderenti. In 7 casi si sono disgregati per conflittualità interna, in 3 casi per protesta al programma della tessera del tifoso. E in altri 3 casi a seguito di attività repressiva. In un solo caso si è registrata una fusione tra club”.
CONNOTAZIONE POLITICA DELLE TIFOSERIE. Grazie all’attività delle “Squadra Tifoserie” è stato possibile delineare una mappa esaustiva delle tifoserie, acquisendo preziose informazioni sulla loro genesi ed evoluzione, sui fattori che le caratterizzano o che le differenziano e sui comportamenti dei tifosi, con particolare riferimento alle strategie attuate in occasione degli incontri di calcio, scrive “Tutti allo stadio”. Dall’analisi delle componenti politiche, è emerso che su 128 squadre militanti nei campionati di serie “A”, “B”, “C1” e “C2”, 27 tifoserie sono orientate verso posizioni politiche di destra, 15 di sinistra e 7 sono composte, anche se con percentuali differenti, da frange di diverso orientamento (Bologna, Brescia, Milan, Perugia, Lucchese, Crotone e Sora), mentre le restanti 79 sono apolitiche. Sul piano strettamente quantitativo, il fenomeno della politicizzazione continua, dunque ad interessare soltanto una componente minoritaria delle tifoserie, nelle quali l’elemento di coesione prevalente rimane la passione calcistica per una squadra e, in talune circostanze, l’esigenza di risolvere problematiche comuni legate al mondo del calcio. Emblematiche sono al riguardo le riunioni che si sono svolte nel corso del campionato tra le tifoserie italiane, quale primo vero tentativo – portato avanti dal “Progetto Ultrà” – di costituire un “Movimento Ultras” nazionale in grado di sostenere, prescindendo dalle differenti ideologie politiche e “fedi calcistiche”, problematiche di comune interesse. Tuttavia, dall’esito dei predetti incontri, si è avuta conferma della tendenza da parte della maggioranza delle tifoserie di “tenere la politica il più possibile lontano dalle curve”. Del pari, occorre evidenziare, che alcune frange ultras attestate su posizioni ideologiche più estreme, nelle cui fila risultano presenti anche militanti di movimenti politici di estrema sinistra e di estrema destra, hanno svolto attività di proselitismo politico all’interno delle curve, distribuendo, in alcune circostanze, ciclostilati – “fanzine” e volantini – con contenuti politici. Il rischio di infiltrazioni politiche all'interno delle curve rimane pertanto alto ed è oggetto di costante attenzione non solo da parte delle “Squadre Tifoserie” ma anche delle sezioni delle Digos che seguono l’estremismo politico. Dall'analisi dei dati relativi alle ultime stagioni calcistiche, emerge che le tifoserie "politicamente affini" spesso sono tra loro gemellate e si scambiano, anche via internet, notizie circa eventuali iniziative da intraprendere anche in circostanze diverse da quelle connesse allo svolgimento degli incontri di calcio, ma comunque attinenti al mondo dello sport. In particolare, si è avuto modo di constatare che mentre le tifoserie di sinistra sono solite organizzare iniziative nazionali al fine di individuare punti di comune interesse, quelle di destra, pur non avendo - anche in questo campionato - portato avanti programmi aggregativi 1, risultano tra loro collegate, presenziando ad incontri di calcio di squadre diverse da quelle del "cuore" ed in alcune circostanze anche prendendo parte attiva ad episodi di intemperanza.
TIFOSERIE DI SINISTRA: Sin dall’inizio del campionato si è registrato un incremento dei contatti tra le tifoserie orientate politicamente su posizioni di estrema sinistra, finalizzato a pianificare strategie comuni per contestare la normativa antiviolenza e contrastare il fenomeno della cosiddetta "fascistizzazione" delle curve "che ha visto il progressivo aumento di gruppi ideologicamente vicini all'estrema destra".
FRONTE DI RESISTENZA ULTRAS:
1. Si ricorda che l'unica iniziativa – che ha, tra l’altro, registrato una scarsissima adesione - è stata quella della costituzione, nelle trascorse stagioni calcistiche, di un club di tifosi denominato "Viking Italia", disposti a seguire la nazionale italiana durante le trasferte. Nella delineata prospettiva, si inserisce la costituzione del “Fronte di Resistenza Ultras” - avvenuta in occasione del terzo meeting antirazzista organizzato la scorsa estate a Narni (TR) - quale primo tentativo da parte delle tifoserie di sinistra di individuare un comune denominatore tra le curve politicamente affini basato sull’ideologia politica. L’attività informativa svolta dalle "Squadra Tifoserie" ha consentito di individuare l’effettiva consistenza del movimento, al quale, al momento, risultano aver aderito le sole tifoserie della Ternana, dell'Ancona e del Livorno. I primi riscontri sull’attività del Fronte risalgono ai mesi di agosto e settembre scorsi, allorchè durante gli incontri di calcio Ancona - Ternana (campionato) e Livorno - Cagliari (Coppa Italia) è stato esposto dalle prime tre tifoserie lo striscione "Resistenza Ultras". A tal proposito, di particolare importanza è stata l’acquisizione nel mese di ottobre da parte della Digos di Livorno di un opuscolo intitolato "Fronte di Resistenza Ultras - Antifascismo Militante". Nel ciclostilato gli estensori esprimono il convincimento che la politica oramai non possa più essere accantonata all'interno delle "curve", sottolineando a tal riguardo l’esigenza di superare i vecchi schemi "puristi" per capire le cause che, da una parte, hanno permesso “rovesciamenti di fronte” (es. le tifoserie della Roma e del Milan, “storicamente di sinistra” ora attestate su posizioni politiche di destra) e, dall'altra, hanno consentito il consolidamento dei vecchi "feudi di destra" (Lazio, Verona, Trieste, Ascoli ecc.). Nell'opuscolo vengono formulate le seguenti proposte del "Fronte":
1) pubblicare una "fanzina" mensile da distribuire nelle curve delle tifoserie di sinistra per consentire lo scambio di esperienze e per individuare congiuntamente soluzioni anti repressive;
2) sviluppare "l'antifascismo militante", individuando a livello locale metodologie di lotta compatibili con le diverse realtà. In tale contesto, le "tifoserie totalmente di sinistra" devono evitare qualsiasi contrasto politico interno, produrre materiale, sviluppare dibattiti, organizzare raduni ed iniziative di propaganda; quelle "per maggioranza di sinistra" devono evitare l'espansione delle frange minoritarie di opposta ideologia politica, rifiutando qualsiasi accordo con queste ultime; quelle "per minoranza di sinistra" devono sviluppare forme di resistenza interna, partecipando a raduni e cercando appoggio nelle altre tifoserie politicamente affini.
3) partecipare collettivamente a manifestazioni di piazza con la propria identità di ultras e con autonome posizioni;
4) rendere visibile la propria adesione al progetto del "Fronte", realizzando un piccolo striscione con la sigla "F.R.U." e la frase "Rispetto per i Compagni". Viene infine rivolto un invito ad esprimere solidarietà a tutti “i compagni colpiti dalla repressione” - prescindendo da rivalità storiche e campanilistiche - al fine di costituire "una forza collettiva di resistenza": in tale contesto, le tifoserie che aderiranno al progetto dovranno assumere una ferma posizione per debellare il razzismo ed il fascismo negli stadi. Il Fronte si è evidenziato nuovamente nel mese di novembre, durante la partita Livorno - Genoa, allorché il noto gruppo ultras "Brigate Autonome Livornesi" distribuì un volantino nel quale veniva rivolto l'invito ai tifosi a partecipare "come ultras" al Social Forum Europeo di Firenze del 9 successivo. Durante il corteo di Firenze , infatti, si è registrata anche la presenza di circa 350 ultras - in rappresentanza di alcune tifoserie italiane attestate su posizioni politiche di sinistra2 - che hanno sfilato dietro uno striscione riportante la dicitura "Fronte di Resistenza Ultras" e scandendo slogan contro il Governo e le forze dell'ordine. Tuttavia, dopo le prime apparizioni pubbliche, il sodalizio non è riuscito a realizzare la sua strategia aggregativa né a raggiungere gli obbiettivi che si era prefissato. La stessa assenza delle tifoserie aderenti al Fronte alle riunioni preliminari (su cui ci si soffermerà in seguito) indette dal "Progetto Ultrà" in vista di una manifestazione nazionale di tutte le tifoserie italiane, lascia presumere un evidente isolamento del movimento dalle altre tifoserie politicamente affini, verosimilmente conseguenza delle posizioni troppo intransigenti e della manifesta indisponibilità del sodalizio a forme di dialogo e di collaborazione con le Istituzioni. Allo stato, comunque, non appare possibile formulare giudizi sull'effettiva consistenza del Fronte. Infatti, in occasione della partita Livorno - Verona del 9 febbraio u.sc., tra le fila livornesi sono state notate persone provenienti con ogni probabilità da altre città, le quali, unitamente ai gruppi ultras locali, si sono rese responsabili di gravi incidenti, soprattutto contro le forze dell'ordine.
2. Alla manifestazione hanno aderito le tifoserie del Livorno, della Ternana, del Genoa, dell'Ancona, del Perugia, del Venezia, del Cosenza, della Casertana, del Bologna e del Crotone.
PROGETTO ULTRA’:
Particolarmente interessante è stata quest'anno l'attività del "Progetto Ultrà"3 che ha organizzato una serie di iniziative a livello nazionale4, a cui hanno aderito, di norma, tifoserie attestate su posizioni politiche di sinistra. In particolare, all’inizio del campionato, il sodalizio si è fatto promotore, per alcune settimane, di una campagna contro la commercializzazione del calcio italiano e le "paytv", durante la quale sono stati esposti, negli stadi di Ancona, Terni, Bologna, Brescia e Livorno, striscioni di protesta contro le società “Stream” e “Tele+” ed è stata effettuata una raccolta firme per manifestare il dissenso all'utilizzo televisivo delle immagini dei tifosi, ricorrendo anche ad un apposito modulo da compilare on-line. Dal 17 al 28 ottobre, nell’ambito dell’iniziativa europea organizzata dalla rete "F.A.R.E." (Footboll Against Racism in Europe) denominata "3^ Fare Action Week" (Settimana d'azione contro il razzismo in Europa) per sensibilizzare l'opinione pubblica e, in particolare, gli ambienti del tifo organizzato sul fenomeno del razzismo nel mondo del calcio, alcune tifoserie italiane5, coordinate dal “Progetto Ultrà”, hanno esposto all'interno degli stadi striscioni relativi alla tematica del razzismo e distribuito una "fanzina" antirazzista redatta dallo stesso sodalizio. Nel mese di aprile è stata organizzata, sempre dal “Progetto Ultrà”, un’iniziativa contro la “repressione” delle forze dell’ordine e la nuova normativa per contrastare la violenza in occasione di competizioni sportive. Nella circostanza, alcune tifoserie6 hanno esposto gli striscioni "Come ci vorrebbero" e "Come siamo e saremo sempre" intervallati da quindici minuti di silenzio, sottolineando così la propria opposizione “al tentativo da parte dello Stato di reprimere l’entusiasmo e l’esuberanza del tifo organizzato”.
3. Le finalità del "Progetto Ultrà", nato alla fine del 1995, finanziato dalla Commissione Europea nell'ambito della più ampia iniziativa "Cities Antiracism Project" con il contributo anche del Comune di Bologna e della Regione Emilia Romagna, è quella di contrastare i comportamenti violenti, intolleranti e xenofobi dentro e fuori gli stadi di calcio con manifestazioni rivolte a coinvolgere e coagulare tra di loro i vari gruppi ultras italiani. A tale Progetto aderiscono alcune tifoserie attestate su posizioni politiche di sinistra.
4. Tra le iniziative dello scorso campionato riconducibili al "Progetto Ultrà" ed alla rete "F.A.R.E." si ricordano: l'esposizione all'interno degli stadi di striscioni di protesta contro l'applicazione della Legge 2001/377; la pubblicazione di un giornale on line per il dialogo e lo scambio di informazioni tra gruppi ultras intenzionati a promuovere azioni antirazziste; la predisposizione di un "manualetto per la sopravvivenza del tifoso" corredato anche da vignette, contenente informazioni utili sulla normativa contro la violenza negli stadi; l’organizzazione di meeting annuali nelle province di Reggio Emilia e Terni, rispettivamente per lo svolgimento dei "mondiali di calcio antirazzisti" e per il "raduno internazionale antirazzista"; il corteo nazionale organizzato a Brescia il 20 aprile 2002 per contestare l'applicazione della Legge sulla violenza negli stadi, al quale hanno partecipato circa 600 persone, tra cui anche i supporter del Milan, del Genoa, del Venezia, del Perugia (attestate su posizioni politiche di sinistra), del Verona, della Juventus, dell'Atalanta, del Piacenza (attestate su posizioni politiche di destra), del Mantova, del Cesena e del Lodi (apolitiche).
5. hanno aderito le tifoserie del Perugia, della Ternana, delPisa, del Venezia, dell'Ancona, dell'Empoli, del Cosenza, del Genoa, delModena, della Cavese, del Fasano, della Samenedettese, del Manfredonia, del Civitanova, della Sampdoria, del Bologna e del Milan.
6. hanno aderito le tifoserie dell'Avellino, dell'Udinese, del Brescia, dell'Inter, del Grosseto, del Milan, dell'Empoli, del Montevarchi, del Perugia, dell'Atalanta e dello Spezia. Il sodalizio si è fatto altresì promotore di una serie di riunioni a livello nazionale - tenute nelle città di Reggio Emilia (il 21 febbraio 2003), di Salerno (il 21 marzo successivo) e di Arezzo (l'11 aprile ed il 16 maggio) - tra i referenti dei gruppi ultras, alle quali hanno partecipato anche tifoserie di destra7, al fine di costituire un "Movimento Ultras" nazionale in grado di sostenere, al di là delle differenti "fedi calcistiche" ed ideologie politiche, le comuni problematiche legate al mondo del calcio. Nel corso dei lavori preparatori, sono state affrontate diverse problematiche e sono state formulate proposte a tutela dei tifosi “ingiustamente” arrestati e denunciati ovvero sottoposti al provvedimento di divieto di accesso nei luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive. Tra le tematiche dibattute, si è evidenziata soprattutto quella relativa alla legge 24 aprile 2003 n.88, che ha introdotto nuove fattispecie di reato e previsto lo strumento giuridico dell'arresto differito. Si è poi discusso sull’aumento dei prezzi dei biglietti per assistere agli incontri di calcio, sull’esigenza di ripristinare i treni charter8, sull’opportunità di migliorare la regolamentazione degli orari degli incontri sportivi (c.d. "calcio spezzatino") ed infine sull’abolizione del divieto di vendita dei tagliandi del settore ospiti nella stessa giornata dell'evento sportivo 9. Tra le proposte formulate, si segnala quella relativa alla previsione di un numero di matricola da esporre sulle uniformi del personale in servizio di ordine pubblico in occasione di eventi sportivi, al fine di poter identificare con certezza e perseguire legalmente gli agenti responsabili di eccessi ed abusi nei confronti dei tifosi. Nel corso delle riunioni, il Progetto Ultrà si è fatto altresì promotore di una manifestazione nazionale di tutte le tifoserie, che dopo un iter organizzativo abbastanza burrascoso – a causa dei contrasti insorti – è stata programmata per il 22 giugno p.v. a Milano. Da quanto sopra, appare evidente l'evoluzione che nel tempo ha caratterizzato l'attività e la stessa mentalità dei gruppi ultras, che sono riusciti a superare rivalità calcistiche e divergenze politiche, dando luogo ad un "Movimento Ultras" nazionale capace di aggregare diverse realtà, per raggiungere obbiettivi e risolvere problematiche comuni legate al mondo dello sport. Un breve cenno merita il tentativo - non riuscito - da parte del gruppo ultras laziale degli "Irriducibili" – orientato su posizioni politiche di estrema destra - di appropriarsi del lavoro svolto dal “Progetto Ultrà”, organizzando una manifestazione a Roma il 4 aprile.
7. Un primo tentativo di organizzare una iniziativa unitaria delle tifoserie con diverso orientamento politico si era concretizzato in occasione della manifestazione di Brescia dell’aprile 2002 di cui alla nota n.7.
8. Al riguardo, appare evidente che le tifoserie non sono a conoscenza della modifica della moratoria dei treni straordinari, che prevede la possibilità di predisporre treni commerciali su espressa richiesta dei tifosi, previa sussistenza di specifici presupposti.
9. Tale divieto consente di evitare che persone sprovviste del biglietto di ingresso si rechino in trasferta con la speranza di trovare comunque un escamotage per assistere all'incontro di calcio. Per protestare contro i provvedimenti restrittivi emessi dall'Autorità Giudiziaria nei confronti di alcuni elementi di quella tifoseria capitolina. L'iniziativa in parola – a cui hanno partecipato circa 3000 persone - ha infatti registrato un'adesione inferiore alle aspettative, a causa delle divergenze sorte, nei giorni precedenti, tra alcune tifoserie del nord Italia e gli organizzatori, accusati di aver "voluto assumere un ruolo egemone nell’organizzazione dell’iniziativa". A tal proposito, sembra che oltre all'impossibilità di raggiungere una condivisione di valori e principi sulle problematiche legate al mondo del calcio, il vero punto di rottura sarebbe stato determinato dalla decisione dei supporter laziali di non far comparire il "Progetto Ultrà" quale promotore dell'iniziativa. La netta presa di posizione dei sostenitori capitolini nei confronti del predetto sodalizio ha di fatto attribuito alla manifestazione una marcata caratterizzazione politica, comprovata non solo dall'adesione di tifoserie attestate su posizioni politiche di estrema destra, ma anche dalla presenza di leader di quell’area politica. Il comportamento tenuto dalla tifoseria capitolina è stato altresì interpretato da altre frange ultras come "una manovra architettata sin dall'inizio per far naufragare il lungo e difficile lavoro di coordinamento portato avanti dal Progetto Ultrà e dal Movimento Ultras". Tra le altre iniziative organizzate dal “Progetto Ultrà” si ricordano anche i “Mondiali Antirazzisti” – oramai giunti alla settima edizione - che si svolgeranno nel luglio prossimo a Montecchio (RE), con l’organizzazione di tornei di calcio, incontri culturali con dibattiti su tematiche antirazziste e concerti musicali. Un particolare cenno merita inoltre il torneo di calcetto, denominato "El torneo del Bae", organizzato il 25 aprile , a Venezia, dalla locale tifoseria e dai centri sociali della provincia veneta, a cui hanno aderito 24 squadre10 con lo scopo di raccogliere fondi da destinare alla realizzazione di un impianto sportivo in Chapas (Messico).
10. Le squadre erano composte da tifosi locali, del Modena, del Cosenza, del Pistoia, del Pisa, del Civitanova e della Ternana, da un gruppo di giovani del Progetto Ultrà, da ultras ed attivisti antirazzisti di Bologna e Vicenza, dai “disobbedineti” del centro sociale “Rivolta” di Marghera, da una rappresentanza “No War” di Monselice (PD) e da aderenti ad associazioni di cittadini extracomunitari (Moldavi, Bengalesi e Kurdi).
TIFOSERIE DI DESTRA:
Per quanto riguarda le tifoserie di estrema destra, particolare cenno meritano quelle della Roma e della Lazio per il loro stretto legame – evidenziato nel corso dell’attività informativa svolta dalla locale Digos – con il movimento di estrema destra romano "Base Autonoma", i cui militanti compaiono anche tra le fila dei gruppi ultras "Tradizione e Distinzione" della Roma ed "Irriducibili" e "Banda de Noantri" della Lazio. L'infiltrazione di Base Autonoma all’interno delle due curve ha contribuito a superare la storica rivalità tra le due tifoserie, i cui aderenti, oramai uniti dal medesimo orientamento politico, sono soliti partecipare anche ad iniziative di piazza, come in occasione del presidio organizzato dal predetto movimento politico a Roma, lo scorso primo marzo, contro la globalizzazione. Dall'esame della documentazione d'area e dal monitoraggio delle rete telematica, si è inoltre riscontrata la tendenza a svolgere attività di proselitismo politico all'interno dello stadio, soprattutto da parte del gruppo "Tradizione e Distinzione", che ha diffuso all'interno della curva sud una "fanzina" intitolata "Black Shirt (Camicia Nera)" con contenuti non soltanto sportivi ma anche politici – diversamente da quanto è stato invece riscontrato nella maggior parte dei ciclostilati acquisiti dalle Digos all’interno degli altri complessi sportivi italiani. Un altro fatto di particolare rilevanza, anche se non direttamente legato al mondo del calcio, è quello verificatosi a Roma la sera del 13 ottobre u.sc., allorché alcuni ultras degli “Irriducibili”, travisati con caschi ed armati di bastoni e mazze da baseball, hanno aggredito un cittadino extracomunitario, che per le lesioni subite è stato immediatamente trasportato in ospedale, rimanendo in coma per alcuni giorni. Le successive indagini hanno consentito di trarre in arresto 5 “irriducibili” della Lazio, che hanno giustificato l’aggressione per pregresse molestie dello straniero nei confronti di una ragazza italiana loro amica. L'attività informativa delle "Squadre Tifoserie" ha inoltre consentito di evidenziare lo stretto legame che intercorre tra militanti di estrema destra e tifoserie del Triveneto - in particolare del Verona, del Padova, del Treviso, della Triestina e del Vicenza - e tra queste ultime e le frange ultras laziali. Al riguardo, infatti, il 10 gennaio, nel corso di una trasmissione televisiva in onda presso gli uffici della rete “Telenuovo” di Verona, circa 30 militanti di Forza Nuova hanno fatto irruzione all'interno della sede, aggredendo, tra gli ospiti, Adel Smith, presidente dell'Unione Musulmani d'Italia. Le successive indagini svolte dalla Digos anche su delega dell'Autorità Giudiziaria veronese hanno consentito di trarre in arresto - in esecuzione di misure cautelari - 17 aderenti a movimenti di estrema destra del triveneto, tra cui alcuni ultras del Verona, del Padova e del Treviso. Le stesse tifoserie, nelle giornate di campionato successive al fatto, hanno effettuato delle iniziative di protesta, esponendo all'interno degli stadi striscioni di solidarietà ai militanti arrestati. In particolare, Il 19 gennaio, durante l'incontro di calcio Padova - Carrarese, nel settore della tifoseria ultras locale, è stato esposto il seguente striscione: "CURVA DESMITHIZZATA...LIBERTA' PER CHI DIFENDE LA PROPRIA TERRA", con chiaro riferimento all'aggressione subita dal Prof. Adel Smith. Le successive indagini svolte dalla locale "Squadra Tifoserie" hanno consentito di denunciare 9 supporter padovani - tutti aderenti a Forza Nuova - per violazione della legge “Mancino”. A riprova del collegamento dei militanti dei movimenti di estrema destra e delle tifoserie del triveneto alla tifoseria della Lazio, si richiamano come esempio gli incidenti verificatisi il 24 febbraio u.sc., durante l'incontro di calcio Lazio - Modena, allorché alcuni supporter locali aggredirono un Vigile Urbano, ferendolo lievemente con un coltello. Le indagini svolte dalla Digos di Roma hanno consentito di trarre in arresto 6 ultras laziali degli "Irriducibili" ed un noto esponente padovano di Forza Nuova, che si era unito, nell'occasione, ai tifosi capitolini.
Le polizie di tutta Europa sono in allarme e guardano con apprensione all’Italia. Perché il nostro paese è il crocevia della guerriglia che si agita attorno al calcio. Negli ultimi due anni, la tifoseria delle curve si è organizzata e ha compiuto un salto di qualità. Tanto che oggi sono ben 88 i gruppi della penisola che hanno stretto legami con quelli di tutto il Vecchio Continente. 33 sono politici: di estrema destra e di estrema sinistra. Una vera emergenza segnalata nel primo rapporto completo dell’Ucigos sul fenomeno. Ne siamo entrati in possesso: ecco il quadro che ne esce, scrivono Paola Cipriani, Marco Mensurati e Fabio Tonacci, su “La Repubblica”. L’internazionale ultras fa paura. Neri con i neri, rossi con i rossi, tutti contro gli sbirri, seguendo vecchi patti non scritti. Le polizie di tutta Europa sono in allarme e guardano verso l’Italia con apprensione. Perché il crocevia di questo traffico di guerriglia che si muove attorno al calcio è qui. A Roma, a Milano, a Bergamo, a Catania, sugli spalti e nelle strade, negli autogrill e nei parcheggi, nei centri urbani e nelle piccole periferie. Persino nei cortei di protesta. È qui che da tutto il continente convergono, all’occasione, come rispondendo a un richiamo preciso, centinaia di professionisti dello scontro, armati di mazze e tirapugni, carichi della ben nota retorica della curva, stavolta venata di un tocco di internazionalismo. Accade dunque che il gruppo “Grobarj” del Partizan Belgrado mandi i suoi picchiatori alle trasferte del Milan, pronti a combattere con i “fratelli” della “Curva Sud” contro gli juventini, o a devastare un’area di servizio. Che al Bentegodi di Verona vengano issate bandiere naziste, portate in omaggio dagli spagnoli “Ultras Sur” del Real Madrid. E che al Dall'Ara a Bologna si affaccino invece quelli del “Bochum”, di sinistra estrema come i “Freak Boys” rossoblù che li ospitano. Ognuno schierato sotto la bandiera della propria squadra, tutti pronti, lame in tasca, ad accendere la miccia del disordine. La violenza da stadio è tornata a essere un’emergenza, stando agli ultimi rapporti dell’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali). Anche, o forse soprattutto, a causa degli stranieri infiltrati. È successo così, senza che nessuno se ne accorgesse, negli ultimi due anni. Mentre il calcio si dibatteva tra impianti vuoti e regole sportive e penali sempre più astruse e inconcludenti (daspo, tessera del tifoso, “discriminazione territoriale”), il tifo violento made in Italy ha fatto il salto di qualità, si è riorganizzato pensando in grande, parlando in inglese, spostandosi con le compagnie aeree low cost, utilizzando i social network. Oggi, di fatto, il nostro paese è il centro strategico di una sorta di internazionale europea del tifo: ci sono 88 gruppi italiani che hanno stretto legami con ultras di tutto il continente, 33 dei quali sono politicizzati. Loro vengono da noi, i nostri vanno da loro. Gemellaggi tra le curve sono sempre esistiti. Di recente, ad esempio, in occasione della sfida contro la Fiorentina, i “Viking” della Juventus hanno festeggiato allo Stadium i 25 anni di fratellanza coni tifosi dell’Ado Den Haag. La differenza – e il fenomeno è talmente fresco che le statistiche sono ancora scarne - è che questi gemellaggi hanno subito una mutazione genetica e da motivo di scambio culturale (per quanto atipico) hanno assunto un connotato "operativo", criminale, fondato sul presupposto che le misure di prevenzione dei vari paesi, come in Italia il Daspo, all'estero non valgono. Ogni settimana le informative delle “Squadre tifoserie” delle Digos locali raccontano pezzi di questo risiko: 6 ottobre 2012, in Modena-Cesena “tra quelli della 'Curva Sud' modenese alcuni tifosi del sodalizio di sinistra 'Biris Norte' del Siviglia”; 20 ottobre 2012, durante Sporting Gijon-Almerìa “identificati supporter italiani del gruppo di estrema destra 'Sempre al Bar' del Monza”; 12 gennaio 2013, durante Nottingham Forest-Peterborough United “presenza di 12 ultras del Cesena tra gli ospiti”; 13 gennaio 2013, durante Bologna-Chievo “venti supporter del Bochum nel settore occupato dal gruppo di sinistra 'Forever Ultras'”; 2 febbraio 2013, Torino-Sampdoria, “identificati 43 tifosi delle 'Brigade Sud Nice'”; 24 marzo 2013, Verona-Crotone, “presenza consistente di supporter greco-ciprioti dell'Apoel Nicosia, nonché tifosi inglesi, tedeschi, austriaci”; 6 aprile 2013, Livorno-Ascoli, “venti sostenitori dell'Aek di Atene notati in curva nord”; 7 aprile 2013, derby Roma-Lazio, “nove ungheresi, tra cui alcuni aderenti al gruppo radicale 'Hatvannegy Varmegye Ifjusagi Mozgalom', mescolati con i laziali”; 22 aprile 2013, rissa tra juventini e milanisti in un autogrill di Novara, “tra i rossoneri c'erano tifosi del Partizan Belgrado”. Quella tra i gruppi milanisti “Curva Sud” ed “Estremi rimedi e Vecchie Maniere” e i nazionalisti serbi è un'allenza strutturata, che va ben oltre il tradizionale gemellaggio. Il loro modello di solidarietà è condiviso da moltissime altre tifoserie in giro per l’Italia. A fare da volano per le “unioni” è, spesso, la comune inclinazione politica dei raggruppamenti. A Roma, sponda laziale, il gruppo “In basso a destra” si è segnalato come “particolarmente attivo” nella costruzione della propria rete internazionale, con alleanze ritenute pericolose con gruppi di estrema destra del West Ham, Werder Brema, Lipsia, Chelsea, Espanol e Real Madrid. A Torino i “Drughi” juventini (protagonisti di una polemica con la vedova Scirea) per il nome della curva dello Stadium) sono legati al Legia Varsavia e, come detto, al Den Haag. Dello stesso colore, il nero, il sodalizio tra la “Curva Sud” del Verona e i tifosi di Paris Saint Germain, West Ham, Mill Wall di Budapest, Chelsea. Non meno attiva l'“internazionale di sinistra”: la curva nord “Livorno 1915”, sulle ceneri delle ex “Brigate autonome livornesi” ha messo in piedi una rete di soccorso rosso con gli ultras di Glasgow, Olympique Marsiglia, Herta Berlino, Aek di Atene. A Terni i “Primidellastrada” hanno contatti con i “fratelli” del Saint Pauli di Amburgo e dell’Innsbruck. Il fenomeno riguarda anche realtà meno prestigiose sul piano calcistico, come Catania dove gli “Irriducibili” sono collegati ai tifosi del Borussia Dortmund, e spesso vanno in trasferta in Germania nelle gare di Coppa. O come Monza, dove il gruppo “Sab, Sempre al Bar” va frequentemente alle partite a Gijon in Spagna. La novità è uno degli argomenti più discussi in questi giorni negli uffici della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, a Roma, dove è operativa la Sezione Tifoserie dell’Ucigos incaricata di sorvegliare e studiare le spesso impercettibili dinamiche dei gruppi più pericolosi. “Il fenomeno è in crescita”, spiega Francesco Iannielli, direttore del Servizio informazioni generali, “e sta assumendo una dimensione preoccupante. I dati che abbiamo dimostrano che gli episodi di violenza stanno aumentando, anche a causa della presenza sempre più frequente di tifosi stranieri estremisti”. Nel girone di andata di questo campionato, infatti, ci sono stati già 102 arresti contro i 65 dello scorso anno. Lo stesso dicasi per le denunce: 782 da settembre a febbraio (tra cui 409 casi di violenza sulle persone), contro le 687 dello stesso periodo del 2013. E i sequestri di bombe carta da 140 sono diventati 213. Il censimento più aggiornato della Polizia conta 398 gruppi ultras, tra Serie A, B e Lega Pro: di questi 74 sono politicizzati, cioè hanno i capi che aderiscono o hanno legami con movimenti politici estremisti, da quelli più conosciuti come Forza Nuova, CasaPound, gli Skinheads, i Carc comunisti, ai filoni minoritari e locali. Quelli di estrema destra sono 45, il restante è di sinistra radicale. Un totale di 8.000 tifosi coinvolti sui 41.000 del popolo degli ultras. C’è anche chi, tra questi, usa le curve per fare proselitismo: distribuendo fanzine di stampo politico, invitando chi sta guardando la partita a partecipare a riunioni dei collettivi, diffondendo ideologie. Lo fanno ad esempio gli “Uber Alles” di Frosinone, la “Curva Furlan” della Triestina, i “Cani sciolti” del Lecco, la “Banda Thèvenot” di Lucca, tutti di matrice filo fascista. Così come, sul versante sinistra, gli “Ingrifati” del Perugia, gli “Sconvolts84” del Pisa, i “Rebel fans” del Cosenza e “Primidellastrada” della Ternana. Ed è forse per questo che in pochi, nelle questure di tutta Italia si sono stupiti nel registrare la presenza di numerosi ultras alle manifestazioni di piazza, quelle politiche. Succede un po’ ovunque. Nelle grandi come nelle piccole città. Ciò che ancora risulta misterioso, però, è il perché. Su questo ci sono solamente ipotesi e ragionamenti deduttivi. Quasi scontato quello sulla partecipazione degli ultras alle manifestazioni contro il progetto del governo di soppressione delle province, tra l’aprile e il novembre del 2012. A Chieti, ad Avellino, a Pisa, a Frosinone e a Crotone. Motivi di campanile, evidentemente, più o meno gli stessi che animano le espressioni più ingenue, e forse meno pericolose, ogni domenica. Meno, molto meno comprensibile è la partecipazione ad altri movimenti di piazza, come quello dei forconi, appoggiato in 15 città anche dagli ultras locali. A Torino, quelli della Juve e del Toro si sono resi protagonisti degli scontri che hanno portato a 39 denunce durante un corteo. Non si sa se sono stati chiamati dai forconi o se hanno partecipato autonomamente. “Sono come compagnie di ventura”, sintetizza Francesco Iannielli, “gli ultras, quando decidono di agire in gruppo, portano la loro carica di violenza e ribellismo. Sanno come ci si scontra con la polizia, hanno affinato le tecniche”. Insomma, utili a tutti quelli che vogliono scatenare tafferugli. E ora, ci sono anche gli ultras stranieri da affrontare.
Lo stagno avvelenato, scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Gli stadi, le loro curve e quel fenomeno che per convenzione linguistica definiamo “ultras” sono per esperienza un microcosmo tra i più fedeli ed esatti nel testimoniare un tempo, un luogo, una cultura popolare che si è fatta maggioritaria. E il rapporto di cui Repubblica dà conto in questa inchiesta ne è una conferma. L’Internazionale del tifo organizzato e violento ha un colore sempre più nero. La sua dimensione si è liberata di uno specifico domestico. Lo “spettacolo” si è fatto globale negli interpreti che danno calci ad un pallone e “globale” è diventata la dimensione dei mazzieri che, insieme, lo tengono in ostaggio e lo utilizzano come palcoscenico. Gli 88 gruppi e i loro legami censiti dalla Polizia di prevenzione definiscono uno stagno velenoso che appare impossibile da prosciugare, quasi fosse un dazio necessario da pagare al rito collettivo più amato al mondo. Né più e né meno che una iattura confinata a problema di ordine pubblico e su cui esercitare periodicamente una revisione degli strumenti di legge nel Paese con più leggi al mondo (Daspo, tessere del tifoso, discriminazione territoriale). La verità, quella che si fa fatica a pronunciare e dunque regolarmente si elide nel discorso pubblico, è che lo stadio e dunque l’appendice violenta del suo spettacolo è da sempre, e continua ad essere, il luogo dell’irresponsabilità e del consenso facile. La Politica e con lei la Lega Calcio (la Confindustria del pallone) e la giustizia sportiva sono oggi lo specchio di una fragilità arcaica incapace di misurarsi con la modernità e complessità del business. Di fronte alla constatazione elementare che nessuna attività di impresa tollererebbe di essere ostaggio di qualche migliaio di individui, dei loro burattinai (per altro per lo più noti da anni agli archivi di polizia), si obietta che nessuna altra attività di impresa è mossa da passione irrazionale come il calcio. Un riflesso pavloviano utile a non assumere di fatto nessun rischio nell’aggredire la questione, a ridurla a faccenda di “poche mele marce” (e dunque residuale), fino al punto di sostenere che l’unico rimedio ragionevole sia non parlarne. Secondo il principio che esiste solo ciò che si vuol vedere. Il punto è che l’Internazionale del tifo ultras ha compreso e conosce perfettamente la fragilità del Sistema. E’ consapevole della propria forza di ricatto. Cinquanta, cento mazzieri possono in ogni momento sfigurare uno spettacolo in diretta e porre le condizioni perché lo stadio si svuoti nei suoi settori per qualche settimana. E non per disaffezione, ma per le sanzioni della giustizia sportiva. Un tempo, l’ultras estorceva biglietti gratis per le trasferte o il monopolio di fatto sul merchandising. Oggi, più semplicemente, chiede la propria impunità, per avere la sua parte nello spettacolo in diretta. Una parte fatta non necessariamente di coreografie. Ma di minacce, parole d’ordine che diventino senso comune, cultura politica. Con un’ulteriore garanzia. Che se le cose si dovessero mettere male, politica e opinione pubblica verranno eventualmente in soccorso (è successo con la trasferta dei tifosi della Lazio a Varsavia, diventata questione diplomatica capace di occupare per settimane l’agenda del nostro governo). Né la modernità degli impianti (pure necessaria e in qualche modo non rinviabile) può diventare la soluzione. Prova ne sia quanto accaduto allo “Juventus stadium” dopo i cori antisemiti durante la recente partita con la Fiorentina. La vedova di Gaetano Scirea cui è intitolata la curva da cui si era levata quella vergogna aveva con coraggio sfidato quell’oltraggio chiedendo di togliere il nome del marito da quel settore dello stadio. La risposta dei “Drughi”, il più importante gruppo ultras della Juventus, è stata lapidaria e sprezzante: «Mariella Cavanna (il cognome da nubile della signora), la Juventus siamo noi». Già, di chi è la Juventus? E come lei, di chi sono le altre 19 squadre di serie A?
TIFO, POLITICA E GIUSTIZIA.
Tutte le motivazioni delle condanne in appello di Calciopoli. Schede straniere, riunioni conviviali, griglie precostituite e pressioni sulle moviole tra i motivi principali, scrive Danilo Fago su “Tutto Juve”. Vi proponiamo, dopo un’attenta lettura delle 242 pagine di motivazioni depositate dalla Corte di Appello di Napoli, le principali ragioni che hanno portato i giudici a ritenere esistente l’associazione a delinquere finalizzata ad incidere sulla terzietà degli arbitri con a capo la figura di Luciano Moggi. In particolare, la Corte ha ritenuto fondamentale il ruolo di Moggi quale ideatore dell’associazione, promotore della stessa come provato dalle intercettazioni telefoniche, dall’utilizzo delle schede straniere e dai costanti contatti con i vertici federali e la trasmissione televisiva “Il Processo di Biscardi”.
Per quanto attiene le eccezioni preliminari mosse dalla difesa:
- E’ stata respinta la richiesta di rinnovazione del dibattimento per le nuove conversazioni sopravvenute in quanto in realtà già acquisite nel compendio probatorio ma non trascritte perché non inserite tempestivamente nella lista richiesta dal tribunale. Inoltre quanto richiesto dalla difesa di Moggi relativo alle conversazioni ed in particolare a quella prodotta in sede di udienza conclusiva (e apparsa il giorno prima su un giornale sportivo e su un sito juventino) non hanno la capacità di inficiare ogni altra risultanza mostrando solo un tenore confidenziale e spesso goliardico che per la Corte sarebbe ulteriore elemento di prova dell’esistenza dell’associazione.
- E’ stata confermata la competenza territoriale di Napoli in quanto vista la molteplicità di atti e di centri operativi dell’associazione, vale il luogo di manifestazione del primo atto di vitalità dell’associazione riscontrabile nella consegna della prima scheda svizzera (2004 a Romeo Paparesta in via Petrarca a Napoli presso la casa di Moggi). In via principale proprio l’utilizzo di schede straniere restano il principale indizio di manifestazione all’esterno del sodalizio atto a commettere delitti programmati a prescindere da un loro effettivo utilizzo (Romeo Paparesta è solo pedina per avvicinare altri personaggi come il figlio).
- Respinta anche l’eccezione sull’acquisizione ed utilizzo delle intercettazioni in quanto non viola alcun trattato internazionale. Questo perché tutta l’attività di intercettazione e registrazione si è svolta in Italia (ritenuti regolari anche i decreti di intercettazioni del Gip e le modalità di registrazioni).
- Respinta anche l’eccezione sull’indeterminatezza dell’imputazione in quanto non rilevante una volta dimostrata l’esistenza dell’associazione per delinquere. La diversità e la mutevolezza di interessi del “Sistema Moggi” richiede proprio una flessibilità e mutolezza dei compiti propria del gioco del calcio e che contrasta con l’attribuzione di compiti specifici.
- Respinta l’eccezione sul ne bis in idem (che impedisce due giudizi su un medesimo fatto) poiché il giudizio sulla “Gea World” riguarda interessi diversi (incidere sul mercato calcistico) rispetto a quanto valutato nel processo di Calciopoli.
- Accolta la sola eccezione di Bergamo per l’assenza del proprio legale Morescanti per gravidanza con rinvio al primo grado di giudizio.
Nel merito, stando a quanto stabilito dalla Corte, emerge senza alcun dubbio l’esistenza dell’associazione con disegno criminoso. E’ sufficiente la consapevolezza (dolo) da parte di ciascun associato di far parte del sodalizio con contributo causale. Trattasi di reato di pericolo per cui è sufficiente la sola costituzione. Molteplici ed articolati gli elementi probatori:
- Molteplici conversazioni che mostrano gravi intrusioni in ambito federale di persone che non avrebbero dovuto avere contatti perché estranei ed appartenenti a squadre di calcio interessate, influendo così anche sulle decisioni di Aia e Caf. La convivialità e leggerezza degli accordi per le griglie (in particolare tra Bergamo e Moggi) è gravissima con lesione del principio di terzietà (considerato che si trattava di decidere su arbitri). La Corte, tuttavia, si contraddice subito dopo affermando che tali conversazioni nulla avevano di conviviale, ma dalla durezza delle stesse e dalla scelta dell’eloquio miravano a creare e detenere un potere di controllo. Quanto al contesto non può essere ridotto ad una visione folcloristica poiché trattasi di competizione sportiva che oltretutto è disciplina olimpica.
- Molteplici gli interessi delle persone coinvolte anche nel contesto storico particolare di rinnovo delle cariche federali.
- Non vi è stata lesione del diritto di difesa per l’enorme mole di intercettazioni e per il metodo applicato per congetture perché vi era parità di cognizione delle stesse per tutte le parti che hanno anche avuto un tempo amplissimo per richiedere la trascrizione (spesso avvenuta in modo confuso).
- Particolare attenzione posta sul contesto caratterizzato da contrapposizioni soprattutto fra Milan Inter e Juventus con la preponderanza di quest’ultima. Un periodo in cui molte squadre affrontavano uno stravolgimento societario e nella gestione finanziaria delle risorse con un intromissione massiva delle televisioni con esclusione dei club di provincia. Questo ha fatto scattare un meccanismo di recupero della supremazia rappresentando uno dei moventi che ha mosso Moggi il quale ha cercato di falsare la reale potenzialità delle squadre (con un sistema già collaudato dal 1999-2000).
Principali prove:
- Intercettazioni e distribuzione di schede straniere (accolta in toto la dichiarazione del teste Di Laroni sul sistema di attribuzione delle schede). Nessun dubbio sull’individuazione di persone, luoghi ed interlocutori nelle varie intercettazioni. Determinanti le conversazioni di Moggi dove invita all’utilizzo delle schede criptate o fa esplicito riferimento all’opportunità di inserire o meno arbitri ed assistenti nelle griglie di alcune partite.
- E’ confermata la regolarità sorteggio, ma solo per insufficienza della prova. Si rileva quanto detto da Zamparini (pur trattandosi di sue impressioni che non assurgono ad elementi di prova vera e propria) che chiese a Moggi Rizzoli come arbitro ottenendo la sua designazione nella partita successiva come riscontrato in una chiamata tra Moggi e Giraudo che si lamentavano della mancata riconoscenza di Zamparini. Di contatti anomali e sorteggi irregolari hanno parlato anche Auricchio e Martino Manfredi a cui si aggiunge la constatazione di una particolare leggerezza dei controlli effettuati. Le deposizioni dei notai sono considerate ininfluenti in quanto un’affermazione positiva significherebbe riconoscere la falsità dell’attestazione dello stesso con responsabilità penale dei notai stessi.
- Piena prova e nessun dubbio sulla formazione precostituita delle griglie le cui preclusioni minime garantivano grande discrezionalità nella scelta delle fasce. A riprova di questo viene registrato il cambio di metodo di designazione deciso da Collina.
- Ruolo fondamentale attribuito al sistema televisivo per creare giudizi positivi su squadre, arbitri e assistenti. Eloquenti i contatti tra Moggi e Biscardi con suggerimenti sulla moviola per influenzare il gradimento di un arbitro anche con televoti pilotati (vedasi caso Bertini).
- Importanti per la formazione della prova le riunioni conviviali presso le abitazioni di Giraudo, Moggi, Pairetto e Mazzini in prossimità dei sorteggi e con personaggi ai vertici dell’associazione. Mazzini quando assente veniva regolarmente informato.
Il ruolo di Moggi: Ruolo preminente quello di Moggi rispetto a Pairetto e Mazzini come mostrato dalla sua capacità di mettere in contatto molteplici ambienti calcistici con spregiudicatezza non comune. E’ lui il promotore anche per come alimenta, ricerca nuovi sodali e nuovi percorsi criminali. Pairetto e Mazzini sono solo meri organizzatori. Moggi è l’ideatore del sodalizio, ha creato i presupposti per avere un’influenza abnorme in ambito federale. Eclatanti anche le incursioni negli spogliatoi come nel caso Paparesta che seppur ha negato tale episodio, ha comunque confermato la condotta aggressiva di Moggi. Rileva la mancata indicazione nel referto di quell’episodio sintomatico c del timore dell’arbitro verso il dg bianconero. Altre incursioni si sono verificate come dopo Parma Juve del 2005 (arbitro Farneti) che anche se vuole apparire scherzosa come indicato dalla difesa è sintomatica di un'abitudine ad un comportamento vietato (quello di entrare negli spogliatoi). Confermata la deposizione di Monti in quanto quella principale non più acquisibile (di Facchetti senior ora defunto) e alla luce delle conferme del figlio Giacinto. Nulla vale la deposizione di Collina sulla professionalità colleghi o sull’assenza di anomalie perché nulla dice sull’influenza di Moggi (le incursioni erano di dominio pubblico!). Potere, oltretutto, rilevato dall’insolito risalto dato ai suoi giudizi (vedi Carraro) o dal timore che subivano alcuni personaggi come Della Valle. Di Moggi rileva anche la capacità di difendere l’associazione con contatti con personaggi invisi come Baldini per acquisire ancora più credibilità negli ambienti calcistici. Su De Sanctis, Bertini, Dondarini, Dattilo e Racalbuto vengono considerate prove determinanti il possesso delle schede straniere, l’aggancio delle celle prima e dopo alcune decisive partite, nonché il forte interesse ad ottenere giudizi positivi specie in trasmissioni come “Il Processo del lunedì” di Biscardi dove più volte sarà lo stesso Moggi ad intercedere per loro (in particolare con contatti con Baldas). Inoltre:
- De Santis in diverse intercettazioni ammette la propria partecipazione all’associazione, ma la rilevanza è desunta da altre conversazioni di Moggi (parla di “delitto perfetto” in Fiorentina Bologna con Damascelli dove l’arbitro ammonisce tre giocatori in diffida prima del match con la Juve. L’assistente Marocchi ha evidenziato nella sua deposizione gli errori commessi dall’arbitro in quel match); rileva anche l’intercettazione in cui Cellino dopo Reggina Cagliari attacca De Santis per i suoi legami con Moggi e dove De Santis promette una squalifica per l’ingresso nello spogliatoio del presidente del club sardo (cosa di fatto avvenuta diversamente a quanto accaduto con Moggi).
- Dattilo e il caso Udinese Juve. Esemplare in tal senso l’intercettazione Moggi-Giraudo dopo Udinese Brescia che lodavano l’espulsione di Jankulovski ma si lamentava del fatto che l’arbitro non avesse osato di più con il metodo delle ammonizioni pilotate dimezzando i giocatori dell’Udinese che dovevano poi incontrare la Juve; il fatto che poi gli ammoniti non saltarono il turno non incide sulla condotta evidente nella conduzione della gara (Giraudo dirà di aver guardato solo 20 minuti di partita e di aver smesso dopo aver visto tutti i danni causati ai giocatori dell’Udinese). Nulla importa che l’espulsione di Jankulovski è una decisione dell’assistente, considerato che il titolare del potere decisionale resta l’arbitro e visto le mancate espulsioni di altri giocatori protagonisti della rissa.
In definitiva il “sistema Moggi” pur non trovando alcun riscontro effettivo in alterazioni delle partite, appare come un reato di pericolo in cui già la sola creazione dell’associazione (con la consegna delle schede straniere, le riunioni periodiche e le conversazioni intercettate tra Moggi e gli organi federali ed arbitrali) mirava ad esercitare un sistema di controllo diffuso in un periodo in cui le televisioni cominciavano ad esercitare un’influenza determinante. Proprio l’utilizzo delle schede, la precostituzione delle griglie arbitrali e le pressioni sulle moviole per agevolare i giudizi sugli arbitri rappresentano le prove più forti a sostegno dell’impianto accusatorio.
VITTIME DI SPORT. VITTIME DI TUTTO.
La 'ndrangheta nel calcio: i presidenti vittime di usura che non denunciano. L'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Milano guidata da Ilda Boccassini ha accertato che due noti dirigenti calcistici di società professionistiche erano vittime di usura da parte della 'ndrangheta. Si tratta di Antonio Rosati, ex presidente del Varese ed ex vicepresidente del Genoa, e di Giambortolo Pozzi, ex direttore generale della Spal. "Sono entrambi vittime di usura - ha spiegato il sostituto procuratore di Milano, Giuseppe D'Amico - ma non hanno mai denunciato". Nessuno degli imprenditori o commercianti vittima di usura ha mai presentato denuncia all'autorità giudiziaria". Lo scrive il gip di Milano Simone Luerti nell'ordinanza a carico di 40 persone, 21 in carcere e 19 ai domiciliari, emessa nell'ambito della maxi-operazione contro la 'ndrangheta coordinata dalla Dda. "E ciò si spiega chiaramente - chiarisce il gip - se si tiene conto della strategia intimidatoria tipicamente mafiosa, a volte esplicita e sfociata in concrete condotte estorsive, a volte più sottile e implicita, esercitata dall'associazione mafiosa nei loro riguardi, strategia che ha determinata chiaramente un diffuso clima di soggezione e di omertà per i debitori usurati ed intimiditi".
Milano, scoperta la banca della 'ndrangheta: riciclava il denaro degli imprenditori, 40 arresti. Dalle carte dell'indagine, coordinata dall'aggiunto Ilda Boccassini, emerge una 'nuova mafia' che spara poco e tratta molto con il mondo produttivo. L'intercettazione: "Il capo è come la banca d'Italia", scrive “La Repubblica”. E' nella produttiva Brianza, non a caso, che le cosche della 'ndrangheta hanno pensato bene di installare una sorta di banca clandestina" che movimentava "centinaia e centinaia di milioni di euro" attraverso un reticolo di società usate per riciclare capitali illeciti e spesso tolte dalle mani degli imprenditori ormai in crisi anche in quelle ricche terre. E' l'ennesimo capitolo dell'espansione della mafia calabrese al Nord, in Lombardia in particolare, portato alla luce da un'inchiesta della Dda di Milano che ha fatto emergere come altro "dato nuovo e preoccupante" la stretta collusione tra l'imprenditoria locale e i clan, oltre a una serie di estorsioni ai danni di dirigenti di società di calcio. Con un blitz della squadra mobile, coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dal pm Giuseppe D'Amico, è stata smantellata la potentissima 'locale', ossia una cosca in termini 'ndranghetisti, di Desio (Monza e Brianza), capeggiata da Giuseppe Pensabene, 47 anni originario di Reggio Calabria ma residente a Seveso, che si vantava di essere una lavanderia" di denaro e che per gli altri affiliati era il "papa" o il "sovrano" o come la "banca d'Italia". E se nelle carte dell'inchiesta viene fuori come il clan abbia cercato di riempire il vuoto prodotto dagli oltre 170 arresti in Lombardia del 2010 dell'operazione "Infinito-Tenacia", il gip che ha firmato l'ordinanza a carico di 40 persone (21 in carcere e 19 ai domiciliari) descrive anche una vera e propria nuova mafia. I "fenomeni di compenetrazione tra mafia e impresa", scrive il giudice, storicamente "confinati nelle ben note aree geografiche dell'Italia meridionale", non solo si sono estesi "in Lombardia e al Nord in genere (e questo è un dato risalente nel tempo), ma soprattutto" vivono grazie a "un intenso e disinvolto connubio tra forme evolute di associazioni mafiose e imprenditori calabresi e lombardi, pronti a fare affari illegali insieme come se niente fosse". E così fra gli arrestati figura l'imprenditore edile di origine calabrese Domenico Zema, in passato anche assessore in un Comune della Brianza, "uomo di storia, di fatti, di rispetto, di amicizia, di esperienza, di conoscenze", come lo definisce Pensabene. E c'è anche Fausto Giordano, nato in Svizzera - dove la cosca portava i soldi (che finivano anche a San Marino) - altro imprenditore edile che ha il compito di "procacciare nuovi clienti e nuovi affari". Poi una serie di imprenditori e commercianti vittime di estorsioni ed usura, ma nessuno di questi, rimarca il gip, "ha mai presentato denunzia all'autorità giudiziaria". Non l'hanno fatto nemmeno il vicepresidente esecutivo del Genoa, Antonio Rosati, e un ex direttore generale della Spal, Giambortolo Pozzi, anche loro finiti nella morsa dell'organizzazione. Nell'ottobre 2011 il clan avrebbe elargito 100mila euro alla Spal Calcio e un altro prestito di 30mila euro sarebbe stato erogato personalmente a Pozzi nel gennaio 2012, con interessi, scrive il gip, "di natura chiaramente usuraia". In un incontro a Seveso, dove la cosca aveva la sua base in una sorta di "ufficio-tugurio", Pensabene e altri del clan "ottenevano il rilascio da parte di Pozzi di 36 cambiali (...) per un importo complessivo di 198mila euro". Rosati, già presidente del Varese Calcio, secondo il gip è risultato invece "in rapporti di affari con Pensabene", tanto che avrebbe concordato con uomini del clan "di operare alcune speculazioni edilizie". Mentre un ex presidente della Nocerina, Giuseppe De Marinis, sarebbe stato pestato fino al distacco della retina di un occhio per un debito usurario. Nelle quasi 500 pagine di ordinanza il gip elenca tutte le 39 società, un vero e proprio impero, "costituite o acquisite dal gruppo criminale facente capo a Pensabene" e "utilizzate per fare circolare i flussi di denaro contante, per l'acquisizione del patrimonio immobiliare e per l'emissione di fatture fittizie". Un elemento preoccupante, ha spiegato Boccassini, "è il fatto che ancora una volta abbiamo trovato imprenditori usurati e malmenati che hanno preferito non denunciare". Fra gli arrestati non mancano i cosiddetti colletti bianchi, come Vincenzo Bosco e Walter Alessandro La Coce, direttore e vicedirettore dell'ufficio postale di Paderno Dugnano (Milano), che avrebbero autorizzato "sistematicamente presso i loro sportelli le operazioni di prelievo di ingenti somme di denaro contante" per la cosca.
Infiltrarsi «come polipi» che «si devono agganciare dappertutto, i tentacoli devono arrivare dappertutto, ci sono le condizioni per poterlo fare», scrive “Il Messaggero”. Sono le parole pronunciate il 6 aprile 2012, nel suo ufficio di Seveso, da Giuseppe Pensabene, il capo della cosca di Desio, in Brianza, arrestato questa mattina dalla squadra mobile di Milano con altre 33 persone, di cui 19 ai domiciliari. La frase del boss intercettata è riportata nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Simone Luerti. Secondo il giudice dimostra «come l'associazione mafiosa» guidata da Pensabene aveva cercato anche e soprattutto di penetrare nel tessuto economico per gestire e controllare le più svariate attività e aggiudicarsi appalti e lavori pubblici nei settori edilizio, dei trasporti della nautica e delle energie rinnovabili. Per il giudice le parole di Pesabene, testimoniano come l'organizzazione mafiosa radicata in Brianza «si è avvalsa di numerose società non soltanto in Italia ma anche all'estero - ha osservato il gip - ha esportato parte dei capitali illeciti accumulati in Svizzera ed a San Marino, ha investito cospicue somme di denaro (...) anche nelle attività economiche della società nautica Italianavi srl, proprietaria di alcuni cantieri a Viareggio (LU) (...) e del settore energetico come la Eg Power Milano Est» di Corrado Pulici (anche lui arrestato) «ha erogato moltissimi prestiti a tassi usurari ad imprenditori e commercianti lombardi e non solo, come dimostrano le operazioni usurarie poste in essere con Pozzi Giambortolo, dirigente della società di calcio SPAL o i complessi rapporti finanziari con Antonio Rosati, grosso costruttore di Varese e già presidente del Varese Calcio». Insomma, secondo il giudice tale frase testimonia come il «programma criminoso» e gli «obiettivi, stabiliti da Pensabene e condivisi dai suoi collaboratori (...) oltre a quelli di porre in essere una pluralità indeterminata di delitti di riciclaggio, di usura, di estorsione, di contrabbando e di attribuzione fittizia di beni e di società, e di realizzare conseguentemente profitti e vantaggi ingiusti per la stessa associazione mafiosa, erano soprattutto - si legge ancora nell'ordinanza - quelli di accumulare capitali (in termini di denaro, beni immobili, e complessi aziendali) di sicura provenienza delittuosa, e di reimpiegarli in modo da acquisire la gestione, diretta o più spesso indiretta, ed il controllo di attività economiche, ma anche di concessione di appalti e lavori pubblici, in settori cruciali come quello edilizio, dei trasporti, quello nautico della costruzione di imbarcazioni da diporto, o quello delle energie rinnovabili». «Se l'organizzazione 'ndranghetista è riuscita ad arricchirsi e diventare così potente è stato anche per colpa della collusione di imprenditori e di altre figure che non c'entrano nulla col mondo criminale». A parlare è il capo della squadra mobile di Milano, Alessandro Giuliano, durante la conferenza stampa per l'operazione che ha portato all'arresto di 34 persone coinvolte a vario titolo negli affari di una «banca clandestina» della 'ndrangheta tra Milano e la Brianza. «Un altro dato importante emerso dalle indagini - ha continuato Giuliano - è il fatto che nonostante l'organizzazione utilizzi sistemi raffinati per fare soldi (anche con l'ausilio di brooker per la gestione del patrimonio, ndr), non ha dimenticato i metodi mafiosi: l'intimidazione e il ricorso sistematico alla violenza». Giuseppe De Marinis, uno dei responsabili della società Mexoil e che è stato in passato presidente della squadra di calcio Nocerina, avrebbe subito un violento pestaggio per un debito usurario da parte degli uomini del clan della 'ndrangheta di Desio (Monza e Brianza), smantellato oggi con un'operazione della Dda di Milano. Lo si legge nell'ordinanza del gip di Milano Simone Luerti, nella quale si dice che a De Marinis sarebbe stata causata una «lesione grave come il distacco della retina ad un occhio». Nei primi giorni di luglio del 2012, si legge nell'ordinanza, «il gruppo criminale capeggiato da Pensabene Giuseppe si è reso responsabile» di una estorsione «in danno di De Marinis Giuseppe, dipendente (a fare data dall'inizio del 2011) della società MEXOIL srl, avente sede a Castel San Giorgio (SA), di proprietà ed amministrata dal fratello DE MARINIS Aniello». Di questo episodio, scrive il gip, «connotato da estrema violenza tanto da avere, probabilmente, cagionato a questo ultimo una lesione grave come il distacco della retina ad un occhio, avvenuto presso il domicilio milanese di Ferrario Patrizio, i soggetti coinvolti ne hanno ampiamente discusso all'interno dell'ufficio sito a Seveso (MB) in vicolo Giani n. 16, poichè consapevoli, e preoccupati, di avere posto in essere le condotte violente e minacciose, alla presenza di soggetti estranei, come la moglie dello stesso De Marinis e Ferrario». Walter Mattioli, presidente della Spal 2013 che la scorsa estate ha riportato i biancazzurri tra i professionisti prende le distanze dalla vicenda che coinvolge l'ex digì Bortolo Pozzi, perchè «sporca il nome e l'immagine della Spal: noi c'entriamo nulla, la nostra società ha niente a che vedere con la vecchia 1907 di Butelli e Pozzi (appunto estromessa dal professionismo nell'estate del 2012; ndr), ma tutti gli organi d'informazione stanno dando notizia dell' inchiesta di Milano, e si parla di Spal. Di Spal, genericamente. Così in tutta Italia la Spal viene accostata a discorsi extracalcistici e davvero antipatici. Vallo a spiegare, che quel passato è lontano anni luce dalla nostra attuale realtà, da noi». La Spal 1907 coinvolta con la vicenda di Pozzi nel ruolo di direttore generale, nell'estate del 2012 è stata esclusa dai campionati professionistici a causa di inadempienze finanziarie. Il calcio a Ferrara venne salvato da un gruppo di imprenditori locali che permise per il 2012/2013 l'iscrizione alla serie D (ovvero il livello più alto delle categorie dilettantistiche) della ribattezzata Real Spal. Poi questa estate, l'arrivo del patron Mattioli.
Quello della Spal con la ’ndrangheta. L’ex dg Bortolo Pozzi vittima degli usurai della nuova mafia in Brianza: chiedeva prestiti per la società ferrarese, scrive Lo chiamavano con spregio «quello della Spal». Si presentava come tale, per aver più credito ai suoi interlocutori, uomini di una «nuova mafia», la ’ndrangheta che fa affari con imprenditori disperati, come scrivono i giudici rendendo ancor più melmosa la brutta storia in cui è coinvolto Bortolo Pozzi, ex direttore generale della Spal 1907, fino al giugno 2012: dirigente sportivo che chiedeva soldi per la società Spal, incassando 100mila euro nell’ottobre 2011 e altri 30mila nel gennaio 2012. Così, da ieri, grazie agli affari di Pozzi basta cliccare sul web le due parole «Spal» e «’ndrangheta» e ottenere schermate su schermate, e veder così appannata l’immagine della società biancazzurra che ha davvero visto tempi migliori. Una Spal, però, su cui fare distinzioni importanti: quella di oggi non condivide nulla con quella che faceva affari con la ’ndrangheta. Precisazione doverosa, che vale ugualmente per Pozzi, coinvolto solo come vittima in una delle inchieste più scottanti condotte nelle Brianza che ha messo in luce la banca clandestina gestita dalla ’ndrangheta, da questa «nuova mafia» di cui si servivano imprenditori di tutta la Lombardia. Pozzi, dunque, chiedeva soldi, per la Spal: prestiti che raggiungevano tassi usurai fino al 52%, chiesti e ottenuti scendendo a patti con gli uomini della «nuova mafia» dentro il «tugurio», il loro ufficio, un locale di Seveso, nel Milanese dove con le microspie procura e polizia di Milano hanno registrato contatti, ricatti e compromessi. L’inchiesta vede anche altri dirigenti sportivi nel ruolo di vittime della organizzazione legata alla 'ndrangheta, mentre gli ordini di cattura riguardano 40 persone (21 in carcere e 19 ai domiciliari), tutti legati ai clan della ’ndrangheta che gestiva questa banca parallela. Ma dopo aver ottenuto i soldi, occorreva restituirli: ecco allora le indagini che vedono Pozzi, vittima degli usurai, Pozzi costretto, a fronte della impossibilità di coprire il prestito, a rilasciare 36 cambiali, avallate da sua moglie, con una scadenza mensile a partire dal primo aprile 2012, per un importo complessivo di 198mila euro, arrivando così ad una cifra superiore rispetto i 130 ottenuti, di 68mila euro: interessi pari al 52% dei capitali prestati con scadenza triennale. E per giustificare il rilascio delle cambiali, il boss, Giuseppe Pensabene con cui Pozzi faceva affari, otteneva da Pozzi stesso la stipula di un compromesso di vendita (simulata) di un suo appartamento sito a Giussano in provincia di Monza Brianza. Gli inquirenti si sono soffermati sul fatto che anche un altro dirigente sportivo, è rimasto vittima dell’usura: Antonio Rosati, costruttore edile di Varese già presidente del Varese Calcio e vice presidente esecutivo del Genoa, anche lui in affari con Pensabene, e che viene citato dal giudice come un imprenditore «col quale l'associazione mafiosa concordava di operare alcune speculazioni edilizie». In entrambi i casi, gli inquirenti ieri hanno sottolineato una circostanza fondamentale: «Occorre evidenziare subito che nessuno degli imprenditori o commercianti vittima di usura ha mai presentato denuncia all'autorità».
Giuseppe De Marinis, uno dei responsabili della società Mexoil, in passato presidente della squadra di calcio Nocerina, avrebbe subito un violento pestaggio per un debito usurario da parte degli uomini del clan della ndrangheta di Desio (Monza e Brianza), smantellato oggi con un'operazione della Dda di Milano, scrive “La Città di Salerno”. Lo si legge nell'ordinanza del gip di Milano Simone Luerti, nella quale si dice che a De Marinis sarebbe stata causata una «lesione grave come il distacco della retina ad un occhio». Nei primi giorni di luglio del 2012, si legge nell'ordinanza, «il gruppo criminale capeggiato da Pensabene Giuseppe si è reso responsabile» di una estorsione «in danno di De Marinis Giuseppe, dipendente (a fare data dall'inizio del 2011) della società MEXOIL srl, avente sede a Castel San Giorgio (SA), di proprietà ed amministrata dal fratello Aniello De Marinis». Di questo episodio, scrive il gip, «connotato da estrema violenza tanto da avere, probabilmente, cagionato a questo ultimo una lesione grave come il distacco della retina ad un occhio, avvenuto presso il domicilio milanese di Ferrario Patrizio, i soggetti coinvolti ne hanno ampiamente discusso all'interno dell'ufficio sito a Seveso (MB) in vicolo Giani n. 16, poichè consapevoli, e preoccupati, di avere posto in essere le condotte violente e minacciose, alla presenza di soggetti estranei, come la moglie dello stesso De Marinis e Ferrario».
L’assurda partita Salernitana-Nocerina, scrive È stata sospesa dopo pochi minuti quando la Nocerina si è ritrovata in sei giocatori: gli altri si sono infortunati da soli dopo le minacce di un gruppo di tifosi. Domenica 10 novembre 2013 la partita di calcio tra Salernitana e Nocerina, del campionato di Lega Pro Prima Divisione – la vecchia C1 – è stata sospesa dall’arbitro dopo venti minuti, perché la squadra della Nocerina si è ritrovata in campo soltanto con sei giocatori. Secondo il regolamento della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC), il numero minimo di giocatori che una squadra deve avere in campo è sette. La partita tra Salernitana e Nocerina è uno dei derby più sentiti dai tifosi della provincia di Salerno. Per questo motivo il Comitato di Analisi per la Sicurezza di Manifestazioni Sportive (CASMS), che fa parte del Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno ed è stato istituito nel 2008, l’aveva definita come «connotata da alti profili di rischio». Sulla base di questa valutazione, il prefetto di Salerno Gerarda Maria Pantalone aveva vietato ai tifosi della Nocerina di assistere alla partita in programma allo stadio “Arechi” di Salerno. Le società hanno potuto vendere i biglietti soltanto ai residenti della provincia di Salerno, escludendo quelli dei comuni di Nocera Inferiore (la città in cui gioca la Nocerina), Nocera Superiore, Roccapiemonte, Castel San Giorgio, Siano, Pagani. Per evitare problemi di disordine pubblico la partita era stata anticipata alle 12.30 ed è stata trasmessa su un canale della RAI, in chiaro, nella provincia di Salerno, per permettere ai tifosi che non avevano la possibilità di andare allo stadio di seguirla in televisione. Inoltre, il questore di Salerno Antonio De Iesu aveva pianificato una serie di interventi da parte della polizia per assicurare il regolare svolgimento della partita. Questa mattina, circa duecento tifosi della Nocerina si sono riuniti davanti all’hotel dove si trovava in ritiro la squadra, nel comune di Mercato San Severino, per protestare contro la decisione del prefetto. Secondo quanto scrive il sito della Città di Salerno, i calciatori sarebbero stati minacciati e gli sarebbe stato chiesto di non giocare, perché i tifosi non potevano seguire la partita allo stadio. Il pullman della Nocerina è arrivato allo stadio di Salerno senza problemi. I calciatori però – scrive Repubblica – si sarebbero inizialmente rifiutati di scendere, raccontando di essere stati minacciati di morte dagli ultras, in caso fossero scesi in campo per giocare. Il sito La Città di Salerno riporta questo virgolettato, in riferimento alle minacce dei tifosi: “Non dovete scendere in campo, se non ci siamo noi non dovete giocare. Altrimenti a Nocera non tornate”. Successivamente però i calciatori sono stati convinti ad andare negli spogliatoi e giocare, grazie alle rassicurazioni del questore di Salerno, responsabile della sicurezza: in tutto, tra dentro e fuori lo stadio, la prefettura aveva stabilito la presenza di oltre trecento poliziotti. Secondo quanto riporta La Città di Salerno, prima della partita il questore De Iesu ha detto: «Mi risulta che la partita si giochi. I dirigenti della Nocerina si sono impegnati per convincere i propri giocatori a scendere comunque in campo, dopo le intimidazioni ricevute davanti al quartier generale della squadra, in un hotel a Mercato San Severino, alla partenza del pullman, da circa duecento presunti ultras. La “parte malata” della tifoseria rossonera, una parte minoritaria, ha inscenato forme di minacce che prefigurano reati penali. Ma l’ordine pubblico è garantito, il derby si può giocare in condizione di massima sicurezza. Non ci sono stati scontri tra le opposte fazioni». La partita doveva iniziare alle 12.30, ma l’inizio è stato posticipato di quaranta minuti e i calciatori della Nocerina non hanno fatto neanche il riscaldamento. Poi è successo qualcosa di incredibile. Dopo cinquanta secondi l’allenatore della Nocerina, Gaetano Fontana, ha sostituito tre calciatori: Luca Ficarrotta, Davide Evacuo – fratello di Felice, già protagonista di un surreale video di scuse ai tifosi del Benevento qualche settimana fa - e Carmine Polichetti. Al terzo minuto il centrocampista Lorenzo Remedi si è infortunato da solo ed è dovuto uscire: la squadra è rimasta in dieci, dato che l’allenatore aveva già fatto tutte le sostituzioni possibili. Al quarto minuto si è infortunato Edmund Hottor ed è dovuto uscire; al tredicesimo minuto si è infortunato Domenico Danti ed è dovuto uscire; al quindicesimo minuto si è fatto male Petar Kostadinovic ed è dovuto uscire; al diciannovesimo minuto si è infortunato Franco Lepore ed è dovuto uscire. A causa di tutti questi infortuni, nessuno dei quali causato da scontri con gli avversari, l’arbitro Juan Luca Sacchi ha interrotto la partita, dato che la Nocerina era rimasta soltanto con sei calciatori in campo. Dopo il fischio dell’arbitro ci sono stati anche alcuni scontri tra i calciatori delle due squadre, perché quelli della Salernitana hanno contestato, anche ironicamente, il comportamento dei propri avversari. Inoltre, dopo pochi minuti dall’inizio della partita sopra allo stadio è passato un aereo con attaccato uno striscione in cui c’era scritto: “Rispetto per Nocera e per gli ultras”. Altre contestazioni ci sono state da parte dei tifosi della Salernitana, che hanno iniziato a lasciare lo stadio prima che l’arbitro interrompesse la partita, chiedendo indietro i soldi del biglietto. Alla fine della partita il direttore sportivo della Nocerina, Luigi Pavarese, si è presentato nella sala stampa per parlare con i giornalisti. Rispondendo a una domanda relativa ai cinque infortuni ha spiegato: «I ragazzi sono andati in campo senza effettuare alcun riscaldamento, da qui gli infortuni». E ha aggiunto: «Sono qui solo per comunicare che tutti i dirigenti della Nocerina calcio sono dimissionari. E confermo il silenzio stampa di tutti i tesserati». Su come è andata la partita si dovrà esprimere il giudice sportivo, ma è probabile che venga assegnata la vittoria alla Salernitana per 3 a 0. Il questore Antonio De Iesu ha spiegato: «La società rossonera era intenzionata a disputare la partita, mentre erano proprio i giocatori che si rifiutavano di scendere sul terreno di gioco. Nel frattempo, abbiamo acquisito filmati e testimonianze di quanto accaduto ed avvieremo le opportune indagini», riferendosi alle minacce denunciate dai calciatori.
Nocerina esclusa dal campionato. Stangate per dirigenti e tesserati. Emessa la sentenza della Commissione Disciplinare che è immediatamente esecutiva. Squalifiche di 3 anni e mezzo per Benevento, Pavarese, Rosati, Fontana e Fusco. Un anno di stop per Danti, Hottor, Kostadinovic, Lepore e Remedi. Prosciolti 6 giocatori.
Il commento in podcast del direttore Di Marino. Le motivazioni della condanna di primo grado. La Lega Pro ufficializza l’esclusione della Nocerina dal campionato di Prima Divisione. Girone B. Come si legge nella nota diffusa oggi: «La Commissione Disciplinare Nazionale, nella riunione del 21-22 gennaio, ha disposto l’esclusione della A.S.G. Nocerina S.r.l. dal Campionato di competenza con assegnazione da parte del Consiglio Federale ad uno dei Campionati di categoria inferiore». Pertanto «tutte le gare del girone di ritorno di Prima Divisione del Girone ’B’ riguardante la società Nocerina ancora da disputare, saranno considerate perdute con il punteggio di 0-3 in favore dell’altra società con la quale avrebbe dovuto disputare la gara fissata in calendario».
La sentenza della Disciplinare. Esclusione della Nocerina dal campionato di competenza per illecito sportivo, con assegnazione da parte del Consiglio Federale ad uno dei campionati di categoria inferiore e un'ammenda di 10mila euro. La sentenza è immediatamente esecutiva e per questa ragione i legali del club (che hanno avuto in mattinata la notifica, insieme alla Lega Pro) stanno effettuando una vera e propria corsa contro il tempo per preparare il ricorso di urgenza. Inibizione di 3 anni e 6 mesi per tre dirigenti della società campana e squalifiche da un anno a 3 anni e 6 mesi per sette tra tecnici e calciatori, mentre sono stati prosciolti altri sei calciatori: sono queste le decisioni della Commissione Disciplinare Nazionale in merito al match tra Salernitana e Nocerina, la partita del girone B di Prima Divisione di Lega Pro interrotta lo scorso 10 novembre dopo 21 minuti di gioco per raggiunto numero minimo dei giocatori della Nocerina. La Commissione, presieduta dall'avvocato Sergio Artico e composta da Massimo Lotti, Franco Matera, Arturo Perugini e Gianfranco Tobia, nel dettaglio, ha inibito per 3 anni e 6 mesi il presidente della Nocerina Luigi Benevento, il direttore generale Luigi Pavarese e il medico della società Giovanni Rosati. Squalifica di 3 anni e 6 mesi per i tecnici Gaetano Fontana e Salvatore Fusco, squalifiche per un anno per i calciatori Domenico Danti, Edmunde Etse Hottor, Iuzvisen Petar Kostadinovic, Franco Lepore e Lorenzo Remedi. Sono stati prosciolti dagli addebiti contestati i calciatori Davide Evacuo, Luca Ficarrotta, Davide Polichetti, Carlo Cremaschi, Celso Daniel Jara Martinez e Giancarlo Malcore.
Il presidente della Lega Dilettanti. «Abbiamo rispetto della città ma bisogna che ci sia un pronunciamento del sindaco di Nocera, perché non è automatico il passaggio in Serie D se una squadra decade per provvedimento disciplinare. Il sindaco deve valutare la costituzione di una nuova società e in base alla garanzie sarà collocato in un campionato dilettantistico, dalla terza categoria alla serie D». Lo dice il presidente della Lnd Carlo Tavecchio in merito all’esclusione per illecito sportivo della Nocerina dal campionato di Lega Pro decisa ieri dalla Disciplinare della Figc in merito ai fatti avvenuti nel derby farsa contro la Salernitana.
Le dichiarazioni del presidente Aic. «Dovremo attendere i tre gradi di giudizio ma l'impatto iniziale è stato duro. Certo è che i giocatori sono stati l'anello debole di una serie di episodi ma bisogna capire se sono stati protagonisti o vittime». Lo ha detto il presidente dell'Associazione calciatori, Damiano Tommasi, parlando a Genova a margine del debutto a Genova della scuola di formazione dell'Aic, commentando la sentenza di espulsione della Nocerina dal campionato di Lega Pro. «Sicuramente la sentenza è stata molto forte - ha aggiunto Tommasi - e la sanzione alla società molto pesante. Il problema è che parliamo di ragazzi di vent'anni che si trovano a gestire situazioni difficili. Una riflessione ci deve essere perché questo della Nocerina è un condizionamento della partita da parte della tifoseria e da ambienti che apparivano sotto controllo».
Allenamento regolare per tecnico e squadra. Nel pomeriggio di ieri, come se nulla fosse accaduto qualche ora prima, la Nocerina è tornata ad allenarsi sul terreno di gioco dello stadio San Francesco agli ordini del trainer Fontana in un clima di silenzio quasi irreale. Il gruppo rossonero continuerà a lavorare fino a sabato mattina.
Le dichiarazioni del presidente Figc Abete. «Occorre distinguere la riflessione sulle problematiche del calcio, che sono tante, da quello che è il giudizio espresso in primo grado da parte della Disciplinare. Siamo di fronte a un procedimento che ha dato luogo a una decisione che è appellabile, per cui siamo ancora all’interno di un procedimento sportivo, va rispettata e prendiamo atto di quelle sono state in questo momento le conclusioni della Disciplinare». Così il presidente della Figc, Giancarlo Abete, ai microfoni di Sky Sport sulla sentenza della Disciplinare che ha escluso la Nocerina dalla Lega Pro dopo i fatti di Salerno.
La nota del sindaco Torquato. «La città di Nocera non retrocede, ma mantiene comunque viva la sua antica civile appassionata tradizione». È quanto scrive in una nota il sindaco di Nocera Inferiore, Manlio Torquato, in merito alla sentenza della Commissione Disciplinare che ha escluso la Nocerina calcio dal campionato di Prima Divisione Lega Pro esprimendo «profondo e totale rammarico». Il sindaco aggiunge: «Si tratta di una sentenza di primo grado che può essere impugnata e che, spero, possa essere revocata dalla giustizia sportiva». Manlio Torquato sottolinea poi che «è stata comunque scongiurata la radiazione del club rossonero, il secondo più antico della Campania, cosa di cui si parlava inizialmente, e che sarebbe stata eccessiva e sproporzionata. Toccherà adesso alla società - prosegue la nota - e a chi ne farà parte, considerata la non interferenza più volte affermata e qui ribadita nelle vicende societarie da parte dell'Ente comune, gestire il prosieguo del cammino. La mia vicinanza morale - è comunque alla comunità sportiva che non merita ulteriori mortificazioni».
L'intervento di Calcagno. Riguardo la sentenza che ha condannato la Nocerina dall’esclusione del campionato di Lega Pro e la squalifica di dieci tesserati, per la partita contro la Salernitana, il vicepresidente Aic Umberto Calcagno ha voluto sottolineare come, per quanto riguarda i calciatori, ci sia stata «la giusta sensibilità da parte degli organi giudicanti nel valutare tutta la situazione». «Resta il rammarico - ha proseguito in una nota sul sito dell’Assocalciatori - per la squalifica dei 5 calciatori anche se, essendo la sentenza di primo grado, auspichiamo che nei successivi gradi di giudizio la situazione possa cambiare».
La fiducia dell'avvocato Chiacchio per il ricorso. «C’è una evidente anomalia sanzionatoria poichè l’esclusione dal campionato della Nocerina è stata applicata non per responsabilità diretta della società bensì per responsabilità oggettiva. Ci sono i motivi per presentare ricorso in appello». Ad affermarlo l’avvocato Eduardo Chiacchio, legale della Nocerina Calcio, dopo la sentenza di esclusione dal campionato di Lega promossa dalla Commissione Disciplinare della Figc per illecito sportivo. «Rispetto la decisione dell’organo federale - dice Chiacchio - ma la sanzione ci sembra durissima a fronte della contestazione della responsabilità oggettiva della società, l’esclusione per illecito sportivo è davvero una massima sanzione. Più che una esclusione è una radiazione, ci sono in ogni caso i presupposti per presentare ricorso in appello». La Nocerina ha 48 ore di tempo per presentarlo. «Il mio ufficio legale - precisa Chiacchio - non ha ancora avuto mandato, attendiamo la decisione della società. Entro stasera bisogna preparare il ricorso». Per l’avvocato «il fatto che sia stata riconosciuta la responsabilità oggettiva della società di calcio è un buon motivo per presentare ricorso, per altro l’intenzione futura della Federazione è di abrogare la responsabilità oggettiva».
Le dichiarazioni di Pavarese. «È una sentenza assurda, siamo noi le vittime di quanto accaduto». È il commento del direttore generale della Nocerina, Luigi Pavarese, dopo la sentenza della commissione disciplinare che esclude la compagine calcistica di Nocera Inferiore dal campionato di Lega Pro Prima Divisione per il derby con la Salernitana. «La sentenza era annunciata. Mi auguravo che la Disciplinare - ha proseguito Pavarese - valutasse la vicenda con gli occhi attenti del freddo giurista, ma ciò non è avvenuto. La sentenza è lontana dalla realtà dei fatti e i nostri legali hanno già proposto appello». «Io sono parte lesa per la giustizia ordinaria avendo subito minacce - prosegue Pavarese - ma mi ritrovo con una squalifica di 3 anni e mezzo che giudicare assurda è riduttiva. A leggere le accuse di Palazzi e della Procura Federale in cui sono accusato di illecito sportivo, mi chiedo ancora con chi avrei fatto una combine? C’è gente che ha venduto la propria anima e che si è vista tramutare le accuse da illecito a slealtà sportiva con riduzione delle squalifiche. E io? Ora mi trovo ad essere trattato peggio di certa gente. Ho 35 anni di esperienza in questo ambiente e se avessi voluto organizzare qualcosa, lo avrei fatto tempo fa. Non ho mai commesso illeciti, ma mi ritrovo in mezzo alla strada: questa è la realtà dei fatti. Mi auguro, e non ho dubbi, che la commissione d’appello giudicherà obiettivamente la realtà dei fatti».
Se il tifoso comanda il calcio e le sentenze hanno due pesi e due misure, scrive Mattia Cagalli. Il calcio italiano come sostengo da tempo è malato. Purtroppo però non si tratta di una unica malattia ma di una serie di virus che agiscono in collaborazione tra loro. Il peggiore è sicuramente quello che si è ripresentato nuovamente sul campo del Latina, durante la sfida con il Padova (partita vinta dai padroni di casa per 3 a 0). I così detti tifosi dei biancoscudati hanno chiesto ai giocatori di togliersi la maglia, perché non degni di indossarla. La cosa peggiore è che il loro allenatore Serena ha assecondato e appoggiato l’assurda richiesta, giustificandola “I nostri tifosi hanno affrontato centinaia di chilometri per seguirci e gli abbiamo fornito una prestazione penosa”. Stiamo forse scherzando? Con questo atteggiamento la si da vinta agli ultras che stanno o forse sono sempre stati padroni del calcio. Questa stessa situazione era accaduta al Genoa e allora non era passata inosservata, questa volta invece (forse perché accaduta in serie B), non ha riscontrato grande interesse. Ci stiamo forse abituando? Sta diventando la normalità? Oramai il ritegno è qualcosa che può essere considerato leggenda. I tifosi da tempo gestiscono a loro modo anche il calciomercato dei club. L’ultimo caso quello di Guarin e del suo trasferimento dall’Inter alla Juventus; la nuova dirigenza è stata costretta a rinunciare a Vucinic e soldi per le minacce della curva Neroazzurra. Questo è stato solamente l’ultimo episodio, perché si tratta di un avvenimento che si è ripetuto diverse volte nella storia. Non si possono dimenticare le sommosse fiorentine per il trasferimento di Roberto Baggio alla Juventus e degli operai della Fiat (che minacciarono boicottaggi), quando Agnelli tentò di acquistare Gigi Meroni. E’ incredibile come l’apparato calcio nei vertici non rispetti il tifoso e allo stesso tempo come il tifoso non rispetti il calcio come sport. Un rispetto che i tifosi della Juventus non hanno neppure per i morti. Inqualificabile che le vittime di Superga valgano solamente venticinquemila euro. Meno di un Buh “razzista” e di Morosini. Ha perfettamente ragione Sandro Mazzola che in quella tragedia perse il padre, lo Juventus Stadium andrebbe chiuso fino alla fine del campionato e la memoria del padre e degli altri atleti non possono valere meno di un coro goliardico (per quanto antipatico e di cattivo gusto). Ovviamente di mezzo c’è la Juventus quindi tutto viene ridimensionato. Va però ricordato (perché a livello nazionale viene perlopiù taciuto), che la squadra di Torino è una di quelle con il maggior numero di multe per il comportamento dei propri tifosi. Purtroppo i vertici del calcio hanno un concetto di giustizia totalmente distorto e disuguale nel giudizio. Nel loro piccolo lo dimostrano ogni domenica gli arbitri: è ora di finirla che non vengano giustificate le loro decisioni successivamente ai matches. Se gli fosse data l’occasione di parlare e ragionare sulle scelte e i provvedimenti, forse il clima attorno allo sport più seguito d’Italia, si calmerebbe. Ancora più semplice sarebbe con l’uso della moviola in campo ma come ribadito dall’alto se ci fosse non ci sarebbe più il bello dello sport. Se questo concetto fosse vero, non dovrebbe esistere nemmeno la prova televisiva post-partita; sempre di tecnologia si tratta. Ogni tanto il rispetto non c’è nemmeno tra gli allenatori, Conte con undici punti sulla seconda in classifica, trova il tempo di arrabbiarsi con il Ct. della Nazionale Cesare Prandelli per la convocazione di Chiellini. Sinceramente non se ne può più di questo Antonio Conte che trova ogni pretesto per discutere e litigare con qualcuno.
TUTTE LE TRAGEDIE DEL NOSTRO CALCIO
Recensione di Caterina Baffoni su Tutto Juve del libro: "QUELLA NOTTE ALL'HEYSEL" di Emilio Targia. Il 29 maggio 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles, è un pomeriggio di luce e bandiere che sembra scandire alla perfezione il conto alla rovescia prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, la partita delle partite. Il sogno di ogni tifoso. Emilio ha diciotto anni e ce l’ha fatta: è lì, con il biglietto per entrare allo stadio, insieme all’amico di una vita, Giampiero. Oltre all’eccitazione e all’entusiasmo porta con sé un piccolo registratore e una cinepresa super 8, perché ha già deciso che da grande farà il giornalista. Nello stadio, tra canti e battiti di mani, c’è una chimica speciale che assomiglia a un incantesimo. Poi il silenzio. Emilio Targia, sopravvissuto all’incubo di quella notte all’Heysel, racconta ciò che ha visto, che ha sentito, i suoi ricordi, fissati anche su una pellicola e su un nastro magnetico, e prova a sciogliere nell’inchiostro memoria, rabbia, dolore e paura. Oggi, Emilio Targia, giornalista professionista dal 1997, è caporedattore di Radio Radicale e membro del Comitato Scientifico del portale “Art Wireless” e della direzione artistica del festival “Collisioni” di Barolo, ci sprona a leggere questo libro così coinvolgente e sincero per un semplice motivo che sta alla base delle 175 pagine: non dimenticare. «Perché senza memoria saremmo luci spente. Perché la memoria è un lavoro. Una scelta. Ha bisogno di manutenzione e di amore, e questo spetta a tutti e a ciascuno individualmente. Fatelo, allora, quel nodo al fazzoletto». Queste le parole di Emilio Targia, grande giornalista e tifoso, che ha fatto il nodo per ricordare e ricordarsi “Quella notte all’Heysel”, che è diventato il titolo del suo libro, scritto da vero giornalista, ma anche da testimone diretto della tragedia di Bruxelles. Targia c’era, era un tifoso con il sogno di diventare giornalista, e l’elaborazione dei suoi ricordi scorre come un diario personale, un fiume in piena di emozioni, quasi un romanzo. Ma non è solo un bel libro il suo, è un libro importante, un libro da leggere e da far leggere soprattutto a tante generazioni di bambini. Perché «moltissimi italiani (e molti media) si ostinano a considerare le vittime dell’Heysel solo come “juventini” e non come connazionali e come persone. Questo mina in modo imperdonabile il peso reale della tragedia belga, perché la riduce a un fatto calcistico e la relega in una dimensione sbagliata e giusta». Lo leggeranno in molti, purtroppo è probabile non quelli che dalle tribune degli stadi continuano a insultare la memoria dell’Heysel e di vittime che non erano tifosi juventini, ma tifosi e basta. E un tifoso non deve morire in uno stadio. Si sentono urla, dal settore Z. Gente che fugge. Non c’è più nessuna bandiera. Un vociare scomposto e molto strano, e grida, e rumori sconosciuti. Poi, d’improvviso, solo silenzio. Si fondono così quelle sensazioni con quei dettagli così unici che ha confusamente registrato. L'autore vuole portarci all'attenzione i ricordi dei sopravvissuti per restituire il dolore e il senso di tradimento che quella notte gli precipitarono addosso. Il libro nasce dall’esigenza dell’autore, sopravvissuto a quella notte di follia, di “liberare un file”, perché la mente umana a volte da sola non basta, a ricordare tutto. E purtroppo, a volte non vuole. Si tratta di un racconto dettagliato di quella notte, e dei giorni che la precedettero e che la seguirono. Un racconto dedicato ad Andrea, la vittima più giovane. Un’appendice con una rassegna stampa e alcune testimonianze. All'interno vi sono una prefazione di Sandro Veronesi, allora davanti alla tv, e una postfazione di una leggenda bianconera come Antonio Cabrini, allora in campo. La “mission” del libro è quella di fare manutenzione di memoria, ed evitare che il termine “Heysel” nel tempo si polverizzi, disperdendo il contenuto doloroso e tragico di quel che evoca. Informare, ricordare, raccontare. Provare a immergere il lettore in quel sogno innocente di vittoria che diviene improvvisamente un incubo. Emilio vuol tentare anche di provare a seminare anticorpi contro le banalità e le volgarità pronunciate in questi 30 anni da chi sa poco o nulla di quella notte all’Heysel. Il trentennale dalla strage di Bruxelles infatti offre una preziosa occasione ai media per provare a ripercorrere quelle drammatiche ore. Non dimenticare è un dovere civile. Lo è altrettanto provare a capire cosa si sarebbe dovuto fare in questi anni e cosa invece non è stato fatto. Se quella “lezione” è divenuta semplice lettera morta. E per colpa di chi. Chi non era all’Heysel, racconto l'autore del libro, difficilmente capisce perché quella partita si è giocata. Difficilmente può immaginare la “bolla” in cui tutti erano finiti, scioccati, increduli, confusi e spaventati. Provare a capire senza giudicare, può essere una risorsa. L’autore, che oggi è un giornalista, può farsi strumento per tutto questo. Ricordando, raccontando, rispondendo a qualunque domanda su quella notte e su questi 30 anni. Lo sconforto, la rabbia e la disillusione espresse in queste pagine sono tutte sensazioni palpabili e dolorose, ma capaci di mantenere viva la memoria al di là di qualsiasi ipocrita demagogia. Emilio è come se ci prendesse per mano in questo cammino appassionato e commovente, rendendoci partecipi di una notte "assurda". E' altrettanto lecito sottolineare come il tema Heysel si ricongiunge con l’attualità di queste settimane, ed è proprio il pensiero del campione del mondo Antonio Cabrini secondo il quale chi insulta negli stadi italiani le vittime dell’Heysel lo fa perché è ignorante. Perché non sa, né capisce o immagina il dolore. Quel dolore. Ma non c’è solo il tema dell’Heysel al centro di alcuni cori o come oggetto di alcuni striscioni. Il tema della violenza verbale e scritta di alcune curve di tifosi in Italia è tornato infatti prepotentemente sulle prime pagine dei giornali nelle ultime settimane, dopo che nella Curva Sud dello stadio Olimpico di Roma erano stati esposti alcuni striscioni addirittura contro la mamma del giovane tifoso napoletano ucciso a Roma lo scorso anno prima della finale di Coppa Italia Napoli-Fiorentina. E il problema della violenza torna di forte attualità dopo quel che è accaduto nel derby di Torino, con il bus della Juventus preso a sassate e l’esplosione di una bomba carta all’interno dello stadio comunale. Oltre ad altri episodi spiacevoli in altre città italiane. Ecco che la questione del rispetto, della memoria, della civiltà e della responsabilità torna prepotentemente alla ribalta. Occorre dibatterne subito, risalire con chiarezza alle radici del problema e cercare di estirparne tutte le problematiche relative a questi scempi. Si tratta di una lettura stimolante che fa bene al cuore, scritta da un testimone diretto, che cerca di comprendere e filtrare ai lettori il significato dell' assurda morte di 39 persone innocenti durante una manifestazione che dovrebbe in realtà essere la pacifica dimostrazione della bontà e dell'innocenza della passione sportiva.
La storia. Heysel (Juve-Liverpool) ovvero la Marcinelle del calcio europeo, scrive Marco Ciriello su "Barbadillo". Quella partita no, non fu un mattino del mondo, come diceva Georges Haldas delle grandi sfide, perché l’imprevisto al quale si aprì fu una tragedia. Chi aspettava un incontro di calcio, trovò la sera della fine. Si mossero a onde, come il mare, battendo e ribattendo, e invasero il settore Z, occuparono lo spazio e l’aria, volevano prendersi la curva, spinsero così forte che venne giù tutto e a chi guardava uscì il sangue dal naso. Erano gli hooligans, e l’Europa li scoprì nel peggiore dei modi, pagando col dolore italiano la sua ingenuità. Calarono con la velocità dei terremoti, la violenza dei campi di battaglia, l’indifferenza che ha il male quando governa le masse, precipitarono sulla normalità delle vite che consideravano il calcio una festa, e scoprirono che invece, no, non lo era più. Il viaggio che doveva portare a un successo sportivo divenne una tragedia. La gioia di 39 persone normali (32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e un irlandese) si trasformò in un incubo. Tutto il carico di una grande partita si sciolse negli ultimi respiri di chi rimase per sempre a Bruxelles, allo stadio Heysel. Il 29 maggio del 1985, Juventus e Liverpool si giocavano il trono dell’Europa calcistica, e nessuno pensava che quella sera sarebbe cambiato il calcio, il modo di andare ai campi, la perdita dell’innocenza. Trent’anni dopo è ancora difficile capire come fu possibile che l’Uefa avesse scelto uno stadio di cartone per una finale di Coppa dei Campioni, che ci fosse un numero esiguo di forze dell’ordine, e che il loro comportamento potesse essere così ottuso, cieco, impietoso. Che l’organizzazione fosse carente da ogni punto di vista. Che non ci fossero soccorsi adeguati e venisse meno la pietas. Tutto questo più seicento feriti fu l’Heysel, poi anche una partita di calcio, con un rigore procurato da Boniek e trasformato da Platini. Vinse la Juventus, in molti gioirono nella confusione delle mancate verità, alzarono la coppa e ci girarono il campo, dopo, con gli anni, e le immagini, arrivarono le scuse, cominciarono i pentimenti e la vergogna. Una via crucis che faceva prendere coscienza a tutti del dramma. Ma quella sera di maggio era carica di ordini e contrordini, basta vedere le immagini, sentire la voce di Bruno Pizzul che commentò con «tono il più neutro, impersonale e asettico possibile», leggere il ritardo di una ora e mezza sul fischio d’inizio, e l’assurdo comando di giocare come se niente fosse, come se non ci fossero morti, in un imperativo che aggiungeva assurdità al sangue, normalità a una situazione che non lo era, ordinarietà a una manifestazione che non aveva più nulla di sportivo, come scrisse nel sottopancia la tv austriaca mandando senza audio le immagini dell’incontro. Il Belgio per l’Italia è sempre stato lutto più che luce, prima speranza di lavoro poi morte. Nessuno pensava che dopo Marcinelle si potesse ancora piangere collettivamente da quelle parti, che si dovesse ancora pagare il pizzo alla morte. Ma esiste una geografia pure della sofferenza, con luoghi che hanno promontori di dolore e tunnel e pozzi e tombe sempre per gli stessi. E anche oggi che l’Heysel è stato storicizzato, che è diventato molti libri e persino un film – “Appuntamento a Liverpool” di Marco Tullio Giordana – rimane ancora intatta la ferita da sopruso subito, l’ingiustizia protratta negli anni e delle lievi condanne e per pochi, anche se l’esclusione delle squadre inglesi e l’altra tragedia – quella di Hillsborough – hanno portato la normalità nell’Inghilterra del calcio. Non ci sarà mai normalità, purtroppo nelle famiglie coinvolte nel lutto, le ha raccontare Francesco Caremani, in “Heysel, le verità di una strage annunciata” (Bradipolibri) partendo dalla storia di Roberto Lorentini, un medico, che nonostante si fosse salvato dalla prima carica degli inglesi, tornò indietro per soccorrere un bambino ferito: Andrea Casula (11 anni), e morì schiacciato dalla seconda carica degli hooligans mentre era a terra e gli stava praticando la respirazione artificiale. Fu una sera senza pietà, si apparecchiò un intero stadio alla morte e poi si fece finta di niente. Si giocò una partita che pareva indifferente alla storia, ma la colpa maggiore era e resta dell’Uefa che in nome di una possibile guerra civile mando in campo le squadre come clown, nella speranza – poi vana – di soprassedere, lasciò trapelare il meno possibile quasi che si potessero nascondere le storie di chi era morto e trasformare i testimoni in fantasmi. Nel caos si scelse il peggio, bisognava pensare in fretta e si pensò male. Per tutti, valgono le parole di Michel Platini, che nel suo libro “Parliamo di calcio” ha raccontato il suo stato d’animo: «La morte di uno spettatore francese, un mio tifoso venuto a vedermi, mi ha ossessionato. Lui era il riassunto di tutti gli altri morti. Lui era per me, prima dell’Heysel, un tifoso come tanti che avevo conosciuto, quelli che mi parlavano, che mi chiedevano gli autografi e posavano con me nelle fotografie, ma all’Heysel era diventato il volto del dramma. Il volto della mia colpa, anche». Quei volti non si sono sbriciolati, grazie alla memoria ostinata di quelli che hanno compreso la tragedia, patito la perdita, ed hanno smesso di concepire il calcio come contrapposizione tra parti, scontro tra diversi ma l’hanno ricondotto alla semplicità del gioco.
Heysel 1985-2015: 30 anni dopo quei 39 morti hanno tanti responsabili e nessun colpevole. E il calcio non è più lo stesso. Il 29 maggio 1985 a Bruxelles si consumò una delle peggiori tragedie della storia del calcio, sicuramente quella più nota perché avvenuta prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Da allora ad oggi tante inchieste e altrettante polemiche, una coppa che nonostante tutto fa bella mostra in bacheca a Torino, nessuna ammissione di colpa da parte di chi organizzò quel match folle. E le storie dimenticate di coloro che in quello stadio morirono, scrive Luca Pisapia su “Il Fatto Quotidiano”. Sono le sette e venti di sera allo stadio Heysel di Bruxelles, in campo due squadre di ragazzini belgi con indosso le maglie rosse e bianconere si stanno sfidando in attesa dell’incontro dei grandi, in cielo un bellissimo tramonto sembra disegnato apposta da Emile Claus per fondersi con i colori delle sciarpe e delle bandiere dei tifosi. Sono le sette e venti di sera allo stadio Heysel, quando qualcosa va storto. Quella che doveva essere la festa della finale di Coppa Campioni tra il Liverpool, che l’aveva vinta l’anno prima all’Olimpico contro la Roma, e la Juventus, che la stagione precedente aveva vinto la Coppa delle Coppe e poi a gennaio la Supercoppa Europea proprio contro i Reds, si trasforma in una tragedia. Alla fine di quasi due ore di panico e angoscia, di urla e di spaventi, di paura e di delirio, si contano 39 morti (di cui 36 italiani, il più vecchio di 58 anni e il più giovane di 11 anni) e oltre 600 feriti. Sono le nove e quaranta allo stadio Heysel di Bruxelles, e da quel maledetto 29 maggio del 1985 il calcio non sarà più lo stesso. Alle sette e venti, dopo le prime scaramucce tra tifosi del Liverpool (sistemati nei settori X e Y dello stadio Heysel) e della Juventus (che si trovano inopinatamente nel settore Z, lì a fianco), separati solo da una rete, un gruppo di inglesi rompe le deboli recinzioni che separano i settori e cerca lo scontro. E’ il panico. Chi cerca di uscire dai cancelli d’ingresso posti in cima li trova incredibilmente chiusi con i lucchetti, i vigili del fuoco decine di minuti dopo li dovranno rompere con le cesoie, chi prova a entrare in campo è ricacciato indietro dalla polizia belga, che entra in campo a cavallo sventolando i manganelli, senza capire cosa sta succedendo e senza aiutare nessuno. Anzi, aumentando il panico. A decine sono soppressi nella calca del fuggi-fuggi generale, e muoiono schiacciati. Altri per uscire dal settore Z provano a scavalcare il muro, che crolla sotto il loro peso schiacciando i fuggitivi. Alla nove e quaranta, quando è calata la notte e l’arbitro fischia l’inizio della partita, a terra ci sono già quei 39 morti di cui il calcio non si è mai assunto le responsabilità. Non è il disastro peggiore della storia, nel 1964 in Perù ci furono quasi 400 morti, nel 1982 in Russia circa 340, poche settimane prima dell’Heysel nel fuoco di Bradford morirono in 56 e pochi anni a dopo a Sheffield saranno 96. Ma è il più clamoroso. Perché è una finale di Coppa dei Campioni. Perché la tragedia avviene prima del calcio d’inizio, eppure si gioca lo stesso, a onta dei 39 morti. Perché le televisioni, a eccezione di quella tedesca, decidono di trasmettere lo stesso le immagini della partita, in un silenzio che puzza di morte. Perché ci si rende conto fin da subito che le responsabilità sono tanto degli organizzatori e delle forze dell’ordine quanto dei famigerati hooligans. Lo conferma l’inchiesta del giudice belga Marina Coppieters, che tre anni dopo condanna una decina d’inglesi a pochi anni di galera per omicidio colposo, ma soprattutto condanna la Uefa al risarcimento danni per le vittime in quanto ritenuta responsabile della strage. E se il presidente della Uefa Jacques Georges e il segretario generale Hans Bangerter non sono arrestati per un soffio nel dopopartita, Albert Roosens, allora presidente della federcalcio belga, e Johan Mahieu, responsabile dell’ordine pubblico, sono condannati a sei mesi di reclusione. I club inglesi, che allora dominavano in Europa, saranno squalificati per cinque anni dalle competizioni internazionali. I tifosi dei Reds negli anni seguenti racconteranno una verità terribile, confermata dalla commissione d’inchiesta affidata al giudice britannico Popplewell: infiltrati tra i presunti hooligans del Liverpool c’erano alcuni tifosi del Chelsea del gruppo di estrema destra Headhunters, membri dell’organizzazione neonazista Combat 18 e del partito National Front, tra cui addirittura due consiglieri comunali di Liverpool. I gruppi di neofascisti che dalla fine degli anni Settanta in Inghilterra approfittavano del calcio per aumentare il livello di tensione, e favorire la repressione delle proteste sindacali, si era spinto fino in Belgio. I tifosi bianconeri negli anni seguenti denunceranno di essere stati lasciati soli, dal club e dalle istituzioni calcistiche italiane. Quella sera si rompe il patto di fiducia tra società e tifosi, tra chi a Bruxelles ha visto morire amici e parenti e chi con quella partita ci ha guadagnato e vinto una coppa. I giocatori, eroi del Mundial spagnolo dell’82, ammetteranno infatti solo molto tempo dopo che sapevano dei morti prima di scendere in campo, molti di loro diranno che quella partita non si doveva giocare, ma quasi nessuno di loro all’epoca acconsentì di donare il premio partita alle famiglie delle vittime. La stessa Juventus non rinuncerà mai a quella coppa – nonostante le richieste che arrivavano dallo scrittore Italo Calvino all’allora direttore della Gazzetta dello Sport Candido Cannavò – ma si rifiuterà anche per anni di intrattenere rapporti con l’Associazione dei parenti delle vittime. Lo ha denunciato più volte il presidente dell’associazione Otello Lorentini, il cui figlio Roberto una volta uscito dal settore Z sceglie, da uomo e da medico quale era, di tornare indietro a cercare di salvare gli altri, e trova la morte. Ma la figura peggiore davanti a quella carneficina la fa la Uefa, che decide che the show must go on per non rimborsare biglietti e pagare penali alle tv. E non tornerà mai più indietro. Le responsabilità della Uefa risalgono a prima, alla decisione di fare giocare il match in uno stadio fatiscente, con mattoni di calcestruzzo talmente leggeri che alcuni tifosi fanno buchi nei muri per entrare. Alla decisione di vendere i biglietti del famigerato settore Z, a fianco dei settori X e Y riservati al Liverpool, sia agli italiani residenti in Belgio sia alle agenzie di viaggio italiane che organizzano i pacchetti, pur sapendo che l’anno prima all’Olimpico i tifosi del Liverpool e della Roma se le erano date di santa ragione. Le responsabilità della polizia belga sono evidenziate, oltre che dall’assurdo comportamento delle guardie a cavallo in campo, dalla decisione di utilizzare solo 5 (cinque!) poliziotti lungo le reti che dividono il settore X dallo Z, mentre fuori ne impiegano 40 (quaranta!) per inseguire un ragazzo che ha rubato un hot dog. Scaricate per anni le colpe sui tifosi inglesi brutti, sporchi e cattivi, di queste nefandezze le autorità del calcio e della politica non si sono mai assunte la responsabilità.
Strage Heysel, trent'anni e 39 morti dopo Dalla Z alla A: tutto andò al rovescio. Ecco come e perché persero la vita 39 persone: biglietti venduti a caso e più della capienza dell'impianto, poliziotti a caccia di ladri di salsicce mentre dentro lo stadio c'erano cadaveri, gendarmi con radio senza batterie, cantieri aperti dietro la curva inglese..., scrive Sauro Legramandi su Tgcom”. Nulla sarà più come prima. Una frase forse inflazionata ma dopo la strage dell'Heysel davvero qualcosa nel calcio è cambiato. Il mondo, quella sera, ha scoperto in diretta televisiva la follia degli hooligans e l'insicurezza di tanti stadi in giro per l'Europa. Agli hooligans ha pensato la Thatcher, agli impianti sicuri gli Stati che temevano un Heysel-bis. Ma cosa accadde quel mercoledì di fine maggio 1985? Qualcuno si ricorda bene, qualcun altro ha fotogrammi sfuocati, a chi ha meno di 35 anni non torna in mente nulla. Di certo quella maledetta notte tutto andò al contrario. Tutto andò dalla Z alla A.
