Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
SPETTACOLOPOLI
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA DELLO SPETTACOLO COL TRUCCO
ART. 21 DELLA COSTITUZIONE: LIBERTA' DI MANIFESTARE IL PROPRIO PENSIERO ???
"L’Italia della libera informazione, di parte e gossippara, che pende dalle veline giudiziarie e la notizia la fa, non la dà. L’editoria è la casta più importante. Gli editori sono i veri censori e i manipolatori della coscienza civile. Il sistema prima riconosce la libertà di manifestare il proprio pensiero e poi ne impedisce l’esercizio”
di Antonio Giangrande
SPETTACOLOPOLI
RADIO TV, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
SOMMARIO
INTRODUZIONE
L’HA DETTO LA TELEVISIONE? E’ FALSO! NON SPEGNETE LA TV, MA ACCENDETE LA LIBERTA’.
PERCHE’ RINO GAETANO E’ ATTUALE?
IMBROGLIANO PURE SULL'ORARIO.
BENEDETTO SIA ZALONE.
PORNO E LIBERTA’.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
CON LA RADIO NON S'IMBROGLIA. VIVA LA RADIO CHE NON MUORE MAI.
INCHIESTA SUL CINEMA. DOVE SONOI I SOLDI DELLE STAR?
PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?
PARLIAMO DEI PRESENZIALISTI IN TV.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
HANNO FATTO CHIUDERE I CIRCHI.
VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.
POVIA ED I MORALIZZATORI.
EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.
CHI HA PAURA DEGLI ARTISTI DI STRADA?
PAY TV: SPORT E PIRATERIA.
CALCIOPOLI: PIRATERIA E SPORT.
ALTRO CHE RIVOLUZIONE: E' L'ITALIA DEI FESTIVAL!
LA CONTROSTORIA DELLE CASE EDITRICI ALTERNATIVE.
FAMILISMO AMORALE. LE GUERRE PER L'EREDITA' DEGLI ARTISTI.
NEOREALISMO E MODA.
LA FUNZIONE DELLA TELEVISIONE.
SI CENSURA, MA NON SI DICE.
ATTORI E REGISTI: UNA CASTA DI IDIOTI DI SINISTRA RACCOMANDATI.
LA TELEVISIONE ED I MEDIA: L’OPPIO DEI POVERI CHE DANNEGGIA LE FACOLTA’ MENTALI.
I DISCORSI DI FINE ANNO IN TV.
I TELEGIORNALI DI PULCINELLA.
LA RAI DEI GIORNALISTI ROSICONI.
LA RAI DELLE MAZZETTE.
CIAK. SI TRUFFA E SI FLOPPA. IL CINEMA IN ITALIA.
QUANDO SANREMO E’ SANREMO!
SANREMO. ROBA LORO.
NON SONO TUTTI ...SANREMO.
RAI. LA LIBERTA’ IMPOSSIBILE.
C'ERA UNA VOLTA...CAROSELLO.
L’ITALIA ANTICONFORMISTA.
SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI.
LA FABBRICA DELLE ILLUSIONI.
PARLIAMO DI QUIZ A PREMI: "AFFARI LORO".
GIOCHI E VINCITE. LA TRUFFA DEI GETTONI D’ORO.
LA TV PUBBLICA IN MANO AI PARTITI: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???
90 MILIONI DI EURO DALLA POLITICA PER LA TV PRIVATA: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???
EMITTENTI LOCALI: DENUNCIATE IRREGOLARITA’.
FREQUENZE TELEVISIVE NAZIONALI NEGATE: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???
QUANDO STRISCIA LA NOTIZIA TOPPA.
QUANDO QUINTA COLONNA TOPPA.
QUANDO VIDEO NEWS TOPPA.
QUANDO LE IENE TOPPANO.
LE STELLE DELLA MUSICA SPENTE TROPPO PRESTO.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Voti truccati a Miss Italia? Su Striscia torna la polemica. Secondo la segnalazione di una concorrente, da agenzie promesse preferenze in cambio di denaro, scrive il 22 settembre 2015 “Askanews” - Anche quest'anno polemiche per i voti truccati a Miss Italia. A sollevare la questione è stato il tg satirico di "Striscia la Notizia" che si è mosso sulla segnalazione di una concorrente campana, Federica De Lucia di Pignataro Maggiore. La polemica nasce dall'assegnazione di una fascia sponsorizzata da una casa automobilistica che assicura un contratto da testimonial per un anno e un premio in denaro. Secondo la De Lucia i voti popolari espressi in rete di alcune concorrenti aumentavano in maniera esponenziale solo per alcune ragazze. Secondo la denuncia di Striscia diverse aspiranti miss sarebbero state contattate da manipolatori di voti che in cambio di cifre dai 1.000 ai 15.000 euro promettevano cospicui pacchetti di voti, permettendo così alle miss di scalare la classifica per vincere la fascia. Ci sarebbe, nel servizio di Moreno Morello e Luca Abete una vera e propria guerra di agenzie che si occuperebbe anche dell'affare voti per lanciare una miss.
Scandalo Miss Italia 2015: televoto truccato? Striscia indaga, scrive Diego Schepis su “La nostra TV”. Miss Italia 2015: truffa con il televoto online? Nonostante non abbia registrato ascolti record, l’ultima edizione di Miss Italia targata La7 è riuscita a lasciare il segno. Questa volta, però, la vincitrice Alice Sabatini c’entra ben poco, infatti a scatenare la polemica è stata la trasmissione di Canale 5, Striscia la Notizia che, contattata da una telespettatrice campana, è venuta a conoscenza di una possibile truffa relativa alle votazioni online eseguite durante il concorso per l’assegnazione di una fascia sponsorizzata da una casa automobilistica. Il TG satirico, insospettito, si è subito messo in moto per far luce sulla vicenda. Secondo quanto affermato da Fanpage.it, stando alla denuncia della telespettatrice che ha sollevato il polverone, durante la serata i voti di alcune miss aumentavano in modo sospetto. Inoltre, secondo altre fonti, alcune aspiranti miss sarebbero state contattate da agenzie (in grado di taroccare i voti), le quali avrebbero promesso loro di continuare il loro sogno in cambio di 1000/1500 euro. Insomma, una sorta di acquisto di pacchetto voti che secondo quanto testimoniato dal servizio realizzato per Striscia la Notizia da Moreno Morello e Luca Abete, sarebbe una vera e propria truffa. Il tutto ovviamente è ancora da confermare, quindi al momento restano solo sospetti che sicuramente verranno verificati da chi di dovere. Non è esclusa, inoltre, l’ipotesi di un possibile coinvolgimento di hacker nel sistema delle votazioni, ma per ulteriori chiarimenti e conferme, è necessario attendere gli esiti di eventuali prossime indagini. Alice Sabatini ancora nella bufera? Miss Italia si sfoga da Barbara d’Urso. E se Striscia la Notizia indaga sulle votazioni e sulle possibili truffe riguardo Miss Italia, la vincitrice del concorso di bellezza si gode i primi giorni da miss. Oggi pomeriggio, infatti, Alice Sabatini è stata ospite nel salotto di Barbara d’Urso per un’intervista esclusiva. Alice, nonostante sia giovanissima, è riuscita a dimostrare un grande coraggio e un buon approccio con la telecamera, ma allo stesso tempo ha "sfruttato" la trasmissione per rispondere alle tante critiche che in questi giorni l’hanno bersagliata, in seguito alla sua dichiarazione choc sulla Seconda Guerra Mondiale: “Volevo scusarmi con tutti coloro che hanno frainteso la mia frase. Lo ammetto, mi sono espressa male, volevo semplicemente dire che il mio desiderio sarebbe stato quello di vivere durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale perchè mia nonna spesso mi parla della sua adolescenza e delle tante sofferenze che ha passato. Quando lei mi racconta della guerra, la ascolto sempre con molta attenzione, però non riesco a comprenderla a pieno. Per questo motivo ho detto che avrei voluto rinascere in quel periodo, per riuscire a capirla e a comprenderla come lei vorrebbe”. Insomma, adesso il messaggio è diverso e Alice, mortificata per la sua gaffe, ha cercato di rimediare asserendo: “Spero di poter dimostrare in questo anno da Miss Italia che non sono una ragazza ignorante, ma che sono intelligente”.
Quel concorso è truccato. Milano perde anche la miss, scriveva già a Pagina 41 del 2 settembre 1995 su "Il Corriere della Sera" Rosaspina Elisabetta. Il numero 4 non ha portato fortuna a Miss Milano, portabandiera dei colori cittadini alla sfilata delle più belle d' Italia. Dall'altro ieri, Emanuela Giordani, diciottenne imbronciata, sta seriamente rivalutando un possibile futuro da ragioniera. E a Salsomaggiore, forse, non vorrà più tornare nemmeno in vacanza: "Un'esperienza da esaurimento" sintetizza, senza nascondere il suo risentimento verso chi l'ha rispedita a casa al primo round. "Non speravo certo di vincere, premette, ma almeno di resistere fino alla penultima serata, fino alla finale". Il rientro anticipato, secondo la miss delusa, non è da addebitarsi soltanto alle superiori qualità estetiche delle concorrenti: "La mia impressione è che, laggiù, i giochi fossero già fatti. La tivù inquadrava sempre le stesse. Parrucchieri e truccatori dedicavano ore e ore di cure ad alcune e pochissime attenzioni a tutte le altre, come me. Cinque minuti e via". Quando Emanuela ha potuto finalmente riscuotere il suo effimero primo piano, la mamma, in trepida attesa davanti al televisore, quasi non l'ha riconosciuta: "Era pettinata e truccata malissimo, s'indigna la signora Giordani. Hanno voluto imbruttirla, non c'è altra spiegazione. Tutti i clienti che entrano in negozio, da ieri, mi ripetono la stessa cosa, cioè che mia figlia è molto più bella al naturale. Invece di valorizzarla, hanno deciso di penalizzarla". Cuore di mamma, si sa, non intende ragioni, ma perlomeno una persona segretamente sollevata dall'esito infausto c'è. Si chiama Marco e ha due occhi neri inequivocabilmente adoranti per le neglette fattezze di Miss Milano: "Sì, forse lui è contento, riconosce lei, un po' indifferente come ogni donna consapevole del suo potere su un uomo, ma per me è stata davvero una grande delusione. Ho interrotto le vacanze a Rimini con due settimane di anticipo per partecipare a Miss Italia. Quando sono arrivata a Salsomaggiore ero felice ed entusiasta. E invece, quasi subito, mi sono sentita a disagio. Dicono che è un concorso serio, ma di serio c'è solo il controllo: non ti lasciano mai uscire". Che cosa diresti a un'amica che volesse tentare? "Di lasciar perdere. E uno stress inutile. Tornassi indietro, io non parteciperei più. Sono stata trattata male, sbrigativamente. E anche quando ci hanno fatto sfilare, sono state fatte odiose differenze. Alcune hanno potuto indossare abiti bellissimi ed eleganti. Io sono stata mandata in passerella vestita da montagna". Miss Cenerentola non è stata degnata di uno sguardo nemmeno dal principe azzurro del concorso: "Tomba? Un antipatico". Così è la vita.
Così è lo spettacolo.
Lele Mora: “Corona mi ha mandato in rovina come la Pascale sta facendo con Berlusconi”. L'ex impresario dei vip racconta gli anni vissuti al di sopra dei limiti e il lungo percorso di riabilitazione dopo il carcere. "Mi sento una scatola nera, a poco a poco rivelerò tante verità e non per vendetta, ma perché troppe persone che mi chiamavano “papà” mi hanno abbandonato nelle difficoltà o sfruttato nella fortuna", scrive Selvaggia Lucarelli il 19 settembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Entrando nella nuova casa di Lele Mora la prima cosa che si nota è la quantità di mobilio barocco, vasi dorati e suppellettili vari elegantemente stipati negli angoli. Oggetti che un tempo occupavano la sua grande casa di viale Monza e che oggi se ne stanno ammassati in una casa bella ma decisamente più piccola in zona Buenos Aires. Penso che l’arredo sia un’efficace metafora del suo presente in cui non c’è più spazio per quel passato, ma poi mi accorgo che qualcosa è rimasto intatto. Il discreto via vai di ragazzi giovani e bellissimi. La tavola imbandita. I busti di Mussolini sulle mensole in salotto, i ritratti di Papa Francesco e, soprattutto, i due telefoni che squillano ininterrottamente, come se nulla fosse cambiato, come se Lele Mora fosse ancora il burattinaio di un tempo, l’uomo capace di sedersi a pranzo con Costantino e a cena con Putin.
Quanto le resta da scontare?
«Due anni. Ho una serie di restrizioni. Posso andare solo in Lombardia e Veneto, non posso lavorare nello spettacolo, devo fare due ore a settimana di servizi sociali e sono affidato a mio figlio Mirko. Io oggi sono stipendiato da lui, faccio lo stagista per la sua agenzia».
Beh è cominciato tutto con Ruby affidata alla Minetti ed è finita con lei affidato a suo figlio.
«Sì, in effetti questa è la parabola, anche se la mia fine è stata colpa della vanità. Il servizio di Sciuscià, quello in cui facevo vedere la mia villa, il lusso, la bella gente, è stato la mia rovina. E anche quella copertina con i tronisti ai miei piedi. Non si può esibire quello stile di vita quando tanti non arrivano a fine mese, è normale che poi ti si scateni contro l’inferno».
Però non è la vanità che l’ha mandato in carcere.
«No, certo, ho fatto anche i miei errori con la giustizia e l’ho ammesso, ho patteggiato, non sono neanche andato in Cassazione».
Berlusconi lo vede più?
«Io non posso frequentare pregiudicati ma provo a telefonargli ogni tanto, chiamo ad Arcore e mi risponde sempre un cameriere che mi dice “Un attimo” e poi “Il presidente non c’è”. Sai, ora ha i due marescialli Rossi e Pascale intorno”».
Avrà un cellulare.
«Credo che la Pascale non gli faccia usare neanche quello».
Mi pare di capire che la Pascale non le piaccia.
«Non lo trovo un personaggio positivo accanto a lui. Ha eliminato tutte le persone che erano intorno a Berlusconi da sempre, a partire dalla segretaria Marinella per arrivare ai cuochi e per finire con i politici che lei non gradisce. La Pascale e Mariarosaria Rossi sono il cerchio magico, nessun altro».
Qual è il segreto di questa donna per circuirlo così?
«Alle volte capita di incontrare persone che non ti fanno capire più nulla. La Pascale è per Berlusconi quello che Corona è stato per me».
Cos’è stato Corona per lei?
«Io subivo il suo fascino, lui sapeva come comprarmi, mi chiamava “Tatino”, mi faceva le moine. Poi però mi fregava sempre. Soldi, scoop, fiducia. L’ultima volta mi ha chiesto denaro per aprire una panetteria. Non ho più visto né i soldi né una baguette. Quando mi ha tradito l’ennesima volta gli ho scritto una lettera molto dura. Non ci siamo più visti».
Il destino però vi vuole entrambi da don Mazzi.
«Io da don Mazzi faccio solo servizi sociali e ho chiesto che lui non finisse nella comunità dove vado io».
Qualcuno pensa che con lui la rieducazione funzioni poco. Con lei?
«Io mi sento un uomo diverso. La rieducazione è possibile. Erika De Nardo è stata tanto da don Mazzi, oggi so che per avere una vita normale è scappata in Madagascar dove fa l’educatrice. Scattone doveva poter tornare a insegnare, se una persona ha pagato il suo debito è giusto che torni a fare quello che faceva prima. Non si può essere marchiati anche da persone libere, è inumano».
Cosa le manca della sua vecchia vita?
«Niente. Io sto bene. Certo, dopo il carcere sto ancora curando la mia depressione, ma il mondo dello spettacolo non mi interessa più. In compenso, mi sento una scatola nera, a poco a poco rivelerò tante verità e non per vendetta, ma perché troppe persone che mi chiamavano “papà” mi hanno abbandonato nelle difficoltà o sfruttato nella fortuna».
Qualcuno dice che non ha più nulla da perdere.
«No, ho dato perle ai porci per anni, ora con le perle mi ci faccio una collana».
Ce l’ha a morte con Signorini, perché?
«Perché è un pennivendolo. Mi ha usato. L’ho incontrato una sera al ristorante e l’ho insultato. Ora ha paura di me perché ho una sua registrazione in cui ne dice di tutti i colori di Silvia Toffanin. Ma ne ho tante di registrazioni, di prove che c’è tanto marciume. Tra i giornalisti salvo solo Vittorio Feltri, Michele Santoro e Silvana Giacobini».
Ma c’è mai stato qualcosa di vero nel suo mondo?
«Ho creato tante cose a tavolino. Anche le vittorie dell’Isola dei famosi. Io facevo partecipare miei artisti come Walter Nudo e poi compravo i centralini per farli vincere. Magari investivo 50.000euro ma poi se Walter vinceva, io con gli sponsor chiudevo contratti da un milione di euro, era un investimento».
Ma tutti questi uomini simil-tronisti che concedono favori sessuali in cambio di comparsate tv e che giravano nella sua agenzia, sono gay?
«Alcuni no. Lo sono per convenienza».
C’è mai stato qualcuno integerrimo nella sua agenzia?
«Il primo che mi viene in mente è Luca Argentero. Un ragazzo davvero serio, si è sposato per amore e non ha mai accettato compromessi».
E con la famiglia Berlusconi come va?
«Pier Silvio è un uomo educatissimo, impeccabile. Marina è la numero uno nel suo lavoro, le rimprovero solo di prestare poca attenzione a chi lavora in alcune redazioni di Mondadori, ci sono tanti ladruncoli. Vorrei incontrarla per dire quello che so. Veronica Lario non è una vittima. È stata Eva la prima a peccare, non Adamo…»
Ci pensa più al carcere?
«Il carcere è la cosa più disumana che si possa immaginare, ci dovrebbero finire solo i criminali che hanno commesso cose aberranti. Io a Opera avevo due vicini di cella: Olindo Romano del delitto di Erba e Gianfranco Stevanin, il killer delle prostitute. Ero considerato un criminale di quella levatura. Olindo lo chiamavo Yoghi, perché quando lavava i pavimenti aveva questa andatura da orso. Gli regalavo le mie merendine».
Era amico di Dell’Utri. Da quando è in carcere hai avuto più contatti con lui?
«Certo, ci scriviamo delle lettere».
E come sta?
Male come tutti quelli che stanno in carcere».
Renzi l’ha mai incontrato?
«Non posso incontrare politici e se è successo non me lo ricordo, sai, ho sessant’anni… in compenso è un mio sogno erotico, lo riempirei di morsi». Da Il Fatto Quotidiano del 18 settembre 2015
Striscia, agguato contro Signorini, Lele Mora ancora contro Alfonso: "Soldi, esclusive e quella frase sulla Toffanin", scrive “Libero Quotidiano”. Lele Mora contro Alfonso Signorini, secondo round. E' Striscia la notizia, stavolta, che offre il megafono a un attacco ai danni del direttore di Chi, rivista Mondadori. Dopo l'intervista a Selvaggia Lucarelli al Fatto Quotidiano, Lele Mora, raggiunto da Striscia la Notizia per il Tapiro, si toglie altri sassolini dalle babbucce. “Perché Alfonso Signorini pennivendolo?”, gli chiede Valerio Staffelli. “Signorini deve un po’ a me il suo successo", risponde Mora, "quando ero un vero agente (ora ho 60 anni e sono un pensionato, ex detenuto) io l’ho aiutato molto dandogli gli scoop più importanti. Avevo personaggi buoni allora, ma lui ha fatto finta di dimenticarsi di me. Non mi ha scritto neppure una riga in carcere”. Si parla di una presunta registrazione che danneggerebbe Signorini: “Quella ce l’ho io. Io ho detto a un suo collaboratore di dare questa esclusiva di Carmen Russo che era incinta, loro dovevano dare a lei 5000 euro. Poi questo che ha venduto l’esclusiva, che fa parte di una società "aum aum", è andato a capire perché (Signorini ndr) non voleva più pagare. Era perché io avevo aiutato Carmen, chiamando la signora Silvia Toffanin, ad andare a Verissimo. È andata a Verissimo e allora Signorini ha detto che io prendo i soldi suoi della Mondadori, che aveva l’esclusiva lui e che io non potevo mandare la signora Russo in trasmissione. Io l’ho mandata invece. Ne ha dette di tutti i colori su di me, ma c’era chi ha registrato. Quando me l’hanno fatto sentire, ho spinto un bottone e registrato anche io, ho pensato che non si sa mai nella vita, poteva sempre essere utile”. “Quindi questa registrazione conterrebbe quello che Signorini pensa della signora Toffanin?”, ha chiesto Staffelli. “Sì”, ha detto Lele. “Ma non è che è proprio per questa registrazione che il signor Pier Silvio Berlusconi ha fatto saltare la poltrona di Signorini al Grande Fratello?”, ha allora incalzato l’inviato di Striscia (adesso come opinionisti ci sono Claudio Amendola e Cristiano Malgioglio, ndr). “Guardi non lo so. Se dico tutto di Signorini dobbiamo stare qui fino a domani, lasciamo stare”, ha continuato Mora. “Quando avrò finito il mio affidamento, dirò di tutto e di più, magari vengo a fare una puntata di Striscia e vi racconto un po’ di cose. Poi mi denunciano e io porto la registrazione in tribunale, però loro rischiano il posto di lavoro, è pesante”. Gli avvocati delle diverse persone tirate in ballo da Lele Mora, da quanto si apprende, sono già al lavoro...
Emilio Fede: "La mia situazione economica è drammatica, Silvio non mi aiuta", scrive Giulio Pasqui sabato 19 settembre 2015 su “Gossip Blog”. "La Pascale era gelosissima, ha ripulito l'ambiente": parla Emilio Fede. Emilio Fede ha pubblicato un nuovo libro. Il titolo, esplicativo, è Se tornassi ad Arcore. Il tour promozionale è partito dal programma di Selvaggia Lucarelli su M2o, Stanza Selvaggia. Tanti gli argomenti trattati durante la lunga chiacchierata, senza dimenticare Silvio Berlusconi ed il magico mondo di Arcore, appunto. Ma l'intervista parte da un altro (ex) amico di Fede: Lele Mora. "Lele Mora è stato un grande imprenditore ed io sono stato amico di Lele Mora - dice - Ma per andare da Lele Mora si facevano raccomandare. Ai pranzi di Lele Mora - al di là delle battute, sesso o non sesso - c'erano personaggi illustri: ministri, campioni, star, vice star. C'erano tutti e tutti si vantavano di andare da Lele Mora. Poi è successo quel che è successo. Ma l'ingratitudine è il peggiore dei mali, è un atto di vigliaccheria [...] Io ho sempre lavorato legalmente con lui. Poi sono cambiate le cose perché lui si è innamorato disperatamente di Fabrizio Corona e questo l'ha portato ad altri amori. L'amore si paga. Quali amori? I ragazzi con i quali lui aveva un affetto...". La situazione sentimentale di Fede com'è? "Il mio vero grande amore è la mia straordinaria moglie che mi ha sopportato. Diana, mi diceva sempre Silvio, è la parte migliore della famiglia". Ma siamo proprio sicuri che non abbia mai avuto qualche sbandata, il buon Emilio? Magari una sbandata per l'azzardo (o la...Zardo,Raffaella?): "Ci sono state delle sbandate, il casinò... La Zardo? Nessuno me lo perdona. Io non ho mai avuto un rapporto sessuale con lei". La discussione si sposta su Francesca Pascale: "Io la conosco bene. Uscivamo insieme, cenavamo insieme. Mi ricordo che una volta l'ho portata a cena in un ristorante di Milano, poi ci ha raggiunti Berlusconi, ha preso il caffè con noi e siamo andati ad Arcore. Fra loro c'è una storia, ma non si può ben definire. E non si sa quando inizia e quando finisce. Lei è entrata nella vita di Berlusconi, beata lei. Anche io c'ero entrato nella vita di Berlusconi ma ne sono uscito". E ancora, sull'argomento: "Francesca veniva ad Arcore, ma tornava a dormire a Napoli. Era gelosissima, mi chiamava per chiedermi se qualcuna fosse rimasta ad Arcore. Le bastava sapere se fossero rimasti lì dei, come dire... trolley. Due gemelle (le De Vivo, ndr) venivano sempre insieme ed avevano due trolley. Io controllavo e le rispondevo di andare a letto tranquilla. Ma sì, mentivo. C'erano due trolley che non mollavano facilmente. E' chiaro che fra Silvio e Francesca io preferisca lui". E qual era il trolley più combattivo? "La guerriera del soldo era Marysthell Polanco, da me eletta - elegantemente - Miss Pompea ma anche Miss Culetto. Io sono un testimone. Io consigliavo a Berlusconi di allontanarla, ma lui era dispiaciuto per la sua bambina senza padre e le ha pagato la scuola sino alla maggiore età". Per fortuna, quindi, che è arrivata la Pascale: "La presenza di Fracncesca Pascale è stata utile perché ha ripulito l'ambiente. Alcune persone non avevano senso. [...] Non ci sono mai state orge, non l'ho mai viste. Le olgettine sono prostitute di professione, è una professione di tutto rispetto. Servono pure loro". Dunque un commento sulla propria situazione economica: "La mia situazione economica è drammatica. Anzi, peggio. Mi hanno svaligiato casa, hanno scritto falsità e mi hanno licenziato senza neanche un giorno di preavviso. Da un minuto all'altro mi sono ritrovato disoccupato e senza stipendio". Però gira con l'autista privato ("E' un autista ad ore, lo pago a rate"), paga 2300 euro di affitto al mese e si paga gli avvocati da solo: "Ho un appoggio di mia moglie, ex senatrice. Silvio non mi dà neanche un euro". Ma stipendia Barbara Guerra, precisa la Lucarelli. La stoccata finale è nei confronti di Don Mazzi: "L'ho conosciuto quando aveva le pezze al culo. Io gli davo una mano, gli stavo vicino. L''ho aiutato a crescere. Ma ci sono tante altre persone impegnate nella solidarietà. Non dico che dovremmo dimenticare Don Mazzi ma pare che questa storia stia diventando una sorta di teatrino. E' malato di protagonismo. C'è tanta gente che fa solidarietà [...] E gli angeli della strada? Chi gli aiuta? Nessuno perché non hanno chi li appoggia... Don Mazzi ha qualcuno che glielo appoggia. Non che glielo appoggia, non vorrei essere capito male... glielo appoggia nella raccolta fondi". Insomma, Emilio Fede contro tutti.
Ma è Don Mazzi o Barbara D'Urso? Si chiede Selvaggia Lucarelli su "Il Fatto Quotidiano". Bisognerebbe rivedere il codice penale e sancire un inasprimento della pena nel caso in cui don Antonio Mazzi si offra di ospitare qualcuno in comunità. Solo così, forse, si riuscirebbe ad arginare la progressiva e insopportabile barbaradursizzazione del prete più famoso d' Italia, il quale ormai ha a cuore solo i casi umani con almeno due aperture di Studio Aperto in curriculum. L'ultima pecorella che sarebbe generosamente pronto a ospitare nel suo ovile è la povera Martina Levato, naturalmente in compagnia del suo piccolo Achille, perché non sia mai che qualcuno voglia privare il neonato dell'imperdibile opportunità di essere allevato da una mamma che, nella borsetta, per nulla al mondo dimenticherebbe latte e acido muriatico in polvere. Lei deve stare con lui e allattarlo, è l'unica via per salvarla. È una madre molto più normale di quello che si pensa”, ha dichiarato don Mazzi. Ma tu guarda. Quindi le madri normali non sono più quelle che dicono “questa casa non è un albergo” o “mandami un sms quando arrivi”. No, sono quelle che tra una poppata e un'altra sfigurano un ex fidanzato e tentano di evirarne un altro. In fondo, questa idea che il neonato possa salvare la mamma, questa teoria che non siano più i genitori a educare i figli ma i figli a educare i genitori, è destinata a scardinare tutti i fondamentali della pedagogia moderna. Don Mazzi è la nuova Montessori, ma con più talento per il marketing. Fiuta il caso mediatico e invoca la pietà. Sostituisce le faccette della D’Urso con la faccia finto burbera da prete zotico e apre le porte del suo centro Exodus ai soggetti più indifendibili in circolazione. Tra un po’nei suoi centri ci saranno più vip che a Pomeriggio 5. Verrebbe da chiedergli perché non si prenda in comunità la madre del ragazzo sfigurato a cui la cara Martina ha regalato un ergastolo di sofferenze, ma la tizia non ha rilasciato interviste su Chi, per don Mazzi non è appetibile. Lui è l’alternativa vip al carcere, mica quella degli sfigati qualunque. Negli anni, sono passati dalle sue parti Lele Mora, puntualmente fotografato mentre faceva del giardinaggio espiatorio e Fabrizio Corona, puntualmente fotografato mentre fa del culturismo espiatorio. “Fabrizio si alza presto al mattino, pulisce il bagno e la cucina”, ci ha tenuto a chiarire il prete. Del resto, che la vita della casalinga sia una variante della galera l’ho sempre pensato. Ma il buon don Mazzi ospita anche il tastierista dei Modà che è molto più normale di quello che pensiamo, solo un po’ pedofilo. Si batte strenuamente per il ritorno dei Marò, aderendo a campagne pubbliche. E di sicuro è pronto a ospitare anche loro, in fondo sono molto più normali di quello che pensiamo, hanno solo impallinato un pescatore. E già che c’era, in alternativa a Cesano Boscone, aveva invitato pure Berlusconi a raccogliere pomodori da lui, perché in fondo Silvio è molto più normale di quello che pensiamo, è solo un simpatico puttaniere. Gli manca solo un invito a Carminati. Davvero strano che non gli abbia offerto un posto in comunità, magari come addetto alla mensa, in fondo con i pasti ai poveri il buon Massimo ci sapeva fare parecchio. Insomma. Prima c’era l’avvocato Taormina, ora c'è don Mazzi. Prima i peggiori figuri si buttavano tra le braccia di un figuro più brutto di loro, ora si gettano tra le braccia rassicuranti di un prete, perché l’unica vera alternativa alla legge che ti fa il mazzo, è don Mazzi. Io, nel frattempo, sono dell’idea che sia ora di affidare lui a una comunità. Un anno senza giornali e senza tv e magari il buon prete torna a occuparsi di quelli che non campano sotto la luce dei riflettori, ma sotto quella di qualche neon nelle carceri vere, quelle senza sconti vip.