Z COME SETTORE ZETA - Il settore della morte: il tardo pomeriggio di mercoledì 29 maggio 1985 trentanove persone vi entrarono per assistere a una partita di pallone, la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Non ne uscirono più, ammazzate dalla ressa, dalla follia disumana e da una buona dose di negligenza delle istituzioni.
V COME VERGOGNA - Da trent'anni a questa parte curve di ogni parte d'Italia ciclicamente espongono indegni striscioni che inneggiano alla tragedia. Non ci siamo fatti mancare nemmeno cori, sciarpe del Liverpool con la scritta Heysel oppure magliette da calciatori con stampato Heysel al posto del nome e 39 come numero.
U COME UNDICI – I metri di distanza tra Michel Platini e Bruce Grobbelaar alle 22.58: il francese trasformò il calcio di rigore, il portiere raccolse il pallone alle sue spalle. Juventus-Liverpool finì così, 1-0 e tanto sangue.
T COME TRANSISTOR – Per ragioni di tipo politico e per la prima volta nella storia belga, la sicurezza all’interno dello stadio fu organizzata in modo diverso: fino a quella sera la polizia controllava l’esterno, la gendarmeria l’interno. Quel 29 maggio no: la polizia “monitorava” i settori M-N-O e la gendarmeria “vigilava” sull’altra curva, i settori X-Y-Z). Uno dei poliziotti presenti ricorda: le radio a transistor dei due corpi non potevano comunicare tra di loro, mancavano le batterie.
S COME SERVIZIO D’ORDINE - Lo riassume il sito saladellamemoriaheysel.it: "Accanto alla rete che separava i settori Y (biglietti venduti solo ad inglesi) e Z (biglietti per i belgi ma finiti in gran parte in Italia) erano presenti solo cinque agenti, una poliziotta con il cane ed altri sei agenti erano sul prato, 28 gendarmi e un capitano erano fuori allo stadio ad inseguire uno o forse due rapinatori di 900 franchi belgi (22,31 euro) dalla cassa di un venditore di salsicce”.
R COME RAI - RaiUno doveva trasmettere l’evento sportivo dell’anno 1985, la riscossa del calcio italiano dopo la sconfitta nella Coppa dei Campioni 1984 della Roma all’Olimpico proprio contro il Liverpool. La voce, provata, di Bruno Pizzul raccontò sì l’evento dell’anno 1985 ma di sportivo non ci fu nulla. La tv tedesca scelse di non mandare in onda la gara. Quella austriaca lo fece ma senza commento e con la scritta in sovraimpressione "Questa che trasmettiamo non è una manifestazione sportiva".
Q COME QUATTROCENTOMILA – E’ il numero di richieste per i biglietti per la finale. Poi i tagliandi staccati effettivamente furono 58mila, anche se la capienza certificata dello stadio non superava i 50mila posti. Un biglietto per il settore Z costava in Belgio 9600 lire ed era destinato a spettatori locali. Per colpevoli carenze nei controlli, quei tagliandi finirono quasi tutti in mano a bagarini e agenzie che li rivendettero in Italia a circa 80mila lire: così gente senza scrupoli trasformò il bloc Z in una polveriera.
P COME "PAPA’ MA A CHE ORA COMINCIA LA PARTITA?” – Domanda che i quarantenni di oggi ricordano bene. Le risposte furono le più differenti possibili.
O COME ORARIO – La prima carica degli hooligans fu alle 19.09. La "partita" iniziò alle 21.36. Platinì segnò il rigore alle 22.58. L’ultima autopsia fu conclusa all'una del 30 maggio 1985.
N COME NOTHOMB – All’anagrafe Ferdinand Nothomb, all’epoca ministro dell’Interno del Belgio. Non ritenne necessario dimettersi dopo i fatti dell’Heysel.
M COME MAHIEU – Johan Mahieu, capitano della gendarmeria quella sera. Un carneade, o poco più: la sera della mattanza sostituiva il collega parigrado malato. Con due piccoli dettagli: era al debutto al comando della gendarmeria in servizio in uno stadio e non aveva partecipato a nessuna delle riunioni sulla sicurezza allo stadio..
L COME LORENTINI – Una famiglia segnata dall’Heysel: Roberto, 31enne medico di Arezzo e papà di due bambini, morì a bordocampo. Otello, suo padre, non si è mai rassegnato ed è stato l’anima dell’Associazione familiari vittime dell’Heysel. Andrea, suo figlio, nel gennaio 2015 fonda l’Associazione vittime dell’Heysel. "Saremo a Torino per la commemorazione ufficiale - ha detto - e volevamo presentare un monologo sull’accaduto ma non ci siamo trovati d’accordo con la Juventus: per la Juve l’importante è ricordare, per l’Associazione è raccontare la verità”.
I COME INTERNET – All’epoca la Rete aveva maglie larghissime quel maggio 1985, i cellulari erano quasi fantascienza. Figuriamoci sms, social network e whatsapp. Comunicare qualcosa divenne un’impresa. Per dire “Mamma, guarda che io sono vivo” esisteva solo il telefono fisso (con evidente sovraccarico) o tentare di farsi inquadrare alle spalle di Bruno Pizzul.
H COME HEYSEL – A rivedere oggi video e foto di quello stadio vengono brividi e rabbia. Ma come si poteva pensare di giocarvi una partita così importante? Chi e perché lo ha deciso? Quella sorta di Colosseo è stato abbattuto il 23 agosto 1994. Al suo posto ora c’è il “Re Baldovino”.
G COME GIUSTO GIOCARE? – E’ l’interrogativo che circola da quella sera. Trent’anni dopo ci si divide ancora sull’opportunità di scendere in campo. Inutile cercare la risposta corretta: oggi non si sa per certo nemmeno se i giocatori fossero a conoscenza dell'esatta dimensione della sciagura.
F COME FINALE - Appena scaduta la squalifica internazionale di dieci anni, allo stadio "Re Baldovino" si giocò un'altra finale continentale: era PSG-Rapid Vienna, andata in scena l'8 maggio 1996. In palio c'era la Uefa: vinsero 1-0 i francesi con gol di Bruno N'Gotty. Non si registrarono incidenti.
E COME EQUIPES DI RIANIMAZIONE – Per la trentesima finale di Coppa dei Campioni non ne era prevista nemmeno una in servizio allo stadio. Chiunque fosse stato colto, ad esempio, da infarto sarebbe stato caricato su una barella, messo su un'ambulanza e trasportato all'ospedale più vicino.
D COME DICHIARAZIONI - Al delegato dell'Uefa, la Juve consegnò una nota ufficiale prima di scendere in campo: “La Juve accetta disciplinatamente, anche se con l’animo pieno di angoscia, la decisione dell’Uefa, comunicata al nostro presidente, di giocare la partita per motivi di ordine pubblico”. I capitani delle due squadre, Scirea e Neal, lessero agli altoparlanti il seguente comunicato: "La partita si gioca per consentire alle forze dell'ordine di organizzare l'evacuazione dello stadio. Mantenete la calma. Non rispondete alle provocazioni. Giocheremo per voi”. Mentre 39 persone morivano, in campo sul tabellone luminoso della Uefa si leggeva: "Si prega di contenere ogni manifestazione di gioia o di disapprovazione nei limiti della sportività e di collaborare con i servizi di sicurezza nell'esercizio delle loro funzioni."
C COME CONDANNE - La Cassazione belga ha confermato nel 1991 le condanne a 4 anni con la condizionale e 60mila franchi per nove hooligans mentre altri tre hanno preso cinque anni e la stessa sanzione pecuniaria. Fu condannato a tre mesi con la condizionale Hans Bangerter, segretario generale Uefa. Sconto di pena (3 mesi) e 500 franchi di multa per il maggiore Kensier. Assoluzione per il capitano Mahieu. La responsabilità della Uefa come ente organizzatore fu riconosciuta grazie all’impegno dell’Associazione dei familiari.
B COME BASTONI E MATTONI - Semmai fossero approdati in Continente a mani vuote, gli hooligans poterono recuperare il “materiale di lavoro” da un cantiere incustodito a pochi passi dallo stadio. Tanto a perquisirli ci pensarono ben due poliziotti mentre a controllarne i biglietti c'erano un solo addetto.
A COME (CAUSE) ACCIDENTALI - E' la motivazione del decesso scritta in calce alle 39 autopsie effettuate quella maledetta notte da sei medici militari a Bruxelles.
Quindi per cause accidentali morirono: Rocco Acerra (28 anni) - Bruno Balli (50) - Alfons Bos (35) - Giancarlo Bruschera (35) - Andrea Casula (11) - Giovanni Casula (44) - Nino Cerullo (24) - Willy Chielens (41) - Giuseppina Conti (17) - Dirk Daeneckx (38) - Dionisio Fabbro (51) Jaques François (45) - Eugenio Gagliano (35) 13. Francesco Galli (25) 14. Giancarlo Gonelli (20) 15. Alberto Guarini (21) Giovacchino Landini (50) - Roberto Lorentini (31) - Barbara Lusci (58) 19. Franco Martelli (22) 20. Loris Messore (28) 21. Gianni Mastroiaco (20) Sergio Mazzino (38) - Luciano Rocco Papaluca (38) - Luigi Pidone (31) - Benito Pistolato (50) - Patrick Radcliffe (38) - Domenico Ragazzi (44) - Antonio Ragnanese (29) - Claude Robert (30) - Mario Ronchi (43) - Domenico Russo (28) - Tarcisio Salvi (49) - Gianfranco Sarto (47) - Amedeo Giuseppe Spolaore (55) - Mario Spanu (41) - Tarcisio Venturin (23) - Jean Michel Walla (32) - Claudio Zavaroni (28)
Anche se tutti cercano di dimenticarlo, scrive Emanuela Audisio. Soprattutto quelli che l’hanno vissuto, che erano lì, e che ancora lo soffrono: tifosi, giocatori, giornalisti, telecronisti, dirigenti. Il racconto della partita che finì prima di iniziare in un questo documentario che torna a Bruxelles e ripercorre le ore drammatiche di quel 29 maggio 85. Non solo la vigilia arruffata, non solo il crollo del muro nel settore Z, ma anche il dopo: il rientro delle bare, lo scambio di cadaveri, le polemiche, il processo, ma anche le sentenze, che danno solo un’ammenda a chi organizzò male l’evento. Niente vie di fuga, porte strette, almeno dieci uscite di sicurezza bloccate da lucchetti di cui nessuno trovò le chiavi, tre cancellate metalliche trasformate in trappola mortale tanto che i vigili del fuoco dovettero spezzare le catene con le cesoie per far passare i soccorsi.Parlano i testimoni di quella drammatica finale di Coppa Campioni. Paolo Rossi: «Non si sarebbe dovuto giocare. Non c’è da essere fieri di quella Coppa. Non rifarei quel giro di campo. 39 morti meritano rispetto». Marco Tardelli: «L’Inghilterra dopo l’Heysel ha fatto sparire gli hooligans, da noi invece gli ultrà ancora comandano. Il nostro calcio urla tolleranza zero, ma permette tutto». Antonio Cabrini: «Abbiamo giocato quella partita solo per motivi di ordine pubblico. Ci avevano detto che c’era un solo morto. Siamo responsabili perché non abbiamo avuto subito le dimensioni di quella tragedia, ma siamo stati anche noi vittime. Non abbiamo perso la vita, ma ci è stato rovinato un momento sportivo che poteva essere bello, il traguardo di una vita, e che invece ora è un ricordo doloroso e senza gioia». Bruno Pizzul, telecronista Rai di quella finale. ««Per me è stata una serata di imbarazzo e di difficoltà. Alcuni ragazzi mi chiesero di avvisare i loro genitori, ma io non potevo farlo, per riguardo alle altre famiglie. E ancora mi rammarico di non essere stato più severo con chi festeggiava».Parlano anche i sopravvissuti. Matteo Lucii, allora aveva poco più di 16 anni: «L’Heysel era uno stadio inadeguato. Mi sono ritrovato schiacciato da due file di persone. Non so come ho trovato la forza per rialzarmi, sopra avevo un peso di 250 chili. Dopo ho cercato un telefono, ma nessuno mi permetteva di chiamare». E Antonio Conti, papà di Giusy, 17enne che lì perse la vita. «Le ho lasciato la mano perché non volevo trascinarla come me, quando mi hanno travolto. Ho perso conoscenza e quando ho ripreso i sensi lei non c’era più. Era sotto una coperta, l’ho riconosciuta dalle scarpette».
"Guarda, attaccano!". Heysel, come una partita diventò tragedia. Nessuno ha rimosso l'Heysel. Il ricordo di un inviato che fu testimone oculare della tragedia di trent'anni fa. Dall'attesa felice per il grande evento sportivo all'orrore della strage consumata sugli spalti, scrive Maurizio Crosetti su “La Repubblica”. La ragazzina aveva piccole labbra rosse di sugo, come se avesse mangiato marmellata di fragole e poi si fosse addormentata. Il cielo era invece di un rosso più tenue, soffuso e morbido, voleva prendersi tutta l’aria. I tifosi del Liverpool erano vestiti di un rosso elettrico molto vivo, e sembravano assai più numerosi degli italiani, forse dipendeva proprio dal colore dominante. I muri di pietra della città avevano, infine, un tono rossastro di sangue raggrumato, e i mattoni parevano croste. C’era, già dal mattino, qualcosa di strano, una specie di minaccia impossibile da chiamare per nome. Trent’anni sono un tempo definito, esatto. I figli riescono a trovare un lavoro e magari sposarsi, un mutuo si estingue finalmente, e una carriera lavorativa si completa oppure si conclude. La memoria, lei fa sempre quello che vuole, aprendo cassetti dove tutto è in disordine ma anche nitido: oggi, adesso è di nuovo quel giorno. La città era lurida, la percorrevano ruscelletti di birra e piscio. Alle dieci di mattina, la Grand Place era piena di vetri spezzati. Gruppi di inglesi ubriachi ronfavano nel mezzogiorno, distesi sul selciato, le teste appoggiate a cartoni di bottiglie usate come cuscini. A un certo punto, da una finestra d’improvviso spalancata volò un oggetto di cristallo, una specie di centrotavola scagliato per disperazione contro la marea urlante degli hooligans, ed esplose come una bomba. Si rischiava di ferirsi anche solo passeggiando, nell’attesa della partita. Ed era un giorno tiepido, dolcissimo. Arrivammo allo stadio Heysel su un autobus con sopra scritto “Italian press”, non proprio un’ideona: un gruppo di rossi feroci si accostò ululando, e quando scendemmo ci vomitarono addosso gli aliti alcolici. Era dunque questa, la partita più bella del mondo? Saranno state le sei del pomeriggio, salimmo subito in tribuna. Il tramonto era meraviglioso, proprio dietro la curva alla nostra sinistra, quella del settore Z e della tragedia. Si trattava di aspettare, è quel rito che precede i grandi eventi sportivi, l’appassionato respira tutto, ricorderà tutto, figurarsi l’inviato giovane alla prima trasferta vera. Non c’erano telefonini, si scattavano foto con gli occhi. Poi, di colpo, verso le 19.20 la curva prese a ondeggiare come un mare impazzito, un mare assurdo nell’assenza di vento. I rossi tiravano cose da sinistra verso destra, pietre, fumogeni, e intanto si spostavano compatti. «Guarda, attaccano!», disse qualcuno. Una, due volte. Gli italiani, che erano pochi (la maggioranza stava nella curva opposta: chi era capitato lì lo aveva fatto comperando da sé i biglietti, si può morire anche per distrazione) presero a indietreggiare, però senza vie di fuga. Qualcuno trovò spazio e salvezza verso il prato, da dove però i gendarmi belgi provavano a respingere le persone con i manganelli. Finché il muretto divisorio cedette, e quasi tutti restarono sotto la massa che sfondava, corpi calpestati, schiacciati, soffocati. Dalla tribuna si capiva e non si capiva. «Ci sono dei morti», disse una voce, e subito ci precipitammo giù dalle scale verso l’antistadio. E li vedemmo. Erano già allineati, cinque, otto, dodici corpi morti in fila e senza nessuno accanto. Corpi soli, irreparabili. Transenne di ferro venivano usate come barelle, la polizia a cavallo andava avanti e indietro, soffiando nei fischietti e roteando bastoni. C’erano infermieri, pochi, e medici, ancora meno. C’era morte dappertutto. Trent’anni sono un tempo lunghissimo e un nonnulla, dietro le porte del cervello c’è solo mistero, chissà chi archivia le immagini lì dentro, chi sceglie, chi scarta. Malinconia per le nostre vite intatte. Nel ricordo c’è l’uomo con la pancia enorme e un altro uomo arrampicato su quella collina di carne, per tentare un massaggio cardiaco. C’è il ragazzo con la gola tagliata, è una tracheotomia: morirà entro pochi istanti. C’è un silenzio assurdo. C’è la ragazzina con la marmellata sulle labbra piccole. Porta scarpette bianche e blu. Persone attorno, tante. Ora sale anche il rumore. La gente italiana vede i pass che penzolano al collo dei giornalisti, allunga mani, porge foglietti con numeri di telefono, per favore chiamate casa, dite a mia mamma che sono vivo. Non esistevano cellulari, computer, internet in quella preistoria dell’uomo. In tribuna stampa, noi di Tuttosport avevamo un telefono a disco di bachelite nera e sì, qualcuno di quei numeri ignoti lo componemmo ma pochi, c’era prima da lavorare, da dettare i pezzi a braccio, nessuno scrisse una riga battendo i tasti delle Olivetti, fu semmai una narrazione orale e corale, un disperato racconto nel buio, una pioggia di parole intrise di sangue. Non si poteva comprendere, c’era solo da guardare, salire e scendere scale, descrivere come meglio si poteva, cioè malissimo. Il senso di inadeguatezza, di vuoto non è mai svanito, insieme alla vergogna di prendere appun- ti. Eravamo bimbi tra i lupi. Il resto lo sanno tutti. Gli appelli dei capitani di Juve e Liverpool, la voce del povero Scirea (è ancora viva anche lei, con quel tono di quieta timidezza, il sussurro di un uomo buono, «restate calmi, giochiamo per voi»), la partita che comincia alle 21.40 invece che alle 20.15 (allora le finali iniziavano alle otto e un quarto e c’era solo la Rai, solo la cadenza sbigottita e impotente di Bruno Pizzul). I rossi e i bianconeri, il fulvo Zibì Boniek atterrato fuori area però l’arbitro dà il rigore, tira Platini, gol, poi il francese festeggia roteando il pugno, assurdamente. L’atmosfera sospesa, irreale, e la gara non fasulla perché c’è qualcosa di diabolico e disperato nella resistenza umana. Vince la Juventus, in campo ci si abbraccia ma intanto Claudio, un collega più anziano, piange accanto al cronista ragazzino, e ripete «è finita, adesso è finita». Saranno trentanove, i morti, in fondo a quella fine che invece ricomincia ad ora incerta, almeno una volta all’anno ricomincia nel tepore di maggio, e negli anniversari tondi come un pallone, e nel ricordo delle voci dei parenti come Otello Lorentini che li rappresentava tutti, e adesso anche lui se n’è andato. La fine ricomincia nell’imboscata di certi sogni, o nella memoria a bruciapelo di una vita intera di stadi, passione, pelle d’oca, felicità, partenze, solitudine, stanchezza, viaggi, città, parole. E sempre ritornano quelle labbra piccole, rosse, che non avranno baci, mai più.
Trent'anni fa la strage dell'Heysel, Tacconi: "Ci ordinarono di giocare e festeggiare". Erano andati in massa a Bruxelles con la speranza di festeggiare la prima Coppa dei Campioni bianconera. Invece decine di tifosi juventini trovarono una morte orribile nel settore Z dello stadio: travolti dalla furia degli hooligans inglesi ubriachi, schiacciati contro le balaustre o precipitati dalle gradinate poco prima che iniziasse la finale contro il Liverpool del 29 maggio 1985. Trentanove morti (32 italiani) anche per l’inadeguatezza dell'Heysel e dei servizi di sicurezza ed ordine pubblico. Un’ora di follia, poi si giocò lo stesso per evitare guai ulteriori. Una partita fasulla, con morti e feriti a bordo campo. Una “Coppa maledetta” che la Juve aveva inseguito per 30 anni e che era sfuggita già due volte: nel '73 a Belgrado, dieci anni dopo ad Atene.
Stefano Tacconi, portiere della Juve nella tragica finale di Coppa Campioni contro il Liverpool del 29 maggio 1985, se chiude gli occhi quali immagini le tornano in mente a 30 anni da quella notte da incubo dell'Heysel a Bruxelles?
«Non bisogna chiudere gli occhi, ma tenerli ben aperti per ricordare. Penso soprattutto al grande sogno di 22 giocatori infranto da certi ultrà. Le finali si dovrebbero sempre giocare con entusiasmo e gioia».
Non si poteva evitare di scendere in campo per rispetto delle 39 vittime?
«Le notizie erano frammentarie, non si capiva se era morto un tifoso oppure un centinaio. La Uefa ci aveva impedito di scendere in campo ma per fortuna un generale grande e grosso, con un po' più sale in zucca, ci ha ordinato di giocare per evitare problemi più grandi: la curva juventina avrebbe voluto vendicarsi...».
Erano inevitabili anche certi festeggiamenti?
«Sento sempre ripetere le stesse cose... La nostra festa era stata decisa dallo stesso generale alto due metri: ci ha obbligati a uscire dallo spogliatoio e andare sotto la curva bianconera, perché dovevamo tenere i nostri tifosi all'interno dello stadio».
Ironia della sorte, quella fu la sua migliore partita di sempre: conferma?
«Proprio così, però non riesco a raccontarla. Ma il dramma è che certi fattacci continuano a ripetersi con cadenza preoccupante».
Si riferisce a quanto accaduto prima di Lazio-Roma?
«Proprio così: guardate cosa è successo prima del derby di lunedì: certa gente ha la segatura al posto del cervello. In Italia non riusciamo proprio a cambiare: servono leggi dure da far rispettare. Possibile che ai politici le cose vadano bene così? Io credo che chi ama lo sport e il calcio in particolare, sia disgustato da quanto visto nei paraggi dell’Olimpico. Una cosa indegna. Non è possibile essere ostaggi di bande di delinquenti. Perché questi personaggi, etichettiamoli così, lo sono».
Qual è il modo per non dimenticare l’Heysel?
«Intanto in questi giorni sono proprio a Bruxelles, ospite di una televisione belga, per commemorare la tragedia. Io e il mio ex collega Grobbelaar (il numero 1 del Liverpool di allora, ndr), non chiedetemi chi è il più matto dei due, abbiamo inutilmente proposto ai club di giocare tutti gli anni un’amichevole tra Juventus e Liverpool. Ultimamente è saltato il progetto di uno spettacolo teatrale per rievocare la tragedia. La Juve ha ritenuto che una parte della sceneggiatura fosse un tantino delicata e pure controversa».
E allora, la società di Agnelli cosa potrebbe fare per tenere vivo il ricordo?
«La cosa più importante è che il club bianconero stia vicino alle famiglie delle vittime».
Heysel, «io sopravvissuto a quella maledetta curva Z». La testimonianza a Tuttosport.com di Nereo Ferlat, che il 29 maggio di 30 anni fa era all’Heysel e ha un messaggio per chi allo stadio intona cori contro le sue vittime, scrive Fabrizia Argano. Nella vita di Nereo Ferlat c'è una lettera che segna il prima e il dopo. La Z. Il 29 maggio del 1985, era nella curva Z dello stadio Heysel di Bruxelles, quella curva maledetta dove morirono 39 persone, poco prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Sono passati 30 anni, ora è in pensione e le partite della sua Juve preferisce vederle in tv. Ma il ricordo di quel giorno resta indelebile: «L'Heysel non è mai passato. Penso quasi ogni giorno a quello che ho vissuto in quegli attimi», racconta a Tuttosport.com. Aveva 30 anni quel giorno e tutto l’entusiasmo di chi segue la sua squadra del cuore in una trasferta all’estero per la prima volta: «Avevo percepito una situazione di pericolo entrando allo stadio, si vedeva che i tifosi inglesi avrebbero potuto accedere facilmente nel nostro settore». Ma mai avrebbe immaginato di vivere quello che poi è successo: «Dopo i primi attacchi, un razzo sparato ad altezza uomo ha generato il panico e ci siamo ritrovati in migliaia di persone in pochi metri quadrati. Ero schiacciato, non riuscivo a respirare e pensavo che sarei morto. Quando il muretto è crollato, sono stato sbalzato verso l’alto e mi sono ritrovato in campo. Una suora dopo alcuni minuti mi ha chiesto come stavo e lì ho realizzato di essere ancora vivo». Dopo l’inferno, la partita in un clima irreale, che Ferlat ha visto in uno stato di incoscienza: «E’ stato giusto giocare per motivi di ordine pubblico, ma francamente i festeggiamenti, i cortei, i clacson che sono venuti dopo non hanno avuto senso». Poi il ritorno a casa e quegli incubi che non passavano: «Non riuscivo più a dormire, il pensiero delle vittime pesava come un macigno, il volto sorridente del signor Gianfranco Sarto da San Donà di Piave che avevo conosciuto sul pullman e ora non c’era più continuava a tornarmi in mente». Ricordi che Ferlat ha deciso di mettere per iscritto, quasi per esorcizzarli. Ne è nato un libro intitolato “L’ultima curva”, «quella che tifosi come me hanno potuto calpestare per l’ultima volta per colpa di una partita di pallone», spiega Ferlat. Da quel giorno è cambiato qualcosa nel calcio? «E’ stata una lezione per gli inglesi, con tutte le misure prese per la sicurezza e contro la violenza – dice – in Italia sembra di no, basta sentire i cori sulle vittime dell’Heysel e su quelle di Superga che ciclicamente vengono intonati negli stadi. Quando li sento, mi vengono i brividi. Restiamo il Paese dei comuni e della signorie, invece di tifare per la propria squadra si tifa contro. Cosa vorrei dire a chi intona quei cori beceri? Semplicemente di crescere dentro». Ferlat parteciperà alla cerimonia di commemorazione del 2 giugno a Reggio Emilia: «Il ricordo è doveroso nei confronti delle vittime e come monito per le future generazioni, affinché le famiglie possano tornare allo stadio senza paura e si debelli la violenza. Un tifo sano non può essere un’utopia, così come l’Heysel non è stato un incubo ma una realtà a cui cercare di dare un senso».
"Quella catenina d'oro rubata a mio fratello mentre moriva all'Heysel". Francesco Galli è una delle 39 vittime della strage dello stadio belga di 30 anni fa. I fratelli: "Quando stava morendo, gli rubarono tutto l'oro che indossava. Ricevemmo una lettera di scuse dalla Thatcher e 36 milioni di lire di risarcimento, usati per il suo monumento al cimitero", scrive Mauro Paloschi su "Bergamo news". La mattina del 29 maggio 1985, in un terreno della Bassa Bergamasca, due fratelli stanno zappando la terra. A un certo punto Francesco, il più giovane, tirando un calcio a un sasso esclama in dialetto: "Stasera Platini segna così e vinciamo la Coppa dei campioni". Quella sera a Bruxelles andò esattamente in quel modo. Ma Francesco non vide il gol del suo idolo: era morto un paio di ore prima. Nel modo in cui nessuno avrebbe potuto immaginare. Soprattutto in uno stadio da calcio. Francesco Galli è una delle vittime della strage dell'Heysel, lo stadio di Bruxelles in cui prima della finale di Coppa dei Campioni 1984/'85 morirono 39 persone, tra cui 32 italiani, e ne rimasero ferite 600. Francesco, per gli amici Franco, aveva solo 25 anni ed era l'ultimo dei dieci figli di una famiglia molto unita, come quelle di una volta. Lavorava come carpentiere ed era fidanzato con Daniela. Ma il suo grande amore era la Juventus. Una passione che condivideva con un gruppo di amici della zona. Gli stessi con i quali, una settimana prima della finalissima contro gli inglesi del Liverpool, aveva organizzato la trasferta in Belgio. "Gli avevano tolto da poco il gesso alla gamba e non riusciva ancora a muoverla molto bene - racconta Mario Galli, ora 76enne, il fratello con cui Francesco lavorava quella mattina nel terreno di famiglia - . Per questo nostro padre Pietro gli aveva sconsigliato di andare a Bruxelles. Aveva provato a convincerlo in ogni modo. Niente da fare. Quel giorno si svegliò molto presto ed era agitatissimo per la partita. Mentre zappava non parlava d'altro. Appena terminato il lavoro partì insieme agli amici. Prima ci salutò con il suo solito sorriso. Per l'ultima volta". Il gruppo di tifosi juventini partiti da Calcio con un pulmino raggiunse la capitale belga intorno alle 18. Mezzora più tardi erano già all'interno dello stadio, dopo aver acquistato i biglietti. Del maledetto settore Zeta, proprio quello che crollò. Poco più in là erano stati collocati i tifosi inglesi, separati dagli italiani solo da una rete metallica. Franco, non essendo molto alto, prese posto nella parte bassa della gradinata. Circa un'ora prima della partita, intorno alle 19, i tifosi del Liverpool cominciarono a spingersi verso il settore Zeta, fino a sfondare le reti divisorie. Nella grande ressa che venne a crearsi, alcuni si lanciarono nel vuoto per evitare di rimanere schiacciati, altri cercarono di scavalcare gli ostacoli ed entrare nel settore adiacente, altri si ferirono contro le recinzioni. Il muro crollò per il troppo peso, moltissime persone rimasero schiacciate, calpestate dalla folla e uccise nella corsa verso una via d'uscita. Tra loro anche il 25enne bergamasco, rimasto sepolto sotto un cumulo di gente e tra i primi a morire, come ricostruito poi dagli inquirenti. "Stavamo guardando la partita in televisione, tutti insieme - prosegue Roberto Galli, 72 anni, un altro fratello, ancora scosso nel ricostruire quelle ore - . Nel vedere quelle immagini restammo impietriti. Ma pensavamo che Franco fosse riuscito in qualche modo a mettersi in salvo. Aveva sempre fatto sport, era un ragazzo molto agile e sveglio. Col passare delle ore iniziammo a preoccuparci, come se avessimo il sentore che qualcosa non andava. Intorno alle 23 suonò il citofono. Era un commerciante del paese. Aveva saputo da un giornalista bergamasco presente a Bruxelles che nostro fratello era morto. Eravamo disperati. Mio padre si inginocchiò di fronte alla tv. Mia madre non parlò più. Non si è mai ripresa da quella notizia. E nel giro di alcuni anni, morirono entrambi". E non è tutto. Oltre alla tragica morte di Franco, la famiglia Galli fu costretta a fare i conti un altro schiaffo: "La mattina seguente partimmo noi tre fratelli per il riconoscimento del corpo - continua il signor Roberto - . Le salme erano state posizionate a terra, una a fianco all'altra, nell'hangar dell'aeroporto. Ci indicarono il sacco nero in cui avevano messo il nostro caro. Era irriconoscibile. Capimmo che era lui solo grazie al tatuaggio che aveva sul braccio". "La salma arrivò a casa il giorno seguente, passando dallo scalo di Roma - spiega - . Purtroppo però, gli avevano rubato gli oggetti in oro che indossava. Tra i quali una catenina d'oro di circa due etti che valeva molto e a cui era molto legato. La sostituirono con una da bigiotteria. Probabilmente gliel'hanno rubata quella sera mentre era a terra morto. Qualche tempo dopo arrivarono i risarcimenti economici: 12 milioni di lire dallo Stato italiano, 12 milioni dalla Juve e 12 milioni dal primo ministro britannico Margareth Thatcher, la quale ci inviò anche una lettera di scuse per il comportamento dei suoi connazionali. I soldi li usammo tutti per il monumento e la statua che lo rappresenta felice mentre gioca a pallone". Per ricordare Franco e quell'immane tragedia, ogni anno a fine maggio gli Amatori Kals, la squadra in cui militava, organizza un triangolare di calcio. Lo sport che Franco amava tanto. Una passione che, in modo assurdo, gli è costata la vita e ha segnato per sempre la sua famiglia.
Strage dell'Heysel, Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La designazione dello stadio Heysel da parte dell'UEFA fu criticata da entrambi i club: la struttura era fatiscente, priva di adeguate uscite di sicurezza e di corridoi di soccorso. Il campo di gioco e le tribune erano mal curati, assi di legno erano sparse per terra, i muretti divisori erano vecchi e fragili e da essi si staccavano pezzi di calcinacci, le tribune di cemento vetuste e sgretolate. Lo scarico dei servizi igienici colava dai muri, contribuendo a renderli ancora più fragili. Ai molti tifosi italiani, buona parte dei quali proveniva da club organizzati, fu assegnata la tribuna N, che si trovava nella curva opposta a quella riservata ai tifosi inglesi; molti altri tifosi organizzatisi autonomamente, anche nell'acquisto dei biglietti, si trovavano invece nella tribuna Z, separata da due basse reti metalliche dalla curva dei tifosi del Liverpool, ai quali si unirono anche tifosi del Chelsea, noti per la loro violenza (si facevano chiamare headhunters, "cacciatori di teste"). Mappa dell'Heysel: il settore Z occupato dai tifosi italiani nella parte laterale viene invaso dagli hooligan inglesi. Circa un'ora prima della partita i tifosi inglesi più accesi (i cosiddetti hooligan) cominciarono a spingersi verso il settore Z a ondate, cercando il take an end ("prendi la curva") e sfondando le reti divisorie: memori degli incidenti della finale di Roma di un anno prima, si aspettavano forse una reazione altrettanto violenta da parte dei tifosi juventini, reazione che non sarebbe mai potuta esserci, dato che la tifoseria organizzata bianconera era situata nella curva opposta. Gli inglesi sostennero di aver caricato più volte a scopo intimidatorio, ma i semplici spettatori, juventini e non, impauriti, anche per il mancato intervento e per l'assoluta impreparazione delle forze dell'ordine belghe, che ingenuamente ostacolavano la fuga degli italiani verso il campo manganellandoli, furono costretti ad arretrare, ammassandosi contro il muro opposto alla curva dei sostenitori del Liverpool. Nella grande ressa che venne a crearsi, alcuni si lanciarono nel vuoto per evitare di rimanere schiacciati, altri cercarono di scavalcare gli ostacoli ed entrare nel settore adiacente, altri si ferirono contro le recinzioni. Il muro ad un certo punto crollò per il troppo peso, moltissime persone rimasero schiacciate, calpestate dalla folla e uccise nella corsa verso una via d'uscita, per molti rappresentata da un varco aperto verso il campo da gioco. Dall'altra parte dello stadio i tifosi juventini del settore N e tutti gli altri sportivi accorsi allo stadio, non riuscendo a capire cosa stesse accadendo dalla parte opposta, sentirono le voci dello speaker e dei capitani delle due squadre che invitavano alla calma, senza tuttavia capire quello che stava realmente accadendo. Un battaglione mobile della polizia belga, di stanza a un chilometro dallo stadio, giunse finalmente dopo più di mezz'ora per ristabilire l'ordine, trovando il campo e gli spalti nel caos più totale, invasi da frange inferocite di tifoseria bianconera. Gli scampati alla tragedia si rivolsero ai giornalisti in tribuna stampa perché telefonassero in Italia, per rassicurare i familiari. I morti furono 39, dei quali 32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e 1 irlandese. Oltre 600 i feriti. La diretta televisiva dell'incontro su Rai 2 si aprì con il video volontariamente oscurato, mentre il costernato commentatore Bruno Pizzul tentava di attribuire l'imprevisto a cause tecniche; tuttavia il TG1 nel giro di pochi minuti iniziò a riportare le immagini degli incidenti e degli spettatori che cadevano a frotte nella scalinata, cosicché i telespettatori in attesa poterono comunque apprendere della tragedia in atto. Si decise di giocare ugualmente la partita, poi vinta dalla Juventus; la decisione fu presa dalle forze dell'ordine belghe e dai dirigenti UEFA, per evitare ulteriori tensioni, con i giocatori di entrambe le squadre che non erano a conoscenza di quanto avvenuto, come confermato da Boniek in una intervista. Pizzul accolse con disappunto la decisione di disputare comunque l'incontro, promettendo al pubblico di commentarlo "nel modo più asettico possibile". La televisione tedesca si rifiutò di trasmettere la partita, mentre quella austriaca, pur non interrompendo la diretta, sospese la radiocronaca, mettendo in sovrimpressione una scritta che recitava: "Questa che andiamo a trasmettere non è una manifestazione sportiva". Lo juventino Michel Platini, autore dell'1-0 decisivo nella finale. La partita venne ugualmente giocata, nonostante la strage, per evitare ulteriori problemi di ordine pubblico. Alcuni giocatori della Juventus, tra cui il suo leader Michel Platini, autore della rete decisiva, furono molto criticati per essersi lasciati andare a esultanze eccessive vista la gravità degli eventi, ma la gioia durò poco: infatti lo stesso Platini il giorno dopo, quando tutti eran venuti a conoscenza della morte di 39 persone, dichiarò al giornalista RAI Franco Costa che di fronte a una tragedia di quel genere i festeggiamenti sportivi passavano in secondo piano. Anche Giampiero Boniperti, presidente bianconero, affermò che di fronte a quella situazione non era il caso di festeggiare la vittoria mentre il sindaco di Torino censurò l'esultanza nelle strade dei concittadini tifosi. Nel 1995, in occasione del 10º anniversario della strage, Platini affermò in un'intervista rilasciata al quotidiano La Stampa che i giocatori erano a conoscenza solo parzialmente dell'accaduto e che i festeggiamenti per la vittoria insieme al resto della tifoseria juventina presente allo stadio, quasi ignara della vera situazione, fossero gesti spontanei. In una intervista Zbigniew Boniek ha dichiarato che non avrebbe voluto giocare quella partita e che non ritirò il premio partita per quella vittoria, mentre nel 2005 Marco Tardelli si è scusato per i festeggiamenti nel corso di un'intervista televisiva. Alcuni dirigenti juventini e Michel Platini si recarono a fare visita ai feriti gravemente negli ospedali della zona, mentre nella camera mortuaria allestita all'interno di una caserma, i parenti delle vittime furono accolti dal Re Baldovino e dalla consorte Fabiola. Nei giorni successivi l'UEFA, su proposta del Governo di Londra e visti altri simili precedenti, come il disastro di Bradford avvenuto soli 18 giorni prima, decise di escludere le squadre inglesi a tempo indeterminato dalle Coppe europee e il Liverpool per ulteriori tre stagioni (poi ridotta a una). Il provvedimento fu applicato fino al 1990, un anno dopo la strage di Hillsborough, che vide protagonisti i tifosi del Liverpool, una tragedia consumatasi non per aggressione di facinorosi, ma per inadempienze dei servizi d'ordine. Nel 1988 il regista Marco Tullio Giordana diresse il film drammatico Appuntamento a Liverpool, ispirato alle vicende successive alla strage dell'Heysel, che vedeva Isabella Ferrari come protagonista nel ruolo della figlia di una delle vittime, alla ricerca dell'assassino del padre. Nel 1990, dopo la finale per il 3º e 4º posto del campionato del mondo 1990 tra Italia e Inghilterra vinta dagli azzurri per 2-1, i giocatori in campo e i tifosi in tribuna celebrarono quel risultato con molto fair-play tra di loro, cancellando definitivamente dopo cinque anni quella tragedia. Sempre nel 1990, quando il Milan incontrò qui il Malines, il capitano Franco Baresi depositò in memoria della strage un mazzo di fiori sulla recinzione del settore Z, ricevendo moltissimi fischi da parte dei tifosi locali. Nel 1996 lo stadio, che l'anno prima cambiò nome in Stadio Re Baldovino, tornò a ospitare una finale europea; si trattò della finale di Coppa delle Coppe tra Paris Saint-Germain e Rapid Vienna, vinta 1-0 dai francesi. Dal 2000 all'interno dello stadio una targa commemorativa ricorda la tragedia del 1985: su una semplice targa in marmo sono rappresentate, come in una riga geometrica, 39 tacche come simbolo delle 39 vittime. In occasione della seconda giornata del gruppo B del campionato europeo di calcio 2000 svoltosi in Belgio e nei Paesi Bassi, nello stadio Re Baldovino, prima dell'incontro tra Italia e Belgio, Antonio Conte (capitano della Juventus) e il capitano dell'Italia Paolo Maldini deposero un mazzo di fiori sotto la targa commemorativa a ricordo della tragedia. I parenti delle vittime hanno fondato un comitato. In occasione del ventesimo anniversario della strage (29 maggio 2005) hanno presenziato alla cerimonia di inaugurazione del monumento di commemorazione delle vittime a Bruxelles, presieduta dal sindaco della capitale belga. Negli stessi giorni le squadre giovanili di Juventus e Liverpool si sono affrontate allo stadio Comunale di Arezzo (città di Giuseppina Conti e di Roberto Lorentini, due delle vittime; il padre di Lorentini, Otello, è tra l'altro il fondatore del suddetto comitato) in una partita amichevole. In seguito a questa tragedia, nel 1986 venne introdotta una legge per vietare per 3 mesi l'ingresso allo stadio dei tifosi più facinorosi e, in seguito a un'altra strage, quella di Hillsborough nel 1989, per migliorare le strutture degli impianti vennero introdotte norme più severe come le telecamere a circuito chiuso. Se a livello nazionale ci furono progressi positivi riconosciuti da tutta l'Europa, tanto da assegnare all'Inghilterra l'edizione 1996 del Campionato europeo di calcio, a livello internazionale - in un primo momento - rimase il problema hooligan; il 15 febbraio 1995 a Dublino, durante un'amichevole contro l'Irlanda, e durante il campionato del mondo 1998, molti hooligan provocarono disordini di ordine pubblico. Durante il campionato d'Europa 2000, hooligan inglesi provocarono grossi disordini a Charleroi, dopo la gara contro la Germania, e, in seguito alla minaccia dell'UEFA di escludere la Nazionale britannica dal torneo, il governo inglese decise di inasprire i controlli anche in occasione delle trasferte internazionali, dando più potere alla polizia.
Le vittime
Rocco Acerra (28) Bruno Balli (50) Alfons Bos (35) Giancarlo Bruschera (35) Andrea Casula (11) Giovanni Casula (44) Nino Cerullo (24) Willy Chielens (41) Giuseppina Conti (17) Dirk Daeneckx (38) Dionisio Fabbro (51) Jaques François (45) Eugenio Gagliano (35) Francesco Galli (25) Giancarlo Gonelli (20) Alberto Guarini (21) Giovacchino Landini (50) Roberto Lorentini (31) Barbara Lusci (58) Franco Martelli (22) |
Loris Messore (28) Gianni Mastroiaco (20) Sergio Mazzino (38) Luciano Rocco Papaluca (38) Luigi Pidone (31) Benito Pistolato (50) Patrick Radcliffe (38) Domenico Ragazzi (44) Antonio Ragnanese (29) Claude Robert Mario Ronchi (43) Domenico Russo (28) Tarcisio Salvi (49) Gianfranco Sarto (47) Amedeo Giuseppe Spolaore (55) Mario Spanu (41) Tarcisio Venturin (23) Jean Michel Walla (32) Claudio Zavaroni (28) |
Ecco un elenco temporale di avvenimenti violenti avvenuti negli stadi italiani dagli Anni 60 a oggi:
- 1963 - 28 aprile. Giuseppe Plaitano, 48enne tifoso della Salernitana, è il primo morto da stadio in seguito a scontri tra polizia e tifosi. Allo stadio Vestuti si disputa un incontro decisivo ai fini della promozione in serie B tra la Salernitana e il Potenza. Per un rigore non dato ai granata, i tifosi invadono il campo. La guerriglia coinvolge le due tifoserie e la polizia. Un poliziotto spara in aria: per una tragica fatalità il colpo raggiunge la tribuna, dove è seduto Plaitano. Il caso verrà archiviato.
- 1973 - 2 dicembre. In occasione di Roma-Napoli, un giovane tifoso azzurro, Alfredo Della Corte, viene ferito da un colpo di pistola alla faccia.
- 1979 - 28 ottobre. Vincenzo Paparelli, tifoso laziale, quando manca un'ora all'inizio del derby Roma-Lazio, viene colpito a un occhio da un razzo sparato dalla Curva Sud, tradizionale sede dei sostenitori romanisti. Il razzo, sparato da un ragazzo di appena 18 anni, attraversa tutto lo stadio e finisce la sua tragica corsa sul volto del povero Paparelli, causandogli lesioni gravissime. Per l'uomo, trasportato immediatamente in ospedale, non c'è nulla da fare. Il suo assassino era G. F., anni diciotto. Pittore edile disoccupato con una grande passione per la Roma. Dopo aver appreso dell’omicidio si dà alla latitanza. Fugge su e giù per l’Italia, varca il confine con la Svizzera. Dopo quattordici mesi si costituisce. Verrà condannato dalla Cassazione a sei anni e dieci mesi di reclusione per omicidio preterintenzionale. E’ il 1987. Qualche anno più tardi morirà anch’egli, consumato per un brutto male. Durante il periodo di latitanza aveva chiamato quasi ogni giorno Angelo Paparelli, fratello dello sfortunato Vincenzo, per scusarsi e giurare che il 28 ottobre non voleva uccidere nessuno.
1984 - 8 febbraio. Triestina-Udinese, partita di Coppa Italia. Alla fine del match scoppiano gravi incidenti che obbligano le forze dell'ordine ad intervenire. Nel corso degli scontri il tifoso triestino Stefano Furlan muore in seguito a delle gravi lesioni cerebrali, causate molto probabilmente dalle percosse infertegli dalla polizia. Da allora la curva dei tifosi triestini è intitolata proprio a Stefano Furlan. Nel novembre 1985, la Corte di Assise di Trieste condannò un agente, ritenuto responsabile delle manganellate, a un anno di reclusione (con i benefici).
1984 - 30 settembre. Al termine della partita Milan-Cremonese, Marco Fonghessi, un giovane tifoso rossonero, viene accoltellato a morte da un altro tifoso milanista. Assurda la dinamica dell'episodio: la targa della sua auto attira l'attenzione di un gruppo di tifosi meneghini, che circondano la vettura e con un coltello tagliano le gomme. Fonghessi reagisce e viene raggiunto da una coltellata, sferrata da un giovane di appena 18 anni. Trasportato in ospedale muore dopo poche ore.
1988 - 9 ottobre. Allo stadio Del Duca di Ascoli, al termine della partita con l'Inter, Nazzareno Filippini, tifoso bianconero di 32 anni, resta gravemente ferito nel corso di una violenta rissa scoppiata tra le opposte tifoserie. Vengono arrestati quattro esponenti della curva nerazzurra.
1989 - 4 giugno. Prima di Milan-Roma muore Antonio De Falchi, tifoso giallorosso di 18 anni. De Falchi raggiunge lo stadio con tre amici; una ventina di ultras milanesi tentano di aggredirli e durante la fuga De Falchi viene stroncato da un arresto cardiaco. Dei tre tifosi milanisti processati, solo uno venne arrestato e poi condannato a 7 anni di reclusione.
1989 - 18 giugno. Penultima giornata di campionato tra Fiorentina e Bologna, altra tragedia. Il treno coi tifosi emiliani diretti in Toscana subisce un agguato da parte degli ultras fiorentini. Alla fitta sassaiola segue il lancio di una bottiglia molotov che esplode all'interno di un vagone e provoca il ferimento di due tifosi toscani, uno dei quali è Ivan Dall'Oglio, appena quattordicenne. Non ci scappa il morto, ma Dall'Oglio rimane irrimediabilmente sfigurato al volto.
1993 - 10 gennaio. A Bergamo, al termine di Atalanta-Roma, muore, colto da infarto, il 42enne Celestino Colombi, coinvolto nelle cariche della polizia mentre si trovava casualmente nei pressi dello stadio.
1994 - 30 gennaio. Salvatore Moschella, 22 anni, muore gettandosi dal treno su cui viaggia dopo essere stato aggredito con alcuni tifosi del Messina di ritorno dalla trasferta di Ragusa. I siciliani prima lo picchiano e poi continuano a infastidirlo. Moschella, nel cercare una via di fuga, si getta dal finestrino, mentre il treno rallenta in prossimità della stazione di Acireale. Cinque le persone arrestate, delle quali due minorenni.
1995 - 29 gennaio. Prima della partita Genoa-Milan viene accoltellato a morte un giovane tifoso rossoblù, Vincenzo Spagnolo. L'omicida è un ragazzo di appena 18 anni, Simone Barbaglia, che all'epoca frequentava solo da qualche mese la curva del Milan. Sarà condannato a 15 anni di carcere. Simone Barbaglia, condannato a 15 anni. Barbaglia sarebbe dovuto uscire nel 2010, ma grazie all'indulto è già fuori.
1998 - 1 febbraio. Nel dopopartita di Treviso-Cagliari muore il tifoso veneto Fabio Di Maio, 32 anni, per un arresto cardiaco in seguito all'intervento della polizia per sedare un accenno di rissa tra le opposte tifoserie. Allo stesso Di Maio è stata poi intitolata la curva degli ultras trevigiani.
1999 - 24 maggio. La mattina seguente la partita tra il Piacenza e la Salernitana, sfida decisiva per la permanenza in serie A, il treno speciale che riporta a casa gli oltre 3 mila tifosi campani, proprio in prossimità della stazione di Salerno, prende fuoco in una galleria. Nel rogo, appiccato dagli stessi tifosi, perdono la vita quattro giovani supporter granata.
2001 - 17 giugno. A Messina si disputa l'acceso derby con il Catania, decisivo per la promozione in serie B. Tra le due tifoserie prima della partita si verifica un reciproco lancio di oggetti. Dal settore degli ospiti viene lanciata una bomba-carta che esplode in mezzo ai tifosi della Curva Nord e ferisce Antonino Currò, 24 anni, il quale finisce in coma e dopo pochi giorni muore. A seguito delle indagini viene arrestato un tifoso minorenne di Catania. Antonio Currò era deceduto dopo 15 giorni di coma a seguito delle ferite riportate alla testa per l'esplosione di una bomba carta durante il derby Catania-Messina del 17 giugno del 2001. La polizia ritenne di individuare in un diciassettenne tifoso etneo l'autore del lancio dell'ordigno mortale. A smontare la tesi dell'accusa furono i filmati in possesso della magistratura dai quali emerse che il lancio compiuto dall'ultrà etneo sugli spalti dello stadio erano avvenuti in tempi non compatibili. Inoltre l'indagato non aveva alcun oggetto esplodente.
2003 - 20 settembre. Finisce in tragedia il derby Avellino-Napoli. Muore Sergio Ercolano, ventenne tifoso partenopeo, precipitato nel vuoto durante gli scontri tra tifosi e polizia.
2004 - 21 marzo. Scontri tra tifosi e polizia fuori dall'Olimpico dopo Roma-Lazio. La partita viene interrotta per una voce, poi smentita, della morte di un bambino investito da una macchina delle forze dell'ordine.
2007 - 27 gennaio. Ermanno Licursi, un dirigente della Sammartinese (terza categoria), muore a Luzzi, nel cosentino, a seguito dei colpi ricevuti mentre cerca di sedare una rissa in campo nella partita con la Cancellese. Il dirigente si accascia rientrando negli spogliatoi.
2007 - 2 febbraio. Muore l'ispettore capo della polizia Filippo Raciti, colpito durante gli scontri con i tifosi del Catania durante e dopo il derby siciliano con il Palermo.
2007 - 11 novembre. Gabriele Sandri, il tifoso laziale rimasto ucciso, in un'area di servizio sull'A1 ad Arezzo, da un colpo di pistola esploso da un agente di polizia dall'altra parte della carreggiata.
2008 - 30 marzo. Matteo Bagnaresi, 28 anni, Muore un tifoso del Parma investito da un pullman di juventini nell'area di servizio Crocetta vicino ad Asti, sulla Torino-Piacenza. Le due tifoserie erano dirette all'Olimpico per assistere a Juve-Parma. L'autista, per evitare lo scontro tra le due tifoserie, sarebbe ripartito rapidamente non accorgendosi del ragazzo.
In ricordo di Stefano Furlan e delle altre vittime del calcio italiano Dopo 19 giorni di coma, il 1 marzo del 1984 si spense Stefano Furlan. Questo il ricordo ripreso dal sito Arrexini. Oggi ricorre il ventinovesimo anniversario della morte di Stefano Furlan, tifoso della Triestina morto il 1 marzo del 1984, dopo diciannove giorni trascorsi in coma profondo. Il suo calvario ebbe inizio il 9 febbraio in seguito a delle gravi lesioni cerebrali, causate dalle percosse infertegli dalla polizia il giorno prima nel post partita Triestina-Udinese valevole per la Coppa Italia. Si è appena conclusa una partita molto sentita da entrambe le tifoserie, trattandosi del derby del Friuli Venezia Giulia. I tifosi triestini tentano un contatto con i rivali. La polizia carica ripetutamente e lancia lacrimogeni per disperdere i tafferugli. Nel fuggi fuggi generale c’è anche Stefano che viene fermato da alcuni poliziotti e, secondo alcuni testimoni oculari dell’epoca, diviene oggetto di un’aggressione selvaggia da parte delle forze dell’ordine. Il 9 febbraio Stefano accusa dei forti dolori alla testa. Viene portato dalla madre in taxi all’ospedale, dove gli viene riscontrata una frattura all’osso temporale tale da necessitare un immediato ricovero in neurochirurgia. Muore il 1 marzo del 1984 dopo diciannove giorni trascorsi in coma profondo. Da allora la curva degli ultras triestini è intitolata proprio a Stefano Furlan. Nel novembre 1985, la Corte di Assise di Trieste condannò un agente, ritenuto responsabile delle manganellate, a un anno di reclusione (con i benefici). Il 2013 è iniziato con il ricordo, da parte delle rispettive tifoserie di appartenenza ma non solo, di alcuni ragazzi morti all’interno del contesto calcistico italiano (Celestino Colombi, Ermanno Licursi, Vincenzo Claudio Spagnolo, Salvatore Moschella, Fabio Di Maio, Maurizio Alberti, Stefano Furlan). Il 4 febbraio vi è stata inoltre la ricorrenza del nono anniversario della morte di Valery Melis che, dal momento che le cause della sua morte non sono legate al mondo del calcio, non verrà menzionato in questo articolo ma, essendo un Ultrà del Cagliari, troverà presto spazio nelle pagine di questo portale. Non possiamo esimerci dal ricordare i tifosi che non ci sono più, che riteniamo importanti quanto quelli che ancora ci sono e che continuano sognare dietro ad un pallone, ad amare la propria squadra e la propria città, e a lottare contro un calcio che non promette nulla di buono. Le nuove strade che il mondo del calcio sta percorrendo assestano infatti mille colpi a questa incrollabile fede. Forse per i bambini che si stanno appassionando adesso al gioco del calcio è diverso, ma è indubbio che, per chi ha più di vent’anni, assimilare gli ultimi radicali cambiamenti del gioco del calcio, come le quotazioni in borsa delle squadre, le esorbitanti cifre per i diritti televisivi delle partite, e la repressione, non sia facile. Il cosiddetto “calcio moderno” è ormai uno spauracchio da esorcizzare, e sembra proprio che molti tifosi continuino ad esserlo nel ricordo e nel rispetto di chi non c’è più. Non tutti i tifosi di calcio infatti sono uguali, e non tutti vanno allo stadio per gli stessi motivi. La maggior parte lo fa per soddisfare il bisogno di svago nell’unica giornata di riposo, ma per altri la partita è qualcosa di più che un evento sportivo a cui assistere come semplici spettatori. Il tifo può manifestarsi nelle forme più disparate tramite un “agire disinteressato” che comporta sacrifici, rinunce, problemi familiari e lavorativi a causa della scelta fatta di seguire assiduamente la squadra del cuore, per la quale sono disposti ad affrontare spese economiche, atti di violenza, e talvolta, come capita, la morte. Come si muore di calcio? Troppo spesso si pensa che le morti nel mondo del pallone siano avvenute esclusivamente a causa della violenza degli ultrà. Idea tanto diffusa quanto assolutamente non corretta e soggetta a strumentalizzazioni. Dai primi casi di Augusto Morganti e Giuseppe Plaitano, fino al noto episodio di Gabriele Sandri, troviamo infatti una ricorrente responsabilità diretta delle forze dell’ordine, passando per vicende come questa di Stefano Furlan, o di Celestino Colombi e Fabio Di Maio con morti arrivate in seguito ai pestaggi delle stesse forze di polizia. Abbiamo ancora avuto episodi di vera e propria malasanità come nel caso di Maurizio Alberti a La Spezia, dovuti alla fatiscenza degli impianti sportivi come nel caso di Eugenio Bortolon, tragici episodi come la caduta di Massimo “Cioffi” per arrivare a quelli dovuti a scontri, o singoli episodi di varia natura con protagonisti ragazzi di tifoserie avversarie (Marco Fonghessi, Nazzareno Filippini, Antonio De Falchi, Salvatore Moschella, Vincenzo Claudio Spagnolo, Antonino Currò). Diversi motivi ma stesso incancellabile dolore che fatalmente dopo qualche giorno di titoli a caratteri cubitali, servizi e accuse incrociate finisce per cadere nel dimenticatoio per opinionisti e gente comune. Ma non sicuramente per chi con quei ragazzi ha condiviso una passione. Come le curve non smettono mai di fare, partita dopo partita, anche noi vogliamo chiudere ricordando i 29 tifosi morti del calcio italiano.
AUGUSTO MORGANTI, VIAREGGIO 2 MAGGIO 1920 (SPORTING CLUB VIAREGGIO-UNIONE SPORTIVA LUCCHESE, Promozione, l’ attuale serie B).
GIORDANO GUARISCO, MILANO 1 DICEMBRE 1958 (MILAN-FIORENTINA, serie A).
GIUSEPPE PLAITANO, SALERNO 28 APRILE 1963 (SALERNITANA-POTENZA, serie C).
VINCENZO PAPARELLI, ROMA 28 OTTOBRE 1979 (ROMA-LAZIO, serie A).
MARIA TERESA NAPOLEONI, SAN BENEDETTO DEL TRONTO 14 GIUGNO 1981 (SAMBENEDETTESE-MATERA, serie B).
CARLA BISIRRI, SAN BENEDETTO DEL TRONTO 18 GIUGNO 1981 (SAMBENEDETTESE-MATERA, serie B).
ANDREA VITONE, BOLOGNA 21 MARZO 1982 (BOLOGNA-ROMA, serie A).
STEFANO FURLAN, TRIESTE 1 MARZO 1984 (TRIESTINA-UDINESE, coppa Italia).
MARCO FONGHESSI, MILANO 1 OTTOBRE 1984 (MILAN-CREMONESE, serie A).
PAOLO SIROLI, PISA 13 APRILE 1986 (PISA-ROMA, serie A).
NAZZARENO FILIPPINI, ASCOLI 17 OTTOBRE 1988 (ASCOLI-INTER, serie A).
ANTONIO DE FALCHI, MILANO 4 GIUGNO 1989 (MILAN-ROMA, serie A).
CELESTINO COLOMBI, BERGAMO 10 GENNAIO 1993 (ATALANTA-ROMA, serie A).
SALVATORE MOSCHELLA, ACIREALE 30 GENNAIO1994 (MESSINA-RAGUSA, Interregionale, Campionato nazionale Dilettanti).
VINCENZO CLAUDIO SPAGNOLO, GENOVA 29 GENNAIO 1995 (GENOA-MILAN, serie A).
FABIO DI MAIO, TREVISO 3 FEBBRAIO 1998 (TREVISO-CAGLIARI, serie B).
MAURIZIO ALBERTI, LA SPEZIA 8 FEBBRAIO 1999 (LA SPEZIA-PISA, serie C2).
CIRO ALFIERI, CAVA DE’ TIRRENI 24 MAGGIO 1999 (PIACENZA-SALERNITANA, serie A).
VINCENZO LIOI, CAVA DE’ TIRRENI 24 MAGGIO 1999 (PIACENZA-SALERNITANA, serie A).
GIUSEPPE DIODATO, CAVA DE’ TIRRENI 24 MAGGIO 1999 (PIACENZA-SALERNITANA, serie A).
SIMONE VITALE, CAVA DE’ TIRRENI 24 MAGGIO 1999 (PIACENZA-SALERNITANA, serie A).
ANTONINO CURRÒ, MESSINA 2 LUGLIO 2001 (MESSINA-CATANIA, serie C1).
SERGIO ERCOLANO, AVELLINO 22 SETTEMBRE 2003 (AVELLINO-NAPOLI, serie B)
MASSIMO BRUNI, SAN BENEDETTO DEL TRONTO 22 NOVEMBRE 2004 (SAMBENEDETTESE-L’ AQUILA di domenica 4 maggio 2003, serie C).
ERMANNO LICURSI, LUZZI – provincia di COSENZA 27 GENNAIO 2007 (CANCELLESE-SAMMARTINESE, Terza Categoria).
GABRIELE SANDRI, autostrada del sole-AREZZO 11 NOVEMBRE 2007 (INTER-LAZIO, serie A).
MATTEO BAGNARESI, CROCETTA NORD-autostrada Torino-Brescia 30 MARZO 2008 (JUVENTUS-PARMA, serie A).
EUGENIO BORTOLON, PARMA 23 MAGGIO 2009 (PARMA-VICENZA, serie B).
ADRIANO VENTURI, BOLOGNA, STADIO DALL’ARA, (BOLOGNA-MODENA dell’1 Dicembre del 2002, serie A). E’ morto il 12 Febbraio del 2013 dopo dieci anni di sofferenze. Cadde con un volo di quattro metri nel fossato del Dall’Ara che divide la pista di atletica dalla curva San Luca, dove erano ospitati i tifosi del Modena. Adriano, allora trentenne, stava sistemando uno striscione, appoggiato alla balaustra. Perdendo l’equilibrio, finì nel fossato. Subito soccorso prima che le squadre entrassero in campo e trasportato all’ ospedale Maggiore, le sue condizioni apparvero subito molto gravi. Da quel giorno Adriano è rimasto in coma senza più riprendere conoscenza e il 12 Febbraio del 2013 ha concluso il suo calvario.
TUTTE LE VITTIME DEL CALCIO ITALIANO Tostato da Paolo Esposito su “Caffè News” Da Giuseppe Plaitano, ucciso in un Salernitana-Potenza del 1963, a Gabriele Sandri, si allunga l’elenco di tifosi e agenti delle forze dell’ordine morti per il calcio Di Paolo Esposito Junior 28 aprile 1963 – Giuseppe Plaitano, 48enne tifoso della Salernitana, è il primo morto da stadio in seguito a scontri tra polizia e tifosi. Allo stadio Vestuti si disputa un incontro decisivo ai fini della promozione in serie B tra la Salernitana e il Potenza. Per un rigore non dato ai granata, i tifosi invadono il campo. La guerriglia coinvolge le due tifoserie e la polizia. Un poliziotto spara in aria: per una tragica fatalità il colpo raggiunge la tribuna, dove è seduto Plaitano. Il caso verrà archiviato. 2 dicembre 1973 – In occasione di Roma-Napoli, un giovane tifoso azzurro, Alfredo Della Corte, viene ferito da un colpo di pistola alla faccia. 28 ottobre 1979 -Vincenzo Paparelli, tifoso laziale, quando manca un’ora all’inizio del derby Roma-Lazio, viene colpito a un occhio da un razzo sparato dalla Curva Sud, tradizionale sede dei sostenitori romanisti. Il razzo, sparato da un ragazzo di appena 18 anni, attraversa tutto lo stadio e finisce la sua tragica corsa sul volto del povero Paparelli, causandogli lesioni gravissime. Per l’uomo, trasportato immediatamente in ospedale, non c’è nulla da fare. 8 febbraio 1984 – Triestina-Udinese, partita di coppa Italia. Alla fine del match scoppiano gravi incidenti che obbligano le forze dell’ordine ad intervenire. Nel corso degli scontri il tifoso triestino Stefano Furlan muore in seguito a delle gravi lesioni cerebrali, causate molto probabilmente dalle percosse infertegli dalla polizia. Da allora la curva dei tifosi triestini è intitolata proprio a Stefano Furlan. 30 settembre 1984 – Al termine della partita Milan-Cremonese, Marco Fonghessi, un giovane tifoso rossonero, viene accoltellato a morte da un altro tifoso milanista. Assurda la dinamica dell’episodio: la targa della sua auto attira l’attenzione di un gruppo di tifosi meneghini, che circondano la vettura e con un coltello tagliano le gomme. Fonghessi reagisce e viene raggiunto da una coltellata, sferrata da un giovane di appena 18 anni. Trasportato in ospedale muore dopo poche ore. 9 ottobre 1988 – Allo stadio Del Duca di Ascoli, al termine della partita con l’Inter, Nazzareno Filippini, tifoso bianconero di 32 anni, resta gravemente ferito nel corso di una violenta rissa scoppiata tra le opposte tifoserie. Vengono arrestati quattro esponenti della curva nerazzurra. 4 giugno 1989 – Prima di Milan-Roma muore Antonio De Falchi, tifoso giallorosso di 18 anni. De Falchi raggiunge lo stadio con tre amici; una ventina di ultras milanesi tentano di aggredirli e durante la fuga De Falchi viene stroncato da un arresto cardiaco. Dei tre tifosi milanisti processati, solo uno venne arrestato e poi condannato a 7 anni di reclusione. 18 giugno 1989 – Penultima giornata di campionato tra Fiorentina e Bologna, altra tragedia. Il treno coi tifosi emiliani diretti in Toscana subisce un agguato da parte degli ultras fiorentini. Alla fitta sassaiola segue il lancio di una bottiglia molotov che esplode all’interno di un vagone e provoca il ferimento di due tifosi toscani, uno dei quali è Ivan Dall’Oglio, appena quattordicenne. Non ci scappa il morto, ma Dall’Oglio rimane irrimediabilmente sfigurato al volto. 10 gennaio 1993 – A Bergamo, al termine di Atalanta-Roma, muore, colto da infarto, il 42enne Celestino Colombi, coinvolto nelle cariche della polizia mentre si trovava casualmente nei pressi dello stadio. 30 gennaio 1994 -Salvatore Moschella, 22 anni, muore gettandosi dal treno su cui viaggia dopo essere stato aggredito con alcuni tifosi del Messina di ritorno dalla trasferta di Ragusa. I siciliani prima lo picchiano e poi continuano a infastidirlo. Moschella, nel cercare una via di fuga, si getta dal finestrino, mentre il treno rallenta in prossimità della stazione di Acireale. Cinque le persone arrestate, delle quali due minorenni. 29 gennaio 1995 – Prima della partita Genoa-Milan viene accoltellato a morte un giovane tifoso rossoblù, Vincenzo Spagnolo. L’omicida è un ragazzo di appena 18 anni, Simone Barbaglia, che all’epoca frequentava solo da qualche mese la curva del Milan. Sarà condannato a 15 anni di carcere. 1 febbraio 1998 – Nel dopopartita di Treviso-Cagliari muore il tifoso veneto Fabio Di Maio, 32 anni, per un arresto cardiaco in seguito all’intervento della polizia per sedare un accenno di rissa tra le opposte tifoserie. Allo stesso Di Maio è stata poi intitolata la curva degli ultras trevigiani. 24 maggio 1999 – La mattina dopo la partita tra il Piacenza e la Salernitana, sfida decisiva per la permanenza in serie A, il treno speciale che riporta a casa gli oltre 3 mila tifosi campani, proprio in prossimità della stazione di Salerno, prende fuoco in una galleria. Nel rogo, appiccato dagli stessi tifosi, perdono la vita quattro giovani supporter granata. 17 giugno 2001 – A Messina si disputa l’acceso derby con il Catania, decisivo per la promozione in serie B. Tra le due tifoserie prima della partita si verifica un reciproco lancio di oggetti. Dal settore degli ospiti viene lanciata una bomba-carta che esplode in mezzo ai tifosi della Curva Nord e ferisce Antonino Currò, 24 anni, il quale finisce in coma e dopo pochi giorni muore. A seguito delle indagini viene arrestato un tifoso minorenne di Catania. 20 settembre 2003 – Finisce in tragedia il derby Avellino-Napoli. Muore Sergio Ercolano, ventenne tifoso partenopeo, precipitato nel vuoto durante gli scontri tra tifosi e polizia. 27 gennaio 2007 -Ermanno Licursi, un dirigente della Sammartinese (terza categoria), muore a Luzzi, nel cosentino, a seguito dei colpi ricevuti mentre cerca di sedare una rissa in campo nella partita con la Cancellese. Il dirigente si accascia rientrando negli spogliatoi. 2 febbraio 2007 – Muore l’ispettore capo della polizia Filippo Raciti, colpito durante gli scontri con i tifosi del Catania durante e dopo il derby siciliano con il Palermo. 11 novembre 2007 – Nell’area di servizio Badia al Pino, vicino Arezzo, sull’autostrada A1, si scontrano alcuni tifosi della Lazio e della Juventus. Accorre anche una pattuglia della Polizia stradale. Gabriele Sandri, 26 anni, tifoso laziale, viene colpito a morte da un colpo di pistola.
Doping e morti nel calcio in un libro-inchiesta, scrive Emanuela Zerbinatti. C'è una partita che nessuno sportivo vorrebbe mai trovarsi a giocare. È quella che ti porta a lottare non per una vittoria ma per la sopravvivenza. Un duello all'ultimo sangue da cui molti non sono più usciti. È L'ultima partita, di cui parla nell'omonimo libro-inchiesta (Fratelli Frilli Editori, 2010), il giornalista sportivo de Il Giorno, Giulio Mola, svelando segreti e retroscena di malattie e decessi sospetti nel gioco più bello del mondo. E non solo! La storia più recente di tutto lo sport in generale è costellata di malattie sospette e morti dolorose. Ma è soprattutto nel calcio che si rilevano i segni più inquietanti di rottura in un meccanismo ben oliato che sembrava perfetto. Come un ordigno esploso nelle mani. Anni e anni di casi irrisolti che Mola ripercorre destreggiandosi tra scandali annunciati, mezze parole, rivelazioni choc e la voglia di sentire quell'unica parola che tutti pensano, ma nessuno ha voglia di pronunciare: doping. L'idea che dietro tante tragedie umane e troppi omissis, ci sia sempre "lui", il "mostro", è piuttosto forte. Non a caso, il libro si apre con una lista di nomi: Micoren, Cortex, Orudis... sono i farmaci che per qualcuno potranno anche essere solo il prezzo da pagare per avere gloria e successo, ma per altri si rivelano drammaticamente l'unica cosa che davvero rappresentano: l'ascensore per l'inferno della dipendenza e della rovina. Sia ben chiaro: qualcuno sicuramente non sapeva e, forse, sta pagando un prezzo fin troppo alto per colpe nemmeno sue. La diffidenza verso l'ignoranza percorre tutto il libro come un filo rosso che si dipana nell'analisi dei casi più recenti, Mola cerca di capire dalle parole dei protagonisti quali fossero i retroscena. Non senza un giustificato fastidio per tutti quei 'Non so', 'Non immaginavo', 'Non potevo credere'. Roberto Mancini, Damiano Tommasi, Mohamed Kallon, Grigorios Georgatos e tanti altri ancora. Il lettore ritrova nel libro tantissima attualità. La botta finale poi la dà il richiamo alla puntata di Report (Rai Tre) del 30 settembre 2003. Il processo del tribunale di Torino a carico della Juventus. Si parla di farmaci. Si parla di storie che non si vorrebbe mai leggere. Tacchinardi, Pessotto, Conte e tanti altri. E storia del calcio. E' un ombra che disturba la nostra passione. Inevitabile, poi, parlare della 'Stronza in copertina', quella Sclerosi Laterale Amiotrofica che ha preso sempre più piede e che è stata portata definitivamente alla ribalta mediatica da Stefano Borgonovo, indimenticato grande attaccante che ha voluto condividere la sua malattia col mondo. Commovente, infine, il ricordo di Mola per due giocatori che hanno combattuto la malattia. Tra i primi, con coraggio. Carlo Petrini, giocatore conosciutissimo negli anni '70, autore del bestseller Nel fango del dio pallone e oggi malato di tumore. Lui ha voluto gridare con forza il suo ribrezzo per certe pratiche, per quelle abitudini. E poi Giuliano Taccola, morto per un attacco cardiaco nel 1969 in circostanze strane. Due casi emblematici attraverso i quali Mola, con grande coraggio, ci ha voluto ricordare che la guerra non è stata ancora vinta. Le tante morti servano da monito a un mondo sempre meno dorato.
Un estratto da L'Ultima partita.
QUEI BARATTOLI "AZZURRI"... Di quella squadra faceva parte Diego Fuser, forte centrocampista esterno che nel corso di una lunga carriera ha vestito pure le maglie di Torino, Lazio e Milan, e quella della nazionale. Oggi ha più di 40 anni, gioca per divertimento e passione in una squadra di eccellenza piemontese e gli capita di ripensare a certe situazioni capitategli da professionista.
Però vuol subito precisare una cosa: "Me la ricordo bene la vicenda del 1998, di quelle analisi dai valori sballati e di tutto il casino che venne fuori dopo. Beh, posso assicurarvi che noi eravamo molto tranquilli, sapendo di non aver fatto nulla di illecito. In quel Parma c'erano fior di campioni, da Buffon a Cannavaro, da Veron a Stanic, nessuno aveva bisogno di assumere certe sostanze. E poi la cosa più buffa fu quel che successe a Nista: ma può mai un portiere aver bisogno di doparsi? Mica corre come gli altri...La verità è che lui aveva già per conto suo dei valori ematici piuttosto elevati".
Dunque, uno spogliatoio pulito?
"Devo essere sincero. Mi ricordo che ci davano della creatina, capitava per due o tre volte la settimana. Non c'era necessità di usare altro...E poi nel nostro spogliatoio le voci giravano, se ci fosse stato qualcosa di strano ce ne saremmo accorti".
Già, però le immagini di Cannavaro con la flebo al braccio hanno fatto il giro del mondo...
"Quello è un altro discorso. Personalmente mi è capitato di farlo solo 1 volta, poi non è mai più successo. Sono dell'idea che a comandare debba essere soltanto la testa. Certo, poteva accadere di dover giocare tre volte in una settimana e lo staff medico ci diceva di prendere degli integratori. Noi ci fidavamo...".
Insomma, almeno in apparenza tutto normale...
"È vero, solo in apparenza. Perché poi in realtà i dubbi, guardando altrove, venivano in mente a me come ad altri miei colleghi. Guardi, con tutta sincerità le dico che Zeman aveva centrato l'obiettivo. Una volta guardai in tv una partita di Coppa dei Campioni in cui era impegnata una squadra italiana, vidi un calciatore che si fece la fascia tre-quattro volte di seguito senza fermarsi. Davvero sembrava fosse "bombato", ma chi può dirlo?"
Dunque, qualcosa in più di un semplice sospetto...
"Già, poi finiva lì e non ci pensavi più. Come quando andavo in Nazionale e vedevo gente che si portava dietro barattoli di cose strane. Magari erano soltanto integratori, mi auguro fossero tutte cose legali... Personalmente io andavo avanti solo con le mie forze".
Molti suoi colleghi invece si comportano diversamente?
"Spero e voglio credere che non siano così stupidi da mettere in gioco la propria salute. Sicuramente qualcuno prende qualcosa, sicuramente altri devono prendere dei farmaci basandosi sul rapporto di fiducia coi medici. Una cosa è certa: conviene prima documentarsi. Non si sa mai...".
Ma al di là di quanto riferito da Fuser, i dubbi su quel Parma, a distanza di anni, restano: perché quei valori di ematocrito così alti? Si sa che salgono quando il sangue si arricchisce di ossigeno. E con l'aumento dell'ossigeno aumenta anche la concentrazione del sangue, che vuol dire più energia per i muscoli nel caso di chi pratica sport. Con un'avvertenza: quando si superano certi limiti (50 per gli uomini, 48 per le donne), significa che il sangue è diventato troppo denso. E per l'organismo suona il campanello d'allarme: rischio trombosi. Se davvero fosse stato fatto uso di Epo, i calciatori erano a conoscenza visto che sarebbe servito il loro consenso per l'assunzione di una determinata sostanza? Thuram si è ritirato nel 2008 per problem cardiaci. Un caso?
Quasi cento vittime all'anno. Così si muore di sport in Italia, scrive Vanni Lai su “La Repubblica”. Dal 2006, in Italia, ci sono state 590 vittime in attività sportive. Solo nel 2012 si contano 43 decessi tra i ciclisti e 28 tra i giocatori. Tutti dati raccolti dalla Fondazione Castelli intitolata al diciassettenne Giorgio stroncato da un infarto sul campo. Da ottobre è arrivato l'obbligo del defibrillatore per le società dilettantistiche e professionistiche. Ma l'attuazione della norma è lontana. Quanto fa scalpore la morte improvvisa di uno sportivo? Casi eclatanti come quelli dei calciatori Renato Curi e Piermario Morosini hanno emozionato tutti e sono entrati a far parte del sapere comune degli italiani. La lista è lunga e arriva fino agli ultimi avvenimenti legati alla morte del pallavolista Vigor Bovolenta. Ma lo sport non è soltanto professionismo. Tra i dilettanti, in campi di calcio con zolle di terra sconnessa, in palestre dove il parquet resta un sogno, anche i decessi, quasi sempre legati a problemi cardiaci, continuano ad appartenere a una categoria inferiore, così tanto da fare meno notizia di altri. Eppure dal 2006 il numero dei morti in attività sportive è impressionante, 590 in Italia, tutti deceduti per varie cause, come la mancata prevenzione, il ritardo dei soccorsi, l'assenza di un defibrillatore. Non si tratta soltanto di calciatori dilettanti, ma anche di ciclisti, ragazzi che svolgevano attività sportiva durante l'ora di educazione fisica, e persino dirigenti di piccole società. È un elenco dalle proporzioni drammatiche se si considera che ancora oggi si sta facendo poco per combattere il fenomeno. Secondo il Decreto Sanità approvato a ottobre 2012, le società professionistiche e dilettantistiche (e le strutture per attività non agonistica) avranno l'obbligo di un defibrillatore semiautomatico in campo e di formare operatori di primo soccorso che sappiano utilizzare i macchinari. Ma a quanto sembra l'attuazione della normativa è ancora molto lontana, complice la difficile situazione politica di questi mesi. L'ultimo caso di cronaca è quello del calciatore dilettante Alessio Miceli, 34 anni, morto durante una partita di Seconda categoria domenica 27 gennaio, nella provincia di Lecce. Già lo scorso dicembre in Sardegna si era consumato il dramma di Luca Loru, 32enne del Gonnosfanadiga, per il quale aveva espresso cordoglio anche il portiere della Nazionale Gigi Buffon. Secondo i dati della Fondazione Castelli, l'unica in Italia che dal 2006 tiene un registro delle morti improvvise durante l'attività sportiva, nel 2012 i decessi del ciclismo, con 43 morti, quasi tutti oltre i 40 anni, sono stati superiori ai 28 che si sono verificati durante attività legate al calcio e al calcetto. La Fondazione è nata per ricordare Giorgio Castelli, giovane calciatore dilettante, morto a 17 anni sul campo di gioco per un arresto cardiaco mentre si allenava con la sua squadra. Nel febbraio 2006 si accasciava tra le braccia del fratello gemello Alessio e del fratello maggiore Valerio, sotto lo sguardo attonito dei compagni di squadra. "Ci siamo imposti di fare di tutto per evitare altri dolori - dichiara il dottor Vincenzo Castelli, presidente della Fondazione - In Italia manca la cultura dell'emergenza e dobbiamo cercare di rimediare al più presto". In circa sei anni la Fondazione Castelli ha portato avanti il proprio progetto, con un'attività di formazione presente soprattutto nel Lazio. Nel corso degli anni sono state preparate circa 6500 persone, che in gran parte svolgono il ruolo di operatori sportivi, e sono stati donati oltre 300 defibrillatori. Ma l'idea di un registro delle morti improvvise in ambito sportivo in Italia è una novità e ora i numeri fanno davvero paura. "Tenere un conteggio di questo genere non è semplice - dice Castelli - È un sistema di ricerca partito da gennaio 2006. Le notizie dei decessi vengono rilevati dal web, dalla carta stampata e dalla tv. Tutti i casi vengono valutati con cura. Purtroppo a livello nazionale non esiste ancora un registro ufficiale di questo genere. E quello della Fondazione Castelli è soltanto un database che misura la punta dell'iceberg del fenomeno delle morti improvvise di chi fa sport". Il registro non aiuta soltanto a evidenziare i numeri. "In alcuni casi è possibile che alcune patologie siano comuni a più membri di una famiglia - spiega sempre Castelli - Grazie all'attività di ricerca e alla prevenzione si potrebbe capire di più, per scoprire nuovi casi e agire di conseguenza". La situazione attuale nel mondo dello sport dilettantistico e amatoriale è difficile da inquadrare. Si sottovaluta la prevenzione e l'aiuto che può dare la visita medico-sportiva, e molte società, soprattutto nel calcio, preferiscono risparmiare sui costi, nonostante bilanci di fine anno che per molte squadre non sono così bassi. Investire su un defibrillatore (il costo varia dai 1000 ai 2500 euro) è un'idea che raramente viene presa in considerazione. Ma in una situazione generale piuttosto negativa non mancano le buone iniziative. In Sardegna la Provincia di Sassari nel 2010 ha dato il via al progetto Cuore nello sport, per dotare tutti i 66 Comuni del Sassarese di un defibrillatore DAE (omologato e autorizzato). Proprio dall'hinterland sassarese arriva l'esempio di una piccola società di calcio, il Malaspina Osilo, che durante le gare di campionato ha sempre presenti tre persone abilitate al primo soccorso e un defibrillatore. Prima dell'inizio di ogni partita, il Malaspina informa l'arbitro sulla situazione. Ma i defibrillatori non bastano. Addestramento per le manovre di rianimazione (il corso BLS D, "basic life support defibrillation") e nozioni di primo soccorso sono fondamentali, ed è dimostrato che così i defibrillatori possono fare molto per salvare la vita. "La dimostrazione è presente in uno studio dell'americano Jonathan Drezner - conclude Castelli - nelle High School degli Stati Uniti, dove sono attivi progetti PAD (luoghi di pubblico accesso forniti di macchine di defibrillazione). Qui Drezner ha evidenziato un indice di sopravvivenza del 65 per cento, rispetto a scuole dove prima il progetto PAD non era attivo, e dove l'indice di sopravvivenza si attestava all'11 per cento".
Cinquecento pugili morti in cento anni. Il coreano Choi Yo-sam, scomparso oggi dopo essere entrato in coma in seguito al match con l’indonesiano Heri Amol, è solo l’ultima di una lunga catena di vittime della boxe, scrive “Il Corriere dello Sport”. La morte del pugile sudcoreano Choi Yo-sam, campione mondiale Wbo dei pesi piuma, è solo l'ultimo anello di una tragica catena. Sono infatti oltre 500 i pugili morti a causa dei colpi presi in combattimento in oltre cento anni di boxe. Dal 25 dicembre Choi, 33 anni, detentore del titolo, era in coma dopo l'emorragia cerebrale intervenuta per i colpi ricevuti alla testa nel match di cui era stato dichiarato vincitore ai punti sul rivale indonesiano Heri Amol. Era stato però l'avversario a dominare il dodicesimo e ultimo round, spedendo Choi al tappeto con un destro al volto pochi secondi prima del gong. La morte, sul ring o dopo un match, nella storia della boxe non ha risparmiato nemmeno le donne: il 5 aprile del 2005, Becky Zerlentes, 34 anni è morta in seguito a in un incontro valido per il Golden Gloves, la maggiore manifestazione nord-americana di boxe dilettantistica. Una vicenda che ricorda quella della protagonista di “Million Dollar Baby”, il film premiato con l'Oscar 2005, dove Hilary Swank, vincitrice a sua volta dell' Oscar, giunge a battersi per il mondiale, ma resta paraplegica per i traumi subiti e sceglie di "staccare la spina".
STRAGE INFINITA - Questo l'elenco delle tragedie del ring negli ultimi anni: 1962: il cubano Benny Paret, mondiale dei welter, muore dopo il ko alla 12ª ripresa inflittogli da Emile Griffith. 1969: il peso massimo Ulrich Regis muore dopo una sconfitta ai punti col britannico Jose Bugner. 1978: il peso medio italiano Angelo Jacopucci, 30 anni, muore per edema cerebrale due giorni dopo il ko alla 12ª ripresa subìto nell'europeo contro l'inglese Alan Minter. 1980: il gallese Johnny Owen muore dopo sei settimane di coma. Era finito ko nel mondiale dei gallo con Lupe Pintor. 1982: il coreano Kim Deuk-koo muore per le ferite riportate nel mondiale dei leggeri Wba con Ray Mancini. Dopo questo match si decide la riduzione delle sfide mondiali da 15 a 12 round. 1983: il messicano Alejandro Bejines muore senza riprendere conoscenza dopo il ko subito contro l' americano Alberto Davila, sfidante per il titolo mondiale dei gallo. 1985: muoiono il leggero junior sudafricano Jacob Morake e due welter, il messicano Gerardo Derbez e lo scozzese Steve Watt. 1987: il peso gallo francese Jean Claude Vinci muore mezz'ora dopo un match con Lionel Jean; Vinci aveva perso ai punti. 1988: in Sudafrica, in giugno muore il welter Brian Baronet dopo il match con l'americano Kenny Vice, in autunno muore il peso piuma Daniel Thetele dopo un combattimento col connazionale Aaron Williams. 1989: David Thio muore dopo dieci giorni di coma, il pugile della Costa d'Avorio era stato mandato ko dall'americano Terence Alli a Lione. 1990: il peso leggero australiano Patrick Stone vince il titolo del Queensland con Gary Wills, ma muore il giorno dopo per un' emorragia cerebrale. 1991: muoiono il sudafricano peso mosca Clive Skwebe (dopo nove giorni di coma e due operazioni al cervello, era stato mandato ko dal connazionale Ndoda Mayende) ed il giapponese supergallo Minoru Katsumata. 1993: il giapponese peso leggero Yasuji Hamakawa muore senza riprendere conoscenza 20 giorni dopo il doppio ko subito in una sfida per il mondiale a Osaka. 1994: il kenyano Wangila Napunyi, olimpionico a Barcellona, muore dopo un intervento per ridurre un' emorragia cerebrale. Era stato mandato ko dall'americano David Gonzalez. Il supergallo inglese Bradley Stone muore dopo un match per il titolo nazionale con Richie Wenton. Il colombiano Jimmy Garcia muore dopo essere stato in coma per 12 giorni in seguito al match con lo statunitense Rafael Ruelas per il mondiale dei superpiuma. 1995: il giovane pugile siciliano Stefano Dell'Aquila muore dopo sei giorni di coma. Lo scozzese James Murray muore dopo essere entrato in coma al termine dell'incontro a Glasgow per il titolo britannico dei pesi gallo. 1996: dopo i colpi ricevuti sul ring, le cui immagini trasmesse in tv crearono scalpore, perde la vita Fabrizio De Chiara. Si riapre in Italia il dibattito sul pugilato e la sua pericolosità. 1999: Polemiche quando muore l'americano Stephan Johnson, deceduto dopo 15 giorni di coma. Il superwelter Usa era stato fermato dopo una visita medica a Toronto, che aveva evidenziato un ematoma cerebrale, ma aveva continuato a combattere perchè negli Usa le regole canadesi non valgono. 2000: muore il peso piuma americano Robert Benson, conosciuto come “Bobby Tomasello”, nel match contro il ghanese Steve Dotse. 2001: è la volta dello statunitense Beethaven Scottland. Non bastano due operazioni al cervello a salvare il pugile entrato in coma dopo il match con Khalid Jones. 2002: muoiono gli argentini Daniel Espindola e Hugo Guzman, entrambi dopo pochi giorni di coma. 2004: il colombiano Carlos Meza, peso gallo, dopo aver ricevuto un forte colpo alla testa entra in coma e muore tre giorni dopo il ko riportato nel match. 2005: Becky Zerlentes, è la prima donna pugile a morire per i colpi rimediati sul ring in un incontro valido per il Golden Gloves. Nello stesso anno Levander Johnson muore a Las Vegas per le conseguenze di un' emorragia cerebrale a seguito del ko nell'incontro per il mondiale Ibf dei pesi leggeri contro il messicano Jesus Chavez. 2007: il filippino Lito Sisnorio, muore alcune ore dopo aver perso per ko tecnico contro il thailandese Chatchai Sasakul, ex campione del mondo.
MOTOCICLISMO. Lista dei piloti deceduti, fonte Wikipedia
Questa è una lista di incidenti mortali nel Motomondiale nella quale sono presenti tutti i piloti che sono morti durante un fine settimana (prove libere, qualifiche o gara) di un Gran Premio valido per il Motomondiale. Dei 106 piloti morti in totale, Ben Drinkwater è stata la prima vittima, il 9 giugno 1949, proprio nella prima gara valida per il neonato Motomondiale, mentre l'ultima è stata Marco Simoncelli, il 23 ottobre 2011. Nella storia del motomondiale si contano anche due decessi fra il personale addetto alla sicurezza: l'irlandese Albert Walter, commissario di pista morto all'Ulster GP del 1961 e il pompiere spagnolo Salvador Font investito da Katayama al Gran Premio di Spagna del 1974.
Pilota |
Data dell'incidente |
Gara |
Sessione |
Motocicletta |
Ben Drinkwater |
9 giugno 1949 |
Tourist Trophy |
Gara |
Norton |
Dario Ambrosini |
15 luglio 1951 |
Gran Premio di Francia |
Prove |
Benelli |
Gianni Leoni |
15 agosto 1951 |
Gran Premio dell'Ulster |
Prove |
Moto Guzzi |
Sante Geminiani |
15 agosto 1951 |
Gran Premio dell'Ulster |
Prove |
Moto Guzzi |
Ercole Frigerio |
18 maggio 1952 |
Gran Premio di Svizzera |
Gara |
Gilera |
Leslie Graham |
12 giugno 1953 |
Tourist Trophy |
Gara |
MV Agusta |
Gordon Laing |
4 luglio 1954 |
Gran Premio del Belgio |
Gara |
Norton |
Rupert Hollaus |
11 settembre 1954 |
Gran Premio delle Nazioni |
Prove |
NSU |
Roberto Colombo |
6 luglio 1957[1] |
Gran Premio del Belgio |
Prove |
MV Agusta |
Adolfo Covi |
7 settembre 1959 |
Gran Premio delle Nazioni |
Gara |
Norton |
Bob Brown |
23 luglio 1960 |
Gran Premio della Germania Ovest |
Prove |
Honda |
Bill Ivy |
12 luglio 1969 |
Gran Premio della Germania Est |
Prove |
Jawa |
Robin Fitton |
2 maggio 1970 |
Gran Premio della Germania Ovest |
Prove |
Norton |
Santiago Herrero |
10 giugno 1970[2] |
Tourist Trophy |
Gara |
OSSA |
Christian Ravel |
4 luglio 1971 |
Gran Premio motociclistico del Belgio |
Gara |
Kawasaki |
Günter Bartusch |
8 luglio 1971 |
Gran Premio motociclistico della Germania Est |
Prove |
MZ |
Gilberto Parlotti |
9 giugno 1972 |
Tourist Trophy |
Gara |
Morbidelli |
Renzo Pasolini |
20 maggio 1973 |
Gran Premio delle Nazioni |
Gara |
Harley-Davidson |
Jarno Saarinen |
20 maggio 1973 |
Gran Premio delle Nazioni |
Gara |
Yamaha |
Billie Nelson |
8 settembre 1974 |
Gran Premio motociclistico di Jugoslavia |
Gara |
Yamaha |
Paolo Tordi |
16 maggio 1976 |
Gran Premio delle Nazioni |
Gara |
Yamaha |
Otello Buscherini |
16 maggio 1976 |
Gran Premio delle Nazioni |
Gara |
Yamaha |
Pat Evans |
3 aprile 1977 |
200 Miglia di Imola |
Gara |
Yamaha |
Hans Stadelmann |
1º maggio 1977 |
Gran Premio motociclistico d'Austria |
Gara |
Yamaha |
Giovanni Ziggiotto |
18 giugno 1977[3] |
Gran Premio motociclistico di Jugoslavia |
Gara |
Harley-Davidson |
Ulrich Graf |
19 giugno 1977 |
Gran Premio motociclistico di Jugoslavia |
Gara |
Kreidler |
Patrick Pons |
12 agosto 1980 |
Gran Premio motociclistico di Gran Bretagna |
Gara |
Yamaha |
Malcolm White |
12 agosto 1980 |
Gran Premio motociclistico di Gran Bretagna |
Gara |
Yamaha |
Michel Rougerie |
31 maggio 1981 |
Gran Premio motociclistico di Jugoslavia |
Gara |
Yamaha |
Sauro Pazzaglia |
11 luglio 1981 |
Gran Premio motociclistico di San Marino |
Prove |
MBA |
Alain Béraud |
30 agosto 1981 |
Gran Premio motociclistico di Cecoslovacchia |
Gara |
Yamaha |
Jock Taylor |
15 agosto 1982[4] |
Gran Premio motociclistico di Finlandia |
Gara |
Windle/Yamaha |
Iwao Ishikawa |
29 marzo 1983 |
Gran Premio motociclistico di Francia |
Prove |
Suzuki |
Michel Frutschi |
3 aprile 1983[5] |
Gran Premio motociclistico di Francia |
Gara |
Honda |
Rolf Rüttimann |
12 giugno 1983[6] |
Gran Premio motociclistico di Jugoslavia |
Gara |
MBA |
Norman Brown |
31 luglio 1983 |
Gran Premio motociclistico di Gran Bretagna |
Gara |
Suzuki |
Peter Huber |
31 luglio 1983 |
Gran Premio motociclistico di Gran Bretagna |
Gara |
Suzuki |
Kevin Wrettom |
12 luglio 1984 |
Gran Premio motociclistico del Belgio |
Prove |
Suzuki |
Alfred Heck |
21 luglio 1988 |
Gran Premio motociclistico di Francia |
Prove |
LCR |
Ivan Palazzese |
28 maggio 1989[7] |
Gran Premio motociclistico della Germania Ovest |
Gara |
Aprilia |
Nobuyuki Wakai |
1º maggio 1993[8] |
Gran Premio motociclistico di Spagna |
Qualifiche |
Suzuki |
Simon Prior |
12 giugno 1994 |
Gran Premio motociclistico di Germania |
Gara |
LCR/ADM |
Daijiro Kato |
6 aprile 2003[9] |
Gran Premio motociclistico del Giappone |
Gara |
Honda |
Shoya Tomizawa |
5 settembre 2010[10] |
Gran Premio motociclistico di San Marino e della Riviera di Rimini |
Gara |
Suter |
Marco Simoncelli |
23 ottobre 2011[11] |
Gran Premio motociclistico della Malesia |
Gara |
Honda |
1 Roberto Colombo morì durante il trasporto in ospedale.
2 Santiago Herrero morì in ospedale due giorni dopo la gara.
3 Giovanni Ziggiotto morì dopo dieci giorni di coma.
4 Jock Taylor morì in ospedale poche ore dopo l'incidente.
5 Michel Frutschi morì in ospedale la sera stessa dell'incidente.
6 Rolf Rüttimann morì in ospedale poche ore dopo l'incidente.
7 Ivan Palazzese morì sull'elicottero di soccorso.
8 Nobuyuki Wakai morì dopo qualche ora in ospedale.
9 Dajiro Kato morì dopo tredici giorni di coma.
10 Shoya Tomizawa morì appena arrivato all'ospedale.
11 Marco Simoncelli morì appena arrivato all'ospedale.
AUTOMOBILISMO. Lista dei piloti deceduti, fonte Wikipedia
Questa è una lista di incidenti mortali di Formula 1 nella quale sono presenti tutti i piloti che sono morti durante un fine settimana di gara, o comunque mentre guidavano una vettura di Formula 1. Dei 43 piloti morti in totale, 31 di loro sono deceduti durante un week-end del campionato del mondo, 4 mentre correvano in una gara non titolata e 8 durante dei test privati. L'indice di mortalità dei Gran Premi validi per il titolo mondiale a fine stagione 2011 (858 in totale, comprese le undici edizioni della "500 Miglia di Indianapolis" dal 1950 al 1960 che, da sole, furono teatro di ben otto decessi) è di 0,0361. Cameron Earl è stata la prima vittima, il 18 giugno 1952, mentre l'ultima è stata Ayrton Senna, il 1º maggio 1994.
Sedici piloti sono morti negli anni cinquanta, undici negli anni sessanta, dieci negli anni settanta, quattro negli anni ottanta, due negli anni novanta. Dalla scomparsa di Ayrton Senna nel 1994 non si sono più registrati incidenti mortali. Dal punto di vista della nazionalità, al momento del decesso undici di loro erano statunitensi, dieci britannici, sette italiani, tre francesi, tre austriaci e uno per Belgio, Argentina, Germania, Messico, Paesi Bassi, Svizzera, Svezia, Canada e Brasile. Piloti deceduti a seguito di incidenti avvenuti nel corso dei Gran Premi di Formula 1 validi per il titolo mondiale.
Pilota |
Data dell'incidente |
Gara |
Sessione |
Team |
Chet Miller |
15 maggio 1953 |
500 Miglia di Indianapolis |
Prove |
Kurtis Kraft |
Carl Scarborough |
30 maggio 1953[1] |
500 Miglia di Indianapolis |
Gara |
Kurtis Kraft |
Onofre Marimon |
31 luglio 1954 |
Gran Premio di Germania |
Prove |
Maserati |
Manny Ayulo |
16 maggio 1955 |
500 Miglia di Indianapolis |
Prove |
Kuzma |
Bill Vukovich |
30 maggio 1955 |
500 Miglia di Indianapolis |
Gara |
Kurtis Kraft |
Keith Andrews |
15 maggio 1957 |
500 Miglia di Indianapolis |
Prove |
Kurtis Kraft |
Pat O'Connor |
30 maggio 1958 |
500 Miglia di Indianapolis |
Gara |
Kurtis Kraft |
Luigi Musso |
6 luglio 1958 |
Gran Premio di Francia |
Gara |
Ferrari |
Peter Collins |
3 agosto 1958[2] |
Gran Premio di Germania |
Gara |
Ferrari |
Stuart Lewis-Evans |
19 ottobre 1958[3] |
Gran Premio del Marocco |
Gara |
Vanwall |
Jerry Unser |
17 maggio 1959 |
500 Miglia di Indianapolis |
Prove |
Kurtis Kraft |
Bob Cortner |
19 maggio 1959 |
500 Miglia di Indianapolis |
Prove |
Cornis |
Chris Bristow |
19 giugno 1960 |
Gran Premio del Belgio |
Gara |
Cooper |
Alan Stacey |
19 giugno 1960 |
Gran Premio del Belgio |
Gara |
Lotus |
Wolfgang von Trips[4] |
10 settembre 1961 |
Gran Premio d'Italia |
Gara |
Ferrari |
Carel Godin de Beaufort |
1º agosto 1964 |
Gran Premio di Germania |
Prove |
Porsche |
John Taylor |
7 agosto 1966[5] |
Gran Premio di Germania |
Gara |
Brabham |
Lorenzo Bandini |
7 maggio 1967[6] |
Gran Premio di Monaco |
Gara |
Ferrari |
Jo Schlesser |
7 luglio 1968 |
Gran Premio di Francia |
Gara |
Honda |
Piers Courage |
21 giugno 1970 |
Gran Premio d'Olanda |
Gara |
De Tomaso |
Jochen Rindt[7] |
5 settembre 1970 |
Gran Premio d'Italia |
Qualifiche |
Lotus |
Roger Williamson |
29 luglio 1973 |
Gran Premio d'Olanda |
Gara |
March |
François Cévert |
6 ottobre 1973 |
Gran Premio degli Stati Uniti d'America |
Qualifiche |
Tyrrell |
Helmuth Koinigg |
6 ottobre 1974 |
Gran Premio degli Stati Uniti d'America |
Gara |
Surtees |
Mark Donohue |
17 agosto 1975[8] |
Gran Premio d'Austria |
Prove |
March-Penske |
Tom Pryce[9] |
5 marzo 1977 |
Gran Premio del Sudafrica |
Gara |
Shadow |
Ronnie Peterson |
11 settembre 1978[10] |
Gran Premio d'Italia |
Gara |
Lotus |
Gilles Villeneuve |
8 maggio 1982[11] |
Gran Premio del Belgio |
Qualifiche |
Ferrari |
Riccardo Paletti |
13 giugno 1982 |
Gran Premio del Canada |
Gara |
Osella |
Roland Ratzenberger |
30 aprile 1994 |
Gran Premio di San Marino |
Qualifiche |
Simtek |
Ayrton Senna |
1º maggio 1994[12] |
Gran Premio di San Marino |
Gara |
Williams |
Altri piloti della massima formula deceduti a seguito di incidenti avvenuti al di fuori delle gare titolate.
Pilota |
Data dell'incidente |
Gara o luogo dei test |
Sessione |
Team |
Cameron Earl |
18 giugno 1952 |
MIRA |
Test |
ERA |
Charles de Tornaco |
18 settembre 1953 |
Circuito di Modena |
Test |
Ferrari |
Mario Alborghetti |
11 aprile 1955 |
Gran Premio di Pau |
Gara |
Maserati |
Eugenio Castellotti |
14 marzo 1957 |
Circuito di Modena |
Test |
Ferrari |
Harry Schell |
13 maggio 1960 |
BRDC International Trophy |
Qualifiche |
Cooper |
Giulio Cabianca |
17 febbraio 1961 |
Circuito di Modena |
Test |
Cooper |
Ricardo Rodriguez |
1º novembre 1962 |
Gran Premio del Messico[13] |
Prove |
Lotus |
Bob Anderson |
14 agosto 1967 |
Circuito di Silverstone |
Test |
Brabham |
Jo Siffert |
24 ottobre 1971 |
Brands Hatch Victory Race |
Gara |
BRM |
Peter Revson |
22 marzo 1974 |
Circuito di Kyalami |
Test pre-gara |
Shadow |
Patrick Depailler |
1º agosto 1980 |
Hockenheimring |
Test |
Alfa Romeo |
Elio De Angelis |
15 maggio 1986[14] |
Circuito Paul Ricard |
Test |
Brabham |
1 Carl Scarborough morì poco dopo la gara a causa di un'ipertermia.
2 Peter Collins morì in ospedale poche ore dopo l'incidente per le conseguenze dell'urto della testa contro un albero.
3 Stuart Lewis-Evans morì il 25 ottobre 1958 a causa delle ustioni riportate.
4 Assieme a Wolfgang von Trips, nell'incidente morirono anche quattordici spettatori.
5 John Taylor morì l'8 settembre 1966 a Koblenz, in Germania, per le ustioni riportate.
6 Lorenzo Bandini morì in ospedale tre giorni dopo la gara in seguito alle ustioni riportate.
7 Jochen Rindt divenne campione del mondo 1970 di Formula 1 "alla memoria", in quanto nessun concorrente riuscì a superarlo dopo la sua morte nella classifica piloti.
8 Mark Donohue morì il giorno seguente a Graz, in Austria, a causa dell'emorragia cerebrale riportata. Nell'incidente, perse la vita anche un commissario di percorso.
9 Un giovane commissario, Frederik Jansen Van Vuuren, stava attraversando la pista con un estintore quando venne investito, morendo sul colpo, da Tom Pryce. Il suo estintore colpì a sua volta il pilota alla testa, uccidendolo all'istante.
10 Ronnie Peterson morì all'ospedale Niguarda di Milano il giorno seguente.
11 Gilles Villeneuve morì in ospedale poche ore dopo l'incidente.
12 Ayrton Senna morì all'ospedale Maggiore di Bologna alle ore 18:39.
13 Fu un'edizione non titolata del Gran Premio del Messico in vista del suo ingresso, per la stagione successiva, nel calendario ufficiale del campionato del mondo.
14 Elio De Angelis morì all'ospedale di Marsiglia alcune ore dopo l'incidente.
Il 25 aprile 2001 morì in un incidente al Lausitzring, mentre effettuava i collaudi delle nuove Audi R8 Sport in preparazione della 24 Ore di Le Mans del 2001. Alboreto era alla guida lungo un rettilineo, quando la sua auto uscì dal tracciato, colpì una recinzione sulla destra e si capovolse oltre, dopo un volo di un centinaio di metri. Secondo l'inchiesta il pilota italiano morì sul colpo a causa dello schianto, provocato dalla foratura dello pneumatico posteriore sinistro con perdita graduale di pressione fino al cedimento; l'Audi comunicò agli investigatori che il prototipo (distruttosi nell'impatto) aveva già completato migliaia di chilometri su molti circuiti, preparandosi per la stagione 2001, senza alcun problema. Dai fatti, gli investigatori supposero che né il pilota, né il circuito fossero responsabili per l'incidente. Il manager del Lausitzring, Hans-Jorg Fischer, comunicò infatti che le ambulanze di stanza presso il tracciato impiegarono solo due minuti per raggiungere la scena dell'incidente; un elicottero arrivò tre minuti più tardi, ma i medici dichiararono che non avrebbero potuto far nulla per salvarlo. Rimpatriata la salma in Italia, i funerali si svolsero dopo tre giorni a Basiglio alla presenza di circa 1500 persone, tra cui diversi ex piloti e personaggi esterni al mondo dei motori come Adriano Galliani e Mike Bongiorno. Dopodiché il corpo venne cremato a Milano per volontà della moglie.
CHI PAGA GLI ARBITRI DI CALCIO?
La Fiat e la Bassetti di Buffon tra gli sponsor degli arbitri. I fischietti di serie A costano alla Federcalcio 5 milioni all’anno, Rizzoli, Orsato e Doveri fra i più retribuiti, scrive Tommaso Lorenzini su “Libero Quotidiano”. «Gli arbitri italiani sono tra i migliori al mondo, dobbiamo rispettare quello che fanno. Ve lo dice uno che ha sbagliato in maniera anche grossolana andando a protestare perché al 94’, a mio avviso, non ci era stato dato un rigore. Da allora ho cambiato atteggiamento e ho grande rispetto del lavoro degli arbitri, del lavoro di Braschi e di Nicchi che cercano di farli migliorare». Parole che stemperano, quelle di Antonio Conte, pronunciate alla vigilia del match di Trebisonda e pochi giorni dopo il derby che ha visto il Torino lamentarsi per gli errori di Rizzoli, la Fiorentina incendiarsi per le quattro giornate a Borja Valero e quel referto di Gervasoni definito «bugiardo», l’Inter arrendersi all’ennesimo penalty non concesso, stavolta da Russo contro il Cagliari. Certo, qualcuno può obiettare che è facile parlare da lassù, anche se l’intento di Conte è da leggere come ecumenico messaggio di serenità rivolto a tutta la serie A, fischietti compresi, primo passettino di avvicinamento al caldissimo Milan-Juve di dopodomani, in quel San Siro in cui, nonostante il tempo trascorso, è ancora vivo il ricordo del gol-non gol di Muntari, e dove il direttore di gara, Guida, sarà osservato speciale. Già, ma quanto guadagnano gli arbitri per un lavoro così esposto e molto spesso ritenuto insoddisfacente? Ieri il Corriere dello sport ha pubblicato un esaustivo articolo che spiega come, al lordo degli emolumenti, i fischietti costino circa 5 milioni di euro all’anno, suddivisi in 3,8 milioni per le 38 gare di serie A (circa centomila a giornata), cui vanno aggiunti la Supercoppa Italiana e tutta la Coppa Italia. Una bella somma, in assoluto, poca roba se si considera che l’ultimo fatturato della serie A è stato di oltre 1,4 miliardi. Nel dettaglio, gli internazionali hanno un “fisso” (gli ex diritti d’immagine) di 80mila euro l’anno più l’ingaggio Uefa, dunque un arbitro di medio-alto livello può arrivare a 200mila euro lordi a stagione. Mica male, ma va sottolineato come la loro carriera sia più breve in relazione ai calciatori, non hanno il posto fisso (se sbagliano e vengono puniti saltano partite e non incassano) e devono avere un lavoro che gli consenta di gestirsi elasticamente. Rizzoli, ad esempio (finora 77.600 euro guadagnati, viste le varie apparizioni internazionali che culmineranno, unico italiano, con il Mondiale), è architetto, molti altri sono liberi professionisti. In stagione, in testa ai guadagni ci sono Orsato e Doveri con 62.400 euro (13 partite di A, una di Coppa Italia e 12 volte giudice d’area). Ora, chi paga gli arbitri? La Figc, visto che l’Associazione Italiana Arbitri è la settima componente della Federcalcio. Bene, niente di nuovo, eppure è curioso che oltre a Tim e alla finanziaria Compass fra i main sponsor di Figc e Coni ci siano la Fiat e Iveco, la divisione dei veicoli industriali dell’azienda. Le cose sono un po’ cambiate negli ultimi anni, ma non è difficile leggere «Fiat uguale Agnelli uguale Juventus». Non entriamo in polemiche e dietrologie da bar, ma non vi pare un conflitto d’interessi? È giusto sostenere che al mercato non si comanda, la Casa torinese si sta espandendo, è entrata prepotentemente negli Usa acquisendo Chrysler e ha grandi interessi in Brasile, dove nel 2014 si disputeranno i Mondiali. Ed è anche doveroso ricordare che la sponsorizzazione non è una notizia di ieri ma che il sodalizio va avanti fin dal 2000 (con l’intermezzo 2006 quando invece il partner era Volkswagen, a Calciopoli esplosa e Mondiale vinto) ed è stato rinnovato nel 2011 con scadenza quest’anno: la presenza del marchio Fiat sull’abbigliamento sportivo e la fornitura esclusiva di auto e mezzi per gli spostamenti, frutterà alla Federcalcio 3 milioni a stagione (12 milioni in 4 anni) che potranno salire fino a 18 a seconda dei risultati. Fin qui il business, ma come si può non sorridere se qualcuno obietta: «Pensate se al posto di Fiat ci fosse scritto Mediaset, o Saras!». Ad aggiungere pepe alla faccenda già intricata c’è perfino Bassetti, storico marchio tessile italiano, che fa parte del Gruppo Zucchi. E chi è titolare della maggioranza (56,26%) del capitale? Gigi Buffon, capitano di Juve e Nazionale. Certo, l’idea che «io ti pago, e tu non mi tocchi» non sta in piedi, bisogna ricordare che ad Antonio Conte i quattro mesi di sospensione a causa del Calcioscommesse, sono stati comunicati su fogli con l’intestazione Figc. E poi c’è sempre la causa contro la Federcalcio da 443 milioni presentata al Tar del Lazio da Andrea Agnelli per i danni di Calciopoli: insomma, un’azienda che ne porta in tribunale un’altra da lei stessa supportata. È tutto regolare, ma lasciateci sorridere.
Gli arbitri ci costano 5 milioni a stagione. Rizzoli fino ad oggi ha guadagnato, fra Italia e Europa, circa 78.000 euro E andrà ai Mondiali, scrive Edmondo Pinna su “Il Corriere dello Sport”. Guadagni con cifre a quattro o cinque zeri, meritati per molti ma non per tutti. Facciamo i conti in tasca ai direttori di gara di casa nostra. Che costano (solo in serie A), oltre quattro milioni e mezzo (sfioriamo i cinque e li superiamo se inseriamo negli emolumenti anche quello che gli internazionali portano a casa dalle gare dirette in ambito Uefa), circa novemila euro a partita la domenica, che salgono a dieci se ci mettiamo anche i rimborsi spese (li riduciamo all’osso per fare conto paro). Il che significa 100mila euro a giornata, al netto degli errori. Ovvero 3 milioni e ottocentomila euro solo per le 38 giornate di serie A. C’è poi la Supercoppa italiana (3.800 euro lordi per l’arbitro, gli altri a scalare) e la coppa Italia, il cui cash cresce col passare dei turni. Mille euro per le qualificazioni, millecinquecento per i quarti, duemilacinquecento per le semifinali e 3.800 per la finale. Insomma, siamo attorno ai cinque milioni a stagione. Una bella cifra. Vero, la carriera arbitrale a queste cifre è brevissima, meno ancora di un giocatore (che comunque guadagna molto, ma molto di più, e parliamo dei giovani che si affacciano sulle panchine della prima squadra, non certo di un top player). Ed è anche vero che questa è diventata l’unica fonte di reddito per chi ha scelto di fare quello che è diventato, negli anni, un vero e proprio mestiere, tanto che nessuno affianca più l’arbitraggio con un altro lavoro, sia pure comodo, come avveniva non molto tempo fa. Ed è un mestiere “rischioso”, visto che teoricamente ogni anno rischi di andare a casa. Sollevate e applicate tutte le attenuanti e le esimenti, come si direbbe in diritto, bisogna riconoscere che 200 mila euro l’anno sono (soprattutto al giorno d’oggi) una cifra considerevole. Tanto guadagna un arbitro di medio-alto livello, gradi di internazionale. Perché può aggiungere anche il “gettone” (più le spese) per le gare dirette nelle coppe europee (ma anche per le qualificazioni a Europei e Mondiali). Differente, ma cospicua, anche la quota fissa (ex diritti d’immagine). Dall’alto: dagli 80mila euro per gli internazionali al 45mila per chi ha meno di 25 partite in serie A. Facciamo alcuni esempi, indicative le cifre. Prendiamo i primi due della classifica di partite dirette in serie A, ovvero l’internazionale Orsato e chi il badge della Fifa l’ha sfiorato a gennaio, cioè Daniele Doveri, in più l’arbitro che andrà a Mondiali (anche lì, cash fresco)m cioè Rizzoli. Allora: fino ad oggi Doveri e Orsato hanno diretto 13 partite di serie A ciascuno (49.400 euro), una gara di coppa Italia (nei primi turni, dunque 1.000 euro) e per 12 volte hanno fatto da arbitro d’area (12.000 euro). Fatti due conti, 62.400 euro, ma Orsato ha anche tre partite di Champions League e una nei preliminari di Europa League, più o meno altri 12mila euro. Rizzoli, invece, ha una gara di meno in serie A (45.600), 12 volte da additional (12.000), tre gare di Champions, più un preliminare e una Europa League, è un Élite, diciamo altri 20mila euro per un totale di 77.600.
Per molti è facile e comodo fare due più due per giustificare lo strapotere della Juventus.
Tutti contro la Juve: cronaca di una settimana di fuoco. Giocatori, allenatori, opinionisti, addetti ai lavori e non: chi sale e chi scende nella classifica dei "migliori" commenti sulla classe arbitrale, scrive Laterza Stella su “Panorama”. Si è chiusa una settimana molto calda per il nostro calcio. L'ultima settimana di febbraio 2014. Una settimana che ha lasciato il segno anche su chi, come noi, segue da tempo le vicende di casa Juve e che con i j’accuse e i piagnistei contro una classe arbitrale corrotta e faziosa ci convive praticamente da quando è nato. È quindi con gioia che inauguriamo un nuova rubrica dedicata alle migliori invettive contro i fischietti italiani, uno spazio che – ne siamo certi – avrà sempre molto materiale da cui attingere.
La classifica di questa prima settimana:
1. Aldo Grasso - 10 punti. Noto tifoso del Torino e critico televisivo cura una videorubrica su Corriere.it in cui dovrebbe parlare di televisione. I 19 anni di astinenza da una vittoria nel derby, però, non lo fanno dormire. Si inventa una clip su Calcio e moviola in campo, ma scade subito nel: “Il rigore negato al Toro, la Juve è forte perché aiutarla?” Premio speciale uso privato di mezzo pubblico. Voto 10 e lode.
2. Luca Telese – 5 punti. Giornalista di indubbia professionalità, sconta anni di troppa vicinanza con l’ex sodale Marco Travaglio e scade in una raffazzonata e usurata enciclica contro la sudditanza psicologica. E’ convinto che Cassano giochi nel Torino e che il dito indice sia il medio. In evidente stato confusionale. Meravigliosa la chiusa finale: “La sudditanza psicologica è la declinazione calcistica di un eterno problema italiano: l’istinto di correre in soccorso del vincitore, il conformismo, la reverenza non dovuta verso i potenti”, medley epico e strappalacrime tra il miglior e Casaleggio e un Aldo Biscardi d’annata.
3. Mazzarri – 3 punti. Meriterebbe il primo posto, ma siamo sicuri che saprà riprendersi ciò che gli è dovuto già da domenica prossima. Contro la Fiorentina viene convalidato a Icardi un gol in evidente fuorigioco e il tecnico toscano dichiara: “Come sapete da qualche settimana ho deciso di non commentare più gli episodi arbitrali né a favore, né contro”. Poi però si rimangia tutto la giornata successiva. Dopo un rigore negato all’Inter contro il Cagliari dichiara: “Ci sono scelte arbitrali che parlano da sole: su Icardi c'era un rigore netto nel finale”. Inarrivabile.
4. Carlo Taormina – 2 punti. Avvocato penalista in evidente crisi di notorietà, ripudiato da Bruno Vespa e in piena astinenza da plastici di Porta a Porta si affaccia con garbo sui social media twittando: “Juve solita ladra. Serve la galera per gli arbitri o questa truffa non finirà mai”. Non contento litiga con un finto Moggi alla Zanzara. Rischia una querela. Premio speciale della critica.
5. Mario Giordano – 1 punto. Da uno come lui, giornalista televisivo scafato, ci aspettavamo quanto meno un'analisi con un pizzico di acume. E invece lo ritroviamo da Pierluigi Pardo a TikiTaka con un copione abbastanza ritrito, senza novità, né acuti. “Non è questione di rigore non dato, è questione di arbitro che vede e volutamente ed in malafede decide di non intervenire. E la prova evidente è nella mancata espulsione di Vidal che dopo il primo giallo, fa fallo di mano e poi ne fa altri due, senza mai essere punito. Succede sempre e solo con la Juve. Guarda caso che strana coincidenza. Tre derby su tre sono stati decisi dall'arbitro. Non sarebbe una novità se ci fosse qualcosa sotto per la Juve che di queste cose ha una certa esperienza...Il fallo su Llorente? Se ne vedono centomila". Un po’ troppo scolastico nell’esecuzione. Nulla di nuovo sul fronte occidentale e neppure su quello granata.
Liguori: "Gli arbitri pagati da Fiat? E' peggio di Calciopoli".
«Caro direttore, siete stati troppo prudenti. Ho letto il vostro articolo intitolato «Chi paga gli arbitri» e la prima impressione che ho avuto è che siete stati davvero prudentissimi. Tra Figc e Fiat, quindi tra Figc e Juventus, non c’è un presunto conflitto di interessi: c’è un palese conflitto di interesse. La federazione paga gli arbitri, ma la Fiat paga la federazione, quindi la Fiat paga gli arbitri: è un ragionamento logico. E sta diventando una cosa decisamente insopportabile. L’Italia sta cambiando, tutti sospettano di tutti, ma l’unico settore in cui si tollerano ancora queste cose è il calcio. L’Aia è la settima componente della Federcalcio, ma gli arbitri dovrebbero diventare una categoria professionale ed avere una propria federazione, come succede in tutti gli altri sport. Altrimenti i condizionamenti sono ovvi. E vi spiego il perché. Come ho letto sul vostro Quotidiano, l’intero budget degli arbitri italiani si aggira sui 3,8 milioni di euro. Una cifra che un’azienda come la Fiat può facilmente coprire. In più, i fischietti più partite dirigono, più soldi guadagnano. Per non essere sgraditi, devono fare delle cose ovvie, cioè non dare fastidio. Sono cose che forse farei anche io, ma per fortuna il mio mestiere non è l’arbitro. Ma gli episodi sono talmente evidenti che non si possono non citare. Prendiamo il caso di Rizzoli, l’arbitro che ci rappresenterà ai Mondiali: i suoi errori spuntano nel derby di Torino, ma è lo stesso arbitro che ha rovinato la partita Juve-Roma con quelle due espulsioni ridicole. E Rizzoli è anche l’arbitro di linea di Catania, che via radio consiglia Gervasoni di annullare il gol dei rossoblu. E Gervasoni è l’arbitro che ha dato quattro giornate di squalifica a Borja Valero, e nonostante l’enorme errore viene comunque designato come giudice di porta per Milan-Juve. I nomi sono sempre gli stessi e non è certo un caso. L’obiettivo è chiaro, ed è stato reso ancora più evidente tutte le volte che è stata fermata la Roma. La squadra di Garcia aveva fatto una sequenza di risultati e poteva scappare, ma è stata bloccata in due partite chiave, con il rigore negato a Pjanic contro il Torino e i due rigori negati a Bergamo. In questo momento la Juve viene aiutata perché sta passando un momento di grande difficoltà, tutti lo sanno. I regali contro Verona e Torino valgono tre punti in più, che non sono pochi. A me non interessa però che la Roma, il Napoli o la Fiorentina siano davanti. Certamente se non ci fossero queste influenze dall’alto il campionato sarebbe più pulito, anche per quanto riguarda i due pesi e le due misure su striscioni e cori razzisti. Vogliamo paragonare l’odioso striscione sulla strage di Superga con un coro? La Roma viene punita con mezzo Olimpico chiuso, una cosa illegale visto che il coro non è stato fatto in campionato, mentre allo Juventus Stadium, dove tutto sarebbe facilmente controllabile, fanno entrare striscioni come quello sui morti di Superga. Non è però una novità questa situazione. Il nostro campionato per me da sempre è un campionato «italiano-juventino», lo scettro del potere lo ha da sempre la Juventus, tranne qualche raro caso tipo Verona o qualche vittoria di Inter e Milan, che visti gli squadroni che hanno creato negli anni non potevano che vincere. Oggi la situazione è peggio di Calciopoli: lì si trattava di qualcosa di quasi eccezionale, hanno voluto usare Moggi visto che ormai gli aiuti erano troppo palesi. Oggi però si tratta di normalità, che è ancora peggio di quanto visto durante l’era Moggi. E la cosa più negativa è che nessuno ne parla, essendo appunto ormai diventata una cosa normale che la Juve venga aiutata. Il ragionamento che voi avete fatto, anche se l’avete trattata come una provocazione, è la perfetta lettura di quanto sta avvenendo in Italia: ci sono pressioni dall’alto, qualcuno deve vincere. E chi dice il contrario sinceramente mi fa ridere». Paolo Liguori su “Libero Quotidiano”.
Luciano Moggi: Calciopoli non esiste. Vi spiego io gli arbitri e la Juve.
«Volevo ringraziare Paolo Liguori. E non solo perché nel suo articolo «Nessuno lo dice, ma è peggio di Calciopoli» il giornalista sottolinea come io sia stato «usato» nel 2006. Lo voglio ringraziare soprattutto perché ammette che la Juve ha ricevuto alcuni aiutini arbitrali in questo campionato. Non ne aveva e non ha bisogno la formazione di Antonio Conte, troppo forte rispetto alla concorrenza da due anni a questa parte. Ma tant’è, è successo. Come è sempre accaduto, perché la cosiddetta sudditanza psicologica è nata insieme al calcio. Non c’entra nemmeno la sponsorizzazione della Federcalcio da parte della Fiat: i soldi degli Elkann vanno all’«azienda» Figc, non direttamente nelle tasche degli arbitri. La casa automobilistica riceve indietro solo visibilità e pubblicità nel mondo, non di certo un aiuto per vincere lo scudetto. Il problema è da sempre un altro: oggi come ieri, la Juventus riceve dei favori. È l’ennesima dimostrazione - come se non bastassero le carte prodotte in questi anni - che Calciopoli non è mai esistita, se non nelle menti di chi voleva distruggere la Signora. E resta nella testa di troppi italiani come giustificazione allo strapotere bianconero. Alzi la mano chi conosceva l’ex segretario del Pd della Capitale, Marco Miccoli, al di fuori della cerchia del partito romano e degli ultras romanisti. Ebbene l’onorevole ha trovato il modo di farsi coinvolgere nel sistema calcio denunciando il complotto a favore della Juve per farle vincere il campionato. Possiamo sopportare i curvaioli, ma non chi usa il calcio per pubblicità personale. È stato insomma sufficiente che la Juve abbia rialzato la testa e che la Roma sia tornata competitiva grazie a Garcia per spingere qualcuno a chiedere al premier Renzi di rendere trasparente il «giocattolo calcio». Miccoli è assurto a eroe televisivo anti-Casta (bianconera), mentre tutti si sono dimenticati che la squadra di Conte viaggia 11 punti in più rispetto al secondo scudetto: un dato che merita considerazione da parte di chi ama veramente questo sport. Chi parla ancora di Calciopoli non sa o fa finta di non sapere che i processi di quella farsa, quello sportivo prima e quello ordinario dopo, hanno detto che il campionato in esame era regolare, non c’erano partite alterate, il sorteggio era pulito e non esisteva colloquio «esclusivo» con i designatori da parte dei dirigenti della Juve di allora. L’arbitro Paparesta ha ammesso di non esser mai stato sequestrato, magari dovrebbe essere rinchiuso da qualche parte Miccoli a rileggersi le carte. Per quanto riguarda l’appello rivolto a Renzi - che ha cose ben più importanti da fare - se proprio dovesse decidere di approfondire Calciopoli potrebbe chiamare Luciano Moggi in persona in Parlamento per far luce sui fatti del 2006 grazie ai documenti «nascosti» e «scovati» in questi anni. Si potrebbe così cancellare ciò che fece il suo predecessore, il «prode» Prodi, con a fianco la cinguettante Melandri e la collaborazione esecutiva dell’avvocato Guido Rossi: salire sul carro del Mondiale vinto dai giocatori juventini dopo aver cancellato quella Signora. Chissà che ne penseranno dalle parti dell’Inter, che con Thohir ha chiuso una porta col passato tra polemiche interne e tanti addii dolorosi: Milly Moratti, ad esempio, non sarà più il direttore artistico dell’Inter. Silenzio stampa sull’argomento, anche perché in questi anni non si era mai capita la necessità di tale ruolo. I tifosi invece si erano gasati per la promessa di Hernanes di un «derby» contro la Roma. Meno felici i fan nerazzurri per la conferma del dg Marco Fassone a capo dell’area sportiva. E questa sera...Stasera toccherà ancora una volta alla Juve rispondere coi fatti contro il Milan. È chiaro che il turno di Europa League peserà sulle gambe dei bianconeri, ciononostante, non soccomberanno. Reduci dalla coppa anche i protagonisti di Fiorentina-Lazio, con i viola distratti per le accuse di Borja Valero all’arbitro Gervasoni. Potrebbe approfittarne il Napoli per consolidare il terzo posto contro il Livorno.» Luciano Moggi su “Libero Quotidiano”.
LA JUVE E LE ALTRE. E BASTA!!! LA VOLPE QUANDO NON ARRIVA ALL’UVA DICE CHE E’ ACERBA.
Scontro Moggi-Taormina a La Zanzara su Calciopoli e la Juventus, scrive Edoardo Siddi su “Spazio Juve”. In questi giorni di polemiche in tanti hanno detto la loro sulla classe arbitrale. Nell’occhio del ciclone, come spesso succede in questi casi, c’è la Juventus, che, a detta dei suoi detrattori, è l’unica ad essere avvantaggiata da questi errori. Tra i tanti che (a sproposito) hanno detto la loro, c’è stato anche l’avvocato Carlo Taormina, che ha scatenato le ire dei tifosi bianconeri con frasi come "Juventus ladra" e un delirante sfogo: ”La truffa continua. Il falso campionato pure. Basta. Denunziare l’arbitro. Se continua questo sporco favoritismo alla Juve, sciopero delle squadre. E’ un ladrocinio. Non ci si lamenti poi delle violenze dei tifosi. Se questi arbitri non vengono mandati in galera per i favoritismi, non finirà mai la truffa del campionato, del totocalcio, dei tifosi. Questo campionato lo debbono far vincere alla Juve. Ma perché continua questo favoritismo? Chi paga e chi è pagato?”. L’avvocato, ospite al programma radiofonico condotto da Giuseppe Cruciani, La Zanzara, ha poi confermato il suo pensiero, portando Luciano Moggi a chiamare in diretta per rispondere direttamente alle accuse. Ne è venuta fuori una vera e propria rissa verbale, che vi riportiamo. Moggi risponde al telefono (aveva in precedenza lasciato il suo numero al centralino), e apre così: “Vi stavo ascoltando per caso, ed ho sentito il solito turpiloquio, che non mi piace. Il solito giornalismo spazzatura. Ho la sensazione che l’avvocato Taormina sia piuttosto confuso, ho letto le fesserie che sono state scritte in internet. Sarebbe ora di finirla con queste cose sui rigori dati o non dati. "Ladrocinio Juventus" è un termine pesante, che un avvocato non dovrebbe usare“. Il conduttore chiama subito in causa Taormina: “Innanzitutto saluto Moggi (che qui interrompe, dicendo che i saluti contano relativamente, se poi uno scrive determinate cose), ognuno dice quello che ritiene giusto e se ne assume la responsabilità. Lei ha subito dei processi, li ha affrontati, parzialmente ha avuto anche delle ragioni, ma io ragionando da sportivo le dico che la Juventus nella storia del calcio, per un periodo, non è stata certo un esempio positivo. Non casualmente è andata a finire in Serie B con un avvocato che chiedeva ai giudici di mandare la squadra solo in B. Questa è la situazione, mica possiamo stravolgere la realtà. Che, poi, lei c’entri o non c’entri a me non interessa. Io la considero una persona seria e garbata con cui ho avuto qualche occasione d’incontro, ma, detto questo, che la storia possa essere negata non lo accetto“. “Lei ha detto che la Juventus ruba“, evidenzia Cruciani, rivolgendosi a Taormina. “Riconosco di aver usato un linguaggio forte ed ho già chiesto scusa alla Juventus – risponde l’avvocato, zittendo Moggi che tentava di prendere la parola -. Quello che mi meraviglia è la violenza dei tifosi juventini, una violenza inammissibile che non ho mai riscontrato in nessuna parte del paese. Ho ricevuto delle minacce che nessuno immagina, in queste ore, ma tutti se ne fottono perché mi chiamo Carlo Taormina“. Il tono di voce dell’avvocato si fa meno calmo, tanto che Moggi fa in tempo a dire soltanto le seguenti parole: “Sì, ma nel momento in cui si usano termini pesanti come ladrocinio…“, prima di essere interrotto ancora dalla rabbia del suo interlocutore, che sostiene che sia più pesante un arbitro che si trova a pochi passi dal contatto e non fischia il rigore. Cruciani, però, interviene, restituendo la parola a Moggi. “Innanzitutto ho sentito dire, prima, che non è cambiato niente da Moggi ad Agnelli e si parla addirittura di ladrocinio – inizia l’ex dg bianconero -. Io sono stufo di sentire queste cose“. Ancora Taormina lo interrompe, sostenendo che “la storia della Juventus sia fatta anche di questo, piaccia o non piaccia“ (espressione che, a chi è meglio informato di Taormina, ricorderà un altro personaggio che ha avuto un ruolo chiave in Calciopoli). Da qui in poi i due si parlano addosso, con l’avvocato che sostiene che non si debba “nascondere la testa sotto la sabbia“, e Moggi che lo invita “a pensare a difendere i suoi assistiti e lasciar perdere Calciopoli, la Juventus, Agnelli e la Roma, che è indifendibile“. Da qui Taormina esplode: “Io faccio quello che cazzo mi pare. Lei i consigli se li prenda dai suoi avvocati, e per cortesia non si permetta di venire qui a fare il moralista con me. Lei non può permetterselo, non mi rompa i coglioni“. Moggi non fa una piega e rinvia la questione in tribunale, riagganciando il telefono.
FISE, LO SPRECO VA AL GALOPPO.
Fise, lo spreco va al galoppo. La Federazione sport equestri precipita in un buco milionario. Tra spese faraoniche e compensi d’oro, scrive Gloria Riva su “L’Espresso”. Favoritismi, stipendi d’oro e auto blu. Il cavallo della Fise, la Federazione Italiana Sport Equestri, rischia di non rialzarsi più, schiantato dai debiti. A fine luglio dell’anno scorso l’ente sportivo è stato commissariato dal Coni. Ma sette mesi dopo, il buco di bilancio, inizialmente fissato intorno ai 7 milioni di euro, potrebbe risultare ancora più vasto, superiore ai dieci milioni. Già a fine 2012 l’ultima presidente della Fise, Antonella Dallari aveva nominato una commissione mista Fise-Coni per indagare sullo stato patrimoniale della Federazione lasciatole in eredità dal suo predecessore, Andrea Paulgross, avvocato di Viareggio ed ex ufficiale dei Carabinieri a cavallo. A quanto pare, Paulgross puntava molto sulla televisione, tanto da aver stipulato un accordo con Class Horse Tv, uno dei canali televisivi del gruppo editoriale Class per mandare in onda gare di equitazione. L’avventura è costata 600 mila euro alla Fise. Altri 846 mila euro sono stati versati per chiudere una vertenza con la Infront, società che si occupa di diritti tv. Alla fine, dai documenti ufficiali si scopre che una somma da capogiro, pari a 1,9 milioni, è stata spesa per cause e contenziosi. Il vero buco nero, però, si chiama Equestrian Service. Ovvero la società controllata da Fise che gestiva il maxi centro equestre Pratoni del Vivaro, un’intera collina a sud di Roma, ampia come 22 campi da calcio, con cinque maneggi, due campi da dressage, giostre, piscine e tutto ciò di cui uno sfarzoso sport come l’equitazione necessita. Il centro, creato nel 1960 per le Olimpiadi di Roma, è di proprietà del Coni e assegnato in gestione alla Fise: la liquidazione della Equestrian, assediata da debiti e perdite, gli è costata oltre 1,7 milioni. Negli ultimi anni la disastrata società romana era stata amministrata da Marco Perciballi, consulente fiscale di alcune federazioni. Una specie di uomo ovunque, con incarichi anche nel ciclismo, nell’atletica, nel tennis. Pratoni del Vivaro si è rivelato un pozzo senza fondo, ma nonostante le enormi spese per la gestione la struttura è stata chiusa con il licenziamento di 17 persone che ci lavoravano. Non è ancora finita. L’attuale commissario della Fise, Gianfranco Ravà, già presidente della Federazione Italiana Cronometristi, sta indagando per ricostruire le altre voci che hanno prodotto il disastro. A suo tempo la presidente Dallari aveva già presentato una denuncia alla Procura federale e alla Corte dei Conti raccontando come la Fise spendeva i soldi che avrebbero invece dovuto essere destinati agli atleti. Ad esempio, l’ex presidente Paulgross avrebbe prelevato dalle casse federali (che ricevono un contributo annuo di oltre 4 milioni di euro dal Coni e altrettanti dai tesserati)un gettone da 100 mila euro l’anno, nonostante lo statuto non prevedesse alcun compenso per i dirigenti. Altri 500 mila euro se ne sarebbero andati in auto blu e soggiorni in alberghi a cinque stelle. Rilievi, quelli della Dallari, che non hanno sorpreso più di tanto il Coni che da tre anni continua a respingere il bilancio della Federazione, giudicato irricevibile. Non è finita qui. Il commissario Ravà nelle scorse settimane ha assoldato i revisori dei conti della società PricewaterhouseCoopers per valutare lo stato di salute dei comitati regionali della Federazione e qui stanno emergendo nuovi ammanchi che porterebbero il debito a oltre 10 milioni di euro. Ad esempio, lo scorso 31 gennaio la Fise dell’Emilia Romagna è stata commissariata, lo stesso è successo in Abruzzo. Come se non bastasse, anche l’ispettorato del lavoro si è messo a fare le pulci alla Federazione, scoprendo che decine di dipendenti sono stati assunti con contratti di collaborazione. E ora, per sanare quelle posizioni lavorative, la Fise rischia di sborsare un paio di milioni.
CALCIO. LIBERI DI GIOCARE?
PRIGIONIERI DEL CALCIO.
Mentre in Spagna esplode lo scandalo degli acquisti di under 18, in Italia ci sono migliaia di giovani legati alla propria società, senza la possibilità di andare a giocare dove vogliono, di scegliersi amici e compagni. Tutta colpa del vincolo, una norma capestro che in Europa è rimasta solo in Italia e in Grecia e contro cui si batte Damiano Tommasi, presidente dell’Associazione calciatori. Perché è all’ombra di questo legame che si è sviluppato il giro di affari, non sempre trasparente, della compravendita di giovani calciatori, scrivono Linda Borgioni ed Alessandro Cecioni su “La Repubblica”. Vincolati, incatenati alle loro società, per anni, a volte di fatto per sempre. In Italia non si è liberi di giocare al calcio. E molti ragazzi, arrivati a un certo punto della loro carriera calcistica, sono costretti ad abbandonare lo sport che amano. Tutta colpa del vincolo sportivo. Così mentre in Spagna esplode lo scandalo per le modalità di acquisto di atleti under 18, in Italia c'è chi è deciso a dare battaglia una volta per tutte contro la catena che lega un ragazzino a una società per anni. Le norme federali sono semplici. I ragazzi che giocano a calcio fra gli 8 e i 16 anni sono inseriti nella categoria Giovani e sono vincolati alla propria squadra di stagione in stagione. Ma a 14 anni, a seconda della categoria della società di appartenenza si aprono due strade diverse. I ragazzi tesserati per squadre della Lega Dilettanti diventano Giovani dilettanti e possono essere sottoposti a vincolo con quella società, un legame che si scioglie solo al compimento del 25° anno di età. I tesserati di società professionistiche diventano Giovani di serie e il loro vincolo va dai 14 ai 18 anni (con possibilità per la società di prolungarlo per un anno). Se per i professionisti il limite è la maggiore età, per chi gioca nelle serie minori cambiare squadra è di fatto impossibile o quasi. Le norme federali in materia sono un labirinto di commi, con paletti insormontabili per chi prova a staccarsi da una società. Prendiamo per esempio il caso in cui la famiglia di un giovane calciatore si trasferisca altrove. Il ragazzo potrà chiedere di cambiare squadra solo se il trasferimento è in un’altra regione e, addirittura, in una provincia che non sia contigua a quella di partenza. Non solo: bisogna che si trasferisca l’intero nucleo familiare. Ne ha fatto le spese Pasquale Mauriello. L’ormai ex calciatore, classe ‘90, voleva andare a giocare altrove, ma la sua società gli ha negato il cartellino: “A quel punto ho cercato di capire quali strade potevo intraprendere per liberarmi, ma ho presto scoperto che non ce ne sono. Ero determinato e quindi sono arrivato in tribunale, ma il mio ricorso è stato respinto. Non è stato fatto nulla di illegale, è la norma in sé a essere sbagliata. Solo noi e Grecia abbiamo una legislazione del genere, è assurdo”. Mauriello ha dovuto rinunciare a fare il calciatore, ma continua a combattere la sua battaglia lavorando per l’Associazione italiana calciatori (Aic) come responsabile regionale nel Lazio. “Ogni giorno riceviamo chiamate da parte di genitori che non sanno come comportarsi. Per fare informazione sto girando gli spogliatoi e trovo sempre ragazzi coinvolti in un percorso simile al mio, quando invece a 18 anni dovrebbero essere liberi di poter scegliere dove giocare. Il risultato è che i giovani si allontanano dallo sport e questo significa aver fallito. Non si può sottovalutare il ruolo sociale del calcio”. La guerra contro il vincolo sportivo è uno dei punti cardine della gestione di Damiano Tommasi, ex centrocampista della Roma e della Nazionale, attuale presidente dell’Aic, che lo scorso ottobre ha lanciato una campagna per l’abolizione del vincolo. Anche grazie ai suoi sforzi il tema è riuscito ad arrivare in Parlamento, dove Graziano Del Rio, oggi sottosegretario alla Presidenza del consiglio e allora ministro degli Affari regionali con delega allo Sport, si era preso l’impegno di favorire una trattativa con i presidenti delle società. Il dialogo non sarà semplice, ma Tommasi è ottimista: “Questa norma in troppi casi determina l’abbandono dell’attività sportiva e questo non lo vogliamo noi e non lo vogliono le società. È normale che si debba trovare una soluzione che tenga conto delle esigenze di tutti. Vogliamo sederci intorno a un tavolo per rivendicare i nostri diritti senza intaccare la sostenibilità del sistema”. Se fino a questo momento è stato difficile arrivare a un accordo è proprio perché il vincolo sportivo viene considerato dalle società una risorsa necessaria alla loro sopravvivenza. Per Agostino Malavisi, presidente della Polisportiva Cimiano, società amatoriale milanese, la soluzione sarebbe quella di alzare i premi di preparazione, quelle somme che la società che si appresta a prelevare il cartellino di un ragazzo è tenuta a pagare al club che lo ha cresciuto. “Siamo disponibili a rivedere le regole - dice - ma non se ne può fare solo una questione ideologica, le società hanno bisogno di risorse per andare avanti. Noi ci occupiamo della preparazione di giovani calciatori, senza il vincolo non avremmo nessuna tutela e saremmo destinati a farci mangiare dalle società più grandi”. Attualmente se un piccolo calciatore viene notato da una società importante questa deve pagare una somma prestabilita per prelevarlo. Per Malavisi se si alzassero i premi, si potrebbe arrivare all’abolizione della norma incriminata. Ma per Tommasi è scorretto farne una questione solamente economica: “I premi di preparazione esistono già, eppure il vincolo continua ad essere un problema. Alzarli non è la soluzione, è solo una risposta monetaria a un problema più complesso”. Oltretutto, con una soglia d’età così alta, il vincolo colpisce soprattutto chi non ha più la prospettiva di andare a giocare in una grande società. “Bisogna equiparare i dilettanti ai professionisti e prevedere dei contratti anche nelle serie minori”, insiste Tommasi. “Senza una regolamentazione del genere con l’abolizione delle norme attuali si arriverebbe all’assurdo: la società investe con importanti rimborsi spese e poi si vedrebbe abbandonata dal giocatore senza avere nulla in cambio”. Le difficoltà aumentano nel calcio femminile, come racconta Irene Severino, tesserata fin dall’età di quattordici anni con la stessa società e arrivata ora al punto di dover smettere di giocare. “Ho indossato la stessa maglia per sette anni, siamo arrivate in serie A e con la mia squadra mi sono meritata anche la maglia della nazionale Under 17, poi la mia società non poteva più permettersi l’iscrizione al campionato e così siamo state retrocesse in serie C. Volevo andarmene, meritavo di giocare ad altri livelli, ma non mi hanno lasciato andare. Per qualche anno ho continuato, ma poi non avevo più nessuno stimolo e quindi mi sono ritirata”. Le donne non sono mai considerate delle professioniste, anche nelle serie maggiori, e quindi per loro il problema del vincolo è ancora più sentito. “Il calcio in rosa - spiega Tommasi - soffre come numeri e non si può permettere di lasciare per strada nemmeno un’atleta”. Dopo essere venuta a conoscenza della storia di Mauriello, anche Irene ha deciso di portare negli spogliatoi delle squadre femminili la sua testimonianza e lo ha fatto grazie al sostegno di Katia Serra, Responsabile Aic per il calcio femminile, e Antonio Trovato, Responsabile Aic per la Campania. “Ci sono stati periodi in cui mi sono sentita sola. Far capire quello che si prova è difficile e parlare ogni volta della stessa storia mi logora dentro, ma portare avanti questa battaglia è importante. Contrastare il vincolo significa lottare per salvaguardare l’etica umana, mi sono accorta che condividendo la mia esperienza sono riuscita ad arrivare alla coscienza delle persone. Credo nella libertà di scelta e nel rispetto, perché ci possiamo divertire anche senza soldi”. Tutto inizia quando il mister ti dà la tua prima maglia da titolare, poi arrivano i gol, i giudizi positivi sui giornali, le trasferte e gli spalti che si riempiono sempre di più. Sveglia la domenica mattina presto, allenamento quattro volte a settimana, con un’unica cosa in testa: diventare un campione. Passione, talento e fortuna però non bastano: per permettere al proprio figlio di realizzare il sogno è spesso necessario mettere mano al portafogli. È quello che è capitato ad Alessandro, costretto a far fronte agli infortuni del figlio senza ricevere nessun aiuto. “Quando inizi a giocare sei tenuto a sottoscrivere un’assicurazione, ma alle famiglie non serve a niente. Se succede qualcosa i soldi per le analisi e gli interventi dobbiamo tirarli fuori noi, il rimborso arriva solo in caso di lesioni permanenti o letali. Ma veramente possiamo aspettare che un ragazzino muoia in campo per avere un rimborso?!”. La prima volta che Riccardo, il figlio di Alessandro, si è fatto male aveva 15 anni. Metà dicembre, partita di campionato su un terreno di gioco reso pesante dal freddo e dalla pioggia, la gamba messa male e fuori dal campo per tre mesi. Strappo del retto femorale. Tre ecografie solo per arrivare alla diagnosi, poi due mesi di fisioterapia e riabilitazione, tutto a carico della famiglia. “Mio figlio ha giocato sette anni con questa società e quando si è fatto male si sono dimenticati di noi. L’infortunio non era grave, fortunatamente è tornato a giocare, ma intanto i soldi li abbiamo messi noi”. Alessandro se l’è cavata con poco, circa tremila euro, ma c’è chi arriva a spendere cifre molto più alte. Così in molti sono costretti a stipulare assicurazioni private per non trovarsi mai nella posizione di non permettere al figlio di continuare a giocare. “Ogni anno spendiamo 1200 euro, è stata una scelta difficile all’inizio, ma in qualche modo obbligata e sono molto contento di averla fatta perché altrimenti Marco non avrebbe più indossato gli scarpini”, racconta Luca che ha rischiato di sborsare 28mila euro per curare il legamento crociato del figlio, giovane promessa del calcio romano. “Io capisco che le società non possano permettersi di pagare certi infortuni, ma quello che dobbiamo pretendere è che almeno ci venga assicurato il minimo, un’ecografia, una risonanza magnetica, un mese in più di fisioterapia. Alcune società lo garantiscono, altre no. La Figc dovrebbe impegnarsi per dare a tutti i giovani calciatori gli stessi diritti”. Nella squadra che Togliatti fondò nel 1946 se parli di vincolo ti guardano storto, peggio, sarebbero tentati di indicarti il cancello. "Via grazie, si accomodi". "Quando mio padre, Vittorio Testa, e Palmiro Togliatti decisero che dalla sezione Ponte Milvio del Pci sarebbe nata la Rinascita Tor di Quinto qui intorno c'erano borgate e baracche. Altro che i palazzi della Collina Fleming", ride Massimo Testa, 70 anni, presidente del Tor di Quinto di oggi. Settanta anni di storia, settanta anni di successi. Decine di titoli italiani juniores dilettanti, ogni anno, nel Lazio, la compagine da battere. Oggi ha anche una squadra in Promozione, "tutta di giocatori fatti in casa, un fatto unico", dice ancora Testa soddisfatto. Nel suo ufficio accanto alla bandiera rossa con la falce e martello, alle foto del presidente con Fidel Castro e a quella di Berlinguer, vicino ai trofei su cui è appoggiato il colbacco di una guardia rossa, c'è una gigantografia a colori, Marco Materazzi, difensore dell'Inter e della nazionale, che se la vede con Ferdinando Sforzini, attaccante del Bari. "E' un po' il simbolo della nostra storia, entrambi vengono da qui, come altre decine di giocatori della serie A e B. Giocavano insieme al Tor di Quinto e sono diventati professionisti, uno addirittura campione del mondo", dice Testa con orgoglio. "Grandissime persone prima che grandi giocatori", chiosa. "E tutto senza quella buffonata del vincolo, quella cosa schifosa che contrabbandano per tutela delle società e che serve solo ad alimentare questo mondo malato dei soldi, dei piottari, gli pseudoprocuratori, la peggio genia. Ma chi siamo noi per tenere prigionieri dei ragazzi dai 14 ai 18 anni? Schiavisti? Il vincolo non serve a niente, è una foglia di fico per coprire l'altro scandalo". Quale? "Ma il fatto che noi, unici al mondo, abbiamo una Lega nazionale dilettanti. A cosa serve? A intascare soldi dalle società, ad accumulare denari da usare chissà come. No, guardi, io i bilanci della Lega non li voglio nemmeno vedere perché mi ci incazzo, lo so. Ma lo scandalo è lì, mi creda, è nel potere della Lega, è in chi lo esercita, e il vincolo è utile all'esercizio di questo potere. La ciliegia sulla torta". Scegliere di non vincolare i giovani calciatori è una decisione che ha pochi emuli nel mondo del calcio dilettantistico, anche perché il mercato si fa fra i 14 e i 16-17 anni, dopo nessuno è più una "promessa". Decisione rara e non priva di rischi. "Quest'anno abbiamo perso due intere squadre - svela Massimo Testa - Gli Allievi B e i Giovanissimi B. Passati in blocco ad altre società, se ne sono andati. Forse i genitori credevano di avere per le mani dei campioni e li hanno offerti ai migliori offerenti. Invece erano delle pippe. Qualcuno, anche fra i dirigenti delle altre società, mi ha profondamente deluso tradendo un'amicizia che durava da tempo. Ma il mondo va avanti e anche quest'anno, nonostante tutto, siamo in finale. Se ci fosse stato il vincolo sarebbe stato diverso? No, l'unico modo per evitare la fuga di un giocatore qual è? La ritorsione, non farlo giocare, tenerlo prigioniero? Ma si può fare con ragazzi di 14, 15 anni? No, non è nel Dna di questa società, sarebbe un tradimento della nostra storia, del perché siamo nati. Siamo da 70 anni la possibilità di fare sport dilettantistico, di trovare coesione, unione. Lo diceva anche Enrico Berlinguer: quando tutto il Paese tifa per la stessa squadra è bello perché è unito, solidale". "E poi lo sa che il vincolo è pure svantaggioso per le società? Sì, ho qui la prova, guardi. Un ragazzino passato alla Lazio. Mi sono fatto infinocchiare dai dirigenti, mi hanno chiesto di vincolarlo che poi lo prendevano. Così mi hanno dato 8mila euro per il cartellino, ma se lo prendevano svincolato mi avrebbero dovuto versare i 19mila euro del premio di preparazione".
Un calcio al business, scrive Massimo Mazzitelli. Vogliamo riformare il calcio? Cominciamo allora a "liberare" i calciatori. Cominciamo a togliere business, mercanti (improbabili procuratori) e dirigenti affaristi che gravitano intorno alle scuole calcio e ai settori giovanili di tutti i livelli. Eliminiamo il vincolo dilettantistico che imprigiona un giovane calciatore dilettante sino ai 25 anni con una società facendo di ragazzini dai 14 ai 16 anni assegni circolari per procuratori. Proviamo a rimettere al centro del campo lo sport, il divertimento, i sogni di un ragazzo, la gioia e l'orgoglio di aver contribuito alla crescita di un campione. O la voglia di giocare ancora a 23 o 24 anni solo per passione. Basta andare a vedere una qualsiasi partita Allievi in giro per l'Italia per trovare a bordo campo una miriade di personaggi: c'erano anche una volta, ma erano i "mitici" osservatori, quelli che scrivevano, litigavano tra di loro sul destro di un ragazzo e facevano a gara ad individuare il vero talento. Poi partiva la telefonata alla società importante amica. Il compenso? Poter dire: "Quello l'ho scoperto io" e poter parlare nel paese o nel quartiere a nome di club come Juve, Inter, Roma... Il loro posto è stato preso da "procuratori" dalla promessa facile. Basta un dribbling fatto bene per aprire il vaso dei sogni di un ragazzo di 14 anni: arrivano promesse di sicuri approdi alle grandi squadre e grandi ingaggi che spesso restano appunto solo promesse. Ma interessa poco che quel ragazzo possa diventare un campione, perché è già un business che può valere decine di migliaia di euro. Lo chiamano premio di formazione ed il principio è anche giusto: riconoscere alla società che ha formato il calcisticamente il ragazzo un premio per il lavoro svolto. La stortura è che ora è diventato un business e per l'Italia girano eserciti di ragazzini che non avranno mai la minima possibilità di giocare tra i professionisti. A interessare sono quei trentamila euro di premio di formazione, non capire o accompagnare quel ragazzo nella crescita. E per non sbagliare o rischiare di lasciarsi scappare l'eventuale fenomeno scattano contratti o vincoli che rischiano di travolgere la passione. Per decenni il calcio italiano è stato all'avanguardia nel mondo e i nostri campioni arrivavano da oratori o da piccole squadre dove l'allenatore e il presidente tutti i giorni insegnavano calcio solo per passione e non per fare business sulla pelle di ragazzi appassionati. E' proprio anacronistico ritornare a quel mondo? Non possiamo lasciare il business fuori dai settori giovanili e dalle società dilettantistiche? Siamo sicuri che il sistema non crollerà perché il motore più forte e pulito nello sport rimane sempre la passione.
Alla faccia del Fair-Play: sarebbe questa l’Italia del Calcio da tifare ai mondiali?, scrive Giovanna Cirino su “La Voce di New York”. Durante una partita tra bambini, si scatena un putiferio tra parenti-spettatori. L'allenatore dei piccoli calciatori del Pisa per protesta decide di ritirare la squadra, ma invece delle lodi per lui arriva la squalifica e la sconfitta a tavolino...Nei giorni degli auguri, dei buoni propositi, di peace & love per tutti, vorrei richiamare l’attenzione su un fatto di cronaca avvenuto alla fine dello scorso anno. Un avvenimento triste perché riguarda il futuro dei giovani a cui dovremmo presentare esempi virtuosi, e perché ha come protagonista lo sport, il calcio, il gioco più bello del mondo, almeno per me. Uno sport antico, di squadra, popolare e aggregante in molte società. Quello che è accaduto ha dell’incredibile e fotografa un certo stato d'animo dell'Italia meglio di tanti giri di parole. Un sabato pomeriggio nella provincia toscana, a Putignano, si gioca l’ultima partita del girone d’andata del campionato “Esordienti Fair Play”. A sfidarsi le baby squadre di Ospedalieri e Pisa, ragazzini nati nel 2001 e nel 2002. Tutto bene in campo e sugli spalti fino a quando l’errore di un giocatore del Pisa (un passaggio sbagliato capita anche alle superstar, che sarà mai?) scatena l’inverosimile: un genitore inizia a vomitare parolacce contro il piccolo calciatore, contro la sua famiglia e contro l’allenatore che lo tiene in campo, Alessandro Birindelli, undici stagioni alla Juventus e sei presenze in Nazionale. Urla, grida e commenti violenti fanno degenerare la situazione. Il nonno del bambino dopo essere stato insultato reagisce pesantemente e si scatena il putiferio: “Sembrava che il mondo si fosse fermato – racconta l’ex bianconero – l’arbitro era bloccato, i bimbi erano sotto shock ed io ho chiamato un time-out per comunicare ai miei calciatori e al direttore di gara che per me la partita era finita. Uscendo dal campo ho detto ai genitori di vergognarsi – continua l’ex bianconero – ed ho chiesto scusa ai nostri avversari per il pessimo spettacolo offerto e per averli privati del proseguimento della partita”. I sogni e le speranze di un calcio migliore sono andati in frantumi in pochi minuti. E pensare che il “mister” a inizio stagione aveva chiarito a giocatori e parenti che non avrebbe tollerato alcuna mancanza di rispetto degli avversari, dell’arbitro o dei compagni di squadra sul campo e sugli spalti. Ma a quanto pare le raccomandazioni non sono bastate. Ennesimo caso di inciviltà o ennesima occasione sprecata? Tutti d’accordo nel dire che Birindelli ha agito bene e che gli adulti non devono offrire esempi negativi soprattutto in un contesto agonistico. Però questo non ha impedito al giudice sportivo di applicare alla lettera il regolamento, “punendo” il bel gesto con la sconfitta a tavolino (3-0) e squalificando l’allenatore. Forse era la volta buona per prendere a calci un regolamento con norme che appaiono insensate vista la finalità del gesto penalizzato. Il calcio dovrebbe saper educare e formare non solo a parole, ma anche con i fatti, con azioni concrete, con buone pratiche, con messaggi chiari ed efficaci. Oserei dire giusti. Sarebbe stata una buona opportunità per dire basta alla violenza, per far riflettere su alcuni fenomeni e degenerazioni, per creare un clima di maggiore sportività nei campi di calcio giovanile, per diffondere la cultura del fair play che avrebbe dovuto animare il campionato Esordienti. Vi ho raccontato questa storia anche perché nel 2014 si celebreranno con tutti gli onori i mondiali di calcio in Brasile. Io tifo Italia, ma non solo quella che scenderà in campo con gli undici gladiatori in corsa per la Coppa. Io tifo Italia perché ne sono innamorata, è il mio Paese e vorrei che fosse sempre bello, simpatico e accogliente. Poi penso a come si è ridotto il nostro gioco del calcio, gioco, non dimentichiamolo. Scommesse, corruzioni, business milionari, per non parlare della vergogna degli striscioni con frasi xenofobe, dei motorini lanciati dagli spalti, dei lavandini staccati dagli spogliatoi tirati addosso alla polizia. Episodi di violenza e di razzismo, sempre più frequenti che hanno per protagonisti i tifosi ma anche i giocatori quando non rispettano le decisioni dell’arbitro o quando fanno gesti insulsi che provocano risse in campo. Potremmo divertirci con leggerezza e invece mettiamo in campo la rappresentazione della volgarità. Stiamo diventando brutti, che pena. Nei giorni dei buoni auspici spero che potremo tornare a gioire con i goal, con una difesa imbattibile, un attacco impeccabile ed una tifoseria da applausi. Oppure che saremo capaci di perdere con fair play se c’è qualcuno più bravo e più forte di noi.
Birindelli e il fair play, un binomio sempre più indissolubile, scrive “La Gazzetta dello Sport” . Non tanto perché è il nome del campionato cui partecipa l'ex terzino della Juve, ora tecnico degli Esordienti del Pisa, ma più che altro per i suoi comportamenti all'insegna della correttezza. A dicembre ritirò la sua squadra dal campo perché i genitori litigavano sugli spalti dopo l'errore di un suo giocatore (undicenne), domenica scorsa ha aiutato un arbitro debuttante a prendere la decisione giusta e ha rifiutato un calcio di rigore che non c'era. "Ma il merito - dice il tecnico a La Nazione, che oggi ha raccontato l'episodio - è dei miei giocatori. Sono loro che hanno detto all'arbitro che il rigore non c'era". Alla fine il Pisa, che gioca nel campionato Esordienti Fair Play, ha vinto lo stesso, ma il risultato, per Birindelli, è un dettaglio. Così, anche se la Figc ha assegnato la sconfitta a tavolino ai nerazzurri per l'episodio di alcune settimane fa, Birindelli non ha cambiato linea. Domenica l'arbitro era un giovane alla sua prima gara ufficiale, per questo affiancato da un tutor. L'attaccante del Pisa e il portiere avversario si scontrano, lui assegna il penalty scatenando le proteste, va in confusione e allora Birindelli interviene: "Ho detto ai ragazzi di aiutare l'arbitro e così l'attaccante ha ammesso che non era fallo". E il fair play ha vinto ancora una volta.
"Liberi di giocare". E’stata presentata a Milano la campagna mediatica promossa dall’Associazione Italiana Calciatoriintitolata “LIBERI DI GIOCARE”. L’art. 32 bis delle Norme Organizzative interne federali prevede infatti lo svincolo per decadenza dei calciatori dilettanti che hanno compiuto il 25° anno di età. Come sappiamo tale norma prevede il vincolo dei giocatori non professionisti fino all'età di 25 anni, senza possibilità di liberarsi dai contratti firmati all’età di 16 anni. La norma risale al Maggio 2002 quando le F.I.G.C. lo approvò nel Consiglio Federale. In realtà l'Italia e la Grecia sono gli unici paesi europei in cui è ancora previsto tale vincolo, che crea di fatto notevoli disagi nel mondo del calcio dilettantistico, che in un momento così difficile, diventa alla fine motivo di abbandono dell'attività agonistica. Molteplici poi sono i motivi di illegittimità costituzionale del vincolo sportivo. Infatti lo stesso risulta contrario ai seguenti articoli della nostra costituzione: art. 2 (diritti inviolabili dell’uomo), art. 3 (principio di eguaglianza formale) e art. 18 (diritto di associazione). Altresì il vincolo è contrario alle seguenti normative: art. 48 del Trattato dell’Unione Europea (principio di libera circolazione degli sportivi), art. 1 della Legge 91/1981, art. 24, secondo comma, del nostro codice civile, e infine al punto 8 della carta olimpica del C.I.O. Pertanto abolire il vincolo sportivo significherebbe restituire a migliaia di calciatori e calciatrici dilettanti il diritto di scegliere autonomamente dove giocare. "La nostra intenzione è quella di portare l'età del vincolo dagli attuali 25 ai 18 anni" - ha detto il Presidente dell’associazione italiana calciatori Damiano Tommasi. "Crediamo che in ottica europea questa iniziativa abbia un grande valore, soprattutto quando si parla di formazione dei giovani. Sembra un paradosso che oggi un calciatore professionista sia vincolato per la durata del suo contratto, mentre un dilettante debba aspettare i 25 anni per poter decidere la propria carriera agonistica". Per questo motivo l’Associazione Italiana Calciatori ha promosso diverse iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblico su questa delicata tematica, tra cui anche spot televisivi sulle reti televisive nazionali e sui principali quotidiani nazionali, nonché una apposita pagina Facebook.
Roma e Milano sono tappezzate di cartelloni con la scritta "Liberi di giocare", scrive Fulvio Bianchi su “La Repubblica”. Cosa significa? Lo chiediamo a Damiano Tommasi, ex calciatore "pensante", ora presidente dell'Aic, la storica associazione italiana calciatori nata nel 1968. "E' la nostra campagna contro il vincolo nei dilettanti. Un'assurdità, che va contro tante leggi. E' previsto dai 16 ai 25 anni, sì, sino a 25 anni i calciatori non si possono svincolare da una società dilettantistica per andare a giocare in un'altra. A meno che...".
A meno che?
"Ci sia un accordo fra i due club".
Insomma, altro che dilettanti. E poi ci sono casi di genitori che hanno dovuto pagare per "liberare" i loro figli.
"E' vero. E' una situazione assurda, come ho detto. Solo noi e la Grecia, a livello europeo, abbiamo queste norme. Noi vogliamo che i ragazzi siano davvero liberi di scegliere con chi giocare e vogliamo abbassare l'età del vincolo dai 25 ai 18 anni".
Questo blocco provoca abbandoni da parte dei calciatori?
"Anche, soprattutto fra le ragazze. In un primo tempo il vincolo era addirittura a tempo indeterminato. Ora sono 25 anni. Un professionista invece è vincolato solo per la durata del suo contratto".
Quanti sono i calciatori che si sono liberati?
"In serie D, la massima espressione della Lega Nazionale Dilettanti, sono il 15%. In più c'è anche l'imposizione a fare giocare dei giovani, e questo crea altri problemi alle piccole società. Soprattutto nelle squadre di II e III categoria, come quella dove gioco io".
Dopo la vostra protesta cosa è successo?
"Niente. Silenzio totale. Abbiamo parlato con tutti in maniera informale ma non è stata ancora avviata alcuna trattativa per modificare le norme. La LND non ne parla. La Figc pure. Eppure il Coni ha previsto che il vincolo deve essere congruo nella sua durata".
E adesso?
"Adesso non ci arrendiamo di sicuro. Abbiamo ragazzi e famiglie che ce lo chiedono. Dopo i cartelloni, studieremo altre iniziative". Nel pomeriggio Tommasi è intervenuto ad una trasmissione tv e, collegato via telefono, anche Carlo Tavecchio, presidente della Lega Nazionale Dilettanti e vicevicario della Figc, ha spiegato le sue posizioni. Tavecchio ha litigato con Rai Sport e difeso il vincolo: ''Esiste l'art.108 che dà la possibilità al calciatore solo per un anno. E può interessare circa 20-25.000 giocatori. Nessuna società vuole cambiare la norma. Comunque, è un problema di Coni e Figc''. Tommasi ha risposto, il dibattito è stato molto vivace. Le parti comunque restano lontane.
Niente da fare, a San Siro cori contro Napoli anche in Champions...Cori a San Siro contro Napoli anche in occasione della partita con il Barcellona. Niente da fare, gli irriducibili della Curva Sud non si arrendono. Bisognerà vedere se il delegato Uefa conosce l'italiano, e se stabilirà che la discriminazione debba essere punita. E' quasi certo, ormai, che la stessa storia si ripeterà sabato a Parma, in campionato: in questo caso, addio condizionale e curva chiusa. Il Milan ormai è recidivo: un danno enorme causato da una minoranza che vuole fare saltare la norma sulla discriminazione territoriale. Fra i tifosi di alcune società, intanto, cresce l'ipotesi di rinunciare ad abbonarsi il prossimo anno. Con le curve chiuse si rimettono un sacco di soldi. Lazio, chiusa solo la Nord. Per 50 tifosi della Juve, Daspo in arrivo. Chiusa solo la curva Nord e non tutto l'Olimpico: il ricorso della Lazio viene accolto a metà. Il club era stato punito per alcuni cori contro i polacchi del Legia Varsavia e uno striscione contro l'Uefa. Lo scorso anno la Lazio aveva avuto due volte l'Olimpico chiuso. Sanzioni probabilmente troppo pesanti: ma la Lazio paga la recidiva. Ora una punizione più leggera, che consentirà a molti tifosi di poter seguire la loro squadra in Europa League, il 7 novembre contro il Limassol. Intanto 50 bianconeri sono stati denunciati per gli incidenti dell'8 maggio a Bergamo contro l'Atalanta. Per loro, e per 18 atalantini, in arrivo anche il Daspo.
LE CATEGORIE DI CALCIATORI.
Professionisti – sono coloro che svolgono l’attività sportiva a titolo oneroso tesserati per società associate nella Lega Nazionale Professionisti (serie A e serie B) o nella Lega Professionisti serie C (serie C1 e C2). Si diventa professionisti con la stipula di un contratto tra il calciatore e la società, di durata non superiore alle cinque stagioni sportive per i calciatori maggiorenni e non superiore alle tre stagioni sportive per i minorenni.
Non Professionisti – sono i calciatori tesserati per società appartenenti alla Lega Nazionale Dilettanti che hanno compiuto i 18 anni.
Giovani – sono i calciatori che hanno anagraficamente compiuto l’ottavo anno di età e che al 1° Gennaio dell’anno in cui ha inizio la stagione sportiva non hanno compiuto il sedicesimo anno di età. Il calciatore “Giovane” è vincolato alla società per la quale è tesserato per una sola stagione sportiva, è però possibile assumere vincolo biennale solo per il periodo compreso tra i 12 ed i 14 anni.
Giovani Dilettanti – i “Giovani”, al compimento del quattordicesimo anno di età, possono contrarre con la società della Lega Nazionale Dilettanti per la quale sono tesserati, un vincolo che durerà fino al termine della stagione sportiva (30 Giugno) entro la quale compiranno il venticinquesimo anno di età. I calciatori che hanno assunto tale vincolo vengono definiti “giovani dilettanti” finché sono minorenni e “non professionisti” al compimento dei 18 anni.
Giovani di Serie – assumono tale qualifica i calciatori “Giovani” che dal compimento del quattordicesimo anno di età vengono tesserati da società professionistiche. I “giovani di serie” assumono un vincolo che dura fino al termine della stagione sportiva che ha inizio nell’anno in cui il calciatore compie anagraficamente il diciannovesimo anno di età. Nell’ultima stagione di vincolo il “giovane di serie” ha diritto quale soggetto di un rapporto di addestramento tecnico e senza che ciò comporti l’acquisizione dello status di professionista di percepire dalla sua società d’appartenenza un’indennità stabilita annualmente dalla Lega.
Calciatori dell’attività ricreativa – sono i calciatori che giocano in particolari manifestazioni a carattere ricreativo, indette od autorizzate dalla Lega Nazionale Dilettanti (es. tornei estivi di calcio o calcio a 5), sono tesserati dai Comitati della stessa Lega, previo nulla osta della società per la quale sono eventualmente tesserati durante l’anno sportivo. Il vincolo di tesseramento è limitato alla durata della manifestazione e non pregiudica un diverso ed eventuale vincolo contemporaneo dello stesso calciatore.
Per il resto vedere la normativa sul calcio sul sito tuttocalciatori.it.
Calcio giovanile, l’Italia è un Paese per vecchi: triplicate le spese per tesseramenti. Non ci sono solo i cartellini. Norme restrittive per lo svincolo degli atleti under e paletti anacronistici contro lo ius soli. Le società in subbuglio protestano contro la Figc: "Avete depauperato il mondo dilettantistico che rappresenta la vera vocazione dello sport", scrive Dario Falcini su “Il Fatto Quotidiano”. “Avete depauperato il mondo dilettantistico che rappresenta la vera vocazione dello sport”. E’ questo il passaggio in cui la lettera delle società lombarde alla Figc da una contestazione diventa un j’accuse. E’ ottobre quando oltre mille club inviano a Roma la loro protesta per “l’immane rincaro del costo dei tesseramenti dei giocatori”. In una notte di fine estate le iscrizioni dei giocatori ai campionati giovanili subiscono impennate fino al 250%. In un colpo solo e con effetto retroattivo sul campionato iniziato. Il tariffario è questo: l’iscrizione ai piccoli amici (5-8 anni) passa da 3 a 10,60 euro, quella a pulcini e esordienti (9-12 anni) da 9,50 a 19,31 euro, a giovanissimi e allievi (13-15 anni) da 15,50 euro a 19,31 euro. Gli aumenti, spiegano le istituzioni del pallone, sono dovuti alla stipula di una nuova tutela assicurativa. Le società subito si ribellano. Vivono grazie al volontariato e hanno fonti di guadagno limitate o nulle: non se la sentono di chiedere di questi tempi un altro sacrificio alle famiglie. Capofila della protesta è la Lombardia. Le società parlano di furto e minacciano di ritirare l’iscrizione e passare alle federazioni concorrenti come il Csi o l’Uisp. Trovano una sponda nella federazione regionale che si fa portavoce della loro protesta a Roma. “Ci sono genitori che già pagano 4500 euro ogni anno - spiega Giuseppe Brunetti, vicepresidente Figc della Lombardia – Non condividiamo e contestiamo la tempistica. La decisione andava condivisa e ben ponderata, invece hanno applicato i rincari in fretta e furia”. Nello stesso tempo diventa obbligatorio assicurare i dirigenti accompagnatori che stanno a bordo campo. Un esborso in più per le società. Nel lungo elenco delle compagini firmatarie della missiva di protesta figura anche la Varesina di Venegono Superiore. Pierangelo Farinazzo è il responsabile del settore giovanile, che vanta oltre 300 iscritti: “Per i cartellini quest’anno abbiamo pagato circa il doppio rispetto a un anno fa” spiega. Abbiamo preferito non aumentare le rette, ma abbiamo dovuto chiedere alle famiglie di pagarsi l’assicurazione”. Dalla Lombardia la protesta ha raggiunto il Piemonte. “Noi siamo una realtà di provincia eppure le spese sono alte” racconta Titti Paravati, dirigente della Crevolese. “Ci diamo da fare e risparmiamo su tutto, ma se continuano così le piccole società come noi dovranno chiudere”. Ha un’idea diversa Carlo Tavecchio, da 15 anni alla guida della Lega nazionale dilettanti, l’organismo che organizza i campionati fino alla Serie D. “I costi maggiori sono dovuti alle nuove, migliori, tutele assicurative – spiega -. La comunicazione, però, è sicuramente avvenuta tardi”. Per Tavecchio le società dilettantistiche non hanno problemi a pagare i cartellini, piuttosto pesano sui conti “i rimborsi spesa di alcuni calciatori nel tentativo di scimmiottare il calcio professionistico”.
LO SVINCOLO DEI GIOVANI CALCIATORI. Il portafogli non è l’unico problema con cui convive il calcio dilettantistico oggi e lo scontro non è solo tra le società e le istituzioni del pallone. Sullo svincolo il dibattito va avanti da anni senza mai arrivare a una soluzione. Da regolamento un calciatore rimane tesserato per una squadra dilettantistica dai 15 ai 25 anni e non può andarsene senza il permesso della società. Più volte la questione è finita nelle aule dei tribunali. Stiamo parlando, nella maggioranza dei casi, di giovani e giovanissimi che giocano per passione e che non di rado sono stati costretti a smettere perché, in rotta con un club, non sono stati liberati dal contratto. Carriere più o meno promettenti sono state interrotte per l’ostruzionismo di qualche dirigente. Fino a arrivare all’aberrazione di ragazzi che pagano la propria squadra per tornare in possesso del cartellino. Un passo in avanti è stato fatto: fino al 2002 il vincolo era a vita, ma sono in molti a pensare che sia tempo di eliminare questo legaccio. Qualche scappatoia esiste, come l’articolo 108 del regolamento, ma prevede una consensualità tra l’atleta e la società. “In questa situazione siamo solo noi e la Grecia” dice Damiano Tommasi. Ex di Roma e nazionale, è il presidente dell’Associazione italiana calciatori. La sua battaglia contro il vincolo va avanti da tempo: “E’ un limite alla libertà dei ragazzi e delle ragazze, perché riguarda anche il calcio femminile – aggiunge – E’ una norma discutibile che genera storture e spinge i giovani a mollare l’attività, andrebbe del tutto eliminata. Purtroppo a qualcuno va bene così”. La resistenza arriva dai presidenti delle società, per cui verrebbe meno una fonte di introiti rilevante. “Si rischia di far saltare i settori giovanili e favorire solo i professionisti”, sostengono. Il semaforo rosso alla proposta di Tommasi arriva anche da Carlo Tavecchio presidente della Lega dilettanti: “Si deve esprimere il Coni, il vincolo riguarda tante federazioni, non si può agire unilateralmente”. Alla domanda se lui, personalmente, sarebbe per l’eliminazione Tavecchio non risponde.
LA QUESTIONE IUS SOLI. “E’ tempo di introdurre lo ius soli nello sport italiano”. Il testimonial d’eccezione, il ct della nazionale Cesare Prandelli, per ora non è riuscito a smuovere le istituzioni calcistiche. Alcune discipline hanno fatto da sè: il cricket e l’hockey su prato considerano italiani a tutti gli effetti i giocatori di origine straniera nati in Italia. Boxe e atletica studiano modifiche ai loro regolamenti. A giugno la Figc ha approvato nuove norme che liberalizzano il tesseramento degli stranieri nei campionati minori e li equiparano agli italiani. Ma il problema è sempre lo stesso: lo ius sanguinis, la norma sulla cittadinanza che, a differenza di altri paesi europei, non include i figli di migranti nati sul nostro territorio. Per giocare serve il permesso di soggiorno in regola. “Oggi i giovani di seconda generazione preferiscono praticare altri sport. Il pallone non concede possibilità di ascesa sociale” dice Mauro Valeri, direttore dell’Osservatorio sul razzismo nel calcio, secondo cui “la burocrazia disincentiva e a volte impedisce l’accesso al campo ai ragazzi”. Alla base di tutto ci sono le direttive internazionali per impedire la tratta di minori, la legge italiana ha fatto il resto. “Qualcuno dà un’interpretazione restrittiva delle normative europee prosegue altri dicono di volere tutelare il vivaio italiano, infine ci sono gli aspetti economici. A rimetterci sono giovani nati e cresciuti qui”. “Non so se siamo pronti per un cambiamento, ma so che è necessario – dice Damiano Tommasi – Bisogna offrire una soluzione a tutti quei ragazzini che dopo una lunga trafila trovano la porta chiusa”. Anche Carlo Tavecchio, numero uno della Lega Dilettanti si dice “favorevolissimo” allo ius soli. “Come si può dire a un adolescente che non può giocare? - si domanda - Solo in Lombardia sono più di 100mila i minori che giocano a calcio e molti di loro sono stranieri. Chissà quanti non possono più farlo per via dei documenti. La mia speranza è che le cose cambino. Subito, entro il prossimo anno”.
"Strani acquisti", il secondo capitolo del libro "Palle, calci e palloni (s)gonfiati".
Giornata pesantuccia. Divisa tra ufficio, viaggi in auto attaccato al telefono per rincorrere il direttore o parlare con un genitore tranquillo, uno agitato, un calciatore ansioso, tra belle notizie e brutte sensazioni. Il tutto sempre con la stramaledetta aria condizionata accesa che poi scendi e ci sono trenta gradi, e se non svieni subito, stai sicuro che domani sarai senza voce. È tardi, e nonostante tutto hai ancora un po’ di spazio da dedicare al calcio, il mercato è iniziato da pochi giorni e la sera ti diverti a sentire le notizie – per lo più fantasie – che in tv danno in pasto ai tifosi sempre pronti a sognare. Sei mezzo addormentato, è il “tin” del telefono a svegliarti. Il tuo amico, cui non sfugge mai nulla sui movimenti dei calciatori e sulle loro carriere, ti manda un sms con alcuni nomi.
– Li conosci?
– No. È un quiz?
– Più o meno…
– Dove giocano?
– Chiedimi prima dove giocavano!
– Eh, dimmelo tu.
– Lega Pro ma pochissime presenze. Prima, alcuni, quasi mai in campo nei dilettanti.
– Ok. Quindi?
– Oggi hanno firmato tutti per una squadra in Serie A.
Se non fosse che ormai non ti stupisci più di nulla, l’annuncio meriterebbe una caduta dal divano, invece sai che nel calcio miracoli come questo possono sempre avvenire.
La buona notizia? Un calciatore tra i 21 e 23 anni che negli ultimi quattro ha messo a curriculum meno di cinque presenze tra i professionisti e pochissime nel campionato dilettanti, non deve disperare. Per lui c’è ancora una speranza e la possibilità di trovare chi crede nelle sue qualità – peraltro mai messe in mostra – è ancora concreta. Firmare un contratto con una squadra di Serie A – dove non giocherà mai, ma questo è un dettaglio trascurabile – non è infatti un miraggio.
La brutta notizia? Non si tratta di una bella storia di calcio da raccontare. Perché qui non si parla di un traguardo raggiunto grazie a tante presenze, buone prestazioni e gol segnati nelle serie minori, ma di un triplo salto in avanti per un calciatore con esperienza quasi nulla nel calcio che conta.
E non è normale.
Visto che sei buono, troppo buono – te lo dicono sempre! – provi ad analizzare la faccenda cercando una spiegazione “romantica”. In passato è successo e può ancora capitare che un talento sfuggito all’attenzione dei più, per miracolo, venga notato e arrivi in serie A. Però quattro miracoli in un solo giorno e in un’unica squadra fanno vacillare pure il tuo lato sentimentale.
Una società di serie A che deposita quattro contratti di giocatori svincolati che hanno giocato poco o niente e, magari, provengono pure da squadre retrocesse o fallite è argomento su cui riflettere.
È grande capacità nell’attività di scouting?
Fortuna?
Business?
O è solo una porcata?
Al telefono, con il tuo amico, fai fatica a trovare una spiegazione logica senza tirar in ballo la solita parola, quella che come un passepartout apre porticine, porte e portoni.
Sponsor. Sponsor. Sponsor! Sempre e ancora sponsor!
Ad avvalorare la tesi, arriva una ulteriore notizia che il tuo amico trova in rete e ti legge in diretta: i contratti depositati non sono quattro ma cinque. E il quinto nome è quello di un ragazzo che conosci bene, non personalmente ma di fama. Giocatore giovane, non un fenomeno ma nemmeno un brocco, che nell’ultimo anno – in II divisione – ha di sicuro giocato una partita, due intere non credi e tre no di certo. Mentre il precedente – nei dilettanti – ha messo il piede sul terreno di gioco con più frequenza, a differenza dell’anno prima ancora, nei professionisti, dove il campo non lo ha mai visto. Poca esperienza compensata da genitori con il portafoglio pieno e pesante, pronto a essere aperto e alleggerito davanti alla proposta giusta. Proposta che, ovvio, ogni anno non tarda ad arrivare e loro accettano con ingiustificato orgoglio. Ecco la caratteristica necessaria per ricevere il miracolo! Sei pronto a scommettere che, nella società che li ha tesserati, i cinque ragazzi non metteranno piede nemmeno per firmare il contratto. Andranno a farsi le ossa, a crescere– questa sarà la motivazione del loro ulteriore trasferimento – in chissà quale altra squadra (compiacente) di una serie minore dove, con un po’ di buona sorte, uno dei cinque potrebbe anche riuscire a emergere. Ma non in serie A, è garantito. Il tuo amico segue gli sviluppi di questa operazione di mercato e tiene sotto controllo le notizie attraverso i comunicati della società e gli effettivi contratti depositati. Quarantotto ore dopo, infatti, i ragazzi finiscono ceduti in prestito tutti in società di Lega Pro.
Capita.
Oggi. Sempre di più.
Ma non è calcio.
Luca Vargiu * dal libro Palle, calci e palloni (s)gonfiati.
La presentazione della prima fatica letteraria di Luca Vargiu, “Palle, calci e Palloni (s)gonfiati", su “Campioni.cn”. Davanti a una numerosa platea, sul palco del teatro allestito riproducendo fedelmente la copertina del libro con una panchina, scarpe da calcio da una parte e accanto a una borsa di lavoro un pallone sgonfio con a fianco un'antica pompa per gonfiarlo, l'assessore allo Sport del Comune di Carrù Nicola Schellino ha fatto gli onori di casa e chiacchierato con l'agente di calciatori sulle varie situazioni raccontate all'interno del libro. "Non sono uno scrittore - ha chiarito subito Luca - non ho mai pensato di esserlo e soprattutto non lo sarò mai, i libri preferisco leggerli ma è successo che a un certo punto della mia vita ho avuto una storia da raccontare e che da più parti mi è stato detto che avrei dovuto raccontare. Ci sono voluti quasi due anni per raccogliere gli appunti presi e svilupparli ma alla fine ci sono riuscito." Se la vita professionale dei "procuratori" famosi è dalla maggioranza delle persone conosciuta o quantomeno facile da immaginare, non lo é quella di una agente che deve farsi spazio arrivando dal nulla. “Diventare un agente di calciatori? Non è un’impresa impossibile! Il difficile arriva dopo, perché sopravvivere, fuori e dentro al campo, richiede un fisico allenato. Tocca scontrarsi con un mondo competitivo, poco corretto, dribblare umori e malumori di giovani promesse (e non), agguerritissime famiglie, scaltri dirigenti e professionisti (quando va bene) pronti a tutto per portare a casa il risultato. La gavetta – tra spogliatoi, campetti, false promesse e grandi illusioni – di un Fifa Players Agents alle prese con lo sport più amato dagli italiani.” E quanto scritto in quarta di copertina. "Nel libro, raccontando la mia esperienza, non voglio accusare qualcuno in particolare, se non un sistema che da troppo tempo funziona nel modo sbagliato e dove nessuno sembra davvero avere intenzione di cambiare qualcosa. Come verrà accolto il libro dal mondo del calcio? Non mi sono posto questo problema, ma credo bene dalla maggioranza delle persone. Del resto non racconto nulla di particolarmente nuovo, ho solo il coraggio di farlo. Certo è che se qualcuno si riconoscerà nelle persone – o nei fatti - descritti dovra sicuramente farsi un esame di coscienza!” Luca Vargiu, genovese di nascita e maglianese di adozione è agente di calciatori. Nel 2010 ha fondato l'Agenziadelcalcio Football Management con sede a Moncalieri, specializzata soprattutto sul calcio giovanile oltre ad attività di consulenza a supporto delle società professioniste e dilettanti.
Palle, calci e palloni (s)gonfiati: il calcio dietro le quinte. In uscita il libro-denuncia del procuratore Luca Vargiu sulle storie vere del nostro pallone che in pochi conoscono, scrive di Emanuele Lubatti tratto da Il Sussidiario.net. Il calcio, bene o male, lo conosciamo tutti. Attraverso i programmi in tv, i notiziari, le dirette, le interviste, le ultime bombe di calciomercato buttate lì in prima pagina o la partita vista alla stadio. Ma c’è chi poi il calcio lo conosce veramente, perché nel calcio ci lavora, vede e si destreggia in prima persona fra trattative, tesseramenti, scouting e provini. Queste infatti sono le cose con cui un agente FIFA ha a che fare. Ma anche questo bene o male un po’ tutti lo sanno. Quello che invece non sanno è fino a che punto questo mondo sia contaminato e corrotto dai soldi. Luca Vargiu, agente FIFA da ormai cinque anni, ha deciso per la prima volta di parlarne senza filtri. Ed ha racchiuso tutte le sue esperienze, le sue delusioni, i suoi sbagli, le sue denuncie in un libro. Palle, calci e palloni (s)gonfiati è infatti il racconto dell’altra faccia del pallone, di quello che avviene sottobanco, quando non ci sono giornalisti, fotografi e tanto meno tifosi. Il tutto all’interno di un mondo in cui le regole sembrano fatte solo per essere trasgredite. Un libro sul calcio di chi però nel calcio (quello pulito) ci crede e ci spera ancora tanto. Non si fanno nomi e cognomi dei diretti interessati, non si punta il dito contro nessuno. Si tratta solo di storie vere che riflettono il malcostume generale. Dal presidente che offre un contratto al giovane calciatore solo dietro ad un lauto compenso della famiglia, alla famiglia stessa che non si tira indietro ad aprire il portafoglio pur di far giocare il figlio fra i professionisti. E poco importa se tanto non giocherà mai o se comunque l’investimento si dimostrerà solo una totale perdita di soldi. Perché poi tanto alla fine solo con i soldi non arrivi a giocare in serie A. Puoi arrivare però ad essere tesserato in un club di serie A anche se in quella squadra naturalmente poi non ci metterai mai piede. Di oltre mille persone iscritte all’albo degli agenti FIFA sono poi solo pochissimi quelli che tengono in mano le redini del mercato. Ma il numero si gonfia molto di più se si contano tutti i falsi e finti professionisti che, in barba a squalifiche o alle regole fissate per esercitare la professione, vanno in giro a vender fumo solo ed esclusivamente per riempire le proprie tasche. “Coraggioso” è il commento usato più di frequente dagli utenti sul web per definire il libro. “ Io non direi proprio coraggioso, quanto piuttosto sincero” ci tiene a precisare però Luca. La cosa che più di tutte ha colpito l’autore all’uscita del volume è comunque un’altra. “Mi arrivano messaggi da tutta Italia, dal Veneto alla Puglia, di lettori che mi dicono di aver capito perfettamente chi è il tal presidente o il tal direttore citato nel libro. La cosa buffa (e terribile al tempo stesso ) è che finora nessuno di questi ci azzeccato. Questo vuol dire quindi che comportamenti del genere rappresentano la norma in tutta la penisola e non sono solo dei casi particolari con cui io sono venuto a scontrarmi”. La sincerità comunque sembra per il momento pagare bene, perché le prime reazioni del pubblico sono positive. Tanto che su Amazon nella sotto-categoria “libri del calcio” Palle, calci e palloni (s)gonfiati si trova al primo posto scalzando pure le auto-biografie di Carlo Ancelotti e di Zlatan Ibrahimovic, non proprio dei nomi a caso insomma. La novità è che fra qualche mese sarà disponibile in e-book la traduzione in inglese, per sbarcare anche nel mercato d’oltre-Manica. In Italia invece è in arrivo sugli scaffali di tutte le librerie delle principali città, e verrà presentato a Roma, Milano, a Firenze e in alcune scuole calcio. La cornice più suggestiva sarà però senza dubbio a Potenza, all’interno del carcere. Per fare ancora in modo che il pallone non si (s)gonfi del tutto. Utopia? Forse…
Acquisti raccomandati, rapide scorciatoie, tanti soldi, tantissimi interessi, pochissima (e rarissima) sensibilità, scrive Emanuele Lubatti su “EpochTimes”. Questo è il calcio, o meglio anche questo è il calcio, quel calcio che non tutti conosceranno perché sta un po’ nell’ombra, non viene mostrato luccicante davanti alle telecamere, ma è il piedistallo su cui si regge l’intera baracca. Luca Vargiu agente Fifa dà il suo punto di vista dall’interno nel suo libro ‘Palle, calci e palloni (s)gonfiati’ : la storia di un procuratore di giovani calciatori all’interno di una jungla priva di scrupoli. Intervista all'agente Fifa, autore del libro 'Palle, calci e palloni (s)gonfiati': «Nel calcio ci son tante cose che non vanno come dovrebbero andare, ma a nessuno interessa».
Gli abbiamo fatto alcune domande….
Partiamo dall’inizio: come hai cominciato la tua attività di agente Fifa?
«Non era nei miei piani, ma seguendo un cugino calciatore (Manuel Vallati, attualmente in forza al Benarzole, ndr) ho potuto frequentare da vicino il mondo del calcio giovanile rimanendone impressionato. Negativamente però. Tanta gente di poco valore che gira intorno ai ragazzini, vendendo sogni e certezze. Un mondo particolare che ho deciso di affrontare spinto dalla richiesta del mio piccolo parente di essere seguito da me e anche dalla voglia di cambiare le cose (progetto molto ambizioso, lo so!). Così da perfetto estraneo ho sostenuto l'esame, superandolo nel 2009.»
Quando si parla di procuratori di calcio l’associazione di idee che scatta quasi inconsciamente è: tanti soldi, tanti interessi e -perché no - anche tanta avidità (in due parole Mino Raiola)… Quanto ti senti diverso da questo stereotipo?
«Molto, tanto da essere visto da molti come un alieno. Certo tutti pensano che questo sia un mondo semplice fondato su soldi, successo e denaro. Tanto denaro. Ovviamente la realtà è diversa. Per alcuni è così ma per la stragrande maggioranza è veramente difficile riuscire a crearsi uno spazio, basta pensare che su oltre 1000 agenti iscritti all'albo sono, purtroppo, veramente pochi quelli gestiscono il mercato. Senza contare il mondo dei finti agenti che agiscono soprattutto nelle serie minori e che fanno solo danni in giro. Raiola? Non è il mio riferimento. Ha sicuramente delle capacità ma anche troppo potere e questo non è mai positivo.»
Quali calciatori hai come tuoi assistiti?
«Ovviamente per farmi largo in questo mondo devo puntare sui giovani. Grazie ai miei collaboratori cerco di individuare i giovani più promettenti da proporre a società professioniste. Compito non facile, e soprattutto che non dà risultati immediati e certi. Un ragazzino che incontri a 14 anni, lo aiuti a crescere e dopo qualche anno può esserti portato via in qualsiasi momento da colleghi più quotati.»
Nel tuo esordio letterario in uscita nelle prossime settimane ‘Palle, calci e palloni (s)gonfiati’ ci parli da dietro le quinte del calcio di oggi fatto di ipocrisie e, per l’appunto di palloni gonfiati…. Cosa c’è di marcio in tutto questo mondo?
«Ci sono molte cose che non vanno come dovrebbero andare, ma quello che più spaventa è che sembra che a nessuno interessi cambiare l'ordine delle cose. Il controllo è insufficiente e si è dato per troppo tempo potere a persone non qualificate. I risultati sono questi. Zero competenza e zero professionalità. Tutti sono complici, perché per un dirigente che propone scorciatoie c'è sempre dall'altra parte qualcuno che per una scorciatoia è pronto a fare qualsiasi cosa. Alla lunga il pallone si può solo sgonfiare. Per fortuna ci sono tante persone valide che a fatica riescono a emergere, quindi possiamo dire che c'è ancora speranza!»
Come definiresti questo tuo libro e da cosa è nata l’idea della scrittura?
«Sono così tante le situazioni particolari in cui mi sono trovato, i personaggi ambigui incontrati, le soddisfazioni, le facciate prese contro il muro e le sensazioni provate in questi miei primi anni di attività, che arrivati a un certo punto l'idea di raccogliere tutto questo in un racconto è venuta spontanea. Non sono uno scrittore, ma avevo necessità di raccontare la mia storia fatta di aneddoti che in pochi raccontano: la vita di un agente di calciatori che spuntato dal nulla prova a muoversi in un mondo difficile come quello pallonaro. Per fortuna, dopo tanti mesi di lavoro, se stiamo a parlare di prossima uscita significa che quanto scritto è venuto fuori abbastanza bene e ha superato l'esame!»
Da scopritore di talenti, dacci un pronostico sulla nuova stella emergente della seria A…
«Purtroppo a differenza dell'estero in Italia si rischia poco e i giovani in Serie A non hanno moltissimo spazio. Uno che promette bene? Vrsaljko del Genoa.»
Quali qualità deve avere un aspirante calciatore e quanto conta purtroppo, anche nel mondo del calcio, essere raccomandati?
«Fenomeni a parte, che sono una rarità ricordatelo! Credo che l'impegno, il lavoro, il sacrificio uniti alla testa sul collo sono gli ingredienti principali. Poi c'è la componente fortuna che è determinante. Di raccomandati anche il calcio è pieno, difficile riescano a fare molta strada, il problema è che di fatto però tolgono spazio agli altri che invece hanno qualità e potrebbero giocarsi le proprie carte onestamente.»
Come funziona di solito l’approccio del ragazzino di provincia alla realtà del grande calcio nazionale? È facile ‘perdersi’?
«In generale è facile perdersi per tutti. L'errore più grande è quello di pensare di essere arrivati non appena si mette piede in una società professionistica. La realtà dice che solo uno ogni diverse migliaia di ragazzi riesce ad arrivare. Questo è un dato che dovrebbero tenere a mente tutti. Per affrontare meglio l'avventura e allo stesso tempo per dare il massimo.»
Procuratori, non è tutto oro quel che luccica, scrive Gian Luca Ferraris su “Panorama”. Per comprendere quanto si stia sgonfiando il pallone italiano sarebbe bastato farsi un giro a fine gennaio all’Atahotel Executive. Tanti scambi, molto usato sicuro, pochissimo cash. Colpa della crisi che ha impattato in maniera pesante, delle gestioni scellerate del passato oggi messe a dura prova dai dettami del Fair play finanziario. Ma secondo molti anche dell’onnipresenza dei procuratori, vere e proprie arpie capaci di spingere i loro assistiti all’ammutinamento e le squadre di appartenenza a svenarsi con contratti sempre più onerosi. Dove sta la verità? A pochi giorni dal termine della sessione di mercato invernale più triste e squattrinata che si ricordi, Panorama.it lo ha chiesto a Luca Vargiu, procuratore professionista e autore di un recente ebook, Palle, calci e palloni (s)gonfiati, che sta facendo parecchio discutere gli addetti ai lavori.
Il pallone si sta davvero sgonfiando?
«Direi di sì. Al di là delle ovvie conseguenze legate al fatto che girano meno soldi di un tempo, ci sono molte cose che non vanno come dovrebbero andare nel business del calcio. Ma quello che più spaventa è che sembra che a nessuno interessi cambiare l’ordine delle cose. Il controllo è insufficiente e si è dato per troppo tempo potere a persone non qualificate. Con risultati che sono sotto gli occhi di tutti: mi riferisco al mio settore, ma non soltanto.»
Facciamo un esempio concreto.
«Tra le soluzioni con cui molti presidenti e dirigenti federali si riempiono la bocca c’è il recupero dei vivai. Ebbene…»
Ebbene?
«Lo scorso fine settimana ero in Francia, a visionare una partita di Ligue 1. Tra campo e panchina c’erano un classe 1996, un 1995, un 1994, due 1993 e almeno una decina di 1992. Ha mai visto una squadra italiana di serie A fare lo stesso?»
Sinceramente no.
«Eppure valorizzare i giovanissimi resta la strada maestra da battere: oltre a essere economicamente più convenienti nel lungo periodo, sono anche un modo per creare plusvalenze “fatte in casa” e alzare il livello complessivo. Solo così si possono sbloccare investimenti necessari a riaprire cicli vincenti.»
In Italia non si salva nessuno?
«Anche ai massimi livelli l’assenza di liquidità porta tutti i dirigenti a concentrarsi sul breve periodo. L’unico che ha investito e continua a investire soldi veri, favorito dai bilanci in utile e dal grande bacino d’utenza, è De Laurentis a Napoli. E infatti i risultati si sono visti. Certo, gli manca ancora qualcosa per fare l’ultimo salto di qualità. Ma non sempre sforzi coincidono con risultati sportivi.»
Come le è venuta l’idea di scrivere un libro su questo argomento?
«Non sono uno scrittore, non ho mai pensato di esserlo. Ma avevo delle storie da raccontare. Storie che molti addetti ai lavori conoscono ma che spesso anche il pubblico più appassionato ignora, convincendosi che tutti gli agenti lavorino e agiscano come Mino Raiola.»
Con il quale non mi pare corra buon sangue…
«Veramente quasi non ci conosciamo. Io lavoro soprattutto con i giovanissimi: in Italia gli agenti dotati di regolare patentino sono oltre mille, anche se poi sui giornali finiscono sempre gli stessi quattro o cinque. Il problema comunque non sono i big, che indubbiamente hanno delle capacità, ma un sistema che da troppo tempo funziona nel modo sbagliato e dove nessuno, ripeto, sembra davvero avere intenzione di cambiare qualcosa.»
Secondo lei perchè?
«Perchè il giocattolo, anche da scassato, continua a fruttare quattrini soprattutto per chi approfitta di storiche rendite di posizione. Calciopoli non ha insegnato molto: oggi come allora, l’80-90% del calciomercato passa nelle mani di una decina di persone, ciascuna con il suo carico di cortigiani e di conflitti di interesse. Rispetto al decennio scorso è cambiato qualche nome, ma la sostanza è la stessa.»
In Italia, la figura del procuratore ha qualcosa di mitico. Come si svolge realmente la vostra attività?
«Il procuratore calcistico, almeno nel nostro caso, non è soltanto colui che affianca un giocatore professionista al momento della firma del contratto. Ci occupiamo dell’immagine degli atleti, delle loro esigenze, delle aspettative economiche e professionali. Che non sono le stesse per tutti. Nel caso dei giovanissimi che seguo prevalentemente, poi, è sempre importante coinvolgere le famiglie in ogni decisione.»
Quali qualità deve avere un aspirante calciatore e quanto conta purtroppo, anche nel mondo del calcio, essere raccomandati?
«Fenomeni a parte, l’impegno, il lavoro, il sacrificio uniti alla testa sul collo sono gli ingredienti principali. Poi c’è la componente fortuna che è determinante. Di raccomandati anche il calcio è pieno, difficile riescano a fare molta strada, il problema è che di fatto però tolgono spazio agli altri che invece hanno qualità e potrebbero giocarsi le proprie carte onestamente.»
Come funziona di solito l’approccio del ragazzino di provincia alla realtà del grande calcio nazionale? È facile perdersi?
«In generale lo è per tutti. L’errore più grande è quello di pensare di essere arrivati non appena si mette piede in una società professionistica. La realtà dice che solo uno ogni diverse migliaia di ragazzi riesce ad arrivare. Questo è un dato che dovrebbero tenere a mente tutti. Per affrontare meglio l’avventura e allo stesso tempo per dare il massimo.»
Quali sono le tariffe comuni?
«Per la procura, il nostro onorario oscilla tra l’1 e il 15% del contratto lordo siglato da un calciatore professionista. In genere, la maggior parte dei nostri assistiti versa il 5-10% dell’ingaggio. In sede di calciomercato, abbiamo anche la possibilità di offrirci come mediatori tra due squadre, a patto che il giocatore conteso non sia un nostro atleta. In questo caso sono le società a corrisponderci un onorario. Altre volte si lavora a forfait.»
Come è di moda oggi in politica, proviamo a stilare un elenco delle riforme più urgenti da fare per tutelare l’attività dei procuratori ma anche per salvare la baracca nel suo complesso.
«Occorre instillare nella testa di tutti un approccio culturale diverso, che necessariamente dovrebbe passare anche per sanzioni più severe contro chi sgarra: procuratori, dirigenti, ma anche soggetti borderline che spesso fanno da sponsor a questo o quel ragazzino. Vanno evitati gli oligopoli e servono controlli più severi sulla situazione patrimoniale dei club, soprattutto nelle serie inferiori, perchè spesso è lì che comincia il far west. E andrebbero introdotte norme a favore dell’impiego di giovanissimi in tutte le categorie.»
ALLENATORI DI CALCIO. MAFIA O CASTA?
Allenatori: tutti gli stipendi del 2013 stilati da Matteo Politanò su “Panorama”.
Dopo l'annuncio dell'accordo tra Pep Guardiola e il Bayern Monaco qualche dirigente dei bavaresi deve aver riso sentendo le voci provenienti dall'Italia. Giornalismo alla ricerca dello scoop senza sapere che in una stanza della sede di Monaco, già dopo Natale, il tecnico spagnolo aveva siglato l'accordo fino al 2016 per 8 milioni di euro netti a stagione. Guardiola alla Roma, Guardiola al centro del prossimo progetto Milan. Voci improbabili e, alla luce del nuovo contratto con il Bayern, impossibili. L'arrivo dello spagnolo in Germania non può infatti essere unicamente legato al progetto tecnico del club tedesco, come dichiarato dal tecnico, bensì ad un accordo economico per un totale di 24 milioni di euro netti, cifre impossibili per l'Italia. Dati alla mano il calcio della penisola non è infatti in grado di reggere la concorrenza spagnola e inglese ma anche quella tedesca, campionato che ha ormai superato la serie A per organizzazione, mole di introiti, spettatori e chi più ne ha più ne metta. Guardiola deve aver dato un'occhiata alla classifica degli stipendi della serie A, una graduatoria che dall'addio di Mourinho si è sempre più livellata verso il basso. Non a caso l'allenatore più pagato è Antonio Conte della Juventus con 3 milioni di euro, cifra che nessun altro allenatore in Italia raggiunge. Ecco il perché della fuga all'estero dove Ancelotti, Lippi, Capello, Mancini e Spalletti guadagnano il triplo della somma di tutti i tecnici della serie A. Dati emblematici che hanno reso l'arrivo di Pep Guardiola unicamente un sogno.
Gli allenatori italiani all'estero:
Ancelotti 13,5 mln di euro
Lippi: 10 mln di euro
Capello: 7,8 mln di euro
Mancini: 5,9 mln di euro
Spalletti: 3,3 mln di euro
totale: 40,5 mln di euro
Gli allenatori della serie A:
Conte: 3 mln di euro (2015)
Mazzarri: 2,5 mln (2013)
Allegri: 2,4 mln (2014)
Zeman: 1,4 mln (2014)
Stramaccioni: 1,1 mln (2015)
Montella: 1 mln (2014)
Delneri: 1 mln (2013)
Pioli: 0,9 (2014)
Donadoni: 0,9 (2013)
Guidolin: 0,8 (2015)
Ventura: 0,8 (2014)
Colantuono: 0,7 (2014)
Petkovic: 0,6 (2014)
Delio Rossi: 0,5 (2013)
Gasperini 0,45 (2014)
Corini: 0,4 (2013)
Maran: 0,35 (2014)
Iachini: 0,3 (2013)
Stroppa: 0,3 (2013)
Pulga/Lopez 0,3 (2013)
Totale: 19,3 mln di euro
La Casta è uno stato d’animo, scrive Massimo Gramellini su “La Stampa”. A furia di sentire parlare male soltanto di loro, qualche lettore potrebbe essersi illuso che i politici rappresentino un’eccezione, la gramigna che una volta strappata fa rivivere il prato senza bisogno di interventi ulteriori da parte del giardiniere. Tocca invece ricordare che la Casta non è un gruppo di persone, ma uno stato d’animo diffuso. Il novarese F. R. segnala questa piccola storia emblematica. Riguarda l’associazione degli allenatori di calcio, uno dei tanti benemeriti sindacati di categoria che arricchiscono la nostra democrazia. Il presidente nazionale ha 71 anni, è in carica dal 2004 e dopo avere proposto un limite di due mandati si è rassegnato a farne un terzo. Il presidente regionale di anni ne ha 70 ed è in carica da 23: ha accettato la poltrona per altri 4 e se n’è scollato solo quando finalmente gliene hanno offerta un’altra. Il presidente provinciale è lì da più mandati, ma convoca un’assemblea carbonara dove su cinquecento iscritti se ne presentano ventidue, che lo rieleggono per acclamazione e si assegnano undici cariche, così la metà dei convenuti può uscire dalla sala agitando in testa qualche pennacchio. Sono sicuro che queste eminenti personalità hanno una pessima opinione della classe politica e ne auspicano l’immediata rottamazione. Mi ricordano quella signora che, il mattino della vittoria del referendum di Segni contro la partitocrazia, entrò nel bar in cui mi trovavo, agitando festosamente il giornale: «Si cambia! Viva il nuovo, viva le regole!». Dietro di lei un ragazzo chiese: «Di chi è la macchina in doppia fila che blocca il traffico?». La signora delle regole sbuffò ed estrasse le chiavi dell’auto dalla borsetta.
Benvenuti a
Coverciano, scuola di panchina.
Vita da aspiranti allenatori: ecco cosa studiano gli ex campioni,
e non, che sognano un nuovo mestiere. A Coverciano corsi sul Barça o sul
pressing, e dritte su come cavarsela nelle interviste..., scrive Benedetto
Ferrara su “La Repubblica”. Dal Canto Alessandro. Presente. Mangia Devis.
Presente. Baggio Roberto. Presente. Toh, c'è anche Antonio Carlos Cerezo detto
Toninho, insieme ad altre facce un po' intimidite dal primo giorno di scuola, ex
ragazzi coi blocchi per appunti sottobraccio e la penna infilata nella giacca
modaiola o nel giubbotto superfico. Tutti in classe, nell'aula magna del centro
tecnico di Coverciano. Sono trentuno. L'ingrigito Baggio si ritrova davanti,
dall'altra parte della cattedra, uno dei suoi molteplici mister, cioè Renzo
Ulivieri, presidente dell'Associazione allenatori e coordinatore del master per
futuri tecnici abilitati a tutto e di più. A giugno l'esame. Subito dopo chi è
promosso dovrà preparare una tesina a tema. Se tutto fila liscio partirà la
caccia alla panchina. Ma prima del tesserino c'è un campionato fatto di lezioni
e compiti a casa. Tutti i secondi lunedì e martedì del mese. Dieci ore di
lezione il primo giorno, 8 il secondo. Training intensivo, insomma, un po'
università e un po' Cepu per la serie dai dai che ce la puoi fare anche tu.
Anche se, dice il regolamento, se frequenti il corso puoi già allenare. Tipo
foglio rosa. E tipo il giovane Mangia, che si è presentato in classe dopo la
batosta del Palermo in casa Milan. A fine gara si era preso tutte le colpe. La
sorridente risciacquata è arrivata al volo. "Prendersi tutte le responsabilità
davanti a una telecamera va bene una volta. Poi basta, però". Già, perché uno
studia anche un po' di scienza della comunicazione. Sedici ore in tutto. Una
infarinatura generale. "Quando lo facevo io c'era Italo Allodi che faceva finta
di intervistarti da giornalista vero. Se sbagliavi le risposte erano affari
tuoi. L'obiettivo era parlare dieci minuti senza dire niente", racconta
Ulivieri. Beh, il motto dovrebbe essere ancora valido, così a occhio. Comunque
qui girano parecchie dispense. C'è quella preparata dal prof. Tubi, ordinario di
psicologia dello sport all'università di Firenze. I giocatori la sbirciano. Le
cose da imparare sono tante. Ma poi uno chiede: esistono regole fisse nella
gestione dei rapporti coi giocatori? Beh, diciamo che ci sono codici di
comportamento universalmente riconosciuti. Un esempio? Eccolo: "Quando un vostro
giocatore sbaglia qualcosa e lo dovete correggere, mentre gli parlate
appoggiategli sempre una mano sulla spalla, così si sentirà incoraggiato. E
vostro complice". Trucchetti del mestiere. Che restano impressi nella mente
degli scolaretti, però. Ma oltre a psicologia, medicina dello sport, management,
studio del regolamento di gioco, delle carte federali e di teoria e metodologia
di allenamento, il maggior numero di ore (120 in tutto) è dedicato a lezioni di
tecnica e tattica calcistica. E qui niente libri. Semmai ricerche. Vi ricordate
quelle che facevate a casa sulla Valle D'Aosta o sulla deriva dei continenti?
Ecco. Qui invece si studiano più che altro il Barcellona e la deriva del calcio
italiano.
Perché non c'è dubbio che noi siamo rimasti indietro. Non che sia tutto da
buttare, però darsi una bella aggiornata non può che far bene. E allora ci si
divide in gruppi. Quattro, per la precisione. "Bene - dice il prof - il primo
gruppo dovrà studiare cinque partite del Barcellona, il secondo del Bayern, il
terzo dell'Arsenal e il quarto del Manchester United". Il che significa che tra
un mese gli alunni dovranno tornare con delle relazioni dettagliate fatte
sull'analisi della partite di queste quattro squadre. Modelli tattici
differenti, novanta minuti più recupero sezionati con dvd in pausa ogni quarto
d'ora. D'altra parte questo dovranno fare i futuri tecnici quando ogni martedì
rivedranno la partita coi giocatori. E poi uno, come dire, guarda e impara.
Anche se non sempre è così facile. Ma, per fortuna, poi arriveranno i
protagonisti stessi a parlare da quella cattedra. Pep Guardiola, per esempio,
quando passò da Coverciano fu molto chiaro nel dare a tutti la chiave per
decodificare il segreto della sua squadra. Si parla tanto di possesso palla, ma
pochi avevano capito la regola prima del tic e toc azulgrana. Questa: "Chi non è
pressato ha l'obbligo di avanzare, chi è pressato di passarla subito". Così fino
all'area avversaria. Poi da lì in poi ci sono varie soluzioni offensive per
trovare il gol, fenomeno Messi compreso. Presto da qui passerà Mazzarri. Tema:
la difesa a 3. Poi Prandelli il ct. Tema: la crisi del pressing. E, intanto, gli
alunni alzano la mano e uno chiede: "Ma quando arriva un esonero come si fa?" Il
prof aspettava questa domanda, che è un classico. "Il licenziamento è la
sconfitta più grande. Tornare a casa e spiegarlo alla moglie e ai figli... beh,
è lì che capisci se puoi fare questo mestiere. Ed è dopo quattro sconfitte che
capisci se sai parlare ai tuoi giocatori. Quindi rimboccatevi le maniche e
fatevi forza. Questo non è un mestiere per tutti". Campanella, tanti saluti e
una raccomandazione. La solita: non scordate di fare i compiti. Già.
Baggio entra nella casta degli allenatori, scrive Claudio Alberti. Baggio è diventato allenatore di base. E ha dimostrato ancora una volta quanto sia inutile e dannosa la casta di Coverciano, l'Associazione unica degli allenatori italiani, che ha diritto di vita e di morte sui tecnici del nostro Paese: per prendere il patentino, Baggio ha dovuto superare un esame di tecnica calcistica. C'è voluto un burocrate di Coverciano per attestare che Baggio (già pallone d'oro, FIFA World Player, ecc.) sa giocare con la palla. Ecco lo specchio di un Paese bloccato dalle caste, le corporazioni, le barriere all'ingresso, la burocrazia, lo spregio del mercato e dell'autorealizzazione. Ecco lo specchio di un Paese in cui un Presidente non ha diritto di ingaggiare, rischiando i suoi soldi, il tecnico che vuole, se prima questi non è passato sotto la lente dei burocrati di Coverciano. Peccato che questa lente si dimostri più che sfocata, visti i risultati magri, il gioco orribile delle nostre squadre, la precarietà totale dei tecnici sulle nostre panchine. Se non fossimo un Paese corporativo, ci saremmo accorti da tempo che Coverciano è una bestemmia contro il buonsenso. Ma purtroppo siamo un paese corporativo, e da oggi la casta ha un membro in più. Premetto che non ho nulla contro l'Inter, e che Mourinho mi è più che simpatico. Ma al derby di domenica tra Inter e Milan io tiferò per i rossoneri, proprio a causa dell'allenatore. A mio avviso, infatti, in questo momento il Milan è la squadra che gioca meglio in Italia, grazie alle intuizioni tattiche e alla flessibilità di Leonardo (si pensi alla gestione di Ronaldinho, Borriello, Seedorf, Nesta...). Tiferò Milan perché la vicenda di Leonardo è emblematica di questo paese. Perché Leonardo ha iniziato ad allenare prima di prendere il patentino da allenatore a Coverciano, e non sono state poche le polemiche per questa faccenda. Qui in Italia uno che aveva vinto un mondiale, una coppa intercontinentale, scudetti in 3 continenti diversi, e coppe su coppe da giocatore, disputando una montagna di partite in Champions League, e che, successivamente, era stato assunto come allenatore dai dirigenti della squadra più titolata del mondo (quindi non gli ultimi sprovveduti) avrebbe dovuto aspettare il timbro di un burocrate di Coverciano per poter lavorare. Un burocrate che magari in vita sua al massimo ha allenato una squadra in Promozione. Alla faccia della libertà, la casta degli allenatori ha costretto Leonardo a seguire corsi inutili con degli sconosciuti, facendogli perdere tempo prezioso per il suo lavoro (un grave danno alla sua impresa, quindi), pena l'impossibilità di svolgere una professione in cui era bravissimo. Allora spero che Leonardo vinca il derby di domenica e, perché no, anche lo scudetto. Alla faccia dei burocrati, e delle caste, e degli ordini professionali che distruggono questo paese. Sarebbe una piccola vittoria per chi vorrebbe scardinare questo sistema, per carità, ma la soddisfazione non mancherebbe comunque.