Lettera di Lele Mora a Dagospia. Cara Selvaggia, sì, io vado da Don Mazzi da 30 anni. Sono un suo caro amico e non sono certo andato da lui per frequentare il salotto della Signora D’Urso. Ti credevo diversa, Selvaggia. E non pensavo potessi arrivare ad attaccarmi con menzogne inutili, scrivendo un articolo del genere su un sacerdote che ha speso tutta la sua vita per i più bisognosi. Don Mazzi è un grande esempio da seguire, non da criticare. Non ha mai operato alla ricerca né di notorietà né di tornaconti personali. Scusa il mio sfogo, cara Selvaggia, ma ormai io mi occupo solo di attività sociali e da cinque anni evito i salotti televisivi, nonostante mi arrivino inviti da più parti. Spero di aver l’opportunità di confrontarmi personalmente con te, magari davanti a un caffè. La mia vita è davvero cambiata e non faccio più l'agente di spettacolo. Sono affidato a mio figlio presso la cui attività svolgo semplici mansioni da stagista. Il mio vivere quotidiano è ormai orientato dalle prescrizioni del magistrato di sorveglianza e del tribunale di Milano. Con stima. Lele Mora.
Don Mazzi: "E' importante non separare la madre dal suo piccolo. Intervista di F. Pol. a don Antonio Mazzi per “la Stampa”.
Don Antonio Mazzi, dopo Fabrizio Corona aspetta Martina Levato e suo figlio...
«Porte aperte anche a lei sì. Quella di Martina non è nemmeno la storia peggiore che mi sia capitata. Io credo che il recupero di questa ragazza insieme a suo figlio deve avvenire in una struttura normale che non sia il carcere».
Martina è stata condannata a 14 anni. Per ora ha scontato pochi mesi. Difficile che le diano ora gli arresti domiciliari...
«Io sono pronto a scommettere su di lei. Mi piacerebbe che qualche volta pure la giustizia facesse queste scommesse. Da me arrivano persone che hanno già scontato parte della pena come Fabrizio. Ma Marina non è una bestia. È solo da aiutare».
Come fa ad essere così sicuro?
«Io conosco da anni i genitori di Martina. Sono insegnanti, mi è capitato di incontrarli nei giri che faccio regolarmente nelle scuole. So in che contesto lei vivesse prima di fare quello che ha fatto. Sono stati loro a chiedere un mio intervento e aiuto. E io sono prontissimo ad aprire le porte a Martina e a suo figlio se vogliamo cercare di salvarla».
Salvarla?
«Martina è una ragazza fragile. Non è una bestia come è stata dipinta anche in questi giorni sui giornali, che d' estate non sanno mai cosa scrivere. È una donna innamorata e quell' amore l'ha stravolta. A me la cosa che preoccupa di più è l'infatuazione che ha ancora per Alex. Martina va liberata».
Sta dicendo che Martina deve stare con il suo bambino ma è meglio che il suo compagno giri alla larga?
«Sto dicendo che pure Alex si può recuperare ma ci sarà tanto da lavorare. La sua è una personalità forte. Adesso sarebbe meglio che il loro percorso fosse diviso».
Mentre Achille deve stare con sua madre giusto?
«Anche la peggiore delle madri, deve stare con suo figlio. Io spero che Martina capisca il male che ha fatto. Ma soprattutto per amore del bambino non si può separarli».
Il Tribunale dei minori ha deciso che si possano vedere solo quaranta minuti al giorno e non le è consentito allattarlo direttamente ma solo col tiralatte...
«Non ha senso dire che devono stare insieme quaranta minuti e basta. O non glielo fanno vedere o se no lo veda sempre. Per il bene di tutti e due anche la giustizia scommetta su di loro».
Acidotweet su Dadoselection.
@Pinucciotwit: la signora Levato ha chiesto di poter stare con suo figlio da Don Mazzi. sto bambino rischia di crescere con lei, Corona e Sara Tommasi?
@fulvioabbate: E se il bimbo di Martina e Alexander avesse come padrino di battesimo Fabrizio Corona? #MartinaLevato
@FranAltomare: Se Hitler fosse vivo avrebbe comunque modo di redimersi con un semplice “portatemi da Don Mazzi”.
@stanzaselvaggia: Don Mazzi è diventato l'alternativa vip al carcere. Interessante.
@matteograndi: Qualche settimana di galera. Riabilitazione da Don Mazzi. Interviste esclusive. Resort alle Seychelles. E le vittime a prendersela in culo.
@giucruciani: Hanno sfregiato uno con l'acido. Fatto altri danni. Dovrebbero stare in galera almeno 30 anni, in silenzio. Invece, Don Mazzi. Che schifo.
@frandiben: "Oppure da don Mazzi" è l'ultimo articolo del Codice Penale.
@Caustica_mente: Tutti da Don Mazzi vogliono andare. Pure la coppia dell'acido. A sto punto mi aspetto richieste di Parolisi e Olindo&Rosa.
@cjmimun: Aggredito con acido: don Mazzi,Martina deve avere suo figlio...ci saranno due vittime alla fine della storia:l'ex aggredito e il bimbo.
@fulvioabbate: #martinalevato e #AlexanderBoettcher progettavano altre aggressioni con l'acido, e mi devo sentire "Sì, però una mamma è una mamma", eh?
@BrunoVespa: Affidate ai nonni il figlio della coppia dell'acido. E fatelo vedere alla mamma. Lui è innocente.
@amedmar: Per decidere cosa fare del neonato cercherei spunto nel cognome della madre... #MartinaLevato.
Don Mazzi e i nomi da prima pagina. Nel suo album anche Erika e Corona. Dopo il caso della coppia dell'acido le polemiche sul sacerdote: «Sempre a caccia di clamore mediatico», scrive Agnese Pini su “Il Giorno” il 22 agosto 2015. L'ultimo gioco dell’estate è il «Dagli a Don Mazzi». Don Mazzi il divo, a caccia di soldi e di padrini. Cattolicesimo da salotto, il suo. Di lui si dice di tutto – l’ultima, Selvaggia Lucarelli: «Il prete si è trasformato in Barbara D’Urso» – e a chi lo difende si risponde: «Beh, se la va a cercare». Perché i detrattori lo aspettavano al varco, sicuri – e non sono stati smentiti – che il mediaticissimo «difensore degli ultimi» non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di metter bocca nella grana agostana che offre i più succosi ingredienti delle dispute etiche: sesso, brutalità, perversioni, violenza, ferocia, condanna, perdono, maternità, amore. Non manca niente, nella storia della neo mamma galeotta Martina Levato, la ragazza dell’acido: Alexander Boettcher, suo compagno e complice, è stato declassato al grado di pallido comprimario, perfino il fisico sgonfiato e imbolsito dal carcere. Don Mazzi entra nell’arena della giuria nazional popolare che trincia sentenze su chi come dove e perché dovrebbe educare e allevare la creatura nata dall’amore delittuoso, il piccolo Achille. Ecco la sua, per sommi capi: «Martina è una buona madre, è stata plagiata, può redimersi, affidatela alla mia comunità», proprio mentre i giudici, in queste ore, l’hanno rispedita dall’ospedale in carcere. Il punto è che la memoria è corta, ma a spulciare negli archivi viene fuori che don Mazzi è un habitué del genere, e se c’è vip finito in disgrazia, o disgraziato diventato vip, lui non si lascia sfuggire l’occasione. Lo fece già secoli fa con il terrorista Marco Donat Cattin (in quell’occasione perfino Montanelli si stracciò le vesti), e poi: le tre amiche del cuore che a Chiavenna ammazzarono a freddo suor Maria Laura Mainetti; Erika di Novi Ligure, i recentissimi Lele Mora, Fabrizio Corona, il fonico dei Modà Paolo Bovi. Tutti chiamati nelle sue comunità di recupero: Exodus la più famosa, nata a Milano alla metà degli ’80 per i tossicodipendenti, a cui oggi si affiancano centri d’ascolto e di assistenza in Italia, Brasile e Ucraina. Quaranta strutture in tutto, da cui finora sono passate oltre 50mila persone. Liste d’attesa lunghissime – «ed entrare nei suoi centri, per chi non è famoso, è tutt’altro che semplice», dicono ancora i detrattori – per quanto oggi il fenomeno della tossicodipendenza sia ben diverso da quando don Mazzi fondò la sua prima base. Dei 438mila tossici in Italia più della metà non si cura, mentre affrontare la dipendenza richiede metodi e approcci sempre in via d’aggiornamento. Luci e ombre: è il destino di preti, e laici, che prima e dopo don Mazzi si sono avvicendati nel «recupero del prossimo sfortunato» – da Vincenzo Muccioli al riparo dei Moratti a don Pierino Gelmini al riparo di Berlusconi – affiancando alla carità la mediaticità, al cristianesimo la politica, all’altruismo la necessità di soldi. Senza soldi, del resto, non c’è carità possibile. Proprio in quanto a soldi, gli anni 2000 non sono stati generosi con don Mazzi e i suoi. Restò celebre una sua uscita del 2012: «Ora basta finanziare cani e gatti». Si sfogò: «Abbiamo debiti per 2 milioni perché i servizi pubblici non ci pagano dal 2004. Sopravviviamo con i finanziamenti privati. Mandare avanti la baracca costa 450 mila euro al mese. Lo Stato dov’è?». Viene allora da pensare che un po’ di tv e di presenzialismo possano aiutare a «mandare avanti la baracca». E anche i vip finiti in disgrazia e disgraziati diventati vip. Don Mazzi dà un’altra versione (in un’intervista a Famiglia Cristiana per i suoi 80 anni, nel 2009): «Sono un perdonista. Ma qui il buonismo non c’entra. È che il perdono non ha sfumature: o perdoni o non perdoni». Ogni volta dalla parte di Caino. Eppure fra le anime del prete in maglioncino ci sono anche tanti Abele, che però non fanno notizia. «Ma la gente capisce, eccome. I raffinati intellettuali non sempre».
L’HA DETTO LA TELEVISIONE? E’ FALSO! NON SPEGNETE LA TV, MA ACCENDETE LA LIBERTA’.
"Non spegnete la tv, ma accendete la libertà": l'inedito di Umberto Eco sulla televisione. La Tv è maestra, a volte cattiva, ma in modo non prevedibile. Come gli altri media. La lezione del grande semiologo ora diventa un volume, scrive Umberto Eco il 24 ottobre 2018 su "L'Espresso". L'intervento che qui anticipiamo, datato 1978, è integralmente contenuto nel volume "Sulla televisione" in uscita per La nave di Teseo. Otto o nove anni fa, quando mia figlia stava iniziando a guardare il mondo dalla finestra di uno schermo televisivo (schermo che in Italia è stato definito “una finestra aperta su di un mondo chiuso”), una volta la vidi seguire religiosamente una pubblicità che, se non ricordo male, sosteneva che un certo prodotto era il migliore al mondo, capace di soddisfare qualsiasi bisogno. Allarmato sul fronte educativo, cercai di insegnarle che non era vero e, per semplificare i miei argomenti, la informai che le pubblicità di solito mentono. Capì di non doversi fidare della televisione (in quanto, per ragioni edipiche, faceva di tutto per fidarsi di me). Due giorni più tardi stava guardando le notizie, che la informavano del fatto che sarebbe stato imprudente guidare lungo le autostrade del Nord per via della neve (un’informazione che soddisfò i miei più intimi desideri, dato che stavo disperatamente cercando di restare a casa per il fine settimana). Al che mi fulminò con uno sguardo sospettoso, chiedendomi come mai mi fidassi della tv visto che due giorni prima le avevo detto che raccontava bugie. Mi trovai costretto ad avviare una dissertazione molto complessa di logica estensionale, pragmatica dei linguaggi naturali e teoria dei generi allo scopo di convincerla che ogni tanto la televisione mente e ogni tanto dice il vero. Per esempio, un libro che comincia con “C’era una volta una bambina chiamata Cappuccetto Rosso e così via...” non dice il vero quando sulla sua prima pagina attribuisce la storia della bambina a un signore di nome Perrault. Solo lo psichiatra al quale mia figlia probabilmente si rivolgerà una volta arrivata all’età della ragione sarà in grado, direi, di constatare i danni consistenti che il mio intervento pedagogico ha provocato alla sua mente o al suo inconscio. Ma questa è un’altra storia. Il fatto, che ho scoperto proprio in quell’occasione, è che se si vuole usare la televisione per insegnare qualcosa a qualcuno bisogna prima insegnare come si usa la televisione. In questo senso, la televisione non è diversa da un libro. Si possono usare i libri per insegnare, ma per prima cosa bisogna spiegare come funzionano, almeno l’alfabeto e le parole, poi i livelli di credibilità, la sospensione dell’incredulità, la differenza tra un romanzo e un libro di storia e via dicendo. [...] Credo che i problemi legati all’uso educativo della televisione siano gli stessi di quelli legati ai suoi supposti effetti perversi. Può essere che la televisione, così come gli altri media, corrompa gli innocenti, ma lo fa indubbiamente in un modo non previsto da molti educatori (o da molti corruttori). Supponiamo che un marziano cerchi di estrapolare l’impatto della televisione sulla prima generazione cresciuta sotto la sua influenza (persone che hanno cominciato a guardarla all’età, poniamo, di tre anni nei primi anni cinquanta), quindi il nostro marziano potrebbe cominciare analizzando il contenuto dei programmi televisivi degli anni Cinquanta. Nutrita a forza di programmi come The $64,000 Question, soap opera, sceneggiati in stile Mary Walcott, pubblicità della Coca-Cola e film con John Wayne sulla seconda guerra mondiale, è probabile che quella generazione sia arrivata al 1968 con un buon posto di lavoro in banca, taglio militare e colletto bianco, una solida fede nell’ordine costituito e l’intenzione di sposarsi virtuosamente con la ragazza o il ragazzo della porta accanto. E invece, se non ricordo male quell’evento preistorico, nel 1968 è successo che questa “generazione televisiva” non ha cercato di ammazzare i giapponesi bensì i professori universitari, fumava la marijuana invece delle Marlboro, praticava lo yoga, la meditazione trascendentale, mangiava macrobiotico e così via. Lasciatemi aggiungere che quando la televisione propose capelloni che fumavano marijuana e mettevano fiori nelle canne dei fucili come nuovo modello per uno stile di vita “giovane”, la generazione successiva si tagliò i capelli, iniziò a usare le armi e a preparare bombe. Questo ci suggerisce che i giovani leggono la televisione in maniera diversa da chi la fa. Non credo che accada a caso: credo ci siano delle regole che governano lo spazio vuoto tra l’emissione e la ricezione di un programma televisivo. Bisogna conoscerle e bisogna soprattutto cercare di insegnarle, in particolare ai giovani. […] I sociologi che studiarono i mass media negli anni Quaranta e Cinquanta conoscevano già molto bene fenomeni come l’effetto boomerang, l’influenza degli opinion leader e la necessità di rafforzare il messaggio mediante una verifica porta a porta. Sapevano che tra il punto d’invio e quello di ricezione vi sono molti filtri attivati da schermi psicologici e sociali, o culturali. I primi test dopo l’arrivo della televisione nelle aree suburbane e depresse dell’Italia dimostrarono che moltissime persone guardavano i programmi serali come un continuum, senza alcun discrimine tra show, telegiornali o drammi. Tutto veniva preso allo stesso livello di credibilità, un assoluto guazzabuglio di competenza di genere. Per anni e anni, le aziende televisive hanno fatto affidamento su diversi tipi di indici di gradimento e si sono accontentate di sapere quante persone apprezzavano un determinato programma (un’informazione senza dubbio importante da un punto di vista commerciale) seppur ignorando quel che il pubblico realmente capiva del programma stesso. Detto questo, il gap comunicativo descritto poc’anzi è molto più complesso. Dobbiamo considerare non solo le differenze di codice fra mittente e destinatario, ma anche la varietà di codici che distinguono certi gruppi di destinatari da altri, in base al loro status sociale e alle loro propensioni ideologiche. E dovremmo considerare, anche da un punto di vista così flessibile, che il quadro resta incompleto dato che dovremmo anche tener conto del fatto che un dato soggetto appartiene a gruppi diversi a seconda del programma e dell’orario. Intendo dire che la persona X può valere come un lavoratore sensibile alla politica (quindi dotato di competenze economiche e politiche) quando guarda il telegiornale. Però la stessa persona X può sposare le predilezioni di un filisteo borghese quando guarda uno sceneggiato, tenendo in disparte le sue sensibilità in tema di ruoli sessuali, liberazione femminile o lotta di classe, anche se è capace di risvegliarle quando il televisore parla di salari, scioperi o diritti umani. Dovremmo essere consapevoli del fatto che lo stesso fenomeno accade ai bambini. I bambini possono essere estremamente sensibili ai valori ecologici quando la televisione stuzzica la loro competenza spontanea, già acquisita, circa il rispetto per gli animali, mediante una trasmissione sulla fauna selvatica. Ma lo stesso bambino, davanti a un western, parteciperà all’eccitazione del cowboy che parte al galoppo inseguendo i fuorilegge senza soffrire per il tour de force del cavallo, sfruttato senza pietà. Possiamo dire che anche in questo caso stiamo assistendo a una differenza tra codici? Possiamo dire che a seconda della situazione e dell’attivazione di una competenza di genere la stessa persona reagisce in base a codici culturali differenti? Dipende dal nostro accordo sulla nozione di codice culturale. [...]. Ma che succede al bambino che guarda il film western e, una volta accettate, le sue regole di genere non attivano la competenza sullo sfruttamento animale? Non riesco a immaginarmi lo stop del film con un presentatore che appare e dice “Fa’ attenzione al comportamento non etico dell’eroe”. O meglio, posso immaginarmi una situazione simile ma non nei termini di un intervento grammaticale, come nel caso della “metempsicosi”. Si tratterebbe piuttosto di una procedura di decontestualizzazione e decostruzione. [...] La televisione educativa ha avuto molti meriti. Un programma come Sesame Street ha insegnato a milioni di giovani americani che l’inglese della comunità nera è una lingua in tutto e per tutto, capace di esprimere gioia, arguzia, compassione, concetti. Ma mi piacerebbe vedere un programma che spieghi agli insegnanti come usare, ad esempio, il Johnny Carson Show al fine di prevedere cosa dirà a un giovane portoricano, a un giovane nero, a un giovane bianco protestante. Forse ciascuno di essi vede qualcosa di diverso in quel programma. Nessuna di queste interpretazioni è, in sé, un caso “aberrante”. La vera aberrazione è che tutti questi ragazzi non si rendono conto che il programma è lo stesso ma le interpretazioni variano. Ogni interpretazione riflette un diverso mondo culturale con codici differenti. [...]. Fino a che punto una formazione specifica nell’ambito delle arti visive consente di individuare meglio riferimenti visivi che (a loro volta) sono indispensabili per capire determinate situazioni narrative? Prendiamo i sottocodici estetici: ci sono differenti modelli di bellezza per il corpo umano così come in termini di arredamento, case e automobili, a seconda della tradizione nazionale, dell’adesione a una classe, di un’eccessiva esposizione televisiva ad altri modelli e così via. È importante mostrare che un dato programma fa uso di stereotipi, ma è anche importante vedere se questi stereotipi hanno lo stesso effetto su ciascun bambino della classe. […] Un’educazione criticamente orientata deve riconoscere il fatto che la televisione esiste e che è la principale fonte formativa per adulti e ragazzi. Ma un’educazione criticamente orientata deve far sì che gli insegnanti usino la televisione lorda come una fetta di mondo proprio come usano il tempo atmosferico, le stagioni, i fiori, il paesaggio per parlare dei fenomeni naturali. A questo punto la mia proposta per una televisione educativa riguarda, credo, non solo i bambini ma anche la formazione permanente degli adulti. Appena due giorni fa il primo ministro tedesco Schmidt ha scritto un lungo articolo sulla Zeit per manifestare la propria preoccupazione circa la tv, che assorbe gran parte del tempo libero dei suoi connazionali bloccando qualsiasi possibilità d’interazione faccia a faccia, soprattutto nelle famiglie. Schmidt ha quindi proposto che ciascuna famiglia decida di dedicare un giorno al rito di tenere il televisore spento. Un giorno a settimana senza televisione. Forse i tedeschi saranno così obbedienti da accettare la proposta. Spero solo che non lo facciano proprio nel momento in cui il governo sta promulgando una nuova legge! Comunque, se fossi nei panni di Schmidt, la mia proposta sarebbe diversa. Direi così: amici, connazionali, tedeschi (ma la proposta vale anche per gli inglesi), un giorno a settimana incontriamoci con altre persone e guardiamo la televisione in maniera critica tutti assieme, confrontando le nostre reazioni e parlando faccia a faccia di quello che ci ha insegnato o ha fatto finta di insegnarci. Non spegnete la televisione: accendete la vostra libertà critica.
Quella carovana di migranti che entusiasma il politically correct, scrive il 28 ottobre 2018 Michele Crudelini su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. In poche settimane è già diventata il simbolo dell’ala progressista americana e occidentale. L’hanno soprannominata “carovana dei migranti”, volendole così conferire un carattere innocuo e pittoresco. Una semplice carovana, al pari di quelle organizzate in occasione di alcune festività, è un qualcosa di pacifico e non potrebbe dunque rappresentare una minaccia. Come di consueto, la narrativa mainstream, con l’aiuto di una terminologia iperbolica e fotografie tatticamente estrapolate da contesti specifici, è riuscita a creare un “mito” nell’immaginario collettivo che, tuttavia, poco si avvicina a quella che è la realtà dei fatti.
Quanti sono davvero i migranti della carovana? Proviamo ad andare con ordine. All’inizio della scorsa settimana è iniziata a circolare la notizia, con foto annesse, che un nutrito gruppo di persone si sarebbero messe in marcia dall’Honduras con l’obiettivo di oltrepassare le frontiere di Guatemala e Messico per arrivare infine negli Stati Uniti. Il gruppo, beneficiando della possibilità di poter oltrepassare il confine guatemalteco solamente con il proprio passaporto, è arrivato dunque al confine con il Messico è lì si trova tuttora bloccato. Bene, partendo da questa ricostruzione, appositamente stringata e ridotta all’osso proprio perché si tratta degli unici eventi di cui si ha la certezza, proviamo a capire cosa è stato detto a sproposito e quelle che possono essere le interpretazioni di questo fenomeno. Innanzitutto i numeri. Non si riescono a trovare, infatti, due articoli di giornale che riportano lo stesso numero circa i partecipanti alla carovana. Secondo Rai News sarebbero attualmente 2mila, anche se non viene specificato quale fosse il numero iniziale. Stime decisamente più larghe arrivano invece da Askanews, dove si parla di 4mila persone. Molto più ridotta invece la stima del The Post International, secondo cui la carovana sarebbe composta da sole 1.600 persone.
Tutte le contraddizioni dei media sulla carovana. Non sono solo i numeri a creare confusione in questa vicenda. Anche lo stesso evolversi degli eventi non viene descritto in maniera chiara. Per esempio, sempre su Rai News, si può leggere così “migliaia di migranti dell’Honduras, di El Salvador e del Guatemala, componenti la carovana che marcia verso gli Usa, hanno sfondato, provenendo dal Guatemala, i cancelli e le reti di protezione della frontiera del Messico. Sono entrati nel territorio messicano e stanno avanzando verso gli Stati Uniti”, preludendo così ad un’avanzata senza intoppi. Nello stesso articolo viene però scritto che “molti altri sono bloccati sul ponte di confine tra Messico e Guatemala, dove si sono uniti ad altri manifestanti locali”, e nella foto pubblicata sono visibili alcune migliaia di persone proprio sul ponte. Se la maggior parte della carovana è bloccata sul ponte, chi ha sfondato la barriera con il Messico? Alla domanda prova a rispondere il Corriere della Sera, pur lasciando alcuni dubbi. Inizialmente afferma che “migliaia di migranti dell’Honduras hanno sfondato dal Guatemala i cancelli e le reti di divisione alla frontiera con il Messico a Tecun Uman”, per poi, quasi contraddirsi, poche righe più sotto, dove si afferma che in realtà “un primo gruppo di circa 30 persone ha attraversato il confine venerdì mattina e sono stati fermati dagli agenti del confine messicano che studieranno le loro domande di asilo o di visto”.
Chi è il vero organizzatore della carovana di migranti. Nel frattempo, quel che è certo, è che il Messico ha schierato alcune unità del proprio esercito lungo quel confine, proprio per evitare che alcuni impavidi migranti si avventurino attraverso il fiume per oltrepassare la frontiera. Difficile credere che poche migliaia di persone (numeri modesti anche per un corteo cittadino) abbiano vinto la resistenza della nutrita polizia messicana schierata al confine. Passando invece alle interpretazioni del fenomeno c’è, ovviamente, qualcosa di più profondo rispetto alla narrativa dominante che la carovana come un gruppo di persone alla ricerca di una nuova vita, in marcia proprio contro il Presidente dei “muri” e dei “confini”. I primi dubbi iniziano a sorgere quando si legge che dietro alla “carovana” ci sono alcuni organizzatori e tra questi risulta esserci tale Bartolo Fuentes. Si tratta di un ex politico honduregno legato al partito Libertad y Refundación che è attualmente all’opposizione nel Paese. Il governo honduregno sostiene che Bartolo Fuentes abbia “utilizzato le persone con finalità eminentemente politiche e persino criminali”. Inoltre non sarebbe la prima volta che lo stesso Fuentes viene riconosciuto come organizzatore di questi movimenti migratori, ruolo da lui stesso ammesso. Quest’ultimo però si difende sostenendo che queste persone stiano davvero scappando da una situazione di estrema crisi economica che colpisce l’Honduras.
L’Honduras è in una fase di crescita economica. Su questo punto sembrerebbe non esserci nulla da obiettare, sennonché il quadro macroeconomico dell’Honduras ci dà in realtà uno scenario ben diverso. Secondo la piattaforma Focus Economics, leader nella raccolta di statistiche economiche nei Paesi del mondo, “l’economia honduregna ha avuto una accelerazione nel secondo quadrimestre grazie ad una robusta domanda interna e i consumi privati sono molto aumentati”. Inoltre viene riportato come il reddito pro capite sia aumentato progressivamente dal 2013 al 2017 e il tasso di crescita del Pil sia passato dal 2.8% del 2013 fino ad arrivare ad un 4.8% nel 2017. Lo stesso tasso di disoccupazione è sceso dal 6.3% del 2016 al 5.9% del 2017. Certo, rimangono problemi legati alla criminalità organizzata e ad una sperequazione costante tra le campagne e i centri urbani. Tuttavia l’economia del Paese è in una fase di crescita e non sta attraversando una crisi tale da scatenare un esodo, come paventato da Bartolo Fuentes. Molto più probabile è che questa carovana rappresenti un’arma politica dell’opposizione honduregna volta a indebolire il Governo attraverso, in particolare, l’interruzione degli aiuti americani, ipotesi che è stata per l’appunto paventata da Donald Trump.
Perché la “carovana” umanitaria in Centroamerica fa male alla causa dei migranti. Duemila persone partite dall'Honduras chiedono di entrare negli Stati Uniti. Trump ha trasformato la questione in un tema elettorale potente, scrive Maurizio Stefanini il 18 Ottobre 2018 su "Il Foglio". Negli ultimi giorni, circa 2.000 persone partite dall'Honduras, nell'America centrale, stanno marciando verso nord in una “carovana” con l'obiettivo dichiarato di immigrare negli Stati Uniti. Queste “carovane” sono un fenomeno tipico latinoamericano (ce ne fu una anche a marzo, che si disperse in Messico), e sono più marce di protesta che veri movimenti migratori. Tuttavia, la loro presenza crea un panico sconsiderato tra i media statunitensi: duemila latinos sono pronti all'invasione! Questo panico è spesso strumentalizzato in chiave politica, e in periodo di mid-term questo movimento nato con intenti tutto sommato umanitari sta ottenendo l'effetto contrario: avvantaggia gli impulsi anti immigrati e spesso xenofobi dell'elettorato del presidente Donald Trump, che non a caso negli ultimi giorni ha fatto della “carovana” un tema di politica nazionale. Le duemila persone sono partite da San Pedro Sula, in Honduras, venerdì 12 ottobre: il giorno della scoperta dell'America. Erano all'inizio 160, ma presto le loro fila si sono ingrossate. “In Honduras non c'è lavoro e non c'è sicurezza”, la semplicissima motivazione. “Abbiamo fede che Dio ci aiuterà come quando aiutò il popolo di Israele a uscire dall'Egitto scampando al Faraone”, ha scritto su Facebook un simpatizzante dell'iniziativa. E un altro: “Geova guida e protegge Bartolo Fuentes così come fece con Mosè per liberare il suo popolo”. Bartolo Fuentes è il leader dell'iniziativa. Giornalista, fu da 2013 al 2017 deputato in Honduras con il partito di Manuel Zelaya: il presidente liberale che durante il suo mandato si trasformò in un simpatizzante di Chávez. Come humus ideologico, siamo dalle parti del classico populismo di sinistra latino-americano. Ma un populismo che in centroamerica da una parte si ormai solidamente innervato col linguaggio e l'immaginario delle sette evangeliche. Lunedì 15 ottobre i migranti hanno passato il confine col Guatemala, puntando verso il Messico e il confine con gli Stati Uniti. Martedì 16 Trump ha iniziato a preoccuparsi al punto da minacciare di tagliare gli aiuti all'Honduras se non avesse fermato la fiumana. Il vicepresidente Mike Pence ha fatto sapere di aver chiamato direttamente i presidenti Juan Orlando Hernández dell'Honduras e Jimmy Morales del Guatemala. Il Guatemala ha risposto arrestando Fuentes e rispedendolo in patria. Ma i suoi seguaci hanno continuato la marcia. Secondo quanto aveva spiegato lunedì Fuentes alla Cnn, l'intenzione dei marciatori era quella di chiedere al Messico dei “visti umanitari”. L'ambasciata americana in Honduras ha avvertito sui rischi del viaggio e ha preannunciato che gli Stati Uniti avrebbero fatto valere le proprie leggi sull'immigrazione. Cioè, che i migranti sarebbero stato respinti in blocco al confine. Il governo del Messico ha a sua volta avvertito che fermerà coloro che non hanno i documenti in regola, il che però vuol dire che chi li ha potrà entrare indisturbato: stessa posizione già presa dal governo del Guatemala. Cogliendo al balzo l'occasione, mercoledì 17 Trump è tornato sul tema: “E' difficile credere che, con migliaia di persone che stanno camminando senza ostacoli verso la frontiera sud, organizzati in grandi carovane, i democratici non vogliano approvare una legislazione che permetta leggi per la protezione del nostro paese. Questo è un grande tema di campagna elettorale per i repubblicani!”. Oggi (18 ottobre ndr) il presidente è tornato sulla questione e ha accusato il Partito democratico di “guidare l'assalto al nostro paese dal Guatemala, dall'Honduras e da El Salvador (perché loro vogliono frontiere aperte e vogliono mantenere le deboli leggi in vigore)”, ha detto che tra i migranti ci sono “MOLTI CRIMINALI” e ha aggiunto: “Oltre a bloccare gli aiuti a questi paesi, che sembrano non aver praticamente alcun controllo sulla loro popolazione, devo chiedere con estrema forza al Messico di bloccare questo assalto”, e se il Messico non sarà in grado di farlo Trump chiamerà l'esercito. Infine l'ultima minaccia: difendere i confini americani è più importante dell'accordo di libero scambio con Messico e Canada appena ratificato – come a dire: sono pronto a stralciare tutto. Sono tutte minacce vuote e strumentali, anche perché, come già successo a marzo, con ogni probabilità i migranti hondureñi si disperderanno da qualche parte in territorio messicano – ma non prima di far ottenere a Trump qualche vittoria retorica e perfino elettorale sul tema dell'immigrazione. La marcia dei migranti avrà effetti diametralmente contrari a quelli sperati dai suoi organizzatori.
Sono di sinistra ma non voglio gli africani. Lettera del 28 ottobre 2018 su "L'Espresso". "Cara Rossini, sono una persona di sinistra che ha votato per il Pci, Pds, Ds, Ulivo, Pd e il 4 marzo avrei votato Leu. Ma qualche giorno prima Grasso dice in Tv: "Siamo il partito dell'accoglienza!". Ho cambiato idea. Vorrei chiedere ai sigg. dell'accoglienza quanti ne dobbiamo accogliere: 1 milione, 10 milioni, 20 milioni? Perchè non lo dicono? Penso che se non si fermano non si fermeranno mai. Li salviamo in mare? Ma vanno riportati da dove vengono. Perchè Salvini ha raddoppiato i voti? Leu, invece, che prima del 4 Marzo era dato a molto di più del 6 % é sceso dopo al 3 %. Chissà se molti mi hanno imitato. Posso essere in disaccordo su questo argomento? Si parla di "migranti" quando dovrebbero chiamarsi "pretenziosi fuggitivi" che imbarcano su precari gommoni anche donne incinte e bambini per impietosire chi li salva. Li chiamerei anche sciagurati. Sono quasi tutti giovanotti con le spalle così che alla domanda (ne ho fatte tante sulla via Tiburtina) perchè sei venuto qui? Rispondono: per trovare una casa e un lavoro. Alla faccia! In Italia abbiamo migliaia di giovani laureati e non, senza lavoro e senza casa. Credo che tutti quelli che parlano di accoglienza, umanità, solidarietà, ecc. lo facciano solo per compiacimento personale come a dire: "vedete come sono buono e come sono bravo?". Oppure per interesse personale. Non possiamo fare da balia a un continente. Una riflessione che ritengo realistica è che se non si fermano non si fermeranno più. Fino ad avere un'Italia colorata in nero. Non sono razzista. Il razzismo non c'entra niente. Anzi viene usato a sproposito perchè il razzismo è ritenere una razza o un popolo superiore agli altri (Hitler, Mussolini). Discendiamo tutti da chi lasciò le orme a Laetoli. Mi vien da dire che è razzista ci lo dice agli altri. si tratta di non volere flussi di altri popoli, che non sono ineluttabili, a casa nostra. La destra, che aborro, semplicemente non accetta, con diritto, pretenziosi fuggitivi. TV e giornali ripetono come litanie: "Gli africani trasportati qui sono doni di Dio, risorse, fuggono da guerre e fame, ci pagheranno le pensioni" et similia. Ha scritto su un noto bimestrale Carlo Lauletta, magistrato a riposo, che per destabilizzare l'Europa e al tempo stesso sottrarre all'Africa fresche energie e frenarne così lo sviluppo si è trovato un metodo infallibile: trasferire in Europa quanta più possibile popolazione africana. Donde: indebolimento delle strutture territoriali, guerra tra poveri, conflittualità permanente, disfunzionamento dei pubblici servizi fino al collasso dello Stato sociale. Questa è la posta in gioco. Ha detto Wolfgang Schaeubler giorni fa: "L'Europa attira persone da tutto il mondo". Che cosa ne vogliamo fare, una scatola di sardine?. Marcello Fagioli - Roma.
Il signor Fagioli ha affidato alla tastiera, e poi a noi, pensieri che da qualche tempo vengono in mente a molte persone di sinistra. E' una riflessione importante e sincera. Coloro che qui la vorranno commentare sono pregati di tenerne conto, evitando faziosità in un senso o nell'altro.
PERCHE’ RINO GAETANO E’ ATTUALE?
Molti scrittori sono astiosi, a torto od a ragione, contro la Massoneria. La rete riporta spesso articoli o libri che preludono a misteri dietro le più eclatanti note di cronaca. E' doveroso riportare nella storia anche l'altra faccia della cronaca.
"Leggete i suoi testi con me, Rino Gaetano era un massone: fatto fuori perché parlava". L'autore dell'inchiesta sulla morte del cantante ci illustra i presunti messaggi cifrati del cantautore: "Sapeva tutto sul caso Lockheed e sul delitto Montesi". Intervista di Roberto Procaccini su “Libero Quotidiano”.
"Rino Gaetano era vicino agli ambienti massonici, se non massone in prima persona. Dai suoi amici confratelli veniva a conoscenza della verità su alcuni misteri della storia italiana del '900, che poi inseriva nei testi delle sue canzoni dietro le mentite spoglie dell'umorismo o del non sense. Per questo è stato ucciso. Aveva raccontato troppe cose, pestando i calli a qualcuno negli Stati Uniti". Bruno Mautone, avvocato ed ex sindaco di Agropoli (Salerno), ha studiato per tre anni i testi delle canzoni di Rino Gaetano. Ha analizzato le parole e colto dei collegamenti, fino a disegnare uno scenario inedito: il cantautore calabrese, morto in un incidente stradale nel 1981 all'età di 30 anni, è stato vittima di un complotto. "Nel mio libro (Rino Gaetano: La tragica scomparsa di un eroe) metto in evidenza dati che mi sembrano oggettivi - spiega -. Poi le conclusioni possono essere condivisibili o meno, ma i fatti restano". Mautone fa riferimento ad Anna Gaetano, la sorella di Rino, che sul nostro sito aveva definito "sogni" le sue tesi. "Questo non lo posso accettare", replica Mautone.
Come è arrivato alla conclusione che Rino Gaetano sarebbe stato un massone?
«Le sue canzoni sono piene di riferimenti alla cultura e al simbolismo massonico. In Fiorivi, sfiorivano le viole cita il marchese La Fayette che ritorna dall'America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo, Mameli che scrive una canzone tutt'ora in voga, e poi ancora Otto von Bismarck-Shonhausen».
E allora?
«Allora parla di tre personaggi chiave della massoneria europea del diciottesimo e diciannovesimo secolo in una canzone d'amore. La rivoluzione importata da Lafayette era quella americana, cioè quella massonica per eccellenza. La canzone tutt'ora in voga di Mameli è l'inno nazionale, Fratelli d'Italia, quando è noto che i massoni sono soliti chiamarsi tra di loro fratelli».
Basta a dire che Gaetano aderisse a una loggia?
«No, ma suoi amici strettissimi, che ho intervistato durante il lavoro di ricerca, mi hanno confermato il suo interesse per la materia. Leggeva molti libri sulla massoneria e sui suoi personaggi di spicco. E dirò di più: dai titoli dei dischi del cantautore si capisce anche il suo percorso di vicinanza prima, e allontanamento poi, dalla massoneria».
Cioè?
«Nel 1973 Gaetano pubblica I love you Marianna. La Marianna è il simbolo della rivoluzione francese, che è una rivoluzione massonica. Nel 1974 tocca a Ingresso Libero, intendendo l'apertura delle logge alle nuove affiliazioni. Poi Gaetano rompe con gli ambienti massonici e nel 1976 incide Mio fratello è figlio unico, dove l'immagine paradossale rappresenta l'isolamento nella loggia».
E così Rino avrebbe avuto agganci nella massoneria.
«Esatto. Anna Gaetano sostiene che il fratello fosse una persona preparata, che leggeva i giornali e arrivava a certe intuizioni grazie alla sua preveggenza. Non è così. Lui poteva anticipare le cose perché le conosceva».
Quanti riferimenti a casi occulti ha contato nella discografia di Rino Gaetano?
«A centinaia. Ce ne sono di grossi. In Berta filava, una canzone del '75-'76, spiega lo scandalo Lockheed (un caso di corruzione affinché l'aeronautica italiana adottasse veivoli della casa americana, ndr). Berta sarebbe Robert Gross, detto Bert, presidente della Lockheed. Rino cantava: "Berta filava con Mario e con Gino", che sarebbero Mario Tanassi e Gino Gui, due ex ministri della Difesa coinvolti nell'inchiesta. Ma dal rapporto, prosegue la canzone, nasce un bambino che non era di Mario e non era di Gino. Cioè Rino sottintendeva che la responsabilità non fosse di Gui e Tavassi, esattamente come si è scoperto dopo. I due ministri erano dei capri espiatorii messi lì per coprire responsabilità più alte. Ma non è il solo esempio».
Ne faccia un altro.
«In Nun te reggae più Rino Gaetano cita la spiaggia di Capocotta, cioè il delitto Montesi, e nella stessa canzone canta auto blu, sangue blu, ladri di Stato e stupratori».
E quindi?
«Per l'omicidio di Wilma Montesi furono incriminati Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio, e Ugo Montagna, un marchese. Le auto blu, un riferimento ai palazzi romani del potere. Il sangue blu, la nobiltà. Ladri di stato, perché le hanno rubato la vita alla ragazza venendo poi clamorosamente assolti. Stupratori, perché avevano violentato la ragazza. Rino Gaetano tutte queste cose le sapeva».
Racconta la sorella Anna che Rino Gaetano avesse inserito un riferimento al caso Montesi anche in una poesiola infantile. Per dire che il caso di nera, semplicemente, l'aveva colpito profondamente nell'immaginario.
«Ma ciò non esclude che più di dieci anni dopo abbia scritto Nun te reggae più in possesso di elementi nuovi».
E perché le avrebbe nascoste dietro riferimenti così complessi?
«Perché le sue canzoni erano cavalli di troia. Se fosse stato più esplicito lo avrebbero bloccato. Invece nascondeva cose serissime dietro l'umorismo e lo stile non sense».
Chi è il responsabile della morte di Rino Gaetano, allora?
«La massoneria deviata. Direi settori in rapporti con gli Stati Uniti. L'Italia era diventata una colonia americana, Rino l'aveva scritto in molte canzoni, come in Ok papà, dove scrive Usa il pugnale. Anche il modo in cui l'hanno ucciso è un riferimento alla simbologia massonica».
Perché?
«E' morto il 2 giungo, data scelta dai padri costituenti, tra cui molti fratelli, per l'unica festa laica del Paese. E poi non mi spiego perché sul luogo dell'incidente sia arrivata per prima un'ambulanza dei pompieri. Per non parlare dell'agonia e delle insufficienze ospedaliere che ricalcano la canzone la Ballata di Renzo».
Mettere insieme stralci di canzoni non le sembra un po' poco per sostenere una teoria del genere?
«Lo so, se avessi il documento che testimonia l'associazione di Rino Gaetano alla massoneria sarebbe tutto più chiaro. Ma ho messo in fila elementi chiari, per me oggettivi».
Anna Gaetano lamenta che l'ha conosciuta, per telefono, solo a libro dato alle stampe.
«Non avrei potuto contattarla prima. Sapevo che non avrebbe condiviso il mio libro, che mi avrebbe messo il bastone tra le ruote. Non ho nulla contro di lei, ma se ha paura non è colpa mia. E capisco anche che non sia d'accordo con le mie conclusioni, ma non può dire che invento».
La tesi choc di un avvocato: "Rino Gaetano è stato ucciso dalla massoneria", scrive Fabio Frabetti su “Affari Italiani”. «Rino Gaetano fu ucciso dalla massoneria deviata». La dinamica della morte del geniale cantautore che continua a trascinare vecchie e nuove generazioni potrebbe non essere così scontata come si è pensato finora. L'avvocato Bruno Mautone, ex sindaco di Agropoli, sta per dare alle stampe un libro in cui è riuscito a decriptare nei testi delle canzoni di Gaetano tutti i misteri della sua morte. Affaritaliani.it lo ha incontrato. Si intitola “Rino Gaetano, assassinio di un cantautore” ed uscirà nelle prossime settimane per le edizioni Gli occhi di Argo.
Come è nata l'idea di scrivere un libro del genere?
«Da tanti anni per passatempo conduco programmi radiofonici e Rino Gaetano è uno dei miei autori preferiti. Ascoltando alcuni suoi brani poco conosciuti mi sono accorto che c'erano dei significati interpretabili in maniera non letterale. Non ritengo di avere il Vangelo in tasca ma penso di avere individuato, partendo dal lavoro in passato svolto da Gabriella Carlizzi e Paolo Franceschetti, una serie di canzoni in cui vengono lanciati degli importanti messaggi sulla storia italiana dal dopoguerra in poi. La morte di Rino Gaetano non è stata casuale, si trattò di una macchinazione per metterlo a tacere. In alcuni suoi testi ci sono messaggi inquietanti ed angoscianti. In altri, frasi di scherno che progressivamente vengono inseriti di disco in disco. Lui era un vero e proprio genio e la massoneria è da sempre interessata a fare entrare nuove leve di alto valore intellettivo. Così probabilmente lui fu fatto entrare molto giovane e così era venuto a conoscenze di segreti e verità apprese nell'ambito di specifiche consorterie massoniche. Nei primi dischi sembra esserci entusiasmo nei confronti di questo mondo, poi pian piano subentrò il disincanto e poi il distacco. Lo spirito di ideali e di giustizia lo spinse a rivelare con le sue canzoni alcuni di quei segreti. Messaggi che seppur criptici hanno indotto la massoneria deviata ad ucciderlo. Ha composto poco più di sessanta canzoni, nel 100% delle sue composizioni ha sempre messo qualche riferimento a fatti o situazioni collegabili alla massoneria. In altre ha individuato e rivelato segreti inquietanti della storia italiana».
«C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio! Io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni! Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale! E si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta». Rino Gaetano pronuncia questa criptica frase in un concerto del 1979. Sta per eseguire uno dei suoi brani più celebri Nuntereggae più. Proprio nel testo di questa canzone salta di nuovo fuori la stessa spiaggia: «il pitrentotto sulla spiaggia di Capocotta». In quella spiaggia si era consumato nel 1953 il delitto di Wilma Montesi...
«Quando avvenne quell'omicidio, Rino aveva poco più di due anni. Quello che aveva raccontato di quel tragico evento nei concerti e nelle sue canzoni lo aveva quindi sicuramente conosciuto nelle frequentazioni di tipo massonico: tramite le sue parole si può quindi ricostruire cosa avvenne esattamente in quella spiaggia. I segreti che aveva appreso riguardavano però molti aspetti della cronaca e della politica italiana. L'aspetto inedito del libro è proprio questo: aver dimostrato che nelle sue canzoni insieme ad apparenti nonsense si raccontavano i retroscena di molti scandali: i casi Sindona, banco Ambrosiano, Franklin Bank, vicenda Mattei. Addirittura Rino Gaetano era arrivato a pronosticare come sarebbe finito il processo per la bomba a Piazza Fontana a Milano e ad annunciare i reali colpevoli dello scandalo Lockheed».
Rino Gaetano morì il 2 giugno 1981 dopo un incidente stradale sulla via Nomentana a Roma. La sua auto finì addosso ad un camion: perse la vita per le gravi ferite riportate dopo che ben tre ospedali di fatto rifiutarono il suo ricovero. La cosa incredibile è che lo stesso cantautore 11 anni prima aveva raccontato la morte di un uomo dopo essere stato rifiutato da tre ospedali e anche dal cimitero. Nel brano “La ballata di Renzo” si legge: Quando Renzo morì io ero al bar la strada era buia si andò al S.Camillo e lì non l'accettarono forse per l'orario si pregò tutti i Santi ma s'andò al S.Giovanni e li non lo vollero per lo sciopero. Quando Renzo morì io ero al bar era ormai l'alba e andarono al Policlinico ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo c'era in alto il sole,si disse che Renzo era morto ma neanche al Verano c'era posto. Una somiglianza notevole con quello che sarebbe accaduto allo stesso Gaetano.
«I primi tre ospedali citati nel brano sono proprio quelli che non ebbero la capacità o la volontà di curarlo in maniera non professionale od idonea dopo l'incidente. Non abbiamo alcuna prova che il soccorso sia stato tempestivo. I telefonini non esistevano. Sarebbe interessante capire chi allertò i soccorsi, a che ora e con quale modalità. Tra le altre cose, lui non fu degente in tre ospedali diversi. Rimase al Policlinico Umberto I, con motivazioni mai veramente chiarite ed emerse. Non c'era il reparto di traumatologia cranica funzionante e gli ospedali disperatamente contattati dal medico di turno facevano quasi a gara a non prestare soccorso a Rino. Così morì agonizzante al Policlinico per il grave trauma cranico riportato. Lui aveva avuto un altro strano incidente nel 1979 a cui era miracolosamente sopravvissuto. Una jeep speronò la Volvo in cui viaggiava insieme ad un amico. La macchina si distrusse e chi aveva causato l'incidente riuscì a defilarsi e non si seppe mai chi fosse alla guida. Questo incidente avviene nello stesso anno in cui Rino Gaetano aveva fatto quelle rivelazioni su Capocotta. Nelle sue canzoni preconizzava una morte prematura, sapeva i rischi che stava correndo. Per questo probabilmente non aveva messo al corrente le persone a lui care delle frequentazioni che aveva avuto. Voleva preservarle da possibili rischi».
Un altro brano che fa pensare è “Al compleanno della zia Rosina” in cui si legge: “vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia che ce l'ha con me”.
«In quella canzone c'è una emblematica citazione storica di Cleme, che sta per Clemente Rino Gaetano si voleva riferire ai tre papi (Clemente V, Clemente XII e Clemente XVI) che in momenti storici diversi emanarono provvedimenti religiosi nei confronti di movimenti legati alla massoneria. Uno di questi papi emanò il primo editto contro la massoneria, un altro aveva sciolto la Compagnia di Gesù ed il terzo sciolse i Templari. Lui in sostanza sta dicendo: me ne frego se verrò portato a spalla da gente che bestemmierà, evocando queste figure che avevano scomunicato per prime alcune diramazioni massoniche. Lui consultava enciclopedie, libri di storia e di cultura. Nel mio lavoro penso di avere colto dei significati che non era facile afferrare di primo acchito. Rino Gaetano era un generoso ed un idealista, non riusciva a trattenere nell'ambito dei propri pensieri le tante porcherie che erano state combinate in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Nelle sue canzoni parla anche di storia, di Risorgimento, di Hitler e di una miriade di cose. Anche di numerologia. C'è di tutto celato nella sua musica. Anche il mistero della sua morte».
Rino Gaetano e i messaggi in bottiglia. Qualche appunto a margine del vergognoso film della RAI su Rino Gaetano, scrivono Paolo Franceschetti e Stefania Nicoletti. Come abbiamo descritto molte volte nel nostro blog, il nostro è un sistema che uccide e strangola tutti coloro che ne sono al di fuori e non vogliono essere coinvolti nei giochi illeciti del potere massonico. Il sistema, però, non penalizza solo chi ne è fuori, ma anche chi ne è dentro e ne riceve i vantaggi. Perché il problema è che una volta entrati nel sistema, tutto ciò che ti viene dato ti viene chiesto in restituzione sotto altre forme. Se fai carriera grazie al sistema, ad un certo punto arriverà qualcuno che ti chiederà il conto; ti chiederanno di fare uno sgarbo ad un vecchio amico che vogliono rovinare; ti chiederanno di falsificare un documento o farlo sparire, ti chiederanno di accollarti una responsabilità penale per salvare altri, di essere condannato ad un anno con la condizionale e di spendere la tua faccia su tutti i giornali per fare da capro espiatorio. Ribellarsi al sistema è quasi impossibile per la perfezione che esso ha. Tanti, troppi, sono caduti nella trappola. Le promesse che ti fanno sono allettanti: potere, denaro, conoscenza dei meccanismi reali del potere. Ma il conto è salato, perché non si è più liberi di fare ciò che si vuole, e si è in costante stato di ricatto. Ritengo, ad esempio, che molti esponenti della sinistra attuale, a suo tempo, abbiano fatto il cosiddetto “patto col diavolo”, pensando semplicemente di accettare un compromesso in più per fare carriera; e si sono poi trovati invischiati in un gioco di potere più grande di loro, perdendo ogni capacità decisionale reale; ed ecco il motivo per cui la sinistra di questi ultimi anni ha fatto delle cose senza alcuna logica, come se volesse realmente perdere le elezioni e consegnare – come hanno fatto di recente – il paese definitivamente alla destra. In realtà alcuni provano a ribellarsi. Ribellarsi in modo esplicito, in un attacco frontale, non è possibile altrimenti si muore (la lista dei morti è lunghissima; Falcone e Borsellino, Occorsio, Pecorelli, Tobagi, Mauro De Mauro, Cosco, Pasolini, Cecilia Gatto Trocchi, Ilaria Alapi, Graziella De Palo, e tutti coloro che hanno provato a testimoniare coraggiosamente in processi importanti, morti suicidi o in incidenti stradali). Molti però provano a ribellarsi non apertamente, lanciando una serie di messaggi in bottiglia. Come delle tracce, per chi le vorrà cogliere un giorno. Ricordo un'archiviazione vergognosa che aveva a che fare con un soggetto che si era suicidato con "una coltellata sulla schiena". Il magistrato archiviò dicendo delle cose che li per li mi parvero incomprensibili; mischiava citazioni di Dante a frasi demenziali del tipo "la prova che si sia trattato di un suicidio è nel fatto che sul coltello piantato nella schiena furono trovate le impronte digitali della vittima". Dopo anni di rabbia in cui non capivo l'assurdità di quel provvedimento, ho capito che la citazione di Dante era un chiaro riferimento alla legge del contrappasso, utilizzata dalla Rosa Rossa per i suoi omicidi. Mentre con la frase in cui parlava delle impronte digitali voleva dire esattamente il contrario.... Tra l'altro fu uno dei provvedimenti il cui studio e la cui lettura approfondita mi hanno permesso di arrivare alla regola del contrappasso da noi descritta negli articoli sull'omicidio massonico. A mio parere si trovano molti messaggi in bottiglia anche in molti libri, articoli di giornale, e opere attuali, ma evitiamo di indicarli per non mettere in pericolo le persone coinvolte. Rino Gaetano era una di queste persone che si erano ribellate al sistema in modo vistoso. Non poteva denunciare il sistema direttamente, perchè non gli avrebbe dato voce nessuno, allora lasciò una serie di tracce nelle sue canzoni, che sarebbero state raccolte dalle generazioni successive. Rino Gaetano ci parla della Rosa Rossa, dei crimini commessi dai potenti, dei meccanismi segreti di questa associazione e dei loro metodi. Vediamone qualcuna.
Le canzoni. C’è un album di Rino, in particolare, che pare dedicato proprio alla Rosa Rossa. Nello stesso album, infatti troviamo ben tre canzoni: Rosita, Cogli la mia Rosa d’amore, e Al compleanno della zia Rosina. Una trilogia a nostro parere non casuale. In Rosita ci dice che la Rosa Rossa, quanto te la presentano, sembra bellissima... onori, gloria, soldi, potere... poi però un giorno scopri la verità. E allora la tua vita cambia completamente perchè sei in trappola.
Ieri ho incontrato Rosita, perciò questa vita valore non ha,
Come era bella rosita di bianco vestita più bella che mai.
Nella canzone “Al compleanno della zia Rosina” ci spiega che nel linguaggio criptato della Rosa Rossa, Santa Rita è in realtà la Rosa Rossa; e ci spiega che un giorno capiranno che sta svelando questi messaggi, e quindi lo uccideranno.
La vita la vita, e Rita s'è sposata, al compleanno della zia Rosina.
Vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia e che ce l'ha con me.
Questa frase apparentemente incomprensibile vuole dire probabilmente che gli appartenenti alla massoneria rosacrociana della Rosa Rossa al suo funerale porteranno a spalla la sua bara (ai funerali delle vittime i mandanti sono sempre presenti tra i partecipanti); ma bestemmieranno, perchè in realtà una caratteristica della massoneria della Rosa Rossa è di stravolgere i simboli e i riti Cristiani per interpretarli al contrario. Infine, in “Cogli la mia rosa d’amore” lancia un messaggio molto chiaro:
cogli la mia rosa d’amore,
regala il suo profumo alla gente;
cogli la mia
rosa di niente.
Non credo sia un caso anche il titolo del disco: "mio fratello è figlio unico",
perché sapeva che questo scherzetto gli sarebbe costato la vita. Nella canzone
“Nun Te Reggae più” parla della spiaggia di Capocotta. E, ad un concerto, disse:
"C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio. Io non li temo. Non ci riusciranno. Sento che in futuro le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. E che grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Apriranno gli occhi e si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta".
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
Vediamo cosa succedeva nella spiaggia di Capocotta, prendendo le notizie da Wikipedia.