Tutti promossi tranne lui, Andrea Stramaccioni, scrive Libero Quotidiano. Il patentino d'allenatore, all'ultimo corso di Coverciano, l'hanno preso in tanti. Tra questi anche Fabio Grosso, Massimo Oddo, Gianluca Zambrotta, Fabio Cannavaro, Filippo Inzaghi e Marco Materazzi. Ma per il tecnico dell'Inter è arrivata una sonora bocciatura: "troppe assenze". L’ex tecnico dell’Inter ha presentato subito ricorso alla Figc che dunque gli consegnerà una deroga per sostenere comunque l’esame finale. Stramaccioni, infatti, era stato bocciato a causa delle tante assenze, figlie delle numerose trasferte – soprattutto europee- disputate nell’ultima stagione alla guida dell’Inter. Beffa delle beffe a far da "prof" al giovane Stramaccioni c'era pure il suo nemico numero uno: Massimiliano Allegri. Fra i numerosi docenti che si sono alternati in cattedra a Coverciano, da segnalare anche Cesare Prandelli e Luciano Spalletti. Ettore Messina, ex allenatore della Nazionale di basket, attualmente sulla panchina del Cska Mosca, ha parlato invece della gestione del gruppo. Durante le tre sessioni del master i corsisti hanno sostenuto stage formativi presso Fiorentina, Inter e Parma, dove hanno incontrato gli staff tecnici e assistito agli allenamenti delle varie squadre. Tra i promossi nomi alcune vecchie glorie del nostro campionato: Antonio Benarrivo, Giovanni Galli, Mark Iuliano, Ivan Juric, Riccardo Maspero, Sergio Porrini. Insomma tutti, tranne...Stramaccioni. Mazzarri se la ride.
Ma poi Stramaccioni è promosso con il massimo dei voti a Coverciano, scrive “La Gazzetta.it”. L'ex tecnico dell'Inter ottiene 110 dopo la bocciatura di luglio per troppe assenze. Promosso a pieni voti. Andrea Stramaccioni si prende una doppia rivincita: supera il Master a Coverciano dopo la bocciatura per troppe assenze arrivata il 5 luglio e dimostra, almeno in teoria, che lui l'allenatore può assolutamente farlo. Non vale la qualifica di dottore, né garantisce un contratto milionario, come del resto la laurea non dà diritto a un lavoro, ma quel 110 ottenuto sui banchi di scuola inorgoglirà Stramaccioni a pochi mesi dal divorzio dall'Inter. "Né rimandato né bocciato. Promosso col massimo! Bravo amore mio", ha twittato la moglie Dalila. Sui social network, ovviamente, i lettori si dividono: c'è chi ironizza su una Coverciano da chiudere e chi sostiene che Strama abbia sempre avuto buone idee. "In un momento di emergenza, di difficoltà ho pagato la mia inesperienza, non c'è niente di male nell'ammettere che in quel momento ho commesso qualche errore", ha detto Strama due settimane fa. Era il momento (e non è ancora terminato) di un'Inter tornata al top con Mazzarri. L'ex tecnico nerazzurro aggiunse anche che non sputa nel piatto in cui ha mangiato ed è probabile, allora, che ora stia applaudendo i suoi ragazzi tornati (almeno per il momento) invincibili e in salute. Poi, è chiaro, con quel certificato da 110 punti in tasca, un giorno conta di affrontarli, e magari batterli.
Rocca:
“Assurdo che allenatori che falliscono sempre trovino sempre una panchina”,
scrive “Pagine Romaniste”. Francesco Rocca rivela che il suo accostamento alla
Roma è stato solo un puorparler. Il tecnico della Federazione italiana, cui
sempre vengono fatti complimenti per la tenuta atletica dei suoi calciatori, e
considerato un ottimo maestro di calcio per i giovani, non è mai riuscito a
trovare una panchina importante. Ora lo stesso Rocca spiega, a Centro Suono
Sport, le motivazioni: “Professionalmente sono stato sempre osteggiato da
tutti, perchè professavo in un deserto, su un’idea di calcio basata sulla
fatica, sull’impegno. Non voglio passare per un Savonarola: io faccio il mio
dovere, e mi espongo per quelle che sono le mie idee. Le mie teorie mi hanno
portato a subire ciò che sanno tutti: io sono stato curato male e questa cosa
qui la porto avanti per tutta la vita. Quello che è successo a me, non deve
succedere agli altri“. Poi Rocca lancia una frecciata ai tanti
allenatori che vengono spesso esonerati e, altrettanto spesso, richiamati nella
massima serie, facendo apparire il mestiere di tecnico di serie A come una sorta
di casta:
“Io trovo scandaloso che allenatori che ogni anno falliscono sono sempre in
Serie A“. Negli ultimi tempi si era parlato di Rocca anche per quel che
riguardava la panchina della Roma, nel caso in cui fosse stato esonerato Luis
Enrique. L’allenatore conferma di aver parlato con i dirigenti della società
giallorossa, ma anche di non essere mai stato seriamente vicino alla panchina
romanista: “Con la Roma c’è stato solo un pourparler. Io mi prendo
responsabilità dirette, con i tifosi. Avendone un profondo rispetto, non vado a
fare cose per cui non mi sento di essere utile, nè per me nè per la Roma“.
Il tecnico della federazione dà anche il proprio giudizio su Luis Enrique, sul
calcio proposto dallo spagnolo e sul progetto che sta inseguendo la società: “L’allenatore
della Roma credo che stia facendo il meglio possibile, poi si prenderà le sue
responsabilità se dovesse sbagliare. Sta seguendo una sua linea, una sua
condotta. Io gestisco la mia squadra insieme al mio collaboratore. Però, ad
esempio, la preparazione la curo da solo e so quello che faccio cercando di
evitare infortuni e simili“.
“In Italia per allenare devi essere raccomandato o portare lo sponsor”: una testimonianza, scrive Alessandro Crisafulli su Il Quotidiano.net. “Da noi purtroppo è davvero dura emergere, o sei stato un ex giocatore di livello, o hai conoscenze importanti, o porti uno sponsor, altrimenti non se ne parla”. Così, Marco Resca, tecnico milanese di soli 32 anni, stufo di quello che, a suo dire, è l'andazzo italico, ha riempito il bagaglio di coraggio e ambizione e ha preso il “passaporto” per il calcio del Nord. Dopo un anno a farsi le ossa nei sobborghi di Londra, adesso è passato in quel di Eindhoven, a far risuonare i suoi dogmi calcistici tra il frusciar dei mulini a vento. Dogmi, tra l'altro, cristallizzati dopo corsi di formazione e aggiornamento in quattro Paesi, dall'Italia all'Inghilterra, dalla Svizzera all'Irlanda. Un coach “europeo”, dunque: niente male per un ragazzo che ha cominciato a 16 anni, all'Ac Lacchiarella, quando un mister gli chiese “mi dai una mano?”, scatenando la sua passione. “Le opportunità sono ovunque, ma non sempre sono dietro l’angolo – racconta Resca, oggi responsabile degli Under 17 dell'Rksv Reeze -. Così ho già lavorato in 3 paesi diversi e provo a mantenermi. Da noi devi portare visibilità perché oggi è questo che interessa, se poi sei anche valido meglio. Non dico che fuori dall’Italia sia il paese dei balocchi, ma c'è più meritocrazia”. Così, dopo una sfilza di panchine da queste parti (San Biagio Casarile, Zibido San Giacomo, Milano 3, Villanterio, fino al Pavia) sbarca in Inghilterra. Tra l'altro con già una collaborazione con l'Arsenal Soccer School, oltre che esperienze formative in casa Inter e Milan, come biglietto da visita. “In Inghilterra ho seguito l’under 16 del Sandgate FC – racconta - in aggiunta da marzo anche la squadra riserve del Southall FC un club semiprofessionistico dell’ovest Londra. Un anno di crescita e ricco di soddisfazioni. Londra però è stato un punto di passaggio, dove ho studiato la lingua e seguito vari corsi, in modo da essere pronto per qualsiasi altra destinazione”. Così, nell'estate 2012 trova casa in Olanda, dove allarga ancora il ventaglio delle sue competenze ed esperienze. “Sono felice qui – spiega - anche se mi mancano le tensioni del nostro calcio e la professionalità che cerchiamo di mettere in ogni seduta e gara per cercare di ottenere il risultato. In Inghilterra il calcio a livello dilettantistico è un divertimento, nulla più, e per questo è difficile creare una buona mentalità di lavoro. In Olanda è più interessante perché più vicina alla nostra mentalità e si trovano strutture di ottimo livello”.
Perché a Christian Riganò viene negato il diritto di fare il corso per allenatori? Si chiede Calciomecato.com. Ed ecco che Christian Riganò, protagonista di una favola calcistica italiana che da muratore liparota lo vide dardeggiare quale decisiva saetta delle doppia promozione viola, quella della C2 e quella della B, non potrà avere, o comunque non in tempi congrui, la chance di guidare un gruppo di ragazzotti in calzettoni ai quali il nostro potrebbe insegnar molto su temi come l’impegno, la vita, la serietà e i valori reali del mondo. Si badi bene, non la chance di allenare una squadra, poiché quella – nel libero mercato – può dargliela solo un presidente che sceglie di credere in lui, ma la chance di fare un corso per diventare allenatore. La chance di andare alla scuola degli allenatori. La chance di apprendere. Il diritto di imparare per poi misurarsi col mondo e col mercato. Nel paese d’Italia, nella sua federazione calcistica, pare non sia data ad un uomo come Christian Riganò, la possibilità di misurarsi in un’altra grande sfida sportiva e professionale, si legge su Squer.it. Non è data a colui che ha vinto la grande sfida sportiva e professionale di riportare una gloriosa squadra come la Fiorentina dagli ingiusti oblii della C2 alla serie A. Nel paese della federazione che una decina d’anni fa concesse al delfino di qualche potente d’allora – un Roberto Mancini che, va detto, ha poi ampiamente ripagato la fiducia – di allenare con deroga e senza patentino una Fiorentina maledetta. Nel paese della federazione al cui corso di allenatori due mesi fa è stato clamorosamente bocciato Andrea Stramaccioni che pure ha già allenato in serie A solo perchè un ricco e potente presidente voleva togliersi lo sfizio di affidargli la panchina dell’Inter. Nella federazione di questo paese Christian Riganò non può, per ora, accedere alle lezioni del corso di Coverciano. Perché non risponde pienamente ai parametri. Parametri che di una persona ignorano i meriti. Il cervello. Il cuore. E le palle.
Intervistato dal quotidiano Il Giorno, l'ex giocatore blucerchiato dal '93 al '95 Marco Rossi ha commentato il suo passaggio nel club ungherese Honved. Ecco quanto riportato dai colleghi di tuttolegapro.com: "Si è verificata l’opportunità e ho deciso di coglierla. In Italia è impossibile fare l’allenatore, non dico nelle serie maggiori, ma di sicuro in C1. In queste categorie nel nostro paese non c’è meritocrazia, ma tante raccomandazioni".
Per chi non ha mai giocato, oggi, in Italia, è difficilissimo se non impossibile diventare allenatore professionista. Intanto bisogna acquisire il tesserino di allenatore di base (e questo è semplice) che si fa sostenendo un esame (a pagamento) presso le sedi regionali della FIGC, di solito su proposta di una società con la quale si collabora attivamente. A questo punto si deve acquisire il tesserino di Allenatore di 2° categoria, con specifico esame a Coverciano, che abilita ad allenare fino alla Serie C e le formazioni Primavera delle società professionistiche. Già qui iniziano i problemi, dato che per essere ammessi ai corsi, che sono a numero chiuso, bisogna entrare in graduatoria. I titoli di studio danno pochi punti per la graduatoria stessa, mentre anche poche partite da professionista o semipro ne danno moltissimi. Visto che sono moltissimi i calciatori che fanno domanda ad ogni corso, per coloro che non hanno punteggio è virtualmente impossibile essere ammessi. Io ho conosciuto fior di giocatori che hanno disputato varie partite di Serie A e B che sono stati rifiutati ai corsi in quanto aventi un punteggio troppo basso. Comunque, dopo aver avuto il tesserino di Allenatore di 2° categoria, si può chiedere di essere ammessi al corso di Allenatore Professionista, che ha le stesse modalità di accesso del precedente, ma con un numero di domande di ex calciatori ancora più alto e con un numero di posti disponibili molto basso; praticamente un'utopia sperare di entrarci. Esistono comunque altre 3 vie per poter scalare questa ardua montagna. Ogni anno 1 posto ad ogni corso è riservato ad una persona segnalata dalla FIGC regionale, per cui operando attivamente in FIGC, dopo vari anni, si può sperare di essere da questa raccomandati e riuscire ad entrare (ma vale solo fino al corso di 2°). La seconda strada è quella di... vincere. Nel senso che, ottenendo il tesserino di Allenatore di Base ed allenando una squadra dilettanti, vincendo i campionati ed essendo promossi alla Seconda Divisione, automaticamente si acquisisce il diritto di partecipare al corso di allenatore di 2°. A questo punto continuando ad allenare, per esempio in C, e vincendo il campionato ed essendo promossi in B, si acquisisce l'ulteriore diritto di partecipare al corso di Allenatore Professionista. Ultima via è quella estera. Allenando all'estero, dove non servono particolari abilitazioni o tesserini per essere assunti come allenatore in una squadra, e disputando vari campionati di buon livello, si acquisisce il diritto, per meriti sportivi conseguiti all'estero, di partecipare al corso. Tutto ciò a causa della anomalia tutta italiana dell'Associazione allenatori che mette vincoli e paletti per generare una casta di privilegiati poco attaccabile da esterni al calcio stesso...
Come si diventa allenatori. Grazie all'AIAC, che sul numero 2/99 della rivista "l'allenatore" ha pubblicato un articolo di facile comprensione che sintetizza tutti i passaggi necessari per ottenere le varie qualifiche di allenatore, siamo in grado di fornire informazioni dettagliate al riguardo. Ecco di seguito spiegata la lunga e tortuosa strada che porta dal campetto dell'oratorio alla serie A. I livelli di brevetto previsti dalla FIGC sono tre:
Allenatore di Base UEFA
Allenatore Professionista di 2a Categoria
Allenatore Professionista di 1a Categoria
Allenatore di Base UEFA. Corsi indetti ed organizzati dai comitati regionali della Lega Nazionale Dilettanti. Una volta inoltrate le domande di ammissione, un'apposita commissione stilerà la graduatoria di merito in base ai titoli sportivi per l'attività svolta sia da calciatore che da allenatore. Età minima: 25 anni. Età massima: 55 anni. Numero massimo di allievi ammessi per ogni corso: 40. Costo: lit. 1.400.000, comprensivo delle spese per i libri di testo e l'assicurazione. Durata del corso: 5 settimane, 120 ore di lezione | Pre esame pratico di tecnica calcistica, non necessario per gli ex-professionisti. Con il "patentino" di Allenatore di Base si possono condurre tutte le prime dalla 2° cat. al C.N.D., inoltre si possono svolgere le funzioni di allenatore in seconda in serie C1 e C2. Come diventare Allenatore di Base UEFA. I requisiti che agevolano l'ammissione al Corso per diventare Allenatori di Base sono aver giocato (meglio se ad alto livello), allenato e conseguito un titolo di studio. Queste tre voci, sommate, danno diritto a un punteggio complessivo, che serve per ottenere un piazzamento tra i primi cinquanta nella graduatoria degli aspiranti Allenatori di Base (al massimo ne saranno ammessi 40 ). Per quanto concerne l'attività di calciatore ogni stagione sportiva disputa in prima squadra di : una società della Lega Nazionale Dilettanti partecipante ai campionati di Prima, Seconda e terza Categoria , Serie B femminile o campionato regionale femminile, garantisce 1 punto ; una società militante in serie D , Eccellenza , Promozione , Serie A femminile o Berretti 1.5 punti ; una società della Lega Professionisti di serie C , partecipanti a campionati di serie C2 o Primavera 2 punti ; una società di serie C1 2.5 punti ;una società della Lega Professionisti di serie B 3 punti ; una società di serie A 3.5 punti. Inoltre: giocare con la Nazionale garantisce 0.5 punti per ogni presenza (Nazionale A ) ; 0,30 punti (Nazionale Under 21 o Olimpica ); 0,25 punti (Nazionale A femminile); 0,20 punti ( Nazionale Under 21 femminile , Nazionali Juniores e giovanili ), Rappresentative di Lega (Lnp , Serie C e Lnd) . Per chi ha svolto attività di allenatore, questi i punteggi : allenatore non iscritto nei ruoli (ma consentito dai regolamenti) di prima squadra partecipante a campionati di Lnd , per ogni stagione ha diritto a 1 punto ; quello di prima squadra partecipante a campionati di Seconda categoria o superiore, serie A o B femminile (in regime di deroga) 3 punti. Il diploma Isef, la laurea e l'attestato Multimediale Coni - Iei, 2 "corso di informazione per istruttori non qualificati", organizzato dal Settore Giovanile e Scolastico assicurano, invece, 2 punti. | Una volta raggiunto un punteggio sufficiente, per essere ammessi definitivamente al corso i candidati dovranno superare un pre - esame di tecnica calcistica e pratica. Il corso avrà durata di cinque settimane, con 122 ore di lezione e obbligo di frequenza. Il programma delle lezioni prevede: 44 ore di Tecnica calcistica (pratica e teorica); 24 ore di Teoria e metodologia dell'allenamento; 20 ore di Attività di studio presso una scuola calcio e settore giovanile; 12 ore di Psicopedagogia, 10 ore di Medicina dello sport; 6 ore di Regolamento di gioco; 4 ore di Carte Federali; 2 ore di incontri con l'AIAC. Il programma di massima prevede, per le prime tre settimane, lezioni dal lunedì a venerdì (dalle 17 alle 22) e sabato (dalle 09,30 alle 13,00), mentre la quarta settimana, da lunedì a venerdì (dalle 14,30 alle 18) è prevista un'attività di studio presso il settore giovanile di una società di alto livello, sotto la guida dello staff tecnico: assistere alle sedute di allenamento, dialogare con i tecnici della società ospitante e redigere una relazione scritta conclusiva, che sarà oggetto di valutazione in sede di esame e sarà inviata per competenza al Settore Tecnico. La quinta settimana prevede lezioni con orari da concordare, a seconda delle necessità. Il sabato sono in calendario gli esami orali di tutte le materie e, per conseguire l'abilitazione è obbligatorio ottenere tutte sufficienze. Se uno o più allievi risultassero insufficienti in una sola materia è concessa la possibilità di sostenere un esame di riparazione a distanza di almeno un mese dalla data degli esami finali. Superato l'esame, si ottiene l'abilitazione, che consente di allenare squadre di società appartenenti alla Lega Dilettanti e squadre giovanili di ogni categoria, anche delle Leghe professionistiche.
Allenatore Professionista di 1a Categoria. Corso indetto ed organizzato dal Settore Tecnico della F.I.G.C. Età minima: 32 anni, Età massima: 55 anni, Ammessi un massimo di 20 allievi. Svolto presso il Centro Tecnico di Coverciano con obbligo di frequenza, ha durata di 16 settimane, per una durata di 16/50 giorni complessivi. Iscrizione all'albo degli allenatori di seconda Categoria da almeno 2 anni. Per accedere al corso è necessario sostenere un pre esame che prevede una prova scritta di teoria calcistica alla quale saranno ammessi i primi quaranta classificati in base ai punteggi delle tabelle 4 e 5. Con il "patentino" di Prima Categoria si possono condurre squadre partecipanti ai campionati di serie A e B.
Allenatore Professionista di 2a Categoria. Corso indetto ed organizzato dal Settore Tecnico della F.I.G.C. Età minima: 32 anni, Età massima: 55 anni, Ammessi un massimo di 20 allievi. Svolto presso il Centro Tecnico di Coverciano con obbligo di frequenza, ha durata di 16 settimane, per una durata di 16/50 giorni complessivi. Iscrizione all'albo degli allenatori di seconda Categoria da almeno 2 anni. Per accedere al corso è necessario sostenere un pre esame che prevede una prova scritta di teoria calcistica alla quale saranno ammessi i primi quaranta classificati in base ai punteggi delle tabelle 4 e 5. Con il "patentino" di Prima Categoria si possono condurre squadre partecipanti ai campionati di serie A e B.
La Casta degli allenatori. Siamo in piena campagna elettorale, e il tema della guerra alle tante caste italiane è ai primi posti di diversi schieramenti politici, scrive Rettilineo Tribuna. Nel mondo del calcio ci sono diverse caste, che ovviamente nessuno (o pochi) combattono e che meriterebbero almeno di essere discusse. La prima casta è quella degli allenatori, ma ce ne sono altre che affronteremo in futuro. Essendo uno che non ha mai giocato a calcio a nessun livello agonistico, se non da piccolo nelle giovanili di qualche squadretta, contesto da sempre il principio che di calcio possa parlare solo chi ci ha giocato e quindi, un allenatore debba essere un uomo che proviene dal calcio giocato. La contesto perchè è una teoria idiota, in base alla quale gente come Arrigo Sacchi e Josè Mourinho non avrebbero mai potuto e dovuto allenare, visto che non hanno un brillante passato sui campi di gioco. Eppure non c’è niente da fare: gli allenatori sono sempre gli stessi, e quelli nuovi sono quasi sempre ex giocatori che intraprendono questa carriera. Per carità, un po’ è fisiologico e naturale, ma il mondo del calcio e degli allenatori si sta chiudendo sempre di più, tanto da diventare una vera e propria casta di eletti. Se hai fatto parte di questo mondo hai diritto a continuare a farne parte, altrimenti sei fuori. Il problema non nasce solo “a monte” come la maggior parte dei problemi, ma nasce “a valle”, ovvero dal basso. Ci sono tantissimi allenatori che partono dalle giovanili e dalle categorie basse, tipo la terza categoria che spesso sono giovani amanti del calcio, che dedicano per passione tantissimo tempo ad allenare squadrette e percepiscono come stipendio, quando va bene, una pizza con tutta la squadra a Natale e a fine anno. Per poter allenare queste categorie serve un patentino che si può conseguire abbastanza facilmente e a basso costo. La terza categoria, per intenderci dove giocano gli orange, è una categoria riconosciuta dalla Federcalcio, ma non ci girano soldi. Eppure migliaia di giocatori e centinaia di allenatori iniziano proprio da lì. Siccome è tutto troppo semplice e soprattutto accessibile, succede che Renzo Ulivieri, Presidente dell’Assoallenatori, decide di incatenarsi alla FIGC e di minacciare lo sciopero della fame, denunciando lo scandalo di una norma che “permette a chiunque di allenare dalla prima categoria in giu”, ed ovviamente trova subito consensi. Che cosa ottiene Ulivieri? Ottiene che a partire dalla stagione 2014/2015 (il prossimo anno i non allenatori godranno di una deroga speciale) per poter allenare dalla prima categoria in giù occorrerà uno speciale patentino conseguibile dopo la frequentazione di un corso. Detta così non ci sarebbe nulla di scandaloso, se non fosse per il fatto che, in tutta la Regione Piemonte, il primo corso è stato tenuto ad Asti, dalle ore 17 alle ore 23 di tutti i giorni lavorativi, ha avuto la durata di circa sette mesi ed un costo esorbitante. Si sono accorti di aver esagerato e sono corsi subito ai ripari: presto inizierà un nuovo corso a Torino, che durerà solo tre mesi, 5 giorni su 5 (intervallati in tre sessioni) e stesso costo. A prescindere dalla spesa, che comunque è un problema perchè la Società dice “perchè devo investire una somma importante su un allenatore che magari, conseguito il patentino, mi saluta il giorno dopo?” e l’allenatore dice “perchè devo investire io una somma importante e poi la Società mi esonera un mese dopo?” rimane la questione fondamentale: chi può permettersi di lasciare il proprio lavoro per qualche mese per affrontare un corso a diverse centinaia di km dalla propria abitazione? Nessuno se non un giocatore a fine carriera. Quindi molto presto gli allenatori “fatti da soli”, nati e cresciuti su campetti di periferia dovranno lasciare il posto a una marea di fancazzisti o di ex giocatori. Perchè non si sa come mai, un ex giocatore si trova subito ad allenare nelle massime serie e non viene mai detto se, per qualche mese, prende la sua auto e si fa il corso a qualche centinaio di km con una full immersion di nozioni tecniche. La professione dell’allenatore di calcio è nei fatti una casta simile a quella dei notai, dove se hai un parente notaio è facile proseguire rilevando l’attività, altrimenti è impossibile. Qui non è essenziale avere un parente allenatore, ma lo è essere un ex calciatore. Ma se può essere comprensibile che il ruolo di allenatore a massimi livelli non possa essere un ruolo accessibile a tutti, non si capisce il motivo per cui debbano esserci questi vincoli anche dalla prima categoria in giù. Anzi, a pensarci bene ci sono un paio di spiegazioni. La prima è che chi ha partorito queste idee evidentemente non ha la minima idea di cosa voglia dire allenare nelle categorie dilettantistiche, e la seconda è quella di voler rafforzare il concetto che l’allenatore debba sempre e comunque essere oggetto di una contrattazione economica, perchè ottenere quel patentino non sarà facile, e quindi chi lo avrà potrà farlo pesare economicamente alle Società. Voi avete idea di quanto possa guadagnare una Società media di seconda o terza categoria? pensate ad una cifra bassissima e mettetela sotto la radice quadrata. Poche potranno permettersi un allenatore “vero” anzi, pochi allenatori diventeranno “veri”. Il concetto della meritocrazia e del partire dal basso verrà presto cancellato a favore di un numero chiuso pilotato dalla Federcalcio. Giovani allenatori fatevene una ragione. Mourinho lo sfiderete solo alla Playstation.
L’ENNESIMO CALCIOSCOMMESSE….PURE GATTUSO?.
Calcioscommesse: d’accordo free Mandela, free Gattuso ma free anche mio cugino, scrive Luca Pisapia su il “Fatto Quotidiano”. “Indignati con prudenza” titola il più importante quotidiano sportivo italiano all’indomani dell’iscrizione sul registro degli indagati del nome di Gennaro ‘Ringhio’ Gattuso nelle carte del processo di Cremona sul calcioscommesse. Ancora più prudenti sul nome di Gattuso sono due persone al di sopra di ogni sospetto: l’attuale presidente della Figc Giancarlo Abete, uno che, attaccato alle sue varie poltrone, ha navigato indenne nei mari tempestosi di tutti gli scandali del calcio italiano degli ultimi vent’anni, e il suo predecessore Franco Carraro, il banchiere che mezzo secolo di truffe sportive, calcistiche e non, se le è viste scivolare sotto i piedi senza accorgersi di nulla mentre continuava le sue scalate a qualsiasi vetta del potere. Lasciando perdere quisquilie e pinzillacchere come il fatto che il nome di un presunto fratello di Gattuso sia stato fatto due anni fa in Finlandia da Wilson Raj Perumal, braccio destro del capo della Singapore Connection Tan Seet Eng arrestato per un giro milionario sulle serie minori del calcio finlandese (!?) e divenuto il grande pentito del calcioscommesse globale. E non volendo soffermarsi sulla curiosità che nessuno sembrava voler indagare perché Gattuso aveva una sorella e non un fratello, come quando nell’affaire Moro lo spirito nominò Gradoli e tutti si diressero al lago e non alla ben più interessante via di Roma, il problema è la schizofrenia della stampa sportiva. Mentre il samurai Gattuso annuncia il seppuku su pubblica piazza nel caso sia trovato colpevole, ai quotidiani sportivi o generalisti che siano non basta prostrarsi all’oracolo di Lucky Luciano Moggi per avere garanzie dai suoi virgolettati che Ringhio sia estraneo ai fatti. E allora mettono in campo schiere di editorialisti pronti a seguire Mishima Gattuso, magari usando il tantō (il pugnale giapponese atto al rito) per tagliarsi un solo dito piuttosto che squarciarsi il ventre, che si sa che il pubblico dalle altre nove loro dita chiede di vergare ancora innumerevoli editoriali di pregevole fattura come quelli che hanno accompagnato il declino del pallone contemporaneo. Non solo l’omonimo giornale di famiglia, indossato l’elmetto del garantismo a giorni alterni scende in campo per difendere il proprio dipendente. Quasi tutti i quotidiani che in prima pagina stampano a più colonne la foto del reo Gattuso – che oramai in Italia la garanzia dell’avviso non è per l’imputato ma per le rotative, un permesso di pubblica condanna indifferente ai tre gradi di giudizio sanciti dalla Costituzione – poi all’interno si sperticano nella difesa a spada tratta del mediano tutto cuore e grinta. Un bipolarismo patologico che mentre le carceri sovraffollate urlano quotidianamente di suicidi e repressione dichiara colpevole in prima pagina chiunque dalle indagini di una procura sia garantito, salvo poi regalargli e relegargli l’innocenza a pagina due a seconda dell’importanza o del tifo, politico o calcistico che sia. Quando l’unico innocente è mio cugino, detenuto per un reato minore insieme ad altri 67mila esseri umani in fatiscenti strutture di non-recupero che al massimo ne possono ospitare la metà.
"Gattuso? Trattato come gli altri ma la sua posizione è marginale". Roberto Di Martino, procuratore capo di Cremona, conduce l'inchiesta "Last bet" . "Le perquisizioni da che mondo e mondo si fanno alle sei del mattino. Dopodiché abbiamo preso quello che cercavamo. Gattuso è simpatico, ho tifato per lui. È campione del mondo per la storia. Ma non può esserlo per la giustizia.", scrivono Marco Mensurati e Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Gli applausi in conferenza stampa a Signori, il ct Prandelli che minimizza parlando di "quattro sfigatelli", ora il presidente della Federcalcio, Giancarlo Abete, che nel difendere Rino Gattuso commenta: "Fin qui si vede abbastanza poco". Al mondo del calcio l'inchiesta della procura di Cremona sul calcioscommesse non è mai piaciuta troppo. Hanno istruito grazie a queste indagini 144 processi sportivi, c'è la fila di giocatori che ammette e chiede di patteggiare, ma in tre anni dal mondo del pallone non si è sentito nemmeno un "grazie". Oppure uno "scusate". Roberto Di Martino è il procuratore di Cremona.
Se lo aspettava?
"Per noi questa è un'indagine come tutte le altre. Ha soltanto l'aggravante di essere molto importante per mole di atti e noi qui siamo senza pm e senza cancellieri".
Non è un'inchiesta come tutte le altre. La foto di Gattuso, per dire, era sulle prime pagine di tutti i giornali.
"Gattuso è uno delle centinaia di indagati dell'indagine. Mi è dispiaciuto molto sentire e vedere certe cose. La sua è una posizione collaterale, quasi marginale".
Perché lo avete indagato allora?
"Perché dovevamo. A me personalmente Gattuso sta anche molto simpatico, ho tifato per lui in nazionale quando giocava. Ma avrei fatto onore al mio mestiere se avessi avuto per lui un trattamento diverso a quello di un qualsiasi altro cittadino? Gattuso è campione del mondo per la storia. Ma non può esserlo per la giustizia".
Lo accusate di aver avuto contatti con Francesco Bazzani, detto il Civ, prima di alcune partite. Ma non c'è altro. Tra l'altro Gattuso non risponde mai a questi messaggi. Tanto basta per l'iscrizione nel registro degli indagati?
"L'iscrizione, vorrei ricordare, è un atto a garanzia dell'indagato. E comunque ci sono delle risultanze, e delle coincidenze diciamo così, tali, da meritare un approfondimento. Non potevamo far finta di niente. In Italia esiste l'obbligatorietà dell'azione penale".
Era necessaria la perquisizione alle sei del mattino?
"Da che mondo e mondo le perquisizioni si fanno alle sei del mattino. Dopodiché abbiamo preso quello che cercavamo (ndr, computer e supporti informatici). Se troveremo qualcosa di interessante, verrà chiesto il rinvio a giudizio. Caso contrario, archivieremo. In un procedimento le posizioni non sono tutte uguali. Non abbiamo mica chiesto l'arresto di Gattuso. Qualcosa vorrà dire".
Il giudice Salvini nell'ordinanza fa un ragionamento sulla frode sportiva, sostenendo che è reato anche il "biscotto", il "meglio due feriti che un morto". Il riferimento era a Conte?
"Non lo so, non penso. Salvini ha condiviso un mio ragionamento generale: se due squadre decidono di pareggiare, comunque raccolgono un vantaggio. Che è di non perdere. Quindi per me commettono un reato. Ne abbiamo parlato anche la scorsa settimana a Bruxelles, dove siamo stati chiamati dall'Unione Europea. Vogliono pensare una legislazione comune, lì sono molto interessati a quello che stiamo facendo".
Vede ancora il calcio?
"Cerco di non pensare a questa indagine. L'altra sera ho registrato le due partite di Champions. Mi è dispiaciuto molto per il Napoli. Poi vedevo il Milan. A un certo punto ho sentito che si era fatto male Abbiati e si scaldava l'altro portiere, Coppola (ndr, l'accusatore di Conte: uno dei testimoni dell'inchiesta). Allora... Ho spento".
Intanto Moggi è stato condannato in appello. Moggi condannato in Appello, Prioreschi: “Clima non sereno a Napoli”, scrive Juvemania. La Corte di Napoli ha condannato Luciano Moggi anche in appello: l’ex dg della Juventus si è visto ridurre sensibilmente le pene, ma nonostante le assoluzioni di tutti gli arbitri nel rito abbreviato, non si è riusciti a smontare l’accusa di associazione a delinquere. Dopo la lettura della sentenza e in attesa delle motivazioni, ha parlato intanto Maurilio Prioreschi, uno dei due legali di Moggi: “Andremo in Cassazione, questo è certo. D’altra parte questo processo doveva finire lì e finirà lì – ha annunciato l’avvocato – Certo, qui a Napoli non c’è spazio per una dialettica processuale serena e corretta. Ci sono alcune posizioni che sono una follia, se penso i dieci mesi dati a Dattilo, per esempio!”. Ci sono tante incongruenze nella sentenza del processo d’Appello, che ha deciso di condannare anche gli arbitri nonostante la sentenza del rito abbreviato. “Quello che ha fatto il giudice Stanziola nel rito abbreviato, ascoltando le telefonate e convincendosi della buona fede degli arbitri non è stato fatto nel rito ordinario. A questo punto ci sono arbitri assolti da una parte e condannati dall’altra per lo stesso identico reato. Vedremo in Cassazione…”, le parole di Prioreschi riportate da ‘Tuttosport’. Se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere per la gara Udinese – Juventus: l’arbitro Rodomonti è stato assolto nonostante secondo l’accusa avesse alterato il risultato della gara. “Pensate che per quella partita sono stati assolti gli assistenti, è stato assolto Rodomonti che era l’arbitro, ma resta un capo di imputazione… Chi ha alterato quella partita? Moggi, Giraudo e Bergamo. Bene, ma come hanno fatto? Chi è sceso in campo per alterare quella gara a favore dell’associazione? Babbo Natale? Anche Lotito è rimasto l’unico imputato nelle sue partite e chi le alterava?”, continua il legale di Moggi. Durante la sua breve arringa difensiva, Prioreschi ha letto la nuova intercettazione Racalbuto-Meani: “Alla fine non so se hanno seguito il mio consiglio. Francamente mi viene da pensare che le nuove telefonate non le hanno ascoltate proprio. Penso alla chiamata fra Racalbuto e Meani… – conclude Prioreschi – Come si fa a non percepire la disperazione di un uomo che sa di dover pagare per errori non suoi? Come si fa a pensare che abbia volontariamente alterato la partita e che faccia parte di un’associazione tesa a favorire la Juventus?”.
STADI. TIFO E RAZZISMO. I PICCOLI IMBECILLI CRESCONO.
Quando i bambini fanno ooooooooooooooooooh……MERDAAAAAAAA! Tali padri, tali madri e tali figli.
Il razzismo nelle curve degli stadi italiani, scrive Edoardo Di Gennaro su “Giornalettismo”. Spiegel online e il tifo del belpaese visto dall'esterno. Verso la fine degli anni 90′ ad alcuni giovani tifosi tedeschi non bastava più andare a vedere la loro squadra del cuore a Colonia e cantare un paio di cori, perchè il tifo non era all’altezza della situazione e non ne potevano più, soprattutto se comparavano il fenomeno del tifo in Germania con la cultura calcistica in Italia, dove si era sviluppata una cultura calcistica più creativa a variopinta. La notizia è stata riportata da Spiegel Online. Nei fine settimana liberi gli appassionati di calcio tedeschi partivano dalla repubblica federale per andare a guardare le partite di Roma, Parla e Genova e vedere come funzionavano le curve: l’Italia era la terra promessa della cultura calcistica. Pian piano anche nei campionati tedeschi hanno iniziato ad apparire bandiere e striscioni e ha iniziato a prendere forma la figura del capo ultrà, quello che decideva quali cori andassero cantati. Politicamente però i tedeschi non hanno emulato gli italiani, visto che nel belpaese la maggior parte delle tifoserie è ormai di destra. Kau Trippman è un sostenitore del Milan dal 1990: «In Italia cori razzisti, slogan stupidi sono socialmente accettati». Per diversi anni l’uomo ha vissuto a Milano e si è fatto una reputazione come intenditore di calcio italiano con il blog “Altra Vita” e non si sorprende quando sente parlare di cori razzisti contro Balotelli o Boateng. Quest’ultimo era stato oggetto di cori per il colore della sua pelle: durante un’amichevole tra Milan e Pro Patria, i tifosi di quest’ultima squadra facevano il verso della scimmia ogni volta che il giocatore prendeva palla. Il calciatore originario di Berlino ha quindi deciso di lasciare il campo. I cori erano stati stigmatizzati anche da Silvio Berlusconi: «Uno che ha formato un partito di estrema destra come Silvio Berlusconi condanna questi cori solo quando temono che venga danneggiata l’immagine del paese», ha detto Tippmann. La settimana scorsa i giocatori della ASG Nocerina avrebbero fatto saltare la terza partita di campionato perchè messi sotto pressione dagli ultras, si è lamentato Giancarlo Abete, presidente della FIGC, il che dimostra come gruppi del genere siano influenti nel mondo del calcio italiano. La sensibilità politica delle curve in Italia è molto meno pronunciata rispetto alla Germania: «Quello che in Germania è considerato razzista in Italia non crea grossi scandali», ha detto Tippmann, «Molti gruppi ultrà se non sono dichiaratamente di destra sono addirittura neofascisti, come quelli dell’Hellas Verona, la Lazio, il Catania e l’AS Varese. Tra le foto postate dai tifosi sui social network si possono trovare foto di croci celtiche, simboli nazisti, allusioni alle SS come a Hitler o al Ku Klux Klan. Per Tippmann un altro problema è che in Italia non vi è una chiara identificazione politica: «Qui essere di sinistra non vuol dire automaticamente essere contro il razzismo, anche i tifosi del Livorno sono stati sentiti cantare cori razzisti». La cultura ultrà in Italia è stata coniata originariamente dalla sinistra e così è stata fino agli anno 90. Sulla scia delle rivoluzioni del 68 gli studenti di sinistra avevano fatto delle curve un esperimento sociale. Ora il tasso di disoccupazione giovanile al 40% ha disilluso molti giovani italiani e la fiducia nei partiti tradizionali è crollata drasticamente. «Il calcio è solo un catalizzatore», sostiene Tippann. Certo, anche gli ultras si dicono contrari al reclutamento di partiti di destra, ma è il pensiero politico che prevale: «Il gruppo Romano Zetazeroalfa è molto popolare tra gli ultras ed anche molti gruppi tedeschi amano esibirsi in Italia, perchè i controlli nel belpaese sono molto più bassi».
In Italia gli ultras hanno intonato i soliti cori razzisti contro Napoli e i napoletani. Il soliti cori beceri “Napoli colera” o “Vesuvio lavali col fuoco” che tante polemiche hanno suscitato.
Razzismo e discriminazione territoriale, gli italiani dicono che…scrive Walter Mazzoleni su “Sport paper”. Tra i temi scottanti che spesso caratterizzano le prime pagine dei quotidiani sportivi italiani c’è senza dubbio quello del razzismo. Interessante sondaggio realizzato dal portale superscommesse.it, ecco i dati: Tiene banco la questione della discriminazione territoriale all’interno degli Stadi, con la norma di recente modificata dalla FIGC che ha deciso di introdurre la “condizionale”. Per il 61% degli intervistati la discriminazione territoriale rappresenta solamente una forma di sfottò, il restante 39% pensa invece che si tratti di razzismo in quanto insulto alla dignità della persona.
RAZZISMO – Razzismo che viene visto dal 44% come un fenomeno “abbastanza” diffuso negli stadi italiani. Un fenomeno reale da estirpare in quanto intollerabile secondo il 36% delle risposte; “amplificazione mediatica del comportamento di una minoranza” invece per il 45%; mentre il rimanente 19% pensa che rientri nel linguaggio proprio dello Stadio. Razzismo e Discriminazione Territoriale sono però due fenomeni da distinguere secondo quanto emerso dall’indagine.
DISCRIMINAZIONE TERRITORIALE – Il 48% degli intervistati pensa infatti che la discriminazione territoriale non sia un problema facendo parte del linguaggio dello Stadio; il 27% la reputa invece un’amplificazione mediatica del comportamento di una minoranza, mentre il 25% crede che sia un fenomeno reale da estirpare poiché intollerabile.
LA “CONDIZIONALE” – Diviso il giudizio dei tifosi sulla revisione della norma da parte della FIGC: il 34,1% si dichiara in disaccordo suggerendo una cancellazione in toto della regola; il 29,4% invece si dice in disaccordo con la modifica poiché questa non consente di punire immediatamente comportamenti, cori e striscioni “incriminati”; un altro 18,8% si dichiara d’accordo con la modifica “in questo modo si alleggerisce la norma, ma si riesce comunque a governare il problema della discriminazione territoriale”; il restante 17,6% si dice favorevole poiché “sarebbe stato sbagliato cancellarla del tutto”.
L’Italia, il razzismo e il calcio malato. Tredici curve squalificate nel 2013, scrive
“SI24”.Il campionato italiano e il razzismo. Questo è un binomio che si sta affermando nell’opinione comune europea. Come quando ti dicono blu e tu pensi al mare, verde e pensi ai prati, quando in Europa parlano del calcio italiano, la frase che segue è sempre legata al fenomeno razzista. Italiano? Pasta, pizza, mafia. E adesso dobbiamo aggiungere anche razzista. Che poi negli ultimi anni, l’Italia ha sempre sofferto del suo declino nei ranking Fifa senza preoccuparsi che un’altra classifica stava per essere scalata, ovvero quella dei campionati più razzisti d’Europa, dove la nostra nazione appare come testa di serie. Dall’inizio dell’anno sono tredici le curve ad essere state squalificate per casi di discriminazione razziale e territoriale. Qui, proprio in Italia, il paese che in base ai dati registrati dal Cies (Centro Internazionale Studi sullo Sport) è al quinto posto per l’impiego di calciatori stranieri con una quota che supera di poco il 55 per cento. E dove il razzismo, la xenofobia e le discriminazioni territoriali vengono regolate da un bagaglio di normative molto ampio.
E se è vero quel che dice Platini (“il calcio riflette la società nella quale prospera”) siamo messi davvero male. Almeno rispetto alle concorrenti (Germania, Francia, Olanda, Spagna, Inghilterra) che, invece, di casi di razzismo non ne hanno registrati. Anzi, sono stati seduti ad ascoltare il caso di Boateng che “è andato via dall’Italia per colpa del razzismo”, di Balotelli, bersaglio preferito dalle curve e alle volte anche dai calciatori, specie dai difensori (vedi Spolli in Catania-Milan 1-3), di Pogba che ora segna e piace a tutti, ma che prima di tutto questo contava i “buu” razzisti e gli ululati con il pallottoliere. Forse queste cose ci sono sempre state e si sta esagerando, e magari fa bene chi come Ogbonna o Agnelli riduce il fenomeno ad un mucchio di “ignoranti” tifosi avversari che ti pizzicano per paura e non per discriminarti. È un dato di fatto che da un po’ di tempo anche nelle serie inferiori qualcosa è cambiato: chiedetelo ad Ameth Fall, ventiduenne attaccante senegalese che in Monza-Rimini si è visto lanciare delle banane; al ghanese Tarik Frimpong Boateng del Pompiano che nella gara del girone C di Terza Categoria della Lombardia contro il Capriano venne attaccato verbalmente con insulti razzisti da un avversario. Dal grande giocatore al giovane che vuole emularlo in tutto e per tutto. Ripercorrendo le cassanate, le balotellate e le zidanenate. E perché no, anche il modello di ultrà sbagliato per i giovani tifosi che amano il calcio. Come tutti quei bambini che hanno aderito in massa all’iniziativa della Juventus che ha aperto agli under 13 la sua curva squalificata. C’era tutto, non mancava nulla: cartelloni colorati, striscioni, bandiere e anche i puntuali cori “…merda!” durante i rinvii del portiere avversario (Brkic,). Il tutto fa pensare che il calcio, l’intero ambiente del mondo del pallone stia andando verso una direzione. Speriamo solo che accanto al Made in Italy delle fettuccine, la scritta “razzista” sia stata impressa con un pennarello delebile, in modo tale che venga più facile cancellarlo. Con la parola “mafiosi” ci provano da anni.
Doveva essere una lezione antirazzismo la partita di ieri sera allo Juventus Stadium, e in parte l’esperimento è riuscito. In parte. Dopo la chiusura degli spalti ai tifosi juventini, accusati nelle giornate precedenti di cori razzisti, Tuttosport e istituzioni sportive e politiche, in collaborazione con l’Unesco hanno organizzato domenica 1 dicembre l’iniziativa ‘Gioca con me, tifa con con me’, che ha visto nelle curve dello stadio torinese 12 mila bambini al posto di tifosi e abbonati. Il calcio di inizio è stato anticipato di due ore per consentire ai ragazzi di partecipare in massa e così in effetti è andata: il colpo d’occhio è stato entusiasmante. L’iniziativa è stata curata dall’Associazione Italiana Calciatori da Fabio Grosso e Mariella Scirea. Prima della partita una sorta di “lezione-convegno” per spiegare ai più giovani il perché del divieto ai tifosi di entrare allo stadio ieri. E così, alle 18, sugli spalti eccoli, tutti under 13 con le bandierine e gli striscioni a tifare per la loro squadra del cuore. Peccato però che la festa sia stata offuscata da un episodio, se non increscioso, senz’altro antipatico. E mentre alle azioni di Pirlo e Buffon, non giocatori ma icone del nostro tempo, i cori erano tutti per loro, qualcuno si è divertito a fischiare a quelle di Brkic, portiere della squadra avversaria, l’Udinese.
Ogni volta che il n. 1 serbo toccava palla partivano i cori: “ooooohhh…merda!”. La riprova che i bambini sono lo specchio dei grandi. Colpa loro? No, colpa nostra.
Una domenica diversa, forse storica. Il primo dicembre 2013 sarà ricordato da tutti gli juventini come la domenica dei bambini. Sono stati più di 12.000, i piccoli tifosi che hanno occupato le curve (squalificate) dello Juventus Stadium. Tutto questo grazie all'iniziativa "Gioca con me...tifa con me" proposta dal club bianconero. Gli studenti delle scuole elementari e medie hanno preso posto in Curva Nord, nella Sud quelli delle scuole calcio nati tra il 2000 e il 2007. Durante la gara i babyjuventini si sono fatti sentire. Eccome. E a dirla tutta non sempre in maniera educata. Forse per imitare i grandi (e in questo caso era meglio restare bambini...) sono partiti anche cori offensivi: a ogni rilancio del portiere dell'Udinese i bambini si sono lanciati in cori e urla da censurare: "merda....". Sarà stato l'effetto curva a renderli così "passionali"? O sono forse gli adulti- accompagnatori dei piccoli che si sono lasciati prendere la mano invitando a cori usuali nelle Curve ma in ogni caso da censurare? Se ne parlerà, perchè l'audio non mente, e anche i telecronisti televisivi non hanno mancato di far notare l'anomalia. Che stona proprio perchè la festa prima e dopo la partita è stata bella col gigante Llorente commosso a fine gara quando è andato a salutare i suoi baby tifosi letteralmente esplosi di gioia al gol al 91' dello spagnolo.
«Oooooooooo, popò». Beh, non proprio, ma il significato è quello, di solito usato quando il portiere avversario si accinge al rinvio da fondo campo: «Oooooooooo, popò», scrive Pietro Oleotto su “Il Messaggero veneto”. Le abitudini della curva sono difficili da cancellare, anche se i fratelli maggiori - chiamiamoli così - ieri erano a casa, squalificati per cori discriminatori. Così la Juve ha chiesto di riempire i settori chiusi con 12.200 ragazzini di scuole e scuole calcio, tra cui anche un’Udinese Academy piemontese, con 180 baby giocatori. I primi sistemati nella curva Nord, i secondi nella Sud che resterà off-limits anche per la prossima esibizione interna della Juventus, come ricordava la collega - friulanissima - di Cielo, Marina Presello, collegata in diretta con lo Stadium nel pre-partita. Il colpo d’occhio? Notevole, bandierine in mano da sventolare, striscione dell’iniziativa, «Gioca non me, Tifa con me», a mo’ di stendardo ai piedi del settore, i ragazzini juventini hanno urlato i nomi dei titolari meglio dei grandi, manco fossero tutti con l’Almanacco Panini in mano. L’Udinese? Fischiata, se si esclude un timido applauso a Totò che ha fatto piacere alle poche decine di bianconeri friulani (73 secondo i dati ufficiali) nel settore ospiti. Diverso invece l’impatto audio: la partita s’è giocata in un clima quasi irreale, tanto diversi erano i rumori di fondo. Così quando Pirlo si fa male, per le curve non è Andrea.
E’ «Pirlo, Pirlo, Pirlo», quasi il signor Pirlo con quella barba che incute rispetto. Già, il rispetto. Per tutti gli avversari meno nemici. Quelli di Milano. «Chi non salta nerazzurro è». Immancabile. Come con i fratelli maggiori. L'esperto: Lo stadio non è il luogo dell'innocenza. «Non possiamo illuderci che lo stadio diventi un luogo di totale età dell'innocenza solo perché nelle curve ci sono dei bambini. Ormai c'è tutta una predisposizione mentale a certi atteggiamenti, un immaginario collettivo dominante. Il rimedio? Più sport praticato e meno guardato dal divano».
Marco Lodoli - educatore, scrittore e giornalista - commenta così i cori non proprio edificanti partiti ieri dalle curve dello stadio della Juventus, squalificate per i cori discriminatori durante la partita con il Napoli, ed affollate da 12.200 under 14.
Capello: I bimbi della Juve? Un esempio molto brutto. Il ct della Russia: «In Italia la situazione è peggiorata rispetto a quando avevo detto che il calcio era in mano agli ultrà. L'esempio si è avuto a Torino. Fabio Capello è stato uno dei premiati nella terza edizione della «Hall of Fame», il riconoscimento istituito nel 2011 dalla Federcalcio e dalla Fondazione Museo del Calcio per celebrare le figure che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del calcio italiano, in differenti ruoli e in differenti epoche. Ai microfoni di RaiSport il tecnico ha parlato del suo presente e del futuro: "Un mio ritorno in Italia? No, sono troppo vecchio. Sto trattando il prolungamento di contratto con la Russia, in Italia ci sono grandi allenatori. Futuro ct? Mai dire mai, ma non credo proprio. Il Mondiale? Sarà difficile per noi, speriamo di essere in seconda fascia. Tempo fa avevo parlato del calcio italiano in mano agli ultrà? La situazione è peggiorata, anche ieri c'è stato un esempio molto brutto: l'iniziativa bellissima della Juve di portare i bambini nelle curve vuote è stata rovinata dai cori che tutti hanno sentito. Sarebbe stato opportuno l'intervento di uno speaker oppure quello degli accompagnatori. Nessuno ha fatto nulla e i corsi sono proseguiti, soprattutto gli accompagnatori non hanno fatto nulla".
«Quante volte mi hanno fatto il gesto della scimmia e chiamato terrone, ma l'Italia non è razzista. Qui ci sono 12/13 milioni di stranieri che vivono tranquillamente, il problema è che allo stadio è zona franca e uno fa quello che vuole», così Gennaro Gattuso ospite di «Che tempo fa» su Rai3 dice la sua sul razzismo.
Il coro dei bimbi juventini. Ma i padri dov'erano? Si chiede “La Repubblica”. "Ooh, merda...": questo coro, brutto, si è sentito domenica pomeriggio dalle due curve occupate allo Juventus Stadium da oltre 12.000 ragazzini under 13. Era rivolto, il coro, al portiere dell'Udinese. Il primo passo verso i cori contro i napoletani: ma quelli, si sa, sono appannaggio dei "grandi". Ma la cosa strana (strana?) è che nessun genitore, nessun insegnante, nessun educatore è intervenuto per spiegare ai ragazzini che questi cori non sono una bella cosa, e non si fanno. Dov'erano? Uno (degli insegnanti) era occupato a insultare l'arbitro: ma gli altri? Tutti distratti? Dice giustamente Giovanni Malagò: "Una volta tanto vediamo le cose in positivo. Su proposta mia e del presidente della Federcalcio, Giancarlo Abete, la società si è fatta promotrice di una bella iniziativa. Non buttiamo a mare il lato bello della questione e cerchiamo di spiegargli che certe cose non vanno bene. Ma di certo non se le sono inventate loro''. Giancarlo Abete, n.1 Figc, elogia la Juventus: "I bimbi in curva è stato un messaggio forte e positivo", mentre Fabio Capello la pensa diversamente: "Un episodio molto brutto. Gli accompagnatori non hanno fatto nulla, fossi stato allo Juventus Stadium avrei chiesto allo speaker dello stadio di intervenire e fare cessare i cori. In Italia non sia sta affrontando il problema ultrà, che sta peggiorando". Ha torto? Non prendiamocela (solo) coi bambini: imparano in fretta da chi è più grande di loro, e conosce i meccanismi da stadio. In ambienti vicini alla società bianconera c'è soddisfazione per il successo dell'iniziativa, e dispiacere ovviamente per le "parolacce" di qualche ragazzino. E le critiche? C'è il sospetto che siano state dettate da invidia. Ma, come abbiamo ricordato nei giorni scorsi, altre società, nella stessa situazione della Juve, potrebbero aprire le porte ai bambini in curva. Con la "benedizione" di Osservatorio, Figc, Lega di serie A. Non si sa se la Juve farà il bis il 14 dicembre, un sabato, nella gara col Sassuolo (in questa occasione solo una curva chiusa). Domenica intanto c'è stata forte tensione a Bergamo: molti tifosi dell'Atalanta hanno cercato il contatto con i sostenitori della Roma. La polizia ha faticato, con 50 lacrimogeni, a contenere l'assalto: stupisce semmai che nemmeno uno dei tifosi bergamaschi sia stato identificato. Come mai? Eppure c'erano 500 poliziotti. L'Osservatorio cercherà di vederci chiaro. Non verrà preso alcun provvedimento nei confronti della tifoseria atalantina (nessun identificato, come detto) e non dovrebbe essere revocata alla Roma la away card. Le indagini hanno appurato infatti che i tifosi giallorossi sono stati solo oggetto del tentativo di assalto dei loro rivali. E anche quello che è successo a Varsavia sta prendendo altri contorni rispetto a quello che sostenevano alcuni soloni: "La polizia ha mancato rispetto a norme più basilari" ha detto Malagò. Molti tifosi della Lazio non hanno fatto nulla: per gli altri, ancora in carcere, ci sarà un tribunale a decidere. Un milione e mezzo di spettatori per la Domenica Sportiva. Quasi un milione e mezzo di spettatori (1.475.000), share del 9,44%, per la Domenica Sportiva condotta da Paola Ferrari. Un buon ascolto, considerato che non c'era il posticipo (Juve-Udinese si è giocate alle 18,30). Stadio Sprint (conduttore Enrico Varriale) ha fatto 1.124.000 spettatori, 6,51% di share. Novantesimo Minuto, condotto da Franco Lauro, ha toccato quota 8,73%, 1.773.000 spettatori. Meno del solito: lo spezzatino si paga caro. Ottimo l'ascolto su Sky di Juve. Udinese, 1 milione e mezzo.
Juventus-Udinese: la partita dei bambini e dell’ipocrisia del nostro calcio. Lo Jstadium ospita le scolaresche in occasione della squalifica delle Curve degli ultrà. E loro, i bimbi, urlano 'merda' ogni volta che il portiere dell'Udinese rinvia la palla...scrive di Alessio Pediglierisu Fan Page. Una partita completamente ‘dedicata’ ai bambini in uno stadio interamente invaso da oltre 12 mila giovani scolari festanti: Juventus-Udinese è soprattutto questo, oltre che ad essere anche una partita valida per la 14a giornata di serie A. La decisione del Giudice Sportivo di aver chiuso e vietato le curve bianconere ai tifosi ultrà rei di cori discriminatori e atteggiamenti contrari alle normative vigenti ha aperto il fianco ad una decisione unica nel campionato di massima serie. Che ha portato con sè non poche polemiche per una iniziativa definita da più parti intrisa di ipocrisia. Anche perchè se la cornice è di quelle da libro ‘Cuore’ con cui riempirci gli album di fotografie, i cori che si innalzano non son sempre dei più edificanti, come quel “Merda!” urlato a squarciagola tutti insieme appassionatamente, ogni volta che il portiere dell’Udinese Brkic rinvia dal fondo. E qualsiasi parvenza di buone intenzioni naufraga miseramente. Una cultura che non s’inventa - Eppure, tra chi è contro e chi è a favore, vi è anche una via di mezzo che è difficile non seguire: quella che va al di là, e che se da un lato non può che appoggiare una partita in cui sugli spalti ci siano bambini e scolaresche, dall’altro non può nascondere che proprio tutto ciò è frutto di un albero con le radici marce. Fosse stata una iniziativa spontanea, intrapresa magari non da una singola società ma dalla Federazione ancor prima che dalla Lega, avrebbe avuto un senso reale. Così, dietro alla parvenza del gesto encomiabile si nasconde l’ipocrisia di chi cerca di far dimenticare i motivi per cui si è giunti a ciò e che sono (e restano) davanti agli occhi di tutti: un calcio malato, circondato ogni domenica da fatti incresciosi, violenze, cori e insulti razzisti, scontri. Forse, proprio per ricordare i motivi per cui si era arrivati alla squalifica sarebbe stato meglio lasciar giocare Juventus-Udinese nel silenzio assordante di uno stadio vuoto, che ben rappresenta la situazione del calcio italiano. Questa sera, invece insieme ai 12 mila ragazzini in tribuna ci sarà anche un bel po’ di ipocrisia, che emerge grattando la superficie e che difficilmente può essere cancellata da un colpo di spugna di una sera, lungi dall’appoggiare il ‘credo’ ultrà, ma anche nel nascondersi dietro al dito della ‘festa dello sport’. Dunque, bisognerà prenderla per quello che è senza conferirle meriti o significati che non ci sono: perchè non si può credere che un Paese che non ha mai avuto la cultura dell Sport se la inventi nell’arco di una notte. Contro: la rivolta degli ultrà - Contrari, ovviamente, lo sono stati in principal modo gli ultrà, quelle frange di tifosi che settimanalmente occupano le curve degli stadi per seguire la propria squadra del cuore in casa come in trasferta. Davanti alla scelta ‘buonista’ da parte della società bianconera di approfittare di uno stadio a disposizione per riempirlo di ragazzini delle scuole elementari e medie, i tifosi tesserati hanno duramente criticato. Facile, hanno detto, sostenere un’idea così populista partendo dal presupposto che comunque i posti allo stadio sono stati già venduti con l’abbonamento di inizio stagione. La Juventus, da parte dei tifosi più estremi, è stata vista come una società che è riuscita a capovolgere una situazione di svantaggio per un mero tornaconto. Invece di appoggiare i tifosi ingiustamente puniti dal Giudice Sportivo, il club di Agnelli ha voltato le spalle al suo tifo più vero, inscenando questa ‘pantomima’: una società che non difende la propria curva non è degna di rappresentarla, hanno fatto sapere così i Viking e gli altri gruppi di tifo organizzati. Che non mancheranno di continuare la propria protesta anche nelle prossime settimane. Pro: il calcio che si vorrebbe vedere - A favore, ci sono invece i cosiddetti tifosi da tribuna, coloro che allo stadio non si ritrovano in Curva, lontani da Daspo e squalifiche da parte della Lega Calcio. Dal loro punto di vista quello di questa sera dovrebbe essere una spettacolare anteprima di come si dovrebbe vivere il calcio allo stadio: famiglie, ragazzi, divertimento e gioia. Nessun tifo contro, nessuno scontro fisico, nessun coro o striscione “anti” qualcuno. Semplicemente, il piacere di vivere uno spettacolo sportivo di 90 minuti, tifando per i propri beniamini. Da questo punto di vista, nulla da togliere a chi la pensa così anche perchè è stato ben appoggiato dalle istituzioni e dai media che vivono di calcio: le tv a pagamenti proprietarie dei diritti televisivi e la stessa Lega hanno ben accettato addirittura di anticipare l’orario previsto inizialmente alle 20.45, per dare inizio alla gara alle 18.30 facilitando la ‘serata’ dedicata ai più giovani. Un’iniziativa encomiabile che non a caso ha fatto il giro del mondo, fuoriuscendo dai confini italici. «“A saperlo!”, avranno pensato interisti, milanisti, laziali, romanisti e via elencando. Oppure avranno detto a denti stretti, “a pensarlo!”. Insomma, l’idea di riempire le curve, che non è neanche così innovativa, ci sono stadi con i settori “family” e alcune frazioni riservate alle scuole (vedere Napoli), l’idea di riempire le curve, dicevo, con il “tempo prolungato” dei bambini messi lì a reggere i palloncini della sortita patetica domenicale, è sfuggita alle altre società. Brava la Juve a passare all’ufficio rettifiche e ad aver alterato la chiusura, si badi bene, chiusura, delle curve per ragioni ben diverse dalla propaganda voltastomaco di certe emittenti che ormai hanno il monopolio dei media pallonari, e meno “brave” le altre società che forse, chissà, mal si amalgamano nel grigiore medio collettivo che fa passare per normale qualunque cosa e tiene in tasca l’insulto e l’indifferenza per ogni tentativo di schiarita nella nebbia. E anche se volessimo cercare di vedere, nella nebbia di quella discriminazione da stadio, che non è soltanto da stadio, con la quale molti meridionali si insultano da soli, con la quale molti tradotti al nord abdicano il luogo di nascita, e se non lo fanno con se stessi, lo fanno con i padri, in quella nebbia da periferia industriale ci scorgeremmo un sentimento che è penoso non perché traduce in cori razzisti il suo mediocre fermento, ma perché trova il coraggio di farlo soltanto attraverso il pallone. Quella è la vera tristezza. Il day after della domenica, che porta tra i denti la lama di una nomenclatura al rasoio, ha il sapore amaro di mille altre storture, ben più gravi, molto più razziste dei cori e dei versi da scimmia. Ma rientrano nel silenzio del “lunedì al sole”. Non ci si scandalizzi per il coro d’insulto a ogni rinvio del portiere ospite. In fondo fanno parte dei palloncini e dello sventolio di bandierine, come al circo, un circo che in alcune occasioni diffonde pure l’addestramento. E poi, diciamola tutta, altrove, probabilmente, non sarebbe stato diverso. Ma, come dicono gli amanti della vita vista dagli occhi del risultato, non ne abbiamo la riprova. Ormai fa parte di quasi un secolo di calcio l’ammaestramento generale degli ordini del bene nazionale e quello dei disordini periferici. Alcuni luoghi devono passare per confezioni dove si può essere violenti in giacca e cravatta, oppure per procura, o anche attraverso le iniziative a mo’ di zecchino d’oro in versione futbolista, buone a tradurre in spot di stato le vergogne e le cattive abitudini e a far dimenticare le reali ragioni di un provvedimento. Ma questo non si può dire, sennò si è in malafede, sennò si è corrosi dall’invidia, sennò si è caduti nella faziosità. Sarà, ma meglio faziosi che allineati. Allo stadio ci siamo stati tutti, o quasi, pure da bambini. Mi ricordo quando ci andavo io. E mi ricordo pure che se lo stadio doveva restare chiuso, era d’obbligo rimanere a casa per riflettere sulla desolazione dell’accaduto, come dei condannati della domenica, pure da bambini. Ma forse i bambini che hanno surrogato gli ultrà interdetti saranno stati alunni del professore di Beppe Viola, che una volta ha scritto, “La Juventus produce successo, quindi invidia. Ricordo di un professore di filosofia, juventino nel sangue. Quando la Juventus perdeva il lunedì entrava in classe di pessimo umore e passava immediatamente alle interrogazioni. La vittima era sempre la stessa, tale Angelo Balzarini, noto sostenitore interista. Il mio povero compagno viene massacrato dalle domande impossibili e soltanto il suo sacrificio tradotto sul registro dall’immancabile due riusciva a far tornare la serenità nell’animo del professore. Angelo, poco prima del terzo trimestre, passò in un club juventino e fu promosso con ottimi voti”.» Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka.
Juventus-Udinese: non possiamo ignorare gli insulti dei bambini, scrive Alex Corlazzoli su “Il Fatto Quotidiano”. Stamattina avrei voluto far lezione con qualcuno di quei bambini che domenica alla partita Juventus–Udinese, gridavano “merda” a squarciagola ogni volta che il portiere dell’Udinese Brkic, rinviava dal fondo. Quei ragazzini sono solo il simbolo di un Paese gravemente malato. Quel “merda” è uscito dallo JStadium, l’eco di quell’insulto urlato da voci bianche è arrivato nelle case degli italiani, nelle classi di tutt’Italia. Non possiamo dimenticarlo, passarci sopra come niente fosse. Ne ho parlato con i miei alunni che hanno saputo immediatamente rintracciare le responsabilità: “Avranno sentito gli insulti da qualcuno, altrimenti non lo avrebbero fatto!”, mi ha spiegato Luigi. E Marco con altrettanta chiarezza ha precisato: “Se gli adulti non lo fanno, nemmeno noi lo facciamo”. Ecco identificato il colpevole: l’adulto. Quel papà che va allo stadio a vedere la partita del figlio e urla contro l’avversario. Quell’allenatore che permette che i suoi ragazzi non diano “il cinque” ad inizio partita ai compagni dell’altra squadra. Quel maestro che insegna a tirare il pallone ma si è dimenticato di fare educazione civica. Quel giocatore che si vanta di parcheggiare dove vuole l’auto, di arrivare in ritardo agli allenamenti o di sprecare qualche insulto. Quel politico che si azzuffa davanti alle telecamere, senza mai chiedere scusa agli italiani. Giovanni, stamattina mi raccontava: “Nella mia squadra gioca un ragazzino diversamente abile e spesso gli avversari lo sfottono”. Quanta strada dobbiamo ancora fare prima di comprendere che l’Italia sta perdendo la partita più importante: educare dei cittadini. Ci vantiamo di fare manifestazioni sulla disabilità, di essere dalla parte del diversamente abile, senza accorgerci che diventiamo intolleranti, razzisti, incivili per una partita di pallone. Non ci sono classifiche, dati Ocse, test Invalsi che misurino come si insegna a scuola l’educazione alla cittadinanza. Eppure servirebbero, perché un medico o un ingegnere, laureati con il massimo dei voti che allo stadio urlano epiteti, non servono. Nella scuola abbiamo bisogno di fare meno motoria e più educazione, perché possiamo formare dei cittadini, magari anche dei tifosi, responsabili. Quel “merda” urlato dai ragazzini tutti insieme appassionatamente, deve interrogarci. Non può lasciarci indifferenti.
IL GIOCATTOLO ROTTO.
Il giocattolo rotto: tutti gli scandali del calcio italiano. Il primo ai tempi del fascismo quanto il Torino fu accusato di corruzione. Nel 1980 è la volta del calcioscommesse che torna nel 2011, il 25 giugno 2013 il blitz della Gdf per i contratti scrive Matteo Politanò su “Panorama”. Nuovo scandalo nel calcio italiano, nuovo imbarazzo per lo sport più seguito del paese. Il blitz della Guardia di Finanza nelle sedi di 41 squadre di Serie A, B e campionati minori riapre ferite mai rimarginate. Nel mirino la documentazione relativa ai contratti tra i club, i calciatori e i procuratori per un'indagine nata circa un anno fa. Le ipotesi avanzate dal nucleo di polizia tributaria di Napoli sono quelle di associazione a delinquere, reati fiscali internazionali, fatture false e riciclaggio. Nel mirino anche le big: perquisite le sedi di Milan, Juventus, Inter, Roma, Napoli, Lazio e Fiorentina. Una lunga scia di scandali che fanno disinnamorare e e strappano altri pezzi di un giocattolo che ciclicamente si mostra sempre più rotto. La prima inchiesta nella storia del calcio italiano risale alla stagione 1926/1927 quando fu revocato lo scudetto vinto sul campo dal Torino. La Figc aprì un'inchiesta dopo l'uscita di un articolo dal titolo "C'è del marcio in Danimarca" che portò ad indagare su un tentativo di corruzione ad un giocatore della Juventus, Luigi Allemandi, da parte di un dirigente del Torino. 50.000 lire di acconto per il terzino bianconero al fine di permettere una facile vittoria granata nel derby. La stracittadina si concluse poi per 2-1 ma Allemandi fu tra i migliori in campo e le reti nacquero dagli errori di altri giocatori come Rosetta e Pastore. Allemandi fu prima squalificato a vita e poi riabilitato dopo una stagione. Il vero tornado sul calcio italiano si abbatté però nel 1980 con il più grande scandalo che investì società di A, B, dirigenti e calciatori. A marzo un commerciante romano inviò alla Procura della Repubblica di Roma un esposto sostenendo di essere stato truffato da alcuni giocatori della Lazio tramite la mediazione di un ristoratore della zona. Avrebbe dovuto ricevere "soffiate" dai giocatori biancocelesti ma dopo aver perso grosse somme di denaro decise di denunciare il tutto. Dopo 3 settimane la magistratura fece arrestare diversi tesserati di serie A, tra questi anche Bruno Giordano e Lionello Manfredonia della Lazio ed Enrico Albertosi del Milan. Paolo Rossi, Oscar Damiani, Beppe Savoldi, Giuseppe Dossena e altri ricevettero degli avvisi a comparire come persone informate dei fatti. Fu il primo grave colpo inflitto all'immagine e alla credibilità del calcio italiano che culminò con la retrocessione di Milan e Lazio e con pesanti squalifiche per molti giocatori (tra i quali Paolo Rossi che però fu graziato due anni più tardi in tempo per vincere la coppa del Mondo). Nel 2001 finì sotto la lente d’ingrandimento la partita tra Atalanta e Pistoiese di Coppa Italia e tre anni dopo Sampdoria, Siena e Modena furono invischiate in un nuovo mini-scandalo che costò 5 mesi di squalifica a Stefano Bettarini e qualche multa pecuniaria alle società. Alla vigilia del mondiale 2006 ecco un nuovo scandalo per devastare immagine e credibilità del calcio italiano e del paese tutto: calciopoli. A metà aprile 2006 la Gazzetta dello Sport, Repubblica e Il Corriere della Sera iniziano a pubblicare intercettazioni ascoltate dai Carabinieri. Inizia un'indagine con il maresciallo Auricchio che consegna il fascicolo con le intercettazioni alla procura federale. Si scopre che alcuni dirigenti, tra cui Luciano Moggi della Juventus, avevano contatti con i designatori arbitrali. Inizia il processo a giugno, nel frattempo emerge anche che Moggi aveva consegnato delle sim svizzere agli arbitri e che Meani del Milan andava spesso a cena con i disegnatori e con gli arbitri, soprattutto con Collina. Il processo si svolge in tempi rapidissimi e si conclude con la condanna di primo grado alla Serie C1 per la Juventus, Serie B per Milan, Fiorentina, Lazio e Reggina. Alla fine la Juventus è retrocessa in Serie B con 30 punti di penalizzazione, le altre restano invece in Serie A con penalizzazione. A febbraio 2010 emergono almeno 700.000 intercettazioni ascoltate ma incomprensibilmente non consegnate dal maresciallo Auricchio alla procura federale. Nelle intercettazioni si scopre che altre squadre si comportavano come la Juventus e soprattutto emerge che Facchetti (ex presidente dell'Inter) visitava spesso gli arbitri prima delle partite a San Siro, a volte arrivando anche ad intimorirli per aiutare l'Inter. Si scoprono fitti legami tra l'Inter e i designatori e tra il Milan e i designatori ma i termini di prescrizione sono scaduti e l'Inter non può essere condannata. L'ultimo scandalo in ordine di tempo è quello legato al Calcioscommesse che dal 2011 ha visto coinvolti calciatori, dirigenti, società di serie A, B, Lega Pro e dilettanti con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva. Il processo parte dalle procure di Cremona e Bari basandosi sulle testimonianze di diversi collaboratori tra cui ex giocatori che ammettono di aver truccato partite per incassare soldi dalle puntate. Settimana dopo settimana l'inchiesta si allarga a macchia d'olio coinvolgendo volti noti della serie A, da Cristiano Doni a Giuseppe Signori si scopre un universo di atleti pronti a vendere lo sport e a comprare combine con l'aiuto di organizzazioni criminali. E' l'ennesimo terremoto per il campionato italiano, ultimo colpo inferto ad un circo che non può più arrogarsi il diritto di chiamarsi semplicemente "gioco".
A ogni estate il suo scandalo calcistico, scrive Gianluca Ferraris su “Panorama”. Dopo il doping, le intercettazioni telefoniche, gli arbitri chiusi a chiave nello sgabuzzino, gli scudetti assegnati e revocati, i fallimenti in serie, le scommesse, pare proprio che quest’anno sotto l’ombrellone ci toccherà dedicarci a temi ben più ostici. I loro nomi? Transfer pricing, rivalutazioni fittizie, camere di compensazione, diritti royalty-free, spalmature, ammortamenti, esterovestizioni. Tutti strumenti che chi si occupa di gestione fiscale dell’impresa conosce bene, ma che suonano (quasi) inediti se applicati al mondo del pallone nostrano. Che pure qualche dubbio di sorta sulla gestione poco limpida dei suoi affari, per usare un eufemismo, ce lo aveva instillato. Ed è proprio alla ricerca di questi espedienti che da stamattina il nucleo di Polizia tributaria della Guardia di finanza di Napoli si è messo a scandagliare contratti e bilanci di 41 squadre di calcio italiane, 37 delle quali professionistiche, su ordine del procuratore aggiunto partenopeo Melillo e dei sostituti Ardituro, Capuano, Ranieri e De Simone. Un team di prim’ordine rispetto alla materia, visto che tre di loro hanno fatto parte del pool “reati da stadio” e uno (Capuano) lavorò al fascicolo Calciopoli nel 2006. Il piatto è ricchissimo, visto che - salvo Bologna e Cagliari - sono stati acquisiti documenti nelle sedi di tutte le società di serie A e in buona parte di quelle di serie B. Ma nessuna di loro, né tantomeno alcun tesserato, sembrano essere al momento toccati dalle indagini. Tanto che in una nota diramata nel pomeriggio di oggi, martedì 25 giugno, la procura è stata costretta a precisare che si trattava di “semplici acquisizioni di documenti e non di perquisizioni”. L’ipotesi di reato è comunque pesante: associazione a delinquere finalizzata a evasione fiscale internazionale, false fatturazioni e riciclaggio. Tutto è nato otto mesi fa, dopo che gli uomini delle Fiamme Gialle acquisirono nella sede del Napoli i contratti tra alcuni calciatori e procuratori. Ma le indagini sarebbero decollate solo questa primavera, con il rinvenimento di altri documenti sensibili nelle disponibilità dei procuratori Alejandro Mazzoni e Alessandro Moggi, ex patron di Gea World e figlio di Luciano. In seguito il perimetro degli accertamenti, prima circoscritti solo ai calciatori rappresentati dai due, si è allargato notevolmente, fino a comprendere i rapporti tra circa 50 calciatori famosi e non, una dozzina di agenti (oltre al tandem citato ci sono Hidalgo, Battistini, Rodriguez, Guastadisegno, Rodella, Gallo, Calleri, Vilarino, Calaiò e Leonardi) e appunto 41 squadre. L’attenzione degli inquirenti si concentra sull’asse tra Italia e Sudamerica ma senza trascurare i paradisi fiscali (presso i quali secondo quanto risulta a Panorama.it sarebbero già state accese alcune richieste di rogatoria) e forse potrebbe non rimanere confinata soltanto al calcio. Secondo una fonte qualificata, infatti, alcuni meccanismi sono diffusissimi anche negli sport minori e gli accertamenti, che riguardano a ritroso almeno tutto il periodo compreso tra l’inizio del 2011 e la seconda metà del 2012, procedono in ogni direzione. Ma di quali meccanismi si tratta esattamente? Al centro dell'inchiesta ci sarebbe l’aggiramento delle regole di tassazione dei contratti che sarebbe servito a sottrarre al fisco italiano “ingenti quantità di denaro”. In pratica, secondo un canovaccio piuttosto in voga nel mondo industriale e commerciale ma che per la prima volta incornicia massicciamente il mondo della pedata, una parte dei proventi delle compravendite e degli emolumenti dei calciatori non veniva inclusa nei contratti stipulati e depositati in Lega calcio - che dunque riportavano cifre inferiori a quelle effettivamente versate o percepite - bensì corrisposta fatturando altri tipi di servizi o prestazione che generavano una provvista, generalmente estera, esentasse e pronta a tornare nelle disponibilità dei soggetti coinvolti. Esempio pratico: un calciatore richiede un ingaggio di un milione di euro netto l’anno, che con le tasse si tradurrebbe in oltre due milioni da versare per la sua squadra. I due attori potrebbero accordarsi, ma è solo un’ipotesi, per siglare un contratto da 600 mila euro (quindi 1,2 milioni lordi), con gli altri 400 mila fatturati a titolo di sponsorizzazioni, diritti d’immagine, scouting a una società terza, magari quella del suo procuratore. L’atleta percepirebbe così la stessa cifra versando magari meno tasse sul reddito per quanto riguarda la parte eccedente e la società finirebbe per risparmiare alcune centinaia di migliaia di euro.
Per questo, nella loro richiesta di documentazione inoltrata alle società di calcio, i pubblici ministeri hanno evidenziato "condotte finalizzate all'evasione dell'imposta sui redditi e, più in generale, condotte elusive delle regole di imposizione tributaria in relazione all'attività di intermediazione dei procuratori in favore dei calciatori”. Quello che l’inchiesta dovrà accertare è se le somme versate all’estero (“con procedure sistematiche”, annota ancora la Guardia di Finanza) sono rimaste a disposizione di pochi o, magari, sono rientrate per essere spartite ulteriormente e magari reinvestite in altre operazioni più o meno fittizie. Il lavoro degli inquirenti - è la chiosa di una fonte qualificata - punta a chiarire diversi aspetti dell'operatività delle società dal punto di vista fiscale e tributario, dove a una progressiva lievitazione del giro d’affari non è corrisposto un analogo miglioramento dello stato contabile di moltissime squadre. Come se si lasciasse intendere in qualche modo che lo squilibrio finanziario delle società di calcio, o almeno di alcune di loro, non sia soltanto figlio di malagestione economico-sportiva ma anche di calcoli ben precisi. Se fosse davvero così, ci ritroveremmo di fronte a un’ipotesi investigativa tra le più clamorose degli ultimi anni. Ma al momento, come detto, si tratta soltanto di suggestioni.
Il blitz delle Fiamme Gialle rischia di abbattersi come uno tsunami sul calciomercato italiano, scrive Nicolò Schira su “Panorama”. Nell'occhio del ciclone i procuratori: dopo i primi controlli è infatti emerso come a essere indagati non ci siano al momento né giocatori né tanto meno società. Nessuna plusvalenza atta a rimpinguare le casse, magari disastrate, dei bilanci mediante scambi fra squadre. Bensì l'operato dei procuratori fra commissioni, trasferimenti e operazioni legate al mercato estero. Non è un caso che parecchi dei trasferimenti posti sotto la lente di ingrandimento riguardino giocatori provenienti dall'estero: gli acquisti provenienti da altre Federazioni calcistiche sono infatti paradossalmente meno controllati e pagabili con formule pluriennali differenti da quelle italiane. A guadagnarci in queste operazioni molti agenti che, ponendo le rispettive parcelle delle procure fuori dal contratto, di fatto creavano situazioni di evasione fiscale. D'altronde la procura può essere pagata dal giocatore stesso nei confronti di chi ne cura i propri interessi, anche se molto spesso sono proprio i club pagare le spettanze ai vari procuratori. In diversi casi le procure sono concesse al momento della firma, ma fuori dall'operazione. In altri casi, invece, si legano ai bonus collaterali del contratto del giocatore: ad esempio, al raggiungimento di tot presenze può scattare un surplus economico per il giocatore pari all'importo della procura spettante all'agente. Il reale "casus belli" dell'ultima inchiesta della Guardia di Finanza riguarda però i diritti di immagine. Differente la spartizione da club a club. Alcuni vogliono che siano a totale appannaggio della società detenente le prestazioni sportive, tuttavia per abbassare il monte-ingaggi molto spesso si detrae dagli emolumenti di un giocatore parte di quello che sarebbe dovuto essere lo stipendio per versarlo ai tesserati sotto forma di diritti di immagine. Il risultato concreto è che mediante questa modalità le stesse società risparmiano senza appesantire i bilanci. Da non tralasciare nell'ambito dei trasferimenti la modulistica con la quale vengono impostati i contratti. Gli agenti possono firmare e siglare un'operazione mediante il modulo rosso e il modulo blu: uno destinato all'agente del giocatore e l'altro invece al mandatario dell'operazione. Per quest'ultimo la cifra ottenuta dall'operazione non ha alcun vincolo e può essere nettamente superiore da quella di coloro che applicano il modulo blu. In molti casi a condurre l'operazione è però sempre lo stesso procuratore mediante un agente di sua fiducia, molto spesso socio della medesima agenzia: operazione nella norma nel mondo del calciomercato, ma sulle quali ora la Procura di Napoli vuole vederci chiaro…Il mondo del mercato rischia dunque di vivere un clamoroso terremoto e non è un caso che negli ultimi mesi molti procuratori si siano fatti fautori di uno scisma dall'affiliazione alla Figc per impostare un nuovo Ordine degli agenti italiani.
IL PROCESSO AL PROCESSO SU CALCIOPOLI E L'ALTRA VERITA'.
CAMPIONATO DI CALCIO 2012-2013 LO SCUDETTO E’ VINTO DALLA JUVENTUS.
CAMPIONATO DI CALCIO 2011-2012 LO SCUDETTO E’ VINTO DALLA JUVENTUS.
“30 SUL CAMPO. TUTTA L’ALTRA VERITA’ SU CALCIOPOLI” di Maurilio Prioreschi. Nell'albo d'oro del campionato italiano, alla voce Juventus ci sono 28 titoli. Perché allora 14 milioni di tifosi juventini dicono che i titoli sono 30? Perché sulla maglia della squadra campione d'Italia 2012 c'è scritto "30 sul campo", come un mantra da ripetere ogni domenica nei 90 minuti di gioco? A queste domande risponde una controinchiesta sullo scandalo che ha cambiato per sempre gli equilibri del calcio italiano. Un volume figlio dell'esperienza personale di uno dei protagonisti della fase 2 di "Calciopoli": l'avvocato di Luciano Moggi, Maurilio Prioreschi, entrato in scena dopo le condanne sportive inflitte ai dirigenti e la retrocessione della Juventus in serie B. Prioreschi e i suoi collaboratori hanno scoperto buchi enormi, lacune e difetti strutturali nell'indagine dei pm di Napoli e dell'allora maggiore Auricchio, del Nucleo Operativo di Roma, combattendo una battaglia legale che li ha portati alla scoperta degli intrecci tra Calciopoli e l'affare Telecom. Una storia raccontata con rigore da questo libro, un documento per capire il calcio italiano del passato prossimo e di oggi.
Da sabato 8 giugno 2013 "Un giorno in pretura" ha iniziato a raccontare il processo celebrato presso il Tribunale di Napoli, che ha visto salire sul banco degli imputati l’ex dg della Juventus Luciano Moggi, i designatori arbitrali, Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto, l’ ex arbitro Massimo De Santis e ad altri personaggi di primo piano. Si tratta del processo che ha messo sotto inchiesta il cosiddetto "sistema Moggi", che avrebbe operato per condizionare l’esito di diverse partite del campionato 2004-2005 e su cui la giustizia sportiva ha emesso condanne pesanti.
Tenuto conto che per me vale il principio “conoscere per deliberare” ed a me preme dare spazio a tutte le parti in causa. Dare voce gli imputati e non essere il passacarte o lo zerbino dei magistrati. Penso di fare buona cosa nel pubblicare questa inchiesta per far capire meglio la verità. Senza essere Juventino.
Il resoconto seguente è di “ju29ro”; i commenti di Giusy Fiorito su “giulemanidallajuve”.
Resoconto alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda l'08/06/2013.
Ci eravamo chiesti come Rai Tre avrebbe raccontato Calciopoli: ora lo sappiamo. La falsariga è quella seguita anche in passato col processo doping. A prescindere dal fatto che saranno tre puntate da 50 minuti e condensare in esse un processo durato tre anni, un'udienza (ciascuna di cinque-sei ore) a settimana, con un'enorme quantità di fatti e spunti da approfondire, è impresa improponibile. Ma qui non c'è stata nessuna condensazione, solo una scelta di brani di testimonianze, variamente intarsiate. Guarda caso, nella prima puntata le testimonianze sono state quelle di testimoni dell'accusa: Dal Cin, Gazzoni Frascara, Nucini e Zeman (più le comparsate di Cellino e Gianfelice Facchetti, che avrebbero dovuto dimostrare l'esistenza di un sistema Moggi. Che è rimasto una pura ipotesi, puntellata solo da impressioni soggettive. In realtà infatti nei discorsi degli interrogati a dominare è stato il verbo "pensare", variamente surrogato da altre espressioni di opinione; concretezza zero, ciò dovrebbe bastare a smontare il castello di fantasie di Calciopoli; ma in chi sente queste testimonianze per la prima volta quel che rimane impresso è rappresentato dai contenuti raccontati. Guarda cosa facevano quei lestofanti di Moggi e cupolanti assortiti! Che poi fossero solo sensazioni di Dal Cin, convinzioni di Gazzoni Frascara, costruzioni mitologiche del cavallo di Troia Nucini, arrampicate sui vetri di Zeman rimane in secondo piano e vociferazioni varie, tanto lo sanno tutti, lo affermano le gazzette orientanti e il sentimento popolare, che il mostro è Moggi. Perché, son parole dell'avvocato Prioreschi, questo non è stato un processo, è stata una spietata caccia all'uomo. Particolarmente infelice la scelta caduta su Nucini, un testimone bocciato dalle motivazioni stesse della sentenza ("Le vane parole pronunciate da alcuni testimoni, tra questi Martino e Nucini", "inconsistenza di Nucini vagliata per tempo dal PM di Milano"), nelle quali, a proposito della sua collaborazione con 'Giacinto' e del conseguente spionaggio da parte di Telecom, si parlava di "forme molto odiose di spionaggio". Un'opera di intelligence ordinata dall'Inter, ora chiamata a risponderne in tribunale; e nel tagliaecuci operato con le due deposizioni (25-05-2009 e 15-03-2011) di Nucini peraltro manca una parte importante delle stesse, quella dei suoi torbidi rapporti con la dirigenza nerazzurra (qui presentata solo con Facchetti, uomo leale, vero uomo, e pazienza se, per non estendere il discorso alle intercettazioni, lo troviamo a colloquiare amabilmente con un arbitro in attività, pratica non certo consentita) quando svela il retroscena della ricerca di un posto di lavoro in banca con l'aiuto del dottor Paolillo. Nucini è uno dei testimoni peggio usciti dal processo. Zeman poi si presenta da sé: forse ecco Zeman, con le sue macchiettistiche affermazioni di essere il più bravo e la rimozione dei suoi esoneri e dei punti in classifica, è la dimostrazione più evidente della mancanza di credibilità delle accuse rivolte agli imputati. E se poi si pensa di sostenere l'esistenza della cupola perché a Gazzoni Frascara saltò in testa di testa di chiedere, sua sponte, proprio a Giraudo 'referenze' su Zeman... Sembra quasi la ricerca di un pretesto per non sceglierlo. Ora ci aspetta la seconda puntata, quella sul caso Paparesta: c'è da scommettere che andranno a cercarlo nello spogliatoio di Reggio Calabria.. Ma è probabile che l'assistente Coppola non ce lo faranno mai sentire, in nessuna puntata.
Commento alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda l'08/06/2013. Parte I.
Non capita spesso di avere l’occasione di poter riconsiderare qualcosa con il senno di poi, semplicemente perché come recita il proverbio ne sono piene le fosse. Perciò la messa in onda delle tre puntate di “Un giorno in pretura” che Rai3 ha iniziato la sera di sabato 8 giugno potrebbe avere un effetto positivo sul processo di calciopoli, che il 24 maggio ha visto rimandare al 3 luglio le udienze dell’appello. In tale prospettiva chi ha avuto la possibilità di guardare la prima puntata dedicata al presunto sistema Moggi e chi vorrà dedicare un paio d’ore alla sua visione registrata credo debba rivalutarne il materiale anzitutto sulla base del confronto con le deposizioni complete rese a Napoli dai testimoni, ovviamente sottoposte a tagli da parte della redazione di Rai3 per questioni di tempo, ma che potrebbero anche in buona fede alterarne il senso. E tenere in considerazione alcune riflessioni. Il viaggio nel passato del processo di calciopoli avviene a sentenza di primo grado già emessa, con la condanna di Luciano Moggi al massimo della pena prevista, cioè 5 anni e 4 mesi, benché il reato contestato sia stato ridotto a un pericolo di tentata frode e non a una frode sportiva concretizzata. In seconda istanza è necessario puntare i riflettori sui protagonisti di calciopoli per quanto concerne i testimoni prodotti dall’accusa. Essi non sono stati e non sono sul banco degli imputati, ma oggi come allora, anzi più di allora, non solo dimostrano di essere del tutto privi della qualità immancabile della credibilità, ma sembrano sopperire ad essa con le ragioni di una umanamente comprensibile insoddisfazione e sensazione di inferiorità che agita in loro sentimenti di frustrazione per i fallimenti personali. Ciò che non può essere accettato è che codesti fallimenti essi abbiano riversano con l’aiuto degli inquirenti su Luciano Moggi, che al contrario, insieme con Roberto Bettega e soprattutto Antonio Giraudo aveva conseguito grandi successi alla guida della Juventus e molti ancora avrebbe potuto realizzarne sulle basi di un lavoro svolto in modo professionale. Come è emerso dal processo per doping amministrativo scaturito da calciopoli che li ha assolti perché il fatto non sussiste, il sistema Moggi era addirittura più “onesto” se raffrontato con l’operato di questi protagonisti che l’accusa ha voluto attori principali del processo, spesso forzandoli a orientarsi a un supposto pentimento che non c’è stato e che ha fatto morire le ragioni stesse dei pm. E’ accaduto con Nucini, con Zeman, con Baldini e con Manfredi Martino, che alla fine hanno rivelato incongruenti e basate sul nulla le loro accuse. E’ accaduto con Dal Cin, che ha smontato le sue dichiarazioni della prima ora a voci di corridoio e chiacchiere. Tutti personaggi che dalla rovina di Moggi e della Juventus avrebbero potuto ritenere di avere qualcosa da guadagnare, anche se i fatti hanno dimostrato persino l’infondatezza di questo desiderio così poco recondito. Calciopoli è stata definita una farsa. Oltre l’inconsistenza dell’impianto accusatorio, oltre l’inattendibilità dei testimoni, persino gli inquirenti hanno dato prova in troppe occasioni di non essere all’altezza sotto il profilo della competenza e della moralità, forzando le indagini con una selezione delle prove ripetuta e piegandole alle proprie tesi, mentre la legge italiana obbliga a dare lo stesso valore tanto alle prove a carico degli imputati, quanto a quelle che li sollevano dalle accuse. Non vi è dubbio: un cittadino è innocente fino al terzo grado di giudizio. Ma siccome Luciano Moggi, Antonio Giraudo e la Juventus sono stati ossessivamente dipinti dai giornali come mostri brutti, sporchi e cattivi e come artefici e depositari dell’immoralità e di tutti i mali del calcio e testate nazionali un tempo rispettabili quali La Gazzetta dello Sport in primis, Repubblica, L’Espresso, Il Corriere della Sera ecc. si sono sentite autorizzate alla celebrazione dei processi sulle colonne dei loro giornali piuttosto che a suo tempo nelle aule dei tribunali, trovandosi persino a emettere da lì le sentenze, ritenendo un loro diritto imprescindibile dare priorità alla notizia, anche tagliata e ricucita ad hoc come certe intercettazioni, allora corre l’obbligo di mettere a fuoco qualche altro particolare. Il pm Narducci, che ha abbandonato prima della sentenza di primo grado il processo di calciopoli, ripiegando su una più proficua carriera di politico da far partire come assessore della giunta napoletana di De Magistris, si è dimesso il 12 giugno 2012, appena un anno dopo. Una scelta già criticata dal presidente Napolitano, non solo per essere stato il pm di calciopoli, ma soprattutto un grande accusatore del coordinatore del Pdl della Campania, Nicola Cosentino. Narducci è stato più volte oggetto delle accuse sia di diversi pentiti della camorra, che sono arrivati a dire che un carabiniere comprava droga per suo conto, che di alcuni rappresentanti della sinistra più radicale in merito al lavoro svolto sulle ecomafie e l’uso delle discariche. Di certo la stesura del suo libro su calciopoli ha destato parecchie perplessità, soprattutto all’ex arbitro Dondarini, che lo ha querelato. Alcuni nodi della giunta De Magistris sono venuti al pettine anche per il colonnello Auricchio, il coordinatore dei Magnifici 12 che condussero l’inchiesta di calciopoli, tra baffi rossi, escursioni senza permessi in Svizzera, intercettazioni brogliacciate un po’ così, intercettazioni di schede svizzere che si potevano fare solo se conveniva, trascrizioni artigianali, computer sequestrati durante le indagini per il processo Telecom a Milano e trasferiti a Roma per ricavarne informazioni da utilizzare arbitrariamente per l’inchiesta di calciopoli, nonostante fossero state reperite illegalmente dalla security guidata da Tavaroli. E ancora registrazioni video sparite, pedinamenti non integrati da intercettazione ambientale, conditi da una certa ignoranza a ricondurre la proprietà di reti televisive al presidente di una nota squadra di calcio e da una certa riluttanza ad ascoltare testimonianze che non erano contro la Juve, come avvenne quando il guardalinee Coppola si presentò spontaneamente per riferire qualcosa e gli fu risposto che l’Inter non interessava. Il 7 giugno Il Giornale.it, richiamando l’abitudine del colonnello a manipolare le intercettazioni, come era avvenuto a Catanzaro quando a essere messo ingiustamente sott'inchiesta era stato Giuseppe Chiaravalloti e la consuetudine di trovarsi “confidenti” in grado di compiacerlo, come aveva cercato di fare con l’ex DS della Roma Franco Baldini, passato oramai agli annali delle cronache da ribaltatore a ribaltato dopo la nuova fallimentare esperienza presso la società giallorossa, ha riportato una notizia che forse non ha lasciato esattamente di stucco chi in questi anni ha seguito il metodo Auricchio, insegnato persino nelle scuole di investigazione della polizia italiana e proprio da colui che ne detiene il copyright. “I «marinai» di fiducia del sindaco Luigi de Magistris, ovvero il fratello Claudio e il fido carabiniere capo di gabinetto Attilio Auricchio, sono infatti indagati per concorso in turbativa d'asta per quattro presunti appalti pilotati in occasione delle edizioni 2012 e 2013 dell'America's Cup di vela”. Forti di questo bagaglio antivirus, memori delle registrazioni complete delle udienze di calciopoli, che sono sempre a disposizione di tutti nel web e lo furono per i meriti di radio radicale, rivediamoli così come erano nei momenti in cui poterono dare libero sfogo alle loro frustrazioni.
Commento alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda l' 08/06/2013. Parte II. Dal Cin.
La prima delle tre puntate di “Un giorno in pretura” dedicate a calciopoli ha affrontato la questione se esistesse o no un sistema Moggi, attraverso la messa in onda delle testimonianze rimaneggiate per motivi di tempo dei principali testimoni che, secondo la definizione dell’avvocato Prioreschi, difensore dell’ex DS della Juventus, sarebbero stati gli interpreti di una autentica caccia all’uomo. Avvenuta, secondo l’immagine prodotta dall’avvocato Trofino, un altro dei difensori del processo, per un bisogno del calcio italiano di sacrificare Luciano Moggi, ma a tale scopo è stato coinvolto anche Giraudo, da molti ritenuto il bersaglio vero, sull’altare di un’esigenza di catarsi del calcio italiano. Più prosaico il giudizio di De Santis, tra i principali imputati di Napoli, insieme con Moggi e gli ex designatori Bergamo e Pairetto: “ I puri nel calcio non esistono”. Come si evince bene andando a scoprire chi sono stati gli accusatori. Il 18 aprile 2004 Corriere.it riporta quanto accaduto nel corso di Messina Venezia 2 a 1, finita con una rissa in campo. La partita era stata preceduta da una telefonata di Cellino, che avvisava il presidente del Venezia Dal Cin di non spendere nemmeno i soldi di quella trasferta, dal risultato sicuro per i siciliani per la designazione ad arbitro di Palanca. Dal Cin si mette a fare dichiarazioni ai giornali e viene chiamato dalla procura di Napoli che sta indagando su una questione di calcio scommesse. Ai carabinieri di Napoli il presidente del Venezia confermerà che De Santis e Palanca fanno parte di una “Combriccola romana” al servizio di un sistema che gestirebbe i campionati e che avrebbe a capo Luciano Moggi, collegato al Messina per un legame di amicizia con il dirigente Fabiani.
• Nella ricostruzione di Rai3 vengono raccolte le testimonianze di Cellino e Dal Cin, che altro non riescono ad affermare se non di essere stati convinti che ci fosse qualcosa sopra di loro e che “la pensavano così, che c’era un centro di potere che faceva capo a Moggi e Giraudo”. Chiacchiere, supposizioni, prove nessuna.
• Come conclude la parte della trasmissione dedicata alle origini di calciopoli, nessuna irregolarità è stata riscontrata per la partita Messina Venezia, né riguardo all’operato dell’arbitro Palanca.
• Mariano Fabiani, per il quale l’accusa aveva chiesto 3 anni e 8 mesi, è stato assolto in primo grado al processo di Napoli.
• Il 14 febbraio 2013 Cellino viene arrestato nell'ambito dell'inchiesta della procura di Cagliari sui lavori di adeguamento dello stadio Is Arenas.
• Dal Cin è stato coinvolto nel fallimento del Venezia e nella combine della partita Genoa Venezia del campionato di serie B 2004/2005 insieme al presidente Preziosi.
Commento alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda l' 08/06/2013. Parte III. Nucini.
I tempi televisivi sono contenuti. Però la parte di trasmissione che riguarda la deposizione di Nucini è lacunosa, per quanto di buona volontà, pur coinvolgendo un altro grande accusatore di calciopoli, Gazzoni Frascara. La partenza è lodevole, perché si afferma subito che le accuse lanciate da Nucini alla Triade fanno capo al campionato 2000/2001 e si conclude mettendo bene in chiaro, e anzi facendolo dichiarare proprio all’ex arbitro dalla memoria piuttosto a singhiozzo, che quel campionato non fu vinto dalla Juventus, bensì dalla Roma, omettendo però di menzionare almeno altri due dati molto significativi. Quello che è stato l’ultimo campionato di serie A andato ai giallorossi è stato vinto giocando con un numero di extracomunitari superiore a quello consentito dal regolamento. Particolare che avrebbe dovuto condurre a una penalizzazione di punti per ogni partita giocata dalla Roma, che non ci fu, esattamente come nel caso dei passaporti falsi per l’Inter di Recoba. La Roma usufruì anzi di una modifica al regolamento approntata a un paio di giornate dalla fine del campionato e stranamente considerata con valore retroattivo. Va aggiunto che fu proprio l’extracomunitario Nakata a segnare la rete del pareggio nello scontro diretto con la Juventus. Anche il campionato 1999/2000 non era stato vinto dalla Juventus, ma dalla Lazio, con l’infelice epilogo, per i colori bianconeri, dell’acquitrino di Perugia. Proprio nel corso del primo campionato del millennio Nucini si ritrova ad arbitrare una Juventus Bologna e ad assegnare un rigore contro la Juventus che giocava in casa. L’episodio gli verrà a suo dire contestato dai designatori Bergamo e Pairetto e segnerà una sorta di empasse nella sua carriera. Bergamo e Pairetto attribuiranno la causa del suo fermo di 40 giorni in serie A a una sua frase irrispettosa, ma Nucini si convincerà per fare carriera come arbitro non si debba danneggiare la Juventus, tanto più in casa e addirittura sia d’obbligo ostacolare le sue rivali. Nella trasmissione è messo bene in luce come Mark Iuliano abbia ammesso nel dopo-partita di aver toccato con il braccio la palla in area di rigore, sebbene il braccio non fosse discosto dal corpo. La difesa chiede quale sia stato e perché l’arbitro che aveva subito un fermo maggiore per un errore. Nucini accusa un’amnesia. Si tratta di Racalbuto, uno degli arbitri condannati a Napoli, fermato per ben 8 mesi per aver concesso un rigore dubbio proprio alla Juventus. L’episodio di Bologna è significativo per 2 ragioni. La prima è, e bisogna ammettere che su questo argomento la redazione dei “Un giorno in pretura” ha giocato un po’ a ridicolizzare Nucini, che fa esplodere la sua vocazione di investigatore (nonché di agente segreto) in pectore. Prima di trovare la sua naturale evoluzione nella figura retorica di “Cavallo di Troia”, l’ex arbitro si accontenterà per tutto il campionato 2000/2001, non al vaglio delle indagini di calciopoli (e che qualcuno potrebbe anche osare di dare eventualmente per prescritto), di prendere nota di tutti gli episodi pro e contro la Juventus che non lo convincono, allargando il raggio d’azione anche a quanto andava accadendo alle avversarie e in particolare all’Inter. Nonostante sia abbastanza chiaro dalle immagini delle partite che Rai3 si è premurata di fornire al telespettatore che in diversi casi si tratta di convinzioni che lasciano il tempo che trovano. La seconda è che per quanto attiene alla partita Juventus Bologna entra in scena Gazzoni Frascara, che nel frattempo ha messo a frutto l’occasione di riferire a Stella in un’intervista alla Gazzetta dello Sport che aveva rinunciato a diventare presidente di Lega per non aver ottenuto il rinvio di una partita in seguito alla morte di Niccolò Galli, figlio di Giovanni, in un incidente e perché si era accorto che Nucini non arbitrava più. Lo abbiamo detto. E lo capiamo. I tempi televisivi sono stretti. A Rai3 va riconosciuto il merito di aver portato finalmente, dopo ben 7 anni, di sabato e in seconda serata (con un trattamento che in quanto all’uso di un silenziatore va oltre a quello riservato ad es. a un argomento scottante come la presunta trattativa tra mafia e stato), le immagini e le tematiche di calciopoli. Però su Gazzoni Frascara una parentesi bisogna aprirla. Un refresh è d’obbligo. Vicino al Bologna fin dagli anni ’80 con il marchio Idrolitina, Gazzoni Frascara ne rileva il titolo sportivo nel 1993, in seguito al fallimento della gestione precedente e ne diventa presidente fino al 2004/2005, quando retrocede in B dopo aver giocato diverse partite entrate nelle indagini di calciopoli vuoi per le sconfitte interne contro la Lazio e la Juventus, vuoi per alcuni episodi collegati alla presunta pratica delle ammonizioni mirate. A questo punto diventa uno dei principali accusatori di calciopoli. Non solo lancia strali riguardo a quei risultati conseguiti sul campo, ma anche per quanto attiene al cosiddetto doping amministrativo. Parla di progressivo deterioramento dei rapporti con la Juventus con l’avvento della Triade, si lamenta della Lazio, che ha spalmato 14 miliardi di debito fiscale in 25 anni, della Roma che ha rifilato 5 gol al suo Bologna facendogli rischiare l’incolumità fisica per la rabbia dei tifosi, sebbene avesse 50-60 miliardi di debiti con l’IRPEF. Soprattutto accusa Messina e Reggina di non aver rispettato i parametri finanziari per l’iscrizione al campionato e di non esserne state escluse in favore di un ripescaggio della sua ex società. Come gli ricorda Prioreschi nel corso della sua deposizione a Napoli, il 13 settembre 2006 si lascia sfuggire con gli inquirenti un’accusa precisa contro Giacinto Facchetti, che avrebbe avallato una fidejussione inidonea prestata dalla Sanremo Assicurazioni in favore della Reggina. Come accade sempre ai testimoni di calciopoli, incalzato dall’avvocato della difesa, Gazzoni Frascara si rimangia tutto, affermando che in realtà “si diceva” così, “Io non ho la prova però”, “Probabile… Dal bocca a bocca che gira in questo grande mondo del calcio”. E quando Prioreschi gli chiede che vuole capire se la Reggina fosse “amica” della GEA e di Moggi o di Facchetti, che sarebbe tutta un’altra cosa, risponde: “Non centra nulla avvocato, è tutto un melting pot il calcio, sono chi più ha più ne metta, lì per guadagnare quattro lire son tutti nemici e tutti amici”. Musica per le difese. Intanto Nucini è diventato il “Cavallo di Troia” di Facchetti, di fatto la sua spia per “contrastare il malessere del calcio”. Concittadini, i due si incontrano ripetutamente a Bergamo e congegnano un piano per il quale Nucini riferirà al dirigente interista tutto quanto sarà in grado di scoprire sul sistema Moggi. Quando si ragiona di calciopoli bisogna sempre ricordare che non erano i rapporti tra i dirigenti e i designatori, cioè quelli che Moggi e Giraudo avevano con Bergamo e Pairetto, a essere vietati dai regolamenti fino al 2007, ma quelli tra i dirigenti e gli arbitri. Eppure, nonostante il processo di Napoli abbia chiarito con la scoperta delle intercettazioni riguardanti l’Inter e la deposizione di Nucini quanto più grave fosse da considerare la posizione dell’Inter, quest’ultima non è mai stata coinvolta in nessun procedimento né della giustizia sportiva, né di quella ordinaria. Almeno fino a quando Vieri, Bergamo, De Santis e Moggi non hanno deciso di chiedere in tribunale di essere risarciti per gli spionaggi illegali subiti. Ma c’è di più. Facchetti addirittura impartisce degli ordini a Nucini, chiedendogli esplicitamente di raccogliere informazioni su Fabiani, che otterrà da De Santis, che lo qualifica come suo amico. E’ su questo punto che Nucini innesta il racconto del Concord, l’albergo di Torino presso il quale avrebbe incontrato Fabiani e Moggi e quest’ultimo lo avrebbe raccomandato al telefono con i designatori. Secondo Bergamo non corrisponde a verità che Nucini abbia ottenuto benefici come arbitro in carriera da quel presunto incontro. L’incontro probabilmente non ci fu. Non si evince dalla trasmissione, ma Nucini ha dato diverse versioni di questo episodio, al quale Moratti cercò di far risalire l’input dato alle intercettazioni illegali Telecom-Pirelli. L’episodio sarebbe avvenuto sul finire del 2003, mentre i Dossier Ladroni erano sui giornali già a Marzo. La difesa fece in aula precise domande riguardo alla planimetria dell’hotel in questione e Nucini accusò nuove amnesie. Disse pure di aver ricevuto una tessera telefonica imballata e di averla gettata via senza averla utilizzata, nonostante costituisse la prova regina di quanto affermava. In seguito ne ricordò il numero, ma la difesa dimostrò che era stata in uso a Napoli. Tutto ciò annulla la credibilità di Nucini ed è assente dalla ricostruzione della trasmissione. Appare ben chiaro invece il tentativo dell’accusa di fare di Nucini un pentito, poiché dalle dichiarazioni di Gianfelice Facchetti si ricaverebbe che il padre, un memoriale del quale ha esibito in aula e non è stato annesso agli atti perché privo di firma autografa, abbia considerato Nucini un arbitro facente parte della cosiddetta cupola moggiana. Inoltre secondo il figlio del dirigente interista Nucini avrebbe favorito il Messina in una partita contro l’Avellino. In aula è scoppiato un certo caos quando Nucini ha rifiutato, con un atteggiamento di scherno indisponente verso i giudici e le difese, di assumere la parte del pentito. Pur comprendendo la complessità di rendere televisivamente in meno di mezz’ora la vicenda del “Cavallo di Troia”, bisogna ammettere che dalla ricostruzione sono assenti diversi particolari importanti. Nucini riferì nel corso della deposizione che in cambio dei servigi resi a Facchetti ebbe la possibilità di effettuare dei colloqui di lavoro, resi possibili anche per l’interessamento di Paolillo, un altro dirigente interista. L’ex arbitro ammise inoltre di essere stato convocato dalla signora Boccassini probabilmente per fare una denuncia, ma quanto dichiarò alla giudice la convinse ad archiviare le indagini. Nella trasmissione non si fa menzione del modello 45, che proverebbe come la procura di Milano non avesse rilevato la necessità di aprire un’inchiesta dalle informazioni di Nucini. Il documento è stato più volte richiesto dalle difese e mai ottenuto tra le carte processuali. Il solo accenno al legame stretto che esiste tra il processo Telecom di Milano e il processo di calciopoli è costituito da una dichiarazione dell’ex arbitro De Santis, che si è detto sicuro che se dai pedinamenti illegali fosse saltato fuori qualcosa di veramente rilevante sul suo conto, la sua carriera sarebbe finita prima del 2006. Oggi siamo molto più avanti sulla strada della ricostruzione della verità. Le dichiarazioni di Tavaroli, di Cipriani e della signora Caterina Plateo al processo Telecom di Milano hanno squarciato il velo delle responsabilità dell’Inter in calciopoli. La scoperta che il computer di Tavaroli fu trasferito al nucleo operativo dei carabinieri di via In Selci a Roma ha fatto nascere l’ipotesi fondata che vi fu un inquinamento delle prove, di fatto elaborate sulla base di spionaggi illegali. Purtroppo la colpa di non aver trattato questo importante segmento di notizie non è tanto da addebitare alla redazione di Rai3, quanto all’assenza dei testi che a Napoli avrebbero dovuto testimoniare su questo pernicioso argomento: Tavaroli, Cipriani, Moratti, ovviamente Facchetti per la prematura scomparsa. Probabilmente non aver insistito per chiamarli a testimoniare costituisce il ventre molle delle difese, esemplari in ogni altro aspetto del loro lavoro.