La spiaggia di Capocotta. OMICIDIO DI WILMA MONTESI (1953, vigilia di Pasqua). La vicenda coinvolse il musicista Piero Piccioni, figlio del vicepresidente del consiglio della DC, e altri noti esponenti della nobiltà, politici e personaggi famosi... Inizialmente fu presa in considerazione l'ipotesi di un banale incidente, ipotesi che fu considerata attendibile dalla polizia, e il caso venne chiuso. I giornali, L'Espresso su tutti, invece si mostravano scettici. Il Roma, quotidiano monarchico napoletano, il 4 maggio cominciò ad avanzare l'ipotesi di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica; l'ipotesi presentata nell'articolo Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi? a firma Riccardo Giannini ebbe largo seguito. A capo di questa campagna stampa, vi erano prestigiose testate nazionali, quali Corriere della Sera e Paese Sera, e piccole testate scandalistiche, quali Attualità, ma la notizia si diffuse su quasi tutte le testate locali e nazionali. Il 24 maggio del 1953 un articolo di Marco Cesarini Sforza pubblicato sul giornale comunista Vie Nuove creò molto scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinora definito "il biondino", venne identificato con Piero Piccioni. Piccioni era un noto musicista jazz (col nome d'arte Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, il Vicepresidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e massimo esponente della Democrazia Cristiana. Il nome di "biondino" era stato attribuito al giovane da Paese Sera, in un articolo del 5 maggio, in cui si raccontava di come il giovane avesse portato in questura gli indumenti mancanti alla ragazza assassinata. L'identificazione con Piero Piccioni era un fatto noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva mai svelata l'identità al grande pubblico. Su Il merlo giallo, testata neofascista, era addirittura apparsa già ai primi di maggio una vignetta satirica in cui un reggicalze veniva portato in questura da un piccione, un chiaro riferimento al politico e al delitto. La notizia suscitò clamore perché venne pubblicata poco prima delle elezioni politiche del 1953. Piero Piccioni querelò per diffamazione il giornalista e il direttore del giornale, Fidia Gambetti. Cesarini Sforza venne sottoposto ad un duro interrogatorio. Lo stesso PCI, movimento di riferimento del giornale e unico beneficiario dello scandalo, disconobbe il giornalista, che venne accusato di "sensazionalismo" e minacciato di licenziamento. (QUINDI ANCHE LO STESSO PCI SEMBRA VOLER COPRIRE E INSABBIARE TUTTO... CHISSA' COME MAI?). Nemmeno sotto interrogatorio Cesarini Sforza citò mai direttamente il nome della fonte da cui ufficialmente veniva la notizia, limitandosi ad affermare che provenisse da "ambienti dei fedeli di De Gasperi". Anche il padre del giornalista, un influente docente di filosofia all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", suggerì al figlio di ritrattare, consiglio vivamente sostenuto anche dal celeberrimo "principe del foro" Francesco Carnelutti che aveva preso le parti dell'accusa per conto di Piccioni. L'avvocato di Sforza, Giuseppe Sotgiu (già presidente dell'Amministrazione provinciale di Roma ed esponente del PCI) si accordò col collega e il 31 maggio, Cesarini Sforza fu costretto a ritrattare le sue affermazioni. Come ammenda, versò 50 mila lire in beneficenza alla Casa di amicizia fraterna per i liberati dal carcere, ed in cambio Piccioni fece cadere l'accusa. Il 6 ottobre 1953, sul periodico scandalistico Attualità, il giornalista e direttore della testata Silvano Muto pubblicò un articolo, La verità sul caso Montesi. Muto aveva condotto un'indagine giornalistica nel "bel mondo" romano, basandosi sul racconto di una attricetta ventitreenne che sbarcava il lunario facendo la dattilografa, tal Adriana Concetta Bisaccia. La ragazza aveva raccontato al giornalista di aver partecipato con Wilma ad un'orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castelporziano e non distante dal luogo del ritrovamento. In quell'occasione avevano avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente nomi noti della nobiltà della capitale e figli di politici della giovane Repubblica Italiana. Continuano ad essere ritrovati corpi di donne su quella spiaggia. Forse è questo che voleva dire Rino. Non si riferiva solo al caso Montesi, ma a decine di altri casi che evidentemente continuano a verificarsi a Capocotta... O forse voleva dire che è una situazione "emblematica" di tutto quello che succede in Italia. Ma sono solo nostre deduzioni. Potremmo continuare perchè ci sono altre canzoni molto più significative e piene di messaggi, come Gianna. Ma terminiamo qui perchè per capire queste canzoni occorre avere una conoscenza specifica di determinati fatti e situazioni. Forse però non molti sanno che la canzone Nuntereggaepiù, che nomina molti personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport, della televisione... è stata censurata. Inizialmente infatti l'elenco conteneva, tra gli altri, i nomi del finanziere Nino Rovelli, del banchiere Ferdinando Ventriglia, di Camillo Crociani (scandalo Lockheed e loggia P2), di Amintore Fanfani, di Guido Carli... e persino di Aldo Moro e Michele Sindona. Questi nomi vennero cancellati dal testo della canzone. Evidentemente perché ancora più scomodi di quelli che furono lasciati. Un personaggio come Rino non poteva vivere a lungo, e perse infatti la vita il 2 giugno del 1981 in un incidente d'auto. Poco tempo prima, come abbiamo già raccontato altrove, aveva avuto un incidente analogo, ma si era salvato. Aveva ricomprato un’ auto identica ed ebbe un incidente dello stesso tipo; morì non tanto per l'incidente in sè, quanto per il ritardo con cui fu curato perchè negli ospedali della zona nessuno volle accoglierlo. Ben 5 ospedali si rifiutarono di curarlo, così come lui aveva scritto in una sua canzone, La ballata di Renzo. Cioè, è stata applicata ,nel suo caso la regola del contrappasso di cui ci siamo occupati in altri articoli. La ballata di Renzo è un brano inedito, di cui peraltro si scoprì l'esistenza solo qualche anno fa. Dunque, all'epoca, solo gli "addetti ai lavori" (i produttori e le persone che lavoravano insieme al cantante) erano a conoscenza di quel brano. E solo chi conosceva la canzone poteva fare in modo che si realizzasse nella pratica, e in modo così dettagliato. Quando qualche anno fa uscì la notizia della scoperta del brano inedito, i media si affrettarono subito a definirla una "profezia". I giornali scrissero che ne La ballata di Renzo "Rino aveva previsto e messo in musica, dieci anni prima, la propria morte". Ma sarebbe invece più oppurtuno affermare il contrario: la morte del cantautore è avvenuta esattamente come nella sua canzone non perché quel brano fosse una profezia, ma perché qualcuno l'ha usata per applicare la regola del contrappasso.
Il film. Di recente la RAI ha prodotto un film su Rino Gaetano. Vediamo cosa dice la presentazione ufficiale del film sul sito Rai. "Ci sono film su personaggi della musica che riescono a descrivere compiutamente lo spirito di un'epoca. È questo l'obiettivo della fiction Rino Gaetano. Ma il cielo è sempre più blu, una produzione Rai Fiction realizzata da Claudia Mori per la Ciao Ragazzi. L'interesse per Rino Gaetano e per la sua musica si è riacceso negli ultimi anni, soprattutto tra i giovani, al punto di farne una figura di culto oltre la sua epoca. La fiction, che racconta in due puntate la sua biografia e la genesi delle canzoni più popolari, è uno spaccato della sua generazione, e trasmette un messaggio che può valicare i confini nazionali italiani, perché ancora oggi modernissimo". In realtà guardando il film si capisce che è stato scritto al solo scopo di infangare l’immagine del cantautore. La sorella di Rino e la ex fidanzata, intervistate, diranno che il film racconta qualcun altro rispetto al protagonista. Quello non era Rino, non era la storia d'amore tra lui e la fidanzata. Vediamo perchè. Anzitutto il film si apre con la scena di lui che sviene per aver bevuto troppo. E si chiude con le immagini di lui, ubriaco, che vaga senza meta alla ricerca di amici che oramai lo hanno abbandonato. Il messaggio è chiaro. Era un ubriacone. Altre scene salienti del film sono queste:
1) Dopo aver chiesto alla fidanzata di accompagnarlo a Stromboli per scrivere una canzone, dopo alcuni giorni in cui non combinava nulla tranne trattare male gli amici musicisti, e ubriacarsi continuamente, inveisce contro la fidanzata e la tratta male dicendo che non si sente capito
2) Geniale poi come presentano il suo rapporto con le donne. Si fidanza. Mette le corna alla ragazza (Irene) con un altra ragazza, stupenda e che lo adora, di nome Chiara. Irene li scopre a letto e lui che fa? Esce dalla stanza, parla con Irene e le dice “non preoccuparti, era solo una scopata”. Poi abbandona Chiara senza dirle una parola nè salutarla, dopo giorni di idillio romantico. Dopo qualche anno incontra nuovamente Chiara. Mette nuovamente le corna alla fidanzata e abbandona nuovamente Chiara, ancora una volta senza una spiegazione e senza una parola. Verso la fine del film, abbrutito dall’alcol e senza una meta, tenta di recuperare il rapporto con Chiara e con Irene (tutte e due in contemporanea), ma entrambe lo abbandonano. Per giunta tenta di baciare Chiara proprio un giorno che lei lo trova ubriaco già al mattino presto. Chiaro è il messaggio: Gaetano era un superficiale.
3) Altrettanto geniale poi come viene delineato il suo rapporto col padre. In una delle scene clou del film lui, all’apice del successo, mostra una casa al padre, ma il padre la rifiuta, perché non vuole la sua elemosina. E lui risponde arrabbiato “ma come, finalmente ora possiamo permetterci una casa come la gente normale e non uno schifoso sottoscala”. Il messaggio qui è molto sottile ed è duplice: la gente che vive in un sottoscala non è normale. Un sottoscala fa schifo. Ma dietro a questo messaggio ce n’è un altro, molto più sottile: Gaetano, come tutti, una volta che ha avuto un po’ di soldi e si è arricchito, non ha più rispetto per le condizioni della gente più povera che infatti viene definita “non normale”. E infatti rinfaccia al padre di essere un poveraccio: "io non volevo diventare come te e ci sono riuscito... non vi voglio più vedere in quel sottoscala schifoso.. e aggiunge: "sei orgoglioso come tutti gli ignoranti". Dopodichè al padre prende anche un infarto. Quando il padre uscirà dall'ospedale Rino ancora una volta lo tratterà malissimo e gli causerà un altro malore. In altre parole, lo descrivono come un pessimo personaggio, indelicato e ignorante che arriva a far ammalare il povero padre.
Altro aspetto curioso del film è che Rino ha una sorella, che nel film però non compare mai. Non compare mai neanche quando, nella parte finale del film, bussa alla porta di tutti gli amici, ubriaco e disperato, lasciato solo da tutti. Strano che Rino quel giorno non abbia pensato di telefonare anche alla sorella no? Come è strana un'altra circostanza. Rino morì pochi giorni prima del suo matrimonio. Doveva sposarsi. In questo indegno e vergognoso film, invece, l'ultima scena del film mostra lui disperato e abbandonato da tutti. Nessun cenno alla figura della sorella. Nessun cenno al matrimonio, ma anzi, viene presentata una fattispecie completamente opposta. Insomma, per essere un film che voleva valorizzare la figura del cantautore, la trama presenta tali e tanti inesattezze, buchi ed omissioni, che rimane una sola certezza: che il film è stato fatto unicamente per oscurare le ragioni della sua morte e il valore delle sue canzoni. Per infangarne la memoria quindi. Chi ha prodotto il film, inoltre, ha appositamente evitato di inserire la figura della sorella, forse perchè è l'unica della famiglia rimasta ancora viva, e che avrebbe potuto creare guai giudiziari agli autori del film se la sua immagine fosse apparsa troppo deformata dalla fiction. In conclusione, cosa rimane dopo la visione del film? L’idea che fosse un ubriacone, anche egoista, non troppo intelligente, che ha scritto canzoni superficiali e senza senso. Così non ci si stupisce se muore in un incidente. E se un giorno qualcuno dirà che è stato ucciso, la gente dirà: "ucciso? ma come? Era stato un incidente perchè beveva ed era ubriaco". Come succede per Pantani: "era un drogato, si è suicidato". Che poi le perizie abbiano dimostrato che il suo cuore era intatto non conta, per questo mondo dei mass media asservito ad una criminalità senza scrupoli. E che la sorella e la fidanzata di Rino dicano che quello non era Rino, che conta? L'obiettivo è riuscito. Milioni di italiani lo considerano un ubriacone che scriveva canzoni senza senso. Il film è stato confezionato ad arte probabilmente per screditare la figura di un artista, proprio in un periodo particolare, ovverosia gli anni in cui, a seguito dei delitti del mostro di Firenze, si comincia a parlare della Rosa Rossa e dei suoi delitti. D'altronde, una bella coincidenza che il film sia prodotto dalla Ciao Ragazzi, società che porta, guarda caso, l'acronimo dei RosaCroce e di Cristian Rosenkreutz (CR). Di recente poi è uscito un dvd "Figlio unico", uscito insieme alla raccolta il 02.11.2007. Giorno dei morti e data a somma 13. Un altro bello scherzetto combinato ai danni di Rino. Tanto per mettere di nuovo una firma, se ce ne fosse bisogno. Il dvd contiene molti filmati, tra cui quello con Morandi: Rino a un certo punto dice: "Io conosco anche il profumo dei ministri". Una frase senza senso per i più. Un non sense, appunto, di quelli tipici di Rino. E invece no. Infatti Morandi si guarda intorno impaurito e cambia subito discorso, spostandosi di nuovo sull'ironia. "Qui non possiamo parlare di ministri, parliamo solo di canzoni. No, ma parliamo della tua ironia". Ma noi che conosciamo il sistema, riteniamo che il film sia l’ulteriore vittoria di Rino Gaetano. Rino era così grande e così bello, che hanno cercato di distruggerlo anche da morto. Perché indubbiamente le sue canzoni, come del resto aveva predetto anche lui, fanno più paura ora che quando era vivo. Ora infatti le possiamo capire. E a Venditti che, in questi ultimi tempi, ha affermato che la causa della morte di Rino è stata la cocaina (se ne è ricordato dopo quasi trenta anni) possiamo rispondere una cosa. Strano, Antonello, che ti ricordi dopo tanti anni della cocaina. In realtà la sai bene quale è la verità: lui ha avuto quel coraggio che pochi hanno, di andare contro il sistema fino a farsi uccidere per non rinnegare i suoi ideali. Quel coraggio che molti di quelli che oggi hanno successo certamente non hanno avuto.
La ballata di Renzo
Quel giorno Renzo uscì,
andò lungo quella strada
quando un’auto veloce lo investì
quell'uomo lo aiutò
e Renzo allora partì
verso un ospedale che lo curasse per guarìr.
Quando Renzo morì io ero al bar
La strada era buia
si andò al San Camillo
e lì non l'accettarono
forse per l'orario
si pregò tutti i Santi
ma s'andò al San Giovanni
e lì non lo vollero per lo sciopero
Quando Renzo morì
io ero al bar era ormai l'alba andarono al policlinico
ma lo si mandò via perchè mancava il vicecapo
c'era in alto il sole
si disse che Renzo era morto
ma neanche al Verano c'era posto
Quando Renzo morì
io ero al bar,
al bar con gli amici bevevo un caffè.
Anche il delitto di Marco Pantani si è tinto di giallo.
"Leggete i suoi testi con me, Rino Gaetano era un massone: fatto fuori perché parlava". L'autore dell'inchiesta sulla morte del cantante ci illustra i presunti messaggi cifrati del cantautore: "Sapeva tutto sul caso Lockheed e sul delitto Montesi". Intervista di Roberto Procaccini su “Libero Quotidiano”. "Rino Gaetano era vicino agli ambienti massonici, se non massone in prima persona. Dai suoi amici confratelli veniva a conoscenza della verità su alcuni misteri della storia italiana del '900, che poi inseriva nei testi delle sue canzoni dietro le mentite spoglie dell'umorismo o del non sense. Per questo è stato ucciso. Aveva raccontato troppe cose, pestando i calli a qualcuno negli Stati Uniti". Bruno Mautone, avvocato ed ex sindaco di Agropoli (Salerno), ha studiato per tre anni i testi delle canzoni di Rino Gaetano. Ha analizzato le parole e colto dei collegamenti, fino a disegnare uno scenario inedito: il cantautore calabrese, morto in un incidente stradale nel 1981 all'età di 30 anni, è stato vittima di un complotto. "Nel mio libro (Rino Gaetano: La tragica scomparsa di un eroe) metto in evidenza dati che mi sembrano oggettivi - spiega -. Poi le conclusioni possono essere condivisibili o meno, ma i fatti restano". Mautone fa riferimento ad Anna Gaetano, la sorella di Rino, che sul nostro sito aveva definito "sogni" le sue tesi. "Questo non lo posso accettare", replica Mautone.
Come è arrivato alla conclusione che Rino Gaetano sarebbe stato un massone?
«Le sue canzoni sono piene di riferimenti alla cultura e al simbolismo massonico. In Fiorivi, sfiorivano le viole cita il marchese La Fayette che ritorna dall'America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo, Mameli che scrive una canzone tutt'ora in voga, e poi ancora Otto von Bismarck-Shonhausen.»
E allora?
«Allora parla di tre personaggi chiave della massoneria europea del diciottesimo e diciannovesimo secolo in una canzone d'amore. La rivoluzione importata da Lafayette era quella americana, cioè quella massonica per eccellenza. La canzone tutt'ora in voga di Mameli è l'inno nazionale, Fratelli d'Italia, quando è noto che i massoni sono soliti chiamarsi tra di loro fratelli.»
Basta a dire che Gaetano aderisse a una loggia?
«No, ma suoi amici strettissimi, che ho intervistato durante il lavoro di ricerca, mi hanno confermato il suo interesse per la materia. Leggeva molti libri sulla massoneria e sui suoi personaggi di spicco. E dirò di più: dai titoli dei dischi del cantautore si capisce anche il suo percorso di vicinanza prima, e allontanamento poi, dalla massoneria.»
Cioè?
«Nel 1973 Gaetano pubblica I love you Marianna. La Marianna è il simbolo della rivoluzione francese, che è una rivoluzione massonica. Nel 1974 tocca a Ingresso Libero, intendendo l'apertura delle logge alle nuove affiliazioni. Poi Gaetano rompe con gli ambienti massonici e nel 1976 incide Mio fratello è figlio unico, dove l'immagine paradossale rappresenta l'isolamento nella loggia.»
E così Rino avrebbe avuto agganci nella massoneria.
«Esatto. Anna Gaetano sostiene che il fratello fosse una persona preparata, che leggeva i giornali e arrivava a certe intuizioni grazie alla sua preveggenza. Non è così. Lui poteva anticipare le cose perché le conosceva.»
Quanti riferimenti a casi occulti ha contato nella discografia di Rino Gaetano?
«A centinaia. Ce ne sono di grossi. In Berta filava, una canzone del '75-'76, spiega lo scandalo Lockheed (un caso di corruzione affinché l'aeronautica italiana adottasse veivoli della casa americana, ndr). Berta sarebbe Robert Gross, detto Bert, presidente della Lockheed. Rino cantava: "Berta filava con Mario e con Gino", che sarebbero Mario Tanassi e Gino Gui, due ex ministri della Difesa coinvolti nell'inchiesta. Ma dal rapporto, prosegue la canzone, nasce un bambino che non era di Mario e non era di Gino. Cioè Rino sottintendeva che la responsabilità non fosse di Gui e Tavassi, esattamente come si è scoperto dopo. I due ministri erano dei capri espiatorii messi lì per coprire responsabilità più alte. Ma non è il solo esempio.»
Ne faccia un altro.
«In Nun te reggae più Rino Gaetano cita la spiaggia di Capocotta, cioè il delitto Montesi, e nella stessa canzone canta auto blu, sangue blu, ladri di Stato e stupratori.»
E quindi?
«Per l'omicidio di Wilma Montesi furono incriminati Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio, e Ugo Montagna, un marchese. Le auto blu, un riferimento ai palazzi romani del potere. Il sangue blu, la nobiltà. Ladri di stato, perché le hanno rubato la vita alla ragazza venendo poi clamorosamente assolti. Stupratori, perché avevano violentato la ragazza. Rino Gaetano tutte queste cose le sapeva.»
Racconta la sorella Anna che Rino Gaetano avesse inserito un riferimento al caso Montesi anche in una poesiola infantile. Per dire che il caso di nera, semplicemente, l'aveva colpito profondamente nell'immaginario.
«Ma ciò non esclude che più di dieci anni dopo abbia scritto Nun te reggae più in possesso di elementi nuovi.»
E perché le avrebbe nascoste dietro riferimenti così complessi?
«Perché le sue canzoni erano cavalli di troia. Se fosse stato più esplicito lo avrebbero bloccato. Invece nascondeva cose serissime dietro l'umorismo e lo stile non sense.»
Chi è il responsabile della morte di Rino Gaetano, allora?
«La massoneria deviata. Direi settori in rapporti con gli Stati Uniti. L'Italia era diventata una colonia americana, Rino l'aveva scritto in molte canzoni, come in Ok papà, dove scrive Usa il pugnale. Anche il modo in cui l'hanno ucciso è un riferimento alla simbologia massonica.»
Perché?
«E' morto il 2 giungo, data scelta dai padri costituenti, tra cui molti fratelli, per l'unica festa laica del Paese. E poi non mi spiego perché sul luogo dell'incidente sia arrivata per prima un'ambulanza dei pompieri. Per non parlare dell'agonia e delle insufficienze ospedaliere che ricalcano la canzone la Ballata di Renzo.»
Mettere insieme stralci di canzoni non le sembra un po' poco per sostenere una teoria del genere?
«Lo so, se avessi il documento che testimonia l'associazione di Rino Gaetano alla massoneria sarebbe tutto più chiaro. Ma ho messo in fila elementi chiari, per me oggettivi.»
Anna Gaetano lamenta che l'ha conosciuta, per telefono, solo a libro dato alle stampe.
«Non avrei potuto contattarla prima. Sapevo che non avrebbe condiviso il mio libro, che mi avrebbe messo il bastone tra le ruote. Non ho nulla contro di lei, ma se ha paura non è colpa mia. E capisco anche che non sia d'accordo con le mie conclusioni, ma non può dire che invento.»
Rino Gaetano: perché lo cantano ancora tutti. I segreti della longevità del geniale cantautore, nato a Crotone il 29 ottobre del 1950, scrive Gabriele Antonucci il 29 ottobre 2018 su "Panorama". “C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio: io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera. Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale”. La profezia che fece Rino Gaetano in un concerto sulla spiaggia di Capocotta nel 1979 si rivelò esatta. Il geniale cantautore crotonese, nato il 29 ottobre del 1950, ci ha lasciato 37 anni fa, eppure le sue canzoni sono ancora oggi così amate e ascoltate, anche dai più giovani, che riesce difficile pensare a una sua scomparsa ormai lontana. Il 2 giugno del 1981 Rino Gaetano perse la vita in un incidente a via Nomentana, poco distante da casa sua, nel quartiere di Montesacro. La sua auto finì addosso ad un camion proveniente dall’altra corsia, ma il cantante non morì sul colpo. Dopo che tre ospedali rifiutarono il suo ricovero, morì per le gravi ferite riportate alla testa.
Le inquietanti coincidenze. È incredibile come lo stesso cantautore, 11 anni prima, aveva raccontato ne La ballata di Renzo la morte di un uomo dopo essere stato rifiutato da tre ospedali e perfino dal cimitero. Nel brano La ballata di Renzo cantava: «Quando Renzo morì io ero al bar la strada era buia si andò al S.Camillo e lì non l’accettarono forse per l’orario si pregò tutti i Santi ma s’andò al S.Giovanni e lì non lo vollero per lo sciopero. Quando Renzo morì io ero al bar era ormai l’alba e andarono al Policlinico ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo c’era in alto il sole, si disse che Renzo era morto ma neanche al Verano c’era posto». Una somiglianza inquietante con quello che sarebbe accaduto davvero pochi anni dopo allo stesso Gaetano, arrivato al Policlinico Umberto I già in condizioni disperate. Sulle sue ultime ore di vita non sono mai stati fugati del tutto dubbi e sospetti, come conferma la pubblicazione di un saggio, Rino Gaetano, la tragica scomparsa di un eroe di Bruno Mautone, nel quale l’autore sostiene che l’artista sia stato ucciso dalla massoneria deviata. La notte dell’incidente un’ambulanza dei vigili del fuoco lo portò al San Camillo, dove venne però rifiutato il ricovero perchè non attrezzato a prestargli soccorso. Verrà poi rifiutato anche dall’ospedale San Giovanni e infine portato al Policlinico Umberto I nel quale, però, il reparto di traumatologia non era funzionante. Dopo alcune ore di agonia, senza aver ricevuto alcuna cura, il cantautore morirà verso le sei del mattino a soli 31 anni. In un primo momento gli verrà perfino rifiutata la sepoltura al cimitero del Verano, dove riposano numerosi personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura, e soltanto dopo le pressioni di alcune personalità verrà trasferito definitivamente lì. Nel 2012 Comune di Roma ha dedicato al cantante una targa commemorativa sul palazzo di Via Nomentana Nuova 53, dove Rino ha abitato dal 1970 fino alla sua scomparsa.
Il segreto del successo di Rino Gaetano. Il segreto della longevità di Rino Gaetano è nella sua capacità unica di coniugare un’impareggiabile attitudine all’ironia e allo sberleffo con una graffiante satira politica e sociale. In un paese come il nostro, da sempre diviso tra Guelfi e Ghibellini, la sua musica ha messo d’accordo sia la destra che la sinistra proprio perché non ha risparmiato nessuna delle due parti, tanto meno il centro. Per questo non è mai stato catalogabile, a differenza di altri suoi colleghi degli anni Settanta, in uno schieramento politico. Rino non si limitò ad accenni generici all’attualità politica e ai suoi protagonisti, ma nelle sue canzoni fece i nomi e i cognomi e, anche per questo, i suoi testi e le sue esibizioni dal vivo sono stati più volte censurati. Il suo universo è affollato di santi vestiti d'amianto che salgono sul rogo, di donne immaginarie che filano la lana e fiutano tartufi, di cieli blu e di notti stellate, di amabili prostitute e di detestabili politici di ogni schieramento. Gaetano era accessibile e oscuro al tempo stesso, le sue canzoni venivano ballate in discoteca e facevano da colonna sonora delle manifestazioni politiche. Una canzone esemplare di questa sua attitudine allo sberleffo intelligente è Nuntereggae più nella quale, a ritmo di reggae, punta ironicamente il dito contro Gianni Agnelli, Enrico Berlinguer, le logge massoniche, il decano del giornalismo sportivo Gianni Brera e lo scandalo della spiaggia di Capocotta. Come non ricordare, poi, la sua fortunata partecipazione al Festival di Sanremo, dove nel 1978 si classificò terzo con la scanzonata Gianna, esibendosi in frac, camicia a righe rosse e scarpe da ginnastica?
Gli esordi. Eppure i suoi esordi discografici sono stati tutt’altro che esaltanti. Dopo alcune esperienze teatrali, tra i quali il ruolo della volpe nel Pinocchio di Carmelo Bene, Gaetano iniziò ad esibirsi nel leggendario Folkstudio, inesauribile fucina artistica dei cantautori romani, dividendo spesso il palco con gli allora sconosciuti Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Si accorge del suo talento il produttore Vincenzo Micocci, che gli permette di pubblicare i suoi primi due singoli I love you Maryanna e Jaqueline, incisi dal cantante con lo pseudonimo di Kammamuri’s, e il primo album Ingresso libero, pubblicato dalla It nel 1974. Né pubblico né critica restano particolarmente colpiti dal cantautore crotonese, che si mette in luce un anno dopo con il 45 giri Il cielo è sempre più blu, un saggio della sua capacità di tenersi in perfetto equilibrio tra satira e nonsense. Nel 1976 il pubblico si accorge delle sue singolari qualità grazie al secondo album Mio fratello è figlio unico, trascinato dalla splendida title track, una struggente ballad in bilico tra affetti familiari e denuncia sociale. Nel disco spicca anche l’emozionante canzone d’amore Sfiorivano le viole, da molti considerato uno dei vertici della sua produzione artistica.
Il successo. Il terzo album Aida del 1977 è una piacevole conferma, ma è con il successivo Nuntereggae più e soprattutto grazie al terzo posto a Sanremo con l’orecchiabile e maliziosa Gianna che Rino entra ai piani alti delle classifiche. Il 1979 segna il suo passaggio dalla piccola etichetta It a una major come l’Rca, con la quale pubblica il suo quinto album Resta vile maschio, dove vai?. Nel 33 giri troviamo la divertente melodia spagnoleggiante di Ahi Maria, l’emozionante ritratto della amata Calabria in Anche questo è Sud e la sferzante satira politica di Nel letto di Lucia. Gaetano è ormai lanciatissimo, tanto che, dopo la pubblicazione nel 1980 del suo ultimo album in studio E io ci sto, viene chiamato da Riccardo Cocciante per alcune tappe di un tour fortunatissimo, che verrà ribattezzato Q Concert.
L'incidente mortale. Proprio nel periodo di massimo fulgore, nel quale stava prendendo forma un lavoro sperimentale intitolato provvisoriamente Alice, un tragico incidente stradale ha interrotto il 2 giugno del 1981 la sua parabola umana e artistica. Nel 2007 la fiction Rino Gaetano, Ma il cielo è sempre più blu, trasmessa in prima serata da Rai Uno, ha fatto scoprire a tanti giovani la musica di Rino Gaetano, grazie anche all’eccellente interpretazione di Claudio Santamaria. La miniserie ha avuto un grande successo di ascolti, dimostrando ancora una volta l’attaccamento del pubblico al cantautore calabrese, ma non è piaciuta alla sorella Anna, secondo la quale la figura di Rino è stata troppo romanzata. In effetti non deve essere stato semplice riassumere, in due sole puntate di una fiction, una personalità complessa e fuori dagli schemi come quella del cantautore. Quella personalità che rende ancora oggi le canzoni di Gaetano incredibilmente fresche e attuali.