Commento alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda l' 08/06/2013. Parte IV.
“Fino al 1998 ero uno degli allenatori migliori d’Europa”. Si allarga Zeman nell’aula 216 e come accade a chi si loda, finisce che si imbroda. Prima di tutto recuperiamo un altro frammento della deposizione di Gazzoni Frascara, che lo avrebbe voluto ad allenare il Bologna, ma essendo a conoscenza della ruggine esistente tra l’allenatore boemo e la Juventus a causa delle sue dichiarazioni sul doping, chiese a Giraudo un parere e questi gli fece capire di considerare se fosse o no il caso. Uno scambio di vedute senza minacce e senza insulti. Opinioni. Come quella secondo la quale Zeman afferma che “pensa” che anche quando fu chiamato ad allenare il Lecce il dirigente Moroni fu redarguito da Giraudo. Questa deposizione molto emblematica di calciopoli è forse la più nota del processo di Napoli, poiché ha fatto il giro del web suscitando un’irrefrenabile ilarità frammista a una rabbia profonda per la qualità morale e intellettuale degli accusatori di calciopoli, ai quali inspiegabilmente è stata concessa la fiducia degli inquirenti. Si avverte una sorta di incredulità di fronte a un’esibizione “drammatica” che se non è stata dettata da una protervia fatta di ostinata superbia e irriducibile arroganza, non può che essere derivata da una coscienza di sé talmente ipertrofica da sfiorare il patologico e il ridicolo. Nel momento in cui le difese hanno un moto di rivolta contro la sfrontatezza insolente del boemo e la stessa Teresa Casoria sembra bonariamente deriderlo, Zeman ha un sorriso equivoco, di chi sta prendendo in giro tutti. Come invece Nucini voleva far credere di Moggi e Giraudo. Così afferma senza tema di essere facilmente sbugiardato che Moggi lo aveva voluto al Napoli per il gusto di umiliarlo facendolo successivamente esonerare. A nulla vale che la difesa gli renda noto di aver conseguito 2 miseri punti in 6 partite. A niente serve l’elenco lunghissimo dei suoi esoneri, poiché li attribuisce al sistema, anche quelli subiti all’estero, e ne riconosce solo uno, quello ottenuto dalla Lazio. Sarà lo stesso Moggi a fare la conta dei suoi fallimenti, dopo aver messo in rilievo l’ingente somma percepita da Zeman in qualità di allenatore del Napoli e sottolineando che spesso una squadra ha trovato la vittoria proprio dopo il suo allontanamento. Zeman ha querelato Moggi per queste dichiarazioni, per aver affermato che viene esonerato continuamente perché semplicemente “non sa allenare”. Moggi ha vinto nello scorso novembre almeno questa causa. Zeman è stato esonerato a febbraio 2013 dalla Roma. L’apoteosi della sua apparizione a Napoli è la risposta alla domanda della difesa di Moggi: “Lei quanti trofei ha vinto nella sua carriera?”. Solita risata beffarda e risposta altrettanto sarcastica e irriverente, per quanto tristemente vera: “Zeru tituli”. Calciopoli è decisamente, irrimediabilmente una farsa.
Resoconto alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda il 15/06/2013.
Si sono blindate alcune frasi, alcune stupidaggini anche, dette al telefono, e si è costruito sopra non solo un'imputazione di frode sportiva, ma pure un'imputazione di associazione a delinquere, sulle chiacchiere da bar". Queste parole dell'avvocato Maurilio Prioreschi che hanno aperto la puntata di "Un giorno in pretura" di ieri sera, la seconda del ciclo dedicato a Calciopoli, intitolata "Il caso Paparesta", riassumono bene quello che è avvenuto nell'aula 216 del Tribunale di Napoli, durante i lunghi mesi del processo su Calciopoli. Ma RaiTre non sembra granché d'accordo, perché il tagliaecuci delle testimonianze offerte è tenuto insieme dall'imbastitura della conduttrice, che indirizza more solito il ragionamento. E ripete alcune ovvietà smentite dal processo stesso: una per tutte il fatto che le cosiddette schede svizzere non fossero intercettabili, fatto smentito dalla testimonianza dell'ingegner De Falco, il perito consulente della difesa di Fabiani, che ha spiegato come tutte queste schede estere siano assolutamente intercettabili. Tuttavia, come temevano, questa testimonianza non ci è stata fatta sentire. Quella di Cillis, il titolare del negozio di Chiasso che vendeva le schede a Moggi, sì, e l'abbiamo visto quanto mai titubante, quasi impaurito, quando è stato condotto affermare che tra i suoi clienti c'erano, ad esempio, anche Marco Branca e il fratello di Massimo Moratti. Ma il clou doveva essere il caso Paparesta: se non sapessimo che per questo fatto Moggi e Giraudo sono stati indagati per sequestro di persona (la Procura di Reggio Calabria, cui gli atti furono trasmessi per competenza, archiviò perché "il fatto non sussiste"), ci sarebbe a posteriori da ridere a vedere su cosa di basasse questa ipotesi: due telefonate nemmeno millantatorie, semplicemente scherzosamente iperboliche, con un'amica (Silvana Garufi) e un giornalista (Damascelli); il molto presunto sequestro, non solo è stato ovviamente smentito dallo stesso Paparesta, che ha parlato solo della profonda irritazione di Moggi e Giraudo per quanto era successo in campo (gli errori della terna arbitrale che avevano compromesso il risultato di Reggina-Juventus, finita 2-1) ma, visto nella sua reale dimensione (fuori dal castello fantastico di Farsopoli), si presenta addirittura come concretamente inipotizzabile. L'intermezzo comico è stato quello in cui, in relazione al Processo di Biscardi, Moggi proponeva che a Paparesta venisse 'tolta la patente completamente e gli esami entro 15 giorni', semplicemente un gioco dentro la trasmissione, con una valenza esclusivamente a livello di spettacolo (come tanti altri pagelloni che infestano tante trasmissioni pseudosportive e pseudogiornalistiche), e che non era per nulla indicativo di quello che è sembrato essere l'assunto dell'intera trasmissione: Moggi come l'arrogante padrone del calcio italiano. Quanto al modo con cui sono state condotte le indagini, ovvero a senso unico, come avrebbero poi avuto a dire le motivazioni stesse della sentenza (si è badato solo a correr dietro ai misfatti di Moggi), Paolo Bergamo ha fatto notare la stravaganza del fatto che, mentre le cene in cui era presente Moggi (a proposito delle quali, a dire della conduttrice, gli inquirenti 'si convincono' che siano 'finalizzate a intervenire sui sorteggi e sulle griglie') sono esibite come corpi di reato, le visite di Facchetti (che da casa Bergamo chiama Moratti) e le telefonate di invito (accettato e poi disdetto all'ultimo) con Galliani sono semplicemente sparite. Ma nella storia di Calciopoli ormai alle sparizioni abbiamo fatto il callo. Infine è comparso sulla scena Franco Baldini, l'uomo del ribaltone, ma la telefonata del ribaltone non l'abbiamo sentita. Abbiamo sentito invece il suo cahier de doléances su presunte minacce, più o meno latenti, da parte di Moggi e lo abbiamo sentito definire l'ex dg bianconero 'uomo senza qualità', impresa che gli è valsa il rimbrotto della dott. Casoria, la replica piccata dell'avv. Trofino (che ha chiamato in suo soccorso la memoria di Gianni Agnelli) e una querela da parte di Luciano Moggi. L'ultima parte è stata dedicata alla beghe interne al pollaio della Rai (tra Varriale, Sanipoli, Scardina, Venerato, Giubilo) su chi dovesse fare il servizi alle partite della Juventus, storielle e/o storiacce che non si capisce come possano influire sull'alterazione dei campionati.
Commento alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda il 15/06/2013. Parte I. Il caso Paparesta, ovvero il caso che non c’è.
Se la prima del ciclo di tre puntate che la trasmissione di RAI3 ha dedicato a calciopoli, pur molto lacunosa nella parte che riguardava l’idillio tra Facchetti e Nucini poi sfociato nell’affaire dossieraggi illegali Telecom, avrebbe potuto aspirare a una cauta classificazione nell’ambito del “senza infamia e senza lode”, la seconda sembra proprio aver meritato la bocciatura, avendo lasciato in ombra troppi particolari che avrebbero chiarito meglio i fatti. Un atteggiamento che purtroppo non ha scusanti, considerati la pluridecennale tradizione della trasmissione e il vanto di RAI3 di comprendere nei suoi palinsesti trasmissioni del calibro di Report e Presa Diretta. Ancora una volta siamo disposti ad ammettere che è difficile condensare tutta calciopoli in tre puntate, ma altrettanto che per dare dell’argomento una visione onesta e completa è necessario anzitutto fuggire dai luoghi comuni di uno scandalo che si è ben presto dimostrato più mediatico che reale. Invece i riflettori sono stati puntati anzitutto sulla leggenda metropolitana del caso Paparesta, lasciandosi sfuggire molte osservazioni senza le quali non è possibile capire calciopoli.
1. Fin dal 2007 il caso Paparesta è per sentenza della giustizia il caso che non c’è. Ma continua a interessare i media e a essere presentato e rappresentato come il cuore di calciopoli.
2. Il cuore di calciopoli è in realtà qualcosa che nel 2006 non è stato preso in esame: le telefonate riguardanti l’Inter. Il 10 novembre 2011, a due giorni dalla sentenza di primo grado di Napoli, l’ex capo della procura di Napoli Lepore dicharò a Galdi della Gazzetta Sportiva: ”Quando arrivavano critiche chiedevo sempre ai miei collaboratori: mi dicevano che le intercettazioni legate all’Inter non avevano alcun significato di carattere penale e non potevano essere prese in considerazione” . Inoltre: «Noi tutto il materiale lo demmo a Guido Rossi e a Borrelli consapevoli che potevano esserci cose non di rilevanza penale ma utili alla giustizia sportiva». Anche le famose telefonate dell’Inter? «Non conosco i particolari». La testimonianza di Nucini, corteggiato invano da Narducci per farne un pentito della cupola moggiana, la testimonianza del guardalinee Coppola al processo di Napoli, le deposizioni che Tavaroli, Cipriani e Caterina Plateo hanno reso al processo Telecom di Milano suggeriscono che quei particolari portavano alla violazione dell’art 621 del Codice Penale e sicuramente avrebbero avuto un riscontro anche riguardo alle interpretazioni della giustizia sportiva. Sempre che Palazzi non ne avesse in animo anzi tempore la prescrizione, come di fatto accadde nel giugno del 2007.
3. Il quadro delle accuse di calciopoli sarebbe ancora più completo se le intercettazioni, molte delle quali già conosciute prima della sentenza sportiva del 2006, che coinvolgevano il Milan non fossero state filtrate dalla natura delle cariche tanto di Galliani quanto di Meani, che non a caso furono dipinti come a capo di una presunta “scuderia Milan”, ben organizzata soprattutto nella gestione dei guardalinee. Galliani si avvalse della duplice investitura di vice-presidente vicario del Milan e di presidente di Lega per intrattenersi telefonicamente con Collina, Meani si è preso un anno pure a Napoli senza per questo dare luogo a responsabilità da parte della società rossonera in virtù del suo contratto che ad essa lo legava senza esserne tesserato.
4. Il 3 marzo 2012 De Santis, condannato a 1 anno e 11 mesi a Napoli, in un’intervista molto piccata al Giornale rese bene in base a quale quadro sconnesso e sgangherato furono svolte le indagini di calciopoli, come se si fosse preteso di conoscere l’immagine di un puzzle conoscendo solo 900 delle 171.000 tessere (questa è la proporzione delle intercettazioni prese in considerazione dagli inquirenti e la conoscenza del materiale come è oggi si deve a Nicola Penta, il perito di Moggi, che di fatto ha dovuto comprarsi la sua difesa). In questa intervista De Santis spiega come al telefono avesse contatti con i dirigenti interisti e non con Moggi e come quest’ultimo non lo onorasse esattamente di lodi parlando di lui e del suo operato come arbitro poco propenso a portar bene alla Juve. Particolare ben noto anche agli inquirenti, che a tal proposito elaborarono la sgangherata teoria di un De Santis che a corrente alternata si sdoganava dalla cupola.
Commento alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda il 15/06/2013. Parte II. Le cene.
Avevamo chiuso il primo capitolo del nostro resoconto sulla prima puntata di “Un giorno in pretura” dedicata a calciopoli con una frase che per chi conosce sufficientemente la materia potrebbe sembrare addirittura scontata e che riguarda il carattere di farsa di tutto ciò che ruota intorno a questo scandalo. L’avvio della seconda puntata, dal titolo “Il caso Paparesta”, sembra aprirsi proprio nel tentativo di portare credito alla nostra tesi. L’Ispettore di polizia Claudio Salvagno depone al processo di Napoli intorno all’attività di un Moggi interessato a indicare terne arbitrali per amichevoli e soprattutto per il Trofeo Berlusconi, che sarà pure vinto dalla Juventus (arbitro Pieri). Ciò nonostante la convinzione generale che la vittoria in questo trofeo non sia di buon auspicio per aggiudicarsi il campionato. L’attenzione degli inquirenti si coagula intorno ad alcune cene, come dichiara la conduttrice del programma, alle quali partecipavano i designatori, Moggi e Giraudo, il vice-presidente della FIGC Mazzini e il presidente dell’AIA Lanese. In occasione di una di queste cene a casa di Giraudo, Pairetto viene intercettato mentre chiede al figlio di portargli il calendario delle partite del campionato, insospettendo gli inquirenti. Inutilmente Bergamo cercherà di richiamare l’attenzione sul fatto che non solo le telefonate che aveva fatto con Facchetti e Galliani non li avevano insospettiti, ma che addirittura erano sparite dalle indagini. In realtà abbiamo appreso nel corso del processo di Napoli che i designatori Bergamo e Pairetto perseguivano una politica di comunicazione con i dirigenti e intrattenevano rapporti con tutti, da Facchetti a Moratti,a Meani, a Sacchi. In particolare da un’intercettazione tra Bergamo e Moratti si scopre che il primo doveva fargli una confidenza e andò a cena da lui a Forte dei Marmi. Giorno 1 marzo 2011 vengono ascoltati a Napoli i dirigenti del Parma Baraldi e Minotti, che producono un documento in fotocopia che non viene assunto agli atti, vanificando l’attacco portato a Giraudo e Moggi nel tentativo di dimostrarne lo strapotere nel mondo del calcio attraverso un’operazione forzata di calciomercato, però si apprende che anche Sacchi organizzava cene con i designatori. La tesi comune è che tutti avessero un motivo per questi contatti: conservare anzitutto la poltrona e il posto di lavoro nel mondo del calcio. Al fine di ribaltare da queste poltrone Moggi e Giraudo, pur salvando Innocenzo Mazzini, Baldini telefona a quest’ultimo il 4 aprile 2005. E’ una delle intercettazioni più famose di calciopoli, nella quale l’ex dirigente della Roma lascia intendere chiaramente ( ) di stare lavorando per cambiare i destini del mondo del calcio ed è molto strano che non venga nemmeno presa in considerazione né fatta ascoltare in trasmissione. In generale si può affermare che tutta la puntata è giocata a lungo su aspetti rivelatisi marginali di calciopoli, con uno spreco di energie e di tempo che avrebbero potuto essere impiegati per chiarirne meglio altri. Riascoltando l’intercettazione dell’aprile 2005 si capisce a cosa alludesse Baldini, che del resto, interrogato da Prioreschi, ammette di aver collaborato con Auricchio per cercare di procurargli altri testimoni disposti ad accusare Moggi. Secondo Baldini accadde nel corso di una di quelle cene di cui si diceva prima che Moggi si lamentasse con lui che la Roma non cedesse volentieri giocatori alla Juve. Egli descrive Moggi come un “uomo senza qualità” e naturalmente, come già abbiamo visto fare a Dal Cin, Gazzoni Frascara e Zeman, i grandi accusatori dell’ex DS della Juventus, conclude con un “si dice che nulla si muovesse nel calcio senza che lo volesse Moggi”. Ripercorriamo le tappe della carriera romanista di Baldini e del suo astio contro i colori bianconeri. Approda alla Roma come dirigente nel 1999, l’anno dei Rolex. D’argento per gli arbitri e d’oro per i designatori. Nel 2001 viene coinvolto nella vicenda del passaporto falso di Recoba. Nello stesso anno la Roma vince lo scudetto sulla Juve giocando con un numero di extracomunitari superiore a quello consentito. Il regolamento viene modificato sul finire del campionato senza che la società giallorossa subisca alcuna penalizzazione. Nel 2003 un segretario COVISOC viene accusato di aver dato una mano alla Roma per una fideiussione fasulla che le garantisse di raggiungere i parametri per l’iscrizione al campionato. Nel 2004 le difficoltà economiche della squadra giallorossa aumentano : Samuel va all’Inter e Emerson alla Juventus. La rivalità nei confronti dei bianconeri si accende con il passaggio di Capello in bianconero. Un’intercettazione tra Moggi e Giraudo fa parlare di presunte pressioni della Juve per arrivare al giocatore attraverso un contratto televisivo per la Roma, la finanza trova che è tutto a posto, ma secondo Baldini i dirigenti juventini lo ostacolano per sostituirlo con Alessandro Moggi. Nel marzo 2005 Baldini conferma nella trasmissione “Parla con me” di Serena Dandini la sua idea che siano Milan e Juventus a gestire tutto il calcio, accusando anche la GEA, quindi si dimette dalla Roma. Nel 2006 scoppia calciopoli. Nel gennaio 2010 Luciano Moggi annuncia dagli studi di Studio Stadio un’intercettazione non inserita dai pm negli atti del processo di Napoli, che risale al 4 aprile 2005. Cerchiamo adesso di ricostruire più fedelmente di quanto non sia accaduto in trasmissione l’udienza concitata del 7 ottobre 2010. Secondo Baldini avrebbe conosciuto il maggiore Attilio Auricchio nell’estate del 2003, quando i carabinieri di via Inselci conducevano indagini sull’iscrizione della Roma al campionato attraverso false fideiussioni. In quell’occasione fa una denuncia contro ignoti e in seguito alle dichiarazioni rese alla Dandini viene chiamato da Auricchio per dare seguito alle accuse. Nonostante non sia in grado di fornire prove circostanziate, l’allora maggiore lo convoca ancora qualche tempo dopo e lo convince a collaborare, qualche settimana dopo le sue dimissioni dalla Roma. Prioreschi fa notare a Baldini di aver testimoniato al processo GEA di aver negato di conoscere Auricchio. Ne nasce una bagarre con Narducci, ma anche una confusione di date intorno agli incontri tra Auricchio e Baldini. Dopo qualche battuta inopportuna e pur dicendo di aver dimenticato la vicenda delle fideiussioni, Baldini ammette di averlo contattato. Secondo Prioreschi Auricchio avrebbe testimoniato che tra l’agosto 2004 e l’aprile 2005 si sarebbe visto con Baldini tre o quattro volte prima dell’interrogatorio formale e altrettante dopo. Baldini ribadisce di averlo incontrato una o due volte per le fideiussioni e poi solo dopo le dimissioni dalla Roma per testimoniare e fare i nomi di persone disposte come lui a collaborare denunciando le minacce e i maltrattamenti subiti da Luciano Moggi. Costoro sarebbero Nelson Ricci, DS del Siena e di due agenti di calciatori, Dario Canovi e Stefano Antonelli. Dopo ulteriori tentativi di opposizione del pm e altre reticenze di Baldini, Prioreschi afferma che secondo Antonelli, Baldini lo avrebbe chiamato per andare a riferire ciò che sa ad Auricchio nell’ottobre-novembre 2004 e non dopo il marzo 2005. Infatti viene interrogato da Auricchio per il processo di Napoli il primo febbraio 2005. La deposizione di Baldini si conclude con la sua conferma della collaborazione con Auricchio. Nel corso del frammento della deposizione di Baldini mostrato in trasmissione egli ricorda l’episodio verificatosi durante il processo GEA, quando incontrandolo poco prima dell’udienza del 19 giugno 2008, Moggi ebbe a minacciarlo con le dita “a forma di pistola”. A soli 3 giorni dalla sentenza di Napoli per Moggi è stata riconosciuta dal tribunale di Roma la responsabilità di minacce a pubblico ufficiale a margine di un processo che lo ha condannato a risarcire Baldini fissando una provvisionale di 5mila euro immediatamente esecutiva e 2mila euro per spese di giudizio. Il processo GEA ha visto cadere l’accusa di associazione a delinquere per Luciano Moggi e il figlio Alessandro. In appello sono state ridotte le pene circoscritte al solo reato di violenza privata nell’ambito di alcune irregolarità rilevate nella gestione dei calciatori.
Commento alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda il 15/06/2013. Parte III. Le Sim Svizzere. La prova che non c’è.
Purtroppo o per fortuna la seconda puntata di “Un giorno in pretura” dedicata a calciopoli ci ha risparmiato il metodo Auricchio, che forse ritroveremo nel corso della terza, quando saranno di scena i sorteggi taroccati e le partite condizionate, piatti forti di calciopoli. In compenso abbiamo potuto godere di una fugace apparizione del maresciallo Di Laroni, in grado di chiarire soltanto le discutibili modalità investigative del personaggio e dell’Arma, almeno per quanto ha riguardato le indagini di calciopoli effettuate dai “Magnifici 12”. Secondo Di Laroni, la questione delle schede svizzere sarebbe stata originata da alcuni riferimenti che gli imputati, intercettati, facevano a una rete di contatti telefonici che avrebbero avuto su utenze straniere. E’ così che quando si palesa l’intercettazione partita alle h 1:04 di notte del 2 febbraio 2005 dal telefono di Bergamo a quello di Moggi si scopre la presunta esistenza di tutto un mondo nuovo intorno a calciopoli, purtroppo rimasto nascosto dentro le sim svizzere delle quali non si è potuto conoscere il contenuto, perché giudicate non intercettabili dagli inquirenti. Nonostante l’intercettazione appena menzionata sia la famosa grigliata destinata a incastrare Moggi, la madre di tutte le intercettazioni, naturalmente intercettata. Intorno a questo ramo di calciopoli molte inesattezze sono state dette. La trasmissione non è servita a fare nessuna chiarezza, evitando del tutto di scendere nei particolari, sebbene il perno dell’accusa di calciopoli sia costituito ancora oggi dalle intercettazioni che non ci sono. Cosa si è visto in tv? Per quanto la ricostruzione sia risultata semplificata e incompleta, a tratti è riuscita a ridicolizzare calciopoli, forse solo perché le accuse sono spesso come il burro che si lascia tagliare da una lama che appena lo sfiori. Il testimone è Teodosio De Cillis. Un dipendente della Juve di nome Bertolini andava a comprare le schede nel negozio di suo padre e siccome Moggi le voleva non intestate e per legge dovevano esserlo, finivano a nome del genitore, titolare dell’esercizio commerciale. Più volte è stato detto che Moggi distribuiva le schede svizzere con poca cautela e addirittura le comprava a spese della società bianconera, per togliere l’alone di mistero che gli inquirenti hanno fatto gravare su questi misteriosi contatti, derivati da ancora più misteriose indagini. Ciò che si evince bene dalla deposizione di De Cillis e dalla trasmissione è che il suo negozio era meta ambita di molti esponenti del mondo del calcio, suoi clienti assidui, tra i quali persino il dirigente interista Mario Branca e il fratello di Massimo Moratti. Ancora una volta siamo costretti a colmare le lacune della trasmissione cercando di dare al telespettatore qualche ragguaglio in più.
1) Come ha sottolineato il giudice Casoria, non è reato possedere schede svizzere.
2) Sono intercettabili e ce lo ha spiegato il perito Di Falco durante la difesa di Fabiani a Napoli. Contrariamente a quanto affermato dall’accusa.
3) E’ possibile identificare le celle, cioè il luogo dal quale viene posta in essere una telefonata. Purtroppo però il metodo messo in atto dai “Magnifici 12” è da ritenersi poco professionale e inattendibile, poiché eseguito senza l’ausilio di software adeguati e basato su diversi gestori telefonici non sempre in sintonia tra di loro. Lo stesso Di Laroni affermò al processo di aver eseguito schemini e trascrizioni a mano: “Generalmente il gestore Tim li fornisce in txt, la Vodafone li fornisce in Excel, quindi noi ci siamo preoccupati di trasformare manualmente quelli forniti in txt in Excel in modo da averli tutti dello stesso formato; vengono inseriti con un copia e incolla.” Più in generale il copia-incolla fu letteralmente il metodo di indagine dei “Magnifici 12”, che lo mettevano in pratica preferibilmente dalla Gazzetta dello Sport. La quale, attraverso i suoi giornalisti, influenzò non poco le indagini. Durante il processo si è scoperto che Di Laroni aveva redatto il ricorso contro una multa per conto di Maurizio Galdi in cambio di informazioni. Auricchio e Di Laroni sono stati ascoltati nell’ambito dell’inchiesta condotta dai pm romani sulla fuga di notizie che dai verbali dell’indagine di calciopoli finirono sui giornali nel 2006, determinando il processo mediatico di calciopoli.
4) Il metodo approssimativo si completava partendo da una tesi per accertare un’ipotesi. Si prendeva cioè un match che l’accusa riteneva truccato e si cercava di individuare la presenza in un dato luogo di un probabile interlocutore per provare che si trattava della persona che aveva tramato illeciti con un imputato. Mancano i riscontri tecnici sulle celle, che spesso non consentono di risalire al quartiere di provenienza, ma genericamente alla città e persino sugli effettivi esecutori delle telefonate o possessori delle schede.
5) Prioreschi chiese a Di Laroni, che negò, se lui o qualche suo collega, in fase d’indagine, fossero stati in Svizzera. Il 22 dicembre 2009 il collega Nardone ammise che sarebbe stato compiuto almeno un viaggio a Chiasso, ma senza effettuare la richiesta di rogatoria.
6) I carabinieri redassero tre informative, datate marzo, luglio e dicembre 2007, in contrasto tra di loro.
7) Moggi si è sempre difeso dicendo che le sim svizzere servivano a proteggere la segretezza del calciomercato. A giudicare dalle risultanze del processo Telecom, c’è da crederci.
8) Esiste un’altra grigliata di stampo interista scoperta dal perito Penta. In essa Giacinto Facchetti dimostra di essere ben più abile di Moggi. Solo che, come disse Coppola, ai carabinieri di Auricchio, l’Inter non interessava. Coppola ha anche spiegato che poteva parlare dell’Inter in quanto ex guardalinee, cioè non ribaltabile stando alla logica di Baldini. Anche i giornalisti grigliavano, ad es. Palombo della Gazzetta dello Sport. Lo stesso giornale che riempì le prime pagine scandalizzandosi a otto colonne perché lo faceva Moggi.
Commento alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda il 15/06/2013. Parte IV. Accadde nello spogliatoio del Granillo.
Uno dei possessori di scheda svizzera ricevuta da Moggi era l’ex arbitro Romeo Paparesta, padre di Gianluca, protagonista della vicenda più discussa di calciopoli, ancorché elaborata dai media. Romeo Paparesta voleva diventare dirigente della FIGC e ne parlò con Lanese, che lo indirizzò dal “potente” Moggi, che preoccupato dal crescente strapotere politico di Milan e Inter pretese in cambio di essere messo al corrente di eventuali favori arbitrali ricevuti in quel di Milano e gli consegnò a tal fine un cellulare con scheda svizzera e 2 numeri: il suo e quello di Fabiani.
Osserviamo subito:
1) Moggi non aveva torto a temere le milanesi. Galliani e il Milan sono usciti pressoché indenni da calciopoli. L’Inter nemmeno vi è entrata.
2) Fabiani è stato assolto al processo di Napoli.
3) Che Moggi amasse millantare un potere che di fatto non aveva è emerso dalla sentenza del processo di Napoli, che ha chiarito anche che nel mondo del calcio non era l’unico a farlo. Ostellino ha definito l’ex DS della Juventus un uomo di relazioni, intendendo il suo modo di tessere relazioni come tipico della cultura italiana e pertanto studiato anche presso le università americane. Anche Facchetti, come si evince dal memoriale che non è stato messo agli atti del processo perché privo di autografo, aspirava a realizzare qualcosa di simile a vantaggio della società nerazzurra.
Il 6 novembre 2004 si giocò Reggina Juventus 2 - 1. Alla Juventus fu annullato un goal regolare di Ibrahimovic e un altro di Kapò e non fu assegnato un rigore legittimo per un mani in area a due passi dall’arbitro, che era Gianluca Paparesta. Moggi e Giraudo si recarono a fine partita nello spogliatoio del Granillo per protestare contro la terna arbitrale, i cui componenti ritenevano responsabili anche di errori avvenuti in passato. I giornali fecero partire una vulgata che raccontava che i dirigenti bianconeri avessero rinchiuso Gianluca Paparesta negli spogliatoi. C’erano alcune intercettazioni nelle quali Moggi scherzosamente raccontava alla signora Garufi prima e a Damascelli poi di essersi portato via la chiave e di aver fatto neri i giudici di gara. Da questo episodio Auricchio e l’accusa trassero argomentazioni per la formulazione di un capo d’accusa per sequestro di persona dal quale Moggi è stato assolto, ma non è stato detto in trasmissione , sebbene sia stata riportata l’affermazione proferita in aula dall’avvocato Prioreschi: “Questo processo è fatto tutto così: si dice una stronzata al telefono e si fa il capo d’imputazione”.
Osserviamo:
1) L’assistente Aniello Di Mauro, del quale l’accusa ha pianto la dignità calpestata da parte di Bergamo, ha dato versioni diverse dell’annullamento del secondo gol di Kapò, avvenuto per erronea segnalazione di fallo di mano mentre era in fuorigioco. Lo stesso Bergamo smentisce di averlo maltrattato, ma anzi aiutato a perpetuare di un anno l’attività. Sia Paparesta che Di Mauro non furono di fatto fermati per aver ostacolato la Juventus, nonostante i palesi errori commessi.
2) Paparesta ha dichiarato al processo di non aver avuto percezione della chiusura nello spogliatoio. Lo stesso arbitro il 30/01/2009, nel corso della trasmissione televisiva “Niente di personale”, condotta da A. Piroso su La 7, ha detto testualmente: “Non mi va di essere catalogato come l’arbitro rinchiuso nello spogliatoio”.
3) Nel 2007 la Procura della Repubblica di Reggio Calabria aveva già risolto il caso, dopo aver svolto indagini, e chiesto l’archiviazione perché "il fatto non sussiste". Checché ne pensi il giornalista Focolari che a Radio Radio ha affermato il 16/04/2010: "Non sussiste non vuol dire che non esiste!" I pregiudizi sono duri a morire nelle menti che ne sono pervase.
4) Nel febbraio 2008 la Procura di Napoli ha archiviato la posizione di Paparesta riguardo al possesso di schede telefoniche svizzere. La scheda in possesso del padre è stata ritenuta per fini leciti.
5) Moggi è stato assolto per il caso Paparesta a Napoli perché il fatto non sussiste.
6) In realtà l’episodio è stato esagerato dalle dichiarazioni di Moggi e sminuito dall’osservatore Pietro Ingargiola e dal presidente dell’AIA Tullio Lanese, che evitarono ai dirigenti juventini la squalifica.
7) Paparesta si è detto pentito di non aver riportato nel referto obbligatorio post-partita il comportamento di Moggi, ma quando Narducci ha insinuato che temeva una ritorsione da parte dei dirigenti bianconeri, la giudice Casoria ha commentato: “Lo pensava lui”.
8) La trasmissione di RAI3 ha speso troppo tempo su uno degli argomenti di calciopoli più popolari, è vero, ma che in fondo si è risolto in una bolla di sapone, a discapito di altri più interessanti.
9) A scandagliare bene le carte di calciopoli un caso Paparesta ci sarebbe, ma riguarda il Milan. Per una volta non ritroviamo Gianluca Paparesta in uno spogliatoio, poiché non fu nelle sue funzioni di arbitro che telefonò a Meani, ma in qualità di consulente dell’Assobiodiesel, cioè per una questione legata alla sua normale attività lavorativa. Responsabile del protocollo d’intesa tra i comuni di Bari e Milano in vista dell’EXPO 2005, richiese l’intercessione di un potere extracalcistico legato al mondo rossonero da cittadino italiano e commercialista, avendo avuto notizia di una possibile procedura di infrazione contro l’Italia da parte dell’Unione Europea per violazione delle norme sul protocollo di Kyoto in relazione alle energie alternative. Cercò una mediazione per poter consegnare un dossier a Gianni Letta, all’epoca sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, occupata da Silvio Berlusconi. Non sappiamo se per Narducci avrebbe avuto motivo, trovandola, di ritenersi debitore nei confronti di Galliani. In fondo, se Auricchio non sapeva ricondurre Mediaset a Berlusconi, è possibile aspettarsi di tutto dagli inquirenti di calciopoli. Invelenito dall’andamento della partita Moggi telefonò a Biscardi. Non l’avesse mai fatto.
Commento alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda il 15/06/2013. Parte V. Il potere mediatico di Moggi.
Esasperato dalla partita di Reggio, ma anche abbastanza divertito, Moggi minaccia al telefono con Biscardi di far togliere 15 punti dalla patente di Paparesta e di punirlo con un esame subitaneo di reintegro, pena il trasferimento nella legione straniera. L’intercettazione si concretizza nell’accusa di aver condizionato il campionato attraverso l’uso dei media. Complice la signora Sanipoli, che testimonia come in Rai non potesse più fare l’inviato e soprattutto nelle partite della Juventus dal giorno in cui, dopo Juventus Bologna del campionato 2003/2004, Zambrotta le aveva rilasciato un’intervista nella quale ammetteva di aver accentuato una caduta per procacciarsi un rigore. La signora lamenta anche che Ciro Venerato, che non era nemmeno un dipendente Rai a tutti gli effetti ma solo un collaboratore esterno e avrebbe dovuto essere destinato a far solo servizi di contorno, si occupasse interamente di quanto riguardasse la Juve e avesse affidati compiti superiori ai suoi. Emergono dalla trasmissione un bel po’ di ruggini sopite tra colleghi e non si capisce più se il processo sia a calciopoli o interno alla tv di stato. Dulcis in fundo la Sanipoli tira fuori il famoso servizio della flebo che Cannavaro si sarebbe iniettato quando era al Parma, riservato da Dribbling a Venerato nonostante non facesse parte della redazione. Ignazio Scardina, imputato a Napoli, accusa la signora di scarso rendimento e di non aver voluto prestarsi nemmeno a seguire la Coppa Intercontinentale come inviato, e afferma di prediligere i giornalisti bravi.
Occorre ancora una volta puntualizzare:
1) E’ un luogo comune che la Juventus o la Triade avessero tanto potere sui media. Tosatti e Bergamo in un’intercettazione lamentavano che La Stampa di Torino non fosse mai tenera con i bianconeri. Il Milan poteva contare su Mediaset e lo fece in occasione della prova televisiva che tolse di mezzo Ibra dalla sfida scudetto dell’8 maggio 2005. La Sette, oggi di Cairo, era di Tronchetti Provera, ma era stata Telemontecarlo, gestione Cecchi Gori.
2) La patente a punti di Baldas era solo una finzione ad uso e consumo dei telespettatori.
3) Nel febbraio 1999 l’Associazione arbitri denunciò per diffamazione Aldo Biscardi, Maurizio Mosca, Franco Melli e Xavier Jacobelli. La tesi difensiva fu che il Processo del Lunedì amplificava a beneficio del pubblico televisivo gli argomenti dibattuti in trasmissione con chiacchiere da bar. Il pm Giuseppe Amato, sostituto procuratore al tribunale di Roma, la prese per buona e archiviò. Chiunque abbia visto una puntata del “Processo del lunedì” non può negare che abbia fatto bene a non prendere sul serio quel pollaio.
4) Francesca Sanipoli, come è emerso anche a Napoli, aveva la sgradevole fama di portare un po’ sfiga. Una sentenza del tribunale di Roma depositata agli atti del processo dal legale di Scardina ha chiarito che non c’è stata alcuna azione di mobbing da parte della Rai nei confronti della giornalista, che era solita rinunciare volontariamente ad alcuni incarichi. Scardina proponeva gli inviati, ma dovevano essere approvati dai vicedirettori e dal direttore Maffei. E’ stato assolto al processo di primo grado di Napoli.
La terza puntata di “Un giorno in pretura” dedicata a calciopoli si occuperà di arbitri, sorteggi truccati e partite condizionate. Molti arbitri sono stati già assolti; i sorteggi truccati non lo erano, le prove dell’accusa sì; di partite condizionate non devono essercene state molte, se anche la sentenza di Napoli, come quella sportiva del 2006, ha sancito che il campionato 2004/2005 è stato regolare.
Resoconto alla trasmissione “Un giorno in pretura”, andata in onda il 22/06/2013.
"Nella terza puntata ci occupiamo dei sorteggi per abbinare gli arbitri alle partite, per capire se in alcuni casi siano stati alterati. Ed infine seguiamo il filone di indagini legato agli interessi di Andrea Della Valle e Claudio Lotito, nella vicenda della rielezione di Franco Carraro a Presidente della Figc. E’ possibile che il risultato di alcune partite giocate dalle loro rispettive squadre – Fiorentina e Lazio – sia stato condizionato?". Questa le parole con cui RaiTre presentava la puntata di ieri sera. L'assunto di partenza era stabilire se Luciano Moggi fosse così potente da essere in grado di condizionare i sorteggi. I primi due 'testi' (il primo in verità nel processo è un imputato per frode sportiva) a carico sono due pezzi da novanta: Leonardo Meani e Maurizio Zamparini. Meani, che era l'addetto agli arbitri per conto del Milan, intercettato in un colloquio con l'arbitro Pierluigi Collina, riferiva parole riferitegli, a suo dire, da Carlo Ancelotti (l'allenatore che sino al 2001 era stato sulla panchina della Juve e poi a novembre 2001 aveva preso il posto dell'esonerato Terim su quella milanista); ma vedremo che Ancelotti, una volta sul banco dei testimoni smentisce praticamente in toto le affermazioni di Meani: "Non ho mai detto a Meani che sapevo al giovedì che Moggi mi diceva gli arbitri della domenica e né tanto mai che Moggi era in grado di stabilire i calendari prima del campionato; che Moggi avesse un rapporto privilegiato con De Santis questo lo posso... lo posso affermare, anche se non ho dati". Era solo una sensazione che io avevo". L'ennesima sensazione di un processo fondato non solo sui si dice, ma anche sulle sensazioni. Quanto a Zamparini, parlava di una fantomatica promessa di Moggi di fargli assegnare un arbitro (Rizzoli) per una partita delicata, senza peraltro ricordare assolutamente il giorno in cui tale conversazione era avvenuta, per cui, come evidenziato dall'avv. Prioreschi, il tutto sarebbe potuto essersi verificato a sorteggi già avvenuti e Moggi avrebbe semplicemente sfruttato il fatto di essere, legittimamente, a conoscenza dell'esito degli stessi. Il piatto forte poteva essere quello dell'alterazione dei sorteggi, del quale RaiTre è riuscita solo a mettere in evidenza l'accanimento con cui il pm Narducci ("non bisogna aggredire il testimone, mi pare che lei stia un po' esagerando", il richiamo della dott. Casoria) cercava di trovare nelle parole di Manfredi Martino un qualsivoglia appiglio che facesse intravedere l'irregolarità dei sorteggi. Atteggiamento fallimentare e obiettivo fallito, lo hanno ammesso le stesse motivazioni della sentenza (pag.90): "Che il sorteggio non sia stato truccato, così come hanno sostenuto le difese, è emerso in maniera sufficientemente chiara al dibattimento. Incomprensibilmente il pubblico ministero si è ostinato a domandare ai testi di sfere che si aprivano, di sfere scolorite, e di altri particolari della condizione delle sfere, se il meccanismo del sorteggio, per la partecipazione ad esso di giornalista e notaio, era tale da porre i due designatori, Bergamo e Pairetto, nell'impossibilità di realizzare la frode". In particolare del teste Manfredi Martino recitano le motivazioni: "....Manfredi Martino, presentato come colui che doveva far luce sulle irregolarità. il cui esame ha prodotto solo un coacervo di risposte da presa in giro, tipo il colpo di tosse del designatore Bergamo nel bel mezzo del sorteggio dell'arbitro Collina, non imputato, per la partita Milan-Juve...." Questo episodio non ci è stato mostrato, come non ci è stato mostrato il controinterrogatorio dell'avvocato Maurilio Prioreschi, nel momento in cui (video "Calciopoli: Manfredi Martino tra 'non so' e 'non ricordo'")" è felice" di sentire ammettere, proprio dalla bocca del balbettante testimone dell'accusa ("Lei non è chiaro, è ambiguo, La richiamo all'ordine" è stata l'esortazione della dott. Casoria), come le domande, più che suggestive, addirittura affermanti aprioristicamente il taroccamento dei sorteggi, da parte degli inquirenti avessero indotto il Martino a trovare e fornire una possibile spiegazione di tale increscioso fatto. Parola solo all'accusa, dove peraltro, come da motivazioni, teste e pm non hanno fatto granché bella figura. Dopo la doverosa rievocazione dei fatti di Juve-Parma del 7 maggio 2000, con il goal annullato a Cannavaro (all'epoca difensore del Parma), la partita che tempo fa l'avv. Gallinelli, difensore di De Santis, ha individuato come la madre di tutti i guai di Massimo De Santis (in quanto anche nel Dossier Ladroni commissionato alla Polis d'Istinto di Cipriani si fa riferimento a questa partita) e per la cui direzione contestata al De Santis fu sospeso per quattro mesi (altra dimostrazione che arbitrare pro-Juve fosse tutt'altro che pagante), è tornato sulla scena Zdenek Zeman, peri i fatti di Lecce-Juve, una partita (diretta da De Santis, qua sta il vulnus) che secondo il boemo non si sarebbe dovuta giocare per la pioggia che avrebbe reso impraticabile il terreno; sta di fatto che i capitani delle due squadre, Del Piero e Ledesma, interrogati, hanno dichiarato di non aver richiesto all'arbitro nessuna interruzione della gara in quanto il terreno era sì pesante, ma non tale da non permettere un regolare svolgimento della partita. Come era invece in quel Perugia-Juve che costò ai bianconeri lo scudetto del 2000, fatto ricordato proprio dall'ex arbitro nella sua deposizione spontanea: "Nel maggio del 2000 si è disputata una gara e sul terreno di gioco c’era molta più acqua. Il 14 maggio 2000 Collina non interruppe a Perugia: ma quando perde la Juve non c’è reato". Per il resto abbiamo sentito solo di andirivieni di dirigenti negli spogliatoi (Cellino che prima di Reggina-Cagliari va negli spogliatoi e così Foti durante l'intervallo di Reggina-Lazio) e la performance di Carraro, con un altro dei suoi 'per carità' a Paolo Bergamo, questa volta in risposta ad un SOS di Claudio Lotito: "se il Brescia è più forte che vinca, ma che non succedano casini", qualcosa che non ci meraviglia dopo la Carraro-Bergamo del 26/11/04: "Mi raccomando che non aiuti la Juventus per carità di Dio, è una partita delicatissima in un momento delicatissimo, per carità di Dio, che non aiuti la Juventus", esortazione che poi Bergamo a Rodomonti, arbitro designato, tradusse con un "pensa più a chi è dietro" (che era l'Inter). Poi la trasmissione prosegue con i turbamenti dei Della Valle e con Lecce-Parma, fino ad arrivare alle arringhe dei difensori di Moggi, con Prioreschi che rispolvera i baffi rossi e gialli e le telefonate che non c'erano e Trofino, e fino alla sentenza finale. Della quale, anche alla luce del nulla che, ad ogni rilettura, per colpevolista che voglia essere, assurge a protagonista della vicenda di Farsopoli, speriamo che il processo d'appello faccia giustizia.
L’ALTRA CALCIOPOLI.
Commento. Gli effetti della scoperta delle intercettazioni nascoste.
Quando, nella primavera del 2010, vengono alla luce le intercettazioni nascoste nel 2006, sono passati quattro anni. Un tempo che nello Sport rimanda a due importanti appuntamenti che si disputano con questa cadenza. Le Olimpiadi e i Mondiali di Calcio. In estate assisteremo al mondiale d’Africa e Lippi ha già diramato la lista dei possibili convocati. Come quattro anni prima, la nazionale azzurra è infarcita di giocatori bianconeri. Come quattro anni prima, scarseggia il numero di convocati dell’inter. Mi correggo. Allora scarseggiava, nel 2010 non è pervenuto. L’Inter ha portato in bacheca un altro scudetto, convinta di aver eguagliato il record di cinque consecutivi del Torino e della Juventus, comprendendo anche quello assegnato nel 2006 a tavolino, e l’ultima edizione della Coppa Italia. E’ salita sul tetto d’Europa, eliminando Chelsea e Barcellona, le squadre ritenute più forti del torneo e battendo in finale il Bayern di Monaco. Una tripletta storica con qualche strascico al veleno. Per una serie di errori arbitrali piuttosto congrua durante tutto l’arco della competizione, finale compresa, e tutti a suo favore. Per l’annunciato addio di Mourinho ancora prima dei novanta minuti finali. E la sua fuga a gambe levate con la Coppa ancora da sollevare. Perché, come ha detto ai microfoni dei giornalisti prima di lasciare il Bernabeu, il calcio italiano ha troppe cose negative. E si ha il sospetto per la prima volta che anche all’Inter, in un futuro ipotetico, possa essere presentato il conto da pagare. Mourinho, da par suo, poco più di un anno dopo smentirà se stesso, ammettendo, da allenatore del Real Madrid, probabili trasferimenti in Inghilterra o in Italia non ancora realizzati. Per colui che fece della prostituzione intellettuale il suo cavallo di battaglia retorica, non è strano servirsene ogni tanto. Senza nemmeno pensare che in giro c’è qualche squilibrato che lo prende sul serio e intende rifilargli qualche coltellata. Ne sa qualcosa una delle sue guardie del corpo. La Juventus ha portato a termine nel 2010 la peggiore stagione che si possa ricordare. Eguagliando il record negativo, tra gli altri, di quindici sconfitte del campionato 1961/’62 e incassando un numero di reti subite superiore a quelle realizzate (56-55). In casa bianconera si è scelto di ricominciare da zero. Praticamente dai dirigenti, dall’allenatore e dai giocatori. Se non in toto, poco c’è mancato. In nazionale, per i mondiali 2010, otto juventini. Zero interisti. Per gli europei 2012 idem, considerando il ritorno di Giovinco in bianconero. C’è una morale ed è difficile da digerire: calciopoli ha avvantaggiato l’Internazionale. L’Inter è stata chiamata così fin dalla sua fondazione per la volontà esplicita che fosse costituita di giocatori stranieri, cioè non italiani. La FIGC è lieta di comunicare che la squadra meno italiana di tutte, che non ha alzato un dito, né tanto meno un piede, né ai mondiali del Sudafrica né agli europei di Polonia e Ucraina per l’Italia è la maggiore beneficiaria dello scandalo più grande del calcio italiano di tutti i tempi. La stessa squadra che ancora detiene lo scudetto revocato alla Juventus nel 2006. E che nessuno ha avuto per quattro anni il coraggio di rimettere in discussione, nonostante avesse falsificato bilanci e passaporti, fatto spiare calciatori, arbitri e dirigenti, intrattenuto rapporti non solo telefonici e non solo con i designatori arbitrali, ma anche con arbitri in attività che la arbitravano. Nessuno, a parte un buon numero di tifosi “rancorosi” della Juventus, Bobo Vieri e Andrea Agnelli. Che cosa è successo per arrivare a una richiesta formale da parte della società Juventus, che per quattro anni ha accettato senza discutere le sentenze del 2006? E’ bastato che arrivasse un Agnelli vero per cambiare atteggiamento e ritrovare l’orgoglio? Da dove nasce la decisione di presentare un esposto alla FIGC, non solo per la revoca all’Inter di quello scudetto un po’ patacca perché i requisiti richiesti allora per l’assegnazione dai tre denominati saggi di etica e probità sportiva non furono rispettati, ma addirittura di richiedere il deferimento della società Inter? Con il supplemento della richiesta di un sostanzioso risarcimento? E’ accaduto che gli avvocati di Luciano Moggi si sono messi a cercare quello che nessuno ha voluto trovare in questi anni. Quello che i dirigenti e i funzionari della FIGC prima hanno cercato di dire che non avevano mai ricevuto, poi hanno ammesso, frugando tra soffitte e scantinati, di aver avuto da sempre sotto il naso senza accorgersene, infine non hanno a riconosciuto. Se abbiamo dovuto attendere quasi un anno perché il superprocuratore Palazzi, sollecitato dall’esposto presentato da Andrea Agnelli il 10 maggio 2010 e nuovamente richiamato ai suoi doveri da un atto di diffida di Giulemanidallajuve del 3 giugno 2010 (per sollecitare lo studio di quanto emerso dalla fine di marzo del 2010 e spingere nella direzione di un’azione di trasparenza ed equità nei riguardi di tutte le squadre coinvolte in calciopoli), nonché da una nuova diffida dell’associazione ad agire del 7 ottobre 2010, ha deciso solo il 9 marzo 2011 di convocare Massimo Moratti per il 31 marzo 2011, per chiedere conto a lui e alla società della quale è presidente di quelle ragioni di onestà e probità sportiva che hanno millantato per cinque anni. E’ bastato incaricare un esperto informatico ed ecco che si è dischiusa la porta e siamo entrati nell’antro buio, nascosto e polveroso nel quale si è voluto relegare tutto il marcio di calciopoli che non serviva per fare fuori la Juventus. Nicola Penta, consulente informatico di Luciano Moggi, ha acceso la luce, illuminando il resto della verità che in molti temevamo occultata per sempre. Le telefonate degli altri. Il vizio che da privato si è trasformato, da quando si è saputo che non era solo Moggi a coltivarlo, quasi in pubblica virtù. Si sono messi a trillare anche gli altri telefonini e alla risposta ne è uscita la voce degli onesti e degli etici. Ci saremmo aspettati una nuova ondata di diffuso sentimento popolare contro costoro. Che in tutti questi anni hanno taciuto i loro comportamenti per trarne vantaggi e lasciare agli altri la vergogna e il danno. Come ha osservato l’avvocato Prioreschi, questa omissione, consistente nell’evitare di fare dichiarazioni riguardo a comportamenti non conformi all’etica sportiva che si sapeva bene di aver compiuto, indicherebbe la reiterazione dell’art. 1 del CGS, poiché sarebbe l’espressione di una slealtà ripetuta ogni giorno. Non un sofisma, ma un fatto che porterebbe a riconsiderare i tempi di un’eventuale prescrizione. E la possibilità di revisionare un processo condotto in modo maldestro. Scarsamente interessati i media, attivissimi nel momento di mettere in scena la farsa, non si sono riempiti di titoli a otto colonne che calunniassero il malcostume e il malaffare del calcio nostrano made in nerazzurro. Moratti non è stato dato in pasto ai lettori e ai telespettatori come un imbroglione o un padrino finalmente sverginato nella sua anima di raffinatore ecologista. Nemmeno quando tre operai e successivamente un quarto della SARAS, la raffineria ereditata dal padre, sono morti per la negligenza e l’ingordigia sua e del fratello, che nel frattempo spendevano fior di milioni di euro per ingaggiare campioni e pagare contratti faraonici a Mourinho, incuranti di investire nella sicurezza dei lavoratori e dell’ambiente sardo. Come hanno testimoniato il bellissimo documentario Oil di Massimiliano Mazzotta e il libro di Giorgio Meletti . Nel paese dei Moratti, che i fratelli Massimo e Gianmarco hanno cercato di boicottare con azioni legali. Le prime trasmissioni televisive sulle importanti novità del processo di Napoli hanno continuato a spargere mistificazioni e inesattezze e c’è voluto un mese e mezzo dall’uscita delle intercettazioni nascoste per assistere a un’edizione non certo in prima serata di Matrix, su Canale 5, che consentisse a Moggi, a Prioreschi e a Penta un contraddittorio nel corso del quale Liguori ha tratteggiato il paradigma del cattivo giornalismo, alzando spesso la voce per urlare frasi fatte senza costrutto logico, poiché incapace di controbattere alle argomentazioni degli interlocutori. Il 16 Maggio 2010 Report, su Rai 3, ha dato un contributo notevole sul processo Telecom di Milano, con riferimenti precisi a Tavaroli e Cipriani e un’eloquente intervista nella quale l’investigatore ha ammesso le responsabilità di Tronchetti Provera e dell’Inter nella vicenda di spionaggio e pedinamenti ai danni di personaggi del mondo del calcio. Nel giugno 2012, durante le udienze del processo Telecom di Milano Giuliano Tavaroli, ex responsabile della sicurezza di Pirelli e Telecom ha confermato di aver ricevuto mandato da Moratti per la realizzazione dei dossier illegali su Moggi, De Santis e altri esponenti del mondo del calcio e di averli realizzati con la complicità di Facchetti. La sua testimonianza ha integrato e completato quella resa da Caterina Plateo nel novembre del 2011, nella quale la segretaria di Adamo Bove, funzionario Telecom morto si presume suicida nell’estate del 2006 a Napoli mentre si celebrava il processo di calciopoli, spiegava in che modo eseguisse le intercettazioni senza lasciare traccia del suo operato, cioè mediante trascrizioni a mano dal computer. La trasmissione Report ha fatto stranamente da contraltare nella stessa rete che un mese prima aveva dispensato falsità durante una puntata di Replay che aveva esaltato la faziosità di Boniek, Galeazzi e Turrini. Tale atteggiamento, manifestato in troppe occasioni, è costato al “Bello di notte” la perdita della dedica di una Stella nel nuovo stadio della Juventus, giustamente attribuita a Edgar Davids attraverso l’espressione diretta delle preferenze dei tifosi bianconeri sul web.
LA VERITA’ NASCOSTA.
«Giraudo e Moggi, un "pericolo" per John» è il XXX capitolo del libro mai pubblicato di Gigi Moncalvo, un capitolo che aiuta a comprendere i motivi per cui quei due non potevano essere mandati via in maniera così semplice. Il perché ci fosse il bisogno di colpire Giraudo anche mediaticamente. Molti tifosi ricordano che Giraudo era in scadenza di contratto, mentre Moggi poteva semplicemente essere licenziato. «Giraudo e Moggi, un “pericolo” per John» è il XXX capitolo del libro mai pubblicato di Gigi Moncalvo, trovto su “giulemanidallajuve”, un capitolo che aiuta a comprendere i motivi per cui quei due non potevano essere mandati via in maniera così semplice. Il perché ci fosse il bisogno di colpire Giraudo anche mediaticamente.
Per dodici anni la struttura Girando-Moggi-Bettega è rimasta immutata e ha rappresentato il team di dirigenti più preparati del calcio moderno. Umberto aveva voluto e fatto in modo che la Juventus fosse così forte e ben organizzata non solo perché gli era molto cara ma anche perché immaginava che una simile solidità e strutturazione, nel momento in cui suo figlio ne avesse assunto la guida, avrebbe consentito ad Andrea di poterla gestire con tranquillità. Dopo la morte di Umberto, in ossequio alla fedeltà e riconoscenza verso di lui, Giraudo comincia a preparare il terreno per l’ingresso di Andrea. La Juventus è anche una passione del giovane figlio del Dottore e della vedova, Allegra Caracciolo. Avere un Agnelli di nuovo al vertice della società è importante: Andrea porta il cognome della casa, è figlio di Umberto, è tifoso della Juve, è giovane e intelligente, ha fatto ottimi studi, gode di stima e considerazione, è la persona giusta per dare continuità alla dinastia che ha sempre legato il proprio nome a quello della Juve. La scelta è ineccepibile, ma le prime mosse di Giraudo sono molto prudenti. Conosce bene i delicati equilibri su cui si reggono i vari rami della famiglia e prevede i contraccolpi e le invidie che potrebbe suscitare un’ascesa troppo repentina di Andrea. Il progetto, su cui Moggi è d’accordo, prevede che il giovane venga inserito nella società gradualmente fin dal 2005 e che poi, a partire dal 2006, assuma ruoli sempre più marcati. Giraudo è consapevole che non c’è niente di meglio dello sport cime trampolino di lancio e cassa di risonanza per un giovane manager da mandare in orbita. Luca di Montezemolo e il suo modo di utilizzare la Ferrari come vetrina è la prova che lo sport, specie attraverso “marchi” famosi, può apre prospettive amplissime in ogni campo. L’immagine di Andrea può “crescere” moltissimo grazie alla Juventus anche perché Giraudo e Moggi sapranno portare la squadra a grandi successi senza chiedere agli azionisti Fiat o alla famiglia di aprire il portafoglio per finanziare la squadra. Soprattutto, garantiranno ad Andrea la possibilità di prendersi tutti i meriti mentre loro saranno pronti a fare da parafulmine in caso di imprevisti. Una Juve da prima pagina consentirà al giovane Agnelli di essere considerato l’artefice di vittorie e buona amministrazione, di successi e di fortuna, e farlo diventare l’idolo dei quattordici milioni di tifosi che in ogni parte del mondo seguono la Juventus. L’idea è perfetta, ma c’è qualcuno che, dietro le quinte, la intuisce, ne vede le prospettive, non la condivide e quindi comincia a muoversi per ostacolarla e impedirla. Moggi ricorda che, appena saputa la notizia della morte di Umberto, ebbe questa sensazione: “D’improvviso mi sono sentito più solo. Senza ombrello, senza una luce. Prima l’Avvocato, poi il Dottore: la Juve non sarebbe stata mai più la stessa. Ma anche noi”. La morte di Umberto non lascia “orfani” solo Giraudo, Moggi e la Juventus ma crea all’interno di tutto il Gruppo un immenso vuoto di potere che va colmato al più presto. La scomparsa di Umberto rappresenta la fine della generazione dei fratelli Agnelli. E se non c’erano dubbi, dopo la morte di Gianni, che Umberto sarebbe stato il suo successore alla guida del gruppo, ora ci sono molte caselle da riempire. Non ci sono più a disposizione nomi della generazione di Gianni e Umberto, essendo le sorelle fuori gioco. La decisione di puntare su John, come abbiamo visto, era già stata presa. Qualcuno ha accelerato i tempi e lavorato in questo senso forse anche forzando la situazione senza rispettare le necessarie “procedure” famigliari. E quindi colui che si trova in rampa pronto per essere lanciato in orbita è solo John. Nulla deve ostacolare questo disegno. Qualunque intralcio, grande o piccolo, diretto o indiretto, si presenti sulla strada della leadership di John deve essere abbattuto con la massima decisione. E’ chiaro che un eventuale entrata in scena di Andrea, per di più col vantaggio indiscutibile di chiamarsi Agnelli contrariamente al cugino, crea notevoli disturbi a tutta l’operazione, anche se si tratta “solo” della Juventus. Bisogna impedire che la popolarità che in un paio d’anni Andrea sicuramente avrebbe raggiunto grazie al calcio lo proietti anche verso altri incarichi all’interno del Gruppo. Non ci sono dubbi che Andrea, sulla scia della Juve, avrebbe potuto diventare un potenziale “concorrente” di John, un ostacolo sul cammino della sua ascesa al potere, creando un pericoloso dualismo in cui due giovani della quarta generazione avrebbero dovuto fare i conti l’uno con l’altro. Tra l’altro uno, Andrea, avrebbe avuto l’indiscutibile vantaggio di poter contare su due atout di rilevante importanza: la popolarità e il sostegno di milioni di persone, e un’immagine legata a una attività come la Juventus e il calcio certo molto più popolari, “simpatiche” e immediate di quanto non siano l’IFIL, l’IFI, la Fiat. I registi dell’operazione-John non possono assolutamente consentire che colui sul quale hanno deciso di puntare trovi un simile ostacolo sulla sua strada. Ecco quindi che, per bloccare l’ascesa di Andrea, o anche solo la sua discesa in campo, occorre azzoppare ed eliminare i due uomini che hanno pensato a lui e che vorrebbero lanciarlo in orbita: Giraudo e Moggi. Occorre trovare il modo per farli fuori. Questo modo esiste ed è frutto del combinato disposto di alcune circostanze che si realizzano grazie al contributo diretto o indiretto, voluto o involontario di una serie di personaggi che a vario titolo compaiono nella vicenda o ne restano dietro le quinte, molti dei quali diventano inconsapevolmente e senza nemmeno immaginarlo elementi di questa operazione. Il PM Giuseppe Guariniello di Torino. Il presidente della Federcalcio, Franco Carraro. Il presidente della Lega Calcio, Adriano Galliani. Il presidente dell’Inter, Massimo Moratti. Il direttore generale nerazzurro, Giacinto Facchetti. Marco Tronchetti Provera e il “Tiger team” di spionaggio telefonico di Telecom (Tavaroli, Cipriani, Ghioni). Il professor Guido Rossi. L’ex Procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli nelle sue nuove vesti di Capo dell’Ufficio Indagini della Federcalcio. Luca di Montezemolo. Franzo Grande Stevens. L’avvocato Cesare Zaccone di Torino. I direttori di un almeno quattro grandi giornali. E molte altre persone ancora. Non c’è nessuna “accusa”, ovviamente, nei confronti di queste persone. Se il dottor Guariniello ha condotto inchieste giudiziarie sulla Juventus ha disposto per motivi d’ufficio intercettazioni telefoniche sugli apparecchi di Giraudo e Moggi, questo non significa che egli lo abbia fatto per facilitare l’ascesa di John ai vertici del gruppo Fiat o per “togliere di scena” Andrea Agnelli. Lo stesso vale per alcuni altri di coloro che abbiamo indicato e che si prefiggevano scopi ben diversi. Alla fine però il lavoro, l’attività, le informazioni, le decisioni degli uni e dagli altri o il loro comportamento adottato in un passato vicino o lontano, sono stati utilizzati dalla “regis centrale” per mettere a punto l’operazione e portarla a compimento. Per impedire ad Andrea Agnelli di salire ai vertici della Juve, per “fare fuori” Giraudo e Moggi, occorre inevitabilmente fare del male, per qualche tempo, alla stessa Juventus. E’ un “danno collaterale” inevitabile, un effetto del “fuoco amico”, un male necessario e calcolato del quale non si può fare a meno. L’origine della storia di “Calciopoli”, da questo punto di vista, assume una nuova luce. E molti fatti che potrebbero apparire inspiegabili, diventano meno misteriosi se si pensa qual era il risultato finale che si prefiggeva Torino. Il dottor Guariniello, come sempre, ha fatto il suo dovere e non ha abusato del suo ruolo né dei suoi poteri nel momento in cui ha deciso di continuare a tenere sotto controllo i telefoni di Moggi e Giraudo al termine dell’inchiesta sul presunto uso di sostanze vietate da parte di alcuni calciatori juventini. Il processo si è concluso positivamente per la Juventus, ma il dottor Guariniello aveva tenuto aperta un’altra branca di quella inchiesta e disposto nuovi controlli e attività investigative. Da quelle nuove intercettazioni non emergeva nulla di penalmente rilevante ma il PM aveva deciso di trasmettere quelle intercettazioni alla Federazione Gioco Calcio affinché verificasse se da quelle carte emergevano per caso violazioni ai regolamenti sportivi. Franco Carraio, presidente della FIGC, tiene chiuse a lungo nel suo cassetto quella grande quantità di intercettazioni arrivate da Torino. Poi all’improvviso decide di tirarle fuori. Perché e su sollecitazione di chi? Da quel momento si forma la palla di neve che in breve diventerà una valanga. Accade di tutto. La regia giornalistica e il distillato quotidiano delle notizie. I processi sportivi. L’incredibile richiesta del legale della Juventus di condannare la squadra alla serie B. La rinuncia della stessa società a fare ricorso al TAR senza “contrattare” migliori condizioni (come l’annullamento della retrocessione, accettando una forte penalizzazione, come Milan e Fiorentina). La vendita di alcuni pezzi pregiati (come Ibrahimovic o Vieira) a una diretta concorrente come l’Inter a un prezzo irrisorio, accompagnato dai ringraziamenti dei dirigenti juventini. Gli scudetti tolti a tavolino e assegnati all’Inter (che li ha presi e festeggiati) proprio da un suo ex consigliere di amministrazione (Guido Rossi). L’assunzione dello stesso Rossi nel gruppo Fiat con una consulenza di molti milioni di euro. Il mancato coinvolgimento legale nella vicenda di Franzo Grande Stevens, che era il presidente di quella Juventus “chiacchierata”. Il salvataggio del Milan e della Fiorentina dalla serie B (segno evidente che si voleva colpire solo la Juve). La scoperta di molte manipolazioni nelle intercettazioni. La “fama” di chi le aveva eseguite e messe a disposizione che figura indagato in importanti inchieste penali. L’operazione-spionaggio condotta da una società che faceva capo a un altro dirigente proprio dell’Inter. Il “patteggiamento” della Juventus anche se la giustizia sportiva non ha scoperto alcun “reato”. Un processo, a Napoli, che non approda a nulla. La magistratura campana che, anziché occuparsi di munnezza e camorra, impiega uomini e mezzi investigativi per “Calciopoli”. E tante altre cose ancora. Con un punto fermo: la Juventus è la maggior danneggiata, Moggi e Giraudo vengono fatti fuori. Insomma quello che Giraudo aveva intuito al termine della stagione 2004-2005 (“Luciano, questo è l’inizio della fine”), si verifica puntualmente. Moggi ricorda di aver risposto che non capiva, la Juve stava vincendo tutto, le cose andavano bene. Ma Giraudo era scuro in volto e pessimista per il futuro. Che cosa stava succedendo, che cosa stava per succedere? Moggi non aveva lo stesso tipo di antenne di Giraudo all’interno della galassia Fiat per raccogliere voci e segnali o per fiutare l’atmosfera. Ma, anche nel suo “piccolo”, Moggi si accorge che qualcosa non va, che c’è una certa freddezza, che nessuno collabora più come dovrebbe. Nel suo libro l’ex direttore generale della Juventus racconta il contenuto di una telefonata con Lapo Elkann, facendo questa premessa: “Vi sembrerà banale, ma più di ogni altro discorso può valere questo colloquio”. E’ il 4 febbraio 2005, Moggi chiama Lapo e chi chiede di poterlo incontrare al più presto “per farci due chiacchiere”. Lapo cerca di guadagnare tempo e alla fine, messo alle strette, “si ricorda” che qualche giorno dopo sarà a Palermo proprio in concomitanza con la partita di campionato della Juventus, per consegnare una Y di colore rosa al centravanti Luca Toni. I due decidono di vedersi nell’albergo che ospita la squadra, a Villa Igiea, Moggi anticipa il problema che si è venuto a creare per le auto di rappresentanza. “All’improvviso ci venivano create difficoltà crescenti anche sulle piccole cose. Le auto di rappresentanza per i giocatori o i dipendenti della società, ma anche per fare dei piccoli favori a persone funzionali al nostro lavoro, dovevano essere cose automatiche in una grande azienda. In quel periodo, invece, faticavamo a far tutto. Ad avere qualsiasi cosa. Non parliamo poi dei soldi per il mercato dei giocatori: rubinetti chiusi. Fortunatamente siamo riusciti a gestire la Juve senza bisogno di interventi esterni degli azionisti di riferimento, altrimenti sarebbero stati problemi. Gli attacchi interni ed esterni c’erano eccome. La nostra solitudine era palpabile”. Il primo a parlare (o a essere mandato avanti), come sempre, è Lapo: “Fece pesanti ironie su di noi in diverse interviste. Disse che “alla Juve si dovrebbe sorridere di più”, non nascose mai la sua antipatia per la Triade. Non ci saremmo mai aspettati un colpo così basso, per di più in pubblico”. Ma i problemi veri non erano né le vetture né le uscite di Lapo. “Sono successe cose anche più grosse – ricorda Moggi -. Gli eredi dell’Avvocato e quelli del Dottor Umberto non erano chiaramente in sintonia sulle scelte future e sugli assetti del gruppo. Forse io sono rimasto schiacciato da questa lotta. E’ stranissimo, infatti, l’atteggiamento tenuto dalla Juventus società, ma anche dalla proprietà, prima, durante e dopo lo scoppio di questo scandalo, vero o presunto che sia. In società (il cui presidente, non dimentichiamolo, era Franzo Grande Stevens sicuramente molto addentro alle cose del palazzo di Giustizia di Torino, NdA) erano al corrente dell’inchiesta a nostro carico aperta dai giudici torinesi e delle intercettazioni telefoniche alle quali eravamo stati sottoposti sia io che Giraudo. Il tutto era stato archiviato in sede penale ma il dossier con le intercettazioni era stato inviato per conoscenza alla giustizia sportiva della Federcalcio. Io non sono mai intervenuto su Carraro o sui giudici, Giraudo neppure. Se avessimo avuto tutto il potere che ora vogliono far credere, quelle carte forse sarebbero state distrutte. Invece nessuno si è interessato più di tanto. Tutti abbiamo continuato a telefonare senza misteri. Allegramente in certi casi. Eravamo assolutamente tranquilli di non aver fatto niente di male o di strano. Abbiamo continuato le nostre conversazioni nell’ambiente del pallone senza chiedere aiuti o sconti a nessuno. Del resto la richiesta di archiviazione del 19 luglio 2005 firmata da Guariniello che ci assolveva in toto parlava anche di troppo chiaro, come si legge nelle conclusioni del giudice: “Di quattro partire di campionato giocate a intercettazioni in corso, su tre non si sono registrati commenti di alcun genere idonei a supportare l’ipotesi di reato, su una invece sono state registrate significative conversazioni tra tutti i protagonisti della ipotizzata possibile frode sportiva, ma da esse non soltanto non si traggono riscontri alla ipotesi investigativa, bensì elementi di prova di segno contrario”. Ecco cosa c’è scritto, tra l’altro, nell’ordinanza. Insomma, non facevamo un bel niente”. A fronte di questo viene da chiedersi: possibile che il presidente della Juventus, di quella Juventus, e cioè Grande Stevens, non conoscesse questi particolari? Perché non ha fatto nulla per salvare la Juventus? Perché non ha messo in campo tutta la sua conoscenza del diritto e anche il suo prestigio, la sua autorevolezza, il suo peso per salvare la Juve? Possibile che pur di sacrificare Giraudo e Moggi, e la possibilità che Andrea Agnelli salisse al potere nella Juventus, si sia buttata via anche l’onorabilità, la rispettabilità, il prestigio della squadra bianconera e dei suoi milioni di tifosi? “Nessuno - prosegue Moggi – si è preoccupato che quel pacco di carte potesse uscire da qualche parte e portare discredito alla Juventus. Anzi, il giornale che per primo ha pubblicato le intercettazioni integrali e forse più di ogni altro ha dato risalto negativo a questa vicenda, è stato proprio “La Stampa”. E la campagna contro la Juventus è stata orchestrata dalla “Gazzetta dello Sport”, l’altro giornale partecipato dalla famiglia”. Questo è un altro particolare significativo che depone a favore della tesi secondo cui i vertici del Gruppo, non avendo mosso un dito per arginare l’ondata di fango contro la Juve e non avendo consentito un’adeguata difesa della società, potessero in qualche modo essere al corrente dell’operazione in corso e non ne fossero, sotto certi aspetti – quelli che abbiamo visto – dispiaciuti per i risultati cui avrebbe portato ai danni di Giraudo e Moggi. E’ pensabile infatti che il Gruppo che controlla “La Stampa” ed è, anzi in quel momento era, l’azionista principale e più “pesante” di RCS Mediagroup, la casa editrice del “Corriere della Sera” e della “Gazzetta dello Sport”, non abbia mosso un dito per “richiamare” i direttori a un maggiore “rispetto” verso la vecchia Signora? Possibile che direttori e giornalisti sempre attentissimi a non mettersi in urto con la proprietà, e gli interessi nei vari settori di attività, in quella occasione siano andati così a lungo a ruota libera senza avere la certezza che a Torino quella linea faceva piacere? Moggi va al cuore del problema e, ben consapevole che per distruggere lui e Giraudo avrebbero dovuto distruggere anche la Juventus e riprenderne il controllo assoluto, aggiunge, aprendo un nuovo scenario: “Anche se la Triade avesse commesso gravi reati, una società quotata in Borsa doveva comunque sempre difendere i suoi manager. Non foss’altro per non affossare i suoi beni, il capitale, l’immagine. Invece, anche senza prove, anche senza carte, con le sentenze di là da venire, siamo stati scaricati come se avessimo la peste. Ho avuto la sensazione condita da qualche certezza, che il piano fosse proprio questo: far fuori Giraudo, Bettega e Moggi. Costi quel che costi”. Fino a questo punto l’ex direttore generale della Juve non ha mai parlato di John. Ma non bisogna pregarlo a lungo per rivelare un altro indizio: “Anche John Elkann - dice - ci ha scaricato immediatamente. Domenica 7 maggio 2006 la Juventus ha giocato in casa contro il Palermo. Era la prima partita dopo la pubblicazione delle telefonate, lo scandalo stava divampando, ma senza contorni netti. Eppure il giovane John ha detto deciso che “la proprietà starà vicina alla squadra e all’allenatore”. Già sepolti Giraudo e Moggi che alla Juve hanno dedicato dodici anni di vita”. Moggi rivela un altro particolare significativo che certo non depone a favore di John in quanto ai metodi adottati a Torino per “scaricare” qualcuno: “In quei giorni nessuno mi ha chiamato e non soltanto per starmi vicino, ma neppure per chiedermi spiegazioni. Per avere la mia versione dei fatti. Credo che sarebbe stato naturale. Anche a un bambino che sbaglia, prima della punizione si chiede una giustificazione. A Moggi no. Punito. Condannato. Ripudiato. Cancellato”. John disse in quella occasione, spiega: “Ci siamo resi conto dei problemi quando i giornali hanno pubblicato le intercettazioni; erano problemi gravi. Lì abbiamo capito che il management Juve non si era comportato in maniera scorretta. Quindi, abbiamo reagito con decisione per uscire dalla crisi. Non è stato difficile. Anzi, è stato semplice prendere la decisione, difficile metterla in pratica. Una reazione radicale, perché grande era la responsabilità. Sono così arrivate penalizzazioni pesanti, ma c’era differenza tra quanto ottenuto dai ragazzi sul campo e quanto fatto dal management. Ora c’è un rinnovo totale ai vertici. Noi come proprietà continuiamo a seguire la questione, le nuove indagini, ma vi posso garantire che non troveranno nulla che non va bene nell’attuale management. La Juve resta la Juve con la sua splendida storia”. Allora è proprio vera la nostra ipotesi di partenza? Se John era il primo e principale beneficiario dell'“azzoppamento” di suo cugino Andrea, e se questo obiettivo si poteva raggiungere bloccando i due dirigenti della Juve che avrebbero potuto mettere Andrea sull’altare, perché mai John avrebbe dovuto avere riguardo per Giraudo e Moggi, perché mai avrebbe dovuto “proteggere” la Juve e quindi anche quei due, perché mai avrebbe dovuto fare un autogol buttando all’aria le proprie ambizioni e le proprie prospettive mettendosi in gara col temibile e temuto cugino? Moggi senza rendersene conto facilita le cose e dimostra di non conoscere questo “piano”. O forse prende atto di non avere le forze sufficienti e necessarie per contrastarlo. Subito dopo l’ultima partita di campionato, subito dopo l’ennesimo scudetto, il 14 maggio 2006 a Bari, si dimette da tutte le cariche nella Juventus, compresa la poltrona del consiglio di amministrazione. Lo fa “per evitare ulteriori imbarazzi, per lasciare libera la proprietà, per rispetto nei confronti della Juventus e dei suoi tifosi”. Ora che ha capito come sono andate davvero le cose dice che non lo rifarebbe. Pensava che quel suo gesto avrebbe consentito agli avvocati di difendere meglio la società e di ottenere pene sportive meno severe. Ma, dopo aver visto quel che è successo, come la Juve è stata difesa, o meglio come la Juve ha dato indicazioni al proprio avvocato, Moggi è convinto che il suo sacrificio non sia servito a nulla: “L’atteggiamento dell’avvocato Zaccone lascia perplessi. Ma quando mai un difensore accetta e ammette tutte le colpe del suo assistito? Anche davanti a un cadavere ancora caldo, con l’arma del delitto in mano, c’è chi cerca di negare qualsiasi colpa. La proprietà della Juve no, ha ammesso tutto quello che veniva contestato dalla frettolosa giustizia sportiva senza sapere neppure cosa ammetteva. Ancora prima dei processi. Evidentemente la decisione di ammettere tutto era una linea condivisa. Forse qualcuno all’interno della famiglia temeva che ci potessimo impadronire della società? Forse temevano l’abilità finanziaria di Giraudo e il nostro ascendente verso milioni di tifosi?”. “A volte ho l’impressione – dice Moggi - che una strana convergenza di interessi abbia favorito quello che è accaduto a me e alla Juventus. C’era qualcuno che vedeva di cattivo occhio i nostri successi, altri che temevano lo strapotere economico bianconero. Ma forse c’è anche qualcosa di più grosso e di importante. Io di finanza mi intendo poco, di Borsa ancora meno. Fatico a capire certi meccanismi finanziari, ma una cosa è certa: dopo la morte del Dottor Umberto le cose e gli equilibri all’interno della famiglia Agnelli sono profondamente cambiati. Ho tanti difetti – prosegue Moggi – ma credo di avere il pregio dell’intuizione. Avevo intuito che non eravamo più graditi come prima, che i nostri successi venivano accolti con sorrisi a denti stretti. La Triade scelta dal Dottor Umberto per rifondare la Juve nel 1994 senza di lui, senza la sua protezione, è finita in un vortice. Giraudo, poi, aveva già gestito il Sestriere per conto del Dottore. Non era un manager qualsiasi, ma lo stratega finanziario della vedova donna Allegra Caracciolo e del figlio Andrea, eredi di Umberto Agnelli. Insomma una situazione complicata tra eredità, patrimoni finanziari, lotte di successione e di potere fra i due rami della Famiglia nelle quali non sono mai entrato, ma dalle quali ho sentito arrivare un forte vento contrario”. Come sempre in questi frangenti, c’è anche chi unisce l’utile al dilettevole e approfitta della situazione. Luciano Moggi nel suo libro va al cuore del problema e parla di azioni, di soldi, di plusvalenze: “Secondo uno studio del “Sole-24Ore”, pubblicato anche nel libro “Inchiesta su Calciopoli” di Mario Pasta e Mario Sironi, due studiosi di economia e diritto, nei mesi immediatamente prima dello scandalo c’è stato un massiccio rastrellamento in Borsa delle azioni della Juventus con volumi di scambio dieci volte superiori rispetto alla media dei quattordici mesi precedenti. Mi hanno fatto notare – aggiunge Moggi – che a gennaio del 2006 le azioni bianconere erano quotate circa 1,30 euro, mentre proprio in quel periodo tra marzo, aprile e maggio, il valore è salito a 2,46: quasi raddoppiato. Solo un caso? Una coincidenza? Il giallo qui diventa prettamente economico: le sto pensando veramente tutte”, osserva Moggi. E lancia un altro segnale riguardante l’Inter e Moratti, Telecom e Tronchetti Provera: “Se andiamo a mettere tutto sotto la lente d’ingrandimento, dietro i fascicoli, i pedinamenti e le intercettazioni illegali dell’affare Telecom ci sono anche persone dei servizi segreti finite in carcere. Qui c’era in ballo un potere sportivo che si intersecava con il potere economico. C’erano personaggi da tenere sott’occhio. Attività da monitorare. Anche le cessioni di Vieira e Ibrahimovic all’Inter mi sono sembrate strane,. Affrettate. Quasi pilotate. Un giorno di luglio del 21006, non ricordo la data, ero sotto l’ombrellone sulla spiaggia di Follonica quando mi telefona il procuratore di Ibrahimovic per dirmi che aveva chiuso con il Milan. La Juve, però, voleva vendere il giocatore all’Inter a tutti i costi. Non sentiva ragioni. Forse per semplici motivi e strategie di mercato. Forse. Ma intanto io sono ancora qui a chiedermi: perché?”. Col passare del tempo, di tanto in tanto emergono altri indizi significativi. Ad esempio c’è il presidente dell’Inter che rivela su Ibrahimovic e Vieira: “Non solo ci fecero un ottimo prezzo, ma ci ringraziarono di cuore…”. Forse era un gesto di riconoscenza per aver dato un “contributo” in dossier e intercettazioni utili a far fuori Giraudo e Moggi? E accade anche, all’improvviso, che nel dicembre 2007, il Presidente della FIFA (Fédération Internationale de Football Association), Joseph Blatter da Zurigo in un’intervista all’Agenzia Ansa rivela un particolare inedito su Calciopoli: “Credo sia ora passato abbastanza tempo per poterne parlare. Quando scoppiò lo scandalo, nel 2006, Luca di Montezemolo svolse un importantissimo ruolo di moderatore. E' in gran parte merito suo se la Juventus non si rivolse ai tribunali ordinari dopo le sanzioni conseguenti allo scandalo”. Ma che c’entra Montezemolo? In una intervista a “Panorama”, l’ex capo della security Telecom, Giuliano Tavaroli, racconta che “durante la “campagna elettorale” per la presidenza di Confindustria, si preoccupò di proteggere il candidato favorito, Luca Cordero di Montezemolo, da eventuali attacchi di un gruppo di industriali contrari alla sua elezione”. Ecco quali erano quali e quanto ”affettuosi” erano i rapporti tra Montezemolo e Tronchetti Provera e quanto probabilmente si sono riflessi anche nel mondo del calcio. Tutte coincidenze?”. Il golpe dell’estate 2006 ha prodotto questi risultati:John Elkann ha calpestato calpestato il gentlemen agreement tra Gianni ed Umberto, ha allontanato la dirigenza della Juventus prima di ogni processo e sentenza, ha praticamente sottratto a suo cugino Andrea la possibilità di guidare la Juventus, ha messo sotto controllo il club affidandolo a un presidente, Giovanni Cobolli Gigli, definito dai tifosi “la più grande sciagura juventina dai tempi di Luca Cordero di Montezemolo”. Lo stato d’animo di molti milioni di tifosi juventini è illustrato alla perfezione da Christian Rocca, appassionato juventino e giornalista de “Il Foglio”, che ha messo sotto tiro l’uomo scelto da John, Gabetti e Grande Stevens (oggi presidente onorario della Juventus): “C’è un presidente di una squadra di calcio italiana che non sa quanti scudetti abbiano vinto i suoi ragazzi e che non riesce a rispondere a una domanda semplice semplice. Questa: quanti campionati ha vinto la Juventus? Ventisette, ventotto o ventinove? (For the record: sono 27 per i frequentatori delle curve sud, 28 per l’Italia di mezzo, 29 per chiunque capisca di calcio). Il presidente della Juventus invece non sa rispondere. Meglio, non vuole rispondere. Probabilmente, non può rispondere. Sui documenti ufficiali, compreso il sito della Juventus, ha fatto scrivere 27. Davanti alla sede ha fatto togliere la fioriera rossa che mostrava il numero “28”. Sul pullman di servizio, le stelline dei trofei sono due di meno. Nelle interviste, a volte dice 27, a volte spiega che sono 28. In altre occasioni si lamenta che nessuno gli restituirà mai quei due titoli scippati, una cosa ovvia non avendoli mai chiesti indietro. Stando al giornale di famiglia, “La Stampa”, Cobolli Gigli ha addirittura applaudito con convinzione quando gli è stato comunicato che la coppa dello scudetto che la Lega aveva consegnato alla Juventus nel 2006 era un falso, ché quella vera stavano per consegnarla a tavolino a Moratti. Era, insomma, dai tempi di Luca Cordero di Montezemolo che alla Juventus non capitava una sciagura come l’avvento di Giovanni Cobolli Gigli. Christian Rocca prosegue: “Il presidente è un uomo elegante, certamente piacevole, gentile come pochi, quindi l’esatto contrario di quanto servirebbe a una squadra di calcio che al momento del suo arrivo aveva a disposizione la formazione più forte degli ultimi quindici anni, compresi nove tra campioni e vicecampioni del mondo più, a fare undici, il pallone d’oro Nedved e il migliore calciatore in circolazione, quell’Ibrahimovic che da solo ha vinto un paio di campionati cui dà importanza soltanto un giornale rosa che si trova sui banconi dei bar dello sport. Quella squadra formidabile non c’è più. Cobolli l’ha smantellata. Da manager proveniente dalla grande distribuzione, ha distribuito due campioni al Real, due al Barcellona, due alla Fiorentina e due agli indossatori-di-scudetti-altrui, rafforzando tutti e indebolendo solo la società che rappresenta. Per un soffio, al simpaticissimo Cobolli, non è riuscito di vendere anche Buffon, Camoranesi e Trezeguet, ma per loro c’è ancora tempo. Certo la Juve stava per essere retrocessa, ma il dramma di Cobolli è che la Juventus non è andata in B per le colpe della vecchia gestione Giraudo-Moggi, cioè di Umberto Agnelli, visto che le accuse da bar dello sport sono state rigettate sia nei processi sportivi sia in quelli penali (non c’è stata alcuna partita truccata, nessun sorteggio taroccato, nessuna ammonizione mirata e gli arbitri sono stati assolti). La Juventus è in B perché la sua proprietà, ramo Gianni Agnelli, ha deciso per motivi oscuri di non difendersi e di sbarazzarsi degli ingombranti uomini del ramo Umberto. Nessuno sarebbe riuscito meglio di Cobolli a farsi travolgere come ha saputo fare lui. La Juventus cobolliana ha chiesto di essere retrocessa, purché con forte penalizzazione e malgrado non ci fosse “uno straccio” di prova come aveva scritto la procura di Torino chiedendo l’archiviazione dell’indagine. Poi ha rinunciato al Tar e anche al Tas, infine a qualsiasi altro strumento anche simbolico per ribadire che la Juventus quei titoli li aveva vinti meritatamente sul campo. Cobolli quasi non c’entra, fa anche tenerezza, forse meriterebbe un premio, il suo problema è che vanta una credibilità pari al numero di scudetti vinti da Moratti”, conclude Christian Rocca. I tifosi rimproverano a John molte cose: “Ha preso, o non ostacolato, decisioni e comportamenti a dir poco discutibili nella forma e nella sostanza. Oltre all’allontanamento preventivo della Triade, si è distinto per dichiarazioni altamente lesive della dignità e della passione dei tifosi, infangando, di fatto, il lavoro compiuto dalla dirigenza scelta personalmente da suo zio Umberto. Ha chinato il capo durante tutta la vicenda “Calciopoli”, evitando colpevolmente di spendere anche una sola frase di conforto per i tifosi affranti. Ha subito le pressioni di mezza Italia per rinunciare al ricorso al TAR, lasciandosi convincere da Montezemolo, che fu poi ringraziato pubblicamente dal presidente della FIFA, Blatter. Ha insediato ai posti di comando della società persone che sembrano inadeguate, dal punto di vista professionale e comportamentale, a reggere il blasone della Juventus, rallentando, di fatto, il ritorno all’eccellenza”. I tifosi sono tutti per Andrea: “Il ragazzo, subito dopo “Calciopoli”, ha preferito accettare con stile le decisioni prese ai piani alti della IFIL. Una scelta dura per chi come lui – e come suo padre e sua madre, tifosissima - viveva e vive per quella maglia bianconera. Una scelta dettata dal ricordo dei toni moderati e dalla assoluta abnegazione che aveva appreso dal padre. Una scelta che però ha causato in lui e in sua madre, Donna Allegra Caracciolo, un profondo rincrescimento che tuttora li tiene lontani dallo stadio. Donna Allegra nutre una passione sconfinata per i colori bianconeri, ha sofferto e sta soffrendo per la sorte della squadra e per le offese che hanno dovuto subire tutti i tifosi. Con Andrea fino a due anni fa frequentava assiduamente la squadra e i dirigenti, sia durante gli allenamenti sia allo stadio, dove non mancava praticamente mai. Chi è attento ai fatti juventini non può non aver notato che la figura carismatica ed elegante di Donna Allegra e quella sorridente e affabile di Andrea sono da troppo tempo assenti dal palcoscenico delle vicende bianconere. Lo stile Agnelli impone che qualunque tipo di scelta o discussione, anche la più complicata, venga fatta lontano dai riflettori e salvaguardando prima di ogni altra cosa l’immagine della Famiglia. Non deve essere stato facile quindi per Andrea digerire l’allontanamento della Triade, al quale era legato non solo dal punto di vista umano, ma anche perché quei manager rappresentavano ancora una scelta di suo padre Umberto. Molti, specie tra i tifosi, si chiedono quali saranno le sue prossime mosse. Se rinuncerà definitivamente a salire sul ponte di comando per cui era stato già designato. Se un giorno parlerà raccontando ciò che è accaduto. Ma anche la scelta del silenzio in questi anni ha fatto crescere nell’immaginario collettivo un caleidoscopio di ipotesi, congetture, scenari. Come quello che lo descrive pronto a diventare il Presidente di una Juventus al di fuori dall’orbita FIAT e IFIL”. I tifosi gli hanno scritto recentemente: “Noi che amiamo la Juventus in modo travolgente, come lei, siamo certi che si stia preparando per la Juventus un futuro emozionante. Ci piace quindi sperare che un giorno non lontano lei possa tornare a passeggiare sull’erba di un nuovo stadio, tenendo al suo fianco gli amici di suo padre, Giraudo e Moggi prima di tutti. E possa ammirare quelle maglie che hanno fatto la storia del calcio vibrare nella corsa dei campioni che le indossano. Ed esultare per quella terza stella che finalmente i nostri ragazzi ci avranno regalato”.
PARLIAMO DELLA CASTA DELLO SPORT E DELLE SUE STORTURE
La Casta dello sport, burocrazia che divora soldi pubblici. A pagare il conto sono i giovani e gli atleti. Il Coni riceve dal Tesoro più di 400 milioni, ma solo la metà va alle attività sul campo. Il resto serve per l'apparato. Al calcio il 30% dei contributi federali. Il caso della Federazione di Pentathlon moderno che non ha mai pubblicato né bilancio né nuovo statuto così risulta da un’approfondita inchiesta di di Agnese Ananasso, Mattia Chiusano, Pasquale Notargiacomo su “La Repubblica”.
Casta dello sport, burocrazia che divora soldi pubblici. A pagare il conto sono i giovani e gli atleti. Il Coni percepisce dal ministero del Tesoro più di 400 milioni, ma solo la metà è destinata alle attività sul campo. Il resto serve a far funzionare la macchina: rimborsi spese, dirigenze e rappresentanza. Nella suddivisione il calcio la fa da padrone, ricevendo il 30 per cento dei contributi federali destinati ai settori non professionistici. Il caso della Federazione italiana di Pentathlon moderno (FIPM) che non ha mai pubblicato né il bilancio né il nuovo statuto. La spending review tocca anche lo sport. Tocca anche il Coni e le federazioni che dal Coni ricevono le risorse economiche. Ma attenzione, a stringere la cinghia non sono i passeggeri saliti sul carrozzone della dirigenza, composta per lo più da personaggi che poco hanno a che fare con lo sport. Quelli che alle Olimpiadi erano in prima fila durante la cerimonia di apertura, davanti agli atleti. L'Italia è stata l'unica delegazione, su 204, in cui le teste bianche si sono piazzate in bella vista, prendendosi la ribalta e gli onori. Un'immagine emblematica, e piuttosto imbarazzante, che ben rappresenta le priorità del sistema Sport in Italia: prima la politica, poi tutto il resto. Abbiamo cercato di capire quanti dei fondi che il Coni, ente pubblico, riceve dallo Stato e distribuisce alle federazioni (che invece hanno natura privata) vengano veramente utilizzati per l'attività sportiva, specialmente di base, e quanti vengano invece spesi o sprecati nel funzionamento del sistema. Nella maggior parte dei casi abbiamo avuto enormi problemi a reperire i bilanci, sebbene il Coni, che li approva, obblighi le federazioni a renderli pubblici, anche perché le federazioni svolgono in parte attività di natura pubblicistica, come organi del Comitato olimpico italiano. Il Coni, che per il 2012 può contare su risorse per 428 milioni (di cui 408,9 provenienti dal ministero del Tesoro) per il 2011 ha versato alle federazioni, alle discipline associate, a enti di promozione sportiva e alle forze armate circa 294 milioni di euro e 246 milioni nel 2012. Il resto serve per far funzionare il Coni stesso (rimborsi spese, utenze...).
Per il personale 58,5 milioni nel 2011 e 58,3 nel 2012. Solo 5 milioni vengono destinati al "progetto di alfabetizzazione motoria" nelle scuole primarie insieme al Ministero dell'istruzione. Un investimento che evidentemente non può bastare a realizzare una vera promozione sportiva, a creare non necessariamente dei giovani e precoci atleti specializzati, ma a diffondere una cultura dello sport in famiglia, a scuola, nella società. Ma sembra quasi che al Coni e alle federazioni questo aspetto non interessi, così oggi in Italia solo la metà dei bambini pratica sport al massimo due volte a settimana e il 23 per cento dei giovani tra i 6 e gli 11 anni ha problemi di obesità. Così un terzo degli italiani non fa sport, un terzo lo fa al massimo fino a tre volte a settimana (ma anche una sola) e soltanto un terzo lo fa assiduamente. Così si è tagliato sulla formazione dei tecnici, quelli veri, non quelli che in una manciata di ore prendono la qualifica di istruttore. Quelli che una volta si chiamavano Maestri dello Sport, usciti dalla Scuola centrale dello Sport, chiusa nel 1975 perché troppo oneroso l'impegno di dover assumere poi i diplomati come dirigenti, in posti "politicamente" utili da riservare magari a persone che con lo sport non c'entrano nulla.
Calcio. Ai giovani solo le briciole. E la Lega nazionale dilettanti è assopigliatutto. La Federcalcio ha ricevuto dal Coni 62,5 milioni di euro nel 2012, nel 2011 ne sono stati messi a bilancio 78,5 milioni, il 30 per cento circa dei fondi federali destinati ai settori non professionistici. Il settore giovanile dal 2007, dopo il commissariamento, è stato ridimensionato e l'attività regionale di tesseramento e organizzazione del calendario delle gare giovanili e scolastiche sono state affidate alla Lega nazionale dilettanti (Lnd), che si occupa di seconda e terza categoria, quelle che negli altri paesi si chiamano "amatori". I comitati regionali del settore giovanile e scolastico della Figc ricevevano circa 6,5 milioni di euro l'anno, quota oggi scesa a poco meno di 2 milioni di euro: la differenza, 4,5 milioni, arriva nelle casse della Lnd. Un'operazione quella di tesseramento che avviene online proprio nell'ottica di riduzione dei costi. Come mai allora il cartellino oggi costa 1,5 euro in più rispetto a quello fatto da una persona fisica? Una piccola cifra che moltiplicata per 740mila piccoli iscritti rende circa un milione di euro in più. Non solo, il presidente della Lnd Carlo Tavecchio ha ben pensato, in un momento in cui le aziende licenziano o falliscono, di fare nuove assunzioni di dipendenti, con i soldi che secondo lo statuto dovrebbero andare all'attività giovanile, oltre a elargire ai 20 presidenti "volontari" dei comitati regionali diarie/rimborsi spese (quindi esentasse) per 2-3.000 euro mensili. E lo dice fiero: "Siamo riusciti ad entrare nel pacchetto di mutualità dei diritti televisivi che ci permetterà di assumere più di cento dipendenti e costruire più di venti campi. Due aspetti fondamentali per la crescita della Lnd sia per puntellare la base sia per varare dei nuovi centri federali". In pratica con i 18 milioni che per regolamento sarebbero dovuti andare alla Figc e essere reimpiegati per il settore giovanile, la Lnd assume 104 dipendenti nelle delegazioni provinciali (8 milioni), del tutto inutili per i giovani calciatori, e realizza venti campi da calcio in erba sintetica (10 milioni, 500mila euro a campo). Un business gestito in modo monopolistico dal trittico Limonta (che produce l'erba artificiale) - Labosport (il laboratorio che analizza il manto) e Lnd servizi (che rilascia l'omologazione) col benestare di Tavecchi, amico di famiglia dei Limonta. Per omologare il campo in erba sintetica la procedura prevede un versamento di 4.800 euro alla Lnd servizi, un balzello che ricade, in teoria sui Comuni, di fatto sulle società. Campi realizzati in materiale plastico non biodegradabile e con controversi effetti sulla salute dei calciatori stessi.
Pentathlon sott'accusa: si risparmia sugli atleti per mantenere la dirigenza. La Federazione italiana di pentathlon moderno (FIPM) non ha mai pubblicato né il bilancio né il nuovo statuto (modificato da quasi un anno e inviato solo in questi giorni al Coni per l'approvazione). Nessuna delle società li ha mai richiesti, a parte l'Athlion. Buona parte di queste società sono infatti società fantasma, create ad hoc dalla federazione stessa per assicurare i voti all'attuale presidente, Lucio Felicita, in carica dal 1996. Quell'anno infatti lo statuto venne modificato per concedere diritto di voto a ogni società con almeno un atleta che avesse partecipato almeno a una gara. Dal bilancio che siamo riusciti a trovare, la federazione nel 2011 ha ricevuto 2,9 milioni di euro dal Coni, di cui ne ha spesi 2,3. "In Italia ci sono circa 140 società per un totale di 300 tesserati. Assurdo. Decine di queste società sono di Pesaro, la città di Felicita" dice Gianni Caldarone, tecnico Fipm ed ex azzurro.
"E proprio a Pesaro dovrebbe sorgere il futuro "centro di pentathlon moderno" con una piscina da 25 metri senza tribune, con una sala scherma con solo 4 pedane che diventa anche palestra di tiro. Peccato che la sala sia al secondo piano dell'edificio, quindi è impossibile fare la prova di combined (corsa e tiro). Mancano la foresteria, il campo da equitazione e un percorso intorno per la corsa, in compenso ci sono il centro estetico e il ristorante. L'impianto sarà gestito da una società sportiva, sicuramente una delle 14 riconducibili al presidente". Solo il progetto è costato 230mila euro, spesa finita nel 2008 e 2009 sotto la voce "incarichi studio e ricerca" (143mila euro), nel 2010 e 2011 sotto la voce "immobilizzazioni" (106mila euro). La spesa preventivata è di 7 milioni, ma il mutuo richiesto al credito sportivo è di 7,5 milioni.
Tanto per fare cifra tonda. "La federazione per finanziare questo progetto risparmia sugli atleti e gli impianti" continua Caldarone. "Ci sono 307mila euro per le trasferte e i soggiorni quando gli atleti della nazionale viaggiano in pulmino di notte per risparmiare sull'aereo; 27mila euro di diarie, quando al massimo solo le 9 promesse olimpiche ricevono 200 euro al mese di rimborso spese dietro pressioni dell'Assipenta, 332mila euro di "prestazioni", ossia i compensi per gli istruttori di nuoto che guadagnano solo 8 euro lorde l'ora, senza contratto. In stage e allenamenti vengono spesi 71mila euro, peccato che si faccia tutto a costo zero nel centro di Roma". Poi ci sono 2.486 euro di corsi mai organizzati, 34mila euro di spese per posta e telefono, una bella bolletta per 16 dipendenti. Solo di gettoni di presenza del consiglio federale sono stati spesi 37mila euro, oltre 20mila euro di buoni pasto, non per gli atleti. La cosa clamorosa poi è l'"acquisto materiali sportivi" quando agli atleti nazionali in quattro anni è stato dato poco o nulla in tal senso. "Il centro federale di Montelibretti è completamente lasciato a se stesso eppure assorbe 534mila euro di manutenzione ordinaria" dice il tecnico, "non è stato neanche riparato il lampione abbattuto nel 2008 dal temporale e che però ha fatto lievitare la spesa di manutenzione da 300mila euro del 2007 a 607mila del 2008. E non si è lesinato sul cambio delle autovetture di "servizio" e sulle spese di "rappresentanza"". E che dire degli spiccioli? Le "altre spese" sfiorano quota 100mila euro. Però il presidente Felicita non percepisce neanche un euro. O almeno nel bilancio non figura.
Gerontocomio presidenti. Ma i giovani dove sono? Alla guida dello sport italiano ci sono anche uomini che hanno superato la settantina e hanno fatto diversi mandati. Satrapi del potere, ma anche competenti e ben collegati a livello internazionale. Ma non sembrano esserci manager rampanti pronti a prendere il loro posto.
Largo ai giovani, basta che abbiano compiuto sessant'anni, meglio ancora, settanta. Arzilli presidenti conosciuti in tutto il mondo, danno del tu a petrolieri caucasici, politici sudamericani, sono salutati con affetto da campioni milionari. Conoscono, soprattutto, gli ingranaggi del sistema, i comitati locali, i dirigenti che contano, spostano voti, mettono veti. Occupano la poltrona, la scaldano, non la mollano. C'è chi, come il leghista Giuseppe Leoni, 65 enne dell'Aero Club d'Italia, ha fatto introdurre nella Spending Review il suo rinnovo per un altro anno. Il ritornello è sempre quello: stipendio zero, diaria giornaliera di trenta euro in caso di riunioni federali, rinuncia all'autista e alla segretaria. Ma in questo sistema a metà tra volontariato e satrapia, lo sport italiano si è lentamente sbriciolato. Che lo si guardi dall'alto o dal basso. Dall'alto della squadra olimpica, che a Rio 2016 rischia di uscire dalla top 10 per mancanza di ricambi, come ha denunciato il candidato presidente del Coni Pagnozzi. Ma anche dal basso dell'attività di base, degli impianti fatiscenti o mai costruiti. Uno sport in declino, che nell'immaginario collettivo potrebbe essere rilanciato da giovani e dinamici dirigenti pronti a prendere il posto dei regnanti attuali. Già, ma perché gli anziani restano in carica così a lungo? E i giovani, perché non ci sono? Il campione della poltrona si chiama Matteo Pellicone, 77 anni, presidente di lotta, judo, karate e arti marziali. "Il mio numero di mandati non lo ricordo, otto o nove". Si ricandiderà alle elezioni dell'8 dicembre, lui che è in carica dal 1981. L'anno prima, alle Olimpiadi di Mosca, l'Italia aveva vinto gli ori di Pollio (lotta) e Gamba (judo). A Londra, quest'estate, s'è accontentata del bronzo della Forciniti nel judo. "Un incarico con una mole di lavoro rilevante ma senza compenso" dice, "non interessa a un trentenne-quarantenne che pensa al suo lavoro". Lui infatti è in pensione, va nel suo studio di commercialista una volta alla settimana. "Non ambivo a fare il presidente, ma una volta eletti ci si fa coinvolgere dai meccanismi agonistici". Quando i campioni sono a fine carriera, c'è un modo per neutralizzare il possibile rivale elettorale. "Forse i giovani pensano più a fare i dt che i consiglieri e presidenti: quando abbiamo degli atleti bravi, li lanciamo come collaboratori tecnici e allenatori federali nella nostra struttura". Alla corte del commercialista dei record, il prossimo a fare il grande salto potrebbe essere Minguzzi, da oro olimpico di lotta a Pechino a tecnico federale. Chissà. Di ex campioni l'Italia è piena. Ma ben pochi arrivano a dirigere le federazioni. L'esperienza Meneghin al basket non è stata positiva, molte ombre ci sono sulla gestione Arese della Fidal (atletica), che però vede in corsa per la poltrona di presidente nientemeno che Alfio Giomi, esponente di spicco degli anni di Nebiolo. Nella ginnastica sono scomparsi sia Igor Cassina, che ha accettato un'offerta per insegnare negli Usa, che Jury Chechi, ex vicepresidente federale più interessato alla televisione che alla politica sportiva. La federginnastica è così presieduta da Riccardo Agabio, 77 anni, cinque medaglie olimpiche (record) durante il suo mandato cominciato nel 2000, con un possibile prolungamento fino al 2016 nel caso vincesse le elezioni del 15 dicembre. "Trenta euro lordi al giorno vanno bene per un pensionato come me" conferma il dirigente sardo, riserva alle Olimpiadi di Roma '60. "Non sempre si trovano giovani disponibili ad una vita di volontariato, senza un corrispettivo per un tranquillo futuro. I presidenti sono ricchi o pensionati, dai capelli bianchi. Ho invitato a candidarsi Chechi, che mi ha risposto "finché ci sei tu lo farai benissimo". Ma, più che l'età, contano l'esperienza e la capacità". Come si fa il presidente federale, se hai meno di cinquanta anni? Lo abbiamo chiesto ad Enrico Gandola, 45 anni, presidente del canottaggio che si prepara alla sfida elettorale con Giuseppe Abbagnale. "Dopo due ori e due argenti mondiali, sono diventato imprenditore nel campo dell'elaborazione dati, oltre che intermediario assicurativo. Ho dei collaboratori in azienda che mi aiutano, ma se fossi un mio dipendente sarebbe difficile dedicare tantissime ore alla federazione. Questo non toglie che io possa fare il presidente della Fic in azienda, grazie a Skype, alle videoconferenze, alle mail. Il presidente federale spagnolo, per esempio, è giovane, stipendiato direttamente dal governo: la sua carica si può vedere come uno sbocco professionale. Ma essendo una carica elettiva, che si guadagna attraverso il voto, il cammino per raggiungerla nasce attraverso una profonda conoscenza dell'ambiente". Appunto, la conoscenza. Il tesoro che gli anziani, abili, generosi o furbi, si sono costruiti col tempo, togliendo ogni velleità, e spesso credibilità, agli aspiranti oppositori. Quando lo vede sui campi lo saluta pure Tiger Woods. Franco Chimenti avrà 72 anni e sarà in sella dal 2002, ma ormai è conosciuto a livello internazionale. Con lui l'Italia del golf è uscita dai circoli esclusivi, per proporre i Molinari, Manassero, Diana Luna, superando la barriera dei 100mila tesserati. Ma alle ultime elezioni non si è trovato nemmeno un candidato alternativo. "Nel golf una soluzione di ricambio non c'era" spiega il docente universitario di chimica ed ex presidente della Lazio, che si vanta di non prendere un euro e di non avere macchine di proprietà della federazione. "Non voglio giustificare, ma per farsi conoscere ci vogliono anni. All'estero sono ascoltatissimi Carraro, 72 anni, e Pescante, 74, ma non è una specialità solo nostra. Il 96enne Havelange lasciò tutti senza parole quando venne a sostenere la candidatura di Rio de Janeiro, poi rivelatasi vincente. Io sono per la conferma di chi ha i titoli". Ma non tutti, coi titoli e l'esperienza, hanno fatto fare un salto di qualità al loro sport. E lo sport italiano, lentamente, si spegne come le chiome dei suoi anziani presidenti.
"Lo sport italiano vecchio e sprecone. Gli atleti? Solo l'ultima ruota del carro". Risorse gestite male, poco ricambio generazionale ai vertici, le donne - anche se più preparate - sistematicamente escluse. Il Coni? "Una struttura da dopoguerra". Il campione dei 200 metri fa un ritratto desolante dell'Italia sportiva. E confida "Mi hanno cercato, per chiedermi di appoggiare questo o quel candidato, ma mi tengo al di fuori". Per 17 anni nel mondo sono bastate due cifre a evocare il suo nome: 19 e 72. Con cinque Olimpiadi alle spalle (oro a Mosca '80) e un elenco lunghissimo di primati, Pietro Mennea, 60 anni, ha meritato tutti gli aggettivi usati per descrivere la sua formidabile carriera da atleta. Oltre la pista è stato, tra le altre cose, eurodeputato a Strasburgo (tra il 1999-2004), avvocato (esercita tuttora, patrocinando cause anche negli Stati Uniti, come tiene a sottolineare), commercialista, insegnante universitario, plurilaureato, autore di una ventina di pubblicazioni e grande esperto di diritto sportivo.
Mennea, eppure lei non ha mai rivestito ruoli dirigenziali nello sport italiano
"Guardi per quelle che sono le mie idee, appena ho anche solo manifestato un interesse per un incarico hanno fatto quadrato contro di me. Eppure, anche se nessuno lo ricorda mai, ho contribuito alla costituizione delle Fiamme Azzurre (il gruppo sportivo della polizia penitenziaria) ".
Non ci è andato mai neanche vicino?
"Nel 1994 stavo riflettendo su una mia candidatura per la Federazione di Atletica. Bastò che dicessi 'vorrei, desidererei' che tutti i piccoli arrampicatori del tempo si schierarono contro di me e da allora ho preferito abbandonare ogni proposito. Ci sono cose più importanti nella vita".
In questo periodo si stanno rinnovando i vertici delle 45 federazioni sportive italiane. Nessuno ha pensato alla 'Freccia del Sud'?
"Su Facebook è nato un gruppo spontaneo con migliaia di adesioni per sollecitare una mia candidatura. Ma ho declinato l'invito".
E altre chiamate?
"Si mi hanno cercato, per chiedermi di appoggiare questo o quel candidato, ma mi tengo al di fuori. Non ci perdo io, gente come me farà sempre qualcosa nella vita. Ci rimette il sistema. E non lo dico per spirito polemico".
Lei è un veterano olimpico, bastano le 28 medaglie di Londra per parlare di uno sport italiano in salute?
"Le medaglie sono importanti, però vorrei fare una considerazione. La caratteristica dello sport italiano è che quasi tutte le medaglie arrivano dai tesserati dei gruppi militari (mi sembra che a Pechino fossero più del 75% e a Londra forse anche qualcosa di più). Lo sport d'elite, dipende dai gruppi militari, senza è nulla".
E questo che le fa venire in mente?
"Siamo paragonabili ai vecchi paesi dell'Est che non esistono più, dove gli atleti erano tutti militari. Questo non per denigrare, ma per evidenziare una realtà".
Ogni anno le federazioni ricevono circa 408 milioni di soldi pubblici.
"Da questo punto di vista lo sport italiano è uno dei più ricchi al mondo, perché se si aggiungono alla quota fissa dello Stato, le risorse dei gruppi sportivi militari, le agevolazioni fiscali e tutte le sponsorizzazioni otteniamo un fiume di denaro difficile da trovare in altri paesi. La Francia per esempio, che è arrivata prima dell'Italia nel medagliere di Londra destina allo sport 200 milioni di euro l'anno".
Sta parlando di sprechi?
"Le faccio un esempio. Sa quanti impiegati ha la federazione giamaicana di atletica, una delle prime al mondo? Tra i 6 e gli 8, l'Italia non credo ne abbia meno di 50-60. Il nostro è un sistema piramidale che va rivisto. Le federazioni devono essere strutture snelle, più veloci, devono lavorare sulla competitività. Gli sprechi si verificano per queste strutture così pesanti".
E a livello di dirigenti?
"È mai possibile che a capo di una federazione ci siano sempre le stesse persone? Ci sono ancora alcuni dirigenti di quando correvo io. C'è bisogno di gente motivata, dopo 20-30 anni nello stesso posto si scoccerebbe chiunque".
Il 61.9% dei presidenti federali uscenti ha più di 60 anni.
"È urgente un ricambio generazione. Serve gente giovane, ma preparata. Perché non mettere un limite di 2 mandati agli incarichi? Dopo 8 anni si può anche fare altro nella vita".
Crede sia un problema soltanto italiano?
"Anche negli altri paesi permangono 'sacche antiche', ma credo che il ricambio generazionale sia maggiore. Lo sport comunque tende a chiudersi. Mi ricordo quando andai a un raduno collegiale in Senegal. Il presidente della federazione locale era Diak, l'attuale capo della Iaaf (Federazione internazionale di atletica). Soltanto che parliamo degli anni Settanta".
Se ci sono questi dirigenti è perché vengono eletti.
"Infatti va rivisto tutto il sistema elettorale, da diversi anni è troppo ingabbiato. Le nostre elezioni sono decise da determinati gruppi di potere. Bisogna aprire il sistema: c'è poco spazio per gli autonomi, gli indipendenti. Se non vai a prenderti i voti dei poteri forti, come i gruppi militari e il Cus, hai poche possibilità".
Conta anche la politica.
"Certo, la politica si serve dello sport per attingere ai suoi voti, tutto lo sport sul territorio vive in funzioni dei referenti politici. Lo sport è politica".
Un altro dato: nell'ultimo quadriennio su 646 consiglieri federali le donne erano il 62,8%.
"È una costante del nostro mondo. Sia a livello atletico che dirigenziale le donne hanno sempre fatto fatica. Sopravvive una concezione superata dello sport che esclude le donne. Penso, invece, che siano molto più preparate degli uomini.
Servono quote rosa?
"Io inserirei un certo numero di presenze fisse. Sì, delle quote prestabilite. Siccome qui non è scontato nulla, credo che potrebbero essere utili".
Le elezioni più importanti restano quelle del Coni.
"Sì, un'altra struttura che risale al dopoguerra".
Pagnozzi o Malagò?
"Non c'è una grande differenza tra i due. E soprattutto non vedo idee forti. Credo che in Italia ci sia una classe dirigente superiore a loro".
In conclusione, non è colpa soltanto degli atleti 'vecchi' se l'Italia fa fatica.
"Gli atleti sono l'ultima ruota del carro, fanno già moltissimo. È il Paese a essere vecchio."
LA BUROCRAZIA DEL CALCIO.
I ragazzi che persero le finali per la burocrazia del calcio. Il Valserina vince il girone, ma le regole Figc vietano la promozione perché servono più iscritti. Il segretario provinciale della Lega Belotti: così si penalizza la realtà montana, legge da rivedere, scrive Maddalena Berbenni il 5 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Ai ragazzini dicono che l’importante è partecipare, ma alla fine vogliono vincere tutti, e i primi sono i dirigenti». Giuseppe Baretti, presidente del comitato lombardo della Lega nazionale dilettanti-Figc, trent’anni di campionati (organizzati) alle spalle, bergamasco, la butta lì, sibillino. Ma nella promozione conquistata-anzi no dal Valserina calcio, giurano i protagonisti, la coppa c’entra di striscio. Semmai, educativamente parlando, il problema è proprio l’opposto. Perché se vinci devi rinunciare al premio? Quest’autunno la categoria allievi, venti calciatori in erba tra i 14 e 16 anni, trova quella che il presidente Diego Bonaldi definisce «la formula magica». La società, colori giallo-azzurri e mezzo secolo di storia, nel suo piccolo ha coltivato generazioni di giovani giocatori, cresciuti tra palazzetto e campo sportivo. Ma è una realtà piccola, che si regge sul volontariato. Difficile azzeccare «la formula». Questa volta, però, le soddisfazioni arrivano con un secondo posto che permetterà alla squadra di passare alla fase regionale. In teoria. Perché nella pratica la promozione salta. Ci sono i numeri in classifica ma mancano quelli per il regolamento. L’inghippo è una norma in base alla quale la società per andare avanti deve iscrivere alla Figc l’intera «filiera»: pulcini, giovanissimi e allievi. Al Valserina manca la seconda. «Nella nostra valle — denuncia Bonaldi in una lettera che sta facendo il giro delle società — 4 scuole elementari su 5 sono composte da due pluriclassi, dove sono riuniti gli alunni di prima, seconda e terza. Noi i numeri non ce li abbiamo». Tradotto: «Non è giusto che chi si è impegnato, allenato e confrontato ad armi pari con gli avversari debba rinunciare al titolo. Non è possibile penalizzare ragazzi il cui unico difetto è abitare in luoghi con bassa densità di popolazione». Per Bonaldi, «la Federazione avrebbe dovuto essere coerente dall’inizio. Bastava ammettere le squadre “senza filiera” ma escluderle ai fini della classifica». Il caso del Valserina, tra l’altro, non è isolato. A Brescia 13 squadre negli stessi panni si sono coalizzate in un’unica protesta. Nella Bergamasca su 160 squadre iscritte 64 hanno partecipato al campionato senza avere i requisiti e almeno un altro paio verrà penalizzato: il Verdello intercomunale e l’Endine Gaiano. Per la prima parla il presidente Filippo Cutrona: «Noi abbiamo vinto il nostro girone e per tutta risposta, siccome non abbiamo i giovanissimi, la Federazione ci ha invitato a mettere per iscritto la rinuncia al campionato regionale. Io non ci penso proprio». Giulio Vitali dell’Endine: «Abbiamo deciso di ritirarci per motivi nostri, ma ho già espresso la mia solidarietà a Bonaldi. Sono regole da cambiare». Il caso ha catturato l’attenzione pure di un atalantino alle prese con altri Maxi pensieri (l’addio di Moralez), il segretario provinciale della Lega Daniele Belotti. Ieri ha scritto una lettera ai dirigenti della Figc, al presidente della Provincia Matteo Rossi e all’assessore regionale allo Sport Antonio Rossi: «Un simile regolamento — commenta Belotti — va a penalizzare la realtà montana che si cerca di salvare». C’è spiraglio per una deroga? «Assolutamente no — risponde Baretti —. I regolamenti sono fatti per essere rispettati. Lo scorso anno siamo stati tolleranti perché era la prima stagione con la riforma delle fasi provinciali e regionali. Se ora chiudessimo un occhio, ne dovremmo chiudere altri cento e protesterebbe chi è in regola. Il Valserina doveva sapere fin dal principio come stanno le cose e spiegarlo subito ai suoi ragazzi».
NON E' UN CALCIO PER GIOVANI.
Calcio, una generazione destinata alla panchina. Nello sport nazionale, ormai conta solo vincere. E il risultato è che i talenti non ancora esplosi hanno pochissime chance di andare in campo. Lo dimostrano i dati e lo dicono gli esperti. E, intanto, negli altri Paesi fanno passi da gigante. E il campionato "più bello" resta indietro. Questa è l’inchiesta a cura di Giorgio Farina, Massimo Mazzitelli, Stefano Scacchi, Timothy Ormezzano, Nicola Apicella, Corrado Zunino, Gabriele Benincontro su “La Repubblica”.
Ragazzi in campo: ultimi in Europa. E la Germania dà lezioni a tutti. Il raffronto con le più importanti leghe europee (Premier, Bundesliga e Liga) è decisamente impietoso per il nostro calcio. Più presenze, più titolari e più "indigeni" in tutte le altre realtà. I tedeschi hanno scelto la strada di valorizzare i loro giovani con buoni risultati. Numeri alla mano il calcio del futuro, almeno in Europa, parlerà tedesco. Tornata sul podio del ranking Uefa proprio a scapito dell'Italia, la Germania dimostra di credere fortemente nella crescita e formazione di giocatori indigeni, molto più di Spagna, Inghilterra e naturalmente Italia. I dati che emergono dallo studio dei quattro principali campionati europei dimostrano che Bundesliga è senza ombra di dubbio la miglior palestra per far crescere i giovani. La serie A la peggiore. Il campione prende in considerazione l'utilizzo dei nati dopo il 1° gennaio 1990 fino all'11 aprile scorso, quando in Bundesliga sono state giocate 29 giornate, nella Liga spagnola 31, nella Premier inglese e in Serie A 32.
LA TABELLA: UNDER 21, SERIE A a confronto con le leghe europee
|
Bundesliga |
Premier |
Liga |
Serie A |
Under 21 stranieri |
17 (27,9%) |
24 (46,2%) |
11 (21,6%) |
29 (59,1) |
Under 21 indigeni |
44 (72,1%) |
28 (53,8%) |
40 (78,4%) |
20 (40,8%) |
Under 21 impiegati |
61 |
52 |
51 |
49 |
Under 21 che hanno giocato 2/3 delle partite |
15 |
5 |
5 |
0 |
Presenze totali under 21 indigeni |
496 |
240 |
337 |
126 |
Presenze per giornata under 21 |
23 |
12,6 |
14,8 |
10,6 |
Presenze giornata under 21 indigeni |
17 |
7,5 |
10,8 |
3,9 |
Presenze totali under 21 |
669 |
403 |
460 |
341 |
Minuti giornata under 21 indigeni |
1099 |
433 |
571 |
173 |
Minuti giornata under 21 |
1433 |
718 |
830 |
508 |
Minuti giocati under 21 |
41574 |
22979 |
25755 |
16275 |
Gol under 21 indigeni |
44 |
11 |
20 |
9 |
Gol in totale under 21 |
58 |
29 |
26 |
17 |
Salta subito all'occhio come tutte e 18 le squadre del campionato tedesco abbiano schierato per almeno un incontro un giocatore Under 21. In Spagna solo l'Osasuna su 20 club non lo ha fatto mentre in Inghilterra sono ben tre: Stoke City, Tottenham e Wolverhampton. Due sono le squadre senza Under 21 in campo anche in Serie A; ma se non sorprende la presenza nell'elenco della colonia argentina di Catania, stupisce che gli altri due club siano Lazio e Roma, da sempre conosciute per la bontà del loro vivaio al quale evidentemente da qualche anno non credono più.
Solo nei minuti finali della sfida contro il Milan Montella ha fatto esordire in A il 1993 Caprari. Nel totale il numero dei giocatori giovani utilizzati non differisce più di tanto, anche se tra Germania e Italia, i poli opposti di questa classifica, c'è una differenza di 12 elementi (61 a 49). Quello che fa scalpore è la cifra relativa ai calciatori di scuola nazionale e quindi eleggibili per le rappresentative. Nella Bundesliga, ma anche nella Liga, sono oltre il 70 per cento, poco sopra la metà in Inghilterra, ben sotto il 50 per cento in Italia. Questo significa che i club italiani, se credono nei giovani, preferiscono quelli stranieri. Non è un caso se dal 2007 a oggi l'Italia è l'unica tra le quattro nazioni guida a non aver vinto un titolo continentale giovanile (U17, U19 o U21) ma è arrivata solo a una finale nell'U19. Di contro le 3 vittorie di Germania e Spagna (che vanta anche due finali) e una dell'Inghilterra (3 volte finalista).
L'Italia inoltre non si è qualificata per la fase finale dei prossimi Europei U21 e U17, non prenderà parte a nessuno dei mondiali di categoria (U17 e U20) del 2011 oltre ad essersi preclusa la partecipazione ai Giochi Olimpici di Londra 2012, torneo al quale prendeva parte ininterrottamente da Los Angeles 1984. I numeri della Germania, nazione capace di una forte integrazione delle varie etnie così come in Europa la Svizzera e la Francia, fanno ancora più impressione quando si valuta la qualità dell'utilizzo dei giovani giocatori. A fronte di 13 calciatori tedeschi con almeno i 2/3 delle presenze in campionato, l'Inghilterra e la Spagna ne oppongono 5, l'Italia nessuno! In Bundesliga ogni giornata giocano 23 Under 21 di cui 17 tedeschi, in Italia poco più di 10 e solo 4 di casa nostra. Sono 12 i giovani tedeschi titolari ogni giornata mentre in Italia non si arriva a 2. Ancora più impietosa la statistica relativa al minutaggio dei giocatori indigeni per giornata che in Italia risulta poco meno di un decimo di quella concessa ai pari età tedeschi. Nel mezzo Spagna e Inghilterra con numeri ben distanti dalla Germania ma purtroppo anche dal nostro calcio. Le classifiche di presenze e utilizzo nei singoli campionati vedono in testa sempre giocatori dei relativi paesi tranne che in Italia dove il ragazzo più utilizzato è Santon, quinto dopo Hernandez, Munoz, Llajic e Ramirez, grazie al trasferimento a Cesena; inoltre, tra i quattro paesi presi in considerazione, l'Italia è l'unico in cui tra i primi 10 più presenti non c'è maggioranza di giocatori indigeni. Oltre a Santon, che per minutaggio in Germania sarebbe fuori dai primi 15 mentre in Liga e Premier oscillerebbe tra il 7° e l'8° posto, gli altri più utilizzati sono Donati, Bertolacci e Camporese. Ma il giovane italiano non convince neanche all'estero. Negli altri tre paesi se ne hanno testimonianze solo in Premier dove Balotelli è tra i primi 10 più utilizzati e Macheda ha giocato una media di 30 minuti nelle sue 7 apparizioni al Manchester United a inizio stagione prima di passare alla Sampdoria. Numeri alla mano, il calcio del prossimo futuro pare proprio che non parlerà italiano.
Quando in campo bastava la fantasia e la squadra si faceva a "pari o dispari". Il racconto di Gianni Rivera. La cultura del calcio è drasticamente cambiata negli ultimi 50 anni. Oggi il Settore giovanile della Federcalcio ha 700mila tesserati sotto i 16 anni e 7mila scuole calcio. Gianni Rivera, che ne è il presidente, spiega perché si dovrebbe ritrovare lo spirito di allora ed evitare che nell'educazione dei giovani calciatori prevalga la logica del successo e del denaro. Negli anni '50, una palla, per le strade di Alessandria, rotolava più facilmente. Poche macchine - in generale, poche nel mondo - disturbavano la quiete e anche noi ragazzi che, dopo la scuola, ci affrontavamo in interminabili partite. Nessuna riga a delimitare il campo, quattro cartelle o quattro sassi per le porte, pari e dispari per scegliere i compagni e decidere le squadre. Oltre al pallone, non serviva molto altro e si giocava in quanti si era: due contro due, cinque contro quattro col portiere volante, sette contro sette e non c'era limite al campo e alla fantasia.. Partite memorabili, le cui azioni ci raccontavamo i giorni a venire. I nostri genitori, al calare della sera, ci venivano a raccogliere che eravamo sporchi ma mai stanchi di giocare. E i campioni, nascevano lì o da quelle parti. Non è il sapore buono delle cose andate. Il mondo cambia, ed è naturale che sia così. Ma lo spazio della libertà nel gioco, oggi, è assolutamente limitato e, in gran parte, istituzionalizzato.
L'urbanizzazione, la cementificazione selvaggia e le automobili hanno rinchiuso negli impianti la possibilità del gioco. Non ho mai frequentato una scuola calcio, non ne esistevano; oggi anche per giocare negli oratori devi essere tesserato a qualcosa, altrimenti fai fatica a giocare con gli altri. Oggi sono presidente del Settore giovanile della Federcalcio e ho davanti a me più di 700.000 tesserati tra i 5 ed i 16 anni e 7000 scuole calcio; al posto degli scarpini vesto un sano pragmatismo attraverso il quale cerco di capire quale è la cosa più giusta da fare. Cosa prendere dal passato per costruire il futuro? Certo le macchine ed il cemento non aiutano, ma forse tentare di recuperare lo spirito originario del gioco, quello sì che aiuterebbe. L'indicazione che attraverso il Settore Giovanile stiamo cercando di dare ai tecnici delle scuole calcio, è quella di dare maggiore attenzione alla tecnica di base. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un'eccessiva fisicità: fantasia e la libertà di esprimerla, senza rinchiuderla in logoranti schematismi e tatticismi, magari ricreando i presupposti dello spirito originario. Nella Guida tecnica che forniamo nei nostri corsi, diciamo di variare, a seconda dell'età, il numero dei giocatori e la grandezza del campo da gioco: più palloni un allievo è in grado di toccare, più affinerà la sua tecnica, inventiva e motricità. Ricreare uno spazio di libertà, a misura di bambino. Spesso, sui campi, vedo scimmiottare la serie A e piccoli di 8 anni giocare su campi regolamentari, 11 contro 11, più per soddisfare la volontà dei grandi che le effettive esigenze dei piccoli. Una nuova cultura pedagogica deve essere riaffermata, travalicando quelli che sono i dettami della società regolata dalle leggi di mercato. A partire dai tecnici, passando per i dirigenti e, non ultimi, i genitori. I principi dell'educazione del bambino non devono essere governati dalla sola logica del successo e del denaro; una logica, questa, che riguarda molto di più gli adulti perché ai bambini interessa divertirsi giocando. E' il tecnico l'apice del triangolo; suo, sul campo, è l'approccio educativo che deve vedere il ragazzo come fine e non come mezzo delle personali ambizioni. Quest'anno, insieme al settore Tecnico, abbiamo varato due corsi sperimentali chiamati Uefa C. A partire da questo, il prossimo anno entrerà a regime una nuova figura tecnica che avrà il compito di occuparsi solo dei giovani, un vero e proprio maestro di calcio. Che tenti, con il ragazzo, un approccio a 360 gradi, creando i presupposti per un buon cittadino, oltre che per un buon calciatore. Un progetto pedagogico che veda coinvolti, genitori, società e tecnici; un progetto condiviso che metta al centro il bambino, tanto da allontanare quelle aberrazioni comportamentali a cui, spesso, assistiamo a bordo campo. Divertimento, etica e tecnica, un'alchimia difficile, ma non troppo. Basta averne od imparare ad averne un po'dentro per riuscirla a trasmettere. Un'ultima parola vorrei dirla ai genitori: serve la voglia di mettersi in gioco, giocando con i propri figli, cercando di non essere solo degli spettatori sugli spalti ed avere la capacità di trasformare lo spettacolo televisivo del calcio in cultura sportiva.
Dai vivai casalinghi al sistema Udinese. Strade diverse, obiettivo campioncini. Solo il 4 per cento dei giovani delle squadre primavera arriva a giocare in serie A. Bruno Conti: "Eppure queste generazioni non sono peggio delle precedenti. Il problema è che a tutti, dalle società ai giornalisti, importa solo chi vince". E tutti si adeguano, anche se i percorsi cambiano. Il dato è abbastanza sconfortante: negli ultimi cinque anni solo il 4 per cento dei giovani delle squadre primavera arriva a giocare in serie A. Pochi, troppo pochi per una nazione che si vanta di essere tra le potenze del calcio mondiale. Pochi per garantire alla nostra nazionale quel ricambio generazionale che significa continuità di vittorie. Ma cosa è successo improvvisamente? Abbiamo avuto decenni, dalla fine degli anni Settanta alla fine degli anni Novanta, di grandi talenti: gli Antognoni, Cabrini, Tardelli e Rossi che ci hanno portato il Mondiale '82; poi la covata dei Giannini, Baggio, Vialli e Mancini che ci hanno fatto sfiorare il titolo nel '90; i Totti, Cannavaro, Del Piero e Buffon che hanno trionfato nel 2006 in Germania. Poi si è fermato tutto. Le uniche stelle degli anni 2000 sono gli inaffidabili Cassano e Balotelli, che difficilmente ci porteranno sul tetto del mondo se continuano così. Perché questo black out? Cosa è successo?
Troppi stranieri? Poco coraggio degli allenatori? Vivai italiani in crisi? Cosa è cambiato? "Nulla", spiega Bruno Conti, da più di vent'anni responsabile del settore giovanile della Roma, storicamente uno dei più prolifici. "Vedo giovani da una vita e non mi sento di dire che quelli degli ultimi anni siano più scarsi, parlo nella media, di quelli passati. Mancano i Totti, non è facile trovare sempre campioni, ma la media è alta. E' solo cambiato il sistema. C'è fretta, troppa fretta, e conta solo vincere. Gli allenatori si sono adeguati. Quando arrivano in squadre importanti, non hanno voglia di rischiare la panchina per valorizzare i giovani, vogliono campioni, giocatori fatti, pronti per le grandi imprese. Ma come dargli torto quando i primi a chiedere la loro testa, se la squadra perde una partita, sono i giornalisti? Avete mai visto elogiare un tecnico perché ha lanciato in prima squadra un giovane della primavera? Riconoscergli pubblicamente il merito di guardare ai settori giovanili? Mai". Eppure, in Italia si continua a credere e ad investire nei settori giovanili. I budget sono diversi, come diversi sono i modi di lavorare. Inter, Milan e Juventus sono le società che in bilancio prevedono gli investimenti maggiori per i vivai: circa 5 milioni di euro l'anno. Roma e Fiorentina dai 2 ai 2,5 milioni l'anno. Tra le piccole, l'Udinese è quella che destina maggiori risorse alla scoperta di talenti. Tanti i giovani che le società professionistiche gestiscono, dai pulcini alla primavera: in media 250 a squadra tra A e B, circa diecimila ragazzi dai 10 ai 20 anni. Un esercito di baby calciatori che cresce con il sogno della serie A. I dati indicano che per moltissimi sarà solo un'illusione. Per le società gli investimenti non sono a perdere: basta un giovane che riesce ad arrivare in prima squadra o ad avere mercato per giustificare i soldi spesi. Alla Roma, senza voler quantificare il valore Totti, è bastata la cessione di Aquilani al Liverpool, 25 milioni di euro, per ripagare dieci ani di settore giovanile. Balotelli ha portato nelle casse dell'Inter 35 milioni di euro: sette anni di gestione del vivaio. "E questi sono i casi più eclatanti - spiega Conti - poi vanno considerate le operazioni minori: ogni anno dalle varie squadre primavera partono giovani per società di prima e seconda divisione, cessioni che comunque portano soldi. Non sono sono certo i settori giovanili a pesare sui bilanci delle società di calcio. Questo sport in Italia è un'industria e dobbiamo paragonare i vivai alla ricerca: soldi spesi comunque bene". Diverse le strade seguite per trovare talenti. C'è chi è rimasta fedele alla ricetta di crescere i calciatori in tutto il percorso giovanile, chi invece ha cominciato a guardare all'estero o a sfruttare una maggiore disponibilità economica per comprare campioncini. Poi c'è l'Udinese, un caso unico, che si è specializzata con successo nello scouting in tutto il mondo. Roma, Atalanta e Empoli sono state negli ultimi anni le squadre di riferimento: da li sono usciti i giovani più interessanti. Tre società unite dalla stessa visione del lavoro: grande impegno nella scelta dei baby giocatori; crescita nelle varie categorie, pulcini, giovanissimi, allievi, con continua selezione e integrazione; conferma nelle squadre primavera o cessione in prestito in altri campionati. Niente stranieri, nè acquisti da centinaia di migliaia di euro. "Noi non compriamo nessuno - dice Conti - nè promettiamo ricchi contratti a giovani di sedici anni. E come noi fanno anche all'Empoli e all'Atalanta. In passato abbiamo anche pagato questa nostra politica perdendo giocatori interessanti, ma riteniamo che sia la strada migliore. I nostri ragazzi, sono veramente "nostri": Totti e De Rossi erano bambini quando sono arrivati a Trigoria. La nostra politica è investire su bravi osservatori, consolidare rapporti con società affiliate in tutta Italia, continuare a scegliere bene chi portare avanti. Paghiamo i premi di formazione previsti dalla federazione (30mila euro) quando prendiamo giocatori da altre società, ma non partecipiamo ad aste, ormai sempre più frequenti, per presunti baby campioni. E, per scelta, nei nostri vivai ci sono il 98 per cento di ragazzi italiani: crediamo che, oltre alla tecnica, a questa età sia anche importante la crescita. Vedo giocare in altre squadre quindicenni e sedicenni provenienti da tutto il mondo: saranno felici?" Inter, Milan, Juventus e Fiorentina hanno filosofie diverse: cominciano dai settori giovanili a investire cifre importanti. Comprano giovani talenti dall'estero o da altre società italiane per inserirli nella squadra degli allievi nazionali o primavera. Ormai è diventato un business parallelo. Ma è all'estero che si gioca la vera partita, la vera corsa "mondiale" a chi scopre il fenomeno. Tutti sognano di trovare come ha fatto il Barcellona un altro Messi a 15 anni, quando i costi sono sopportabili. Ci sono squadre di osservatori specializzati che ogni giorno presentano video e relazioni da ogni angolo del mondo, il difficile è scegliere quello giusto e sperare che negli anni mantenga le promesse. Il Manchester City vuole Prestia dal Palemo e ha offerto 400mila euro. Il Milan ha comprato Valoti ('93) dall'Albinoleffe per 150mila euro. La Juve sta comprando Di Benedetto dal Pescara ('95), la cui metà vale 200mila euro. Pacini, un portiere del 1995, può andare dall'Empoli al Chelsea per 300mila euro. L'Inter comprò Natalino quando aveva 16 anni dal Crotone per 150mila euro. Prezzi che solo poche società si possono permettere. La squadra del presidente Pozzo ha "brevettato" un metodo di mercato che l'ha resa unica in Europa e che, dopo aver portato i suoi frutti per la prima squadra, negli ultimi anni è stato allargato anche al settore giovanile. Nella "pancia" dello stadio Friuli c'è una grande stanza piena di monitor e videoregistratori: ogni giorno fidati osservatori guardano decine e decine di cassette con partite e giocatori che arrivano da ogni parte del mondo. E' il primo livello: quando si scopre un giovane interessante viene segnalato a un'altra squadra di osservatori che chiede informazioni e lo studia. Superato anche questo livello, la pratica arriva sul tavolo di Andrea Carnevale, ex centravanti di Napoli, Roma e Udinese. Lui riguarda tutto, parla con gli scout specializzati nei campionati del giovane selezionato, e decide se sia il caso di andarlo a seguire dal vivo per un periodo. Così sono stati scoperti, giovanissimi, i Sanchez e gli Asamoah.
Così l'Udinese ogni anno vince la sua Champions League dei bilanci.
Dai pulcini alla A, il metodo Atalanta. Qui si parte ancora dai fondamentali. Nella "cantera" della società bergamasca si selezionano ragazzini per portarli fino alla prima squadra. Da Montolivo a Pazzini, da Astori ad Agazzi, tanti ce l'hanno fatta. Un sistema basato sulla tecnica. Ma è sempre più difficile far maturare i talenti in un ambiente che non sa "aspettare". Sulle pareti del suo ufficio nel centro sportivo di Zingonia campeggiano i poster di squadre capolavoro a livello giovanile: formazioni campioni d'Italia primavera e allievi nazionali nelle quali dieci undicesimi hanno poi giocato in Serie A. Sono percentuali incredibili che annullano la fisiologica dispersione di talento delle baby-promesse. I volti ancora adolescenti di Montolivo, Pazzini, Canini, Lazzari, Morfeo, Locatelli, Viali, Pavan, Agazzi, Astori sono lì a dimostrare che l'Atalanta è una scuola-calcio tra le migliori d'Europa. E a guidarla da quasi vent'anni, dopo due decenni a sfornare talenti al Como, c'è Mino Favini, 75 anni, un'istituzione del calcio giovanile italiano, l'uomo che ha iniziato a far allenare l'attuale ct della nazionale, Cesare Prandelli. Ogni giorno si coccola quelle immagini che certificano la bontà del lavoro svolto a Zingonia. Undici squadre dalla primavera fino ai pulcini con un investimento di circa 2 milioni di euro all'anno nel vivaio. L'Atalanta segue una filosofia diversa da quella di altre provinciali: prende i calciatori a 11 o 12 anni e cerca di portarli in prima squadra. "In questo momento abbiamo Consigli, Bellini, Capelli, Bonaventura, Raimondi e Padoin - spiega Favini - senza contare i prodotti del nostro vivaio che giocano nell'Albinoleffe. All'ultimo Torneo di Viareggio la nostra primavera aveva 15 ragazzi cresciuti con noi fin da piccoli. Mentre in giro è pieno di squadre allievi con 5-6 stranieri. La nostra è una strategia faticosa perché non è facile accompagnare la crescita di un ragazzo. Ma dà tantissime soddisfazioni. Dico sempre ai bambini: "Diventerete bravi quando supererete la siepe che divide il vostro campo di allenamento da quello della prima squadra". E per fortuna in questi anni è capitato a tanti di loro". Una politica diversa rispetto a quella di altri club che - come fa l'Udinese senza sbagliare quasi mai un colpo - acquistano giovani promettenti in giro per il mondo a 16-17 anni rivendendoli poi alle grandi d'Europa. Meno virtuosi altri percorsi di "scouting". La ricerca del campioncino, ad esempio, degenera in provini artigianali organizzati da intermediari e faccendieri alla periferia di Napoli: grazie ad alcune società dilettantistiche usate come copertura vengono radunati decine di ragazzini promettenti dalle squadrette della zona e invitati osservatori di club professionistici che talvolta comprano, ovviamente in nero. Facile anche immaginare i legami non proprio candidi sottesi a certe operazioni. Ovviamente le società serie si tengono alla larga. A maggior ragione l'Atalanta che scova i bambini migliori dei dintorni - tra città, pianura e valli Brembana e Seriana -, pagandoli 12-14mila euro in premi di preparazione alle società dilettantistiche, e poi li accompagna per tutta l'adolescenza. Per apprezzare il risultato basta scorrere l'almanacco della Panini: a ogni pagina compare qualche calciatore di A e B nato in provincia di Bergamo: "E' merito anche del carattere dei bergamaschi che credono molto in ogni iniziativa intrapresa", dice Favini. Ma è merito anche del suo metodo che punta molto sulla tecnica. "Sono 40 anni che insegno sempre le stesse cose: stop, conduzione della palla, tiro di collo o esterno, controllo di piatto o suola, e così via.
Purtroppo da qualche tempo in Italia ci siamo dimenticati di questi fondamentali. Anche per questo motivo ci troviamo di fronte a un clamoroso buco generazionale che ci lascia senza campionissimi dopo le ondate degli anni Sessanta con Vialli, Maldini, Mancini, Baggio e Zola, e Settanta con Pirlo, Totti, Del Piero e Nesta. Adesso qualcosa sta cambiando. Rivera, Sacchi e Baggio, diventato nel frattempo dirigente federale, hanno capito l'importanza di tornare a questi metodi. E uno dei nostri "maestri della tecnica", Stefano Bonaccorso, formerà figure analoghe a Coverciano. D'altronde mi sembra che una squadra spagnola non abbia mai dimenticato questi principi. E ogni tanto vince qualcosa. Grazie al Barcellona si torna a fare calcio in modo sano". La mentalità "muscolare" degli anni Novanta aveva condizionato anche qualche giovane calciatore. Favini lo racconta con un aneddoto piuttosto illuminante: "Finale per lo scudetto giovanissimi nazionali. Atalanta-Juventus. Alla fine i campioni d'Italia siamo noi grazie a Consigli che para un rigore a Giovinco. Nonostante l'errore, si capisce che il fantasista bianconero è un fenomeno. Però negli spogliatoi viene da me un nostro giocatore e mi fa: "Dove vuole andare quello lì? E' troppo piccolo". Io gli rispondo: "Vediamo tra qualche anno dove sei tu e dov'è lui". Giovinco è in Serie A, il nostro non so che fine abbia fatto. E poi in Italia sfianchiamo troppo i talenti promettenti con la trafila dei prestiti nelle categorie inferiori. Servirebbero più coraggio e pazienza". Ma, di fronte alle sirene di un mercato sempre più assillante, diventa difficile aspettare la maturazione con calma. "Anche qui all'Atalanta facciamo fatica a tenere lontani i ragazzi da certe proposte sempre più assillanti. Ormai ci sono bambini di 12-13 anni che hanno già ricevuto visite a casa da cinque procuratori.
Ma vi pare possibile? E questa è gente preparata: avvocati, professionisti. Sanno come muoversi. Quando le famiglie vengono avvicinate in questo modo, anche per noi diventa difficile fare qualcosa. A quel punto il ragazzo crede all'agente che lo lusinga più che all'allenatore o al dirigente. Intendiamoci, è gente che fa il suo lavoro. Ma esistono alcune regole precise. I ragazzi non possono avere un procuratore prima dei 16 anni. Una prescrizione che fa acqua da tutte le parti. La Federazione dovrebbe vigilare. Come dovrebbe fare qualcosa quando si vedono squadre di allievi nazionali con 5-6 stranieri, alcuni dei quali africani o sud-americani.
Anche in questo caso esistono regole a tutela dei nostri vivai che devono essere applicate. E chi non le rispetta deve pagare", è l'appello di Favini. Altrimenti quei poster appesi alle sue spalle nell'ufficio di Zingonia rischiano di ingiallire senza la compagnia di altre foto altrettanto prodigiose.
"Cantera Juve", un cantiere aperto. Pessotto: "Progetto juventinità". Diciassette squadre nel centro di Vinovo. Un investimento da sei milioni affidato all'ex centrocampista della Nazionale Gianluca Pessotto. Qualche giovane già alla ribalta, ma anche un po' di dispersione e di risultati negativi. Diciassette squadre per un totale di 326 ragazzi, 19 allenatori, 10 preparatori atletici, 6 preparatori dei portieri, 7 medici, 17 massaggiatori e 33 accompagnatori, con un investimento annuo di circa 6 milioni di euro. Questi i numeri del vivaio della Juventus. La meglio gioventù bianconera: dai Pulcini 2002 alla Primavera. Se il core business è, come sottolinea il coordinatore del Settore Giovanile Gianluca Pessotto, "portare i nostri giovani in prima squadra", la Juve ha fatto bingo. In copertina Manuel Giandonato, centrocampista 19enne, anche se il suo debutto risale stagione 2009-2010, con Zaccheroni in panchina. Dopo il gran gol su punizione rifilato al Manchester United, nell'amichevole per l'addio al calcio di Gary Neville, tutti lo vogliono. Complici i tanti infortuni che hanno spesso ridotto all'osso l'organico di Delneri, l'anno scorso ben 7 ragazzi della Primavera hanno avuto l'occasione di debuttare in prima squadra: Boniperti, Buchel, Camilleri, Giannetti, Libertazzi, Liviero e Sorensen.
Quest'ultimo, danese di 19 anni, prelevato dal Lingby per 130 mila euro, si è rivelato un prezioso jolly difensivo, uno dei migliori innesti per qualità prezzo. Il nuovo crac è Gabriel Appelt Pires, centrocampista classe 1993, prelevato per 2,5 milioni dal Resende, insieme con il fratello attaccante Guilherme. Tra gli altri stranieri in rampa di lancio, sei classe 1994: il promettente portiere rumeno Branescu, poi il ceco Adamec, gli svizzeri Untersee e Simunac, Emmanuello e Padovan. Tutti sognano un giorno di appendere la maglia del debutto sul muro del corridoio che collega lo spogliatoio della Primavera a quello della prima squadra. Vicino alle casacche di Giovinco, Marchisio e De Ceglie. "La parete è quasi piena, tra poco non ci sarà più spazio", scherza Pessotto. Insomma, la fabbrica di talenti funziona. Il club bianconero cresce, forma e collauda. Poi, però, disperde. E' proprio il caso di Sebastian Giovinco, cresciuto a pane e Juve e poi ceduto con troppa leggerezza al Parma. Fedele a quel misterioso assioma del calcio che risponde al nome di gol dell'ex, Giovinco ha inchiodato la Juve con tre reti: una doppietta all'Olimpico e un gol al Tardini che ha praticamente sancito l'esclusione dei bianconeri dalle coppe a vent'anni di distanza dall'ultima volta (gestione Maifredi). "Dov'è l'errore? Sebastian ha avuto la sfortuna di giocare in Italia, fosse nato in Spagna sarebbe in una grande squadra. Speriamo, comunque, di tirare su tanti altri Giovinco", così il responsabile del Settore Giovanile Giovanni Rossi. Vinovo come La Masia. La cantera del Barcellona è punto di riferimento, modello vincente da replicare in salsa sabauda. Non solo calcio. Il programma Formazione Juventus prevede momenti di studio e confronto, con quattro aree di approfondimento: medica, motivazionale, psicologica e sociologica. Perché "sportivi si cresce", come recita il motto del vivaio bianconero. "Vogliamo creare un sistema Juventus - prosegue Giovanni Rossi -, un metodo interno, con condivisione della stessa filosofia di lavoro dai baby ai big". In perfetta sintonia con i più grandi, anche i giovani hanno sin qui dato buca. Nella scorsa stagione, gli Allievi Nazionali hanno perso dal Milan ai sedicesimi di finale, i Giovanissimi hanno mancato l'accesso alle final eight di Chianciano Terme perdendo contro il Chievo. Non è andata molto meglio la Primavera, fuori ai quarti di finale al Viareggio e anche in campionato, asfaltata 5-1 dal Varese. "Onore a loro, disonore per noi", il laconico commento di mister Bucaro che ora rischia il posto. La Juve guarda avanti, con la volontà di migliorare il suo settore giovanile e potenziare ulteriormente la rete degli osservatori Under 20, coordinati dallo spagnolo Carlos Vargas. Da settembre, poi, la Juve aprirà anche agli under 8, andando a reclutare i bimbi già a 5 anni. "Il progetto Juventus Primi Calci - spiega Pessotto - vuole avvicinare i più piccoli ai nostri colori, creare subito senso di appartenenza, juventinità".
"Anche le società hanno capito: puntando sui giovani si risparmia". Il giudizio di Massimo Piscedda, attuale allenatore dell'Under 21 di serie B che punta il dito contro i tecnici: "Non hanno fiducia nei talenti. Le società li crescono e li portano fino alla prima squadra. Ma al primo passo falso vengono abbandonati". Il giudizio è severo anche nei confronti delle dirigenze: "Non sempre accettano il rischio dell'investimento a medio-lungo termine".
Massimo Piscedda, 49 anni, è uno che di giovani se ne intende.
L'ex giocatore della Lazio ha guidato tutte le nazionali giovanili (dall'under 16 all'under 20) e da questa stagione è l'allenatore della selezione Under 21 di serie B.
Che momento vive il mondo del calcio giovanile?
''La situazione sta leggermente migliorando, ma solo per una fatto di natura economica, non tecnica. Negli ultimi tempi le società si sono rese conto che i contratti lunghi che spesso si fanno a giocatori ultra trentenni alla fine appesantiscono il bilancio della società e quindi conviene puntare sui giovani che ti abbattono i costi''.
Puntare sui giovani per risparmiare, insomma...
''Sì, ma almeno si tratta di un passo avanti. E' chiaro però che siamo lontani anni luce dalla realtà spagnola e inglese''.
Il giovane, risorsa all'estero, in Italia spesso diventa un problema. Perché?
''All'estero fanno un discorso a medio-lungo termine e credono nei talenti. Li crescono, li accudiscono e li accompagnano fino alla prima squadra. Qui invece succede l'esatto contrario. Giochi bene un anno, l'anno successivo non ti ripeti e vieni abbandonato''.
Allenatori, società, la colpa di chi è?
''E' un po' tutti. E' un fatto culturale. Noi riteniamo ancora giovane un ragazzo che ha 22-23 anni quando a questa età c'è gente che gioca la finale di Champions League. Non si può fare un confronto con gli altri paesi, penso alla Spagna, perché si tratta di culture diverse. I presidenti non accettano il rischio dell'investimento a medio-lungo termine, gli allenatori hanno paura di pagare sulla loro pelle il lancio di un giovane e per questo preferiscono puntare su giocatori 'vecchi' ma già fatti''.
Per non parlare della massa di giocatori stranieri che puntualmente prendiamo sognando il colpo grosso.
''Quello degli stranieri è un problema numerico. Ce ne sono tanti e non tutti sono più bravi dei nostri. I ragazzi italiani ci sono e sono molto bravi. Certo, sei hai Pato e Pastore va tutto bene, ma credo che nella media i giovani italiani siano più bravi di quelli stranieri''.
Ci sarà allora un modo per rilanciare il settore.
''Tutte le idee sono ben accette, e ce ne sono tante. L'importante è metterle in pratica. Bisogna dare fiducia ai giovani perché loro quella fiducia la ripagano. Certo, parliamo sempre di giovani bravi, di talento. Nel nostro paese è la mentalità ad essere sbagliata, ci sono ragazzi che a 17 anni si sentono già arrivati, all'estero questo non succede''.
Puntare sui giovani, ma creare anche una rete di bravi allenatori.
''Ed evitare di 'regalare' i patentini di terza categoria come succedeva fino a qualche anno fa. A Coverciano finalmente si stanno attrezzando per creare queste figure. Che sono molto importanti perché un allenatore capace sa fare selezione. I ragazzi poi vanno seguiti nel loro percorso di crescita e devono sempre poter contare su allenatori competenti''.
La serie B può diventare il torneo serbatoio per il campionato maggiore?
''E' un processo lento ma credo di sì. In serie B i giovani ci sono e giocano. Ci sono società che hanno puntato esclusivamente su ragazzi del vivaio, penso a Empoli e Reggina, ottenendo risultati importanti. Quello di B è un campionato lungo e duro, credo che sia l'ultimo atto di formazione per un giovane . Chi fa un buon campionato di serie B è pronto per giocare in serie A''.
"40mila euro per un futuro nel pallone". I club fanno cassa con i soldi di papà. "Il problema del calcio è che con i ragazzini si fanno un sacco di soldi". Un procuratore, che preferisce rimanere anonimo, racconta come funziona il 'sistema'. I genitori pagano 30 - 40 mila euro, finanziando così presidenti, allenatori e giocatori. Le società di semiprofessionisti, quelle delle serie inferiori, a quel punto possono recuperare bilanci disastrati inserendo alla voce ricavi l'investimento dei genitori, oltre ai soldi degli sponsor. E, di fronte a tesseramenti di massa, la lega fa finta di nulla. Ma chi paga è il giocatore mediocre, quello destinato alla panchina.
Calcio marcio: vuoi giocare? Paga, scrive il 12/02/2018 La7. L'inchiesta sulle sponsorizzazioni chieste dai procuratori ai giocatori per entrare in squadra. La storia del giovane giocatore Filippo Consolo.
Luciano Moggi sul "calcio marcio": molti allenatori presi solo perché portavano gli sponsor, scrive l'11/02/2018 La7. Luciano Moggi interviene sul dibattito relativo alla vicenda di Filippo Consolo, un giovane giocatore, invitato a giocare in una squadra dietro pagamento di 30mila euro. Il figlio in campo in cambio di soldi e sesso: Giletti porta alla luce un nuovo clamoroso caso, scrive Niccolò Mariotto l'1 aprile 2018 su 90min. Clamoroso retroscena portato alla luce dalla redazione di Non è l'Arena, trasmissione televisiva condotta da Massimo Giletti su La 7. Il giornalista sta portando avanti un'inchiesta sul mondo del calcio svelandone i lati più marci e loschi. Dopo il primo caso di Filippo Cunsolo, calciatore siciliano che ha contribuito a smascherare un procuratore che gli aveva chiesto trentamila euro in cambio della possibilità di giocare, Giletti ha portato alla luce un altro caso simile. Una madre ha infatti preso coraggio raccontando di come un altro disonesto procuratore l’abbia contattata chiedendole trentamila euro per fare giocare il figlio in Serie B in una formazione veneta oltre a farle delle squallide avances sessuali. "La signora dopo varie telefonate ha fissato un appuntamento e svelato tutti i retroscena. È stata molto coraggiosa. Abbiamo tanto materiale, molte immagini. Il problema è che non è una storia eccezionale, dalle lettere che abbiamo ricevuto abbiamo capito che è un fenomeno dilagante che coinvolge diverse famiglie", queste le parole di Giletti a riguardo.
Gazzetta dello Sport: “L’inchiesta di Giletti sul calcio marcio: avance sessuali e 30 mila euro per far giocare il figlio in B”, scrive il 31 marzo 2018 la Redazione di Ilovepalermocalcio. “Massimo Giletti continua il viaggio sul calcio marcio a “Non è l’Arena”, in onda ogni domenica su La7 in prima serata. Domani tornerà sulle proposte indecenti di alcuni procuratori che chiedono soldi alle famiglie per far giocare il figlio promettente. Un argomento scivoloso, affrontato due mesi fa con il calciatore siciliano Filippo Cunsolo che ci ha messo la faccia accettando la telecamera nascosta. Un procuratore (bippato) gli ha chiesto trentamila euro per giocare, ma all’appuntamento con la valigetta c’era anche Luca Sgarbi, autore dell’inchiesta di La7, e il procuratore se l’è data a gambe levate.
L’INTERVENTO DEL SASSUOLO «Un servizio che ha toccato diverse persone – racconta Giletti – tanto che ci sono arrivate centinaia di mail di genitori che si sono sentiti ingannati». Un filmato inquietante che però ha ottenuto un risvolto positivo. «Ci ha chiamato l’amministratore delegato del Sassuolo, Giovanni Carnevali, che dopo aver visto la puntata ha proposto a Filippo uno stage estivo con la squadra. Un bel segnale».
CASO SCOTTANTE Ma il vaso di Pandora è scoperchiato e domani sarà di scena un altro caso scottante. «Un procuratore ha contattato la mamma di un giovane che gioca in una formazione veneta – continua il giornalista –. “Se ci porti trentamila euro lo facciamo ingaggiare da una squadra di Serie B”, ha sentenziato. La signora, che ha ricevuto anche squallide avance sessuali, dopo varie telefonate ha fissato un appuntamento e svelato tutti i retroscena. È stata molto coraggiosa. Domani ad un certo punto ci fermeremo, ma abbiamo tanto materiale, molte immagini per realizzare un’altra puntata. Il problema è che non è una storia eccezionale, dalle lettere che abbiamo ricevuto abbiamo capito che è un fenomeno dilagante che coinvolge diverse famiglie».
SQUALIFICATO Immagini e parole sconcertanti. «Molti pensano di rimanere impuniti tant’è che l’ex dirigente ricattatore, squalificato, spiega con nonchalance: “Tutti sanno che sono stato condannato, ma mi fanno lavorare lo stesso, l’importante è che io non figuri”», conclude Giletti. Un’altra vicenda allarmante che sarà approfondita in studio. Tra gli ospiti il procuratore Raffaele Cantone, Filippo Cunsolo, Carolina Morace, Claudio Pasqualin, e i giornalisti Massimo Caputi e Roberto Perrone”. Questo quanto riportato dall’odierna edizione del quotidiano sportivo nazionale “La Gazzetta dello Sport”, a proposito dell’inchiesta sul calcio marcio condotta da Massimo Giletti.
Scuole calcio, officine di talenti. Ma giochi solo se puoi pagare.
Sono oltre settemila in tutta Italia. Qui crescono e si allenano i campioni del futuro, con costi di iscrizione tra i 200 e i 900 euro all'anno. Rivera: "Assurdo che le famiglie debbano sborsare queste cifre. Se fosse capitato a me non avrei mai potuto entrare in una squadra". Ma le società replicano: "Gratis? Anche da domani, ma la Federazione ci finanzi". C'era il cortile o il parco sotto casa, la strada e soprattutto l'oratorio. Era un altro tempo, era un altro calcio: si giocava ogni giorno, con gli amici e i compagni di scuola.
E chi aveva talento poi, raggiunta l'età per giocare nelle categorie giovanili, sosteneva provini con le diverse società. Ora l'accesso al mondo del calcio è cambiato: si passa attraverso le scuole calcio, un boom che è cominciato da una ventina d'anni. Sono la base della piramide del calcio italiano, sono quelle che dovrebbero far scoprire bambini sempre più piccoli - ora si comincia a cinque anni - , coltivare e far crescere i talenti e portare il pallone di casa nostra a competere con quei Paesi che dominano, Spagna davanti a tutti.
"Dovrebbero": perché tra costi (alti) e investimenti (pochi), si rischia che diventino un business e non la porta d'accesso privilegiata per i campioni in erba. In Italia le scuole calcio riconosciute dalla Federazione sono oltre 7000 (per l'esattezza 7215 nella stagione 2009-2010), e fanno giocare centinaia di migliaia di bambini tra i 5 e i 12 anni. Si dividono in tre categorie, secondo requisiti di carattere organizzativo e tecnico (ma quelli minimi devono essere garantiti da tutte): si va dai Centri calcistici di base (5.224) in tutta Italia alle scuole qualificate (193), passando per quelle riconosciute (1.798). Le qualificate sono quelle che offrono i migliori servizi e tutele per i piccoli calciatori: medico, psicologo, le strutture migliori, oltre a un rapporto istruttore (sei come minimo) che non deve superare l'uno ogni venti bambini. Un discorso a parte meritano i costi. L'iscrizione alla scuola calcio può variare dai 200 ai 900 euro all'anno. Non è poco. E' vero però che quelle più care sono anche quelle che quasi sempre forniscono i servizi migliori (dai campi agli spogliatoi, al rapporto tra numero dei bambini e istruttori). Si paga del resto anche per portare i bambini in piscina o a giocare a tennis, ma il giro di denaro è in ogni caso molto alto, e spesso consente alle società di poter garantire l'iscrizione delle prime squadre nei campionati di appartenenza. Ecco, questo è il problema numero uno della mentalità italica, nell'ottica del futuro del calcio di casa nostra, che continua a perdere appeal e posizioni (la Spagna docet...): il vivaio spesso non è più un obiettivo strategico, un punto di partenza da valorizzare, ma diventa un mezzo per foraggiare e garantire la sopravvivenza delle stesse società. "Posso capire un contributo, ma pagare per far giocare i bambini è un'assurdità - esordisce Gianni Rivera, presidente del Settore giovanile della Federcalcio - se fosse capitato a me, io non avrei potuto giocare in una squadra: i miei, ad Alessandria, non potevano permetterselo. Bisognerebbe porsi una domanda: l'obiettivo è fare soldi o mettere tutti nelle condizioni di giocare? Il sistema però adesso va così, siamo realisti: l'aspetto economico prevale su tutto. Però a tutti sta bene così, è come il calcio e la televisione, che è già entrata negli spogliatoi: tra un po' si giocherà alle 9 di mattina o a mezzanotte ma nessuno dice niente, a tutti sta bene così. E poi quantità non fa rima quasi mai con qualità: si paga tanto e magari i bambini si trovano ad allenarsi in 30 in una metà campo". Come e cosa si può cambiare? "Le Federazione è fatta di tante teste. Ogni settore pensa al proprio interesse. Noi abbiamo fatto tante proposte, ma non si ottengono risposte. Ecco, quello che preoccupa è l'immobilità. La speranza è che i bambini tornino a divertirsi, ma io non ho molta fiducia: ho l'impressione che alla maggioranza stia bene questa situazione. Che è la fotografia della realtà". E in questa maggioranza rientrano anche le famiglie. Perché in Italia il calcio è il calcio: i genitori pagano - anche tanto - ma "pretendono" che il proprio figlio giochi. E sempre. Un discorso forte, una presa di posizione decisa, che però si scontra con la realtà delle scuole e delle società. Maurizio Perconti è il presidente della Polisportiva Perconti, una società ormai consolidata a Roma e nel Lazio (le squadre Allievi e Giovanissimi ottengono quasi sempre ottimi risultati nelle finali regionali). La scuola calcio fa giocare circa 500 bambini: "Mi piacerebbe che non si dovesse pagare per giocare, sono disposto a farlo anche domani. Ma allora vorrei un impegno a sovvenzionare le scuole calcio. Vorrei che mi venissero mandati i tecnici e il materiale, e che mi fossero pagate le bollette di luce e gas, insomma le spese che bisogna sostenere". Perconti spiega: "Noi però il discorso sociale non lo abbandoniamo affatto. Siamo una realtà che opera in una zona periferica romana, conosciamo situazioni di disagio. Se si presentano famiglie in difficoltà, io faccio giocare i bambini ma non li faccio pagare. Certo, non è una posizione ufficiale, io devo dire che non c'è differenza rispetto agli altri, ma è una cosa che già facciamo e continueremo a fare".
Ma la voglia di prendere giocatori dall’estero porta anche all’illegalità.
Calcio, l'inchiesta false cittadinanze si allarga: indagini su giocatori di serie A. Si tratterebbe per lo più di atleti argentini e brasiliani. Lo riferisce “Il Messaggero”. La posizione di una ventina tra calciatori di Serie A, giovani pallavoliste e giocatori di calcio a cinque sono sotto attento esame da parte dei carabinieri di Fermo nel contesto dell’inchiesta sulle false cittadinanze. Si tratterebbe di posizioni al momento estranee ai 34 indagati su cui però i militari starebbero facendo accertamenti. E su cui si mantiene il più stretto riserbo su squadre e nomi di giocatori coinvolti, visto che per ora si parla solo di sospetti. L’ipotesi è che decine di atleti stranieri, per lo più argentini e brasiliani, abbiano ottenuto la cittadinanza italiana in maniera irregolare sfruttando il meccanismo dello «iure sanguinis» che consente ai figli di italiani all’estero questo riconoscimento. In sostanza si aumentava il valore economico degli atleti che prima di essere ceduti ad altri club transitavano su società sportive locali utilizzando anche domicili di comodo o fittizi presso appartamenti intestati a procuratori sportivi o presidenti di squadre locali. I carabinieri guidati dal capitano Pasquale Zacheo avrebbero ravvisato collegamenti con vicende analoghe verificatesi a Latina e Reggio Calabria. Tra i trentaquattro indagati che devono rispondere a vario titolo di soppressione e distruzione di atti, produzione di atti falsi, abuso d’ufficio, falso ideologico, associazione per delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, figurerebbero per la maggior parte giocatori di calcio e calcetto ma militanti in squadre minori. Più delicata sarebbe invece la posizione di procuratori sportivi, intermediari, e di un paio di amministratori fermani che tenevano le fila, secondo l’accusa, del «giro» contando sulla presunta connivenza di un funzionario dell’ufficio anagrafe del Comune di Fermo subito trasferito dal sindaco Nella Brambatti ad un altro ufficio. Quarantacinque le pratiche di cittadinanza italiana sospese subito dopo la notizia dell’inchiesta, dall’amministrazione comunale. Che ora tra l’altro promette massima vigilanza centralizzando nel capoluogo il servizio di stato civile dal primo gennaio 2013 (non saranno più operative le sedi distaccate di Capodarco e Torre di Palme) e avviando un controllo a tappeto, come sottolinea lo stesso assessore Daniele Fortuna, «di tutto l’archivio dell’ufficio Anagrafe». L’inchiesta coordinata dal Procuratore Capo Andrea Vardaro finì anche per un paio di mesi alla Procura antimafia di Ancona, prima di tornare a Fermo. Prese l’avvio da una verifica della stessa polizia municipale di Fermo sul documento di identità di un imprenditore locale intestato ad un romeno ma stampato su carta originale e mai registrato. Da qui il terremoto che ha scosso sia gli ambienti politici che quelli sportivi.
Carte d’identità facili, indagine aperta su cinque giocatori di A.
Extracomunitari diventati “italiani”: Fermo crocevia degli illeciti.
Quelli coinvolti farebbero parte di una big del Nord, una di Roma e una del Sud. Così scrive “La Repubblica”. Due rampe di scale e, all’angolo del piano meno uno, una piccola stanza anonima. Il funzionario, un po’ leggero, molto intimidito (così la pensano dalle parti di Piazza del Popolo) che ha dispensato carte d’identità tarocche a giocatori di calcio, calcio a 5, pallavolo, forse basket, se ne sta seduto in un angolo e sussurra soltanto «no comment, anzi n.c....». L’indagato numero uno del nuovo scandalo del pallone è stato rimosso dall’incarico all’anagrafe in un amen, ma dopo aver concesso la cittadinanza italiana, fra gli altri, ad almeno venti giocatori professionisti: 5 di serie A, 15 di serie B o Lega Pro. Il calcio trema e si interroga sul perchè da Fermo sia partito un corto circuito del quale, sostengono gli inquirenti, non si vede la fine. Il piccolo centro marchigiano è scivolato dentro la cronaca per colpa di un’organizzazione criminosa - questo il timore - che approfittando delle debolezze di chi avrebbe dovuto controllare, e non l’ha fatto per una promessa di carriera e qualche regalo, ha trasformato cittadini brasiliani o argentini in italiani senza alcun diritto. Tanto meno lo «ius sanguinis», cittadinanza ottenuta per diritto di sangue.
Il pallone sbanda ancora una volta perchè c’è sempre una città da dove partono gli attacchi incrociati. L’inchiesta della procura di Fermo e dei carabinieri della città a metà strada fra Ascoli ed Ancona nasce un anno fa e mette sotto osservazione le carte d’identità irregolari a partire dal 2004. Tutti venivano a Fermo, tutti se ne andavano altrove con i requisiti giusti per farsi tesserare da squadre che, altrimenti, non avrebbero potuto farlo vista la regola restrittiva sugli extracomunitari da poter mandare in campo. A Fermo facevano tappa agenti, procuratori, intermediari: 34, compresi ex ed attuali dirigenti comunali, sono iscritti sul registro degli indagati. «Non siamo una città facile, leggera, superficiale. Mi sento di rivendicare - così il sindaco Nella Brambatti - la correttezza delle persone che lavorano in questi uffici per il governo della città: se qualcuno ha sbagliato è giusto che paghi. L’anagrafe? L’ho rivoluzionata, adesso è in mano a due funzionari laureati in legge...». Il sindaco gioca all’attacco, i cinque calciatori di serie A le cui posizioni sono finite nel mirino dei carabinieri guidati dal capitano Pasquale Zacheo lo fanno nel campionato in corso. Nomi tenuti nascosti, nomi che farebbero parte di cinque società diverse: fra queste, un grosso club del nord, una delle due squadre capitoline e una del sud. «Per il gruppo di giocatori professionisti siamo in una fase delicata e complessa dell’indagine perchè dobbiamo verificare se le carte d’identità vere siano frutto di documenti falsati ad arte. Si tratta di un’operazione lunga in quanto richiede controlli internazionali...», così una fonte investigativa (nelle prossime ore i carabinieri chiederanno una serie di atti alla Federcalcio). Il calcio italiano è attraversato da uno scandalo che, per certi versi, parte da molto lontano. Nel 2001 fu il tempo di «passaportopoli», Recoba e l’Inter sulla scena. Stavolta lo tsunami è più immediato e diretto: i passaporti non c’entrano, spazio alle semplici, ma decisive, carte d’identità. «Abbiamo svolto un normale controllo in base alla richiesta di residenza di un bulgaro che bulgaro non era. Una volta a casa sua, parlava romano meglio di uno di Roma....», racconta Guglielmo Pieragostini, il vigile urbano da cui nasce lo strappo di Fermo. Cambiare identità, per il dipendente comunale, «è ormai diventato fin troppo facile. E, questo, per il calcio è una manna dal cielo...». Ma, evidentemente, non solo per il calcio. Prima la procura della Repubblica di Ancona ed ora quella fermana si sono messe in moto: le accuse sono di falso ideologico, abuso d’ufficio, associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ipotesi investigative pesantissime. «Ma questa non è e non deve passare come la città delle cittadinanze facili...», sottolinea il sindaco.
Ma non ci fermiamo qui. Calcio, inchiesta per false fatturazioni: in arrivo un’altra bufera. L’ex nazionale Zauri indagato per riciclaggio. Così scrive “Oggi”. Il centrocampista avrebbe ricevuto un milione di euro in nero, nell'ambito del suo trasferimento dalla Sampdoria alla Lazio. Calcio, è in arriva un’altra bufera giudiziaria, dopo la tempesta del calcioscommesse, che peraltro è ancora ben lontana dall’essersi conclusa. E aspetta il suo esito finale nelle aule di tribunale. Il calciatore Luciano Zauri è indagato per riciclaggio dalla procura di Milano in relazione a un presunto versamento in nero da un milione di euro che avrebbe ottenuto su conti svizzeri, nell’ambito del suo trasferimento dalla Sampdoria alla Lazio, nel 2011. Nell’inchiesta, coordinata dal pm di Milano Carlo Nocerino e condotta dalla Guardia di Finanza milanese, è indagato anche, come era già emerso nei mesi scorsi, l’agente di molti calciatori, Tullio Tinti, anche lui accusato di riciclaggio. Le indagini a carico di Zauri e di quello che all’epoca era il suo procuratore, Tinti, sono uno stralcio di una maxi-inchiesta nata dagli accertamenti sul conto del commercialista svizzero Giovanni Guastalla – coinvolto nell’inchiesta Italease del pm Roberto Pellicano – che, secondo l’accusa, attraverso la sua società Doge avrebbe messo in piedi una vera e propria centrale di false fatture che avrebbe consentito negli anni scorsi a una serie di clienti (circa 300 le posizioni valutate in procura a Milano) di trasferire i soldi in Svizzera ed evadere il fisco. Secondo le indagini, nell’ambito del passaggio di Zauri dalla Samp alla Lazio lo scorso anno, Guastalla avrebbe aiutato l’ex centrocampista della Nazionale a trasferire su conti svizzeri (con passaggi anche su società americane, tanto che la procura di Milano ha avviato nei mesi scorsi anche una rogatoria negli Usa) 1 milione di euro, che avrebbe percepito in nero e che non sarebbero stati contabilizzati a bilancio delle due società. Gli investigatori stanno cercando di capire se i fondi neri creati all’estero, nell’ambito del trasferimento del calciatore, siano andati solo a vantaggio di Zauri e di Tinti o anche di altri soggetti. In passato era stata sequestrata a Guastalla una lista di oltre 200 clienti, tutti denunciati per evasione fiscale. Nella lista di Guastalla erano spuntate poi anche sei società calcistiche, il Catania, l’Udinese, l’Ascoli, il Cesena, l’Empoli e la Reggina, perquisite tra il 2009 e il 2010. La Gdf, infatti, recentemente ha trasmesso il materiale sulle presunti evasioni fiscali di alcune società anche alla giustizia sportiva per eventuali valutazioni.
E poi ancora l’ennesima notizia sul calcio scommesse. Dall' “Ansa” si apprende che Il capo della Polizia Antonio Manganelli non fornisce dettagli, ma le sue parole bastano da sole per agitare il mondo del calcio, già duramente provato dalle inchieste sul calcioscommesse le quali hanno tolto il coperchio ad "alcuni comportamenti scorretti che hanno già portato a clamorose risposte". Sembra però che le sorprese siano tutt'altro che finite, se il numero 1 della Polizia, alla presentazione della prossima assemblea dell'Interpol annuncia che altri comportamenti "stanno per venire fuori e porteranno a ulteriori risposte, se possibili ancora più clamorose". Manganelli aveva già prefigurato scenari inquietanti il 5 marzo di quest'anno e, puntualmente, a fine maggio scattò la terza ondata di arresti nell'ambito dell'inchiesta della Procura di Cremona in cui furono arrestati anche il laziale Stefano Mauri e l'ex genoano Omar Milanetto. Nella città lombarda le novità sono attese soprattutto dall'arrivo in Italia da Almir Gegic, ritenuto al vertice del gruppo di scommettitori degli zingari, latitante dal giugno del 2011 perché pende nei suoi confronti un'ordinanza di custodia cautelare per l'inchiesta della Procura di Cremona. Gegic ha di recente ribadito la sua intenzione di tornare in Italia per costituirsi e il suo arrivo potrebbe dare nuova linfa al procedimento del procuratore Roberto di Martino. Altra inchiesta a Bari, dove ex giocatori fuori rosa della società pugliese sono stati sentiti di recente dai carabinieri come persone informate dei fatti su due nuove partite di serie B perse dai biancorossi: Bari-Treviso (10 maggio 2008, 0-1) e Salernitana-Bari (23 maggio 2009, 3-2). Tutto questo mentre a Bari l'inchiesta ha già visto dei patteggiamenti, su tutti quello di Andrea Masiello, che ha patteggiato al pena a 22 mesi ed è tra i principali indagati a Cremona mentre è stato sentito come persona informata sui fatti dai carabinieri pugliesi l'allenatore della Juventus Antonio Conte che a Cremona é invece indagato per associazione a delinquere e frode sportiva. Altro fronte Napoli, dove è aperto un procedimento sulle presunte combine, ma le novità più recenti sono venute dalla visita della Guardia di Finanza nelle sedi della Figc a Roma e in quelle del Napoli, a Castelvolturno e, sempre a Roma, negli uffici della Filmauro, la società di produzione cinematografica del presidente Aurelio De Laurentis. Un'inchiesta ancora senza nomi iscritti nel registro degli indagati e che nasce da una serie di segnalazioni arrivate in procura su presunte irregolarità riguardo i contratti di alcuni calciatori professionisti che sono stati ceduti dalla società partenopea ad altre squadre. Si vuole verificare la correttezza dei rapporti tra giocatori e procuratori e la regolarità delle posizioni anche dal punto di vista fiscale. Nell'inchiesta sul calcioscommesse, invece, Matteo Gianello, ex terzo portiere del Napoli, e Silvio Giusti, centrocampista che ha militato nelle serie minori prima di approdare al Chievo sono stati raggiunti da un avviso di chiusura delle indagini, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, mentre l'inchiesta prosegue per altri. Per sapere su quale fronte potranno esserci le "risposte ancor più clamorose" di cui parla Manganelli è solo necessario attendere.
ITALIA, IL PAESE DEGLI SCANDALI
La lunga e torrida estate 2012 del calcio italiano parte la mattina del 31 maggio a Roma con il primo processo sportivo stagionale sullo scandalo delle scommesse illecite. Nel palcoscenico dell'ex Ostello della Gioventù al Foro Italico, i giudici della Commissione disciplinare nazionale (primo grado della giustizia sportiva) dovranno esaminare le posizioni di ben 61 tesserati e 22 club - la maggior parte di serie B - deferiti dal procuratore federale Stefano Palazzi. Tra le società coinvolte, Atalanta e Siena, squadre iscritte al prossimo campionato di serie A.
A poche ore dalla bufera che si è abbattuta sul calcio italiano, il tifoso s’interroga sul futuro dei club coinvolti nell’inchiesta. Un orizzonte che pare per niente sereno, quello delle società tirate in ballo, attese da penalizzazioni, retrocessioni ed eventuali esclusioni da tornei europei. Come ha candidamente dichiarato De Rossi (“E’ peggio del 2006“), ci troviamo di fronte ad una versione aggiornata, corretta e più “torbida” dello scandalo che colpì Moggi & co., con l’aggravante che, in quegli anni, certe “regole” non erano ancora state scritte e di conseguenza determinate esclusioni, neanche prese in considerazione. Non sarà, infatti, soltanto la giustizia sportiva italiana ad andarci giù in maniera pesante. Anche l’Uefa punirà pesantemente i club coinvolti. Lo farà avvalendosi di una norma del 2007, che recita in maniera molto chiara che: “Per giocare le coppe, un club non deve essere coinvolto direttamente e/o indirettamente in nessuna attività volta ad influenzare il risultato di incontri nazionali o internazionali”. In questo “tourbillion” di possibili penalizzazioni ed esclusioni, c’è una società che osserva interessata ciò che accade: l’Inter di Massimo Moratti. E’ un possibile scenario tanto eclatante, quanto fantascientifico: l’eventuale partecipazione nerazzurra alla prossima Champions League. “The song remains the same”, canterebbe Robert Plant, voce storica dei Led Zeppelin. La canzone è sempre la stessa, ovvero: la storia si ripete. Inter fuori da ogni illecito (così come nel 2006) e “beneficiaria” degli errori altrui. Dopo lo scudetto, siamo di fronte anche ad una possibile coppa di “cartone”?
Stampa Estera. Calcioscommesse, il Times: "Italia paese degli scandali".
L'Italia come la nazione degli scandali: gli ultimi sviluppi dell'inchiesta su Calcioscommesse travalicano i confini nazionali e ora in Inghilterra si fa l'elenco delle pagine nere scritte dal calcio italiano negli ultimi 30 anni. Dai due processi per il Totonero (1980 e 1986) a Calciopoli (2006) fino agli arresti eccellenti di Beppe Signori, Cristiano Doni e Stefano Mauri. «Una nazione di scandali», scrive il Times che titola «l'Italia vacilla sotto l'inchiesta per il Calcioscommesse», dedicando un ampia ricostruzione a quanto accaduto in Italia, anche nel ritiro di Coverciano. Dall'esclusione della nazionale di Domenico Criscito alle posizioni di Leonardo Bonucci e Antonio Conte, entrambi indagati. Fino alle parole di sdegno e indignazione di Giovanni Trapattoni, a cui l'autorevole quotidiano britannico riserva l'ingrato compito di difendere l'orgoglio italiano. «Mi dispiace perché commettiamo sempre gli stessi errori, sembra che non sappiamo proprio imparare la lezione», le parole del ct dell'Irlanda, avversaria degli Azzurri a Euro 2012. «Italia colpita dalle ultime novità sul Calcioscommesse, Domenico Criscito escluso dalla rosa», titola il Daily Telegraph. Il Daily Mail, viceversa, preferisce sottolineare le ragioni dell'esclusione del difensore dello Zenit San Pietroburgo, citando le stesse parole di Cesare Prandelli: «Nessun essere umano avrebbe potuto sopportare una pressione simile». L'apertura del Sun, viceversa, è dedicata ad uno degli illustri arrestati, Mauri: «Il capitano della Lazio arrestato con l'accusa di truccare le partite». L'ultimo capitolo di uno scandalo - scrive il tabloid - che sta colpendo il calcio italiano, ricordando i precedenti fermi di Doni e Signori.
CALCIO, INFORMAZIONE, MAGISTRATURA ED..….IPOCRISIA.
"Se a due squadre va bene il pareggio? Sono affari loro. Alcune volte, se qualcuno ci pensa bene, cosa devi fare? In alcuni casi si dice: meglio due feriti che un morto. E’ chiaro che le squadre le partite se le giocano e sarà sempre così. Penso che ogni tanto anche qualche conto è giustificato farlo". Gigi Buffon commenta il coinvolgimento dell'allenatore Conte nell'inchiesta sul calcio scommesse e non solo e perde le staffe con i giornalisti. «Ci sono delle operazioni giudiziarie, e voi lo sapete tre o quattro mesi prima. Uno parla con i pm e voi sapete il contenuto dieci minuti dopo: è una vergogna. Fuori da Coverciano c'erano le telecamere dalle 6 del mattino». Parole e pensieri del capitano della nazionale Gigi Buffon, visibilmente sconvolto per le ultime novità emerse dalle indagini sul calcio-scommesse con gli avvisi di garanzia a Criscito e Bonucci.
Riguardo all'indiscrezione circolata che lo vedrebbe tra i prossimi interrogati dalla Procura, risponde: «Io dai pm? L'interessato lo sa sempre per ultimo». «Ho piena fiducia nei pm che possono fare piena giustizia. Perchè non c'è nulla di peggio che giocare o speculare sulla vita delle persone». Gianluigi Buffon è certo che Antonio Conte resterà l'allenatore della Juventus nonostante sia stato raggiunto da un avviso di garanzia, per fatti risalenti alla sua esperienza al Siena, nell'ambito dell'inchiesta Last Bet. «Non temo di perdere Conte - ha detto Buffon in conferenza stampa a Coverciano il 30 maggio 2012 - è un'eventualità che non ho nemmeno preso in considerazione. Da quello che ho letto e sentito dire da lui e dal nostro presidente (Andrea Agnelli), le accuse che gli sono state rivolte non sono così forti». «Stavolta può essere anche peggio del 2006: in questo caso lo scandalo scommesse coinvolge un movimento intero, quello calcistico, allora invece era coinvolta, per il 90-95 per cento, una società (la Juventus) e quindi è normale che la cassa di risonanza sia maggiore». Buffon ha paragonato questo scandalo e Calciopoli, entrambi giunti prima di una competizione internazionale (il Mondiale nel 2006, vinto a Berlino dagli azzurri, e gli Europei ormai imminenti). Riguardo alla dichiarazione di Monti sulla necessità di sospendere i campionati per due-tre anni il portiere ha replicato: «Sospendere per due-tre anni il campionato implicherebbe che a pagare, senza un perchè, siano l'80-85 per cento dei calciatori, tutti quelli onesti. Le scommesse? Certo, sono sorpreso, non pensavo si potesse arrivare a tanto: è una questione etica, anche avessi giocato nella squadra più scarsa del mondo io non l'avrei mai fatto». C'è l'Europeo alle porte, ma la bufera del calcioscommesse tiene banco nel ritiro degli azzurri. Gianluigi Buffon, più che parlare dell'esordio con la Spagna o del test con la Russia, si sofferma sui fatti degli ultimi giorni: dal blitz a Coverciano alle parole del Premier Mario Monti. Buffon ha sottolineato che "non posso dire quello che realmente cuore e mente pensino. Ho avuto l'ennesima conferma che alla fine le persone con la coscienza a posto e senza scheletri nell'armadio non possono esprimere il proprio pensiero. Credo che la prima cosa da preservare sia la democrazia, la libertà: per questo poi accetto le critiche e mi prendo le responsabilità, però dispiace sentire poi da voi (i giornalisti) delle paternali. Se per quelle frasi sarò ascoltato in Procura? Non lo so, il brutto è che le cose si apprendono sempre dai media e giorni prima". Il pm Di Martino ha risposto alle parole del portiere: "Se è un'opinione non la condivido ma la rispetto, se invece Buffon è a conoscenza di fatti specifici lo aspetto in procura. Le sue frasi si commentano da sole, di certo non lo querelo". Il pm ha comunque specificato che non ha nessuna intenzione di convocarlo durante gli Europei. "Sono anche io un tifoso dell'Italia".
«Dopo anni che ho vinto uno scudetto, ora si parla di campionato virtuale... Si parla di cose del passato, quest'anno è stato un campionato senza ombre. Quando uno sbaglia è giusto che paghi, visto e considerato che di mezzo c'è il valore della lealtà, le pene devono essere esemplari. Poi però bisogna fare delle distinzioni tra colpe molto gravi e relative, senza mettere tutto nel calderone». «Ho fiducia che i pm facciano giustizia. Non c'è niente di peggio che giocare o speculare sulla vita delle persone. E lo dice uno cui hanno detto, dopo l'errore di Lecce che qualcuno pensava avessi scommesso. Se una persona è talmente maliziosa per pensare una cosa simile - prosegue Buffon - è inutile che io venga qui a parlare di morale. Ho già perso in partenza. Sono offese che ti disarmano».
Non lo hanno intimidito e nemmeno zittito. La minaccia, fatta filtrare sui giornali, di una convocazione “punitiva” di Gianluigi Buffon dopo le frasi simbolo («meglio due feriti che un morto»), ha provocato l’effetto opposto. Il portierone della Nazionale e della Juve, testa bassa e occhi sgranati per lunghi minuti dinanzi ai microfoni, ha caricato come un toro ferito la magistratura e i costumi vergognosi tollerati dalla giustizia italiana, ha spiegato bene il senso delle sue frasi e la difesa convinta del suo allenatore Antonio Conte. Il suo esordio è stato persino dolce, punteggiato da qualche prudenza: «Non posso dire quello che realmente cuore e mente mi farebbero dire. Ho avuto l’ennesima conferma che alla fine le persone perbene, con la coscienza a posto e senza scheletri nell’armadio non possono esprimere il loro pensiero». Alzi la mano chi ha qualcosa da obiettare.
Vergogna mista a rabbia per la strumentalizzazione delle sue parole. Uno come Buffon, fresco vice-presidente del sindacato calciatori, deve anche avere idee precise sul conto dei provvedimenti da prendere. «Chi sbaglia deve pagare e penso sia utile introdurre nei contratti severissime sanzioni economiche oppure sul finire dei campionati bloccare le giocate» le due opzioni proposte.
Dalla retata in diretta televisiva del 1980, alle recenti immagini delle volanti della Polizia al ritiro degli azzurri a Coverciano. A 32 anni di distanza cambiano i canali di riproduzione, dalla Tv al Web, ma non cambia un certo spirito che da sempre accompagna le spedizioni della Nazionale alla vigilia di grandi appuntamenti calcistici.
Nel 1980 scoppia il primo caso di calcio scommesse in Italia, allora si parlava di ‘Totonero’e per la prima volta il calcio perde la sua innocenza. Una bufera che travolge presidenti, dirigenti e giocatori eccellenti. Da Bruno Giordano a Paolo Rossi. Quest’ultimo dopo la squalifica di due anni, ritorna a giocare a poco meno di un mese dal Mondiale in Spagna. Enzo Beazort, ct della Nazionale, nonostante i malumori, decide di convocarlo. L’avventura azzurra in terra iberica è preceduta da pesanti critiche per il biennio turbolento appena trascorso e per il gioco espresso tutt’altro che spettacolare. Al centro delle polemiche finisce, soprattutto, il tecnico friulano, attaccato dalla stampa per l’esclusione di Beccalossi e Pruzzo e per il voler insistere con il blocco Juve a discapito di quello della Roma, alla ribalta negli anni della presidenza Viola. Polemiche su polemiche che montano di giornata in giornata. Dalla presunta combine con il Camerun nell’ultima gara della prima fase, alla caparbietà del ‘Vecio’ di puntare su alcuni giocatori, specie su l’attaccante bianconero. Alla fine Paolo Rossi diviene ‘Pablito’ e con le sue sei reti conduce l’Italia in cima al mondo. E la mente corre subito all’urlo di Tardelli, alle immagini del Presidente della Repubblica, Sandro Pertini e a Dino Zoff che alza al cielo la Coppa del Mondo.
A poche settimane dell’avvio del Mondiale in Germania, il mondo del calcio è sconvolto da un nuovo scandalo, Calciopoli. Moggi, Giraudo e gli “altri”, sono i protagonisti di una cupola dedita a comprare arbitri e corrompere dirigenti. La Juve finisce in B, gli ex dirigenti sono radiati. Proprio il blocco Juve come a Spagna 82, rappresenta l’ossatura principale della Nazionale. A cominciare dal capitano Fabio Cannavaro. Sotto la guida di Marcello Lippi, gli azzurri vivono una delle estati più calde e turbolente per via del terremoto giudiziario che ha sconvolto il mondo del calcio. Nel ritiro degli azzurri si respira una calma apparente in attesa degli sviluppi provenienti dall’Italia. Nonostante tutto, la rabbia si trasforma in voglia di rivalsa sul campo. Si gioca sotto una sorta di cappa infamante ma il cammino degli azzurri procede a vele spiegate incurante delle polemiche in Italia e all’estero. A Berlino si riscrive la storia attraverso l’orgoglio e il gioco espresso sul campo. Gli azzurri salgono sul tetto del mondo, mostrando un forte senso di appartenenza a un gruppo fedele a se stesso e al suo tecnico. Un legame unico che accompagna gli azzurri dall’inizio alla fine. L’Italia, cosi, rinasce dalle sue ceneri, porta a casa il quarto titolo mondiale, nella speranza di aver scacciato (per sempre) i fantasmi di un calcio malato.
A distanza di sei anni, la storia, quella con la ‘s’ minuscola sembra ripetersi. Se è vero che il giocattolo si è rotto da tempo, allora basta poco per trasformare la cronaca di queste ultime ore in un giudizio totale che coinvolge tutto e tutti. Il prezzo più alto lo pagano gli italiani, definiti all’estero, riportando le parole di Trapattoni, “mafiosi e intrallazzoni”. Nubi dense di sospetto aleggiano sulla credibilità degli azzurri alla vigilia della spedizione europea. A poco più di dieci giorni dall’avvio ufficiale della kermesse europea in Polonia e Ucraina, ci s’interroga come sarebbe stato bello, per una volta, giocarsela alla pari senza il solito carico di accuse e veleni extra calcistici. Verrebbe da dire, “non c’è due senza tre”. In questo caso, però, non c'è molto di cui essere entusiasti. Perché il calcio di cui ogni italiano è innamorato, è fatto di sudore, rabbia e vittorie ottenute sul campo in maniera trasparente e senza ombre. Per una volta da nostalgici di uno sport alla deriva e soffocato dai suo stessi interessi, vorremmo che si arrivasse fino alla fine di una competizione europea per essere ricordati come modello e simbolo di un calcio pulito. Prandelli ha modellato il gruppo secondo un preciso codice etico che adesso sembra stridere con il mondo di cui fa parte. La vittoria più bella, ancora prima di quella sul campo, sarebbe quella sulle coscienze dei detrattori che hanno deturpato lo spettacolo più bello al mondo.
Antonio Conte paga per tutti, o quasi. La stangata della Disciplinare all’allenatore della Juventus è la punta di lancia di una sentenza che fa lo slalom tra fatti e fattoidi senza trovare una quadra convincente. Il tecnico salentino sconterà due omesse denunce da allenatore del Siena con 10 mesi di squalifica. Gli altri tesserati della Juve, i giocatori Leonardo Bonucci (ex Bari) e Simone Pepe (ex Udinese), vengono assolti dalla combine di Udinese-Bari del 9 maggio 2010 (3-3). Il principale accusatore dei tre, l’ex barese Andrea Masiello, l’uomo che doveva essere decisivo per aiutare i magistrati sportivi e penali a sfasciare il sistema criminale delle partite truccate, è stato ritenuto meno credibile del previsto dalla Disciplinare che ha invece tenuto per buone le testimonianze di Carlo Gervasoni e Filippo Carobbio. Masiello, l’artista dell’autogol formato fiction, ha inconsapevolmente seguito le orme di pentiti ben più illustri: Massimo Ciancimino e Vincenzo Scarantino. Come nei processi sulle stragi di Cosa Nostra, i giudici si sono trovati di fronte a un “dichiarante” che manipola le percentuali tra vero e falso delle sue dichiarazioni. Con quale obiettivo? L’impressione è che Masiello si sia esibito in un eccesso di zelo denunciando all’ingrosso con lo scopo di tornare in campo da qui a un paio di anni (lui ne ha 26) senza giocarsi del tutto la carriera sportiva come ha fatto un altro accusatore di Conte, Filippo Carobbio (33 anni a ottobre). A chi pensa che difficilmente Masiello troverebbe ingaggio dati i precedenti basta ricordare gli illustri casi di Pablito Rossi e Bruno Giordano, resuscitati in gloria dopo le dure squalifiche per il calcioscommesse di trent’anni prima. In questa vicenda caotica, è difficile decidere il peggiore in campo. Se in Italia fosse in uso l’istituto delle dimissioni, il procuratore federale Stefano Palazzi dovrebbe prenderlo in considerazione. È vero che il rigore lo sbaglia solo chi lo rifiuta, ma Palazzi è riuscito a scontentare tutti. Con quale credibilità possa dedicarsi al nuovo filone barese (Conte di nuovo) non è chiaro. È chiaro invece che un processo del genere sembra fatto apposta per scatenare il tifo fazioso pro e contro, il complottismo e il grandevecchismo che l’Italia adora. Questa è solo incompetenza. In attesa dell’appello alla corte federale, che non mancherà di procedere con qualche sconto di pena, si conferma la consolidata tradizione giudiziaria per cui non è possibile avere una ricostruzione dei fatti sensata e passabilmente completa. In quello che manca, che non si è saputo trovare o provare, c’è spazio per altri dieci anni di chiacchiere.
Il tecnico della Juventus, Antonio Conte è stato squalificato per 10 mesi dalla Commissione Disciplinare della Federcalcio in merito al processo sul calcioscommesse. Il tecnico, condannato per fatti risalenti a quando era l'allenatore del Siena, ha avuto uno sconto di cinque mesi rispetto alla richiesta del Procuratore federale, Stefano Palazzi, dopo che la Disciplinare aveva ritenuto «non congrua» la richiesta di patteggiamento a 3 mesi e 200mila euro di ammenda e dopo il rifiuto di un nuovo patteggiamento da parte dello stesso tecnico. La Juventus dovrà fare a meno anche del vice allenatore, Angelo Alessio che è stato squalificato per otto mesi e del collaboratore tecnico Cristian Stellini, che ha già lasciato il club dopo il patteggiamento di due anni e mezzo. Entrambi non potranno sedere sulla panchina della Juventus nella finale di Supercoppa italiana. Assolti invece i calciatori Bonucci e Pepe, difensore e centrocampista della Juve. I due giocatori erano stati deferiti dalla Procura federale per la presunta partecipazione alla combine della partita Udinese-Bari del maggio 2010. Dall'organo di giustizia non è stato ritenuto credibile Andrea Masiello. Il Procuratore federale, Stefano Palazzi, aveva chiesto la squalifica di Bonucci a 3 anni e mezzo, Pepe a un anno. Dopo le decisioni della disciplinare, il club bianconero ha espresso «soddisfazione per Bonucci e Pepe». In una nota la società ha ribadito il proprio «pieno sostegno ad Antonio Conte e Angelo Alessio, nell'auspicio che i prossimi gradi di giudizio possano infine permettere alla loro innocenza di emergere appieno».
Calcioscommesse, i protagonisti
PROSCIOLTI - Il proscioglimento di Pepe comporta anche l'assoluzione dell'Udinese, che per lui rispondeva per responsabilità oggettiva. La Commissione Disciplinare Nazionale ha prosciolto da ogni accusa anche l'ex calciatore del Bologna - ora tesserato per i canadesi del Montreal Impact - Marco Di Vaio, Salvatore Masiello, Daniele Padelli, Giuseppe Vives, Nicola Belmonte (limitatamente ai fatti di Udinese-Bari, squalifica di 6 mesi invece in relazione alla gara Cesena-Bari). Il procedimento ha riguardato in tutto 45 tesserati e 13 club.
QUELLI CHE HANNO PATTEGGIATO - Dal processo erano usciti subito con patteggiamento 7 club e 20 tesserati. In particolare hanno accettato penalizzazioni da scontare nella stagione successiva Siena (-6), Sampdoria, e Torino (-1) in serie A, Bari (-5), Albinoleffe e Varese (-1) in serie B. Tra i giocatori hanno fatto discutere i 6 mesi concessi a Filippo Carobbio (da sommare ai 20 del precedente processo), i 4 mesi di Gervasoni (già squalificato a 6 anni e 8 mesi con radiazione) e i 2 anni e 2 mesi di Andrea Masiello, i pentiti su cui si poggiano le inchieste.
I PRECEDENTI - La sentenza riguarda il terzo processo nato dalle inchieste delle procure di Cremona, Bari e Napoli. Nei primi due procedimenti Nel primo (estate 2011) furono condannati a vario titolo 16 club e 24 tesserati con penalizzazione per Atalanta e Ascoli e squalifiche per Doni, Signori, Sommese, Bellavista e Paoloni. Nel secondo (luglio 2012) le sanzioni hanno colpito 20 club, tra cui Atalanta (-2), Pescara (-2), Albinoleffe (-15), Grosseto (-6) Novara e Reggina (-4), Modena e Padova (-2), Empoli e Ascoli (-1), oltre a 52 tesserati. Penalizzazioni da scontare nella prossima stagione che si sommano a quelle appena decise dalla Disciplinare e che rischiano di essere integrate da un nuovo processo da celebrare in autunno.
VERDETTI - Altro verdetto della Disciplinare riguarda Lecce e Grosseto retrocesse in Lega Pro. La Procura federale aveva chiesto la retrocessione in Lega Pro con penalizzazione di 6 punti per il Lecce e di 3 per il Grosseto. Altro capitolo per il Bari: la disciplinare della Figc, in relazione al filone d'indagine sul calcioscommesse derivante dalle indagini svolte dalla procura di Bari, ha disposto sanzioni a carico di 11 tra giocatori, allenatori e dirigenti: Guido Angelozzi, ex direttore sportivo del Bari, è stato inibito per 4 mesi mentre Simone Bentivoglio, ex giocatore del Bari, è stato squalificato per 13 mesi e condannato a un'ammenda di 50mila. Filippo Carobbio, ex giocatore del Siena e grande accusato di Antonio Conte, è stato squalificato per 2 mesi. Mentre il grande pentito Andrea Masiello, ex del Bari, è stato squalificato per 26 mesi oltre ad aver ricevuto un'ammenda di 30mila euro. Bortolo Mutti, ex allenatore del Bari è stato squalificato per 4 mesi; Alessandro Parisi è stato squalificato per 24 mesi ed ha ricevuto un'ammenda di 10mila euro; Marco Rossi, ex giocatore del Bari è stato squalificato per 20 mesi e sanzionato con 20mila euro.
Non si sono mai tanto amati, ma negli ultimi tempi gli stracci tra Juventus, Figc e giustizia sportiva sono volati con regolarità impressionante senza che i protagonisti si siano risparmiati nulla: polemiche, accuse reciproche, provocazioni e richieste di risarcimenti davanti a un Tribunale. Un rapporto già ridotto ai minimi termini dall'estenuante braccio di ferro su Calciopoli con annessa discussione su terza stella e dintorni e che la vicenda Conte ha ulteriormente compromesso. Il peccato originale è quello dell'estate 2006. Nasce come Calciopoli ma passa alla storia come il processo che azzera la Triade e un'epoca juventina. Sentenze durissime anche se molto ridotte rispetto alle richieste iniziali. Quanto valevano le telefonate di Moggi e Giraudo? Secondo Palazzi in pratica la cancellazione della Juventus: assegnazione a un campionato inferiore alla B (6 punti di penalizzazione), via due scudetti e radiazione per i dirigenti. Di sconto in sconto si è arrivati alla soluzione finale (serie B con 9 punti di penalizzazione e cancellazione di due scudetti) accettata, seppure con il mal di pancia, da Cobolli Gigli. Del resto il ricorso al Tar con prima quantificazione dei danni (130 milioni di euro) aveva innescato un corto circuito pericoloso con Figc, Uefa e Fifa. Poi la lenta risalita, il processo penale e l'emersione delle telefonate di Facchetti. Ma la vera svolta ha una data precisa: 29 maggio 2010, il giorno della nomina di Andrea Agnelli a presidente dopo l'interregno Cobolli Gigli-Blanc. La Juventus dichiara guerra alla Federazione un esposto per togliere all'Inter lo scudetto 2006, la non-risposta di Abete e un vero e proprio fuoco di fila di ricorsi alla giustizia ordinaria per ottenere quella che il mondo bianconero definisce "parità di trattamento". Sul tavolo giace una richiesta danni monstre da 444 milioni di euro per i danni subiti dalla retrocessione in serie B. Soldi che la Figc non ha e, soprattutto, braccio di ferro che avvelena i pozzi del calcio italiano. A mediare ci prova il presidente del Coni Petrucci ma il 'tavolo della pace' fallisce miseramente.
Troppo distanti le posizioni. Intanto la nuova Juve torna a vincere, ma anche questo diventa terreno di scontro. Quanti sono gli scudetti? "Non riconosciamo la matematica della Federazione e per noi sono trenta, quelli conquistati sul campo" dice Agnelli. La terza stella, però, non compare sulla maglia anche perché ufficialmente i titoli rimangono 28. Compromesso e tregua apparente perchè ci pensa Carobbio a tirare in ballo Conte e accendere il nuovo fronte. La rissa sul mancato patteggiamento del tecnico è storia recente.
La Juve si schiera con l'allenatore, sceglie un altro compromesso (il patteggiamento) dicendosi fiduciosa che la giustizia sportiva "faccia chiarezza". Accordo respinto e nuovo scambio di accuse. "Sistema dittatoriale" attacca Agnelli e questa volta Abete risponde: "Valutazioni inaccettabili". In arrivo il deferimento. Poi la sentenza, lo stop a Conte e l'assoluzione di Bonucci e Pepe. Non si accettano scommesse sul prossimo capitolo della guerra. Quote troppo basse: vincere sarebbe un gioco da ragazzi.
Su “Libero Quotidiano”: Giampaolo Pansa: "Vogliono ingabbiare la Juve ma non è giustizia". Contro la Juve e Conte non è giustizia sportiva, ma corte marziale. Una sera, verso la mezzanotte, nell’occhieggiare dalla finestra, un vicino di casa mi vede fermo davanti a un bancomat. Sto portando il mio vecchio cane, un bretone, a fare quattro passi prima di andarcene a letto. Il bretone è molto anziano e mi ha imposto una sosta perché il suo respiro si è fatto pesante. La mattina successiva si scopre che quel bancomat è stato svaligiato. Il vicino, un signore lunatico che non mi può soffrire, si precipita dai carabinieri e mi denuncia. Viene aperta un’indagine giudiziaria e finisco di fronte a un magistrato della procura della Repubblica. Grazie al cielo, quel pubblico ministero non riesce a provare che ho commesso quel reato e tutto finisce lì. Perché mi sono salvato? Perché anche da noi, come in tutti in paesi civili, vale il principio che è l’accusa a dover provare la colpa di un cittadino. Mentre non vale il principio opposto, ossia che tocca all’accusato dimostrare la propria innocenza. Tuttavia in Italia è così che si comporta la cosiddetta giustizia sportiva, per lo meno quella che si occupa dei reati commessi nel mondo del calcio. In questi giorni, a Roma, sta accadendo proprio questo. E a me sembra che sia scandaloso. Confesso di essere un pallido tifoso della Juventus. Da ragazzo avevo una gran passione per il calcio.
Soprattutto per la squadra della mia città, il Casale Football Club.
Erano i nerostellati perché indossavano la maglia nera con una stella bianca. L’aveva inventata all’inizio del Novecento il fondatore del club, il professor Raffaele Jaffe. Era un insegnante di religione ebraica e nel 1944, durante le razzie degli ebrei del nostro territorio, venne arrestato anche lui. Dopo qualche mese di detenzione nel campo di Fossoli, in provincia di Modena, fu deportato ad Auschwitz e subito ucciso nelle camere a gas. Aveva 67 anni. Dopo quella per i nerostellati, la seconda passione era la Juventus.
Qualcuno potrebbe domandarmi: perché la Juve e non il grande Torino? Non saprei rispondere. Una squadra di calcio è come una donna. Per quale segreta ragione mi piacciono le bionde e non le more? E mi attraggono le cicciosette, non quelle che mostrano gli spigoli? Comunque sia, con il passare degli anni il mio tifo per la Juventus si è molto attenuato. Mi accorgo che in me sta prevalendo il medesimo scetticismo che riservo ai partiti politici. Tanto che mi domando sempre se Antonio Conte, il tecnico juventino, abbia o meno commesso il reato che un pentito gli attribuisce. Però questo dubbio non cambia il mio giudizio sul tribunale che lo sta giudicando. E che immagino si stia preparando a condannarlo. Il mio giudizio è assolutamente negativo. Tutto l’insieme che ha portato sulla scena il super-procuratore Stefano Palazzi mi rammenta una corte marziale. Quelle che nel corso delle guerre decidono in modo sbrigativo la sorte dei soldati caduti sotto le loro unghie. Nel primo conflitto mondiale, la guerra del 1915-1918, le corti marziali italiane hanno lavorato a più non posso. Comminando a tutto spiano pene capitali o detenzioni molto severe. Facevano giustizia? No, decidevano sulla base di una ragion di stato e sulla rabbia dei generali che ritenevano i ragazzi in divisa soltanto carne da cannone. Il lavoro del Palazzi grande accusatore e quello della Disciplinare che decide le condanne sarebbe piaciuto molto al generale Luigi Cadorna. A torto o a ragione, il numero uno dell’esercito italiano prima di Caporetto è passato alla storia come un infaticabile fucilatore. Forse il dottor Palazzi, che guarda caso è un magistrato militare ancora in servizio, invidia la fama di Cadorna.
Pensa di restare nell’effimera storia del calcio italiano come un giustiziere implacabile. Però la giustizia che Palazzi applica si fonda su criteri che, da semplice cittadino, non riesco a digerire. Non esiste soltanto il fatto inaccettabile che spetta all’accusato dimostrare la propria innocenza. Nel tribunale della Federcalcio si fa un uso eccessivo dei pentiti, presi quasi sempre per buoni e trattati con un’indulgenza davvero eccessiva. Dalle cronache di questi giorni, ho poi appreso un’altra stranezza. Se un organo come la Disciplinare viene ricusato dalle difese, tocca alla stessa Disciplinare decidere se accettare o no la ricusazione. E di solito la respinge, come è avvenuto nel caso della Juventus. L’insieme della giustizia calcistica mi appare un sistema malato. Il processo che ne deriva è tutto tranne che garantista. Le difese hanno le mani legate.
Non possono contro-interrogare i pentiti. Vedono considerate prive di valore le dichiarazioni giurate che li smentiscono. Scoprono che un patteggiamento concordato con il procuratore Palazzi viene smentito poche ore dopo dallo stesso Palazzi. Il motivo? Si sostiene che la Disciplinare, ossia i giudici, lo abbia considerato troppo generoso nei confronti di un accusato. Pare sia avvenuto così per il tecnico juventino. Ma nessuno ce lo hai mai spiegato con chiarezza. Il sistema della corte marziale è così ferreo da mettere in secondo piano i personaggi che lo applicano. Mi sono sempre domandato perché il giornalismo italiano non ci abbia offerto una biografia accurata di Palazzi. Un cinquantenne molto occupato.
Come magistrato in servizio presso la Corte militare di Appello a Napoli, la sua città natale, e al tempo stesso come capo della Superprocura calcistica. In questa veste guida un ufficio che, secondo il sito di Repubblica, vede al lavoro un centinaio di collaboratori alle prese con un diluvio incessante di possibili inchieste. Si racconta che dentro gli uffici di via Po, a Roma, domini un affanno caotico. Manca il tempo materiale per esaminare gli atti delle difese. Un limite grottesco al giusto processo. Il secondo personaggio è Giancarlo Abete, 62 anni, presidente della Federazione italiana gioco calcio. Senza correre il rischio di esagerare, possiamo definirlo uno dei padroni d’Italia. Il vecchio sport del football è diventato una gigantesca presenza nella nostra società. Mette in moto affari colossali e accende la passione di milioni di tifosi. Abete governa bene il tutto? Confesso di avere parecchi dubbi. Come accade per Palazzi, anche su Abete non esistono adeguate narrazioni o inchieste dei media. Sappiamo soltanto che viene da una dinastia di stampatori e che il fratello maggiore, Luigi, è stato presidente di Confindustria. Ma pure Giancarlo è uno che conosce bene il campo dei suoi fagioli. Tanto da essere stato per tre volte deputato della vecchia Democrazia cristiana, nelle legislature ottava, nona e decima, dal 1981 al 1992.
Abete appartiene alla burocrazia alta della Federcalcio dal 1988 e la capeggia come presidente dall’aprile 2007. Come tanti della Casta dei partiti, anche lui è un sopravvissuto della Prima Repubblica. L’esperienza dovrebbe avergli insegnato che i sistemi malati prima o poi si sfasciano. Per questo motivo, Abete aveva da tempo l’obbligo di sapere che la giustizia calcistica rischia la morte per collasso. Prima si darà da fare per riformarla in modo profondo e meglio sarà per tutti. Dal momento che sarà «imparziale e autonoma » come sostiene lui, ma non è giusta.
Bene. Anzi male. Se all’apice della struttura sportiva italiana c’è il Coni.
Coni, la Casta alle Olimpiadi, un’inchiesta di Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Gli azzurri sono a caccia di medaglie ma i big del governo sportivo sono già al lavoro per il dopo Petrucci. Fra lobby, sprechi e molti milioni da gestire. Ecco il dietro le quinte di Londra 2012. Ormai sono universi paralleli. Gli atleti olimpici si battono contro i migliori del mondo sotto gli occhi di miliardi di spettatori. Un solo errore e anni di preparazione massacrante finiscono in nulla. E poi ci sono loro, i mandarini dello sport nazionale presenti ai Giochi di Londra in folta delegazione. Non hanno l'incubo della gara e neppure dell'antidoping. Se la medaglia arriva, si offrono sorridenti alle telecamere. Se non arriva, poco male. Non è da quello che dipende la loro prossima rielezione, ma da una competizione politica dove sono imbattibili tanto da accumulare mandati su mandati, a volte cumulati con seggi in parlamento (Sabatino Aracu del pattinaggio, Paolo Barelli del nuoto). Tra l'autunno del 2012 e l'inizio del 2013 tutto cambierà, in apparenza. Gli organi di governo dello sport italiano, prima le federazioni e poi il Coni, andranno al voto per essere rinnovati. I nuovi eletti, che saranno per lo più i vecchi rieletti, dovranno gestire i 409 milioni di euro girati allo sport dallo Stato (448 milioni del 2011 con 18 milioni di perdita). Ai soldi pubblici vanno aggiunte alcune decine di milioni di euro di ricavi vari dagli sponsor o dai cittadini che pagano l'ingresso alle piscine, alle piste e alle palestre. Non male di questi tempi. Soprattutto perché i controlli sono facilmente aggirabili. E' raro che uno dei signori dello sport venga trovato positivo allo sperpero. Ma basta ficcare il naso in una delle 45 federazioni sportive nazionali (Fsn) affiliate per trovare una ricca casistica di sprechi.