“Avrei voluto un amico come lui” – David Gramiccioli omaggia Rino Gaetano, scrive il 14 settembre 2015 "lastella". Riceviamo & pubblichiamo da David Gramiccioli. Dagli anni 70 a oggi non è cambiato niente. Ieri il braccio armato di quel potere occulto e deviato (oggi sempre meno occulto e sempre più deviato) era Franco Giuseppucci detto Er Negro, primo, indiscusso capo della banda della Magliana. Oggi Massimo Carminati, forse non è un caso che il secondo rappresenti l’ideale contiguità con quell’esperienza criminale. Negli anni 70 il fronte criminale romano si arricchì con il commercio della droga, successivamente con il business immobiliare. Oggi, che la droga sembra non essere più il filone aureo di una volta e con la profonda crisi che sta vivendo l’edilizia, si “investe” sulla disperazione umana (immigrati e zingari). Tangentopoli produsse, colossale bluff, una nuova legge elettorale per l’elezione dei sindaci, in molti esultarono all’idea che finalmente sarebbero stati i cittadini, per la prima volta nella storia repubblicana e democratica del paese, a eleggere direttamente un sindaco. In realtà si rafforzò ancora di più il potere politico di alcuni leader che avevano a cuore tutto tranne che il bene e la ripresa del paese. La televisione, il riscontro mediatico fissavano sempre di più i parametri del successo in ogni campo della nostra società. Quando parliamo del nostro paese, della nostra amata Italia, non dobbiamo dimenticarci mai cosa è accaduto dall’8 di settembre 1943 a oggi. Legge truffa subito dopo la morte di Stalin, Capocotta. Tragedia del Vajont, Giorgiana Masi…i rapporti tra massoneria-politica-criminalità. Nessuno come lui ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava: “ma chi me sente”, era consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio, ma nel profondo del suo animo Rino nutriva, lo disse pubblicamente una sera, una grande speranza; quella che un giorno grazie alla comunicazione di massa la gente potesse finalmente comprendere il significato dei testi delle sue canzoni.
Recensione di Giada Ferri dello spettacolo teatrale “Avrei voluto un amico come lui. Omaggio a Rino Gaetano” di David Gramiccioli. Finalmente uno spettacolo teatrale dai contenuti ben scelti e approfonditi che tocca con estrema professionalità e non meno stile una sequenza di vicissitudini italiane per lo più rimaste impunite. Spettacolo che dà il giusto lustro alla figura del diretto ispiratore, il cantautore Rino Gaetano, menzionato con intelligenza e garbo, non tentando di snaturarne la criptica essenza con convinzioni pregiudizievoli nei suoi confronti, ma evidenziando il suo genio nel trattare eventi, di diverse collocazioni spazio-temporali, che gli stanno a cuore. Ci si immerge infatti in un viaggio nella Memoria, condotto magistralmente da David Gramiccioli (giornalista e speaker radiofonico), attraverso alcuni dei più rilevanti fatti di cronaca nera e scandali della storia italiana, dal secondo dopoguerra agli anni ’70, per mezzo della chiave di lettura che il cantautore dà a quei fatti, trasformandoli in frasi cardine delle sue canzoni. Si pensi a “Spendi per opere assistenziali e per sciagure nazionali” (in Fabbricando case) e a “Il numero 5 sta in panchina, s’è alzato male stamattina” (in Nuntereggae più) riferite a personaggi coinvolti nella strage annunciata del Vajont oppure a “Il nostro è un partito serio” (sempre in Nuntereggae più) con tanto di imitazione dell’inflessione dell’allora dirigente del PCI Berlinguer, all’indomani del “Governo delle astensioni”, nel 1976. La stessa frase viene pronunciata anche da Cossiga, sardo pure lui e al tempo Ministro dell’Interno, quando è chiamato a rispondere degli incresciosi fatti dell’anno successivo, che vedono cadere Giorgiana Masi raggiunta da un misterioso proiettile durante una manifestazione. Ancora, ai nomi fatti in Standard, ricordandoci dello scandalo Lockheed e ai nomi censurati alla stessa Nuntereggae più, brano cardine della pièce poiché, come si vedrà, racchiude in sé allusioni anche al delitto Montesi nella sua frase ormai nota “…sulla spiaggia di Capocotta”. Ma questa non è che una modesta anticipazione di quelli che sono gli argomenti toccati dall’autore. David Gramiccioli ha conosciuto la grande forza di Rino Gaetano leggendo i suoi testi. Non ha preteso di interpretarlo ed etichettarlo, ma affronta le vicende contenute nelle sue parole senza preconcetti e infondati collegamenti, come a volte, pur di dare un senso alla sua prematura scomparsa, si sia spinti a fare, costruendone un lato oscuro invece di ammirare le sue doti straordinarie legate alla sua dedizione a tenere sempre gli occhi aperti, nella scelta coraggiosa di smascherare gli intrighi del Potere anziché farne parte. È così quindi che l’autore scrive questa sceneggiatura, con estrema lucidità e oggettività, senza attingere a dietrologie non provate e senza farcire di orpelli e convinzioni personali quegli intrecci nefasti tutti italiani, bensì lasciando lo spettatore alle proprie deduzioni, stimolandone tuttavia l’interesse a saperne di più e favorendone l’utile ragionamento circa i casi trattati. Gramiccioli, oltre ad aver creato uno spettacolo a scopo benefico, ha veramente reso “Omaggio a Rino Gaetano”. I contenuti della sceneggiatura sono fedeli al titolo. Giada Ferri.
“Avrei voluto un amico come lui”, tour itinerante della Compagnia Teatro Artistico d’Inchiesta guidata dal giornalista performer David Gramiccioli. «Nessuno come Rino Gaetano – si legge nelle note di regia – ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava “ma chi me sente”, consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio. Ma nel profondo del suo animo Rino nutriva – e lo disse pubblicamente una sera – la speranza che un giorno, grazie alla comunicazione di massa, gli italiani potessero finalmente comprendere il significato vero dei testi delle sue canzoni».
IMBROGLIANO PURE SULL'ORARIO.
Rai, il dirigente del countdown errato: "A Capodanno si è sempre fatto così". Azzalini, responsabile dello show del 31 dicembre, risponde alle contestazioni dell'azienda: "Ero certo che Leone condivideva". In una memoria tutti gli orari di mezzanotte "spostati", scrive Aldo Fontanarosa il 12 gennaio 2016 su “la Repubblica”. Telegiornali che iniziano prima del tempo, per rubare la scena tv ai notiziari della concorrenza. Trasmissioni come L'Arena, La Prova del Cuoco, L'Eredità che usano la stessa tecnica: giocare d'anticipo. E conti alla rovescia che non rispettano più l'appuntamento con la mezzanotte, il 31 dicembre, da molti anni ormai. Funziona così su RaiUno. Dove gli orari - "per una consolidata prassi aziendale" - sono diventati flessibili. Dove si anticipa o si rinvia per una consuetudine a tutti nota, in modo da ottenere "picchi d'ascolto" e fronteggiare i morsi delle altre emittenti. Antonio Azzalini si difende così. Alla Rai che gli muove una contestazione disciplinare, il responsabile dell'intrattenimento della Prima Rete - il dirigente che ha anticipato di 40 secondi il Capodanno di Matera - ricorda ora in una memoria la "prassi" generalizzata "della anticipazione". Una truffa forse a danno degli italiani? No, solo una tecnica propria del settore televisivo. Azzalini - dirigente di lungo corso, assunto a Viale Mazzini nel 1999 - cita anche il direttore di RaiUno Leone e il suo vice, Fabiano. La sua lettera - il cui contenuto arriva a Repubblica da un deputato del Pd - suonerebbe così: avevo i miei motivi per credere che i due massimi responsabili della Prima Rete "condividessero la mia decisione di anticipare" alla luce anche del copione in scena in altri 31 dicembre.
BENEDETTO SIA ZALONE.
Provando a spiegare il fenomeno Zalone. Ritratto dell’uomo del momento che piace al pubblico (e ora anche alla critica) perché non pensa alla satira ma solo a far ridere, scrive il 4 Gennaio 2016 “Il Foglio”.
«Mi chiamo come mio nonno, capostazione, sosia di Terence Hill e convinto mignottaro» (Luca Pasquale Medici, in arte Checco Zalone).
Un milione di italiani ha deciso di iniziare l’anno con il nuovo film di Checco Zalone. Il primo gennaio Quo vado? ha incassato 6.852.291 di euro, oltre 930.000 spettatori. Un record assoluto, più del doppio rispetto all’ultimo capitolo di Harry Potter I doni della Morte – Parte II che deteneva il primato con 3,2 milioni nel primo giorno di programmazione.
A questo punto è difficile ipotizzare fino a dove potrà arrivare Quo Vado?. Marco Giusti: «Perché il film, qualche buonismo a parte e a parte l’appoggio di Mancuso e perfino di Mereghetti, è davvero buono, divertente, civile, uno spettacolo per tutti con poche parolacce (il mitico bokking), che non potrà che salire ai 50 e passa milioni. Non ha neanche rivali importanti per tutto gennaio».
La trama del film in due righe: le avventure di un impiegato statale che, pur di mantenere il suo posto fisso in un ufficio che rilascia licenzia di pesca e caccia, è disposto a trasferirsi persino al Polo Nord. «Qualcuno ci leggerà una satira sull’incapacità di cambiare… qualche mio amico intellettuale (che ha smesso dopo questa affermazione di essere mio amico) ha parlato di Gattopardo… gli ho detto di stare zitto altrimenti lo denuncio, con ’sta roba non si incassa».
Paolo Mereghetti: «Se passano gli anni per Luca Medici, passano anche per il suo personaggio Checco Zalone. Cado dalle nubi era del 2009 e il suo protagonista è cresciuto in consapevolezza e ambizione. Così come sono cresciuti i bersagli da colpire: ieri erano i luoghi comuni del politically correct oggi, in Quo Vado?, sono diventati i miti di una nazione che si ostina a non crescere: la cucina della mamma, la sicurezza della famiglia, la certezza del posto fisso».
«Fino a dieci anni fa il posto fisso era la mia massima aspirazione, i miei genitori mi hanno inculcato da sempre il mito del posto in banca, ho fatto pure il concorso per vice-ispettore di Polizia».
Giuseppe De Bellis (che ha fatto il liceo insieme a Zalone): «L’omosessualità, il terrorismo, la crisi, il lavoro. C’è qualcun altro che riesce a raccontare questi temi con leggerezza? Si può far ridere con un film sul posto fisso? Lo fa Checco. Con la stessa idea di fondo di una delle battute di Cado dalle nubi: “Vi faccio ascoltare una canzone. L’ho scritta l'altro giorno, dopo aver ascoltato un pezzo di Gianni Morandi, Uno su mille ce la fa. Mi sono chiesto: ma agli altri 999 stronzi nessuno ci deve dedicare una canzone? Ce l’ha fatta Checco”».
A spiegare il successo di Zalone, per Giusti, concorre il fatto che «al suo quarto film ha ancora miracolosamente intatta la sua freschezza originale, come se fosse la sua prima pellicola. Grazie alla sua completa chiusura, niente pubblicità, pochissime apparizioni pubbliche, il suo ritorno è davvero un grande evento alla Celentano».
Intervistato da Mariarosa Mancuso: «Ma come, non ti fai vedere mai, e ora che esce il tuo film vai dappertutto? Se io fossi il pubblico mi terrei sul cazzo». Fa eccezione Maria De Filippi, da cui è andato fuori promozione, con un magnifico Jep Gambardella: «Le dovevo un favore, dovevo andare a Italia’s Got Talent ma quel giorno non me la sentivo, quindi l’ho chiamata. Silenzio all’altra parte, poi “quando ti passa la depressione vieni” (imita la voce). E poi mi ha pagato, pure bene».
Tra le pochissime apparizioni tv per presentare il film, quella da Fabio Fazio. Andrea Minuz: «Per un ventina di minuti Zalone ha trasformato Che tempo che fa in una gigantesca, formidabile presa per il culo di Che Tempo che fa. Faticavamo a capire se si rideva di pancia o di testa quando Zalone si è infilato gli occhiali per diventare Gramellini che racconta il senso profondo di Quo Vado?».
Nato a Capurso, in provincia di Bari, 3 giugno 1977. La madre, Tonia, impiegata a scuola; il padre, Sandro, rappresentante farmaceutico. Diploma al liceo scientifico Sante Simone di Conversano, laurea in Giurisprudenza con 106 all’Università di Bari, Luca Medici ha un passato da pianista jazz («Non sono mai andato al Conservatorio, ma guardo sempre Bollani su internet»).
Per un anno ha fatto il rappresentante dell’Amuchina.
Gavetta a Telenorba (emittente locale pugliese), comincia a farsi conoscere con Zelig, le imitazioni e le canzoni. Autore, tra le altre, di Siamo una squadra fortissimi, inno trash trasmesso da Radio Deejay per i Mondiali di calcio 2006 («Dacci tanti orologi agli albitri internazionali/ si no co’ cazzo che vinciamo i mondiali» ecc.).
«Il colpo di culo che mi ha cambiato la vita è stato il provino di Zelig. Cantante neomelodico, cafonissimo, in scena con una tremenda maglietta rosa aderente. Sul palco faccio un numero che a Bari ripetevo spesso e non faceva ridere nessuno: “Un bacione alla casa circondariale di Trani con gli auguri di una presta libertà”. Gino e Michele mi prendono da parte: “Che fai nei prossimi mesi?”. “Ho la pratica per diventare avvocato”. “Annulla tutto, non prendere impegni per un anno”. Un sogno».
«Il 23 luglio del 2004 dopo essere sceso dal Milano-Bari in un giorno di caldo infernale, zanzare e bestemmie, trovo mio padre: “Mo’ mi hai rotto i coglioni, non c’ho più soldi, sto andando sotto in banca, falla finita”. Imbarazzatissimo, vado dal produttore di Zelig: “Non posso più venire”. Senza fiatare, mi stacca un assegno da 5.000 euro. Mi sembrò Dio. Chi cazzo li aveva mai visti 5.000 euro? Ne prendevo 50 a serata per fare il piano bar, mi pagavo la benzina e a volte mi toccava vestirmi pure da babbo Natale» (a Malcom Pagani).
La consacrazione, nel 2009 col primo film Cado dalle nubi, che incassa 14 milioni di euro. Mariarosa Mancuso: «Ricordiamo perfettamente la prima risata a scroscio, quando “Angela” nella canzone faceva rima con “Losangela”: “Ami solo me, spositi con me, che in viaggio di nozze io ti porto a Losangela”. Va ascoltata da uno con la maglietta rosa, cantante di piano bar a Polignano a mare, voglioso di raggiungere “L’acne del successo” (era già una battuta di Marcello Marchesi, ma tra grandi si può fare). Salito a Milano canta la canzone Gli uominisessuali in un locale gay, indicando ogni avventore con il dito».
«Quando ho iniziato chiamavo la macchina da presa telecamera suscitando le ire della troupe».
Seguono Che bella giornata (43 milioni al botteghino nel 2011) e Sole a catinelle nel 2013 che con oltre 52 milioni di euro ha realizzato il più alto incasso della storia per un film italiano e il terzo in assoluto dopo Avatar e Titanic.
Dei 57 milioni incassati nei primi due film quanti ne ha messi in tasca? «Diciamo che ho guadagnato meno della metà del 10%. Sarebbero stati molti più soldi se avessi preso una percentuale sugli incassi. Ma il contratto che avevo firmato non la prevedeva».
Qual è la sua donna ideale? «Quella con le tette» (ad Alessandra Comazzi).
Fidanzato con Mariangela Eboli (qualche cameo nei suoi film), hanno una figlia, Gaia, nata nel 2013. «La bambina comincia a capire, la prima volta era stranita guardando la mia immagine in tv, adesso non gliene frega un cazzo».
Un fratello, Francesco ha fatto l’aiutante di produzione nei primi due film: «Portava sul set gli attori, e poi li riaccompagnava a casa o in albergo. Ma ora fa l’aiuto attrezzista: gli attori, a volte, sono troppo antipatici». L’altro fratello fa lo steward per la Ryanair. «È identico a me. L’hanno chiamato all’Isola dei famosi: gli avrebbero dato 40mila euro. Lui mi ha preso in giro al telefono: “Se me ne dai 45mila, non vado”».
«Detesto gli artisti che fanno finta che i soldi non contino. La prima volta che ho visto un set mi è preso un colpo: 70 persone, 70 famiglie, 70 bocche da sfamare. A qualsiasi uomo di coscienza il dubbio verrebbe: “Chi cazzo li paga questi qui?”».
Ci dice una cosa di sinistra? «Le donne hanno gli stessi diritti dell’uomo. Specie se bone». E una di destra? «La famiglia è importante, l’amante meno» (ad Annalisa Venezia).
Qual è la cosa che le dà più fastidio? «Sentirmi ripetere che sono “l’uomo del momento”. Perché il momento, prima o poi, passa, e ancora non ho un piano B. Di sicuro so che a 50 anni non farò il comico. A quell’età si inizia a essere tristi, la scorreggia diventa patetica, e io le corde drammatiche non le ho. Potrei aprire un ristorante, dedicarmi alla produzione, cinematografica o musicale. Sono anni che tento di scrivere canzoni serie: purtroppo mi scappa sempre la cazzata» (ad Andrea Scarpa).
«Quo vado?», Checco Zalone e il mito del posto fisso. La prima repubblica. L’eroe di Quo vado? è Checco, trentottenne che vive con mamma (altro pilastro su cui si regge l’Italia di Zalone oltre a Al Bano e Romina e, appunto, Sanremo) e papà, impiegato della Provincia, ufficio caccia e pesca. Il paradiso in terra: sicurezza, benefici, rassicuranti abitudini (orari molto elastici, il badge già firmato), piccole e grandi regalie («Non è corruzione o concussione, ma solo educazione»). Quel piccolo mondo antico che giganteggia accontentandosi, condensato nella canzone che è già una hit La prima repubblica: «La prima repubblica / Non si scorda mai / La prima repubblica / Tu cosa ne sai / Dei quarantenni pensionati / Che danzavano sui prati / Dopo dieci anni volati all’aereonautica / E gli uscieri paraplegici saltavano / E i bidelli sordomuti cantavano». Esce il 1° gennaio 2016 in 1300 sale il quarto film di Luca Medici (vero nome d’ Checco Zalone), sempre diretto da Gennaro Nunziante. La commedia racconta le peripezie di un impiegato disposto a tutto per tenersi il suo posto fisso, scrive Stefania Ulivi il 29 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. L’Italia, una repubblica fondata sul mito del posto fisso. Agognato fin da bambino dal piccolo Checco Zalone («Cosa vuoi fare da grande?» chiede la maestra, «Io voglio fare il posto fisso»), auspicato dai parenti, assicurato da politici e notabili, preso di mira da potenziali consorti («Non amava me, amava la mia fissità di posto»). Anche Luca Medici, confessa, prima di diventare Checco Zalone lo ha rincorso: «Sono laureato in giurisprudenza, ho fatto il concorso come vice ispettore di polizia. E un altro all’Inail. Mi hanno bocciato entrambe le volte». È stata la sua fortuna: il 1 gennaio torna a invadere le sale italiane con almeno 1300 copie di Quo vado?, quarta collaborazione con Gennaro Nunziante che firma la regia (insieme hanno scritto soggetto e la sceneggiatura). Si sono lasciati alla spalle l’amata Puglia («Ormai ci girano tutti, troppo inflazionata») per spaziare fino alla Norvegia e all’Africa e girare il più politico dei loro film, ritratto impietoso (ma con finale di speranza) della stessa Italietta che Elio e le storie tese cantarono qualche Sanremo fa con La terra dei cachi. Con il senatore Binetto (Lino Banfi), dispensatore di assunzioni a fare da garante contro le velleità riformatrici del rampante ministro Magno (Nini Bruschetta) in odor di renzismo. «In Italia negli anni Sessanta per contrastare l’avanzata del comunismo, si assumevano migliaia di statali. Gli impiegati pubblici hanno salvato la democrazia nel nostro paese. Gli statali sono stati dei patrioti», sintetizza Nunziante. Un mondo messo in crisi dalla spending review. A cominciare proprio dall’abolizione delle Province, o meglio, dalla loro trasformazione in area metropolitana, e il conseguente ridimensionamento del personale. Nella dialettica tra sommersi e salvati Checco Zalone rischia di perdere l’amata scrivania. È l’implacabile dottoressa Sironi (l’ottima Sonia Bergamasco) a impegnarsi nella crociata di liberarsi di Zalone e fargli firmare la lettera di dimissioni. Ma l’irriducibile Checco riesce a surfare di trasferimento in trasferimento, scoprendo inaspettate gioie nel mobbing, e si ritroverà tra i ghiacci della Norvegia, dove lavora Valeria (Eleonora Giovanardi) ricercatrice del Cnr esperta di orsi. E il politicamente scorretto di Zalone si ferma davanti a lei e ai suoi colleghi. «Sono precati che meritano un applauso, rappresentano l’Italia migliore, fanno ricerca per pochi euro». Quo vado?, prodotto dalla Taodue di Pietro Valsecchi e distribuito da Medusa, arriva nelle sale dove domina Star Wars - Il risveglio della forza di J. J. Abrams. ma la gara al botteghino Checco Zalone la fa soprattutto contro se stesso. E la sua fama di re Mida del box office: 14.073.000 di euro per l’esordio Cado dalle nubi, 43.474.000 per Che bella giornata, 51.894.000 di Sole a catinelle. Per questa ultima commedia si tenta un esperimento inedito: il alcune sale (già oltre cento lo hanno richiesto) il film sarà proiettato allo scoccare della mezzanotte del 31. «Spero siano solo cinema del nord» mette le mani avanti Checco. «Al sud il Capodanno è sacro, capitone, famiglia, amici. Non vorrei che si arrabbiassero con me che li obbligo a lavorare...». In quanto a lui, a parte l’ansia da prestazione al box office («Sole a catinelle lo hanno visto otto milioni di italia, per superarci si dovrebbero riprodurre.»), Luca Medici si gode il successo del suo alter ego .«Vivere da Checco Zalone è bellissimo. Ve lo auguro a tutti. Mi dicono, deve essere terribile quando la gente ti ferma per strada. Non è vero,è bellissimo. Spero che duri a lungo».
Zalone si confessa: "Volevo il posto fisso fui scartato in polizia". Il suo "Quo vado?" sarà nelle sale il primo gennaio, scrive Giulia Bianconi il 30 dicembre 2015 su “Il Tempo”. Nel 2013 "Sole a catinelle" riuscì a incassare quasi 52 milioni di euro, sfiorando gli 8 milioni di spettatori. Un record per un film italiano. Tanto che ancora oggi la pellicola si trova al secondo posto della classifica dei film che hanno incassato di più nel nostro Paese, dopo "Avatar". Nei panni di un impiegato pubblico Luca Medici, alias Checco Zalone, si prepara a bissare il successo di due anni fa (e chissà se anche a batterlo) con "Quo vado?", diretto sempre da Gennaro Nunziante. La pellicola con protagonista il comico pugliese uscirà in 1.300 sale italiane il primo gennaio. E saranno più di cento gli schermi dove sarà proiettata già a partire dai primi minuti del nuovo anno. Il 2016 si apre così all’insegna della risata assicurata grazie al film dell'attore di Capurso (a poco più di dieci chilometri da Bari) che, alla sua quarta prova cinematografica, affronta temi sempre più attuali, tracciando un ritratto di ciò che siamo oggi attraverso la sua inconfondibile e frizzante comicità. In "Quo vado?” l’attore interpreta proprio un giovane di nome Checco che, da quando è piccolo, sogna il posto pubblico fisso. Lavora, infatti, nell’ufficio provinciale Caccia e pesca. Ma quando il Governo decide di tagliare le province, si trova di fronte a una difficile scelta: se vuole mantenere l’impiego pubblico deve essere trasferito, altrimenti si deve dimettere. Come gli hanno insegnato suo padre (Maurizio Micheli) e il senatore Binetto (Lino Banfi) il posto fisso è sacro. Inizia così il viaggio di Checco in giro per l’Italia, fino a quando la spietata dirigente ministeriale, la dottoressa Sironi (Sonia Bergamasco), che vuole farlo dimettere, lo spedisce al Polo Nord. È tra la neve e gli orsi bianchi che il protagonista incontrerà la ricercatrice Valeria (Eleonora Giovanardi), di cui si innamorerà e che gli farà scoprire nuovi valori come l'educazione e il rispetto. «Fino a dieci anni fa il posto fisso era la mia massima aspirazione. Feci anche un concorso da viceispettore di polizia, ma fui scartato fortunatamente - ha svelato ieri Zalone durante la presentazione in anteprima del film a Roma - L’idea di ritrarre ancora una volta la Puglia con le sue masserie un po' ci angustiava. Allora abbiamo voluto raccontare una storia più complessa rispetto a quelle precedenti. Che facesse sempre ridere, ma senza volgarità. Il politically scorrect per noi ha un limite, quando si passa dalla risata all'offesa gratuita». «Abbiamo fotografato ciò che ci circonda - ha aggiunto il regista Nunziante - descrivendo l’impiegato statale come un patriota e non un parassita». Per il produttore di Taodue, Pietro Valsecchi, il film «è stato molto complicato da realizzare, visti i viaggi dal Polo Nord all'Africa in diciassette settimane di riprese. In Norvegia ha piovuto sempre, ma dovevamo girare con il sole. Questa pellicola è stata una scommessa. Dopo il successo del film precedente, abbiamo pensato che era arrivato il momento di sorprendere noi e il pubblico stesso. Così abbiamo scelto di investire in un progetto ad alto budget lungo due anni di lavoro. Il risultato è una commedia italiana simile a quella degli anni Sessanta alla Risi e Monicelli». Valsecchi è già sicuro del successo e non teme il confronto con "Star Wars". «Sono gli esercenti dei cinema ad averci chiesto la pellicola. Tutti vogliono Checco Zalone». Per Giampaolo Letta, amministratore delegato di Medusa Film, «le aspettative sono molto alte. E il lato oscuro della forza non ci spaventa perché il film di Zalone funziona». Nonostante la spavalderia nei suoi film, il comico ci va più cauto nella realtà: «È bellissimo vivere da Checco Zalone. lo auguro a tutti di poter vivere così - scherza - Con Sole a catinelle abbiamo venduto oltre otto milioni di biglietti. Penso sia impossibile ripetere quei numeri, gli italiani avrebbero dovuto riprodursi in tempi velocissimi. Ma anche se saranno quattro i milioni, va bene». «Volevamo che la gente uscisse dal cinema con la gioia e la speranza, anche a costo di sembrare buonisti - aggiunge l’attore - Io poi sono un comico e il mio compito è far ridere, per questo la canzone sulla prima repubblica è solo un espediente per la risata e non qualcosa che penso davvero». Intanto, la canzone principale del film "La Prima Repubblica”, scritta da Zalone come omaggio a Celentano, dopo pochi giorni è già una hit, al terzo posto della classifica dei brani più ascoltati. «Vengo subito dopo Steve Wonder e Justin Bieber».
Con Zalone ridiamo di noi stessi. Di quello che noi italiani siamo diventati…scrive il 4 gennaio 2016 Gianluca Bernardini (presidente Acec Milano) su "Agensir". Non c’è più il posto fisso, una famiglia “normale”, una etnia e un’unica religione che ci accomunano eppure ci possono essere valori che ci uniscono, che ci richiamano al dovere di educare la propria coscienza ad aprirci all’altro, alla condivisione ad una comunione che è più grande del giardino che ci circonda. C’è un senso di umanità in Checco, sebbene possa essere caustico e volgare in certe sue battute. La sua forza sta, però, nel codice comunicativo che usa, che sa “risvegliare” gli animi più assopiti e a volte troppo “perbenisti” (una necessità, potremmo dire). Del “fenomeno Zalone” non ce ne libereremo presto. Quarto film, quarto successo. Questa volta addirittura ha sbancato in soli due giorni di proiezione con già 22 milioni di incasso. Che si voleva di più per il cinema e per le sale che continuamente si sentono in crisi, ma che in questi giorni hanno tirato un respiro, quasi tutte “sold out”? Se Zalone certo non risolverà i problemi dell’industria cinematografica certo molti esercenti, e non solo, lo invocheranno sì lui, a Natale, come il “salvatore”. Che cosa sta sotto a tale “miracolo”? Sicuramente un lavoro geniale, fatto ad arte insieme a Gennaro Nunziante che, ricordiamolo, come regista e autore fa coppia fissa da anni con il bravo comico, “performer”, cantante nonché attore Luca Pasquale Medici (in arte Checco Zalone). C’è chi lo annovera tra i grandi della commedia italiana come Sordi, Risi, Totò e chi invece ancora lo denigra come “furbetto” di bassa volgarità o dalla risata facile. Saranno i posteri a giudicare. Checco Zalone, sta di fatto, sa arrivare dritto là dove a volte le nostre intelligenze sublimi non sanno portarci. Perché ignoranti o poco colti? Forse, ma soprattutto perché molte volte, incupiti nelle nostre riflessioni più profonde che vanno alla ricerca di un senso (quale poi?) e avvolti da parole altisonanti, auliche che messe in fila una dietro all’altra hanno il solo potere di metterci in confusione (e dunque?), abbiamo bisogno di qualcuno che con il sorriso ci faccia comprendere quello che oggi siamo. Forse sta tutto qui il suo successo “popolare”, proprio perché di tutti, accessibile e comprensibile anche dal “volgo”. In “Quo vado” noi ridiamo in fondo di noi stessi, di quello che siamo diventati grazie anche, forse, al concorso di “altri” (per cui Checco da fastidio). Non c’è più il posto fisso, una famiglia “normale”, una etnia e un’unica religione che ci accomuna eppure ci possono essere valori che ci uniscono, che ci richiamano al dovere di educare la propria coscienza ad aprirci all’altro, alla condivisone ad una comunione che è più grande del giardino che ci circonda. C’è un senso di umanità in Checco Zalone, sebbene possa essere caustico e volgare in certe sue battute. La sua forza sta, però, nel codice comunicativo che usa, che sa “risvegliare” gli animi più assopiti e a volte troppo “perbenisti” (una necessità, potremmo dire). Certo “Quo Vado” non è cinema d’autore. Non è nemmeno un cinema che scava e va in profondità. Non è questo l’intento ed è inutile giudicarlo con questi parametri. Si rincuori ogni critico che fa bene il suo mestiere. Non è nemmeno un film per le famiglie (e sbagliano quei genitori che vi portano i piccoli a vederlo). È una storia che, con l’intento di allettare e far ridere, ti fa uscire dalla sala con almeno sulle labbra: “Beh, in questo però dice il vero…”. Fa pensare, dunque, Checco Zalone? Sì questa è la verità e, forse purtroppo, il paradosso odierno. Non ci dà soluzioni e anche il finale non vuole consegnarci nulla di facile e pronto all’uso, non ci dà nemmeno la morale, tuttavia ci “restituisce” la speranza che, nonostante tutto, si può sempre essere migliori. Ancora una volta. Non solo a Natale.
Siamo tutti Checco Zalone: vince la comicità pura in cui ognuno si rispecchia, scrive Gemma Gaetani su “Libero Quotidiano il 6 gennaio 2016. Ormai lo sanno anche i sassi, Quo Vado? è il nuovo film di Checco Zalone. Che ha incassato 22.248.121 euro in tre giorni, più o meno quanto ha guadagnato Star Wars, che però è fuori da settimane e sono quasi quarant’anni che fidelizza seguaci e seduce nuovi adepti. Ma il trionfo di Checco non si sostanzia solo negli incassi. Noi l’abbiamo visto in un cinema di Milano centro sabato scorso e abbiamo assistito a scene di vero tripudio, applausi a film in corso, applausi a film finito, cori quasi da stadio: una compartecipazione dello spettatore a quanto vedeva sullo schermo che prima apparteneva soltanto ai film porno. Quo va, dove va, quindi, Checco, è facile da dire: verso la consacrazione assoluta. E come spesso accade in questi casi, è partita la «corsa collettiva al commento». Ricordate Friedrich Nietzsche a Torino quando - incominciando a impazzire - si fermò per strada a guardare un cavallo frustato e l’abbracciò piangendo, gridandogli - secondo una delle varie versioni - «Io ti capisco!»? Sta accadendo la stessa cosa con Checco: tutti quelli che prima lo snobbavano ora si sentono in diritto, anzi in dovere di esprimere il proprio parere, dall’anonimo commentatore del web al vip al ministro al quotidiano intellettuale. Tutti costoro, che prima lo consideravano ciarpame comico senza pudore, «lo capiscono» e ce lo vogliono spiegare... Il che fa piuttosto ridere. È la «comicità derivativa»: il talento comico di Zalone è così grande che si riverbera anche su chi ne parla. Quo vado? racconta, tra l’altro, uno Stato italiano che preferisce liquidare a suon di soldoni i dipendenti delle Province pur di liberarsene. È quello Stato di cui Matteo Renzi è esponente di un certo livello e dovrebbe sentirsi chiamato in causa. Invece, al solito prontissimo a vampirizzare il successo altrui, il premier ci ha tenuto a far sapere all’universo mondo, tramite intervista alla Stampa, che lui Quo Vado? l’ha visto insieme coi suoi figli, tenendoci pure la lezione di grande comicità derivativa: «Sorrido di fronte a certi cambi di atteggiamento: fino a ieri era un reietto volgare, snobbato da certi intellettuali. I professionisti del radical chic, che ora lo osannano dopo averlo ignorato o detestato, mi fanno soltanto sorridere». I professionisti del radical chic, cioè lui. Che difatti ora s’inventa fan di Checco. Renzi non è il solo a tentare di cavalcare il fenomeno-Zalone, proiettandolo su di sé nell’ennesimo «storytelling»: altro «radical chic» pronto a osannare il comico pugliese al punto da risultare grottesco è il ministro della Cultura Dario Franceschini, il quale ha twittato: «Grazie a #CheccoZalone! L’incredibile record di #QuoVado con sale ovunque stracolme di spettatori, fa bene a tutto il cinema italiano». «Grazie» di cosa? Di essere un comico che ce l’ha fatta nel ferocissimo mondo del cinema italiano, in cui spesso si coprono di finanziamenti pubblici film di vera cacca che in sala non vede pressoché nessuno? Come dicevamo, è la comicità derivativa: le uscite del ministro della Cultura fanno ridere quasi come Quo Vado?. E mentre i giornali si interrogano se Zalone sia di destra o di sinistra, sul Corriere Adriano Celentano gli ha attribuito effetti taumaturgici: «Quando mi capita magari di essere un po’ stressato a causa di una eccessiva concentrazione sul lavoro, anziché prendere 5 gocce di Lexotan accendo il televisore», ha scritto il Molleggiato. «Zalone è anche un efficace toccasana di cui le farmacie non possono essere sprovviste». Casomai la similitudine corretta sarebbe stata con un eccitante, non con un sedativo, giacché Checco fa morire dal ridere, non addormentare...Via Facebook, invece, è intervenuto Gabriele Muccino, che ha ringraziato Zalone perché «abbiamo tutti bisogno di film come i tuoi». E c’è da credere che gli odiatori del web non lo linceranno come fecero quando ebbe il fegato di criticare l’opera cinematografica di Pasolini. Ha senso che Muccino parli di cinema, essendo lui un regista con rara passione per la sua arte. Meno che di Checco si mettano a fare gli esegeti persone che col cinema e l’ideologia della comicità di Checco hanno zero a che fare. Ma qual è l’ideologia di Checco? Nessuna. Zalone incarna una comicità nuovamente pura, fatta di varie sfumature. C’è, nei suoi film, una grande percentuale di comicità demenziale, dietro la quale però si nasconde una marea di possibili letture: dalla più semplice e immediata alla più raffinata e intellettuale. La grandezza di Checco sta nella sua capacità di riscrivere comicamente tutto: dalle tirate di Massimo Gramellini alla pugnetta fatta a un orso polare (in una delle tante scene esilaranti di Quo vado?). Checco sa ridere di qualunque cosa proprio perché non è ideologico. Anzi, le ideologie le infila tutte nei suoi film per prenderle in giro. In Quo Vado? dileggia: l’italiano schiavo del posto fisso e innamorato della mamma; la femminista fricchettona con figli di tutte le etnie e religioni; l’ecologismo; l’animalismo; l’inciviltà. Prende in giro tutte queste cose però mostrandole, incarnandole, senza ergersi superiore a nessuno. La sua comicità pura è politicamente scorretta verso tutti. Vi pare poco? No, perché è la comicità che in Italia non si vedeva da tempo. Da queste parti vigeva una rigida dicotomia: da un lato la comicità ideologizzata e intellettualoide (da Nanni Moretti ai Soliti Idioti passando per i Guzzanti); dall’altro i cinepanettoni, cioè il disimpegno assoluto. Checco invece inserisce nei suoi film questioni sociali e politiche e ideologiche, ma per farne oggetto di comicità totale, senza prendere mai posizione. Questa è la sua forza: aver risciacquato i panni della comicità italiana nella comicità pura. Lo dice infatti anche lui: «Io non voglio fare analisi sociologiche (...) ma solo far passare un’ora e mezza a ridere». In realtà le analisi le fa, ma non ci conficca sopra bandiere, se non quella della risata.
Zalone, così siam tutti, scrive Fabio Ferzetti su “Il gazzettino” il 30 dicembre 2015. Dal paesino pugliese al Polo Nord. Dal calduccio del posto fisso al gelo del pack artico. Dall'italica autoindulgenza all'ipercorrettezza scandinava. Dagli incontri ravvicinati con i prosciutti e i sottolio conservati dai colleghi nei loro confortevoli uffici (pubblici), a quelli con le foche e gli orsi della stazione di ricerca in Norvegia, dove l'inamovibile impiegato di una Provincia pugliese, ufficio caccia & pesca, viene catapultato dalla perfida funzionaria Sonia Bergamasco (una meraviglia: sembra la Franca Valeri degli anni d'oro con una marcia sexy a sorpresa in più) per cercare di farlo dimettere come vuole la nuova direttiva...Secondo una teoria molto diffusa nel cinema non solo americano, ogni sceneggiatura segue più o meno fedelmente lo schema del “viaggio dell'eroe”. All'inizio l'eroe vive in un mondo ordinario dominato da un equilibrio (o squilibrio) immutabile. Poi riceve la “chiamata”, un evento che lo fa uscire dal bozzolo e tentare l'avventura. Avventura che sulle prime rifiuta, per poi accettarla grazie all'incontro con un mèntore, affrontando prove (luoghi, personaggi, ambienti) sempre più difficili in nome di una Grande Ricompensa. Ma cosa succede se l'eroe/antieroe ha la faccia di gomma e i tempi da urlo di Checco Zalone, il miglior comico del cinema italiano perché quello con l'orecchio più sensibile, oltre che l'unico capace di fare un vero gioco di squadra (premio a chi trova una faccia sbagliata, anche tra le ultime comparse in fondo all'inquadratura)? Succede che in 86 minuti secchi, misura aurea, Luca Medici/Checco Zalone e Gennaro Nunziante (che la forza continui a essere con voi) smontano e rimontano mille volte, come al pit stop, tutti i trucchi e i vizi, le bassezze e le ipocrisie, i timori e i pregiudizi, le abitudini e le omertà di cui si nutre la nostra pavida, pigra, arretrata natura italica. Fino a farci ridere a crepapelle e insieme vergognare di noi stessi come non capitava da un pezzo. Per giunta limitando al massimo quei colpi bassi e sempre troppo facili che sono le battute su emorroidi e genitali (degli orsi, in questo caso). Che conceda una licenza di caccia in cambio di una quaglia («Non è corruzione né concussione, solo educazione»), o che scambi la dirigente del Ministero per la segretaria solo perché è una donna, Checco è un tale concentrato di storture nostrane da non rendersene nemmeno più conto. Salvo trasformarsi per qualche tempo, dopo aver deciso di restare in Norvegia per amore della bella scienziata Eleonora Giovanardi, in un improbabile vichingo dal pizzetto biondo (anche se è dura resistere a Al Bano e Romina durante l'inverno boreale...). Con sconcerto dei genitori in visita (Ludovica Modugno e Maurizio Micheli, un po' sottoutilizzati), che non capiscono come più che il familismo amorale la vera “arma più forte” di quel finto immobilista sia un trasformismo alla Zelig (quello di Woody Allen). Tanto da adattarsi benissimo anche quando finisce in Calabria, da vero erede dei nostri grandi commedianti di una volta (Sordi in testa), pronti a tutto per sopravvivere. Anche se la stagione delle vere commedie non tornerà. Forse perché la realtà è ormai così caricaturale da esigere rappresentazioni “al cubo”. Nessuno possiede più un grammo di innocenza, sono tutti troppo (cinicamente) consapevoli della propria immagine per costruire un racconto comico e realistico insieme come quelli della coppia Sordi-Sonego, vero modello di Quo Vado. Di qui il trionfo di una comicità farsesca in cui le tappe del racconto sono solo palcoscenici offerti al mattatore e i comprimari, peraltro efficacissimi (il senatore Lino Banfi, il ministro Ninni Bruschetta), sono pure maschere (i Genitori, la Fidanzata, il Collega, etc.). Ma se lo schema del racconto non è certo una novità, la cura dell'invenzione, e dell'esecuzione, sono davvero fuori dal comune. È questo a fare la differenza (malgrado il lieve calo “buonista” in sottofinale), oltre alla bravura oggi inarrivabile di Checco Zalone. E poi, chi altro oserebbe far rimare “fuck” con ”Margherita Hack”?
Zalone: "Dico grazie a tutti, anche agli indignati". Checco Zalone ai microfoni di Rtl 102.5 parla dello straordinario successo di Quo vado? Scrive Luisa De Montis Lunedì 4/01/2016 su "Il Giornale". "Io non sono riuscito a controllare tutte le dichiarazioni perché sono tantissime. Però voglio ringraziare quelli che mi dicono “grazie”, ma anche gli indignati, perché siamo un popolo di indignati, anzi, soprattutto loro, perché fanno scaturire curiosità e quindi la gente va al cinema. Grazie indignati. Non puoi essere simpatico a tutti, anzi quando c’è questo consenso quasi plebiscitario, paradossalmente, senti l’esigenza di ritornare a terra e di trovare qualcuno a cui stai sulle balle, altrimenti potrei avere manie di onnipotenza. Continuate ad indignarvi che io sono contento". Parola di Checco Zalone che, ai microfoni di Rtl 102.5, parla dello straordinario successo di Quo vado?. Il comico poi aggiunge: "Chi fa questo mestiere non pensa ai beni o ai mali di questo Paese, ma solo a far ridere. Il comico per una battuta si venderebbe l’anima. Poi se la battuta è azzeccata, nel senso che muove da una realtà tangibile e familiare a tutti, è più efficace. Io però non voglio fare analisi sociologiche sul nostro Paese, sul posto fisso, sul degrado, sul berlusconismo, su tutto quello che hanno scritto in questi giorni. Io e Gennaro Nunziante (regista e coautore del film ndr) vogliamo solo far passare un’ora e mezza a ridere. Ringrazio per le analisi, sono veramente lusingato dagli articoli, Celentano ne ha parlato, Muccino ha scritto su Facebook un post lusinghiero più lungo della sceneggiatura del mio film, però la questione è molto più semplice: il comico fa ridere ed evidentemente c’è riuscito". Alla domanda se ha rivisto il film, Zalone risponde: "No, l’ho visto per quattro mesi al montaggio, il lavoro dell’attore è questo: si vede al montaggio, si taglia, quindi quando esce mi ha nauseato; non lo vedrò mai più per almeno tre o quattro anni. Poi sono ingrassato, sono un po’ più rotondo, quindi mi mette un po’ di tristezza. Ritornando al discorso di prima: far ridere è tremendamente complicato, e il pubblico di oggi poi è molto sgamato. Sì, hanno internet, c’è una nuova cifra che è molto più immediata e veloce della rete. Ci sono gli sketch, ci sono un sacco di ragazzi che fanno anche cose molto interessanti. Portare un nuovo linguaggio in un film è difficile, devi essere più veloce. Rispetto alla commedia degli anni ’80, anche a quella degli anni ’60, che era sicuramente più interessante perché dietro c’erano veri intellettuali come Risi o Sonego, ora cambia il montaggio, l’immediatezza. Bisogna essere, ahimè, molto più brevi ed efficaci, infatti non riusciamo a fare un film più lungo di 83 minuti. Siamo partiti da due ore, una palla incredibile, ci volevamo ammazzare, poi al montaggio tagliuzziamo qui e lì".
Zalone: «Celentano mi ha telefonato ma non l’ho riconosciuto». «Pensavo fosse un mio amico che mi faceva uno scherzo e l’ho mandato affanc... Che figura di m... col mio mito di sempre. Da ragazzino cantavo le sue canzoni allo specchio», scrive “Il Corriere della Sera" del 6 gennaio 2015. Dopo avergli fatto i complimenti sul Corriere, Adriano Celentano ha chiamato Checco Zalone (foto) che l’ha imitato nel suo Quo vado? Ma l’attore ha rivelato sul numero di Oggi in edicola: «Pensavo fosse un mio amico che mi faceva uno scherzo e l’ho mandato affanc... Quando mi sono reso conto che era davvero lui... che figura di m... E poi proprio col mio mito di sempre. Da ragazzino cantavo le sue canzoni davanti allo specchio e provavo le sue mosse. Lo amo».
«Il Polo? Fa più freddo che a Roccaraso». Fenomenologia di Zalone: battute, canzoni e giochi di parole alla maniera di Totò, scrive Giuliano Di Tanna il 3 gennaio 2016 su “Il Centro”. Come tutti i grandi comici, Checco Zalone. non guarda in faccia a nessuno e ha le battute che fanno ridere (e non semplicemente sorridere). Una delle battute del suo nuovo film “Quo vado?” è già un piccolo cult in Abruzzo: «Al Polo Nord fa più freddo che a Roccaraso». Ma ecco un florilegio di frasi tratte dal film campione d’incassi: «Io sono da ristorante “Tutto al cofano”»; «La segreteria è donna per definizione»; «Il mobbing rilassa»; «Tira più il sorriso di una donna che un rinoceronte»; «In Puglia patate riso e cozze, al Polo patate riso e krill»; «Partono le denunce per Bocching e Milfing». Il comico pugliese ama, soprattutto, rimettere in discussione mode e fissazioni che nessuno osa toccare. Per esempio, la pizzica: «È una bella musica, ma dopo cinque minuti non la puoi più ascoltare: gli urologi dicono che dopo un po' che la balli senti dolore alle parti basse». Uno dei suoi bersagli preferiti è il politicamente corretto di una certa sinistra perbenista italiana: «Io piaccio all'italiano terra terra o a De Gregori. All'intellettuale, è al pubblico di mezzo che sto sulle palle». Ma non disdegna il gioco di parole, un po’ dadaista, alla Totò. Ai tempi delle sue comparsate a Zelig, in tv, ringraziava così il pubblico: «Che acclamanza, grazie per questa ovulazione che mi attribuite!». Di quello stesso periodo sono altre battute come queste: «Ho stato accusato di avere copiato questa canzone, ma come dicevano i jazzisti di New Orleans: le note sono sette, chi vuole se le fotte»; «Ho una doppia personalità, sono come dottor Jack e Peter Pack, il mio è un tipo di comicità anglosassa, sono un artista con la esse maiuscola»; «Se io non avrei fatto il candande non sarei qui». Le canzoni, certo. Dieci anni fa, accompagnò la scalata della Nazionale di calcio alla Coppa del mondo con una canzone nata, invece, per prendersi gioco degli Azzurri («Siamo una squadra fortissimi»). In “Quo vado?” intona un inno alla prima repubblica e alle sue certezze costose (per il bilancio dello Stato) come il pos to fisso nel pubblico impiego. Ma cantando, cantando, ha sfottuto anche i tifosi. Per esempio, gli juventini: «I juventini siamo piccoli eroi, | gli unici martiri i capi spiatoi, | perché siete gelosi, | siete gente invidiosi | di una squadra gloriosi | come noi». E – peccato mortale nell’ Italia eternamente sentimentale – non ha risparmiato l’amore: «L'amore non ha religione | nessun confine, nessuna nazione | né americano, né bolscevica | l'amore è quando lei ti dà (quando lei ti dà) quando lei ti dà (ti dà, ti dà) la vita».
“Quo vado” da record. E Zalone diventa un caso politico, scrive “On Line news" il 6 gennaio 2015. Quo vado?” è il maggior incasso della stagione. Il film di Checco Zalone diretto da Gennaro Nunziante non solo fa boom al botteghino ma diventa un caso politico e sindacale. La storia dell’impiegato Checco, felice e senza pensieri, con il mito del posto fisso, tipico della mentalità italiana, piace al pubblico ma divide la politica, tra chi ne magnifica i successi e chi parla di trionfo del qualunquismo. Anche il leader della Uil, Carmelo Barbagallo, ha commentato la rappresentazione dei dipendenti pubblici fatta da Checco Zalone nel suo ultimo film “Quo vado”.”C’è una distorsione attuata dalla politica che ha usato il bacino elettorale dei dipendenti pubblici per fare i suoi interessi e scaricata sul sindacato. Siamo un sindacato moderno e riformista, se c’è un dipendente pubblico che non lavora deve essere licenziato così come accade nel privato. Fare la satira su questi atteggiamenti funziona perché è come la satira sui politici che fanno finta di fare politica”.Il film ironizza su quel senso rasserenante, impiegatizio e democristiano della prima repubblica e sulla mentalità assistenzialista come ha spiegato il regista.”Abbiamo pensato all’impiegato come un patriota e non come un parassita”.Che piaccia o meno, il film ha toccato nel segno mettendo a nudo le paure e i sogni di un ceto medio sempre più impoverito e disorientato.
Non vado a vedere Zalone per lo stesso motivo per cui non mi vesto di fucsia, scrive Oscar Nicodemo, Giornalista e copywriter, il 06/01/2016 su "L'huffingtonpost.it". Tra le consuetudini cosiddette sociali degli italiani ve n'è una che emerge fuori misura, contrassegnando una caratteristica dominante della popolazione: discutere animosamente di tutto e su tutto senza badare alla forma, né alla sostanza, ma cercando ad ogni costo di affermare il proprio punto di vista. Risulta accettabile, buono, spendibile ciò che piace a noi, che per la legge stessa dei numeri, delle proporzioni e delle differenze di gusto, può dispiacere e addirittura risultare detestabile a tanti altri. E succede che un film comico di ordinario successo, come Quo vado, distribuito come una colla per topi da capo a piedi della penisola, proiettandolo in 1300 sale, assurge a pretesto culturale per dibattere sul tema della necessità della risata o del ridere per decreto. Tutti, o quasi, ignorano che non necessariamente si è banali, preferendo quella proiezione; tanto meno si può essere tacciati di snobismo, sottraendosi alla sua visione. Una volta messo in moto il meccanismo che scatena l'asfissiante e monotono dibattito tra due fazioni contrastanti circa la qualità dell'opera filmica, ha luogo il tipico dilemma nazionale da fenomenologia mediatica, a cui ci si conforma schierandosi a favore o contro un tale successo cinematografico, ritenuto, da una parte, legittimo e meritevole, del tutto sproporzionato e incomprensibile, dall'altra. Pertanto, la variegata composizione (a)critica di giornali e social network mi rende edotto di un prodotto che, per sortilegio, resta sciaguratamente inaccessibile ad un povero senso estetico come il mio. Passo in lettura giudizi di merito e invettive analitiche che si trascinano dietro considerazioni tanto articolate che manco per l'introspezione metodica di Ingmar Bergman si sono mai spese. Evidentemente, l'anima gutturale del Checco d'Italia poggia su una visione intimistica sopraffina, da meritare lo sforzo esagerato dei critici. Le parole pro e contro il cineasta del momento si susseguono in una dimensione gigantesca e rende conto della sua tentacolare presenza nello spazio in cui esercito il mio diritto ad informarmi. In pratica, se pure decido di non andare a vedere il capolavoro di Checco Zalone, non posso evitare di sentirne parlare o vederne scrivere. E quel che è peggio, decido finanche di argomentarne senza conoscerne realmente i limiti che si offrono così evidenti all'intuizione e alla percezione. Considero, tuttavia, ingiustificabile la querelle tra checcozaloniani e non: ai primi sarà pur lecito sganasciarsi dalle risate contemplando il prototipo più genuino del provincialismo nazionale, mentre agli altri va riconosciuta la scelta di evitare di intristirsi, al cinema, di fronte all'esasperazione e la teatralizzazione dei luoghi comuni che si incontrano nella vita quotidiana. Va da sé che la visione di un film del genere non può distinguere categorie di persone, ma di consumatori. Io, ad esempio, non andrò a vedere il film di Zalone per lo stesso motivo per cui non comprerei un cappotto fucsia. Naturalmente, per ridere di me stesso andrei a vedere Quo vado indossando quell'indumento.
"Chi guarda Zalone è poco intelligente". The Jackal contro Checco. Il gruppo di registi e attori satirici diffondono su Facebook un "sondaggio" che determina il livello di intelligenza degli spettatori di "Quo Vado?", scrive Claudio Cartaldo Mercoledì 6/01/2016 su "Il Giornale". Chi guarda Checco Zalone ha un livello intellettuale pari a zero. E' questa la tesi, più o meno ironica, di The Jackal, un gruppo di video-maker nati su Youtube e sbarcati nel piccolo schermo grazie al programma AnnoUno su La7 condotto da Giulia Innocenzi. Sul loro profilo Facebook hanno pubblicato un'infografica che raccoglie i 5 commenti più diffusi al film di Checco Zalone, dando ad ognuno di essi il un livello di intellettualità. "La sintassi cinematografica di Zalone è elementare, il suo successo è sintomo di una malattia culturale che risiede negli strati più profondi dell’inconscio collettivo", dice il commento che ottiene un bel 4 di punteggio. Peccato che il 5 sia andato ad un poco intelligente "ahahaha andiamo al cinema ci divertimm", che ha ottenuto anche zero. Come a dire: chi va a vedere i film di Zalone è un po'...scemo. O forse era tutto uno scherzo.
Checco Zalone. Perché tante critiche? Se ne stanno leggendo tante, delle solite critiche elitarie al film “Quo Vado?” con Checco Zalone. Come se sbancare il botteghino fosse per forza un male. Non sarà perché assomiglia troppo a un documentario? Scrive Mariagrazia Pontorno mercoledì, 6 gennaio 2016, su “Art Tribune”. Il 3 gennaio 1954 la RAI inaugurava le sue trasmissioni. Non esisteva ancora un linguaggio televisivo, tutto da inventare, e la modalità di fruizione era collettiva, come al cinema. Anzi, a volte gli apparecchi venivano collocati proprio sui palchi dei cine-teatro. Domenica 3 gennaio 2016, 62 anni dopo. Con Quo Vado?, il film diretto da Gennaro Nunziante e interpretato da Checco Zalone (al secolo Luca Medici) accade più o meno lo stesso. Le sale traboccano. Fila disordinate che richiamano alla memoria l’Annona. E se proprio un paragone con il cinema del passato dobbiamo farlo, non è con la commedia degli Anni Sessanta, ma con il Neorealismo. Nel senso che sembra proprio di essere caduti dentro un film del dopoguerra, con scene di folla scomposta, i volti della povertà che sorride e per un paio d’ore dimentica i propri mali. La funzione originaria del cinema, il puro intrattenimento, la distrazione. Il problema quindi non è solo di ordine estetico. E la cosa risalta molto di più nei cinema del sud, a Natale, quando ci si accorge che Quo Vado? è l’appuntamento atteso da famiglie che questo possono permettersi. Donne vestite male, pettinate peggio. Uomini dal viso rassegnato, bimbi sguaiati, con l’accento pronunciato e dallo scarso vocabolario. Questa è l’Italia. E dobbiamo ringraziare Checco Zalone se meglio di qualsiasi indagine demografica riesce a fotografare il Paese in modo così asettico. In breve la trama: Checco è il tipico italiano medio, attaccato al posto fisso e innamorato dei suoi benefit e della madre, che è la stessa cosa. Ora, considerando che il racconto è più vicino alla realtà che alla parodia, c’è da chiedersi di cosa stiano ridendo gli italiani. Se si rendono conto di fare la fila per guardarsi allo specchio, senza le attenuanti della distanza sancita dal grottesco fantozziano o dalla maschera di Alberto Sordi, per esempio. Se cioè sono consapevoli che Zalone restituisce la loro immagine senza deformarla. In un certo senso non assistono a un film, ma a un documentario. Zalone ha scomodato fior fiore di intellettuali, premi Strega, penne impegnate, animali da scrivania anche loro incollati alla sedia, seppure per più nobili fini. Tutti a chiedersi il perché di questo successo. Ma specialmente se questi grandi numeri possono conciliarsi con l’idea di qualità, passando il film al vaglio di parametri valutativi che appartengono alla Prima Repubblica – volendo citare la hit sfoderata da Checco in una delle scene madri – e a un’epoca che è stata seppellita insieme alla definizione PAL e ai manicheismi. Senza dire che il mainstream, quando non è spazzatura, può addirittura essere capolavoro. Perché ha raggiunto e appagato tutti, a diversi livelli di lettura. Dalla Cappella Sistina a Michael Jackson, arte vera insomma. E poi non si capisce perché chi predica valori di sinistra ambisca all’élitarismo a priori, alla nicchia: altro che masse. Un’inquisizione che individua nel successo il peccato mortale. Il demone da additare, ma a cui ambire neanche troppo segretamente racimolando like sui social con frasi a effetto. Veniamo al film, alla regia di Nunziante. Classica, di genere verrebbe da dire, che sacrifica la ricerca dell’immagine sull’altare della comicità. Che ruota intorno ai gesti, ai dialoghi e ai tempi del comico. E lavora silenziosa dietro le quinte per veicolare la battuta nel modo più diretto. Tutti i film comici sono così, incentrati sull’attore. E meno si pone attenzione alla regia, più essa è riuscita. E di regia cinematografica si tratta, se si svincola dai singoli sketch per dispiegarsi in un racconto unitario e coerente, usando le tecniche del cinema e non quelle televisive. Lo stesso Guzzanti (Corrado, mi raccomando), mente tra le più belle che il nostro Paese abbia avuto la fortuna di conoscere, non è riuscito a trasformare gli episodi geniali di Fascisti su Marte in un film che avesse ragione d’esistere, quindi così facile non deve essere. E ci vuole mestiere. Altra critica: l’esportabilità. Il film è circoscritto al territorio nazionale e risulta incomprensibile all’estero: non ha mercato. Quindi gli incassi da record registrati in patria, se proiettati in uno scenario di distribuzione planetaria, non sarebbero così clamorosi. Chi vuole la nicchia poi però si aspetta il successo globale, e forse l’Oscar. C’è chi addirittura pensa a un complotto di Medusa, che ha distribuito così tante copie da imporre Checco agli italiani. Un fenomeno indotto. Però ad esempio con l’ultimo film di Muccino (Silvio) non ha funzionato: ospitate televisive ogni dove, trecento copie distribuite sul territorio nazionale e ritirate meno di due settimane dopo per flop. I grandi numeri funzionano per osmosi, vengono dal basso e derivano dall’alto, allo stesso tempo. E c’è la costante di una figura carismatica, che catalizza le proiezioni delle masse. Il corpo del comico capta con più facilità le correnti sociali striscianti, perché veicola in maniera più immediata le emozioni, saltando il filtro critico della ragione. Si ride come si tossisce, senza pensarci. Checco Zalone riesce a far ridere, tutti. E qui la crisi di chi era abituato a tenere i denti stretti e si ritrova con la bocca spalancata. E la conseguente corsa a trovare una spiegazione rassicurante, che chiarisca il meccanismo, assolva i ridaioli, senza incensare Zalone, questo no, sarebbe davvero troppo. E se invece dicessimo che far ridere in maniera così diretta e franca, senza mai scadere nella volgarità; e con un copione che dissimula onestamente uno studio accurato dei ritmi e della parola è un talento che in pochi, pochissimi possiedono? Che l’intelligenza più raffinata è quella che diverte e non annoia? E che nella semplicità immediata di una battuta si può nascondere la sintesi di un concetto complesso e stratificato? E se dicessimo che Checco Zalone è un uomo brillante, che sa lavorare con la parola, il corpo, la musica? E che non è buonista ma politicamente scorrettissimo? Tanto da richiamare gli stereotipi ingenui a cui eravamo abituati un tempo, come la tribù africana di cannibali, tipica degli albi di Topolino di qualche decennio fa? E se dicessimo che Zalone è davvero bravo, e che la sua comicità è tutt’altro che facile, bensì misteriosa, come i tutti fenomeni imprevedibili e in parte irrazionali? Qualcuno potrebbe restarci male?