Assunzioni a go-go. Il vecchio Coni dei due Giulii (Onesti e Andreotti), pur avendo molti aspetti da carrozzone della Prima Repubblica, era un ente statale che svolgeva il doppio ruolo di sostegno allo sport di alto livello e di finanziamento all'attività di base. Poi nel 2002 il ministero dell'Economia Giulio Tremonti (Berlusconi III) decreta la nascita di una spa, Coni Servizi, controllata al cento per cento dal Coni, dunque dallo Stato, finanziata dal Coni (134 milioni nel 2011 e 143 nel 2012), sottoposta alla vigilanza della Corte dei conti, ma dotata della libertà di azione delle società di diritto privato. E' la moda del tempo.
Si pensa di sveltire l'azione dei mastodonti pubblici aumentando i ricavi e abbattendo i costi. Soprattutto quelli del personale. Coni Servizi viene dotata di 2.615 dipendenti ex Coni o Fsn. Circa metà sono impiegati negli uffici centrali e periferici. L'altra metà rimane presso le federazioni. Tra il 2003 e il 2007 poco più di 1.400 di questi dipendenti viene mandato in pensione oppure trasferito verso altre società della pubblica amministrazione. Già questo è un gioco delle tre carte perché la riduzione di personale non comporta diminuzione di spesa per le casse pubbliche. In compenso, parte il festival delle assunzioni. Secondo i calcoli di Giovanni Paladini, deputato dell'Idv, dal 2003 al 2011 ci sono 1.076 nuove entrate.
Solo dal 2008 al 2011, le Fsn prendono 854 persone a chiamata diretta, senza bandi né concorsi. Possono farlo. Le federazioni sportive sono associazioni private, pur ricevendo milioni di euro all'anno di finanziamenti del Coni. Secondo i deputati Fli Benedetto Della Vedova e Aldo Di Biagio,«si è giunti a un totale di 2.279 unità che erano e restano a carico pubblico a cui vanno sommati i 1.400 dipendenti dismessi con contributi del Coni ente». Chi ha accettato di trasferirsi dal Coni alle Fsn ha ricevuto inoltre incentivi economici e promozioni, oltre alla garanzia di potere rientrare dopo cinque anni. Un gruppo di 141 di lavoratori Coni servizi ha rifiutato il trasferimento per timore di essere meno tutelato ed è stato messo in mobilità a fine giugno. Il sindacato Ugl, che ha presentato un ricorso in tribunale e un esposto alla Corte dei Conti contro il provvedimento, ha calcolato che il sovraccarico reale annuo delle nuove assunzioni sia pari a 46 milioni di euro. Nel gruppo dei trasferiti spiccano i 130 finiti in Federcalcio; 59 di loro sono stati ulteriormente distaccati alla Lega calcio, che è un'associazione privata composta dai proprietari di club, evidentemente bisognosi di un sostegno in termini di manodopera mentre si dedicano a costose operazioni di mercato. La chiamata diretta ha spesso premiato il merito del cognome o dell'amicizia. Marco Befera, figlio di Attilio, lavora ai servizi legali mentre Flavio Pagnozzi, figlio del segretario generale del Coni, è in forze a Equitalia, controllata dall'Agenzia delle entrate guidata da Befera. Stefano Calvigiani, ex di Radio Vaticana e protégé di Gianni Letta, è stato preso alla preparazione olimpica. Danilo Di Tommaso, ex moviolista al Processo di Biscardi detto "la voce di Moggi" per il suo stretto rapporto con Big Luciano, è alla guida dell'ufficio stampa dal 2007. Un gruppo di pensionati con buonuscita è rientrato in servizio a stretto giro. E' il caso del potente Giuseppe Rinalduzzi, che ha mantenuto ufficio e segretaria all'Olimpico di Roma, di Gianfranco Carabelli e Giuliano Grandi (Fidal servizi).
Le controllate incontrollate. A gennaio 2012, il Coni ha stabilito che ci sono 79 esuberi complessivi nelle Fsn con alcune federazioni sotto organico e altre nettamente al di sopra. E' il caso degli sport equestri che hanno 73 dipendenti, quanto basket e pallavolo, e sono in esubero di 27. Queste cifre non tengono conto delle società di capitali che le Fsn, a loro volta, hanno creato. La Federtennis (Fit) ha ben tre controllate (Fit servizi, Sportcast e Mario Belardinelli) con 78 dipendenti. La sola Sportcast, il canale tematico del tennis, ha ricevuto 17 milioni di euro pubblici dal 2008 al 2010. La Coninet, creata nel 2004 per fornire servizi Web, ha solo sei dipendenti ma con un costo aziendale di 490 mila euro, incluso un "premio incentivante" da 33 mila euro versato con i ricavi in calo da 2,5 a 2,3 milioni di euro e un utile di 6.792 euro. In crescita anche i costi del personale di Fidal servizi, nata nel 2008 e guidata dal vicepresidente della Fidal, il cagliaritano Adriano Rossi. I dipendenti sono passati da 35 a 53 e la spesa è cresciuta da 610 mila a 830 mila euro dal 2009 al 2010. Nel biennio sono stati inoltre spesi 200 mila euro per la fondamentale "ideazione e progettazione del marchio Fidal servizi".
Palazzi d'oro. Il 19 aprile 2012, il presidente del Coni Gianni Petrucci ha spedito una circolare ai presidenti delle Fsn per bloccare «l'acquisto in proprietà di sedi federali, a livello centrale e periferico». Il presidentissimo eletto nel 1999 e non rieleggibile prosegue: «Ritengo di dover sottolineare che operazioni di questo tipo, in prossimità della scadenza degli attuali mandati federali, appaiono poco opportune dal momento che impegnano per la loro natura pluriennale anche i futuri organi federali». Senza scriverlo, Petrucci si riferiva tra le altre alla Fip (pallacanestro) dove il presidente Dino Meneghin aveva pubblicato un invito per manifestare interesse a vendere immobili per una nuova sede della Fip in zona Roma nord con 2.200 metri quadri di uffici, mille di magazzino e 60 posti auto. Oltre a una lodevole cautela, si segnala tra i moventi della lettera di Petrucci la sua intenzione di candidarsi a presidente proprio della Fip alle prossime elezioni.
Pentathlon alla pesarese. Il pentathlon moderno, amato dal barone De Coubertin e solo per questo sopravvissuto finora ai tentativi di cancellazione dal programma olimpico, ha un seguito in calo ovunque nel mondo. In Italia ci sono meno di 20 atleti di livello internazionale. In proporzione, i 2,5 milioni di euro di budget della federazione (Fipm) sono una bella cifra a paragone dei 300 mila euro spesi dai tedeschi. I campioni degli anni Ottanta Daniele Masala e Carlo Massullo si allenavano al centro di preparazione olimpica (Cpo) di Montelibretti, a nord di Roma. Il Cpo è in stato di progressivo abbandono nonostante i 300 mila euro di manutenzione ordinaria annuale dichiarati sui bilanci. Nel 2009, si legge, "particolari eventi atmosferici hanno causato la caduta di alberi e lampioni". La spesa per il cataclisma è arrivata a 650 mila euro. Ma niente paura. La Fipm, presieduta dal 1997 dal pesarese Lucio Felicita costruirà un nuovo centro da 8 milioni di euro, a Pesaro. Il finanziamento dell'Istituto per il credito sportivo, nelle intenzioni, sarà ripagato con gli utili della Fipm. Utili inesistenti, a quanto è dato di vedere dai bilanci 2007, 2008 e 2009. Magari nel 2010 e nel 2011 c'è stato un boom di profitti. Si saprà con certezza quando la Fipm deciderà di pubblicare i documenti contabili. Ma l'oscurità dei rendiconti non è un problema che riguarda la sola Fipm. Le federazioni che si sono conformate al diktat del Coni di mettere on line i bilanci sono una minoranza. Tra gli assenti ci sono molti sport popolari e ricchi come pallavolo e rugby. Per la palla ovale, Petrucci ha dovuto sollecitare più volte il presidente Giancarlo Dondi, un altro dei dinosauri dello sport italiano che non si ricandiderà dopo 16 anni. Mancano anche la boxe, i pesi, le arti marziali, l'hockey e molti altri mettono a disposizione consuntivi in poche agili paginette. Anche in questo, c'è una misura di ipocrisia tipica dell'ambiente. Il Coni riceve i bilanci delle federazioni anno per anno. Se Petrucci teneva tanto alla trasparenza, poteva pubblicarli lui. Ha pur sempre 409 milioni di euro di buoni argomenti per convincere i recalcitranti.
E su Londra 2012 calò la Grande Scusa, dice Gianfrancesco Turano sul Blog di “L’Espresso”. Ecco perché non vinciamo niente nel nuoto, niente nell’atletica, quasi niente nella ginnastica e, in breve, pochissimo in tutti gli sport salvo quelli a base di carabine, pistole, lupare, armi da taglio e pugni in faccia. PERCHÉ SIAMO PULITI. Lo annuncia urbi et orbi, con la compunta e rattristata gravità di un padre che deve allontanare un figlio irredimibile mentre il cuore gli sanguina, chi se non Gianni Petrucci, presidente del Coni dal 1999, sindaco di San Felice Circeo e prossimo ri-presidente della disastrata Federbasket. «Lo avevo detto. Meglio vincere meno medaglie ma essere puliti», afferma Petrucci. Che lo stesso Petrucci sia responsabile della trasformazione del Coni in un carrozzone allo sfascio passa del tutto in secondo piano rispetto al delitto del marciatore altoatesino. Ma se anche non ci fosse stato il fantasma del doping a togliere le castagne dal fuoco di un bilancio olimpico che si annuncia deficitario a meno di miracoli degli ultimi giorni (27 medaglie a Pechino 2008, 32 ad Atene 2004), Petrucci avrebbe potuto prendersela con i tagli dello Stato al bilancio del Coni. D’altra parte, non si resta al potere per decenni come Petrucci se non si ha la panchina lunga in quanto a scuse e a capacità di scaricare il barile. Per fortuna abbiamo trovato il cattivo. Si chiama Alexander Schwazer. A Pechino, quando Petrucci e gli altri boss dello sport italiano lo glorificavano, si drogava oppure andava ad acqua minerale? Presto sapremo se l’atleta sarà privato dell’oro del 2008. A mia memoria, è la prima volta che uno sportivo viene colto in flagrante e ammette di avere sbagliato invece di aprire, a sua volta, il grande libro delle scuse (ho l’ematocrito naturale alto, ho bevuto troppa birra, fatto troppo sesso, mangiato tre quarti di cinghiale crudo). Complimenti a lui e beato chi riesce ancora a credere che Schwazer sia un caso isolato o di minoranza. Per quest’ultima categoria, buon finale di Olimpiadi con le meravigliose lanciatrici, i fondisti, i ginnasti. Loro vinceranno. Ma noi siamo italiani. Siamo puliti. E i nostri sportivi di punta gareggiano nella giunta del Coni e nelle federazioni. Quelli non li batte nessuno.
Novella Calligaris, prima medaglia olimpica della storia del nuoto italiano (Monaco 1972) e già detentrice di vari record europei e di uno mondiale, commenta il post di Ragù di capra “Schwazer, il perfetto alibi olimpico”. Segue risposta.
Caro Gianfrancesco, visto che nello sport sono vissuta e cresciuta mi sento profondamente offesa x la mancanza di rispetto nei confronti delle medaglie vinte dagli azzurri anche se in specialità per te meno nobili. Ti ricordo che ai giochi olimpici tutti gli sport hanno uguale dignità e che nel nuoto ad esempio abbiamo vinto tanto dal 2000 ad oggi e purtroppo gli atleti non sono eterni ne si sfornano campioni come il pane (vorrei ricordare oltre alla pellegrini anche bianchi Paltrinieri sono quinti al mondo vorrei saper quanti italiani nei vari settori della vita hanno lo stesso piazzamento) questo livore verso lo sport mi lascia basita , ma forse essere contro fa più ascolti. Novella Calligaris.
Cara Novella, grazie per avere scritto ma ti prego di non leggere quello che io, a mia volta, non ho scritto. Il mio rispetto per schermidori e fucilieri è assoluto tanto più che, a differenza di te, ho un passato e presente sportivo da brocco integrale. Il mio post non è certo contro chi arriva quinto ma contro quei dirigenti sportivi che, se ricordo bene, in passato hanno suscitato qualche critica anche da parte tua. Se leggi l’inchiesta dell’Espresso sulla casta olimpica, troverai fin dall’inizio parole che esprimono ammirazione per gli atleti, per la fatica che fanno e per i rischi che corrono, in contrasto con i mandarini dello sport italiano, che non corrono pericoli e non pagano mai. L’equazione petrucciana “meno medaglie, più pulizia” continua a sembrarmi risibile. Su Ragù di capra e sull’Espresso resti la benvenuta.
PARLIAMO DELLA CASTA DEL CONI.
Ci si basa su un’inchiesta di Gianfrancesco Turano pubblicata su “L’Espresso”. Dalla federazione del nuoto a quella del pattinaggio, in Italia la burocrazia sportiva è un altro modo per riempire le tasche di politici di secondo piano, attraverso diarie, rimborsi e consulenze varie. E se facessimo un po' di pulizia?
La circolare 134 spedita urbi et orbi dal segretario generale del Coni, Raffaele Pagnozzi, parla chiaro. Le riduzioni di costi varate nel 2008 e rubricate alla voce "rimborsi Stato per riduzioni spese" non bastano più. Nel 2011 il comitato olimpico ha faticato parecchio a fare quadrare i conti, senza riuscirci. Il presidente Gianni Petrucci, giunto alla fine di un lungo regno sullo sport italiano e pronto a diventare primo cittadino di San Felice Circeo, ridente località di villeggiatura nel basso Lazio, ha presentato ricavi per 462 milioni di cui 448 in contributi statali con un risultato negativo di 18 milioni di euro. Le previsioni per il 2012 sono in linea con l'austerità del governo tecnico: i trasferimenti dello Stato allo sport nazionale scenderanno a 409 milioni di euro e il risultato sarà - si spera -positivo per 3,5 milioni di euro. Il miracolo del profitto con meno entrate sta appunto nella circolare 134. Un miracolo concentrato in poche righe e in un paio di raccomandazioni. La prima è che i presidenti delle 45 federazioni sportive affiliate dovranno accontentarsi di un gettone giornaliero lordo massimo di 130 euro e per non più di 240 giorni all'anno. In totale, 31.200 euro. E' una somma ben lontana dalla diaria di 400 euro quotidiani percepita, per esempio, dal presidente della Fip (basket) Dino Meneghin e pari a un massimo di 146 mila euro complessivi all'anno. Del resto, i contributi allo sport sono gestiti come i contributi alla politica. In teoria, i bilanci dovrebbero essere pubblici e trasparenti. In pratica, spesso non sono né l'uno né l'altro. Né c'è da stupirsi. In Italia sport e politica sono sempre andati a braccetto. Ai tempi della prima Repubblica, Giulio Onesti ha tenuto il timone del comitato olimpico per oltre 30 anni grazie alla benedizione di un altro Giulio, di cognome Andreotti. Lo stesso Petrucci ha fatto carriera sotto la protezione del sette volte premier democristiano. A sua volta, Petrucci ambisce a lasciare il testimone al suo braccio destro, il firmatario della circolare 134 Pagnozzi, detto Lello, una vita trascorsa nei corridoi del palazzo sul Tevere progettato da Enrico Del Debbio ai tempi del Duce. Anche oggi gli uomini alla guida delle federazioni sportive hanno bisogno di patronage politici, tanto che a volte i politici si occupano direttamente della questione. Per limitarsi a pochi esempi, quando la Fisi (sport invernali) è finita nella tempesta, il suo presidente Giovanni Morzenti si è dimesso dopo un braccio di ferro con l'allora ministro degli Esteri Franco Frattini e una condanna in primo grado per concussione. Alla fine, la Fisi è stata commissariata e affidata per quasi un anno al Gran Ciambellano dello sport nazionale Franco Carraro, in passato presidente della Federazione sci nautico e della Federcalcio ai tempi di Calciopoli, membro del Cio (comitato olimpico internazionale) e sindaco di Roma ai tempi della Triade Craxi-Andreotti-Forlani. Paolo Barelli della Federnuoto è alla terza legislatura come senatore del Pdl. Stessa casacca, ma alla Camera, per Sabatino Aracu (pattinaggio e hockey a rotelle), coinvolto nell'inchiesta sulla Sanitopoli abruzzese e sotto accusa per la gestione di spese e rimborsi della sua federazione. Proprio spese, rimborsi, consulenze dubbie del Coni e delle federazioni sono attualmente al vaglio della sezione della Corte dei conti che ha il compito di vigilare sugli enti pubblici. Nella lista è inclusa Coni servizi, società per azioni creata nel 2002 in pieno tsunami berlusconiano, quando andavano di moda le spa a controllo pubblico che disponevano di libertà d'azione e discrezionalità maggiori. Coni servizi doveva risolvere la crisi finanziaria del Coni dopo il crollo dei ricavi da Totocalcio. Il risultato è che la spa, partita con oltre 2.600 dipendenti nel 2003 ha dovuto girare buona parte dei suoi lavoratori alla casa madre e alle federazioni per ridurre i costi del personale da 104 a 54 milioni di euro nel 2010. Così è stato evitato il tracollo e, grazie allo scarico di costi sulle federazioni, Coni servizi ha potuto chiudere i conti in attivo nel 2010 per 5 milioni di euro. Il profitto sarebbe stato più alto senza gli oltre 5 milioni spesi dalla spa per perizie, consulenze e prestazioni professionali non meglio identificate. Pesano inoltre i 10 milioni messi nel calderone "altri costi per servizi". Non poco per una società che i servizi dovrebbe essenzialmente venderli e che, al di fuori dei trasferimenti di fondi dal Coni e delle concessioni per impianti sportivi, dai servizi ricava appena 4 milioni di euro contro i 10 spesi. Anche per il 2012 il Coni sosterrà la sua spa con contributi per 138 milioni di euro in crescita rispetto ai 134 versati nel 2011.
Se una società per azioni come Coni servizi riesce a essere vaga con le poste di bilancio, figurarsi le federazioni. Anche qui, in teoria i bilanci sono pubblici e dovrebbero essere consultabili dal cittadino contribuente, magari on line visto che tra i costi delle federazioni ci sono anche i siti. Di fatto, l'inchiesta de "l'Espresso" ha suscitato un campionario di risposte alquanto varie, a volte bizzarre. Anche in alcuni sport molto seguiti, come la pallavolo, la disponibilità a mostrare i conti è scarsa e la completezza dell'informazione è impossibile. L'elenco delle spese pubblicato nelle tabelle isola alcune voci che sono apparse significative, a cominciare dai costi del personale e degli organi federali, quelli messi nel mirino dalla circolare 134 ispirata alle norme del decreto "mille proroghe" di fine febbraio. Il tentativo di contenere stipendi e collaborazioni è riuscito poche volte (sport invernali, scherma) con aumenti consistenti per pallacanestro e ciclismo. Il taglio ai compensi degli organi federali è realizzato con decisione dalla Figc di Giancarlo Abete, di gran lunga la federazione più ricca e, in proporzione, una delle meno dipendenti dai trasferimenti del Coni (82,5 milioni di euro su 176 di ricavi complessivi). A dispetto dei problemi giudiziari, anche Aracu ha seguito la stessa politica, mentre aumentano i gettoni di presenza per la federnuoto del collega di partito Barelli. Renato Di Rocco del Federciclismo è intervenuto drasticamente sulle spese di comunicazione, più che dimezzate rispetto al 2009. Un capitolo che ha visto tagli generali è quello delle spese per i controlli antidoping. La maggior parte delle federazioni investe poche migliaia di euro di budget nel contrasto alle pratiche farmaceutiche illecite. Sono numeri che, ovviamente, vanno sommati ai controlli degli enti sovranazionali specializzati come la Wada. Ma sorprende che nel tiro a volo (Fitav) si spenda poco meno di quanto è a bilancio della scherma e quasi il triplo dei 2.500 euro della ginnastica che investe oltre 14 mila euro in coppe e medaglie. Di gran lunga in testa all'elenco dei test antidoping è la Federcalcio che, però, ha dimezzato l'investimento in modo drastico da 2,5 a 1,3 milioni di euro. La Fidal (atletica leggera) è scesa da 174 a 107 mila euro.
Altre federazioni, come nuoto e pesistica, nemmeno evidenziano i costi dell'antidoping nelle scritture contabili a disposizione del pubblico. L'unica eccezione a questa tendenza è il ciclismo che passa per una delle discipline più colpite dal doping ma, secondo i tecnici e gli appassionati delle due ruote, è soltanto uno degli sport più controllati. La Fci di Di Rocco ha aumentato le spese per il contrasto ai medicinali proibiti fino a circa 200 mila euro all'anno. In ogni caso, una goccia nel mare.
“CALCIOMERCATO, QUANTE TRUFFE” è il titolo dell’inchiesta di Federico Formica su “L’Espresso”. Procuratori che ingaggiano giocatori "a strascico" e poi spariscono. Altri che tengono i loro assistiti in ostaggio per fare la cresta. Per non parlare delle false fatture. Un giovane agente del pallone racconta cosa c'è dietro il mondo dorato dei vari Raiola. L'uomo dell'estate si chiama Carmine Raiola, al secolo Mino: nato a Nocera Inferiore, è il procuratore di Zlatan Ibrahomic (trasferimento-monstre da Milano a Parigi) e di Mario Balotelli. Grazie agli enormi guadagni che fa percepire ai suoi celebri clienti, Raiola è uno degli uomini più ricchi che orbitano intorno al mondo del calcio. Simone Bortolan Gianese invece ha 27 anni, fa la spola tra la sua Milano, la Scandinavia e i Balcani. Si sta facendo le ossa nei in campionati minori, come si dice nel gergo calcistico, e guadagna poche decine di migliaia di euro all'anno. Tra Bortolan e Raiola c'è un abisso, eppure anche lui appartiene alla categoria più detestata dai tifosi italiani, la più temuta da presidenti e direttori sportivi: quella dei procuratori. Fino alla deflagrazione del calcioscommesse, i cattivi della storia erano proprio loro, gli agenti. Uomini in giacca e cravatta e sempre con il cellulare in mano. Dipinti come professionisti senza scrupoli, pronti a tutto per spuntare l'ingaggio più alto possibile per il proprio assistito. Perché ogni agente percepisce una cifra che spesso arriva fino al 10 per cento dello stipendio lordo del calciatore seguito. Gli agenti italiani iscritti all'albo della Fifa sono oltre 900, ma quelli che contano davvero sono solo una decina. Una piccola casta che si spartisce una torta da 58 milioni di euro. L'uomo del momento è appunto Raiola, ma sono molto potenti anche Beppe Bozzo (quello di Antonio Cassano), Andrea D'Amico (agente tra gli altri di Gattuso e Caracciolo), Federico Pastorello (che ha De Sanctis e Giuseppe Rossi), Claudio Pasqualin (procuratore di Giovinco). Secondo i dati del Centro nazionale di studi sullo sport di Neuchatel, i nostri agenti sono secondi per fatturato solo agli inglesi che nella stagione 2010-2011 hanno messo insieme complessivamente 86 milioni di euro. Quello delle procure è però un mondo in cui emergere è impresa quasi disperata, se è vero che solo 83 agenti (su 5800) seguono la metà dei calciatori che giocano in Europa. «In Italia, se vuoi fare questo lavoro devi cominciare a collaborare con procuratori più conosciuti, ma io non avevo alcuna voglia di fare il galoppino di certi personaggi. Così sono andato a lavorare in Danimarca, poi in Svezia. Dopo sono venute anche Romania e Ungheria e da pochi mesi anche la Croazia», dice Simone, che ora segue alcune giovani promesse di questi paesi. Li scopre sui campi di provincia, li segue cercando di farli salire di categoria, fino all'equivalente della nostra serie A: «Un mestiere bellissimo», dice. Ma anche pieno di trucchi e di scorrettezze, aggiunge. Una delle più comuni è la procura 'a strascico'. L'agente sceglie dieci, quindici giovani calciatori e convince le famiglie - staccando assegni da 10 o 15 mila euro - ad affidargli la procura. Per uno che ha successo e diventa un buon calciatore, ce ne sono altri nove che non sfondano. E che vengono abbandonati strada facendo, semplicemente perché non convengono più. Una pratica che ha successo soprattutto nei paesi meno ricchi, dove molte famiglie non possono dire di no a una busta piena di contanti. «Se il calciatore non si rivela un talento, può succedere che il procuratore non risponda più al telefono, o che pianti in asso il giocatore in aeroporto una volta ricevuti i soldi dalla società. A un mio assistito è successo qualche anno fa: arrivato a destinazione non ha trovato il suo agente ad aspettarlo. Lui è ungherese e non conosceva una parola di italiano. Quando lo portai in prova in un club italiano, si stupiva che rimanessi lì con lui tutti i giorni». Il paradosso è che spesso si tratta di accordi puramente verbali. Perché prima dei 18 anni la procura può durare al massimo120 giorni: se entro questo periodo l'agente non ha trovato una squadra al suo assistito, il rapporto si interrompe», spiega Simone. Poi ci sono i calciatori "ostaggio" del loro agente: «Alcuni procuratori chiedono alla società una cifra extra per chiudere l'accordo. Soldi che finiscono dritti nelle loro tasche. Succede a tutti i livelli. Se la società rifiuta di pagare questa cifra, l'affare non si chiude. E il calciatore perde un'occasione per la sua carriera». Quello delle "commissioni" è un fenomeno molto comune soprattutto nel mercato dei parametri zero, cioè i giocatori che si trasferiscono a contratto scaduto. Chi compra non sborsa un euro per il cartellino, ed è su questo che fa leva l'agente. C'è anche chi truffa sui compensi. Volendo, infatti, le società possono pagare gli agenti al posto dei calciatori. Queste cifre, però, devono essere scalate dall'ingaggio degli atleti. Non possono essere un'uscita in più del bilancio societario. Un'inchiesta della procura di Piacenza ha indagato 21 agenti italiani (molti famosi come Tullio Tinti, Alessandro Moggi e lo stesso Pasqualin) per un'evasione fiscale da centinaia di migliaia di euro. Perché mentre la società apriva il portafoglio gli agenti - secondo l'ipotesi della procura -emettevano fatture per prestazioni inesistenti. Ma qualche favola bella c'è ancora. Stefano Napoleoni, 26 anni, è il centravanti del Levadiakos, prima divisione greca. Scoperto da Zibì Boniek, ex campione di Roma e Juventus degli anni Ottanta, Napoleoni ha giocato tre anni in Polonia nel Widzew Lodz. Poi la Grecia, dove in due stagioni ha segnato 16 reti. Adesso è nel mirino dell'Olympiacos, pluri-titolato club del Pireo. Due anni fa Napoleoni ha lasciato il suo ex procuratore Dario Canovi, uno dei più famosi in Italia, per affidarsi a Riccardo Albanesi, suo amico ed ex compagno di squadra nel Tor di Quinto. «Insieme abbiamo vinto lo scudetto juniores, quando giocavo», racconta Albanesi, 25 anni,«poi io ho intrapreso la carriera di procuratore cominciando nello studio Canovi, dove portai "in dote" anche Stefano». Quindi il grande salto: Albanesi decide di mettersi in proprio insieme al collega-amico Valerio Curti Gialdino. Napoleoni lo segue, accettando il rischio di lasciare un agente importante. Oggi è un attaccante molto ambito sul calciomercato e anche qualche club italiano ci sta facendo un pensiero. Lavorare in proprio per un giovane procuratore però è dura, in Italia. «I dirigenti delle grandi squadre non ci ascoltano», spiegano Albanesi e Curti Gialdino: «Se abbiamo un giocatore da proporre a un top club, dobbiamo farci presentare da qualche nostro collega più famoso». Un'intermediazione dell'intermediazione, insomma. Nelle serie minori inoltre di denaro ne circola poco: «In alcuni casi le società pagano con molti mesi di ritardo, se non anni. Per chi ha un giro d'affari di poche migliaia di euro, come noi, questi sono guai. Se la società fallisce, poi, quei soldi possiamo scordarceli definitivamente». A volte, nei campionati minori, alcuni trasferimenti sono addirittura a guadagno zero: la cifra che spetterebbe loro sarebbe di poche centinaia di euro e gli agenti non se la sentono di andare a chiederli al giocatore: «Crediamo nei ragazzi che seguiamo: siamo certi che nei prossimi anni andremo a trattare ingaggi più alti e così magari i guadagni arriveranno», spiegano. Raiola è molto lontano.
"Evasione fiscale milionaria sugli ingaggi dei calciatori". Il caso approfondito da Giuliano Foschini e Marco Mensurati su “La Repubblica”.
Indagato il gotha dei procuratori. Da Moggi Jr a Pasqualin, in 21 indagati dalla procura di Picenza. I loro compensi iscritti nei bilanci delle società in modo da non pagare l'Iva. Dopo Calciopoli e il calcioscommesse, un altro scandalo si abbatte sul calcio italiano. Stavolta quello che succede in campo non c'entra niente, stavolta c'entra quello che succede negli uffici dei club. E cioè una gigantesca evasione fiscale messa in atto dai procuratori dei calciatori e dalle società calcistiche. I truffati, stavolta, non sono solo i tifosi, ma tutti i cittadini. Un numero preciso per quantificare questa evasione, per il momento, non c'è. "Decine di milioni di euro" dicono, ad occhio, gli investigatori che indagano su questo caso solamente da fine novembre 2011. L'unico numero in grado di rendere l'idea del giro è quello dei procuratori indagati che sono 21 e, soprattutto, sono tutti "big". Gente dal nome importante - si va da Moggi jr a Pasqualin - i cui carnet di assistiti sembrano estratti dagli album delle figurine Panini. Come capita spesso con le storie di grandi dimensioni, anche questa prende spunto da una vicenda minuscola. Il 21 aprile 2011, il nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Piacenza comincia una verifica a campione nei confronti della squadra locale, tra l'altro in grossa difficoltà economica (oggi è fallita) perché travolta tra le altre cose dalla vicenda calcioscommesse. "Nel corso dell'attività ispettiva è stato rilevato che il Piacenza - si legge nell'informativa mandata alla procura della Repubblica - ha iscritto i costi sostenuti derivanti dalle prestazioni professionali rese dagli agenti dei calciatori nella voce dei "Diritti pluriennali dei calciatori professionisti"". Che cosa significa? "Che ai fini del pagamento dell'Iva la società ha detratto l'imposta indicata in fattura". Quindi, non ha pagato l'imposta sul valore aggiunto e sui redditi. Secondo la Finanza in maniera assolutamente illegale, essendo l'intermediazione di un procuratore un tipo di prestazione "da ritenere indetraibile". "In questo modo - si legge nell'informativa - è stato così implementato un sistema fittizio attraverso il quale i corrispettivi dovuti agli agenti per le attività svolte per conto dei calciatori vengono, nella sostanza, traslati direttamente in capo alla società calcistica attraverso il conferimento di un incarico all'agente del calciatore stesso". Per fare in modo che però il sistema funzionasse i procuratori hanno emesso fatture false alla società, fatture che "facevano riferimento a prestazioni di servizi inesistenti", perché nessuno dei procuratori aveva lavorato per il Piacenza calcio ma al massimo per i calciatori. In questa maniera facendo risparmiare tasse alla società e risparmiando anche loro stessi. Insomma un pasticcio che ha permesso "una importante evasione fiscale" e che con ogni probabilità è stato replicato in altre realtà anche molto più grandi. Per questo il pubblico ministero della procura di Piacenza Antonio Colonna ha iscritto al registro degli indagati oltre all'allora amministratore delegato del Piacenza, la creme dei procuratori sportivi italiani: tra gli altri, i più noti sono Claudio Pasqualin, Alessandro Moggi, Silvano Martina, Giovanni Branchini, Matteo Roggi, Tullio Tinti, Andrea Pastorello, Marcello e Giuseppe Bonetto. A tutti è contestato un articolo del decreto del 2000 sull'evasione fiscale che punisce "chiunque utilizzi fatture per operazioni inesistenti al fine di evadere le imposte". Si rischia da uno a tre anni di carcere. Oppure una maxi multa. L'inchiesta è ancora nelle fasi delle indagini preliminari e Finanza e procura di Piacenza stanno valutando come e quanto allargare un'indagine che estesa ai club più importanti potrebbe portare nelle casse del fisco milioni di tasse evase illegalmente in questi anni. L'iniziativa della procura di Piacenza prende in contropiede procuratori e società che, consapevoli dell'anomalia della loro prassi (e di essere stati scoperti dalla finanza), nei mesi scorsi avevano chiesto a Equitalia di avviare un tavolo per valutare una possibile via d'uscita "morbida". Che però non potrà riguardare l'aspetto penale della vicenda. Spregiudicati, potenti e ricchissimi, ecco i veri padroni del calciomercato secondo Fabrizio Bocca su “La Repubblica”. Commissioni fino al 10 per cento, gestiscono un business da 150 milioni l'anno. Boniperti non voleva nemmeno riceverli, ora gestiscono ogni trattativa. Trent'anni fa era un'avventura. Quando Dario Canovi, avvocato romano tra i precursori del mestiere di procuratore di calcio, entrò nell'ufficio di Antonio Sibilia ad Avellino per trattare il contratto di Juary - che il presidente avrebbe addirittura spedito a consegnare una medaglia d'oro a Raffaele Cutolo - quello si tolse la Magnum dalla fondina e l'appoggiò sul tavolo. "È che quando sto seduto mi dà fastidio". A quei tempi i procuratori non li volevano tra i piedi: Boniperti con loro non parlava, si rifiutava di riceverli e di farli entrare alla Juve. Oggi invece la dimensione degli affari è industriale e gli interessi planetari. Un mercato non sempre fuori regola e da codice penale, ma molto disinvolto. Maurizio Zamparini ha denunciato per estorsione il procuratore argentino di Javier Pastore: dal trasferimento de El Flaco al PSG, Marcelo Simonian tramite la Dieci football Corporation ha incassato una fetta di 12 milioni, dopo richiesta di 17. Dei 39,8 milioni pattuiti con i francesi il Palermo ne ha incassati 22,8 e il resto se ne è andato in premi all'Huracan e in una maxifetta al procuratore che in realtà è comproprietario del giocatore. In ogni caso il giudice ha deciso l'archiviazione e si va in appello. In Europa e in Italia gli agenti fanno mercato a tutto campo. Mettono in piedi l'affare e lo fanno lievitare. Il famoso agente Fifa Mino Raiola, ex pizzaiolo italo-olandese (maturità classica e 7 lingue per altro) nato a Nocera Inferiore e che cominciò a fare affari nel suo ristorante di Haarlem frequentato da Bergkamp, Rijkaard e quelli dell'Ayax, è diventato la testa di ponte del Milan: Ibrahimovic, Robinho, Van Bommel, Emanuelson. Il primo gran colpo in Italia fu Nedved alla Juve (2001), il prossimo sarà l'asta per Balotelli, la sua specialità. Ogni volta che Ibra cambia club o rinnova Raiola apre le casse: la percentuale di un procuratore va dal 4 al 10% sul lordo (per Ibra 20 milioni l'anno, fino a 2 milioni dunque per il suo agente). Due anni fa il suo giro d'affari annuale era di circa 5 milioni, ora molto di più. Metodi spicci, famosa l'intercettazione Moggi-Raiola in Calciopoli circa il trasferimento di Ibra alla Juve dall'Ayax, che ovviamente va ammorbidito. Raiola: "Domani Ibra non si presenta all'allenamento"; Moggi: "Continuiamo a far guerra, non lo mandare ad allenarsi"; "Eh, io la sto facendo guerra!". Anche Ernesto Bronzetti è un formidabile procacciatore di calciatori, terreno di caccia soprattutto la Spagna, Vieri, Kakà. Figo e altri sono passati per le sue mani. Uno dei più quotati è l'avvocato cosentino Beppe Bozzo, che ha esteso la sua attività dai calciatori (Cassano, Gilardino, Quagliarella), ad allenatori come Ranieri e Mazzarri. L'ultimo colpo grosso è stato di Sergio Berti, il più tosto di tutti: a De Rossi aveva procurato un contratto da 9 milioni netti al City, la Roma si è dovuta svenare per garantirgliene almeno 6-6,5 bonus compresi. Il più originale Armin Ruznic che importa sloveni a Palermo, tutti con la "ic" finale come lui: Ilicic, Bacinovic, Kurtic, Handelkovic. Alessandro Moggi, 5 mesi nel vecchio processo Gea e 20 di squalifica sportiva, ha intanto riaperto a Dubai la Gea World Middle Est, costola della vecchia agenzia dei figli di papà (Riccardo Calleri, Chiara Geronzi, Francesca Tanzi, Giuseppe De Mita, Davide Lippi) che arrivò a 262 procure. I soldi muovono tutto. Con 1.502 milioni di "costo imputabile al personale" in A (Report Figc 2012), ai procuratori può finire un bottino fino al 10%: 150 milioni. Il mercato ormai è internazionale. La Gestifute del potente avvocato portoghese Jorge Mendes vale 400 milioni: gestisce Mourinho e Cristiano Ronaldo, Quaresma, Coentrao. Allenatore e giocatori con lo stesso procuratore. Mentre l'anglo iraniano Kia Joorabchian, registrato con un passaporto canadese alla camera di commercio di Londra, addirittura acquista cartellini di giovani talenti sudamericani, assistendoli e stipendiandoli, in attesa che esplodano. Non ha una licenza di agente ma un fondo d'investimento (MSI) nelle isole Vergini, tramite cui sono passate le "importazioni" di Tevez e Mascherano al West Ham, e poi via così. Famose le foto di Galliani e Joorabchian in camicia a Rio: ma il ricco affare Tevez-Pato-Milan-City-Psg venne stoppato da Berlusconi. Alla faccia dei divieti Fifa il magnate brasiliano, Delcir Sonda, 24 supermercati in Brasile, tramite il fondo DIS sede a Chui al confine con l'Uruguay, detiene quote di 60 calciatori brasiliani, tra cui Ganso e Neymar (il Barça è pronto a sborsare 65 milioni). I prossimi affari della grande torta.
“Le Mafie nel Pallone“, editore Abele-Ega. Forse non c’erano molti dubbi che le mafie fossero entrate nel mondo del calcio. Un libro di Daniele Poto adesso mette nero su bianco la sporcizia in questo ambiente. Il controllo del territorio, lo scambio con la politica. E 15 miliardi l’anno di riciclaggio. Riciclaggio di soldi mediante sponsorizzazioni, partite truccate, scommesse clandestine, presidenti prestanome, il grande affare del mondo ultrà, le scuole calcio. La mafia ha saputo infiltrarsi anche in Serie A. Lo testimonia “Le mafie nel pallone – Storie di criminalità e corruzione nel gioco più truccato al mondo". Daniele Poto parla di “oltre trenta clan coinvolti”. Dai Lo Piccolo ai Casalesi, dai Mallardo ai Pellè, dai Misso alla cosca dei Pesce e Santapaola. “Si tratta di un fenomeno diffuso tanto al centro-sud quanto al nord d’Italia: Lombardia, Lazio, Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia, e sospetti in Abruzzo”. Nel dossier viene presentato il caso-limite del Potenza Calcio e del suo Presidente Giuseppe Postiglione, che in soli tre anni ha portato la squadra in serie B, salvo poi essere esclusa dal campionato professionistico. Un tentativo di sistematizzare l’enorme influenza del sistema delle mafie nazionali (cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita, mafia tout court) ed internazionali nell’alveo del grande spesso equivoco affare che è il calcio. Più gioco che sport, quindi soggetto a trucchi, riciclaggi, controllo sul territorio, arruolamento malavitoso della gioventù. Una grande fotografia sull’esistente dai primordi del calcio scommesse al sistema attuale delle connivenze ad alto livello aprendo uno scandalo spaccato delle collusioni con le istituzioni e con gli ultrà. Dalla descrizione generale dell’intreccio calcio-mafia ai casi particolari scendendo lungo la penisola. Dalla Lombardia e Lazio alla Sicilia, passando da Abruzzo, Puglia, Lucania, Calabria. Scoprendo che anche Provenzano, i Santapaola, gli Spatuzza ed i Pesce hanno frequentato il football nostrano.
È arrivato anche al Nord il complesso sistema di infiltrazioni criminali che, come si evince dal dossier, ha trovato terreno fertile in vasti settori del mondo calcistico. Scommesse, partite truccate, riciclaggio di denaro sporco, presidenti boss. Queste le voci dell’imponente giro d’affari che la criminalità organizzata è riuscita ad assicurarsi all’interno del sistema calcio. Che il pallone rappresentasse una ribalta molto ambita per i boss non era una novità. A sorprendere è piuttosto il fatto che gli stretti legami fra mafia e società calcistiche non siano più un fenomeno esclusivo del Mezzogiorno. La geografia criminale va dalla Lombardia al Lazio, abbracciando Campania, Basilicata e Calabria, toccando la Puglia, con sospetti in Abruzzo e con un radicamento profondo in Sicilia. E con il Nord che appare non immune da questa onda di illegalità calcistica. Nella spartizione della torta c’è dentro tutto il gotha della mafia, dai Lo Piccolo ai Casalesi, dai Mallardo ai Pellè, dai Misso alla cosca dei Pesce a quella dei Santapaola. I clan usano il calcio in primo luogo per riciclare denaro, approfittando della completa assenza di organi di controllo che possano vigilare sulla provenienza dei soldi che vi circolano. Le scommesse e i trasferimenti dei giocatori sono le vie più comode attraverso le quali la criminalità organizzata può ripulire i suoi proventi illeciti e al tempo stesso cementare i rapporti con la politica. Sono più di trenta i clan direttamente coinvolti o contigui, censiti nelle principali inchieste sui casi di corruzione nel mondo del calcio. Le mafie si servono di una delle passioni più diffuse per acquisire consensi. Tutto comincia dal basso. Dall’irragionevolezza dei conti (permessa, come detto, dalla mancanza di adeguati strumenti di controllo), ma anche dalla bolla economica determinata dal mondo dei diritti televisivi. Un filone di illegalità in gran parte inesplorato, che arriva alla ribalta solo quando è troppo tardi.
Pensare che le mafie, dalla mafia siciliana, alla ndrangheta calabrese, alla camorra campana e via dicendo, stessero lontano dal mondo del calcio, era una pia illusione. Tra l’altro smentita spesso dalle indagini di polizia che di tanto in tanto mettono sotto accusa dirigenze, ultras, organizzazioni per essere dedite ad affari se non direttamente mafiosi, certamente poco trasparenti. In effetti, le mafie nel mondo del calcio sono così penetrate da tempo, che è stato possibile ricavare un libro, un racconto in forma di dossier di quanto il calcio sia ormai incancrenito con le metastasi della mafia al suo interno. Un sistema che, come si legge nei vari rapporti, comincia fin dalle scuole-calcio, quando il giovane viene inserito in quel sistema anti-Stato, dove più che i meriti contano le appartenenze alle cosche, la raccomandazione “deviata”. Ed in questo, l’anello debole sono proprio i genitori, non a caso ritenuti spesso la piaga del calcio, pronti a qualunque compromesso per favorire l’escalation del figlio. E poi ancora, tutto l’affaire del riciclaggio di denaro per squadre in cui la percentuale di stranieri è dell’ordine del 40% e dove si possono creare fondi neri con le irregolarità della compra-vendita. Ma anche nelle piccole realtà la disonestà è la regola. In Sicilia, un certo Alfonso Sclafani, classe 1982, cambiava sempre nome ed età per giocare anche dove non poteva. Messosi in luce per questa “bravura”, ha fatto un provino all’Empoli ma non è stato scelto. Adesso fa l’idraulico a Palermo. E la statistica dice che in Sicilia, solo un tesserato su 10.000 arriva al grande calcio.
Tanti fatti che Daniele Poto, giornalista professionista con una sensibilità particolare per lo sport, ha messo in evidenza nel suo libro, “La mafia nel pallone“. Poto è pratico di sport avendo passato la sua vita professionale dentro diversi quotidiani tra cui Tuttosport, Messaggero, Corriere della Sera oltre che riviste specializzate nel mondo sportivo come Atletica Leggera, Jogging ed è stato “Giornalista dell’Anno” 1990 per la ginnastica. E’ autore di diversi libri, sia del settore sportivo che in genere tra cui si possono ricordare “Un’anima in fondo al canestro“, “Un delitto per male” ed ha in preparazione un noir dal titolo “Nessuna pietà per i vinti“. Daniele Poto, giornalista sportivo, è l'autore del libro/inchiesta "La mafia nel pallone", Abele-Ega editore. Proprio di questo libro, abbiamo parlato con Daniele di mafia e calcio, di manipolazione sociale e sport. E le notizie non sono incoraggianti.
(Intervista fatta il 28 settembre 2010 e pubblicata su http://endasscicli.wordpress.com)
Daniele, tu dici che la mafia è nel pallone. Non nel senso che è confusa ma proprio che è entrata nel mondo del calcio. Da quanto tempo?
La storicità dell’intervento si può circoscrivere con il tentativo di scalata di Chinaglia alla Lazio ovvero la prova per operazioni di serie A in tutti i sensi dopo una serie di preliminari nel calcio minore. Se la mafia è affare evidentemente non poteva prescindere da un intervento mirato nel mondo del calcio, una delle principali industrie del paese. E da quel giorno l’escalation è avvenuta in progressione geometrica con il massiccio impiego di investimenti e di persone, meglio se apparentate a famiglie mafiose.
Se la mafia è dentro il sistema del calcio, lo fa – diciamo – per spirito sportivo o ci sono altre motivazioni?
Lo spirito è tutt’altro che sportivo. Il calcio è un pretesto, un aggancio per controllare il territorio. Ci imbattiamo in personaggi che sanno poco o nulla di sport, poco o nulla di calcio, ma che si affidano spesso sul posto ad addetti ai lavori conniventi ed omertosi. Ed il campanilismo fa il resto con l’ambiente, la piazza i tifosi, meglio se ultrà. La miscela diventa incandescente, il rischio di omologazione altissimo.
Si parla di ipotesi di riciclaggio. Dovrebbero allora essere solo le grandi società ad essere interessate. Le piccole hanno difficoltà economiche e parlare di riciclaggio sembra impegnativo. O ci sono prove che accade anche in Eccellenza, Serie D e via dicendo?
Il riciclaggio in genere avviene nel segno di grandi capitali. Spesso con operazioni di import ed export off-shore in combinazioni con banche di paesi conniventi se non addirittura canaglia. Ma un riciclaggio di livello economico nettamente inferiore può scattare anche nel calcio minore sopratutto se la sopravvivenza di un club è legato a contributi di Provincia, Regione, Comune e dunque altamente influenzabili. Qui l’intreccio tra calcio-mafia e politica spesso diventa stringente.
Il controllo della società civile attraverso il calcio, passa anche per le piccole realtà sociali, le piccole società di provincia?
Sicuramente. E nel libro, con uno spaccato geografico a macchia di leopardo questo si constata soprattutto in Puglia. In un paesino come Racale la sintesi del controllo squadre-territorio-voto di scambio politico è un esempio classico. Ed in 2^ e 3^ categoria si si maschera meglio. Certi episodi non sono sotto le luce dei riflettori. L’operatività non è condizionata da un reale controllo.
Quanto è grande questo fenomeno? Si può dare un ordine di misura?
Il giornalismo investigativo è alla ricerca di unità di misura. Si può, con un certo beneficio d’inventario, opinare che un 10% dei proventi annui delle mafie in Italia, provengano dal mondo del calcio. Dunque un’unità di grandezza che può essere valutata sui 15 miliardi di euro. E nei prossimi anni percentuale e valore economico sono annunciati in crescendo, come testimoniato anche da un recente allarmante rapporto dell’Ocse.
Geograficamente, questo fenomeno, ha delle caratterizzazioni? Più al sud o anche il nord è sotto questo scacco?
Nel libro l’area geografica va dal Lazio alla Calabria, interessando Puglia, Lucania e, naturalmente, Sicilia. Ma le recenti operazioni combinate di magistratura e forze dell’ordine fanno ritenere che la rivelazione sui prossimi fenomeni emergenti avverrà proprio al nord. E sarà una vera e propria sorpresa per chi continua a ritenere indenni dalla penetrazioni mafiosi certi territori, fintamente incontaminati.
Le tifoserie, parliamo magari delle zone a più ampio tasso di illegalità diffusa, hanno dei capo-bastone mafiosi? Insomma, sono controllate anche quelle?
Sicuramente. Abbiamo ripetuti denunciati episodi a Napoli ed a Roma relativamente alle squadre locali, nel secondo caso la Lazio. Per semplificare allo stadio San Paolo non puoi vendere una bottiglietta di coca cola se non rientri nella sfera d’influenza dei clan. Insomma pizzo su pizzo. Ancora una volta all’insegna del grande affare economico.
La rivolta contro la “tessera del tifoso” può essere anche contro il rischio di un controllo troppo stretto delle forze dell’ordine sugli affiliati alle mafie?
In parte si, in parte no. C’è anche una fascia genuina di tifosi che si ribellano all’omologazione di una tessera che ha precisi risvolti commerciali nel tentativo di fidelizzazione della tifoseria. Ed il comportamento delle società nei confronti di questo ritrovato, contenendo un elemento di diffusa ambiguità, ha ulteriormente confuso le acque.
Come hai studiato questo fenomeno mafioso? Hai trovato difficoltà, ci sono dati, le procure hanno aperto dei dossier?
A parte la bibliografia corrente, non tropo cospicua, ho frugato nelle migliaia di pagine dei rapporti antimafia e delle inchieste di polizia, spesso suggestivamente denominate con etichette di battaglia. Un’inchiesta non può prescindere dai rapporti investigativi e dalle intercettazioni, uno strumento investigativo indispensabile per la ricerca. Come si sa, incredibilmente messo in discussione negli ultimi tempi.
Quando si parla di mafia, si intende anche camorra e ndrangheta?
Le mafie è un sostantivo plurale che tutto riassume. Dunque la mafia di cosa nostra, ma ‘ndrangheta, la sacra corona unita, la camorra e le infinite diramazioni localistiche. In Lucania ad esempio alcune di queste metastasi si incrociano in pericolose sintesi ad uso e consumo regionalistico e dei boss locali.
La connivenza dei presidenti delle società, è evidente e cosciente o si trovano a dover far buon viso a cattiva sorte come nel caso di imposizione del pizzo?
I presidenti cercano di non compromettersi e spesso fanno gestire questo intricato e compromettente tipo di rapporti con personaggi di livello inferiore nell’organigramma societario. In questo modo riescono a dimostrare la propria buonafede. Potrei fare l’esempio del Palermo di Zamparini dove il personaggio che si è bruciato per le proprie frequentazioni è stato il dirigente Foschi.
La politica si appoggia a questo fenomeno? La politica è cosciente che esiste?
La politica sa che il fenomeno esiste: la mafia. Come la mafia nel calcio. Spesso fa finta di dimenticarselo. Ma è in periferia e nelle isole che l’accoppiamento mafia-politica è più spesso verificato. Se il calcio è consenso è chiaro che può dare un cospicuo aiuto alla politica che su quello si fonda. Fino ad arrivare al voto di scambio.
Perché il calcio si ed altri sport no? Oppure ci sono anche infiltrazioni anche la?
Uno scandalo nel cricket ha dimostrato che c’era un movimento di scommesse internazionale che truccava le partite. Nel basket un dirigente siciliano è stato messo sotto scacco da Dell’Utri. Per la mafia diventano interessanti e di rilievo gli sport di maggiore esposizione economica. Dunque basket, pallavolo e ciclismo per quanto riguarda la realtà italiana.
PARLIAMO DI CALCIOPOLI.
Calciopoli. Ultima fermata.
Calciopoli non è nata certo nel nuovo millennio. Sin da quando è nato il calcio nel nostro Paese ha convissuto con scandali, sospetti, truffe, sospetti, violenze. Un secolo di lati oscuri del gioco più bello del mondo che il giornalista Antonio Felici racconta nel libro «Le pagine nere del calcio. Tutti gli scandali minuto per minuto» (edizioni Iacobelli, pagine 320).
Il volume ripercorre tutti i momenti in cui il pallone si è sporcato di fango, a partire dal primo scandalo, quello che portò alla revoca dello scudetto 1926-27 vinto sul campo dal Torino. Protagonista fu il terzino della Juventus Luigi Allemandi, accusato di avere intascato sostanziose mazzette per favorire la vittoria granata nel derby della Mole. Ci sono poi il calcioscommesse del 1980, quello che costò tra l'altro la retrocessione in serie B a Milan e Lazio; i sospetti di corruzione nella partita Italia-Camerun ai mondiali 1982, che consentì agli azzurri di passare il turno e iniziare la cavalcata verso il titolo iridato; il Totonero-bis del 1986; i sospetti sullo scudetto 1988, perso in modo rocambolesco dal Napoli si disse per scongiurare una superperdita di chi gestiva il Totonero; infine il calcioscommesse 2011.
E calciopoli, lo scandalo che fece tremare nel 2006 le fondamenta del calcio italiano e che rappresenta una ferita non ancora rimarginata, come dimostrano le polemiche attuali? Gli è dedicato il secondo capitolo, il più corposo del volume, intitolato «Moggiopoli».
Ma non di sola corruzione si parla nel libro di Felici. Ci sono anche capitoli dedicati ad altre ombre, come il doping, sia quello «selvaggio» praticato negli anni Settanta e Ottanta al quale si attribuisce una scia di calciatori morti (tra gli altri Beatrice, Rognoni, Lombardi e Signorini), sia quello più evoluto denunciato da Zdenek Zeman, allora allenatore della Roma, in un'intervista del 1998 all'Espresso. E poi c'è la pagina degli scandali amministrativi ed economici, e quella delle violenze che hanno costellato di croci decenni di calcio.
«Questo - spiega Felici - non è un libro di condanna, ma un atto d'amore, un grido di dolore. Vorrei tornare a raccontare il bello del calcio. E credo che l'unico modo per farlo sia affrontare i problemi. Ho scritto questo libro perchè mi sono accorto che il calcio è molto spesso esposto a situazioni bruttissime, a scandali che non dovrebbero toccare questo sport meraviglioso. Ho tentennato, perchè essere giornalista sportivo per me significava raccontare il gioco, non certo le vicende negative legate ad esso. Ma ho capito che l'unico modo per mantenere sano questo sport è vigilare. In caso contrario finiremmo per non avere più niente di bello da raccontare».
Ebook gratuito su calciopoli: "Il processo illecito". TUTTE LE VERITÀ NASCOSTE DELL'ESTATE DEL CALCIO: INTERCETTAZIONI ABUSIVE, SABBIE, FUMI, ABUSI DI POTERE E PROCURE CREATIVE. Le sentenze “Calciopoli” sanciscono che non ci sono partite alterate. Che il campionato sotto inchiesta, 2004-2005, è da considerarsi regolare. Ma che la dirigenza juventina ha conseguito effettivi vantaggi di classifica per la Juventus FC anche senza alterazione delle singole partite. In pratica, la Juventus è stata condannata per omicidio, senza che nessuno sia morto, senza prove, né complici, né arma del delitto. Solo per la presenza di un ipotetico movente. Sotto il nome di Luther Blissett si annida ogni scrittore e giornalista che lo desideri: lo pseudonimo è collettivo, a disposizione di tutti. “Il processo illecito”, approfondita ma appassionante analisi della vicenda ‘calciopoli’, è firmata proprio Luther Blissett. Vale a dire che è un documento anonimo. “Il processo illecito” è strutturato su più livelli di lettura. Ovvero può essere goduto da chi non sa nulla del cosiddetto “scandalo Juventus” come da chi ne conosce i minimi dettagli, o almeno così crede. Lo scopo del testo è diradare la nube di disinformazione che s’è abbattuta sulla vicenda ‘calciopoli’. A partire dall’enigma delle responsabilità. I campionati di calcio erano truccati; ma solo da Moggi? O hanno un senso anche le dichiarazioni di Paolo Bergamo, ex designatore degli arbitri di serie A, “tutti i dirigenti mi telefonavano ogni settimana, l’Inter con Facchetti più di tutti”? È vero che le intercettazioni di dirigenti come Facchetti e Galliani sono sparite all’inizio delle indagini per poi venire misteriosamente “dimenticate”? E se sì, cosa contenevano quelle intercettazioni? È vero che Galliani aveva promesso a Paparesta favori da parte del Parlamento italiano, all’epoca berlusconizzato? E se sì, quali favori? E perché nelle sue conclusioni la Procura di Torino ha sostenuto che, dalle intercettazioni telefoniche, si evinceva una realtà diametralmente opposta a quella emersa attraverso gli organi di stampa all’attenzione del popolo italiano? Attorno a tali inquietanti quesiti ruota l’inchiesta, che è in grado di appassionare quanti amano indagare - a prescindere dall’esito positivo o negativo della ricerca - la verità dietro le apparenze.
Il documento che state leggendo è stato concepito in maniera tale da venire incontro alle esigenze di tutti coloro che si avvicinano all’argomento trattato a seconda del loro grado di conoscenza della materia, proprio come fosse un corso di lingua organizzato in diversi livelli di difficoltà. Non pensiate che tale approccio derivi da una qualsiasi sorta di presunzione culturale, bensì molto più semplicemente da una pura constatazione della realtà dell’informazione massmediatica italiana degli ultimi periodo. O meglio, della disinformazione che sta alla base di tutta la questione qui esposta. Ecco che allora nella stesura del documento si è pensato di doverci rivolgere sia a coloro già introdotti agli argomenti e alle vicende del tema trattato, sia a coloro che vi si avvicinano senza alcun bagaglio informativo pregresso e che troverebbero quindi insostenibile la lettura, ad esempio, delle sentenze di primo e secondo grado della cosiddetta “giustizia sportiva”, se prima non fossero adeguatamente preparati, informati e portati a conoscenza delle basi su cui poggia tutto il teatrino dell’assurdo passato alla storia sotto il nome di “calciopoli” (o, sotto la forma di ancora più raffinata nonsense, con il nome di “moggiopoli”). Da qui l’esigenza di produrre questa Prima Edizione, di un successivo più ampio documento, in cui verrà descritto in modo discorsivo e fluido il senso di quello che è stato il processo alla Juventus e di gran parte di questa vicenda, il tutto supportato con citazioni e richiami alla documentazione ufficiale agli atti. Questa prima parte si conclude quindi con articoli e interviste di autorevoli personaggi che hanno espresso il loro parere, fuori dal coro, sull’argomento. Per il lettore “alle prime armi” questa parte può essere di per sé già sufficientemente esaustiva e per questo motivo si è deciso di pubblicare questa come edizione a sé stante, in modo tale da sfruttarne la doppia natura. La successiva edizione di questo documento, che si disegna come un approfondimento delle documentazioni ufficiali, potrebbe essere definita come il livello avanzato del “corso”: lì si analizzeranno nel dettaglio le documentazioni ufficiali e più precisamente le sentenze di primo e secondo grado, il ricorso al Tar e l’audizione di Borrelli davanti al Senato. Infine, nel concludere la presentazione di questo lavoro, vorremmo mettere in risalto un ulteriore aspetto: pur avendo tentato di portare alla luce il più possibile, ci rendiamo conto che oltre a quelli presentati, vi sono altri aspetti della vicenda ancora ben poco chiari, e che non sono, per diverse ragioni, ancora stati affrontati.
Ne vogliamo qui citare alcuni, per chiarire il contesto e darvi spunti di riflessione:
• le dichiarazioni di Paolo Bergamo (“tutti i dirigenti mi telefonavano ogni settimana, l’Inter con Facchetti più di tutti”);
• la sparizione delle telefonate di alcuni dirigenti che all’inizio di calciopoli appaiono, poi scompaiono o vengono “dimenticate” (Facchetti e Galliani);
• le citazioni sui presunti favori di Galliani in parlamento a Paparesta (anche questi “dimenticati” dal procuratore federale Palazzi);
• le dichiarazioni di De Santis (“molti mi chiamavano, mai sentito moggi”);
• le conclusioni della Procura di Torino che sostengono che dalle intercettazioni si evince esattamente il contrario di quanto affermato dalle accuse circa l’esistenza della “cupola” (conclusioni confermate dalle sentenze “calciopoli”) e chissà quante altre incongruenze che potremmo qua esserci dimenticati.
Tutte circostanze che, a dir poco, sarebbe stato opportuno verificare ed approfondire se solo si fosse voluto fare. Non tanto per istruire un “processo serio”, ma quantomeno per istruire un “processo” e non piuttosto una “Santa Inquisizione”.
Infine vorremmo concludere questa presentazione, con la classica forma dei ringraziamenti, che vanno a tutti coloro che nel forum hanno sostenuto, anche solo in modo morale, il topic dal quale trae spunto questo lavoro. Non vorremmo tediarvi fin dall’introduzione con ipotesi, commenti, pareri. Intendiamo piuttosto presentarvi i fatti così come ci sono stati forniti dagli organi di informazione. Inoltre osservarli con un occhio attento, critico e diffidente, ed evidenziare tutto ciò che non torna, che è incongruente, che ci hanno dato per scontato, o per vero, e invece non lo è affatto. Vi proponiamo fin d’ora un riassunto della nostra analisi, e se avrete la voglia di leggere il seguito, vi troverete tutte le conferme alle asserzioni qua sotto riportate:
1. Nelle accuse alla Juventus formulate dal Procuratore Federale Stefano Palazzi, sinteticamente, i fatti contestati si riferiscono alle seguenti partite 2004/2005:
1a: Juventus – Lazio Art. 6 CGS (illecito sportivo)
1b: Bologna – Juventus Art. 6 CGS (illecito sportivo)
1c: Juventus – Udinese Art. 1 CGS (comportamento scorretto)
1d: Classifica alterata
2. La Sentenza di Primo Grado (Pres. Cesare Ruperto) in merito a quei punti sentenzia che:
1a: non vi sono estremi di illecito, contempla solo Art. 1 CGS
1b: non vi sono estremi di illecito, contempla solo Art. 1 CGS
1c: è in effetti Art. 1 CGS
Ma sentenzia anche che la somma di Artt. 1 CGS di cui sopra ai punti 1a, 1b, 1 c'è stata funzionale al conseguimento dell’Art. 6 CGS di cui sopra al punto 1d.
3. La difesa della Juventus, tra le altre cose, obbietta che una sommatoria di più Artt. 1 (comportamento sportivo sleale e non probo) non può portare ad una incolpazione per Art. 6 (illecito sportivo), portando ad esempio la metafora che tante diffamazioni non comportano una condanna per omicidio: obiezione ineccepibile.
4. La Sentenza della Corte d’Appello (Pres. Piero Sandulli) conferma in toto la sentenza Ruperto, ma poichè il punto 3. (Obiezione della difesa della Juventus) è a tutti gli effetti da considerarsi ineccepibile, si sente di dover precisare che la inammissibile somma algebrica di Artt.1 è da considerarsi piuttosto come "ineliminabili tasselli funzionali alla realizzazione dell'art.6" (il “totale” di cui gli artt.1 sarebbero gli “addendi”).
In tutto questo sostenere che la classifica è effettivamente stata alterata è assurdo se preso come fatto avvenuto, poichè se avvenuto sarebbe opportuno e necessario specificare in quale partita ciò si sarebbe verificato. Invece, ed è questo l'aspetto strabiliante di tutta la vicenda, tutto il procedimento giuridico (dal dossier d’indagine dei CC alle sentenze delle corti federali) si è svolto eliminando di volta in volta le sospette partite illecite per manifesta infondatezza. Tutte e 38 le partite indagate sono state esaminate e in tutte e 38 non si è riscontrata alcuna anomalia; le ultime a cadere sono quelle scagionate dalla Corte d’Appello, ovvero Juventus-Lazio e Bologna-Juventus. Da qui il grottesco concetto di "classifica che si altera senza alterare alcuna gara".
Le sentenze “Calciopoli” sanciscono che non ci sono partite alterate. Che il campionato sotto inchiesta, 2004-2005, è da considerarsi regolare. Ma che la dirigenza juventina ha conseguito effettivi vantaggi di classifica per la Juventus FC anche senza alterazione delle singole partite. In pratica, la Juventus è stata condannata per omicidio, senza che nessuno sia morto, senza prove, né complici, né arma del delitto. Solo per la presenza di un ipotetico movente.
Il Libro approfondisce i temi trattati da Il libro nero del calcio. La Juventus. La Nazionale. I presidenti. Gli arbitri. Da Moggi a Giraudo. Da Pairetto a De Santis. E Lippi, Carrara, Biscardi.
Tutte le intercettazioni, telefonata per telefonata. Il libro nero del calcio. II testo integrale dell'atto di accusa dei carabinieri, 2006 Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A. Supplemento al settimanale L'espresso.
L'espresso offre in queste pagine un documento eccezionale: la ricostruzione completa dei metodi usati dalla cupola che ha dominato il calcio negli ultimi anni, attraverso l'informativa originale dei carabinieri del Nucleo operativo di Roma. Costituisce la base dell'indagine della Procura di Napoli e contiene migliaia di intercettazioni telefoniche, centinaia di verbali e decine di note sui pedinamenti dei big del calcio: Luciano Moggi e Antonio Giraudo, all'epoca rispettivamente direttore generale e amministratore delegato della Juventus; Pier Luigi Pairetto e Paolo Bergamo, designatori arbitrali dal 1998 al 2005; Massimo De Santis, arbitro internazionale, considerato dagli inquirenti il principale referente di Moggi nella categoria dei fischietti; un altro ex designatore (nell'anno 1997-98) e commentatore della moviola su La7, Fabio Baldas; Tullio Lanese, ex presidente dell'Associazione italiana arbitri; Franco Carraro, allora presidente della Federazione italiana gioco calcio; il suo vice, Innocenzo Mazzini; il segretario generale Francesco Ghirelli; Maria Grazia Fazi, potente segretaria della Commissione arbitrale (Can); il segretario generale del Coni, Raffaele Pagnozzi; alcuni dirigenti di società calcistiche come Diego e Andrea Della Valle (Fiorentina), Claudio Lotito (Lazio), Pietro Franza (Messina) e Leonardo Meani (Milan).
Molto importante in questa documentazione anche il ruolo di procuratori sportivi, mediatori e dirigenti delle società di "valorizzazione" dell'immagine dei calciatori, come la famosa Gea: Alessandro Moggi (figlio di Luciano), Davide Lippi (figlio del e. t. della Nazionale, Martello). Chiara Geronzi (figlia del numero uno di Capitalia, Cesare), Riccardo Calieri (figlio dell'ex presidente della Lazio e del Torino, Gian Marco), più altri personaggi minori, sempre legati alla Gea.
Non mancano in queste intercettazioni diversi giornalisti sportivi e non, come lgnazio Scardina e Ciro Venerato (Rai), Aldo Biscardi (La7), Lamberto Sposini (ex numero due del Tg5 e ospite abituale al "Processo di Biscardi"), Tnny Damasceni e Franrn Melli (opinionisti tv).
"L'espresso" ha scelto di pubblicare integralmente questa documentazione (omettendo solo gli indirizzi privati e le utenze telefoniche delle persone intercettate) per permettere ai lettori di farsi un'idea delle dimensioni di questo scandalo, avendo a disposizione un materiale esauriente e di prima mano, frutto di due anni di indagine da parte dei carabinieri. Quello che pubblichiamo, redatto con un linguaggio molto chiaro dal maggiore dei carabinieri Attilio Auricchio, completo delle quattro "informative di reato" confluite nell'indagine "Off Side" (in inglese, "fuori gioco") coordinata dai sostituti procuratori di Napoli Giuseppe Narducci e Filippo Beatrice. L'inchiesta nasce da una costola di un procedimento (seguito da questi due magistrati) sulla camorra napoletana e in particolare sui rapporti tra il sottobosco del calcio e il clan Giuliano di Forcella. Partendo dai pubblici ministeri - attraverso una serie di intercettazioni - hanno scoperto un giro di calciatori che scommettevano sulle partite del campionato. In alcune di queste conversazioni sono saltati fuori i nomi di due arbitri, Luca Palanca e Marco Gabriele. La posizione dei due fischietti in quell'indagine è stata archiviata, ma le intercettazioni e i pedinamenti sono continuati perchè i pm volevano capire se erano stati commessi altri reati, tra cui quello di frode sportiva e violazione delle regole della concorrenza con minacce: è il settembre 2004. A questo punto, di telefonata in telefonata, nasce l'indagine Off Side, che mette nel mirino il cuore del sistema calcistico, a partire dalla Gea e dal condizionamento degli arbitri operato da una cupola di potere caratterizzata non solo dalla forza interna ma anche dalle alleanze trasversali tra dirigenti di alcuni grandi club, procuratori e arbitri. E' bene precisare che le 39 persone i cui nomi aprono il documento non sono tutte indagate: infatti alla denuncia della polizia giudiziaria (in questo caso i carabinieri) ha fatto seguito un'autonoma valutazione dei magistrati, che hanno iscritto nel registro degli indagati solo una parte delle persone segnalate dai carabinieri. Inoltre solo per alcuni (Moggi, Giraudo, Mazzini, Bergamo, Pairetto, Lanese, De Santis, Fazi, Mazzei, Ghirelli, Rodomonti, Baglioni, e Scardina) è stato ipotizzato il reato più grave, quello di associazione per delinquere.
Ma tenuto conto degli sviluppi ci sono delle reazioni.
«Paolo Dondarini ha presentato un esposto diretto alla Procura della Repubblica di Roma con il quale ha posto formalmente la questione in ordine alla genesi delle scelte investigative che hanno condotto a 'brogliacciare', trascrivere ed utilizzare soltanto una parte delle intercettazioni effettuate nel contesto delle indagini e non altre, pure presenti agli atti ed oggettivamente di decisiva rilevanza probatoria. - Lo rende noto l'avvocato bolognese Gabriele Bordoni che assiste l'ex arbitro Dondarini nel processo 'Calciopoli'. - Ricordando che nella logica dell'attuale processo penale sussiste obbligo del Pubblico Ministero rispetto allo svolgimento d'indagini anche in favore dell'indagato e che l'articolo 111 Costituzione consacra il diritto alla prova per l'indagato-imputato (che significa garantire al soggetto le condizioni per poter conoscere appieno il materiale d'indagine e per provare i fatti utili e favorevoli alla propria difesa), si deve registrare che nel procedimento noto alle cronache con il nome di 'calciopoli' ci si è discostati da tali principi, dal momento che l'approfondita rilettura degli atti processuali (resa possibile soltanto dallo sforzo immane compiuto dai consulenti di altre difese che hanno impiegato un tempo enorme, di cui Dondarini non disponeva, visti i ritmi del Giudizio abbreviato che aveva prescelto come era suo diritto), ha rivelato numerose intercettazioni telefoniche effettuate nel corso delle indagini preliminari – dalle quali emergono circostanze decisive al fine di dimostrare la sua estraneità ai fatti – che non erano state in alcun modo evidenziate ed, anzi, erano state catalogate in maniera tale da non consentirne in concreto il rinvenimento nè l'impiego processuale (da parte delle difese e dello stesso Giudice). La rilevante quantità di comunicazioni intercettate certamente avrà creato qualche difficoltà di analisi e cernita, ma è singolare come tutte le captazioni ora rinvenute e trascritte presentino note oggettivamente favorevoli alle tesi difensive mentre erano state tutte relegate nel limbo dell'introvabile; difficile pensare che siano sfuggite casualmente proprio tutte le intercettazioni nelle quali era direttamente coinvolto Dondarini e che ne rilevavano palesemente un atteggiamento inconciliabile con le accuse».
Calciopoli choc: «Tutto quello che non sapete». Inchiesta de “Il Corriere dello Sport”.
Un investigatore rivela: «Troppi buchi nelle intercettazioni, è stata una cosa forzata: non abbiamo mai scoperto una vera partita truccata».
Parla uno degli uomini di Calciopoli. Parla, racconta, descrive pagine di un libro inedito, svelandoci le “sue” verità. L'idea è che le sue rivelazioni non siano solo un sasso nello stagno ma uno stimolo al dibattito. E su queste colonne chi vuole e vorrà rispondere troverà uguale ospitalità. Intanto, il nostro interlocutore parla (ci dice) per liberarsi da un peso, per sperare che la “sua” verità possa diventare verità storica. Un appuntamento mancato nei dintorni di Firenze, l’attesa attorno all’ora di pranzo, un hotel a fare da coreografia. Viene o non viene? No, non verrà, un contrattempo, all’ultimo momento, perché succede così anche nei film che fanno botteghino. Ma è una parentesi, che si chiude qualche giorno dopo, nel cuore di Roma, un ufficio con vista fra la cupola di San Pietro e il Tevere, mentre intorno brillano le luci di Natale. Si comincia che il sereno del cielo sta per farsi azzurro, si finisce che è notte ed il freddo è tornato pungente. Parla, uno degli uomini di Calciopoli. Non uno qualsiasi, però. Ma uno che, in quell’inchiesta, stava dall’altra parte, dalla parte di chi, quelle indagini, le ha fatte. Un investigatore. Ci qualifichiamo, i documenti sul tavolo, non per mancanza di fiducia, ma per garanzia reciproca. Chiede che il suo nome non venga svelato sul giornale. E poi racconta....
Calciopoli, definito il più grande scandalo del calcio mondiale, nasce da quale inchiesta?
«La cosa degli arbitri, l’inchiesta che stava a Napoli. Da lì poi parte un supplemento di indagini, perchè a Torino avevano archiviato e mandato gli atti... Da questo hanno preso spunto e da lì sono partite varie intercettazioni, all'inizio erano due telefoni controllati, telefonino e telefono di casa...»
Da due telefoni a oltre centosettantamila intercettazioni?
«Si allarga il giro con le telefonate: questo conosceva quello, quello conosceva quell'altro e si iniziano a mettere tutti i telefoni sotto controllo. In un momento uscivano venti numeri di telefono nuovi. Parlavano, parlavano... Parlavano di stupidaggini alla fine, niente di che... Fino a quando si è arrivati a Moggi. Anche se, quando senti il sonoro, quello scherza, quell'altro fa il fenomeno...».
Lei ascoltava le telefonate?
«Si, sentivo le intercettazioni».
Quanti eravate?
«Dodici, ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, in via in Selci. Ma non pensate alle bobine di una volta. Ci sono computer, entri con la password...e ognuno seguiva una singola utenza.. Poi alla fine si faceva una riunione, io ho seguito questo, ho seguito quell'altro e si faceva resoconto».
Ci spieghi una cosa: come mai le telefonate che riguardavano l’Inter non sono entrate nell’inchiesta? Eppure il loro tenore non era diverso da quelle che abbiamo letto, dal 2006 ad oggi...
«Noi facevamo i baffetti: dopo ogni telefonata usavamo il verde se le conversazioni erano ininfluenti, l’arancione se c'era qualche cosettina. Col rosso parlavano di calcio (nel senso, cose che potevano interessare all’inchiesta). Noi facevamo un rapido riassunto, un brogliaccio. Ogni telefonata aveva il suo brogliaccio, nome cognome e di cosa parlavano, se era interessante.. C'era una cartellina con il nome».
Ha mai intercettato una telefonata dell’Inter? Le ha mai sentite? Sapeva che c’erano?
«Che ci stavano sì, ma io personalmente no. Io facevo altro...»
Ma lei ha mai sentito Bergamo, ad esempio, che parlava con Facchetti. O con Moratti.
«Tu non è che fai sempre gli stessi... Se capita che non ci sei, c'è un altro che ascolta».
Una giornata a sentire le intercettazioni, a mettere i baffetti e scrivere i brogliacci. E poi?
«Tutte le sere si facevano le riunioni a fine servizio. Attorno ad un tavolo».
Ha mai avuto la sensazione di “tagli”?
«No. Che poi c'erano Auricchio (il tenente colonnello del Nucleo Investigativo dei Carabinieri) e Di Laroni (maresciallo capo dei Carabinieri) che decidevano cosa mettere o non mettere nell'informativa è un altro discorso. Ma durante le riunioni no».
Però alcune intercettazioni non sono finite nell’inchiesta, nelle indagini. Un’anomalia?
«C’erano perché ci sono le registrazioni. La cosa un po’ anomala è il server delle intercettazioni.
E’ in Procura, a Roma, a Piazzale Clodio. Quando c’era qualche problema, e capitava spesso, telefonavamo a chi era in Procura: “Guarda, la postazione 15 qui non funziona, che è successo?” “Vabbé adesso controllo....”. Dopo un po’ richiamavano da Piazzale Clodio: “Ti ho ridato la linea, vedi un po’”. Andavi a controllare, magari avevi finito alla telefonata 250 e ti ritrovavi alla telefonata 280. E le altre 30? “Me le so perse...”».
Chi contattava il responsabile del server a Piazzale Clodio?
«Non ci parlavamo solo noi, c’era anche il responsabile della sala. Ci parlava Auricchio, ci parlava Di Laroni...».
E’ tecnicamente possibile non intercettare un’utenza sotto controllo per un determinato periodo di tempo?
«Tranquillamente. Tu stacchi il server e la cosa si perde».
Torniamo alle telefonate alle quali avevate messo i baffetti rossi: non sono finite nell’inchiesta.
«Evidentemente non ci dovevano andare, che devo dire.... Non lo so questo. So soltanto che quello che veniva fatto, veniva fatto per costruire. Poi io ti porto il materiale, t’ho portato il mattone ma se tu non ce lo metti, sto mattone..».
Vi hanno detto che l’indagine doveva essere fatta su Moggi, Bergamo, Pairetto, eccetera?
«No, no. Noi eravamo liberi».
Quindi il lavoro di scrematura veniva fatto dopo?
«Sì, nella seconda fase».
Avete mai intercettato le sim estere? Quelle del gestore svizzero, per capirci.
«Quando vai ad intercettare una scheda straniera, in questo caso Svizzera, devi chiedere l’autorizzazione. E loro che cosa hanno fatto? L’hanno chiesta ma, nello stesso tempo, hanno già attaccato il telefono. Ma a quel telefono non parlavano. In quindici giorni, questa scheda, non ha fatto niente».
Di chi era la scheda?
«Di Luciano Moggi».
Non la usava?
«Non faceva niente, telefono muto. E’ come se tu metti sotto (controllo) questo telefono (e indica il suo) e poi questo è spento per un mese. Zero. E quindi questa cosa delle schede è stata un po’ accantonata perché poi l’autorizzazione non te la dava nessuno».
Si parlava di anomalie.
«Nel corso di questa indagine sono nate delle cose che inizialmente non c’erano, mentre cose che inizialmente c’erano, non ci stanno più».
Cioè?
«Un esempio di quello che non c’era e si è materializzato nel giro di poco tempo: Martino Manfredi (ex segretario della Can A-B). Quando l’abbiamo portato in ufficio era morto, era un cadavere, tremava, aveva paura... Diceva: “io non so niente, non ‘è successo niente, ma quando mai... “. E piangeva sul fatto del posto di lavoro... “come faccio... non posso lavorare più, mi devo sposare...”. Dopo un po’ di tempo, sto Martino un giorno è andato a lavorare in Federcalcio.... quando lui ha cominciato ad essere interrogato.... improvvisamente è uscita la storia delle palline. Quella è la cosa che io dico: è lecito e capibile da parte sua, un po’ meno da.... »
Si può definire un pentito?
«Non lo so. Prima non sapeva niente, poi sapeva tutto, sapeva di questo, di quell’altro, di Pairetto, della Fazi...».
Lei ha detto: cose che inizialmente c’erano, non ci stanno più. Cioè?
«La storia dell’intercettazione ambientale a Villa La Massa, vicino Firenze».
E’ il pranzo che secondo l’accusa rappresenta l’architrave del patto per salvare la Fiorentina. Andrea e Diego Della Valle da una parte, Mazzini e Bergamo dall’altra. Bene, e cosa non c’è più?
«Di questo incontro si è saputo nell’arco di 4, 5 giorni, attraverso le intercettazioni. Il servizio era organizzato con telecamera e microfono direzionale. Se la cosa fosse stata fatta in un locale dove c’era gente e avendolo saputo «Scoppiò una lite tra capi: uno voleva chiudere il caso l’altro no e si andò avanti» un po’ prima, si potevano mettere microspie dappertutto. Invece così, in pochissimo tempo, e non a Roma ma a Firenze, era difficoltoso. Con il microfono direzionale, a cinquanta, cento metri, senti quello che uno dice. E lo filmi con la telecamera. Però sta voce non s’è mai sentita.... Io so che l’hanno sentita... Questa cosa è importante perché là io so che non hanno parlato di niente. Questi qui hanno parlato ma non hanno detto niente di.... Magari pensi che Della Valle abbia detto a Mazzini: “Dai, famme vince, mandami quest’arbitro”, che sarebbe stata una cosa penalmente rilevante. Invece, non hanno detto niente. Ci sono le immagini, Diego e Andrea che scendono dal furgoncino, che si sono incontrati con Bergamo. Hanno dato più rilevanza a questo che non facendo sentire l’audio».
Secondo lei, quindi, l’audio c’è?
«Non secondo me. L’audio c’è».
Sicuro?
«Sicuro».
La difesa della Fiorentina, durante il processo, ha puntato proprio sulla presunta esistenza di quest’audio....
«La Fiorentina evidentemente qualcosa ha saputo... E’ come il fatto del “Libro nero” (dell’Espresso), cioè, sto libro nero da là è uscito, non è un foglio, è tutta l’informativa e qualcuno l’ha data all’Espresso. Quindi i buchi ci stanno. Della Valle qualcosa sa».
Come funziona un’intercettazione ambientale con il microfono direzionale?
«E’ una valigetta, c’è un microfono che somiglia ad una specie di pistola con una parabola. La punti verso il soggetto....Ma da quel giorno non s’è saputo più nulla di questa cosa qua...».
Ricorda altre situazioni poco chiare?
«No, a queste ho sempre pensato. E mi dico: perché uno deve passare i guai, per che cosa? E quell’altro, perché deve andare dentro? Moralmente ti pesa, dopo un po’ ti dici: mamma mia».
Tra quelli che sono stati condannati in primo grado, quali sono quelli che pagano troppo o ingiustamente?
«Io dico la verità, la maggior parte. Cioè, è una cosa fatta, forzata un po’, ci stava la telefonata, però se vai a vedere effettivamente le partite, partite veramente truccate, dove l’arbitro è stato veramente coinvolto. Non ci sono. Non c’è la partita dove si dice: adesso li abbiamo beccati. Si era parlato di questo è Lecce-Parma, di De Santis, quella di “mi sono messo in mezzo”. E’ una spacconeria, quello voleva fare il fenomeno».
Sì, ma sono state condannate tante persone. Lei, invece, parla di spacconate: qualcosa non torna....
«Secondo me, di veramente importante, che uno deve prendere cinque anni, sei anni, non ci sta niente. Poi magari pensi all’eccessivo modo spavaldo di Moggi che può dare anche fastidio, questo ci può stare, quello è il periodo in cui era prepotente, arrogante. Ma da lì ad arrivare a.... Bisognava dimostrare che c’era un’associazione. Lui, solo lui (Moggi) fa l’associazione? Così è un’altra cosa... E’ una questione di prestigio, di carriera».
Ma l’hanno fatta tutti, la carriera?
«Mica tanto: Auricchio e Arcangioli stanno alle scuole.... non è che so stati proprio premiati....Uno alla scuola Ufficiali, uno alla scuola Allievi...»
Non ricorda niente altro di particolare. Non necessariamente di anomalo. Magari anche solo di curioso.
«Mi hanno raccontato di alcune cenette: Auricchio, Arcangioli, Narducci, anche altri personaggi che hanno segnato quel periodo di Calciopoli. In qualche caso, mi sono chiesto che importanza poteva avere andare a mangiare con Narducci. Sono andati a cena a Napoli, di fronte al Vesuvio, a Castel dell’Ovo... da Zi’ Teresa. E non c’erano solo gli investigatori».
Ha detto che non c’era nulla di
penalmente rilevante: c’è stato qualcuno che, ad un certo punto, ha avuto dubbi
sul peso dell’indagine, sulla necessità di continuare ad andare avanti?
«Sì, Arcangioli. Disse: basta. E lì è nato lo
scontro con Auricchio, arrivarono ai ferri corti».
Quindi voleva stoppare l’indagine perché debole?
«Sì, Arcangioli sì. Erano impegnate quindici, venti persone per questa cosa qua. E l’autista; e quello che deve andare di continuo a Napoli. Non era cosa... In una sezione di sessanta persone, ne levi quindici, le altre fanno tutto il lavoro».
Qualche pentito c’è stato?
«No».
In via in Selci (è la sede del Nucleo Investigativo dei Carabinieri), dove si sono svolti gli interrogatori, sarebbero successe due cose: una che Moggi si mise a piangere e l’altra che l’ex arbitro Paparesta accusò un malore: verità o leggenda?
«Non è vero».
Il resoconto dai più importanti giornali. Il Corriere della Sera, La Stampa, Libero news.
Per il Tribunale di Napoli il sistema Moggi esisteva. Ed esisteva la Cupola del pallone, un'organizzazione con arbitri, designatori e dirigenti federali che nella stagione 2004-2005 condizionò il campionato di calcio di serie A per un solo scopo: favorire la Juventus e le altre squadre che si mettevano sotto la protezione dell'uomo che della Juve era il direttore generale. Il processo Calciopoli è finito. E la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Napoli condanna a cinque anni e quattro mesi di reclusione Luciano Moggi, in quanto capo e promotore di quella Cupola che in termini giuridici fu una associazione per delinquere. Intorno a lui gli ex designatori arbitrali Paolo Bergamo (tre anni e otto mesi) e Pierluigi Pairetto (un anno e 11 mesi), l'ex direttore di gara Massimo De Santis (un anno e 11 mesi anche per lui) e l'ex vicepresidente della Federcalcio Innocenzo Mazzini (2 anni e 2 mesi).
Il bilancio complessivo del processo conta sedici condanne e otto assoluzioni. Riconosciuti responsabili di frode sportiva, tra gli altri, i fratelli Diego e Andrea Della Valle, proprietari della Fiorentina, il presidente della Lazio Claudio Lotito, quello della Reggina Lillo Foti e gli ex arbitri Salvatore Racalbuto e Paolo Bertini. Assolti, invece il giornalista Ignazio Scardina, il dirigente del Messina Mariano Fabiani, e l'ex segretaria della Can (la commissione arbitri) Maria Grazia Fazi, unica donna tra i 24 imputati. È una sentenza che sposa in larghissima misura l'impianto accusatorio messo in piedi dalla Procura di Napoli, con i pubblici ministeri Filippo Beatrice e Giuseppe Narducci (il primo alla Direzione distrettuale antimafia e il secondo in aspettativa e assessore nella giunta del sindaco di Napoli de Magistris), e sostenuta in aula, nella seconda fase del dibattimento, dal pm Stefano Capuano. È suo l'unico commento alla sentenza: «Dimostra che il lavoro della Procura non era affatto una farsa». Da Moggi invece nemmeno una parola davanti a taccuini e microfoni. Appena il giudice Teresa Casoria finisce di leggere la sentenza e se ne va da un'uscita laterale dell'aula 216, Moggi attorniato dal suo immancabile stuolo di consulenti e accompagnatori abituali gli sussurra in lacrime: «Mi hanno ucciso». In aula restano il suo avvocato Maurilio Prioreschi, a spiegare che sicuramente ricorreranno in appello, e suo figlio Alessandro, a guardare nel vuoto, mentre pochi minuti prima aveva accompagnato l'intera lettura del dispositivo scuotendo la testa. Anche Paolo Bergamo se ne va senza dire una parola, ma a mezza voce ne dice molte e pure pesanti, tanto che il suo avvocato, Silvia Morescanti, deve quasi portarselo via a forza. E, come gli altri condannati, annuncia che ricorrerà in appello. E sarà proprio il ricorso al secondo grado di giudizio che potrebbe sospendere la pena accessoria forse più eclatante, tra quelle comminate: il divieto di accedere a luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive e di presiedere società sportive per tre anni. Se e quando questa pena diventerà esecutiva, Lotito dovrà lasciare la presidenza della Lazio e insieme con i Della Valle, Foti e tutti gli altri (compreso ovviamente Moggi), le partite potrà guardarsele soltanto in televisione.
Le condanne:
5 anni e 4 mesi Luciano Moggi ex ad Juventus;
3 anni e 8 mesi Paolo Bergamo ex designatore Can;
2 anni e 2 mesi Innocenzo Mazzini ex vicepresidente Figc;
1 anno e 11 mesi Pier Luigi Pairetto ex designatore Can e Massimo De Santis ex arbitro;
1 anno e 8 mesi Salvatore Racalbuto ex arbitro;
1 anno e 6 mesi Pasquale Foti presidente Reggina;
1 anno e 5 mesi Paolo Bertini ex arbitro Antonio Dattilo ex arbitro;
1 anno e 3 mesi Claudio Lotito presidente Lazio e Andrea Della Valle pres. onorario Fiorentina e Diego Della Valle azionista Fiorentina e Sandro Mencucci ad Fiorentina;
1 anno Leonardo Meani ex addetto arbitri Milan e Claudio Puglisi ex assistente e Stefano Titomanlio ex assistente.
Assolti: Pasquale Rodomonti ex arbitro; Maria Grazia Fazi ex segretaria Can; Mariano Fabiani ex ds Messina; Gennaro Mazzei ex designatore assistenti; Ignazio Scardina giornalista; Marcello Ambrosino ex assistente; Enrico Ceniccola ex assistente; Silvio Gemignani ex assistente.
Ci sono sentenze che sorprendono e altre che non sorprendono. Quella partorita dopo un lustro di chiacchiere e colpi di scena nell’aula 216 del tribunale di Napoli ha sbalordito tutti quanti: non colpevolisti, colpevolisti, menefreghisti, informatissimi. Si può essere amici di Moggi o acerrimi nemici, si può tifare la Juve, l’Inter, l’Oratorio Mariuccia, si può amare il calcio o detestarlo, ma quel che è accaduto deve far riflettere tutti quanti. Il processo Calciopoli è un suffle che s’è sgonfiato sul più bello. Appena messo in forno eravamo tutti convinti: Moggi è colpevole, gli altri imputati forse. Poi il suffle ha preso forma e le cose son cambiate di molto: la difesa di big Luciano ha prodotto prove, testimonianze, ha smontato accuse, ha dimostrato in maniera insindacabile che il calcio pre-2006 era un mare di fango e porcherie dove tutti (ma proprio tutti) si muovevano nel sottobosco secondo la legge del «io faccio così, perché lui fa cosà. Se io non mi cautelo, quello là me la mette in quel posto e buonanotte». Abbiamo ascoltato intercettazioni di ogni genere e anche i commentatori più intransigenti alla fine si son convinti: «Ma quale Cupola, al massimo Moggi era quello cui piaceva far credere di contare più degli altri». La sentenza dice una cosa più di altre: sforzarsi di dimostrare la propria innocenza a volte non basta. Succede quando l’opinione pubblica vive di un imprinting vecchio cinque anni. Nel 2006 per tutti Moggi era un Padrino, chissenefrega se il suo lavoro e quello dei suoi avvocati ha stravolto le carte. C’è di che preoccuparsi, soprattutto quando ti accorgi che, calcio o “vita”, certe consuetudini non cambiano.
La Juve ha prodotto un comunicato per scaricare Moggi in tre minuti netti. Probabilmente era già pronto. In ambito giornalistico li chiamano “coccodrilli”. Servono per dire addio a qualcuno che ha lasciato il segno. Moggi ha fatto diventare la Juve il club n° 1 al mondo, la Juve ricambia con una badilata sulla schiena. Mah.
Sbatti Luciano Moggi in prima pagina, e di qualcun altro è meglio dimenticarsi. Tra i mille risvolti della sentenza napoletana su Calciopoli, che ha visto la pesante condanna dell'ex dg della Juventus a 5 e anni e 4 mesi e degli ex designatori Bergamo e Pairetto ce n'è uno che in questi mesi rischia di essere più extracalcistico che pallonaro. Diego Della Valle, il patron della Fiorentina nonchè grande indignato, anti-politico e Sol dell'avvenire che mette d'accordo terzopolisti e salotti radical-chic è stato condannato a un anno e tre mesi così come il fratello Andrea e il presidente della Lazio Claudio Lotito. Un anno di reclusione anche per l'ex responsabile dei rapporti con gli arbitri del Milan, Leonardo Meani, tutti per frode sportiva. Fra tutti, però, la condanna più pesante come riflessi è senz'altro quella dello scarparo. Però di Della Valle non ha parlato quasi nessuno. Come sottolinea Dagospia, il TgLa7 di Enrico Mentana ha relegato la notizia della sentenza in fondo in fondo, e fin qui nulla di male: una più che legittima scelta editoriale nel giorno delle dimissioni di Berlusconi. La stranezza è che Mentana si è dimenticato di citare Diego, suo celebre testimone di nozze. Forse proprio perché era caduto Berlusconi, non era il caso di citare chi si è candidato da tempo a sostituirlo...
Un foglio in mano e, accanto, i suoi avvocati. Luciano Moggi è caduto, ma è pronto a rialzarsi facendo rotta sul processo d'appello: la ripartenza di big Luciano comincia dallo studio romano dei legali Maurilio Prioreschi e Paolo Rodella.
Cinque anni e quattro mesi, la pena. Moggi era l'unico promotore della «cupola» che governava il calcio nella stagione 2004-2005, scrivono i giudici. Teme di restare il solo a pagare? «Non temo niente, penso solo al momento in cui tornerò in aula per l'appello: il verdetto sarà completamente diverso...».
Moggi unico promotore della vicenda e Juventus che da un paio di giorni è uscita dal processo... «In campo non andavo certo io. Mica stiamo parlando di Moggi-Udinese o Moggi-Lazio: non capisco e sono sorpreso per l'atteggiamento del club. Come si fa a pensare che non facessi gli interessi della Juve? Li ho fatti anche con le sim straniere: ero pedinato e intercettato, dovevo difendere le nostre strategie di mercato. Me le hanno comprate loro. Andrea (Agnelli) fa benissimo a chiedere la restituzione dei due scudetti, li abbiamo vinti meritatamente perché eravamo i più forti».
Ma in quella Juve chi era il vero rappresentante legale del club con diritto di firma? «Antonio (Giraudo). Lui, per me, era la società e a lui spettava mettere la firma anche per un euro di spesa. Io facevo la squadra».
In questi mesi, lei ha più volte usato parole al miele per la nuova Juve. Ora si è rotto qualcosa? «Le ho usate e lo rifarò. Per me non è cambiato niente, però quanta fretta a prendere le distanze ora che nessuno può più chiedere i danni alla società bianconera».
Ritorniamo al momento della lettura delle sentenze... «C'era un silenzio, uno strano silenzio in aula. Ho immediatamente pensato che avremmo fatto bene anche noi a chiedere la ricusazione del collegio, così come fatto dall'accusa in più di un'occasione. Non c'era serenità fra le tre donne giudici, da quando le due a latere avevano testimoniato contro la presidentessa Casoria».
A proposito della ricusazione del giudice Casoria. Situazione strana per certi versi e che spinge alla dietrologia, soprattutto perché chi potrebbe giovare dall’allontanamento del giudice non saranno né Luciano Moggi né gli imputati, che hanno chiesto a più riprese che si ottenga una sentenza e la verità. Cerchiamo di fare un po' d'ordire. Narducci e Capuano pm di Calciopoli presentano al Tribunale di Napoli una richiesta di ricusazione nei confronti della Casoria che dicono non avere la giusta serenità nell’elaborare una sentenza. In parallelo c’è un esposto al Csm contro di lei per ripetuti insulti e minacce a colleghi e sottoposto. Il Consiglio dei Magistrati riunitosi ha censurato questo tipo di atti e confermato le accuse mosse alla Casoria. Cosa c'entra questo con Napoli? C'entra perché questa decisione potrebbe influenzare i giudici della Corte d’Appello ad accettare l’istanza di ricusazione che vorrebbe dire ripartire da zero con le indagini. Una situazione che per certi versi suona strana. Di solito sono le difese a ricusare un giudice, poiché non si sentono tutelate o ritengono che il giudice possa non essere “libero” e imparziale nel giudicare. Intanto la settima sezione della Corte di Appello di Napoli (Presidente Di Mauro, Relatore Cappiello, a latere Giudice Acierno) ha rigettato la richiesta di ricusazione del Giudice di Calciopoli, Teresa Casoria. La Casoria rimane al suo posto, dunque, superando la terza istanza di ricusazione, la seconda formulata dai pm Narducci (ormai fuori dal processo) e dal suo collega Capuano. Nelle cinque pagine di conclusioni della vicenda, le giudici della Corte d'Appello sottolineano che la Casoria è stata in udienza un giudice giusto e senza alcuna animosità nei confronti dei pm, riconoscendo peraltro le difficoltà "caratteriali" della composizione della Corte. I giudici sottolineano, però, che i momenti di frizione tra la Casoria e le sue due colleghe Gualtieri e Pandolfi non hanno in alcun modo creato problemi alla vita del processo Calciopoli.)
É vero che come dice il suo grande accusatore, il pm Narducci, lei si è difeso più puntando l'indice sul coinvolgimento di altri protagonisti che pensando a smontare le accuse sul suo conto? «Narducci, adesso, è in Comune a fare l'assessore. Bene, farebbe meglio a stare zitto. Ma come si fa a condannare una persona per un vantaggio di gioco non fischiato come nel caso di Kakà contro la Juve? Narducci fa il politico, Palamara, mio accusatore nel processo Gea, è diventato segretario nazionale dell'Associazione magistrati: se mi fanno un altro processo diventano Presidenti della Repubblica (ride)».
Moggi è la rovina del calcio italiano? «Moggi, al calcio italiano, ha fatto vincere un Mondiale: andatevi a leggere come era composta l'Italia a Berlino».
Moggi cade nelle ore in cui la storia del premier Berlusconi è destinata a cambiare. Strane coincidenze... «Io sono caduto da tempo, in questo ho di gran lunga preceduto Berlusconi. E, comunque, non mi sono mai fatto male...».
Il più grosso rimpianto? «Vedere andare in fumo il duro e vincente lavoro mio e di Giraudo. A Napoli è finito solo il primo round, aspetto il secondo per la rivincita».
Per i posteri per non dimenticare e ricordare che la storia, come la conosciamo, la scrivono sempre i vincitori, per questo spesso è menzognera. Un resoconto asettico di una vicenda che ha fatto parlare e scrivere tanto.
Campionato di calcio 2004-2005. Allenatore Fabio Capello. Rosa della Juventus:
1 Gianluigi Buffon – nazionale Italia, portiere più forte al mondo
2 Ciro Ferrara – nazionale Italia
3 Alessio Tacchinardi – nazionale Italia
4 Paolo Montero – nazionale Uruguay
5 Igor Tudor – nazionale Croazia
6 Nicola Legrottaglie – nazionale Italia
7 Gianluca Pessotto – nazionale Italia
8 Emerson – nazionale Brasile
9 Zlatan Ibrahimović – nazionale Svezia. Capo Cannoniere del campionato (16)
10 Alessandro Del Piero – nazionale Italia
11 Pavel Nedvĕd – nazionale Repubblica Ceca
12 Antonio Chimienti
13 Mark Iuliano – nazionale Italia
14 Alessandro Birindelli – nazionale Italia
15 Mauro Germán Camoranesi – nazionale Italia
16 David Trezeguet – nazionale Francia
17 Stephen Appiah – nazionale Ghana
18 Gianluca Zambrotta – nazionale Italia
19 Manuel Blasi – nazionale Italia
20 Lilian Thuram – nazionale Francia
21 Landry Bonnefoi
22 Olivier Kapo – nazionale Francia
23 Ruben Olivera – nazionale Uruguay
24 Marcelo Danubio Zalayeta – nazionale Uruguay
25 Jonathan Zebina – nazionale Francia
26 Fabio Cannavaro – nazionale Italia
27 Adrian Mutu – nazionale Romania
28 Domenico Criscito – nazionale Italia
29 Christian Abbiati – nazionale Italia
30 Andrea Masiello
31 Andrea Rossi
32 Paolo De Ceglie – nazionale Italia
33 Rey Volpato
34 Michele Paolucci - nazionale U 21
Campionato di calcio 2005-2006. Allenatore Fabio Capello. Rosa della Juventus:
1 Gianluigi Buffon – nazionale Italia, portiere più forte al mondo
2 Alessandro Birindelli – nazionale Italia
3 Giorgio Chiellini – nazionale Italia
4 Patrick Vieira – nazionale Francia
5 Robert Kovač
6 Gianluca Pessotto – nazionale Italia
3 Alessio Tacchinardi – nazionale Italia
4 Paolo Montero – nazionale Uruguay
5 Igor Tudor – nazionale Croazia
6 Nicola Legrottaglie – nazionale Italia
8 Emerson – nazionale Brasile
9 Zlatan Ibrahimović – nazionale Svezia. Capo Cannoniere del campionato (16)
10 Alessandro Del Piero – nazionale Italia
11 Pavel Nedvĕd – nazionale Repubblica Ceca
12 Antonio Chimienti
14 Federico Balzaretti – nazionale
15 Domenico Criscito – nazionale Italia
16 Mauro Germán Camoranesi – nazionale Italia
17 David Trezeguet – nazionale Francia. Capocannoniere (23)
18 Adrian Mutu – nazionale Romania
19 Gianluca Zambrotta – nazionale Italia
20 Manuel Blasi – nazionale Italia
21 Lilian Thuram – nazionale Francia
22 Landry Bonnefoi
22 Olivier Kapo – nazionale Francia
23 Giuliano Giannichedda – nazionale Italia
24 Ruben Olivera – nazionale Uruguay
25 Marcelo Danubio Zalayeta – nazionale Uruguay
26 Gladstone
27 Jonathan Zebina – nazionale Francia
28 Fabio Cannavaro – nazionale Italia
29 Christian Abbiati – nazionale Italia
30 Michele Paolucci – nazionale U 21
31 Claudio Marchisio – nazionale Italia
Fatto incontrovertibile è che molti dei nomi indicati sono campioni del mondo nella nazionale italiana e francese, oltre ad aver vinto scudetti e coppe europee ed intercontinentali.
Oggettivamente erano i calciatori migliori con l’allenatore migliore che ci fossero in Italia.
Quasi tutti, dopo calciopoli sono stati svenduti alle migliori squadre europee: Barcellona, Real Madrid, Milan, ecc.
Al lettore il compito di dare alle rose indicate una valutazione qualitativa imparziale, senza partigianerie o fanatismi.
Con Calciopoli non è mai finita. Da Giuseppe Guastella su “Il Corriere della Sera” del 2 giugno 2011 un resoconto raccapricciante. Bastano sei mesi di indagini e qualche telefono sotto controllo perché un nuovo scandalo investa il mondo del calcio rischiando di travolgere i campionati di serie B e Lega pro e lambendo anche quello di A. Dalle 606 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Cremona Guido Salvini emerge un panorama sconcertante, ed è difficile credere che nessuno si sia mai accorto di nulla. Un'organizzazione criminale di 16 persone tra novembre 2010 ed aprile 2011 ha interferito almeno su 18 partite, riuscendo a condizionare il risultato di parecchie di esse e incassando centinaia di migliaia di euro con le scommesse legali. Da “Il Giornale” i nomi in vista. Il nome di spicco è quello di Beppe Signori, ex attaccante e capitano della Lazio (Foggia di Zeman, Bologna per chiudere la carriera), visto anche ai Mondiali '94 con la Nazionale di Sacchi. Per lui sono scattati gli arresti domiciliari. Il bomber, 43 anni, era conosciuto nel mondo del calcio come un appassionato di scommesse. Famoso l'episodio in cui mise in palio un milione con un compagno per mangiare una brioche intera in 30 passi. Nell’ordinanza, il giudice scrive: "Beppe Signori, è leader indiscusso per ragioni di prestigio personale del gruppo di Bologna. Il suo nome non deve essere pronunciato o deve essere pronunciato con cautela. Si preferisce parlare di 'Beppe nazionale' o di colui che ha segnato 200 gol in serie A". Indagato, a piede libero, anche Stefano Bettarini, ex marito di Simona Ventura e commentatore della trasmissione "Quelli che il calcio", coinvolto nel 2004 in una storia di scommesse quando era alla Sampdoria e squalificato dalla giustizia sportiva. Sarebbe coinvolto nel tentativo di truccare Inter-Lecce. E con lui Cristiano Doni, capitano dell'Atalanta appena tornata in serie A. Pure lui già finito in vicende di scommesse per Atalanta-Pistoiese di Coppa Italia nel 2001. C’è anche l’ex calciatore Mauro Bressan, 40 anni, tra i destinatari di un’ordinanza di custodia cautelare nell’ambito dell’inchiesta della procura di Cremona. L’ordinanza all’ex centrocampista di Fiorentina, Genoa, Venezia, Foggia, Bari, Cagliari e Como è stata notificata nella sua abitazione di Cernobbio dalla squadra mobile comasca. Bressan ha vinto la coppa Italia del 2001 con la Fiorentina e ha poi concluso la sua carriera in Svizzera. E tra gli arrestati c’è anche l’ex capitano del Bari, Antonio Bellavista. Sarebbe stato uno dei coordinatori dell’organizzazione. Coinvolti anche il difensore dell'Ascoli Vittorio Micolucci, il centrocampista Vincenzo Sommese e Gianfranco Parlato, ex giocatore di serie B e C.