Ma quanto si lagnano gli intellò e i “registi col posto fisso” per il successo di Zalone. Neanche una settimana dopo l’uscita di “Quo Vado?” ha più intellettuali chini sulle sue battute di quanto un regista premiato con l’Oscar possa sperare in una vita intera, scrive di Mariarosa Mancuso il 6 Gennaio 2016 su “Il Foglio”. Ne scrive un vincitore di premio Strega come Nicola Lagioia, in nome della comune pugliesità. Si scomoda pure Internazionale, che per penna di Christian Raimo decreta “è la critica più corrosiva che mi viene in mente portata all’anima e non alla facies del renzismo”. Ne scrive l’intellettuale Adriano Celentano, anche se fuori dalle canzonette per lui “scrivere” è una parola azzardata: “Una medicina che ci difende e ci rende immuni dalle gravi INFEZIONI che ci procurano le clamorose CAZZATE di un certo cinema internazionale…”, e via così. Checco Zalone ha fatto il pieno, non solo di incassi. Neanche una settimana dopo l’uscita di “Quo Vado?” ha più intellettuali chini sulle sue battute di quanto un regista premiato con l’Oscar possa sperare in una vita intera. I colleghi comici e registi di successo, interrogati da Fulvia Caprara sulla Stampa, abbozzano. Chi calcola “si ride più del dovuto”, chi dice “ha avuto culo perché pioveva”, chi vanta i propri successi a minor budget, chi si lancia in distinzioni tecniche tra la satira e il surreale, chi sbotta “è inutile cercare il pelo nell’uovo” (e noi che pensavamo fossero 22 milioni in tre giorni, deve essere stata un’allucinazione). Mancano all’appello della chiacchiera i registi con il posto fisso: a loro bisognava chiedere un parere, un giudizio, un commento. Succede infatti che in Italia al posto fisso non sono attaccati solo gli impiegati, come racconta il film. Lo vogliono anche i registi, e in parecchi casi lo ottengono. Come possiamo chiamare, se non “posto fisso”, i registi che girano il loro primo film con i contributi dello stato, in sala incassano poco o niente, un paio d’anni dopo vanno a batter cassa per il secondo film? Ottenendo altri soldi, girando un altro film che nessuno va a vedere, e così ben posizionandosi per ottenere il finanziamento per un terzo capolavoro (tanto si sa che il pubblico è becero, va a vedere soltanto i film di Zalone, non c’è più spazio per noi che facciamo cinema di qualità, gli esercenti smontano il film appena dopo una settimana di biglietti non staccati, dura la vita per noi artisti). Sarebbe interessante sapere cosa pensa di “Quo Vado?” la “100autori”, Associazione dell’Autorialità Cinetelevisiva. Leggiamo sul sito: “Conta oggi oltre 500 iscritti ed è presente sul territorio nazionale con sedi strutturate in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Lazio e Sicilia”. Viene in mente la dottoressa Sironi (Sonia Bergamasco, bravissima, deve darsi alla commedia come Monica Vitti quando lasciò Michelangelo Antonioni) che chiede all’inamovibile impiegato Zalone: “Quale è stato il suo contributo in questi anni?”. Zalone risponde “mettevo timbri”. Noi ricordiamo molti lamenti, e anche uno spot che chiedeva soldi, ma così maldestramente da far venire l’atroce dubbio: “Se mettendosi in cento scrivono e girano così male uno spot, perché dovrebbero far meglio con il loro film?”. A sentire la rima “il concorso per allievo maresciallo / seimila posti a Mazara del Vallo” vengono in mente le schiere di aspiranti registi che “vogliono esprimersi”: hanno fatto il Dams, quindi ne hanno il sacrosanto diritto. L’impiegato Zalone accumula in dispensa salami e carciofini sott’olio, loro ritagliano recensioni da mettere nell’album. Salvo gridare allo scandalo quando la festa finisce. O stupirsi per gli incassi di chi ha talento, e rispetta il pubblico facendolo ammazzare dalle risate.
Checco Zalone: Ovvero I Radical Contro "Laggente", scrive Alessandro A. Amato il 4 gennaio 2016. La polemica è alla base della nostra cultura. Non esiste un modo edulcorato per dirlo: siamo un popolo di imbecilli e dobbiamo rendercene conto il prima possibile. Ma andiamo con ordine: cosa succede se un giovanotto simpatico decide di fare un film e poi diventa campione e distruttore di record di incassi per ben quattro volte? In una nazione dove la normalità è di casa ci potremmo aspettare qualche critica, qualche mi piace, qualche non mi piace e poi avanti con la vita. Invece no, in Italia se un autore bravo in grado di comunicare in modo efficace riesce a mettere nel cantuccio, almeno nelle sale del Belpaese, Star Wars esiste un problema culturale. Per capire il grande nodo sociale sull’accettazione o meno del nuovo film di Zalone bisognerebbe prima tentare di dare una definizione delle due specie umane più diffuse tra Belluno e Porto Empedocle. Partiamo dai primi, quelli che il mondo tutto ci invidia: gli i Radical. Un tempo quelli come noi li chiamavano Radical Chic, ma era prima degli iPhone, prima di Twitter, prima dell’Hipsterismo acuto, prima della morte della sinistra, prima di Renzi, prima di Diprè. Oggi sono sedicenti intellettuali amanti del cinema svedese pieno di morte e silenzi, leggono i libri delle twitstar e mangiano sushi. Il loro iPhone li aiuta a salvare il mondo della cultura dalla commercializzazione americana, ma non quella di #ObamaIsMyPresident quella di Trump. Sono contro Israele, ma guai a parlar male del 27 gennaio, sono quelli dell’Isis è una minaccia, ma Berlusconi lo è di più (ancora Berlusconi si avete letto bene ancora Berlusconi). Sono quelli che le bestemmie no, ma il Piss Cristh si Serrano è arte. Insomma quelli che: “Sono pronta a sacrificare tutto in nome degli ideali, fintanto che quel tutto si limiti a un paio di minuti al giorno tra l’aperitivo e la cena”. Ecco loro tendenzialmente odiano Checco, il suo film e quello che dice, ma odiano molto di più il fatto che una persona genuina in grado di comunicare (e loro sono tutti esperti di comunicazione e grandi divulgatori di consigli per comunicare meglio) al meglio i problemi del Paese abbia fatto un sacco si soldi e senza nemmeno fare un tweet, un post su Facebook, un appello, un video su YouTube una foto su Instagram. Ecco poi c’è Laggente. Loro nemmeno se lo pongono il problema su Checco. Perché un film è bello e fa ridere e i problemi dell’Italia sono altri: le sciechimiche, politicicorrotti, appaltisenzagara, fondiperleimprese, mobastacostapoliticadeiprofessionisti. Insomma a Laggente “fotte sega” di quello che i “professoroni” berciano da dietro le scrivanie e con il vitalizio a fine mese. W Checco e abbasso il vile principe Giovanni. Come sempre Don Camillo e Peppone, i Guelfi e i Ghibellini, i comunisti e i fascisti, gli juventini e gli interesti, gli scozzesi e gli inglesi, gli scozzesi e gli irlandesi, gli scozzesi e gli scozzesi, tutti pronti a dare battaglia per la propria parrocchia e allo stesso tempo pronti a dimenticarsi che un film, per bello che sia, rimane pur sempre un film. In conclusione: evviva Checco Zalone che fa tanti soldi, fa fare tante risate e dice che il cinema italiano può anche non parlare di morte, storia, relazioni difficili, famiglie distrutte e nonni impertinenti e superattivi.
Ci meritiamo Zalone non i nostri politici, scrive Matteo Grandi su Metronews” lunedì 4/01/2016. Che il dibattito pubblico sia incentrato sul conto alla rovescia sballato del Capodanno Rai e sull'ultimo film di Checco Zalone ci può anche stare. Sono argomenti nazionalpopolari che, complici le festività natalizie, attecchiscono piuttosto bene sull'italiano ebbro di prosecco e panettone. Nel caso di Zalone poi, al di là della ridicola indignazione di una certa intellighenzia autoreferenziale, lo tsunami di incassi scatenato dal suo “Quo vado?” è benzina sul fuoco della chiacchiera da bar: ovvio quindi che se ne parli, e parecchio. Un po' meno ovvio è che lo stesso Zalone stia monopolizzando l'agenda della politica italiana. Succede quando il livello del dibattito è basso e quando la mancanza di punti di riferimento è tale che ci si aggrappa a tutto nel vano tentativo di dare un senso al proprio ruolo. Accade così che l'agone politico si azzuffi sul fenomeno Zalone e, infischiandosene di ripresa, lavoro e riforme, cerchi risposta, in questi giorni, a un unico cruciale interrogativo: i film di Zalone sono di destra o di sinistra? Un teatrino tanto triste quanto surreale che disegna meglio di qualsiasi considerazione il livello dei nostri politici. Con menzione d'onore a Dario Franceschini, il ministro della cultura, che dopo aver lungamente spiegato che Zalone non era degno del David di Donatello, in quanto la quantità di biglietti strappati non equivale alla qualità di un prodotto (in base a quel vecchio e polveroso ragionamento sinistrorso - di cui il cinema italiano è intriso - per cui “se incassa non è arte” ché le masse servono solo a portar voti, ma non capiscono una mazza), ora lo incensa pubblicamente eleggendolo nuovo feticcio della sinistra peninsulare. Con tanto di benedizione pubblica del Premier Renzi che ci tiene a far sapere di aver portato tutta la famiglia a vedere “Quo Vado?” e di mezzo PD Network, che sta cercando di saltare in ogni modo sul carro milionario del vincitore. Vezzi e atteggiamenti da Prima Repubblica, la stessa che Zalone ridicolizza nell'omonimo brano che fa da colonna sonora al film. E dimostrano di come Checco Zalone sia andato oltre la semplice opera cinematografica, creando un terremoto comunicativo che fuori dalle sale cinematografiche è diventato qualcosa a metà strada fra una performance artistica e una supercazzola politica. Perché, vedete signori, la risata non è né di destra né di sinistra, ma, in un Paese sbilenco affidato a una classe politica di disarmante pochezza, è soltanto catartica e liberatoria.
Zalone, fustigatore degli etno-radical-solidal-chic. Altro che cazzaro, disimpegnato, qualunquista: Checco Zalone distrugge i luoghi comuni della sinistra. Ma il ruolo del fanciullone vernacolare non sarà eterno, scrive Massimo Del Papa il 4 Gennaio 2016. C'è una sola categoria più odiosa degl'italici statali, pigri, infingardi e imbucati: gli animalisti italici in trasferta, che salvano il pianeta, fanno un figlio per ogni fuso orario e li tirano su multiculturali, ecumenici e terribilmente stronzi. Altro che cazzaro, disimpegnato, qualunquista: Checco Zalone è uno scontento, un esasperato, uno che ce l'ha con tutti e a tutto si oppone, eroicamente, con un pessimismo coraggioso che esclude la condanna come la compassione. Fortuna che invece di farsi scoppiare il fegato lui s'è scoperto questa vena umoristica, che c'entra niente col politicamente scorretto perché è più cattiva, va più in là. Il suo sarcasmo contempla la realtà nuda e cruda, niente coloranti né conservanti, ed è discutibile quanto sostiene il conterraneo regista Gennaro Nunziante, che loro due usano l'iper realtà: qui di “iper” non se ne vede punto, la lettura, se non la denuncia, sta tutta nei confini di una credibilità appena sporcata di comicità. E non (si) salva nessuno, in Italia come al Polo Nord, giusto forse nell'Africa nera, ma poi chissà. Il che è se non altro una bella professione di fede nell'umana fratellanza: uniti nella meschinità e nel grottesco, ma almeno uniti, tutti uguali davvero, tutti ugualmente mediocri, al netto di sfumature rituali o tradizionali. La funzionaria addetta allo smaltimento rifiuti umani, i raccomandati-esodati delle province, che lo insegue dal Polo all'Africa pur di non dargliela vinta, è orrenda; ma lo è davvero più della scienziatina che si preoccupa per gli orsi bianchi ma, in definitiva, solo di se stessa? Non chiedetevi neppure se il Checco sia di destra o di sinistra: probabilmente è troppo cosmico per infognarsi in questioni di lana caprina, certo però che di sinistra non parrebbe: la sua critica verso i luoghi comuni dell'etno-radical-solidal-chic, nessuno escluso, verbosità in primis, è molto più crudele di una Grande bellezza. Più ruspante, certo, ma la naivéte è una subdola foglia di fico, un passepartout per affondare di più la lama. Il prete di frontiera rompicoglioni è quasi peggio del mafioso, autorizzato dal retropensiero che si trasforma in legge, è un automa della solidarietà che non si ferma davanti a niente, razzola via tutto ciò che incontra lungo il cammino e poi non sa che farne, «Mah, vedrò, qualcosa, un progetto sociale». La Legalità è un totem più menzognero e insidioso ancora della Burocrazia. E la tirannide dei buoni sentimenti non è meno asfissiante del politico (cor)rotto a tutto e incallito come Lino Banfi, autentica coscienza, ma bacata, del crociato del posto fisso che non vuole perdere un'oncia dei suoi privilegi e infine li perderà tutti per la più banale delle cause. La critica è sempre la stessa: storia senza profondità. Detto questo, si può azzardare qualche critica, che poi è la stessa dei primi tre film: la storia non ha grande profondità, il suo universale è minore, campa sulla incontenibile verve di Zalone, sulla sua inventiva spiazzante anche quando si fa scontata (e ti viene il sospetto che lui giochi al cliché del cliché), sul saper produrre gag e paradossi nell'assoluta libertà di chi, con gli incassi che fa, sa di non patire limiti di sorta. Però, è vero, gli servirebbe un cortocircuito capace di indirizzarlo, di cavarne fuori il meglio che ancora attende in lui: le possibilità le ha, invece rischia di abortire in un vortice d'incassi. Ma non potrà restare inchiavardato ancora a lungo nel ruolo del fanciullone vernacolare che, catafratto a tutto, infine se la sfanga: come i film, anche gli anni passano e non aspettano. Per il momento Luca Pasquale Medici (vero nome di Checco) resta comunque un fuoriclasse, l'unico che può dipingere a quel modo il microcosmo dei dipendenti pubblici e non rischiare non si dica il linciaggio, ma neppure una criticuzza. Nel suo castigat ridendo mores è ormai l'unica alternativa credibile a Fiorello: talentuosi entrambi, completi, Zalone più sornione, però anche meno indulgente. Più amaro. Gli italiani a frotte vanno a vederlo, ridono, chissà se intuiscono. Eppure il suo attacco agli stilemi contemporanei è frontale e definitivo, neppure l'etnocentrismo pugliese ne viene risparmiato: la scintilla di genio, inQuo Vado?, sta nella brevissima sequenza con Albano e Romina redivivi a Sanremo: qui davvero tutto precipita nell'arco di pochi secondi, e la mimica di Zalone sembra sottolinearlo in modo perfino pedagogico. Tutto è perduto, con la chirurgica glacialità di un documentario di cronaca. Tutto è perduto, salvo il posto fisso, che alla fine diventa forma mentis, alienazione incurabile: lo sfaticato Checco nelle sue disavventure global previdenziali si risolve più in Caronte che in Virgilio, ché il mondo è un inferno e l'Italia il suo girone più profondo, nel quale agitarsi, in modo spastico, celentanesco, al suono del remake dell'Albero di trenta piani, che nella irresistibile versione della “Prima Repubblica” ne esce più inesorabile, più inconfutabile. E non inganni il finale etno-buonista di stampo veltroniano che mette tutto a posto: è solo l'ultimo sberleffo di un film al fiele, un happy end incongruo e implacabile, come a dire «consolatevi un po', se vi pare». Ma la scoperta del “bene” arriva per capitolazione, per normalizzazione, per male minore, quindi, in definitiva, per eterogenesi dei fini. Lo stigma è provocatorio, la vita ti sballotta quo vado, e alla fine da posto fisso ti trasforma in posto fesso. E tutti vissero felici e contenti.
Checco Zalone più Matteo Renzi uguale "Renzalone", scrive Marco Travaglio, Direttore de Il Fatto Quotidiano e scrittore, il 5 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". No, il dibattito su Checco Zalone no! Almeno non su Quo vado?, film disimpegnatissimo e divertentissimo come gli altri tre, che va semplicemente visto e applaudito per i meccanismi comici perfetti e per la leggerezza di fondo che lo sostiene per aria. Invece, per favore, sì il dibattito sì su quelli che vanno a vederlo e, appena usciti, sono colti da un’irrefrenabile voglia di discuterlo, sistematizzarlo, incasellarlo da qualche parte: a destra, a sinistra, al centro, pro o contro l’antipolitica, il qualunquismo, il populismo, dentro o fuori dalla satira politica o sociale o di costume, alla scuola di Sordi, di Totò, di Tati, di Keaton, di Bombolo. Gente che non solo non capisce il film, ma manco il titolo: ma dove credete di andare? Ma è così difficile rassegnarsi all’idea che Zalone voleva solo farvi ridere? Poi, certo, per far ridere ci vogliono intelligenza e cultura, ma vanno nascoste bene. Ed è naturale ispirarsi alla vita, alla realtà che conosciamo meglio: i nostri tic, vizi, vezzi, manie, ossessioni e quelli di chi ci sta vicino o lontano, e anche sopra, al potere: il posto fisso, le auto in doppia fila, l’assenteismo e il fancazzismo negli uffici pubblici, la finta malattia professionale, la falsa invalidità, le riforme che non cambiano nulla se non il nome degli enti inutili, la raccomandazione del politico, la mancia che diventa subito corruzione, la fila saltata al discount, le battute da bar maschiliste, sessiste e xenofobe e gli altrettanto insopportabili birignao del politicamente corretto, i ricercatori costretti a emigrare al Polo Nord, la mammoneria del bamboccione che all’estero crede di diventare civile ed evoluto almeno finché non scopre che Romina e Al Bano si son rimessi insieme e che parcheggiare in doppia fila è tanto liberatorio. Così chi va al cinema ci vede subito se stesso o qualcuno che conosce. Ma senza, per questo, introiettare “messaggi” né “istanze” particolari, tantopiù che il lieto fine lava tutto con una redenzione tutta privata e individuale. All’italiana. Non c’è niente da fare: anche stavolta, come per tutti i fenomeni nazionalpopolari, il dibbbattito politologico, filosofico, culturale e sociale incombe, urge e prorompe puntuale, ineluttabile, inarrestabile e surreale come solo noi italiani sappiamo farlo. Comico almeno quanto il film, forse anche di più. Gasparri, che quando può dire una pirlata non si tira mai indietro, twitta che Zalone ce l’ha con Renzi, “bugiardo imbroglione” per via delle Province abolite per finta. Il Giornale pensa a una satira contro la “riforma della PA”, cioè “ai provvedimenti del governo Renzi”, anche se – scandalo! complotto! – “sparisce la battuta antirenziana” contenuta nella canzone-trailer. Libero, pure, ci vede “un film anti-riforme” che “coglie un’esigenza della gente, arcistufa dei nuovi politici”, “l’idea che gli anni del rigore, della rottamazione e del grillismo, delle loro retoriche puritane abbiano stancato”, insomma “l’inno dell’Anti-antipolitica”, perchè Checco è “l’unico che capisce gli italiani”. Dall’altra parte, a sinistra, lo scrittore Lagioia lo definisce su Repubblica un “qualunquista buono” e paventa il “rischio” forse “pericoloso” di un “qualunquismo dei buoni di cuore risolutivo a fin di bene” (boh). Per Riccardo Barenghi, la Jena de La Stampa, se “milioni di italiani corrono a vedere Checco Zalone”, siamo “ingenui noi che ci meravigliamo che al governo ci sia Renzi”. Quindi Checco, a Renzi, gli tira la volata, o forse viceversa. Era già accaduto, il dibbbattito, dopo il penultimo film Sole a catinelle. Michele Serra vi notò tracce evidenti di berlusconismo. E, paradossalmente, pure Brunetta, che vide in Checco, a occhio nudo, “la filosofia positiva, generosa, anticomunista, moderna, serena di Berlusconi”, perché “il colore azzurro della sua risata è il nostro e la sinistra non può farci nulla”. Poi Zalone lo sfanculò alla sua maniera: “La sua interpretazione è un po’ troppo alta, anche se per Brunetta è un ossimoro”. E allora Renatino svoltò: “Il suo banale razzismo non fa ridere, Zalone ha superato l’esame: non è un berlusconiano, è un comico di sinistra”. Cosa che peraltro sosteneva pure Marco Giusti, nel suo decalogo semiserio “Perché Zalone è quasi comunista”. A metà strada si collocò il cosiddetto ministro Franceschini, che spiegò al Foglio l’ultima storica anzi epica mutazione genetica della sinistra che “oggi non ha più paura di Checco Zalone”. E furono soddisfazioni. Par di vederlo, oggi, Checco riunito in un baretto di Bari col suo gruppo di complici che il regista Gennaro Nunziante definisce “un branco di deficienti”, mentre mette giù il soggetto del prossimo film. Protagonisti: i meglio politici, commentatori e intellettuali del bigoncio che si interrogano pensosi sul successo di un film comico e non si capacitano della voglia degli italiani di farsi qualche sana risata senza l’aiuto della triade da cinepanettone culi-tette-scoregge, in un Paese dove c’è poco da ridere. E il presidente del Consiglio Renzi, noto imbucato, che non resiste alla tentazione di saltare sul carro del vincitore facendo notare che lui non l’ha mai “ignorato” o “snobbato” o detestato”, anzi è sempre stato dalla sua parte: mica come quei gufi dei “professionisti del radical chic” (espressione che lui pronuncia senza conoscerne il significato e apparirebbe un po’ vecchiotta in bocca a un colonnello in pensione in marcia con la maggioranza silenziosa nei primi anni 70, figurarsi in un politico quarantenne). Poi corre a leccare la marmitta a Marchionne. Ma forse quest’ultima scena è troppo volgare per entrare nel prossimo film di Checco.
«Quo Vado?» Un manifesto renziano. La trama del film di Checco Zalone record i incassi al botteghino figlio delle Leopolde e pure un po’ della voglia di «lieto fine», scrive Massimiliano Lenzi il 6 gennaio 2016 su “Il Tempo”. C’è poco da fare, «Quo Vado?», il film di Checco Zalone, che sta facendo impazzire i botteghini e gli italiani, è un manifesto renziano. Non nel senso politico, badate bene, ma culturale. È figlio del renzismo di questi anni, delle Leopolde e pure un po' della voglia di «lieto fine» che ognuno di noi, dal più ricco al più disperato, si porta addosso perché la vita è sempre troppo breve, anche quando dura tanto. Marco Travaglio, che ieri ironizzava su «Il Fatto» proprio sulla corsa di Renzi a mettere la bandierina su Zalone non si è accorto che i due sono intercambiabili, narrativamente, Checco Renzi e Matteo Zalone. Dire manifesto renziano non vuol dire certo che Zalone l’abbia pensato renziano, ci mancherebbe, è che così gli è venuto, per sua fortuna visti gli incassi. Premessa è plot della storia è la vita di un impiegato pubblico, della provincia, che si ritrova di colpo a dover mutare abitudini, per via della riforma che abolisce le province, una riforma che lo spinge a lottare per non mollare il posto fisso. Non solo, a metterlo lì, al sicuro nel posto di lavoro, era stato un politico della Prima Repubblica che è stato poi rottamato dal nuovo corso. Quanto al posto fisso, mito da far cadere, lo stesso Zalone giorni fa ha detto che questo film è anche figlio del Jobs Act, la riforma del lavoro di Renzi che ha tolto l'articolo 18 cambiando le modalità di licenziamento. Una narrazione che messa in fila -abolizione delle province, riforma sbandierata da Renzi, rottamazione dei vecchi politici, termine coniato da Renzi, Jobs Act e posto fisso abbiamo già detto - più 'renziana' di così si muore. Che poi, diciamola tutta, la parte più 'renziana' deve ancora venire e sta tutta nel lieto fine, inno all'ottimismo della vita, quello che ad ogni piè sospinto sottolinea, invoca, chiede Renzi alle opposizioni contro quelli che lui chiama i gufi. Ora la forza di seduzione di questo film Renzi l'ha capita al volo, andandolo a vedere con famiglia e elogiando come geniale Zalone in una intervista. L'ha capita perché è come se si fosse visto allo specchio, le sue campagne diventate soggetto cinematografico. Chi ne fa una questione politica, badate bene, sbaglia. Si tratta di un fatto culturale, di linguaggio, di uno spirito dei tempi, di un fenomeno di massa come nessun altro film è stato in questi anni, tantomeno se impegnato e di parte come lo fu «Il Caimano» di Nanni Moretti su Silvio Berlusconi. Zalone è contemporaneo. Ogni stagione ha il suo cinema, l'Italia della Dc e del Pci ebbe Totò ed il neorealismo, l'Italia di Renzi ha Checco Zalone. In questo, la riflessione sul successo di massa del film, andrebbe allargata al cambio di frontiera della percezione del pubblico. Ai tempi di Berlusconi la trincea vera dello scontro politico era sulla televisione, tutta lì, tra talk show anti Cavaliere, battaglie sul conflitto di interessi e girotondi ad ogni angolo. Una stagione di lotta politica, a suo modo, senza esclusioni di colpi che oggi si è attenuata di parecchio, e con lei il livello di scontro reale nei talk. Ecco che allora il cinema di un quasi coetaneo del Premier Renzi (Zalone ha solo due anni meno di Matteo Renzi), diviene la spia più chiara dello spirito dei tempi. Il cattivo, che per la sinistra per venti e passa anni, è stato Silvio Berlusconi oggi non c'è quasi più. Largo all'ottimismo allora. In questo senso «Quo vado», è un manifesto renziano, se ne esce rinfrancati, dopo aver fatto parecchie risate, anche su quel che sarà di noi, con o senza posto fisso. C'è un dettaglio, curioso, di poco più di due anni fa. Era il novembre del 2013 - in piena campagna per le Primarie del segretario Pd vinte poi da Renzi, vittoria che l'avrebbe da lì proiettato in breve a Palazzo Chigi - e nelle sale cinematografiche era uscito con grandi incassi «Sole a Catinelle», film di Checco Zalone prima di «Quo Vado», quando a Gianni Cuperlo, candidato contro Renzi alle primarie Pd chiesero proprio del successo di Zalone e se sarebbe servito un Checco Zalone per battere Renzi. Lui, Cuperlo, rispose che "Checco Zalone è un artista abbastanza geniale e divertente anche in questa sua ironia brutale" e il fatto che il suo film abbia fatto incassi record in pochissimi giorni è «una buonissima notizia per il cinema italiano». Un contrappasso straordinario riletto oggi, nel 2016, con Zalone fenomeno di massa e con Renzi che ci gode sopra: "Io ho riso dall'inizio alla fine. I professionisti del radical-chic, che ora lo osannano dopo averlo ignorato o detestato, mi fanno soltanto sorridere". In fondo l'ha scritto pure Adriano Celentano: Zalone è meglio del Lexotan.