Domenica 14 novembre 2010, stadio «Zini» di Cremona. I padroni di casa della Cremonese battono 2-0 la Paganese nel girone A di Lega pro, la ex C1. Durante l'incontro un collaboratore dello staff e 5 calciatori si sentono male, quasi cadono in catalessi. Due finiscono in ospedale e un terzo mentre torna a casa perde i sensi e il controllo dell'auto tamponando un'altra vettura. Le analisi scoprono nel sangue una presenza anomala di Lormetazepan, un ansiolitico delle benzodiazeprine commerciato come Minias, probabilmente ingerito con il tè caldo negli spogliatoi. Quando la società denuncia l'inquietante episodio con il direttore generale Sandro Turotti, e il procuratore Roberto Di Martino decide di mettere sotto controllo i telefoni di chi era negli spogliatoi. L'attenzione della polizia si concentra subito sul 26enne portiere Marco Paoloni. I telefoni dicono che è in contatto con personaggi del mondo delle scommesse, come Massimo Erodiani, al quale fanno capo alcune ricevitoria, una a Pescara, da dove partono scommesse anche all'estero; Marco Pirani, un odontoiatra di Stirolo (Ancona), e Giorgio Buffone, Ds del Ravenna calcio. Costoro sono in contatto con calciatori corrotti e dirigenti compiacenti di società sportive. Giocatore incallito, Paoloni ha accumulato debiti per più di 165 mila euro tanto da costringere la moglie a mettere un'ipoteca sulla casa dei genitori. Forse aveva garantito la sconfitta della Cremonese con la Paganese, ma non essendo riuscito a convincere i compagni aveva provato a metterli ko drogandoli. L'inchiesta del pm Di Martino porta alla luce «un sodalizio che opera da anni», scrive Salvini, e che ogni settimana prova a truccare le partite, a volte riuscendoci, a volte no, con «un meccanismo oliato che ruota intorno a Erodiani e Pirani» e una «frequenza di manipolazioni impressionante» in grado di gestire anche 5 partire contemporaneamente». Incontri prevalentemente Lega pro, «dove per stipendi più bassi e blasone meno alto» è più facile convincere calciatori disonesti, ma la «manipolazione riguarda anche partite di B e A». Erodiani, Pirani e Buffone contano su «propri» calciatori corrotti che sono lo «strumento stabile di possibili ulteriori rapporti con altri calciatori della stessa squadra o di altre», che «scommettono nelle stesse partite che truccano» e che a volte sono costretti a firmare assegni in pegno a garanzia che si comportino «bene» con un rigore causato al momento giusto o un'apparente distrazione che in difesa consenta all'avversario di fare gol. Non sempre, però, ci riescono perché «se non vi è un accordo direttamente tra le società, o comunque a conoscenza di tutti i giocatori, non esiste certezza». E quando i risultati negativi si ripetono, il gruppo entra in crisi e tenta di recuperare i soldi con nuove partite truccate o direttamente da calciatori. All'organizzazione fanno capo diversi gruppi di scommettitori che pagano la corruzione dei calciatori. Ci sono i «Milanesi», gli «Zingari», nomadi ormai stanziali che investono centinaia di migliaia di euro, una cellula che scommette in Albania e i «Bolognesi» il cui «leader indiscusso» è Beppe Signori. Personaggio carismatico nel mondo del calcio e grande conoscitore dell'ambiente, in carriera Signori ha segnato 273 gol. Ma di lui non bisogna parlare «neanche per scherzo al telefono», dice Pirani ad Erodiani il 19 marzo. Indagato per associazione a delinquere e illecito sportivo, Signori viene pedinato dalla Polizia che lo fotografa il 15 marzo con altri personaggi coinvolti nell'inchiesta. Avrebbe investito «60 mila euro sulla partita Atalanta-Piacenza» del 19 marzo 2011 per la quale sono indagati anche il capitano e bandiera dell'Atalanta Cristiano Doni e il calciatore del Piacenza Carlo Gervasoni, che «avevano realizzato la combine». L'organizzazione aveva previsto tutto nei dettagli con almeno tre reti segnate addirittura in specifici momenti. Così avviene: il primo gol è di Doni su calcio di rigore per fallo del piacentino Zanoni; Doni segna anche la seconda rete su fallo di rigore, guarda caso, di Gervasoni; la terza ha la firma di Ruoppolo. Per Padova-Atalanta del 26 marzo l'obiettivo dell'organizzazione è il pareggio e, infatti, finisce 1-1. A corroborare il sospetto di trucchi sono i 23 milioni di euro giocati su siti asiatici di scommesse e le parole di un indagato che al telefono dice di aver saputo da Cristiano Doni che l'incontro era truccato. Ci provano anche con la serie A, ma non riescono a condizionare Inter-Lecce del 20 marzo che si chiude sull' 1-0, invece che con almeno 3 gol, come avevano scommesso. Paoloni aveva fatto credere di poter combinare la gara con la complicità di giocatori del Lecce. Forse millantava, contando su un Inter che, in lotta per lo scudetto, avrebbe comunque strapazzato un Lecce che giocava per la salvezza. Un episodio che coinvolge anche l'ex calciatore Stefano Bettarini, divorziato dalla showgirl Simona Ventura, al quale Bellavista rivela la combine invitandolo a scommettere. Per questo è indagato di illecito sportivo, ma avrebbe scommesso anche su Padova-Atalanta. Nel complesso l'operazione sarebbe costata, secondo Erodiani 300 mila euro, 150 mila li perdono i «Bolognesi», 60 ce li rimette il solo Signori. Un fallimento che, unito a quello di Benevento-Pisa (1-0 invece di 4 gol garantiti da Paoloni), scatena «una sorta di caccia all'uomo», con minacce pesanti e un tentativo di estorcere al portiere corrotto 13.000 euro di risarcimento. Beppe Signori compare pure nelle scommesse per Atalanta-Piacenza del 19 marzo e Benevento-Pisa. Anche Alessandria-Ravenna del 20 marzo di Lega pro poteva essere truccata, ma tutto sfuma perché non si chiude l'accordo tra le due società, impedito da questioni economiche sorte nonostante gli incontri tra il presidente dell'Alessandria Giorgio Veltroni e il direttore sportivo del Ravenna Giorgio Buffone. Al pari di altri episodi non penalmente rilevanti, se ne occuperà la giustizia sportiva. Gli Zingari di soldi ne hanno. Sono pronti a tirare fuori dalle tasche 300/400 mila euro per condizionare due partite di serie A. Parlano al telefono di un personaggio che «con loro - scrive Salvini - aveva lavorato per alcune partite di serie A combinate» anche se le intercettazioni non consentono alla Procura di Cremona di andare oltre i sospetti. Erodiani, ad esempio, racconta che «l'hanno scorso ho fatto il Chievo a Milano... Over tre e mezzo (più di 3 reti, ndr.)... si sono presentati là... hanno detto vi facciamo vincere la partita, fateci fare un gol!». La partita finì tre a uno. Il Cosenza è in «precarie condizioni economiche» che, scrive la Squadra Mobile di Cremona, inducono i calciatori a «vedere la partita» con il Benevento del 28 marzo, come riferisce Paoloni che a gennaio è stato ceduto ai campani: «Mi hanno chiamato quelli lì di giù ... (uno, ndr.) mi ha detto che hanno parlato con quattro di loro e che tutto è a posto» ma vogliono tantissimo, «una cucuzza per tutti (100 mila euro, ndr.). Io ho detto che non glieli do, al massimo arrivo a 5 (50 mila, ndr.)». Il 13 febbraio i campani giocano con il Viareggio. Erodiani telefona al suo complice Gianfranco Parlato: «Non avete intenzione... domenica di perdere?». Parlato: «Per fare un po' di cassa». Erodiani: «Si può fare un'offerta... si vuole organizzare... se uno se la studia bene...». Durante la partita Pirani chiama sull' 1-1: «Alla fine sta andando come volevamo noi». L'incontro termina 2-2, centrando in piano la scommessa su almeno tre gol.
Lo scandalo calcio-scommesse 1980 è uno scandalo che colpì il calcio italiano nella stagione agonistica 1979-1980 e vide coinvolti giocatori, dirigenti e società di Serie A e di Serie B che truccavano le partite di campionato attraverso scommesse che, se dal punto di vista penale non erano considerate reato, per la FIGC rappresentavano casi di illecito sportivo. Le società coinvolte nell'inchiesta erano Milan, Lazio, Bologna, Avellino, Perugia in Serie A; Palermo e Taranto in Serie B. Si trattò del primo grande scandalo di illeciti sportivi e partite truccate nella storia del calcio italiano, tanto che il Presidente federale Artemio Franchi (all'epoca anche Presidente dell’UEFA) decise, in seguito, di rassegnare le dimissioni dalla carica che ricopriva e il tutto avveniva a soli tre mesi dall'inizio del Campionato europeo di calcio 1980, svolto proprio in Italia, il che faceva perdere molta credibilità al calcio nazionale, sia in patria che all'estero.
Il secondo scandalo del calcio-scommesse fu un'inchiesta del 1986 relativa ad un giro di scommesse illegali relative ad alcune partite di calcio nei campionati professionistici nelle stagioni 1984-1985 e 1985-1986. L'inchiesta, che seguì una vicenda analoga scoppiata nel 1980, nacque da alcune intercettazioni telefoniche e venne condotta dal Procuratore di Torino, Giueseppe Marabotto, poi arrestato per altre vicende. E’ stato accusato di corruzione, Giuseppe Marabotto, ex procuratore di Pinerolo, poi trasferito alla Corte di Appello di Genova quindi pensionato. Avrebbe intascato il 30% di 10 milioni di consulenze assegnate nel suo lavoro. Era spesso ospite di Biscardi, finì in una intercettazione di Calciopoli per un favore chiesto a Moggi, che doveva intervenire su un altro amico, vicino all’allora ministro della Giustizia, Roberto Castelli (Lega).
I pm di Napoli Filippo Beatrice e Giuseppe Narducci, che hanno indagato sugli intrighi del mondo del pallone hanno sentito anche la versione di Armando Carbone, l'uomo-chiave del caso scommesse del 1986. Quello scandalo, ha sostenuto Carbone, sarebbe stato «architettato da Luciano Moggi per colpire il sistema di potere di Italo Allodi», il dirigente del primo scudetto del Napoli. Anche se, afferma ancora Carbone, Allodi «si tenne fuori e venne tenuto fuori» da quella vicenda. Il testimone riferisce dei suoi interrogatori dell'epoca, davanti al giudice torinese Giuseppe Marabotto (il cui nome è finito anche nelle intercettazioni dello scandalo del 2006) che conduceva le indagini su quella vicenda. «Venivo chiamato a fornire spiegazioni sulle partite comprate - si legge nel verbale - Potevo parlare di qualsiasi vicenda e anzi Marabotto era particolarmente interessato a conoscere i fatti del Napoli e di Italo Allodi. Ogni volta che provavo a parlare del Torino e della Juventus - è la versione di Carbone - Marabotto mi rispondeva che bisognava parlare di altro». Carbone ha anche sostenuto di aver ricevuto da un dirigente del Napoli di allora l'offerta di 200 milioni di lire (poi mai ricevuti) per non presentarsi davanti alla giustizia sportiva.
Lo scandalo del calcio italiano del 2006 è stato, in ordine di tempo, il terzo grande scandalo (dopo quello del 1980, noto come Calcioscommesse e quello del 1986, noto come Secondo calcioscommesse o Calcioscommesse 2) a investire il mondo del calcio italiano, anche se come portata ed effetti è stato certamente maggiore dei primi due. Definito dalla stampa ironicamente Calciopoli (per assonanza con Tangentopoli, laddove in quel caso a reggere l'espressione era il termine tangente), Calciocaos o anche Moggiopoli (la Gazzetta dello Sport lo definì, molto impropriamente, anche Sistema Moggi) si dipanò, secondo le risultanze processuali, tra il 2004 e 2006, ed emerse il 2 maggio 2006 a seguito di alcune intercettazioni operate dal tribunale di Torino e soprattutto da quello di Napoli nei confronti delle dirigenze di quattro club italiani: Juventus, Fiorentina, Lazio e Milan. Sotto accusa in un secondo filone d'indagini anche la Reggina e l’Arezzo.
L'accusa principale è di illecito sportivo, verificato nel tentativo di aggiustare le designazioni arbitrali per determinati incontri di campionato o di intimidire (o corrompere) gli arbitri assegnati affinché favorissero le azioni conclusive di una squadra a danno dell'altra.
La cosiddetta "cupola", che avrebbe condizionato i campionati di calcio, è per molti aspetti simile alla P2 e alla mafia. Questa l'opinione del Pubblico Ministero che ha svolto la sua relazione all'udienza preliminare per la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti degli imputati di “Calciopoli”. Per il Pm infatti la norma dell'articolo 416 del codice penale, il reato di associazione per delinquere contestato ai presunti appartenenti alla "cupola", «sta un pò stretta» in questa vicenda. «C'è qualcosa che ricorda più un'associazione segreta, una organizzazione che fa del vincolo della segretezza il suo dato essenziale», le cui finalità «non si esauriscono nella commissione di uno specifico reato». Secondo il Magistrato essa «ricorda quanto previsto dall'articolo 1 della Legge Anselmi, una legge pensata in funzione della P2», che esercita «un condizionamento delle istituzioni pubbliche». L'organizzazione inoltre «può ricordare i profili di una associazione di tipo mafioso: è stata infatti una organizzazione strutturata in cui il vincolo associativo non solo era intervenuto e si era determinato nell'accordo, ma veniva ulteriormente rinsaldato».
In realtà, in era calciopoli, tutte le società calcistiche e in particolare quelle «che avevano un peso maggiore», raccomandavano e facevano segnalazioni nei confronti della terna arbitrale: è quanto ha sostenuto un ex guardalinee, Rosario Coppola, salernitano, in qualità di testimone al processo su Calciopoli.
Secondo il testimone, i fatti si riferivano a presunte pressioni esercitate dall'allora designatore Gennaro Mazzei per ammorbidire il referto riguardante l'espulsione del calciatore colombiano Ivan Ramiro Cordoba avvenuta durante la partita di campionato tra i nerazzurri e il Venezia. Ivan Ramiro Cordoba fu espulso durante un Inter-Venezia del 16 settembre 2001. Al 33esimo minuto del primo tempo il colombiano ebbe un alterco proprio con Coppola e scattò il cartellino rosso. Per quella espulsione il difensore sudamericano interista era stato squalificato per due gare consecutive di campionato. Coppola ha però sostenuto di non aver aderito alla sollecitazione che avrebbe ricevuto: "Da quel momento in poi non ho più fatto la serie A e questo è solo uno degli episodi che potrei raccontare".
L'ex guardalinee ha detto che quando esplose lo scandalo, raccogliendo un appello alla collaborazione dell'ex procuratore Borrelli, si presentò spontaneamente dai carabinieri per rendere dichiarazioni sul sistema delle designazioni nonchè delle segnalazioni che provenivano dalle società di calcio. Ha citato come esempio la squalifica inflitta dopo un Inter-Venezia al difensore nerazzurro Cordoba: per tale vicenda avrebbe ricevuto sollecitazioni da parte di Gennaro Mazzei (collaboratore dei designatori Bergamo e Pairetto), che avrebbe ricevuto a sua volta pressioni per ammorbidire il referto nei confronti del calciatore dell'Inter. Rosario Coppola ha sostenuto che tale vicenda non fu tuttavia verbalizzata dai carabinieri che investigavano perchè ciò «non interessava» in quanto, secondo gli investigatori, ciò non emergeva dalle intercettazioni telefoniche in possesso degli inquirenti. Coppola si è soffermato, inoltre, sul ruolo dell'ex dirigente milanista Leonardo Meani presso il quale molti guardalinee, a suo dire, si facevano raccomandare. Gli assistenti, a loro volta, cercavano di farsi raccomandare dai dirigenti delle società «per avere visibilità ed essere in un certo giro».
«Calciopoli c'è ancora. Gli arbitri e i dirigenti coinvolti nello scandalo sono tornati a dettar legge. E la cupola del pallone non è mai scomparsa». La denuncia dell'ex fischietto Gianluca Paparesta.
Il calcio italiano è un meraviglioso mondo di impunità, cooptazioni e intrecci clanici oggi come quattro o cinque anni fa. Dopo la breve fiammata di Moggiopoli, con annesse squalifiche e penalizzazioni, è tutto tornato serenamente come prima, con gli stessi arbitri e gli stessi dirigenti federali, demiurghi di un potere chiuso in se stesso e allergico alle regole.
A lanciare il sasso nello stagno della cupola restaurata è l'unico arbitro che al processo di Napoli sarà testimone d'accusa contro Moggi e i suoi amici, dopo essere stato prosciolto da ogni addebito. è Gianluca Paparesta, 39 anni, barese: l'uomo che fu verbalmente aggredito dallo stesso Moggi negli spogliatoi di Reggio Calabria e che, invece di negare tutto come hanno fatto i suoi colleghi, ha parlato e continua a parlare di "un sistema in grado di manipolare e stravolgere la realtà", come scrive nelle pagine del suo blog www.paparesta.com. Un sistema che oggi non lavora più a senso unico - come ai tempi in cui si favoriva solo Moggi e i suoi protetti - ma è finalizzato soprattutto a perpetuare se stesso e il suo potere, attraverso coperture reciproche e rapporti privilegiati con i club più potenti. Un sistema che passa attraverso nomi noti e personaggi sconosciuti, ma che in ogni caso non ammette alcuna voce contraria.
Prendete la Federcalcio, ad esempio. Pochi sanno che il potente braccio destro di Giancarlo Abete, appena rieletto presidente con una maggioranza bulgara (era l'unico candidato), è Antonello Valentini, che nell'agosto del 2004 parlava con Moggi al telefono dicendogli che nella Figc c'era bisogno di "gente funzionale al sistema", perché sennò "ci buttiamo la merda in faccia da soli", ottenendo ovviamente il pieno appoggio dell'allora boss juventino. Paparesta, senza far nomi, ha pubblicato sul suo sito il testo integrale di quella telefonata, per far capire che il sistema è ancora tutto lì. Una denuncia peraltro caduta nel silenzio più completo, con l'unica eccezione di Oliviero Beha al Tg3.
Ma basta un'attenta rilettura delle carte per capire a chi e a che cosa si riferisca Paparesta nel suo blog. Il sistema di cui parla infatti non comprende solo ignoti seppur importanti dirigenti. All'arbitro di Bari, probabilmente, non sarà sfuggito che mentre lui è stato di fatto licenziato pur dopo il pieno proscioglimento a Napoli, altri fischietti ed ex fischietti continuano a ricoprire ruoli fondamentali sebbene il loro coinvolgimento nelle vicende di Calciopoli sia stato parecchio maggiore, tanto da portarli in alcuni casi ad essere rinviati a giudizio dai magistrati napoletani.
E proprio rileggendo atti in buona parte già noti spiccano diverse curiosità su diversi personaggi che a vario titolo sono protagonisti anche di questo campionato. Come Roberto Rosetti, oggi arbitro top a cui vengono affidate le partite più importanti, i suoi colleghi Matteo Trefoloni e Paolo Dondarini, che pure continuano a dirigere incontri di serie A, oltre a Pierluigi Collina, che degli arbitri è il capo e il designatore.
Rosetti, ad esempio, è uno che non è mai stato neppure deferito sebbene in una conversazione registrata l'allora designatore Paolo Bergamo mostrasse gratitudine nei suoi confronti perché era stato "decisivo nel passaggio (dalla B alla A, ndr) della Fiorentina", con riferimento a una contestatissima direzione di gara nello spareggio decisivo dei viola contro il Perugia, nel giugno del 2004. Lo stesso Rosetti è l'arbitro che secondo il guardalinee Narciso Pisacreta aveva ricevuto una strana telefonata per parlare di un fallo di mano nell'intervallo di una "pilotata" (così la definì l'ex numero due della Figc Innocenzo Mazzini) partita tra Lazio e Fiorentina, violando tutte le regole che proibiscono agli arbitri di parlare al cellulare con chiunque durante una partita. E sempre Rosetti è l'arbitro che, come emerge da un'altra intercettazione, aveva cenato dopo una partita con il figlio di Galliani, definito dallo stesso Rosetti "un ragazzo delizioso". Oggi Rosetti è il rappresentante ufficiale degli arbitri in attività ed è stato inserito nella lista dei 38 preselezionati per i Mondiali in Sudafrica.
Così come continua a calpestare i campi di serie A il suo collega Paolo Dondarini, che è stato rinviato a giudizio nel processo di Napoli con l'accusa di frode sportiva per aver avvantaggiato la Juventus (in una partita contro la Sampdoria) e la Fiorentina (in un match decisivo per la salvezza contro il Chievo). Al termine della gara tra bianconeri e doriani, Dondarini ricevette la visita affettuosa di Luciano Moggi, che davanti a un caffè promise future designazioni per altre partite in trasferta dei bianconeri. Curioso che cinque anni dopo l'arbitro che ha ricevuto i ringraziamenti di Moggi sia ancora in attività, mentre quello che da Moggi si è preso gli insulti (Paparesta) sia stato licenziato. Lo stesso Dondarini è quello che in una conversazione tra l'allora presidente degli arbitri Tullio Lanese e il giornalista della 'Gazzetta' Antonello Capone veniva definito "killer", nel senso che avrebbe eseguito l'ordine di far perdere i veronesi per garantire la salvezza dei viola ("Era normale, l'avevo detto io", commentò in quell'occasione Lanese). Solo uno scherzo?
Se Dondarini dovrà rispondere ai magistrati di Napoli, nessuno domanderà invece alcunché a Matteo Trefoloni. Nel caotico marasma di Calciopoli, forse agli inquirenti sportivi (e non) è sfuggito il fatto che Trefoloni ha fornito di fatto quasi una confessione, rivelando ai carabinieri di Roma che "Bergamo e la Fazi (cioè il designatore di allora e la sua potente segretaria, ndr) svolgevano un'attività volta a determinare in noi arbitri una sudditanza psicologica che si traduceva poi a seconda delle partite che si andava ad arbitrare in una gestione delle stesse in linea con il volere dei citati". Un atto di accusa e di autoaccusa senza mezzi termini. E più avanti lo stesso Trefoloni ha spiegato che la carriera di arbitro dipendeva da quanto si seguissero i "consigli" di Bergamo. Del resto, Trefoloni nella stagione 2004-2005 era riuscito ad ammonire (e quindi a far squalificare) tutti e tre i diffidati del Parma perché la settimana dopo gli emiliani dovevano incontrare la Juventus. E nella stagione successiva aveva ripetuto la stessa operazione cinque volte, impedendo a giocatori del Lecce, del Parma (due), della Lazio e del Palermo di scendere in campo la domenica successiva contro i bianconeri. Sempre Trefoloni è quello che la segretaria di Bergamo, Maria Grazia Fazi, spinge per una designazione "così incameriamo altri 5 mila euro". La settimana scorsa Trefoloni, fresco reduce da una direzione in serie A, è andato a una riunione di giovani fischietti a Carrara per spiegare che "gli arbitri devono sempre trasmettere un messaggio di sicurezza e autorevolezza": lui, che aveva mandato un falso certificato medico per evitare di arbitrare un Juventus-Roma che lo terrorizzava per le troppe pressioni subite.
In questo quadro non stupisce che a designare gli arbitri oggi sia quel Pierluigi Collina che, quando era un fischietto in attività, parlando con un consulente del Milan architettava un incontro segreto con Galliani, che doveva avvenire in un ristorante nel giorno di chiusura, perché nessuno potesse scoprirlo. Lo stesso Collina che non risulta aver sempre versato all'Associazione arbitri le quote dovute dei proventi delle sue sponsorizzazioni, un 10 per cento che sommato per i vari marchi (da Opel a Diadora) fa un gruzzolo di parecchie migliaia di euro. E lo stesso Collina che dopo aver garantito a Paparesta il reintegro a proscioglimento avvenuto, si è reso protagonista di un clamoroso voltafaccia, impedendogli di tornare in campo.
Paparesta non si dà per vinto e continua la sua battaglia con un ricorso dopo l'altro (l'ultimo al Tribunale nazionale di arbitrato per lo Sport). "Non racconto la verità a rate, ho già detto tutto quello che sapevo alla giustizia sportiva e ordinaria. Ora voglio solo capire il motivo di tanta disparità di trattamento e di tanto accanimento nei miei confronti", dice. E non vuole credere che il suo sia un allontanamento dal sapore 'educativo', utile cioè a far capire ai fischietti in attività che non ci si deve mai mettere contro il sistema, al quale bisogna essere - appunto - funzionali.
Ma quella di Paparesta non sarà una battaglia facile, anche perché dall'altra parte a dirigere la musica c'è tale avvocato Mario Galavotti, consulente legale della Federcalcio su incarico di Abete. Un grande amico di Moggi, che nel settembre del 2004 è intervenuto per salvare il figlio (procuratore) di Lucianone da una squalifica, facendola tramutare in una piccola ammenda.
Calciopoli e gli insabbiamenti. Si apre un nuovo fronte, Calciopoli non finisce mai: le nuove intercettazioni (altre ne salteranno fuori, presto) coinvolgono anche l'Inter di Moratti. Da valutare comunque se ci sono reati sportivi. "Il bello deve ancora venire, c'è molto altro...", sibila Luciano Moggi, che secondo i pm di Napoli era il capo della Cupola. E i suoi avvocati cercano di allargare ancora più il fronte. "Un dato di fatto è inequivocabile: se le intercettazioni di cui si parla oggi fossero state trasmesse all'Ufficio indagini della Federcalcio nel 2006, con ogni probabilità l'esito di quel giudizio sarebbe stato diverso quanto meno sotto la quantificazione delle sanzioni e la loro applicazione anche ad altri dirigenti e società di calcio", così gli avvocati Maurilio Prioreschi e Paolo Rodella, che insieme a Paolo Trofino, difendono Moggi a Napoli. "Prendiamo atto che la procura di Napoli definisce disinformazione la divulgazione di intercettazioni di altri dirigenti calcistici con i designatori - dice l'avvocato Prioreschi - Mi sarei aspettato che gli inquirenti avessero dichiarato di aver aperto una inchiesta per accertare come mai non una sola intercettazione che riguarda alcuni dirigenti diversi da Moggi non è stata trascritta: quando si è trattato dell'ex dg della Juventus hanno trascritto anche quella tra lui e la moglie sul panettone da portare a cena a casa di Pairetto. Noi difensori certamente sappiamo che parlare al telefono non è reato e forse è meglio che questo concetto la procura di Napoli lo chiarisca a se stessa". Non finisce qui. "Non escludiamo di intraprendere le opportune iniziative perché si riconsideri il processo calcistico a Moggi - aggiunge l'avvocato Paolo Rodella - ciò che emerge delle intercettazioni, aldilà della loro rilevanza penale che sarà valutata dal Tribunale - è il fatto che altri dirigenti hanno violato, e forse più di Moggi perché fino ad ora hanno taciuto - i principi di lealtà e onorabilità sportiva sanciti dall'articolo 1 del regolamento federale".
Hanno fatto scalpore e intercettazioni di Bergamo con Moratti. In una, ad esempio, parlano di Paolo Bertini, l'arbitro di Arezzo: successo dell'Inter sulla Sampdoria, direzione di gara perfetta, premiata con un voto altissimo (8,80) dal commissario arbitrale. I complimenti di Moratti per l'arbitro. "E pensare - ricorda ora Bergamo - che dicevano che Bertini era filojuventino, che fesseria. Una delle tante. Che andassero a vedere le partite dirette da Bertini...". L'ex internazionale di Arezzo è stato coinvolto pure lui in Calciopoli, pur non essendoci nemmeno una delle 151.000 intercettazioni che lo vede protagonista. "Ora la verità sta venendo finalmente a galla ma quante storie abbiamo vissuto in questi anni: come quella del sorteggio truccato. Macché truccato. Perché non hanno mai interrogato i notai, i giornalisti dell'Ussi che facevano il sorteggio?", si chiede adesso l'ex designatore livornese. "Io parlavo con tutti perché era consentito a quei tempi", ricorda ancora. Stanno uscendo altre intercettazioni: con Moratti ma anche con Meani, con Galliani, con Cellino.
"Normale, niente di strano, niente di illecito", insiste Bergamo. "Di queste nuove intercettazioni, che io sapevo che c'erano, ora si dovrà tenere conto a Napoli". Ci sarà battaglia: gli avvocati degli imputati illustri incalzeranno ancora il tenente colonnello Attilio Auricchio, che ha condotto le indagini. "Macché indagini - tuona Luciano Moggi - si è fidato delle intercettazioni e dei tabellini dei giornali (la Gazzetta e Repubblica, ndr) senza un riscontro, senza una perizia, senza sentire nessuno...". Ci sono falle evidenti nell'inchiesta di Auricchio ma basterà questo per riaprire il processo sportivo? Giancarlo Abete l'ha sempre detto: la vicenda sportiva è chiusa, nessuna revisione. Ma gli avvocati la pensano diversamente.
Calciopoli 2: lo scandalo della disparità di trattamento.
Una ''frequenza ed assiduità di contatti'' tra presidenti e dirigenti arbitrali che rendono Calciopoli 2 del tutto analoga allo scandalo del 2006. E' questa la conclusione a cui giunge nelle motivazioni del suo provvedimento il procuratore federale Stefano Palazzi. Il quadro probatorio che emerge dalle nuove intercettazioni su Calciopoli è ''consistente'' e delinea - sostiene Palazzi nelle motivazioni - ''una serie di condotte omogenea a quelle già evidenziate'' in Calciopoli del 2006.
Il giudizio di Palazzi è duro nei confronti dell'Inter e di Facchetti: la società nerazzurra violò l'articolo 6, cioè fu colpevole di illecito sportivo. "Questo Ufficio ritiene che le condotte fossero certamente dirette ad assicurare un vantaggio in classifica in favore della società Internazionale FC, mediante il condizionamento del regolare funzionamento del settore arbitrale e la lesione dei principi di alterità, terzietà, imparzialità ed indipendenza, che devono necessariamente connotare la funzione arbitrale".
Dai documenti "è emersa l'esistenza di una rete consolidata di rapporti, di natura non regolamentare, diretti ad alterare i principi di terzietà, imparzialità e indipendenza del settore arbitrale, instaurati, in particolare fra i designatori arbitrali Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto (ma anche, sia pur in forma minore, con altri esponenti del settore arbitrale) ed il Presidente dell'Inter, Giacinto Facchetti". "Dalle carte in esame e, in particolare, dalle conversazioni oggetto di intercettazione telefonica, emerge l'esistenza di una fitta rete di rapporti, stabili e protratti nel tempo" con l'obiettivo, tra l'altro, di condizionare il settore arbitrale. "La suddetta finalità veniva perseguita sostanzialmente attraverso una frequente corrispondenza telefonica fra i soggetti menzionati, alla base della quale vi era un consolidato rapporto di amicizia, come evidenziato dal tenore particolarmente confidenziale delle conversazioni in atti", afferma la procura. Secondo la relazione, "assume una portata decisiva la circostanza che le conversazioni citate intervengono spesso in prossimità delle gare che dovrà disputare l'Inter e che oggetto delle stesse sono proprio gli arbitri e gli assistenti impegnati con tale squadra", si legge ancora.
"In relazione a tali gare il presidente Facchetti si pone quale interlocutore privilegiato nei confronti dei designatori arbitrali, parlando con essi delle griglie arbitrali delle gare che riguardano la propria squadra nonchè della stessa designazione della terna arbitrale ed interagendo con i designatori nelle procedure che conducono alla stessa individuazione dei nominativi degli arbitri da inserire in griglia e degli assistenti chiamati ad assistere i primi".
Per quanto riguarda invece Massimo Moratti, la sua posizione e il giudizio del procuratore federale sembrano meno gravi: "Comunque informato della circostanza che il Facchetti avesse contatti con i designatori, come emerge dalle telefonate commentate, nel corso delle quali è lo stesso Bergamo che rappresenta tale circostanza al suo interlocutore. (...) Ne consegue che la condotta del tesserato in esame, Moratti, in considerazione dei temi trattati con il designatore e della frequenza dei contatti intercorsi, appare in violazione dell'art. 1 CGS vigente all'epoca dei fatti, sotto i molteplici profili indicati".
"In alcuni casi -osserva la procura- emerge anche l'assicurazione da parte dell'interlocutore di intervento diretto sul singolo direttore di gara, come rivelato da alcune rassicurazioni che il designatore arbitrale rivolge al proprio interlocutore, in cui si precisa che l'arbitro verrà 'predisposto a svolgere una buona gara' o, con eguale significato, che è stato 'preparato a svolgere una bella gara'; o ancora, affermazioni del designatore volte a tranquillizzare il presidente Facchetti sulla prestazione dell'arbitro, nel senso che gli avrebbe parlato direttamente lui o che già gli aveva parlato".
"In un caso, addirittura, il designatore arbitrale, nel tentativo di tranquillizzare il proprio interlocutore e sedare le preoccupazioni di quest'ultimo sulle tradizioni negative della propria squadra con un determinato arbitro, afferma che quest'ultimo è stato avvertito e che sicuramente lo score dell'lnter sotto la sua direzione registrerà una vittoria in più in conseguenza della successiva gara di campionato", afferma ancora il procuratore.
"Tale capacità di interlocuzione in alcuni casi diventa una vera e propria manifestazione di consenso preventivo alla designazione di un arbitro e rappresenta un forte potere di condizionamento sui designatori arbitrali, fondato su rapporti di particolare amicizia e confidenza che il Presidente Facchetti può vantare nei confronti degli stessi designatori e che trovano la loro concretizzazione espressiva nella effettuazione anche di una cena privata con Bergamo e nello scambio di numerosi favori e cortesie (elargizione di biglietti e tessere per le gare dell'Internazionale, di gadget e borsoni contenenti materiale sportivo della squadra milanese, etc...) e non meglio precisati 'regalini'".
A tutti quelli che oggi si nascondono dietro la prescrizione quasi fosse un bizzarro (o salvifico) tiro della sorte alla Figc, all’allora capo dell’Ufficio Indagini, Borrelli, all’allora (e pure ora) procuratore Palazzi, ricordiamo i fatti trascurati o malamente interpretati dalla giustizia sportiva prima della decisione del 26 luglio 2006 che hanno portato alla succitata prescrizione, evitabilissima, e ad una decisione senza presupposto come quella assunta consegnando all’Inter il titolo 2006.
17 marzo 2006. L’Espresso pubblica lo scoop sulla vicenda dello spionaggio del team di Tavaroli e della Telecom. Tavaroli e Cipriani erano “avvisati” per associazione per delinquere dal 4 maggio 2005 e Tavaroli era il responsabile delle intercettazioni legali dal 2003 e fino al 2005 (anche durante il periodo d’indagine napoletana, settembre 2004 - giugno 2005).
11 maggio 2006. Lo scandalo è appena divampato, le prime intercettazioni compaiono sui giornali, ci sarebbero anche quelle di Facchetti. “La Repubblica” intervista Nucini racconta del suo lavoro di intelligence illegale nei meandri della Can per l’Inter e mentre un altro giornalista amico di Tavaroli, Luca Fazzo, racconta di un Facchetti che registrava gli incontri e il cd con le rivelazioni «viene fatto girare» e arriva secondo Fazzo l’input interista alla Bocassini. Facchetti non risponderà sulla circostanza.
20 maggio 2006. L’assistente Rosario Coppola va spontaneamente a deporre dal maggiore Auricchio: «Fecero pressioni per sistemare un referto riguardante la squalifica dell’interista Cordoba. Auricchio mi disse che l’Inter a loro non interessava».
23 maggio 2006. Repubblica: «Dall’Inter a Telecom, i 100 mila file degli spioni». Si parla dei movimenti Inter sul caso Nucini e dell’intelligence contro De Santis, Pavarese, Fabiani. Il tutto senza denunciare alcunché alla Figc.
2 giugno 2006. Una pagina di intervista di Repubblica: parla Cipriani, colui che spia e si fa pagare per farlo dall'intervista di Repubblica: parla Cipriani, colui che spia e si fa pagare per farlo dall'Inter. Vieri a parte, afferma «Pirelli mi fece spiare l’arbitro De Santis» (nel 2004, prescrizione nel 2009?) Ultimamente preciserà meglio chi fossero i committenti.
8 giugno 2006. Bergamo depone all’Ufficio Indagini: a Borrelli e i suoi ribadisce quanto detto più volte, «parlavo al telefono con tutti, anche con Facchetti». Nessuno, però, approfondisce.
15 giugno 2006. Articolone sul Corsera dal titolo «Vieri spiato quando giocava con l’Inter»: in fondo bastava approfondire o porsi domande sulla legittimità di quella sola operazione per escludere comportamenti appieno leali. La mancata chiamata in causa interista nei giorni di Calciopoli fa venire meno la possibilità di chiedere ragione ad un Facchetti ancora vivo.”
Poi a loro della Figc ricordiamo gli effetti per alcuni e non per tutti:
14 luglio 2006: sentenza di primo grado della Caf per calciopoli. La Juventus è condannata alla Serie B con 30 punti di penalizzazione, lo scudetto 2004-2005 è revocato, quello del 2005-2006 non assegnato.
25 luglio 2006: sentenza di appello della Corte federale, la Juventus in Serie B con 17 punti di penalizzazione, lo scudetto 2004-2005 resta revocato, quello del 2005-2006 non assegnato.
26 luglio 2006: la Federcalcio assegna lo scudetto 2005-2006 all'Inter, reperendo il parere di una commissione di tre saggi che si esprime in materia. La commissione in questione è costituita da Gerhard Aigner, ex segretario Uefa, Massimo Coccia, avvocato ed esperto di diritto sportivo, Roberto Pardolesi, ordinario di diritto privato comparato.
27 ottobre 2006: sentenza sportive definitive su Calciopoli dopo l'arbitrato del Coni. Juve in B con 9 punti di penalizzazione. Fiorentina in A con 15 punti di penalizzazione. Lazio in A con 3 punti di penalizzazione. Milan in A con 8 punti di penalizzazione.
13 aprile 2010: alla luce delle nuove intercettazione emerse nel processo penale in corso a Napoli si rileva che 'tutti parlavano con tutti'. Il riferimento è a una cena di Facchetti, presidente dell'Inter a casa del designatore Bergamo e a telefonate dello stesso Facchetti e del presidente nerazzurro Moratti con i designatori.
10 maggio 2010: la Juventus, in considerazione degli ultimi risvolti emersi durante il processo penale, come preannunciato dal suo presidente Andrea Agnelli presenta un esposto sullo scudetto 2005-2006.
31 marzo 2011: Moratti incontra il procuratore federale Palazzi e ribadisce di non intendere restituire lo scudetto 2005-2006 e nega alcun illecito.
1 luglio 2011: il procuratore federale Stefano Palazzi archivia per sopravvenuta prescrizione le posizioni di Moratti. Facchetti e di altri dirigenti in merito a Calciopoli 2006.
4 luglio 2011: il procuratore Palazzi inoltra le motivazioni del suo procedimento. L'Inter sarebbe deferita per illecito.
L’estate del 2006 sarà ricordata per le sentenze di calciopoli con cui è stato spazzato via il sistema di potere che condizionava arbitri, decideva partite e assegnava scudetti. E mentre l'Italia discuteva sulla Juventus e su Moggi, in Puglia andava in scena qualcosa di molto simile. Anche in Puglia, quell'anno, era in azione un sistema che ha colpito per 57 volte, con gli stessi metodi, lì dove il calcio dovrebbe essere più puro: nei campionati giovanili. Questa è la storia della più grande truffa mai tentata in Italia in un campionato federale, perfino più grande (per numero di episodi accertati) di quella che ha visto sul banco degli imputati i big della serie A. Una truffa impressionante, scoperta grazie a un appassionato dirigente cui tutti davano del matto. E che con le sue denunce ha permesso di stabilire che qualcuno, per un intero campionato, ha sistematicamente alterato i referti dei tornei regionali Allievi e Giovanissimi per pilotare le ammonizioni e non far scattare le squalifiche a carico di giocatori ragazzini. Sì, esatto: hanno truccato pure il campionato degli adolescenti.
L'inchiesta della Federazione sulla calciopoli pugliese è durata oltre un anno, ed è andata avanti a fatica tra reticenze e incredibili omissioni. Conviene cominciare dalla fine, dal deferimento chiesto il 27 giugno 2008 dal procuratore Stefano Palazzi a carico di quattro persone, il giudice sportivo Francesco Guaglianone e i suoi sostituti Luigi Caruso, Nicola D'Ecclesiis e Corrado Fontana. L'inchiesta condotta dall'avvocato Paolo Mormando, dell'ufficio indagini, è forse stata l'estremo tentativo del sistema di mettere tutto a tacere. Ma Mormando non ha potuto non vedere quello che c'è scritto nelle carte. E cioè che ogni settimana, per l'intero campionato 2006/2007, qualcuno interveniva scientificamente per accomodare i referti arbitrali.
Supponiamo che una certa domenica il signor Tizio venisse ammonito. E supponiamo che si trattasse della quarta ammonizione, che stando alle regole avrebbe dovuto far scattare una giornata di squalifica per la domenica successiva. Invece sul comunicato ufficiale della federazione quella quarta squalifica diventava quinta, o magari veniva attribuita al signor Caio (che in un paio di casi nemmeno esisteva), o ancora veniva pubblicata con settimane o mesi di ritardo. Insomma, c'era qualche giovane calciatore cui veniva concesso il bonus: non saltare mai una partita, o saltarla quando non faceva più alcuna differenza. I casi accertati dall'avvocato Mormando sono 42, 8 per il campionato Allievi e 34 per i Giovanissimi: riguardano in tutto 57 irregolarità. Per altre 7 partite, in Federazione sono spariti i referti. In media, ogni settimana venivano «ritoccate» due partite: Palazzi parla di «ritardi e ingiustificati differimenti nella comminazione delle squalifiche».
A cosa servisse tutto questo è evidente: a evitare che il signor Tizio saltasse per squalifica una partita importante. E quindi, in fin dei conti, ogni ammonizione taroccata, ogni referto che non si trova, è la prova provata che il campionato è stato alterato nei suoi esiti.
La responsabilità – questa la tesi esposta nell'atto di deferimento – è soltanto dei giudici sportivi e del loro «comportamento gravemente negligente». Ma perché, e a favore di chi siano state commesse le 57 irregolarità, Mormando non lo spiega e Palazzi non se lo chiede. A nessuno infatti viene in mente di chiamare i giocatori ed i presidenti delle squadre beneficiarie per chiedere conto dell'accaduto: come se la colpa di calciopoli fosse tutta di Moggi e non, poniamo, della Juventus o del Milan o dei loro terminali in Federazione.
Un passo indietro. Dal primo luglio 2007 il settore giovanile e scolastico della Federcalcio passa sotto l'ala protettiva della Lega nazionale dilettanti: da braccio autonomo, diventa un ufficio distaccato. All'epoca della truffa sui referti il settore giovanile in Puglia era guidato da Manlio Incardona, che pur al corrente della questione – la denuncia era sul suo tavolo - decide di non muovere un dito e anzi, con Mormando, minimizza. Di fronte all'avvocato dell'ufficio indagini che lo interroga, chissà perché a Lecce e non a Bari, Incardona dice: io non ne so nulla, firmavo soltanto. Due mesi fa, alla scadenza del mandato, il presidente viene sostituito e per il momento esce di scena.
Torniamo all'inchiesta e al deferimento di Palazzi. La Commissione di garanzia guidata dall'ex procuratore di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli, massimo organo della giustizia sportiva, è chiamata a giudicare per la calciopoli pugliese soltanto i quattro giudici sportivi. Ma sul tavolo di Borrelli, da fine settembre 2008, c'è una memoria presentata dall'avvocato Guaglianone: al massimo – dice in sostanza Guaglianone – posso aver peccato di omessa vigilanza, ma non ero io che alteravo i referti. Gli unici che avrebbero potuto farlo, sostiene l'avvocato, erano un impiegato della Federazione e un collaboratore, sedicente addetto stampa: le password per entrare nel sistema informatico che gestisce le ammonizioni e i comunicati ufficiali, del resto, ce le avevano solo loro. Questa dichiarazione è un siluro ad alzo zero e spiega anche perché Borrelli stia aspettando di decidere. Se è vero quello che dice Guaglianone, che è un avvocato e sa bene cosa si rischia ad accusare qualcuno senza averne la certezza, Borrelli avrebbe l'occasione di mettere le mani almeno sugli esecutori materiali della truffa: squalificare i soli giudici sportivi sarebbe un modo comodo per lavarsi la coscienza, un alibi per non andare a fondo in una storia che merita di concludersi con le punizioni più severe. «La vicenda è ancora al primo atto, e ce ne sarà almeno un secondo e forse un terzo», dice alla “Gazzetta del mezzogiorno” con amarezza Vito Tisci, presidente del comitato regionale della Lega dilettanti. «Negli anni passati – racconta - diversi presidenti si erano rivolti a me per raccontarmi di cose strane che avvenivano intorno al settore giovanile. Pensavo che fossero le solite chiacchiere da bar. Poi, quando ho visto le prove, mi sono dovuto ricredere».
Tisci, come chiunque legga le carte con un minimo di distacco, non può e non vuole credere che i colpevoli siano i giudici sportivi Guaglianone, Caruso, D’Ecclesiis e Fontana. Non ha senso, infatti.
Però, comprensibilmente, il presidente non fa ipotesi e non azzarda sentenze. Ma si lascia andare a uno sfogo: «Mi immagino un giovane che dice al suo presidente che domenica non giocherà perché sarà squalificato, e il presidente che gli risponde “non ti preoccupare, che ci penso io”. Mi chiedo cosa insegniamo a questi ragazzi».
Tisci ha ragione da vendere. Perché finora, stando alle carte, l'unico ad aver pagato è l'uomo che attraverso le sue denunce ha fatto scoprire l'inganno. Si chiama Franco Massari, ha una piccola squadra a Bitonto, ed ha il vizio di leggere con attenzione i comunicati ufficiali. Quando si è accorto che un calciatore era passato improvvisamente dalla terza alla quinta ammonizione, ha alzato il telefono ed ha chiamato Bari. Gli ha risposto il solito impiegato (quello chiamato in causa da Guaglianone), che ha dovuto correggere l'errore. Poi, però, il solerte impiegato ha scritto al giudice sportivo dicendo che Massari lo aveva minacciato. Per Massari la giustizia sportiva è stata rapidissima: tre mesi di squalifica e un punto di penalizzazione. Il procuratore Pino Monaco aveva chiesto un anno e 10 punti di penalizzazione per entrambe le squadre che fanno capo a Massari: forse voleva essere certo che questo signore non aprisse più la bocca. Ma non basta. Nel collegio che ha giudicato il coraggioso presidente bitontino sedeva, tra gli altri, l'avvocato Cosimo Guaglianone, figlio del Francesco che ora deve rispondere di fronte a Borrelli. Papà imputato, figlio che giudica l'accusatore. I due avvocati sono entrambi ancora lì, al loro posto, a occuparsi di ragazzini che ogni domenica corrono dietro a un pallone. Pensando che sia la cosa più bella del mondo.
PARLIAMO DI SUDDITANZA PSICOLOGICA DEGLI ARBITRI: IL DOSSIER.
Tutta la verità sugli errori arbitrali. Ecco perché le grandi sono favorite.
I numeri confermano che la sudditanza psicologica esiste. Sono sempre le grandi squadre ad essere in qualche modo favorite, dopo il periodo della Juve tocca all'Inter.
A sostenerlo è una ricerca dell’Osservatorio sugli errori arbitrali, ad opera della Virtual Class in collaborazione con l’Adiconsum, l’associazione a difesa dei consumatori e dell’ambiente. Un lavoro molto complesso, con una banca dati complessiva in sette anni di oltre 1200 errori arbitrali in «situazioni di gol/non gol», spiega il responsabile della società Luciano Lupi, in pratica gli errori che hanno inciso sul risultato. Tradotto in percentuali, sempre secondo l’Osservatorio, gli errori arbitrali hanno falsato «il 46 per cento delle partite», e si stima, aspetto non secondario, che abbiano cambiato direzione «le vincite di oltre cinquanta milioni di euro» per quanto riguarda le scommesse sul calcio. I numeri, viene spiegato, sono stati elaborati confrontandoli con le moviole dei tre quotidiani sportivi, e con questo metodo di correzione del risultato della partita: un gol tolto o aggiunto ad ogni errore e 0,7 nel caso di rigore non concesso, per rispecchiare la percentuale statistica di realizzazione dal dischetto.
La società di ricerca si è spinta oltre, con una comparazione dei dati fra il periodo pre e post calciopoli. Per arrivare alle seguenti conseguenze: «Dal quadro sembra apparire abbastanza evidente come: a) esista una sudditanza psicologica degli arbitri nei confronti delle squadre di vertice; b) nel dopo calciopoli questa sudditanza abbia cambiato direzione, a favore soprattutto dell’Inter.
PARLIAMO DI PASSAPORTI FALSI.
Per scandalo dei passaporti falsi s'intende una vicenda che colpì il calcio italiano nell'annata 2000 - 2001 relativa ai passaporti di alcuni calciatori extra-comunitari sui quali c'era scritto che essi avevano parenti di origine europea e, di conseguenza, venivano schierati come atleti comunitari.
Furono coinvolte società dirigenti e calciatori di Serie A e Serie B, tra cui: i campioni d’Italia proprio nel 2000 e nel 2001, Lazio con Juan Sebastian Veron e Roma con Gustavo Bartlet e Fàbio Jùnior; Inter con Alvaro Recoba; Milan con Dida; Juventus con Marcelo Zalayeta, Fabian Carini e Paolo Iglesias Montero; Udinese con Warley, Jorginho, Alberto e Da Silva; Vicenza con Jeda, Dedè; Sampdoria con Job, Mekongo e Francis Zè.
PARLIAMO DI DOPING NEL CALCIO.
Fu l’allora allenatore della Roma, Zeman, a dar fuoco alle polveri. E’ il 25 luglio 1998. «Il calcio deve uscire dalla farmacia», dichiara in una intervista. Appena due giorni dopo il Coni apre un’inchiesta affidata all’avvocato Longo, mentre Zeman insiste nelle accuse e avanza sospetti su Del Piero e Vialli. Sul calcio dopato interviene la magistratura: il primo a occuparsene è il procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello, che il 9 agosto apre un’inchiesta sulla tutela della salute dei giocatori, seguito il giorno dopo dal pm Spinosa della Procura di Bologna.
Il 14 agosto Guariniello ascolta Del Piero, mentre Spinosa convoca Chiesa e Dino Baggio. Nell’inchiesta del pm bolognese sulla farmacia Guandalini compare il nome di Zeppilli, medico della Nazionale. Tre giorni dopo anche Vialli è interrogato a Torino.
La Procura del Coni, il 18 agosto, ascolta i medici Tavana (Milan), Zeppilli (Nazionale), Volpi (Inter), oltre a Veltrone, preparatore atletico della Juve.
Poi, il 20 agosto è il turno di Lippi, Simoni, Del Piero, Fuser, Vicini e Ronaldo.
Il 24 agosto Guariniello interroga il presidente del Coni, Pescante. Il giorno dopo lo stesso Coni conclude la sua inchiesta: «Nel calcio non c’è doping».
Ma Guariniello va avanti e il 4 settembre convoca Longo e Pescante sospettando irregolarità nei test del laboratorio Coni dell’Acqua Acetosa.
Il 9 settembre viene sospeso il segretario della Federazione dei medici sportivi del Coni Gasbarrone.
Un colpo di scena arriva il 19 settembre quando il laboratorio dell’Acqua Acetosa dice di aver smarrito la documentazione sui calciatori. Tre giorni dopo viene commissariata la federazione medici sportivi, mentre il 28 settembre si dimette Pescante.
Appena due giorni dopo scoppia lo scandalo insabbiamenti.
Il 5 ottobre la Procura di Roma invia cinque avvisi di garanzia ai responsabili del laboratorio Coni.
Il 6 dicembre parte un’indagine su 45 morti sospette nel calcio negli ultimi anni e il 16 dicembre viene inviato un avviso di garanzia ad Antonio Matarrese, ex presidente Federcalcio, e a Carlo Tranquilli, medico dell’under 21. Anche il presidente Nizzola, il giorno dopo, entra nel club degli inquisiti.
23 dicembre: Guariniello acquisisce i dati relativi ai primi tre mesi di antidoping nella nuova stagione calcistica.
31 dicembre: per Guariniello norme violate anche in questo campionato.
E il 17 gennaio 1999 mette sotto tiro anche gli arbitri.
Il 4 febbraio il Comitato olimpico internazionale vara l’agenzia indipendente per il controllo sul doping e stabilisce pene minime di due anni al primo caso di positività.
28 maggio: il governo approva la legge: pene da tre mesi a tre anni a chi somministra e a chi assume sostanze dopanti.
15 giugno: cento calciatori hanno usato sostanze proibite, parola di Guariniello.
PARLIAMO DI DOPING AMMINISTRATIVO.
Doping Amministrativo. Un illecito che falsa la competizione sportiva, perchè chi vi ha fatto ricorso ha in pratica messo in atto uno stratagemma contabile, non consentito, per ottenere una iscrizione alla quale non aveva diritto, oppure per avere una maggiore disponibilità economica da spendere sul mercato per rinforzare la squadra. Facile comprendere che se, anzichè ricapitalizzare, si investono quei soldi per acquistare calciatori più forti di quelli che si potrebbe avere, si crei un illecito che ha i suoi effetti su tutte le gare di campionato. La squadra che ha fatto uso di bilanci creativi, imbellettati o taroccati è partita in vantaggio rispetto a chi si è attenuto alle regole.
L'Inter non aveva i requisiti per iscriversi al campionato 2005/06. A sostenerlo sul Corriere è il pm di Milano Carlo Nocerino, che ha trascritto, nella chiusura delle indagini relative alle plusvalenze, quanto emerso dalla relazione della commissione per la vigilanza sulle società calcistiche. In particolare se la società nerazzurra «avesse evidenziato le perdite connesse alle plusvalenze fittizie, l'equilibrio finanziario sarebbe saltato e, appunto, non avrebbe superato i parametri chiesti dalla Covisoc per l'iscrizione al campionato 2005-2006». Insomma, secondo il P.M. non avrebbe giocato e poi vinto a tavolino il suo penultimo scudetto.
PARLIAMO DI BASKETTOPOLI.
È lungo l'elenco degli indagati in "Baskettopoli". Ben 44 le persone che, a vario titolo e con diverse responsabilità, avrebbero fatto parte del sistema di controllo dei campionati di serie B e C ipotizzato dalla magistratura di Reggio Calabria. Ai fini della ricostruzione delle attività e dell'individuazione dei presunti casi di combine, l'inchiesta ha trovato impulsi e riscontri nella collaborazione di tre arbitri. Di due di loro, originari e residenti in regioni del Centro, sono state intercettate le e-mail in cui parlavano dei presunti intrallazzi che avrebbero minato la credibilità della pallacanestro e messo in discussione la regolarità dei tornei. Il terzo arbitro, il 35enne reggino Alessandro Cagliostro (impiegato alla Polizia postale), ha contribuito invece alla ricostruzione della fitta rete di rapporti all'interno dell'organizzazione, indicando competenze, ruoli e presunte responsabilità.
Sono venute, dunque, dall'interno le denunce di presunte irregolarità nei tornei delle minors.
Secondo l'accusa, esisteva una organizzazione che stabiliva a tavolino l'esito delle gare e si avvaleva per determinarne l'esito della collaborazione di arbitri compiacenti, premiati con valutazioni eccellenti che favorivano la loro progressione in carriera.
Con i vertici del settore Commissari, nell'elenco degli indagati figurano sei arbitri e 35 commissari.
Nella ricostruzione delle attività del gruppo che, secondo l'accusa, controllava i destini di tante società di serie B e C e determinava l'esito delle gare o addirittura del campionato, gli investigatori della Polizia postale e delle comunicazioni di Reggio Calabria hanno girato in lungo e in largo per la Penisola.
I reati ipotizzati si sarebbero registrati in quasi tutte le regioni (Lazio, Calabria, Toscana, Sicilia, Umbria, Puglia, Campania, Veneto, Lombardia, Emilia, Piemonte). Delle partite sospette, ben otto sono state giocate in Toscana e una in Sicilia.
PARLIAMO DI DOPING.
Tutti i tipi di doping nella storia. Dagli infusi di erbe e semi alle zollette di zucchero con etere, dalle miscele stricnina-brandy all'Epo, scrive Luca Romano Mercoledì l'11/11/2015. Il doping ha origini antichissime. Qualcuno dice che è sempre esistito. Alcuni studi hanno appurato che nell’antica Grecia, ai tempi dei giochi di Olimpia, gli atleti facevano uso di erbe, semi di varie piante (tra cui quelli di sesamo), funghi e pozioni di ogni tipo per poter aumentare la resistenza allo sforzo fisico. Alcuni si nutrivano di testicoli di toro, da alcuni oggi considerati gli "antenati" degli ormoni. Gli Aztechi mangiavano il cuore alle vittime sacrificali convinti, in questo modo, di prenderne la forza. Inoltre erano convinti, assumendo una sostanza estratta da un cactus, di poter vincere la fatica. Nei primi anni del Ventesimo secolo si cominciarono ad usare le zollette di zucchero imbevute di etere per poi passare a miscele ben più pericolose di stricnina e brandy (o vino) in in cui si facevano macerare foglie di coca. Dagli anni Cinquanta agli Ottanta è il periodo del doping di Stato, con molti paesi dell’Europa dell’est, con in prima linea la Repubblica democratica tedesca e l’Unione sovietica, che fanno uso sistematico di queste pratiche, "nutrendo" di sostanze dopanti soprattutto gli atleti che partecipavano alle Olimpiadi. Gli effetti collaterali - si è poi saputo negli anni - furono devastanti, specie tra le donne, con alcuni casi di persone che subirono il cambiamento di sesso. Negli ultimi anni c'è stata l’esplosione dell'Epo (eritropoietina). Nel ciclismo, prima del caso di Lance Armstrong, vistosi privare dei 7 Tour de France vinti, e delle tante squalifiche legate appunto all’Epo, si è spesso parlato della fantomatica "bomba" assunta da alcuni campioni degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma non vi sono conferme, sono solo voci. Vi sono state poi la morte, probabilmente legata al doping, di Tommy Simpson sul Mont Ventoux al Tour ’67 e la positività di Eddy Merckx al Giro d’Italia 1969. Nell’atletica, oltre al recente caso del marciatore azzurro Alex Schwazer, il caso più clamoroso è stato quello del velocista canadese Ben Johnson, oro sui 100 metri alle Olimpiadi di Seul 1988 e poi squalificato per steroidi anabolizzanti.
All’inizio era «la bomba». Mirabolanti pozioni sciolte da mano artigianale nelle borracce dei corridori. Si chiudeva più di un occhio, i controlli non c’erano, erano ancora troppe le macerie, troppo scarse le minestre, per le crociate moralistiche.
Tutta la letteratura degli «angeli», delle «aquile», dei «cannibali» e dei «pirati» non svanisce, anzi. Per più di un secolo, questi folli incatenati al pedale si sono ammazzati di fatica e di farmaci, hanno dato il sangue, i bronchi, la prostata per rappresentare sulla loro pelle come se fosse umano e raccontabile qualcosa che umano e raccontabile non è. Per strappare stupori o solo qualche ingaggio decente. Condannati prima ancora che dannati. E noi, invece di celebrarli o comunque trattarli con il dovuto rispetto, questi incantevoli fachiri, li abbiamo liquidati come volgari imbroglioni. Anche lui, anche Marco Pantani. «Perché vai così forte in salita anche quando non serve?», gli chiese un giorno un gregario. «Per abbreviare la mia agonia», rispose lui, il ragazzo con la bandana e le orecchie a sventola, non sapendo o forse sapendo benissimo che quella era la sua epigrafe.
Ci sono anche le morti collaterali del doping. Valentino Fois muore come il suo amico Marco Pantani. La stessa melanconia. Lo stesso disastro esistenziale. Impossibile sopravvivere a una macchina infernale che prima ti spaccia per un eroe davanti alle folle e poi ti umilia davanti ai magistrati. Il primo caso accertato di decesso sportivo da doping è del 1886. Era un ciclista, guarda caso. Il gallese Arthur Linton morì dopo aver pedalato come un forsennato nella classica Parigi - Bordeaux. Nel cadavere il medico legale trovò una fantasiosa mistura di stricnina, cocaina ed etere. Gonfio di amfetamine crepò Alfredo Vanzini, alla fine della Milano - Rapallo del 1949.
La prima morte tossica in diretta televisiva fu quella di Tommy Simpson, l’inglese cominciò a sbandare come un ubriaco sui tornanti calvi del Ventoux prima di schiantarsi. Era il 1967. Da Arthur Linton a Valentino Fois, passando per Tommy Simpson, Marco Pantani e José María Jiménez, altro leggiadro e tossico scalatore finito in depressione cronica, la storia del ciclismo è storia di morti esplicite e misteriose, morti sospette, come quella di Jacques Anquetil, il dandy che a ogni arrivo pretendeva di trovare ostriche, champagne e “foie gras”, ma chissà cosa pretendeva alla partenza..., o quella recente del sudafricano Ryan Cox. Testimoni, pentiti e gole profonde hanno raccontato negli anni tutto quello che c’era da sapere sul tema. Dalle bombe sciolte nelle borracce al doping ematico di oggi, passando per corticoidi, anabolizzanti, l’Epo, il doping è diventato negli Anni 90 scientifico e sistematico.
Doping di squadra. Anche qui, condannati ancora prima che dannati. Non ti dopi più per vincere, ma per non perdere lavoro. Gli ultimi appestati si ostinano oggi a pedalare, accerchiati dal sospetto e con il passaporto biologico nella tasca. I falchi dell’antidoping si presentano ovunque con i loro test a sorpresa, anche al funerale del figlio. Come è successo di recente a Kevin Van Impe, gregario di Bettini. No, non è finito il ciclismo, sono finiti quelli all’altezza di raccontarlo. Gli stessi che ora si domandano se la morte di Fois è «il colpo di grazia». Il ciclismo ha già perso da un pezzo la grazia. C'è chi rischia la vita per vincere la corsetta ciclistica amatoriale alla sagra del prosciutto, siringandosi da sé. C'è chi riduce i propri testicoli a noccioline rinsecchite pur di gonfiarsi i bicipiti di un altro paio di centimetri. C'è chi va incontro al cancro, alla leucemia, alla trombosi, all'impotenza pur di arrivare al traguardo della maratona di paese prima dell'amico rivale. Sono i pazzoidi del doping della domenica. In Italia almeno mezzo milione di sportivi truccati e senza controllo, vittime del mito della vittoria anche quando la vittoria non vale niente, solo l'orgoglio di arrivare davanti, o di specchiarsi e vedere muscoli lucidi e turgidi da culturista. Sono i "dopati fai da te", cioè il vero motore di un'industria parallela a quella della droga, nelle mani della criminalità organizzata, che fattura due miliardi di euro all'anno. Perché quelli come Riccò sono soltanto la punta dell'iceberg. Sotto il fenomeno si rivela per quello che è: un commercio mondiale che coinvolge medici, farmacisti, allenatori e naturalmente atleti. Tutti complici per poter prescrivere, comprare, vendere e consumare anabolizzanti, Epo, ormoni della crescita, insulina, integratori, stimolanti, corticosteroidi e farmaci di varia natura che nascono per i malati, ma sono più richiesti dai sani: per andare più forte, per scolpirsi il corpo, per non sentire la fatica. Alla lunga ci si ammala e si muore, ma il dopato della domenica non si cura mai del lunedì.
La vetrina di un negozio per culturisti e palestrati in via Mazzini, pieno centro di Torino. Vasi giganti di creatina a 39 euro, slogan psichedelici e promesse assolute ("Vai oltre i tuoi limiti!"), fotografie di uomini e donne forse gonfiati col compressore, interi scaffali di pillole e pomate.
Un guasto culturale: per sentirci qualcuno abbiamo bisogno di forza, potenza, affermazione e falsa bellezza.
Secondo gli inquirenti, Nas e Guardia di Finanza, la mafia e la camorra gestiscono un mercato in crescita di circa il trenta per cento all'anno, con numeri da grande industria. Del resto in Italia vi sono oltre dodici milioni di sportivi praticanti, e più di tre milioni di tesserati. Le più recenti statistiche indicano che almeno 250 mila atleti agonisti ricorrono alla chimica per alterare le proprie prestazioni, e che almeno una palestra su dieci si rivela luogo di spaccio, commercio e consumo di doping.
I siringati della domenica ignorano, infine, quanto sia sottile il confine tra doping e tossicodipendenza. Ed è proprio da lì, dal cervello, che parte l'abnorme impulso ad essere più forti, più belli, più veloci, più gonfi, più scolpiti.
Donati: "Doping di stato in Russia? Succede anche in altri Paesi". Per il consulente Wada, sarebbe necessario allargare l'inchiesta sulle federazioni che hanno seguito gli stessi metodi di Mosca, scrive Dario Pelizzari su "Panorama" del 10 novembre 2015. Le accuse sono pesanti come macigni. E promettono di riscrivere una fetta importante dell'atletica internazionale degli ultimi anni. Sono stati presentati a Ginevra i risultati dell'inchiesta sottoscritta alcuni mesi fa dalla Wada, l'agenzia mondiale antidoping. Per la commissione indipendente guidata dall'ex vicepresidente del Cio, Dick Pound, la Russia avrebbe coperto, meglio, avallato per anni un sistema occulto che garantiva la liceità di controlli invero colmi di nefandezze. In Russia, lo spiega in modo chiaro il rapporto redatto da Pound, il doping era una consuetudine da sostenere, non da debellare. Le richieste della commissione lo dimostrano: proposta la squalifica a vita di cinque atlete, quattro allenatori e un dirigente, e la cancellazione dell'accredito al laboratorio antidoping internazionale di Mosca, sede e fortino di quella che sarebbe la più grande truffa ai danni dello sport mondiale dai tempi della Guerra fredda. Il podio degli 800 femminili a Londra 2012: medaglia d'oro per Marya Savinova, d'argento per la chiacchieratissima sudafricana Caster Semenya, e di bronzo per l'altra atleta russa, Ekaterina Poistogova. "Il marcio è venuto a galla grazie al lavoro di un bravissimo giornalista del canale tedesco Ard, Hajo Seppelt, che ha lavorato a lungo per scoprire le ramificazioni internazionali del doping - spiega a panorama.it Sandro Donati, consulente Wada e allenatore da qualche mese dell'olimpionico Alex Schwazer - E anche per le ammissioni di una coppia di atleti russi, che hanno cominciato a parlare della situazione dello sport nel loro Paese. Dopodiché il merito va pure alla Wada, perché ha saputo raccogliere queste testimonianze e proporle al pubblico con una buona dose di coraggio, ma non dobbiamo dimenticare che tutto è nato da un'indagine giornalistica. Chi ci può garantire che senza quest'ultima, se ne sarebbe parlato lo stesso?".
"I vertici governativi non potevano non sapere", ha spiegato Pound a Ginevra. Lo crede anche lei?
"Non v'è alcun dubbio. Si parla di un doping generalizzato che ha coinvolto un'intera squadra di marciatori, seguiti da un tecnico che nel corso della sua carriera aveva avuto una trentina di precedenti. E' chiaro che tutti sapevano. Anche in ambito politico. Temo però che la Russia possa trovare il modo di giustificarsi almeno in parte se sulla scia di quanto è emerso dal rapporto della Wada non si approfondiranno le responsabilità di altri Paesi".
Tutto partì da un database...
"Esattamente. Un database gigantesco in cui la Iaaf aveva raccolto i controlli ematici di tutti gli atleti tesserati dal 2001 a oggi. Venne sequestrato dalla Procura di Bolzano a un medico italiano che collaborava con la Iaaf. Nel database si faceva riferimento a un numero decisamente alto di casi che meritavano di essere indagati dalle autorità competenti. Come è noto, il braccio destro del presidente dell'Associazione internazionale dell'atletica andava in giro con questo file nella valigetta proponendo la copertura agli atleti in odore di investigazione in cambio di denaro. Quel database rappresenta la mappa utile per andare fino in fondo, per fare chiarezza una volta per tutte. Perché la Russia è certamente coinvolta in un doping generalizzato, ma non è l'unico Paese che andrebbe sanzionato".
Qualche esempio?
"Il Kenya, prima di tutto, in maniera massiccia. E poi i Paesi nordafricani e alcuni stati dell'Est Europa. Ma anche la Spagna è coinvolta in modo importante".
Senza l'appoggio della Iaaf la Russia avrebbe potuto portare avanti un simile progetto?
"Certo che no. La Russia aveva degli interlocutori all'interno dell'associazione e non avrebbe potuto essere altrimenti. Queste persone, indagate dalla magistratura francese, esercitavano veri e propri ricatti nei confronti di atleti coinvolti nel doping. La posizione iniziale del nuovo presidente dell'Associazione mondiale dell'atletica, Sebastian Coe, era poco condivisibile. Accusava la stampa di perpetrare massacri gratuiti all'indirizzo della Iaaf. Ora le cose sembrano cambiate. Ha detto che vuole creare una commissione indipendente per fare luce su quanto è emerso dall'inchiesta. E credo che questo sia un punto chiave per una possibile svolta nella lotta al doping. Speriamo che non torni sui suoi passi".
La Wada ha chiesto la sospensione della Russia dell'atletica alle prossime Olimpiadi del 2016. Decisione giusta o necessaria?
"E' una decisione che segna il confine tra il prima e il dopo. Tra quanto è stato per anni e quanto non dovrebbe più essere. Sì, credo che sia giusta. Per combattere il doping occorre andare alle radici. Finora si è sminuzzata la problematica perseguendo le responsabilità del singolo atleta. Ma non è sufficiente. Perché dopo qualche anno, l'atleta passa, ma i medici e i dirigenti che governano le strutture dello sport nei diversi Paesi rimangono al loro posto per molto più tempo. E qui si nasconde il problema più grande: la Wada prevede sanzioni soltanto per gli atleti, non per le federazioni e i comitati olimpici internazionali. Per cambiare le cose, bisogna partire da qui, da questa riforma".
Se venisse cancellata la Coppa del mondo di marcia in programma in Russia nel maggio 2016, Schwazer potrebbe non avere la possibilità di guadagnarsi il pass olimpico. E' preoccupato?
"Se la Coppa del mondo non si dovesse tenere in Russia, verrebbe organizzata da un'altra parte, non penso che venga cancellata. Dico la verità, preferirei che Schwazer incontri i migliori al mondo per dimostrare quanto vale. Lui vorrebbe così e io che lo seguo da vicino sarei felice che riuscisse nel suo intento, perché lo merita. Ma è una decisione, quella della Wada, sulla quale non mi sentirei di intervenire. Se gli atleti russi hanno sbagliato, è giusto che paghino".
Inter, Bergomi: "Sono preoccupato per i farmaci che ci davano". L'ex difensore dell'Inter e della Nazionale: "Noi all'epoca eravamo ingenui, oggi i ragazzi sono più informati. Ma tranquilli, sto bene. La mia è una paura a livello generico", scrive Mario Pagliara su “La Gazzetta dello Sport” il 15 settembre 2015. "A volte sono anche preoccupato per i farmaci che ho preso o che mi hanno dato". Chiaro: l'argomento è il doping. Un tuffo nel passato con un allarme più o meno velato incentrato sul presente: la riflessione è firmata da Beppe Bergomi davanti ai microfoni della RSI (la tv della Svizzera italiana) in occasione di un convegno sull'intreccio sport, doping e giovani tenuto ieri pomeriggio all'Expo di Milano. Venti anni di Inter: esordio nel 1979, fine di un'avventura lunga 519 partite in nerazzurro il 23 maggio 1999 in Inter-Bologna. Poi Bergomi ha circostanziato il senso di quelle parole ai microfoni della Gazzetta dello Sport: "Mi riferivo al Micoren: quando ho iniziato a giocare ce lo davano sempre e ci dicevano che serviva a spaccare il fiato. Poi si è scoperto che è una sostanza dopante e pericolosa". Molti calciatori del passato hanno più volte denunciato di aver preso il Micoren, come Fabio Capello e Cesare Prandelli ad esempio. Il Micoren è uno stimolante cardiovascolare: fu tolto dal mercato nel 1985 perché nocivo. Mettiamo in ordine questa storia, partendo da ieri. Dall'Expo, dove Beppe Bergomi riflette con i colleghi della tv svizzera: "Per ottenere determinati obiettivi non devi passare per determinati sotterfugi. Questa è una cosa che ho sempre cercato di inculcare nei giovani - è il messaggio lanciato alle nuove generazioni -. Alcune sostanze che adesso sono doping, nel 1979-80 quando ho iniziato io, si potevano prendere. A volte sono anche preoccupato per quello che ho preso o che mi hanno dato". E chiude alla Rsi: "Oggi le società sono cresciute e danno un livello di informazione elevato. Poi penso che un giocatore debba sempre chiedere al suo medico". Con La Gazzetta dello Sport, Beppe Bergomi ha approfondito il senso di quelle parole: "Ho partecipato a un convegno molto interessante sul doping, e in quel momento, parlando ai giovani, mi è venuto in mente il Micoren. Quando ho parlato dei farmaci che ci davano quando ho iniziato la mia carriera da calciatore, mi riferivo proprio al Micoren, che all'epoca non era conosciuto: all'Inter ce lo davano e ci dicevano che serviva a spaccare il fiato, poi, anni dopo, si è scoperto che è una sostanza pericolosa. Il Micoren lo davano a tutti e in tutte le società". Bergomi sottolinea: "L'ho detto per lanciare soprattutto un messaggio ai giovani: noi all'epoca eravamo più ingenui, dovevamo invece essere più attenti e più pronti a chiedere informazioni alle società su quello che prendevamo. Oggi invece i ragazzi devono puntare su un sano allenamento, devono sempre chiedere informazioni su tutto quello che gli viene dato e devono puntare su una sana alimentazione. Noi quel Micoren lo abbiamo preso ingenuamente, perché ci dicevano che ci aiutava". Bergomi spiega meglio quel "sono preoccupato per i farmaci che ho preso" espresso alla tv svizzera. "Era una considerazione di carattere generale - sottolinea -: io sto bene, tranquilli. Ho pensato alle conseguenze, che ancora non conosciamo, che potrebbero esserci per aver preso quei farmaci. E poi ci sono i tanti casi di Sla tra i calciatori per i quali ancora non si riesce a trovare una spiegazione. Non alludevo a nulla di specifico: è una paura in senso generico".
Mazzola: «L'Inter di HH, la staffetta e quei caffè...». «Ce li davano sempre prima di giocare, non so cosa ci fosse dentro. In campo mi girava la testa, i medici volevano fermarmi sei mesi», scrive Walter Veltroni su “Il Corriere dello Sport” il 7 novembre 2015. Sandro Mazzola ha fatto uno dei gol più belli della storia del calcio. Lo segnò nel 1966 contro il Vasas, in Ungheria. Partì da centrocampo, marcò tutta la difesa magiara, superò il portiere, si accentrò, aspettò persino che rientrasse in porta il numero uno degli avversari e, mentre tutta Italia davanti al teleschermo gridava “Tira, tira” non spiegandosi perché lui aspettasse tanto, infilò il pallone nell’angolo alla sinistra dell’estremo difensore del Vasas. Qualcosa di simile al gol leggendario di Maradona con l’Inghilterra. Un’altra volta con la Svizzera, in amichevole, fece sei palleggi al volo e poi segnò all’angolo basso. E’ stato un fuoriclasse, leggero di fisico e tenace come pochi. In questo paese cha ama le polarità e le contrapposizioni, nel paese di Coppi e Bartali, il cognome di Mazzola viene spesso associato, quasi pavlovaniamente, a quello di Rivera. A complicare tutto ci si mise anche un’altra invenzione nostrana: la staffetta. Due campioni simbolo del calcio dell’Italia rinata grazie a talenti nati sotto i bombardamenti.
«Mio padre si chiamava Valentino Mazzola. Io non sapevo chi fosse per gli altri. Per me era solo mio padre. Quando a Torino passeggiavo con lui, a Via Roma, tutti lo fermavano e gli parlavano. Io allora gli stringevo forte la mano perché avevo paura che gli volessero far male. Mi portava allo stadio Filadelfia quando si allenava con la sua squadra che tutti chiamavano, doveva esser vero, il “Grande Torino”. Io mi ricordo che avevo un fuciletto a tracolla che era il mio orgoglio. Non lo avrei lasciato per nulla al mondo. Ma quando vedevo un pallone perdevo la testa. E allora mi mettevo a tirare rigori e a dribblare con il fuciletto sulla spalla. Giocavo con le figlie del magazziniere e con quelle di Grezar. Ero felice, allora».
Lei come cominciò a giocare?
«A parte le esibizioni col fuciletto io ricordo che a fine allenamento tiravo i rigori a Bacigalupo che, in verità, mi faceva segnare. Quando tornai a vivere con la mia mamma cominciai a giocare molto. All’oratorio, in piazzetta, appena si poteva io correvo appresso a una palla. Mia madre e mia nonna facevano le orlatrici e si sedevano fuori a lavorare. Io potevo così giocare tranquillo nel vicolo, largo non più di due metri, dove, con mio fratello, facevamo i gol di testa e di piede. Giocavamo anche in piazza, dove c’era un carcere. Dalle finestre delle celle i detenuti facevano il tifo. All’oratorio c’era don Giordano, un vero appassionato di calcio. Noi lo chiamavamo Dindondano e lui per farci giocare aveva chiuso una strada. Dietro le porte che aveva montato c’era, da una parte, l’uscita di sicurezza del cinema del paese, dall’altra la fermata dell’autobus. Se poi tiravamo troppo forte e colpivamo la vetrina del pasticciere lui ci bucava il pallone. Ma c’erano anche le catacombe e se il pallone finiva lì sotto a noi faceva paura andarlo a prendere».
C’era doping ai suoi tempi, come molti, compreso Ferruccio, hanno sostenuto?
«Le cose sono vere. Io ad un certo punto cominciai ad avere, in campo, dei fortissimi giramenti di testa. Andai dal medico che mi fece fare tutte le analisi e mi disse che dovevo fermarmi, che avevo problemi grossi. Mi disse che dovevo stare fuori almeno sei mesi. Ma questo Herrera non lo voleva. Da dove nascevano quei valori sballati? Non lo so. Ma so che, prima della partita, ci davano sempre un caffè. Non so cosa ci fosse dentro. Ricordo che un mio compagno, Szymaniak, mi chiese se prendevo la simpamina. Io non sapevo cosa fosse ma qualcosa che non andava, qualcosa di strano, c’era».
Quale è stato il momento più bello che ha vissuto nell’Inter?
«La prima finale di Coppa dei Campioni con il Real Madrid. Deve sapere che noi non avevamo la tv. Si andava all’osteria e, se consumavi una spuma, potevi vedere la partita. Tutte le finali della coppa prima le giocava o vinceva il Real. Io ero innamorato di Alfredo Di Stefano che tutti dicevano giocasse proprio come papà. Lo adoravo: elegante, tecnico, sempre con la testa alta. Al Prater me lo vidi davanti all’improvviso, mentre aspettavamo di scendere in campo. E restai imbambolato. Per me era un divo della tv. Finché Suarez mi batté sulla spalla e mi disse “Noi scenderemmo in campo, tu resti qui a guardare Alfredo?”. Feci anche un gol, quella sera. In verità non voluto, quasi per caso, ma non fa nulla. Festeggiai in modo plateale, per me inusitato, non la finivo più. Sempre Suarez mi disse “Guarda che se non smetti questi ce ne fanno quattro”».
La grande Inter di Helenio Herrera e il doping. Aveva ragione Ferruccio Mazzola. Dieci anni dopo l'intervista a l'Espresso su pasticche e caffè con sostanze, il fratello Sandro ammette: «Era tutto vero». Una battaglia storica che il nostro settimanale ha condotto non solo sulla squadra milanese, ma anche sulle morti misteriose nella Fiorentina degli anni Settanta, scrive Alessandro Gilioli su "L'Espresso" del 10 novembre 2015. Finalmente anche Sandro Mazzola ha parlato, ammettendo la verità. I "caffè dopati" di Helenio Herrera, nell'Inter degli Anni '60, non erano un'invenzione di suo fratello Ferruccio. Era tutto vero. Ed è la parola definitiva su una vicenda controversa in cui ha avuto un ruolo anche "l'Espresso". Andai da Ferruccio un giorno di primavera di dieci anni fa. Ci incontrammo all'estrema periferia di Roma, dove l'ex calciatore viveva, in una casa modestissima, non lontano dal campetto dove - credo gratis o quasi - allenava i ragazzi del quartiere. «Lo faccio per sentirmi vivo e per insegnargli a non doparsi», diceva. Mi ci aveva mandato, da Ferruccio, Carlo Petrini. Che pochi ricordano e alcuni confondono con l'omonimo fondatore di Slow Food: invece era stato un centravanti di una certa fama negli anni Settanta, poi era stato condannato per il calcioscommesse e parecchi anni dopo aveva tirato fuori tutto quello che sapeva - non solo sui soldi, ma anche sul doping e il resto - in un libro che ancora oggi vale la pena di leggere. Petrini ormai aveva fatto del suo stesso pentimento e della moralizzazione del calcio una battaglia di vita. Andava nelle scuole, a parlarne e a spiegare ai ragazzi cosa c'era dietro il mondo dorato del pallone. Così, dopo un'intervista che gli avevo fatto sul suo libro, Petrini mi fece conoscere la vedova di Bruno Beatrice, Gabriella, che aveva appena fatto causa alla Fiorentina e alla Federcalcio perché fossero riconosciute le responsabilità di entrambe nella morte, a 39 anni, del marito. Ne vennero fuori un paio di pezzi per l'Espresso, con qualche conseguenza: una querela per diffamazione da parte di Carletto Mazzone (che poi prudentemente rimise) e una promessa mai mantenuta di Diego Della Valle di far giocare al Franchi una partita di beneficenza "Memorial Bruno Beatrice". Dopo che avevo scritto della Fiorentina dei '70, Petrini mi consigliò di occuparmi anche dell'Inter, della grande Inter dei '60. Per me era un mito, quella squadra: ero bambino quando mio padre mi portava a vederla trionfare. Sarti, Burnich, Facchetti, eccetera. Ma quando Petrini me ne parlò ero già abbastanza grande per mettermi alle spalle il tifo e andare ad ascoltare Ferruccio Mazzola, che aveva da pochissimo pubblicato il suo libro, " Il terzo incomodo ". Non se l'era filato nessuno, quel volumetto di ricordi, e non solo perché il suo editore era poco potente. Un muro di silenzio l'aveva sepolto, un muro di convenienza e non solo nerazzurra: nessuno ha interesse a denudare quella grande macchina da soldi che è il mondo del pallone. Quando andai a intervistarlo, in quella periferia romana, Ferruccio era un uomo stanco, amareggiato e preoccupato. Quasi pentito di quello che aveva scritto nel libro, per via della causa milionaria che gli aveva intentato l'Inter di Moratti. E perché quelle pagine avevano provocato la rottura dei rapporti con Sandro, il fratello maggiore e più bravo sul campo. Mi confermò lo stesso tutto quello che aveva scritto, in modo ancora più chiaro ed esplicito. In realtà la mia intervista non conteneva niente di più di quello che c'era nel libro. Semplicemente, le accuse erano più dirette: «Ho visto l'allenatore, Helenio Herrera, che dava le pasticche da mettere sotto la lingua. Le sperimentava sulle riserve (io ero spesso tra quelle) e poi le dava anche ai titolari. Qualcuno le prendeva, qualcuno le sputava di nascosto. Fu mio fratello Sandro a dirmi: se non vuoi mandarla giù, vai in bagno e buttala via. Così facevano in molti. Poi però un giorno Herrera si accorse che le sputavamo, allora si mise a scioglierle nel caffè. Da quel giorno 'il caffè' di Herrera divenne una prassi all'Inter. Non so con certezza cosa ci fosse dentro, credo fossero anfetamine. Una volta dopo quel caffè, era un Como-Inter del 1967, sono stato tre giorni e tre notti in uno stato di allucinazione totale, come un epilettico. Sandro e io, da quando ho deciso di tirare fuori questa storia, non ci parliamo più. Lui dice che i panni sporchi si lavano in famiglia. Mio fratello ha paura di inimicarsi i dirigenti nerazzurri. E tutti quelli che stanno ancora nel calcio non vogliono esporsi, temono di rimanere tagliati fuori dal giro. Sono legati a un sistema, non vogliono perdere i loro privilegi, andare in tv, e così via». Ripeto: rispetto al libro c'era poco di nuovo. Però l'intervista servì a rompere il muro di gomma. Non tanto sui mainstream media - specie quelli sportivi - ma soprattutto su Internet: un po' perché fu ripreso dal blog di Beppe Grillo e un po' per tifo anti interista. Ricevetti anche una valanga di insulti da parte dei supporter più accaldati della stessa squadra per cui tifo io e alle cui partite sono stato abbonato per quasi dieci anni, secondo anello rosso. Tempo dopo, occupandomi di Moggi e Giraudo, ne avrei ricevuti altrettanti da tifosi di altra parte. Nel 2011 Ferruccio Mazzola fu assolto: la causa intentata da Moratti, che tanto lo preoccupava, finì in un autogol. Ferruccio era già malato: morì due anni dopo. Pochi mesi prima se n'era andato anche Petrini, dopo un'altra lunghissima malattia che negli ultimi anni gli aveva tolto quasi del tutto la vista. I due ex calciatori che hanno raccontato la verità sul gioco più bello del mondo non ci sono più. «Le cose sono vere», ammette però oggi Sandro, testualmente. E aggiunge particolari nuovi: come i valori sballati, i giramenti di testa, il medico che voleva fermarlo e Herrera che si oppose. Non so perché, a 73 anni, Sandro Mazzola ha deciso finalmente di dire tutto. Se per età, intendo dire, o per indifferenza alla nuova dirigenza dell'Inter. Ma in fondo non importa. «Le cose sono vere», questo è l'importante. Ed è l'omaggio più dovuto a suo fratello Ferruccio, centrocampista fragile ma uomo onesto e coraggioso.
"Quelle pillole che ci dava Herrera". Pasticche nel caffè che il tecnico dava ai giocatori, molti dei quali sono morti. Ferruccio Mazzola racconta il doping della Grande Inter. E chiama in aula tutti i campioni di allora, scrive Alessandro Gilioli su "L'Espresso" del 16 maggio 2005. Sono campioni che hanno fatto la storia del calcio italiano quelli che passeranno, uno dopo l'altro, in un'aula del tribunale di Roma a parlare di doping. Come Giacinto Facchetti, splendido terzino sinistro e oggi presidente dell'Inter; o come Sandro Mazzola, Mariolino Corso, Luis Suarez. E ancora: Tarcisio Burnich, Gianfranco Bedin, Angelo Domenghini, Aristide Guarneri. Tutti chiamati a testimoniare da un loro compagno di squadra di allora, Ferruccio Mazzola, fratello minore di Sandro, che vuole sentire dalla loro voce - e sotto giuramento - la verità su quella Grande Inter che negli anni '60 vinse in Italia e nel mondo. "Non l'ho cercato io, questo processo: mi ci hanno tirato dentro. Ma adesso deve venire fuori tutto", dice Ferruccio.
A che cosa si riferisce, Mazzola?
"Sono stato in quell'Inter anch'io, anche se ho giocato poco come titolare. Ho vissuto in prima persona le pratiche a cui erano sottoposti i calciatori. Ho visto l'allenatore, Helenio Herrera, che dava le pasticche da mettere sotto la lingua. Le sperimentava sulle riserve (io ero spesso tra quelle) e poi le dava anche ai titolari. Qualcuno le prendeva, qualcuno le sputava di nascosto. Fu mio fratello Sandro a dirmi: se non vuoi mandarla giù, vai in bagno e buttala via. Così facevano in molti. Poi però un giorno Herrera si accorse che le sputavamo, allora si mise a scioglierle nel caffè. Da quel giorno 'il caffè' di Herrera divenne una prassi all'Inter".
Cosa c'era in quelle pasticche?
"Con certezza non lo so, ma credo fossero anfetamine. Una volta dopo quel caffè, era un Como-Inter del 1967, sono stato tre giorni e tre notti in uno stato di allucinazione totale, come un epilettico. Oggi tutti negano, incredibilmente. Perfino Sandro...".
Suo fratello?
"Sì. Sandro e io, da quando ho deciso di tirare fuori questa storia, non ci parliamo più. Lui dice che i panni sporchi si lavano in famiglia. Io invece credo che sia giusto dirle queste cose, anche per i miei compagni di allora che si sono ammalati e magari ci hanno lasciato la pelle. Tanti, troppi...".
A chi si riferisce?
"Il primo è stato Armando Picchi, il capitano di quella squadra, morto a 36 anni di tumore alla colonna vertebrale. Poi è stato il turno di Marcello Giusti, che giocava nelle riserve, ucciso da un cancro al cervello alla fine degli anni '90. Carlo Tagnin, uno che le pasticche non le rifiutava mai perché non era un fuoriclasse e voleva allungarsi la carriera correndo come un ragazzino, è morto di osteosarcoma nel 2000. Mauro Biciclise n'è andato nel 2001 per un tumore al fegato. Ferdinando Miniussi, il portiere di riserva, è morto nel 2002 per una cirrosi epatica evoluta da epatite C. Enea Masiero, all'Inter tra il '55 e il '64, sta facendo la chemioterapia. Pino Longoni, che è passato per le giovanili dell'Inter prima di andare alla Fiorentina, ha una vasculopatia ed è su una sedia a rotelle, senza speranze di guarigione...".
A parte Picchi e forse Tagnin, gli altri sono nomi meno noti rispetto ai grandi campioni.
"Perché le riserve ne prendevano di più, di quelle pasticchette bianche. Gliel'ho detto, noi panchinari facevamo da cavie. Ne ho parlato per la prima volta qualche mese fa nella mia autobiografia ("Il terzo incomodo", scritto con Fabrizio Càlzia, Bradipolibri 2004, ndr), che ha portato al processo di Roma".
Perché?
"Perché dopo la pubblicazione di quel libro mi è arrivata la querela per diffamazione firmata da Facchetti, nella sua qualità di presidente dell'Inter. Vogliono andare davanti al giudice? Benissimo: il 19 novembre ci sarà la seconda udienza e chiederemo che tutti i giocatori della squadra di allora, intendo dire quelli che sono ancora vivi, vengano in tribunale a testimoniare. Voglio vedere se sotto giuramento avranno il coraggio di non dire la verità".
Ma lei di Facchetti non era amico?
"Sì, ma lasciamo perdere Facchetti, non voglio dire niente su di lui. Sarebbero cose troppo pesanti".
Pensa che dal dibattimento uscirà un'immagine diversa dell'Inter vincente di quegli anni?
"Non lo so, non mi interessa. Se avessi voluto davvero fare del male all'Inter, in quel libro avrei scritto anche tante altre cose. Avrei parlato delle partite truccate e degli arbitri comprati, specie nelle coppe. Invece ho lasciato perdere...".
Ma era solo nell'Inter che ci si dopava in quegli anni?
"Certo che no. Io sono stato anche nella Fiorentina e nella Lazio, quindi posso parlare direttamente anche di quelle esperienze. A Firenze, il sabato mattina, passavano o il massaggiatore o il medico sociale e ci facevano fare delle flebo, le stesse di cui parlava Bruno Beatrice a sua moglie. Io ero in camera con Giancarlo De Sisti e le prendevamo insieme. Non che fossero obbligatorie, ma chi non le prendeva poi difficilmente giocava. Di quella squadra, ormai si sa, oltre a Bruno Beatrice sono morti Ugo Ferrante (arresto cardiaco nel 2003) e Nello Saltutti (carcinoma nel 2004). Altri hanno avuto malattie gravissime, come Mimmo Caso, Massimo Mattolini, lo stesso De Sisti...".
De Sisti smentisce di essersi dopato.
"'Picchio' in televisione dice una cosa, quando siamo fuori insieme a fumare una sigaretta ne dice un'altra...".
E alla Lazio?
"Lì ci davano il Villescon, un farmaco che non faceva sentire la fatica. Arrivava direttamente dalla farmacia. Roba che ti faceva andare come un treno".
Altre squadre?
"Quando Herrera passò alla Roma, portò gli stessi metodi che aveva usato all'Inter. Di che cosa pensa che sia morto il centravanti giallorosso Giuliano Taccola, a 26 anni, durante una trasferta a Cagliari, nel '69?".
Ma secondo lei perché ancora adesso nessuno parlerebbe? Ormai sono - siete - tutti uomini di sessant'anni...
"Quelli che stanno ancora nel calcio non vogliono esporsi, hanno paura di rimanere tagliati fuori dal giro. Sono tutti legati a un sistema, non vogliono perdere i loro privilegi, andare in tv, e così via. Prenda mio fratello: è stato trattato malissimo dall'Inter, l'hanno cacciato via in una maniera orrenda e gli hanno perfino tolto la tessera onoraria per entrare a San Siro, ma lui ha lo stesso paura di inimicarsi i dirigenti nerazzurri e ne parla sempre benissimo in tv. Mariolino Corso, uno che pure ha avuto gravi problemi cardiaci proprio per quelle pasticchette, va in giro a dire che non mi conosce nemmeno. Anche Angelillo, che è stato malissimo al cuore, non vuole dire niente: sa, lui lavora ancora come osservatore per l'Inter. A parlare di quegli anni sono solo i parenti di chi se n'è andato, come Gabriella Beatrice o Alessio Saltutti, il figlio di Nello. È con loro che, grazie all'avvocato della signora Beatrice, Odo Lombardo, ora sta nascendo un'associazione di vittime del doping nel calcio".
Certo, se un grande campione come suo fratello fosse dalla vostra parte, la vostra battaglia avrebbe un testimonial straordinario...
"Per dirla chiaramente, Sandro non ha le palle per fare una cosa così".
E oggi secondo lei il doping c'è ancora?
"Sì, soprattutto nei campionati dilettanti, dove non esistono controlli: lì si bombano come bestie. Quello che più mi fa male però sono i ragazzini...".
I ragazzini?
"Ormai iniziano a dare pillole e beveroni a partire dai 14-15 anni. Io lavoro con la squadra della Borghesiana, a Roma, dove gioca anche mio figlio Michele, e dico sempre ai ragazzi di stare attenti anche al tè caldo, se non sanno cosa c'è dentro. Ho fatto anche una deposizione per il tribunale dei minori di Milano: stanno arrivando decine di denunce di padri e madri i cui figli prendono roba strana, magari corrono come dei matti in campo e poi si addormentano sul banco il giorno dopo, a scuola. Ecco, è per loro che io sto tirando fuori tutto".
La cura del mago Mazzone. I Nas chiamano in causa l'allenatore per la morte del calciatore Bruno Beatrice. Sottoposto a una radioterapia che si rivelò fatale, scrive il 20 giugno 2008 Alessandro Gilioli. Carletto Mazzone è sempre stato un tipo simpatico. Carattere schietto, lessico vernacolare e una vita spesa sulle panchine di mezza Italia: da Ascoli a Bologna, da Catanzaro a Brescia. Ma è sui tre anni trascorsi alla Fiorentina, dal '75 al '78, che l'allenatore romano dovrà dare spiegazioni ai giudici secondo quanto emerge dall'indagine dei Nas di Firenze sulla morte di Bruno Beatrice, il calciatore viola morto nel 1987, a 39 anni, di leucemia mieloide. Una malattia provocata dall'eccesso di raggi Roentgen a cui il giocatore fu sottoposto perché guarisse più in fretta dalla pubalgia che lo teneva lontano dai campi di gioco: "Un approccio terapeutico omicida", scrivono nel rapporto i carabinieri, "spinto da logiche di sfruttamento dell'atleta, considerato più alla stregua di animale da reddito che di essere umano". E la responsabilità secondo i Nas va attribuita proprio a Mazzone perché l'allenatore avrebbe "sottratto la gestione dei problemi fisici di Beatrice allo staff medico del club prendendola in mano direttamente e attraverso un uomo di sua fiducia". I fatti si riferiscono alla stagione 1975-76: in campionato la Fiorentina ciondola a metà classifica, ma punta a vincere la coppa Italia bissando il successo dell'anno prima. Nella rosa ci sono giocatori di livello, come il giovane Antognoni e il trequartista Merlo. Poi c'è un mediano che non avrà i piedi fatati ma come grinta non lo batte nessuno: si chiama Bruno Beatrice detto 'il Mastino', un fisico d'acciaio che gli permette di correre per tre. Lo ha preso dalla Ternana nel '73 l'allenatore Gigi Radice e, quando Mazzone arriva a Firenze, è già titolare da due anni. Probabilmente lo sarebbe anche il terzo se, durante l'inverno, una pubalgia non lo avesse fermato. Dopo le prime cure, lo staff della Fiorentina decide di farlo visitare a Roma da un luminare del settore, Lamberto Perugia, che gli prescrive "riposo, impacchi, elettroterapia e una cauta massoterapia". In altre parole, tempi di guarigione molto lunghi. A quel punto Beatrice torna a Firenze, dove i consigli del professor Perugia sono disattesi e il giocatore viene spedito in un ospedale di Fiesole, Villa Camerata. Qui lo sottopongono per tre mesi (dal marzo al giugno del '76) a quotidiani trattamenti di raggi Roentgen, senza che sia tenuta alcuna cartella clinica. Obiettivo: recuperare il calciatore per la fase finale della stagione, quando i viola devono giocarsi la Coppa Italia contro Milan, Sampdoria e Napoli. La Fiorentina detiene il trofeo e il giovane Mazzone - alla sua prima panchina importante dopo la gavetta di Ascoli - non vuole sfigurare rispetto al suo famoso predecessore Nereo Rocco. è così, scrivono i carabinieri, che prevale "un approccio terapeutico ove predomina la componente del recupero a ogni costo". E "la messa a riposo del calciatore non coincideva con questa esigenza. Quindi si ricorre al fai-da-te, alla terapia spinta e nascosta, approfittando dell'ingenuità e dello zelo dell'atleta". Ed "è Mazzone a trovare il metodo magico", cioè appunto la radioterapia selvaggia. Una strategia concordata, secondo i Nas, tra lo stesso allenatore e un suo collaboratore che non apparteneva allo staff della Fiorentina: Ivo Micucci, fisioterapista dell'Ascoli, con cui Mazzone avrebbe continuato a consultarsi privatamente anche a Firenze. Sarebbero stati loro due a decidere di mandare Beatrice a Villa Camerata, per la riservatezza che un primario di questo ospedale, Inson Rosati, garantiva a Mazzone e al club. Sentito nel corso dell'indagine, secondo i carabinieri Mazzone avrebbe mentito su diversi punti, "dichiarando tutto il contrario di quello che l'evidenza dei fatti ha dimostrato", in particolare quando ha sostenuto di non essersi "mai intromesso nella gestione sanitaria dei calciatore". In conclusione, i Nas hanno ipotizzato che Mazzone e Micucci siano responsabili di omicidio preterintenzionale, perché sarebbero stati coscienti - anche secondo i protocolli medici dell'epoca - che i loro comportamenti avrebbero potuto portare alla morte di Beatrice. Ora il pm Luigi Bocciolini dovrà decidere se chiedere il rinvio a giudizio. I famigliari di Beatrice sperano che finalmente sia fatta giustizia su un caso divenuto metaforico del doping senza scrupoli degli anni Settanta. Grazie a loro - e all'avvocato Odovisio Lombardo che li assiste - è nata l'Associazione vittime del doping. Primo obiettivo: dedicare un memorial a Bruno Beatrice, il generoso mediano morto con la schiuma alla bocca e il corpo ricoperto di piaghe. L'attuale patron della Fiorentina, Diego Della Valle, ha promesso che si farà entro agosto.
Omicidi a colpi di doping. Gli eroi della Fiorentina degli anni '70 stanno morendo uno dopo l'altro. Di flebo e raggi X. La denuncia della vedova di uno di loro. Colloquio con Gabriella Beatrice, scrive Alessandro Gilioli il 30 giugno 2008 su "L'Espresso". Era una gran bella squadra la Fiorentina tra gli anni '60 e '70. Quella dell'ultimo scudetto viola e di una coppa Italia strappata al Milan d'un soffio. C'erano piedi buoni e corridori instancabili, fuoriclasse assoluti e portatori d'acqua. C'era Nello Saltutti, goleador di razza, morto d'infarto nel 2003 a 56 anni; c'era Ugo Ferrante, eroe dei Mondiali in Messico, ucciso da un tumore alle tonsille otto mesi fa; c'era Giuseppe Longoni, terzino sinistro, che oggi vive su una sedia a rotelle per una vasculopatia cardiaca; c'era Adriano Lombardi, ora anche lui paralizzato per il morbo di Gehrig; c'era Massimo Mattolini, il portiere, ancora vivo grazie a un trapianto di reni; c'era Mimmo Caso, che poi ha avuto un tumore al fegato; e c'era il grande Giancarlo Antognoni, che nel novembre scorso è stato vicino alla morte per un'improvvisa crisi cardiaca, a 51 anni. Gran bella squadra, la Fiorentina tra i '60 e i '70. Ci giocava anche Bruno Beatrice detto "il Mastino", centrocampista d'interdizione con fisico da Marcantonio e polmoni infiniti, uno che correva mille volte in difesa a recuperare e poi trascinava i compagni in avanti. Uno che gli allenatori volevano sempre in campo, anche quando lui non stava tanto bene e forse, chissà, anche per questo è morto ragazzo. Bruno è stato il primo di quel gruppo ad andarsene via. A 39 anni, dopo un'agonia di 30 mesi, con la bava alla bocca, le gengive sanguinanti, le gambe un tempo statuarie ridotte a grissini, pustole dappertutto e dolori lancinanti alle ossa che non se ne andavano via nemmeno con la morfina. è morto in una notte di dicembre del 1987, gemendo disperato: «Che cosa mi hanno fatto, che cosa mi hanno fatto?». Aveva due bambini piccoli e una moglie bellissima di nome Gabriella. Oggi quella donna ha 57 anni e pensa che qualcuno debba rispondere a suo marito e dire quello che gli hanno fatto. La lunga battaglia della vedova Beatrice in questi giorni è a una svolta, grazie al ricorso firmato dagli avvocati Odovilio Lombardo e Silvana Melardi che è stato finalmente accolto dal Gip di Firenze. Ora le indagini sulla morte di quel mediano generoso ricominceranno da zero e i Nas inizieranno ad ascoltare, uno dopo l'altro, i sopravvissuti di quelle stagioni in maglia viola e i familiari di chi invece non c'è più. Convocheranno medici, dirigenti, allenatori del tempo. Riapriranno una pagina vergognosa e insabbiata del calcio italiano.
Signora Beatrice, perché pensa che suo marito sia morto di doping?
«Quando Bruno si è ammalato io non sapevo neppure che cosa fosse il doping. Certo, mi stupiva il fatto che quando era in ritiro prima delle partite mi tenesse al telefono per tre quarti d'ora dicendo che tanto aveva tempo, si stava facendo delle flebo. Mi faceva impressione che avesse tre buchi viola a forma di triangolo sul braccio sinistro che non gli andavano mai via. E mi lasciava perplessa anche il fatto che dopo le partite restasse sveglio e agitatissimo per due giorni. Ma non avevo mai collegato queste stranezze alla sua malattia».
E poi?
«Poi un giorno - Bruno era già morto da anni - per caso ho letto su un libro che i raggi Roentgen, in dosi eccessive, possono causare la leucemia. Per la precisione, la linfoblastica acuta, quella di Bruno».
Suo marito aveva fatto i Roentgen?
«Tutti i giorni, per tre mesi, nella primavera del '76. Aveva una pubalgia, non riusciva a finire una partita e la Fiorentina aveva bisogno di lui. Andò a Roma, da uno degli ortopedici più famosi d'Italia, il professor Lamberto Perugia. Che gli prescrisse "riposo, impacchi caldi e umidi, elettroterapia e cauta massoterapia". Ho qui ancora la sua lettera. Ha scritto anche: "Solo dopo la completa scomparsa dei sintomi potrà riprendere progressivamente l'attività atletica". Insomma, ci voleva tempo. Troppo tempo per la sua società».
E quindi?
«Quindi lo mandarono in un ospedale di Firenze, Villa Camerata. Il primario era un consigliere della Fiorentina, Inson Rosati. E lì iniziarono a fargli i raggi Roentgen. Volevano che fosse pronto per una partita importante del girone finale di coppa Italia. Era Sampdoria-Fiorentina, del 9 giugno 1976».
La giocò?
«No. Perché poco prima del match, mentre erano tutti a pranzo in un ristorante di Santa Margherita, Bruno ricevette la telefonata di un giornalista sportivo suo amico. Gli disse: "Sai che ti hanno scaricato? A fine stagione ti vendono al Cesena". Mio marito andò su tutte le furie e chiese spiegazioni a Carlo Mazzone, il suo allenatore. Litigarono, finirono alle mani. Alla fine Mazzone gli urlò: "Tu sputerai sangue fino alla fine dei tuoi giorni!". Mi vengono i brividi a pensarci, perché poi Bruno è morto proprio così».
Per quale motivo l'avevano venduto?
«Pensavano che fosse un cavallo zoppo, da riempire di raggi per il finale di stagione e da buttare subito dopo».
Poi ci andò, al Cesena?
«Sì, fece diverse altre stagioni in giro e non ebbe sintomi del male fino al 1985. Era il 23 agosto. Bruno si era ritirato da poche settimane. Eravamo qui ad Arezzo quando lui sentì i primi dolori alle ossa del braccio sinistro. Poi anche a quello destro. Quindi alle gambe. Il volto gli divenne livido. Aveva freddo, anche se era estate. Gli diedero l'Orudis, un antireumatico. Dissero che forse era radicolite. Arrivarono altri sintomi: febbre cronica, sangue dalle gengive, puntini rossi sul volto. A novembre scoprirono la leucemia. Gli diedero pochi mesi di vita. Invece tenne duro per più di due anni: morì il 16 dicembre dell'87, tra dolori atroci. Con la schiuma alla bocca, lividi sul corpo, piaghe dappertutto. Era diventato l'ombra del calciatore che era stato. L'unica cosa che gli era rimasta di quegli anni erano i tre buchini viola sul braccio sinistro, che non gli erano mai andati via».
Si può provare che suo marito è stato ucciso dal doping?
«Tra i ragazzi della Fiorentina di quegli anni i morti e gli ammalati gravi sono un po' troppi. E i raggi Roentgen a Bruno li hanno fatti fare i dirigenti della Fiorentina perché guarisse in fretta dalla pubalgia. Tutte quelle flebo gliele imponevano i medici della società per farlo rendere di più. Non basta?».
Che cosa c'era dentro le flebo?
«Bruno mi parlava del Cortex e del Micoren. Il primo è corteccia surrenale, aiuta a recuperare più in fretta dalla fatica. Il secondo è un cardiotonico, stimola il sistema nervoso centrale. All'epoca non erano vietati, ma chi glieli dava in quelle dosi sapeva benissimo che erano molto dannosi».
Chi saranno gli imputati se ci sarà un processo?
«Io penso al medico sociale dell'epoca, il professor Bruno Anselmi, e in sede civile agli eredi dell'altro medico della squadra, che nel frattempo è deceduto. Poi naturalmente la vecchia A. C. Fiorentina (che però è fallita) e la Federazione Gioco Calcio, per omesso controllo».
Chiederete un risarcimento?
«Non sto facendo tutto questo per soldi. Mi basterebbe che la verità sulla morte di Bruno venisse accertata e che chi l'ha fatto ammalare chiedesse scusa a me e ai miei figli. E vorrei che Carraro, oggi come allora presidente della Figc, facesse una severa autocritica per l'omertà di questi anni».
Questa omertà c'è anche da parte degli ex compagni di squadra di suo marito?
«Prima di morire Nello Saltutti fece racconti terribili su quello che lui e i suoi compagni erano costretti a prendere. E anche altri ragazzi della Fiorentina di allora (come Galdiolo, Ferruccio Mazzola e Speggiorin) oggi confermano le parole di Nello. Ma naturalmente c'è anche chi, come De Sisti, continua a dire che si tratta soltanto di casi fortuiti. E sì che è stato molto male anche lui, qualche anno fa: ha avuto un ascesso frontale al cervello».
E lei, signora?
«Io vivo per dare giustizia a Bruno. Per far conoscere la sua storia. E perché nessun ragazzo muoia più come lui».