«Checco Zalone è di destra». Parola della rossa Sabina Guzzanti, scrive Antonio Marras martedì 5 gennaio 2016 su “Il Secolo D’Italia”. Su Facebook s’è spogliata della sua solita puzza sotto al naso che in genere orienta le scelte della sinistra pseuso-intellettuale e ha elogiato il collega comico Checco Zalone, quasi con imbarazzo, visto che lei si considera diversa, meno nazional popolare, più da salotto di denuncia politica che cinepanettone post-natalizio. Ma Sabina Guzzanti, a suo modo, è stata sincera e nel messaggio di complimenti al comico pugliese per il successo di “Quo vado?” lo ha anche etichettato politicamente: «Quello che siamo all’oggi, arretrati, pigri, ladri, lo ha descritto meglio Zalone di tanti altri e lo ha fatto con una freschezza e una vitalità che fa ben sperare. Mi era piaciuto anche Sole a Catinelle. Indubbiamente destrorso nei contenuti, ma pieno di ottime gag, ben costruito, mi ha fatto ridere e mi ha suscitato il rispetto che un lavoro bene fatto merita». Destrorso, dunque: chissà se lo considera tale perché interpreta un personaggio identificato dalla sinistra come rozzo o demagogico o perché, in fin dei conti, sa leggere la realtà, da destra, molto meglio dei suoi amici intellettuali, da Nanni Moretti a Benigni e Paolo Rossi, che pontificano, strapagati, dal piccolo schermo della Rai nazionale, ma che forse non hanno mai messo piede in un ufficio della Provincia.
Il successo di Zalone è di destra o di sinistra? Record d’incassi. Così la politica cerca di arruolare i personaggi più amati, scrive Mattia Feltri il 3 gennaio 2016 su “La Stampa”. Stavolta non è colpa di Matteo Renzi: il premier è andato a vedere il film di Checco Zalone ed è finita lì, non ha detto nulla, non ha detto nemmeno mi piace o non mi piace, tantomeno ha detto che il successo di Quo Vado? è il successo dell’Italia che riparte, o qualcosa del genere. Magari non è nemmeno colpa di Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, uno dei più incontrollati produttori di tweet del mondo occidentale; in uno di essi ieri ha scritto proprio a Renzi: «Anche Zalone ti considera un bugiardo imbroglione» per via delle Province forse abolite e forse no. Speriamo non sia colpa di nessuno, che il tweet di Gasparri evapori nella bolgia online, che il milionario Zalone non torni a essere unità di misura politica, sacerdote del terzo millennio col potere di separare il bene dal male, il supercampione da ingaggiare nel morente campionato delbipolarismo. Due anni fa era andata a schifìo la dichiarazione d’amore e d’arruolamento di Renato Brunetta: «Zalone esprime in pieno la filosofia positiva, generosa, anticomunista, moderna, serena di Silvio Berlusconi». Il produttore Pietro Valsecchi, geloso del mistero vano (è di destra o di sinistra?), aveva scelto la sfrontatezza: «Tutti salgono sul cavallo del vincitore». Però, siccome Brunetta insisteva sul berlusconismo azzurrino di Zalone («il colore della sua risata è il nostro, e la sinistra non può farci niente»), Zalone medesimo decise di imbracciare le armi del suo arsenale: «Mi pare un’interpretazione un po’ troppo alta, anche se per Brunetta è un ossimoro». Funzionò, Brunetta si persuase: «Non fa ridere, è banale razzismo, e con ciò Zalone ha superato l’esame: non è un berlusconiano, è un comico di sinistra». Ieri abbiamo letto, sempre su twitter, anche un’«ode liberista» e tempo fa, in campagna elettorale, quelli di Scelta civica avevano detto che Zalone è molto meglio di Beppe Grillo; ancora prima Gennaro Malgieri, ex missino, lo aveva definito «luogocomunista» mentre per Michele Serra erano evidenti le tracce di berlusconismo, per cui gli rispose Marco Giusti con un decalogo surreale sul comunismo di Zalone. E avanti così, fino a una grande intervista del ministro della Cultura, Dario Franceschini, che a Claudio Cerasa (ora direttore del Foglio) confidò la liberazione: «Oggi la sinistra non ha più paura di Checco Zalone». Voleva essere il definitivo tuffo nel postmoderno non ideologico.
Salvini fan di Zalone: «Lo voglio fare ministro». «Non è uno che si mette a fare pipponi, appelli alla Nanni Moretti o alla Gad Lerner», scrive “Il Tempo” il 6 gennaio 2016. «Non è uno che si mette a fare pipponi, appelli alla Nanni Moretti o alla Gad Lerner»: così anche Matteo Salvini si aggiunge alla lista, bipartisan, di estimatori del comico Checco Zalone. «È un grande. Non ho ancora visto il film per mancanza di tempo, ci andrò presto. Però mi piace perché è l'esempio che si può avere successo nel mondo del cinema e dell’arte, della cosiddetta cultura, senza essere schierato a sinistra», ha spiegato il segretario della Lega Nord a La Zanzara su Radio 24. «Almeno Zalone non è uno di quei fenomeni che fanno i girotondi, il popolo viola, il popolo lilla, quelle menate lì. Il suo mestiere lo fa bene», ha voluto aggiungere. «In Italia è già tanto: in certi ambienti pseudoculturali, se non sei di sinistra non entri. Mi piace - afferma ancora - che non faccia il leccapiedi della sinistra, questo gli rende merito». Però è anche vero che nei film di Zalone la Lega viene sonoramente presa in giro. Qualcosina c’è anche in «Quo vado», l’ultimo film del comico pugliese che, dopo sole 48 ore in sala, sembra già destinato a stracciare tutti i record di incassi in Italia. «Mi dicono - risponde ai conduttori il leader della Lega - ci sia un bambino che si chiama "Salvino". Allora riderò il doppio quando vedrò il "Salvino". Mi piace ridere di me stesso, anche quando mi imita Crozza. Se uno è bravo è bravo. Punto». E ancora: «Checco Zalone ministro della cultura al posto di Franceschini che è la tristezza fatta persona. Poi lo scrittore Mauro Corona con la delega alla Montagna Caccia e Agricoltura. Devo scegliere tra Claudio Borghi e Alberto Bagnai come ministro all’Economia. Farebbero sicuramente sicuramente meglio di Padoan». E agli Esteri? «Berlusconi. Rispetto a Renzi sulla Libia, sulla Russia, sui rapporti con il Medio Oriente è avanti anni luce. Mentre gli Interni me li tengo io per sei mesi, per recuperare al dramma di Alfano. Un po' di ordine in giro lo porto». Sempre volando sulle ali della Zanzara, su Radio 24, Salvini ha anche svelato quale potrebbe essere un governo a guida leghista, con presidente del Consiglio lui stesso. Tra gli uomini di punta Checco Zalone, che non si lascia impressionare dalle lodi e nemmeno dalle critiche. «Voglio ringraziare quelli che mi dicono "grazie" ma anche gli indignati - ha detto il comico ai microfoni di RTL 102.5 durante "Non Stop News" - perché siamo un popolo di indignati, anzi, soprattutto loro, perché fanno scaturire curiosità e quindi la gente va al cinema. Grazie indignati. Non puoi essere simpatico a tutti, anzi quando c'è questo consenso quasi plebiscitario, paradossalmente, senti l'esigenza di ritornare a terra e di trovare qualcuno a cui stai sulle balle, altrimenti potrei avere manie di onnipotenza. Continuate ad indignarvi che io sono contento».
La riabilitazione del politicamente scorretto, scrive Paolo Pillitteri su “L’Opinione del 5 gennaio 2016. Più che di riabilitazione sarebbe il caso di parlare di scuse (tardive) ad un autore la cui riscoperta serve, tuttavia, a spiegare l’impressionante galleria di facce di bronzo della nostra cultura-informazione. È chiaro che stiamo parlando di Checco Zalone, anzi riparlando giacché su questo giornale nel dicembre del 2013 gli dedicammo una sorta di ritratto insistendo (già allora non è incredibile?) proprio sulle tantissime “facce di bronzo” del politically correct ferocemente astiose nei confronti di quello stesso regista che oggi osannano. “Ha ragione Checco Zalone, eccome!” era il titolo di allora, concludendo che avrebbero fatto bene, sia Matteo Renzi che Angelino Alfano, ad andare a vedere il film di Zalone “Cado dalle nubi” non solo per rilassarsi un po’ ma per curarsi intellettualmente, confrontandosi col vero interprete- protagonista del nostro Paese sempre sull’orlo di una crisi di nervi; un autore la cui rappresentazione dall’interno della pancia del Paese “costituisce la più vera narrazione storica, politica e sociologica dell’Italia della quale il cinema di Zalone è specchio, immagine e, al tempo stesso, reazione irridente, anarchica, ingenua, anticonformista, irriverente contro tutti, cioè politicamente scorretta”: perché dice la verità. L’invito al cinema zaloniano a Renzi (e Alfano) è stato accolto con più di due anni di ritardo, almeno dal Premier, che ha dichiarato di essersi divertito molto, di disprezzare i critici d’antan contro l’autore oggi alla moda, del quale riconosce, comunque, la grande abilità nel marketing del suo ultimo film. Meglio tardi che mai, beninteso. Il punto più vero del successo di Zalone sta nell’ingenuità, costruita con enorme cura anche nei dettagli, con la quale si pone nei confronti della materia narrativa senza sposare alcuna idea politica ma, al contrario, smontando tutti i luoghi comuni edificati in nome del politicamente corretto, che è la vera peste intellettuale dei nostri tempi e che costituisce il mostro del pensiero unico al quale sacrificare libertà di scelte, fantasia, poesia, e la politica stessa. Il successo di “Quo vado?”, pur non essendo cattivo come l’ormai cult “Cado dalle nubi”, sta dunque nella revisione integrale dei canoni cinematografici, superando di slancio sia i cinepanettoni eredi della commedia all’italiana, ormai logorati da oltre un ventennio di successi, che, soprattutto, il cinema e gran parte della televisione di satira di un periodo storico dopo il 1994, con l’avvento cioè di Berlusconi. Fu il tempo del “Caimano”, tanto per semplificare, per intenderci del nannimorettismo di lotta, di governo, e infine di delusione, in cui la deriva anti-Cav. si impancò a inattaccabile sedia gestatoria, una sorta di luogo irraggiungibile, immacolato e dispensatore di licenze morali i cui detentori sembravano essere soltanto coloro che pretendevano dalle vestali che recassero doni al mostro sacro, occultando così la verità ovverosia di portare il proprio cervello all’ammasso. Scrivendo tanti anni fa di Totò, il grande Aldo Palazzeschi ebbe a dire: “È apparso all’orizzonte del cinema italiano come un arcobaleno dopo il temporale”, allo stesso modo oggi si può affermare che il trionfale successo di Zalone sopraggiunge come un soffio di liberazione, una ventata rigeneratrice che farà bene non tanto o non soltanto ad un nostrano cinema sempre più asfittico e ripetitivo, ma soprattutto ai tantissimi cervelli portati all’ammasso, liberandoli da una cappa che sembrava inscalfibile tanti ne erano i sacerdoti. Libertà della fantasia significa innanzitutto liberazione dal luogocomunismo. Ed è questa la lezione più vera che ci proviene da “Quo vado?”, alla faccia delle facce di bronzo. Ancorché pentite.
Checco Zalone e le adozioni gay: Su Twitter infuria la polemica, scrive "Meltybuzz.it" il 06/gen/2016. Checco Zalone ha portato un matrimonio gay sullo schermo, ma nel 2011 si schierò contro le adozioni. Su Twitter la vicenda è molto discussa. Checco Zalone, nel suo nuovo film Quo Vado, ha portato sugli schermi un matrimonio gay (non è uno spoiler, non aggiungeremo altro se non l'avete ancora visto). Questo articolo de “Il Giornale”, però, ha riportato alla ribalta un'intervista rilasciata da Zalone a Vanity Fair nel 2011 in cui il comico si schierava a favore delle unioni civili ma assolutamente contro il fatto che coppie omosessuali potessero adottare dei bambini. Questa frase, che non necessariamente contraddice il film (visto che nella pellicola si vede un matrimonio, cosa nei confronti della quale non si era espresso negativamente), sta creando un polverone su Twitter con accuse di omofobia nei confronti di Zalone, come possiamo notare dai commenti di @alexyahoo “Boicotterò Checco Zalone, non andrò a vedere il suo film” e di @IlMici8 “Parliamoci chiaro! Checco Zalone può pensare e dire quello che vuole sui gay! Ma essendo personaggio pubblico non si stupisca delle reazioni”.
Unioni civili, quando Zalone diceva no alle adozioni gay. Nei suoi film le nozze gay sono già realtà. Ma nel 2011 l'attore disse: "Sì alle unioni, ma non ammetto l'adozione", scrive Giovanni Corato Martedì 5/01/2016 su "Il Giornale". È stato da più parti definito "l'italiano medio". Una caratteristica che sarebbe alla base del suo successo. Stiamo parlando di Checco Zalone, che sta spopolando con il suo "Quo Vado?". Nell'ultimo film - così come già in "Cado dalle nubi" - l'attore ha rappresentato uno dei temi di maggior discussione in parlamento: le unioni civili. Ma cosa ne pensa "l'italiano medio Zalone" della questione? Sul tema era già stato interrogato nel 2011, in un'intervista aVanity Fair. Allora la sua posizione era chiara: "È giusto che ci siano le unioni civili mentre non ammetto l’idea che una coppia omosessuale possa adottare un bambino".
Benedetto sia Zalone che illumina la fede del popolo. Fu la versione "rustica" del Guercino. Le sue opere sono trepidanti testimonianze di umile devozione, scrive Vittorio Sgarbi Domenica 3/01/2016 su "Il Giornale". Avevo coltivato in gran segreto il culto di un pittore a tutti sconosciuto, e pieno di una poesia semplice, rurale, contadina. Aveva il nome più insolito e raro rispetto ai maestri vicini, noti e meno noti, dello stesso tempo, il Guercino, Guido Reni, Matteo Loves: emiliano come loro, e con un vivo istinto della vita e della natura. Zalone si chiama. Benedetto Zalone. E oggi il suo nome è il più popolare tra quelli che corrono sulle bocche dei giovani, dopo tanti precedenti profanati. Si inizia con Carpaccio, tramutato in carne cruda sottile (così che il piatto si è mangiato il pittore), e si prosegue con scultori oscurati da politici: Andreotti (da Libero a Giulio), Gelli (da Lelio a Licio); altri pittori umiliati da cantanti, Morandi (Giorgio da Gianni), Rossi (Gino da Vasco), Ligabue (Antonio da Luciano), Tiziano (chi? Tiziano Ferro?). E ancora, travolti, Baudo (Luca da Pippo) e Sacchi (Andrea da Arrigo). Per arrivare, oggi, a Zalone. Checco, non Benedetto; la cui fama supera di secoli il silenzio, e minaccia di essere durevole nella satira nichilista del nostro tempo, come toccò piu di mezzo secolo fa ad Alberto Sordi, e un secolo fa a Chaplin (da Elisabeth a Charlie). Dunque sarà sempre più difficile far intendere che Zalone da Cento (non da Bari) è stato un pittore originale e autentico; un alter ego rustico del Guercino, che non si mosse dalla sua patria, dalla sua città, a cavallo fra due capitali estensi, Ferrara e Modena, l'una arrivata alla fine, l'altra capace di attrarre i più grandi artisti moderni, Bernini e Velázquez. Così, (Benedetto) Zalone nasce nel 1595 a Pieve di Cento e a casa lascia la Madonna con i santi Francesco e Orsola, la Madonna di San Luca con quattro Santi, per la chiesa di San Pietro, la Madonna di Loreto, la Madonna con i santi Bonaventura e Francesco (nella Pinacoteca civica), trepidanti testimonianze di una devozione popolare, profondamente partecipata da un'umanità commossa, e colma di speranza in quella che non è una liturgia o una celebrazione di riti, ma una fede nella certezza di Dio e nella misericordiosa intercessione della Vergine. La Controriforma e le indicazioni ancora recenti sulle immagini sacre del cardinale Paleotti sono lontane; il popolo dei credenti «vede» e sente la divinità vicina, il suo calore, la sua presenza. Sarà così anche nel più impegnativo capolavoro dello Zalone, dopo la tela umanissima per la chiesa di San Pietro a Cento: la potente, maestosa, e insieme vera, pala con il San Matteo e l'angelo sotto la protezione della Madonna in cielo adorata da san Nicola da Tolentino e santa Francesca Romana, per la chiesa di Sant'Agostino (ora in Pinacoteca). Qui Zalone mostra compostezza e un intuitivo, spontaneo classicismo che nulla deve a Guido Reni, ma ha tutta la forza di una rinnovata e umanissima visione del sacro, reverente e accostante, solenne e protettiva. Zalone non conosce Caravaggio, ma, in questo vigoroso ed esitante San Matteo come in quello ostinato, senza la protezione del cielo, per la Chiesa del Voto di Modena, ha la stessa immediatezza e brutale umanità che troviamo nella prima versione del San Matteo e l'angelo in San Luigi dei Francesi, e persegue il vero non della natura, ma del pensiero e della volontà. A Modena un vecchio determinato e riflessivo è accompagnato da un angelo giovane e discreto, mite badante di un uomo incolto e cocciuto nella sua risoluzione di scrivere. Analfabeta, Matteo non si preoccupa di tenere i libri mai letti sotto i piedi, nella posizione più compatibile con la sua ignoranza, mentre l'angelo lo compatisce con rassegnato e immutato affetto, e vigila con benevolenza sul testo che viene scrivendo l'improvvisato evangelista, molto concentrato, sotto un cielo padano annuvolato. Da questo, intuitivamente caravaggesco, avvicinamento, Zalone approda al suo capolavoro, in due versioni, l'una a Digione, l'altra presso di me: il Riposo nella fuga in Egitto, un'invenzione commovente nella quiete di un bosco sul fiume. La Madonna non riposa dalla stanchezza ma dalla funzione di madre, e contempla innamorata il bambino fra la braccia di Giuseppe, come mai prima era stato, in tutte le innumerevoli rappresentazioni della Sacra famiglia. Sempre ad assistere era il san Giuseppe, e il gruppo sacro era la Madonna con il bambino. Ora la Madonna, dolcissima e serena, guarda il figlio dormire sotto la paterna protezione, sottolineata dalla mano sotto la testa del bambino, in un quieto pomeriggio di primavera, al tramonto. Siamo verso il 1640, e Guercino è lontano, si sta avvicinando al forzato idealismo di Guido Reni, ma Zalone ne ricorda la poesia degli anni giovanili, fresca, rugiadosa, nei paesaggi bagnati da piogge recenti. C'è una magia, un incanto, in questi riposi, che va oltre ogni letteratura e ogni compiacimento. Chi scoprì il primo, il piccolo rame del Museo Magnin di Digione, fu Carlo Volpe, valoroso studioso bolognese, che lo interpretò «come un ritratto domestico ambientato sul ciglio dell'aia, alla fine della giornata». Zalone si è difeso, restando per tanto tempo riparato. Non poteva immaginare che il suo nome, per un comico equivoco, sarebbe diventato tanto popolare. Benedetto Zalone.
PORNO E LIBERTA’.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
"Porn to be free (porno e libertà)" è un viaggio con una banda di rivoltosi ironici e dissacranti che sognava un mondo più libero e più felice e che ha aperto la strada a movimenti successivi, dal neo-femminismo alla lotta per i diritti LGBT...
PORNO & LIBERTÀ, UN FILM SUGLI ANNI DELLA LIBERAZIONE SESSUALE IN ITALIA. Scrive Alessandra Magliaro per l'ANSA il 15 giugno 2016. Ironici, allegri, folli, sognatori, a loro volta rivoluzionari. Accanto a chi negli stessi anni combatteva battaglie politiche un gruppo eterogeneo e curiosamente assortito faceva nel nostro paese un'altra rivoluzione per la quale veniva perseguitato e arrestato: erano i protagonisti della liberazione sessuale in Italia. Nomi arcinoti come Riccardo Schicchi e Cicciolina, nomi da adepti come il regista Lasse Braun inventore del cinema a luci rosse, considerato un maestro anche in America, per citarne alcuni. S'intitola Porno & Libertà il documentario di Carmine Amoroso che ricostruisce con filmati d'epoca che oggi sembrano davvero di un'altra epoca e interviste attuali, quegli anni tra pornografia, utopia e battaglie contro la censura. Il film è stasera in anteprima italiana a Biografilm Festival a Bologna nella sezione Contemporary Lives e poi in sala (vietato ai 14 anni) con I Wonder Pictures dal 24 giugno. ''Stiamo vivendo in un'epoca di neo puritanesimo - dice il regista Carmine Amoroso - ed è per questo che mi premeva raccontare la storia incredibile e poco conosciuta di un gruppo di provocatori che negli anni Settanta hanno condiviso, con coraggio, una visione della pornografia come espressione politica. Che per primi hanno capito il senso liberatorio della pornografia e la sua potenzialità come elemento di rottura delle convenzioni. Che attraverso la pornografia hanno lottato per la nostra libertà sessuale e contro la censura. Persone che credevano negli eccessi come mezzo per raggiungere una dimensione più profonda. Come afferma lo scrittore Salman Rushdie "un paese libero e civilizzato dovrebbe essere giudicato dalla disponibilità ad accettare il porno". C'è la storia di Ilona Staller, una persona ''diversa, spontanea, selvaggia, irragionevole'' come la racconta Schicchi (scomparso nel 2012) evocando episodi storici come quando a Radio Luna sussurrava con quella sua voce sexy il sesso agli ascoltatori o con memorabili show girava l'Italia in tour (prodotto nientemeno che da Bibi Ballandi) tra serpenti e bolle di vetro dentro le quali si agitava nuda. Quella dell'editore Francesco Coniglio che nei primi anni Settanta cominciò a pubblicare editoria vietata ai minori (la svolta di Playmen, i sequestri, Le Ore), roba da centinaia di migliaia di copie. ''L'altro sguardo su quel mondo'', che era quello di Lidia Ravera e di Porci con le ali degli adolescenti Rocco e Antonia e Bernardo Bertolucci che in un filmato d'epoca dice ''la libertà di pornografia come unico mezzo per vincere la pornografia'' appellandosi al suo partito (il Pci) nei giorni terribili di Ultimo Tango a Parigi messo al rogo. Un'epoca di tabù da infrangere in un paese prigioniero dell'ipocrisia sul sesso e del perbenismo borghese come si diceva con i termini di allora e in cui la scoperta del corpo diventa qualcosa di eversivo come il raduno al Parco Lambro di Milano nel 1976 dove giovani si spogliarono 'nudi verso la follia' inseguendo sogno e utopia (''nudi sì ma contro la Dc'', un classico slogan). Fine anni '70 con le sale cinematografiche che cominciano a chiudere lasciando il posto ai cinema porno grazie ad una produzione che in quell'epoca arrivò a circa 200 film in un solo anno. E poi i fumetti, Frigidaire e Vincenzo Sparagna, i disegni di Andrea Pazienza, i cartoni animati di Siné di Charlie Hebdo e ancora Giuliana Gamba, Helena Velena, Mario Mieli, Marco Pannella, un filo che univa letterati, intellettuali, pornografi, pornostar, filosofi e femministe nella vocazione comune libertaria. Porno & Libertà è un'immersione davvero in un'altra epoca oggi che il sesso è a disposizione su internet e quella carica rivoluzionaria certo non ha più ma le immagini di quegli anni non sono poi, a riverderle ora, così felici, semplicemente appartengono al passato.
SU INDIEGOGO IL DOCUMENTARIO "PORN TO BE FREE (PORNO E LIBERTÀ)" DI CARMINE AMOROSO. Scrive Pierre Hombrebueno per "Farefilm.it" il 15 giugno 2015. Complice la nostra ignoranza in materia (ma forse qualche nocturniano potrà illuminarci in proposito), non ricordiamo un documentario che abbia mai raccontato la rivoluzione sessuale e la liberazione del porno avvenuta in Italia tra gli anni '60 e '80. Un argomento decisamente interessante, e che ora potremmo finalmente vedere sul grande schermo in Porn to be Free (Porno e libertà), documentario firmato da Carmine Amoroso. Creata in totale indipendenza, l'opera racconterà di come la pornografia abbia contribuito a cambiare la faccia dell'Italia, diventando dunque un vero strumento di lotta sociale e politica durante quei decenni turbolenti. Al centro delle vicende, una serie di noti esponenti del genere come Lasse Braun, Riccardo Schicchi e Cicciolina, a cui si uniscono poi artisti provenienti da altri campi come Andrea Pazienza o Judith Malina. Di loro si racconteranno le battaglie contro la censura, i sequestri e le ripercussioni politiche. Una problematica, questa, che ha dovuto affrontare anche il regista: "Non pensavo mai che avrei incontrato così grandi resistenze e censure nel fare questo film - spiega Amoroso -, mi rendo conto che ancora oggi la parola porno spaventa. Per questa ragione, mi sembra ancora più necessario fare questo documentario e dare una voce a quelli che hanno lottato per la libertà di espressione e per la libertà in generale”. Porn to be Free sta attualmente raccogliendo fondi sulla piattaforma di crowdfonding Indiegogo. 15.000 euro la cifra a cui si sta puntando, il quale permetterebbe alla pellicola di terminare la sua post-produzione, tra montaggio sonoro, missaggio audio e color correction. Sottolinea la pagina che “questi step tecnici sono assolutamente necessari per far sì che l'opera sia pronta sia per i festival di cinema che per la distribuzione nelle sale". Diversi i riconoscimenti per chiunque deciderà di aiutare la causa. Con 20 euro di donazione, ad esempio, riceverete un link per visionare, a scelta, un film di Lasse Braun, Giuliana Gamba, Riccardo Schicchi o Carmine Amoroso. Per i più generosi che vorranno invece contribuire con 500 euro, oltre a dei dvd omaggio, spetteranno 2 inviti per l'anteprima della pellicola, così come un giro con il regista nel suo locale preferito, il Gender di Roma.
PORN TO BE FREE. Scrive "Porntobefree.net" il 15 giugno 2015. PORN TO BE FREE (PORNO E LIBERTA') è un documentario di Carmine Amoroso sulla lotta di una generazione che ha combattuto il puritanesimo e la censura per la libertà d'espressione e la libertà sessuale. Nell'Italia degli anni '70, in un paese ancora prigioniero dell'ipocrisia cattolica sul sesso, un gruppo di ribelli inizia una battaglia contro la censura e il comune senso del pudore attraverso l’arma della pornografia. Insieme fanno tremare la chiesa, la politica e le istituzioni. Con immagini libere ed inedite, il film ripercorre la storia e le battaglie di un gruppo di guerrieri: dall’italiano Lasse Braun che inventa e sdogana la cultura del porno nel mondo a Riccardo Schicchi, maestro di provocazioni e trasgressioni come l’elezione di Cicciolina in Parlamento. Gli altri protagonisti sono Judith Malina, il Living Theatre, Vincenzo Sparagna, Il Male, Le Ore, Frigidaire, Filippo Scozzari, Suor Dentona, Andrea Pazienza, Giuliana Gamba, Helena Velena, Ifix Tchen Tchen, Siné, Il Parco Lambro, Mario Mieli… PORN TO BE FREE (PORNO E LIBERTA') è un viaggio verso l’utopia con una banda di rivoltosi ironici e dissacranti che sognava un mondo più libero e più felice e che ha aperto la strada a numerosi movimenti successivi, dal neo-femminismo alla lotta per i diritti LGBT. Questo film nasce prima di tutto da un incontro tra il regista, Carmine Amoroso, ed i protagonisti dell'epoca. Dopo due film di fiction, Come mi vuoi e Cover Boy, Carmine si è interessato al lato politico di una forma d'espressione troppo spesso considerata in maniera caricaturale o morbosa. PORN TO BE FREE (PORNO E LIBERTA') è stato realizzato in modo del tutto indipendente. Nessuna istituzione, né pubblica, né privata, ha voluto finanziarci. È bastato leggere la parola “porno” nel titolo per rifiutare ogni apporto produttivo e distributivo. Noi invece crediamo che ci siano persone libere che, come noi, vogliono che questa storia venga raccontata, contro ogni forma di censura. Per questo ci rivolgiamo alla Comunità. Non censurarlo anche tu. Diventa con noi parte di questo film e entra come protagonista nella sua realizzazione. Ogni donazione, non importa se grande o piccola per noi sarà fondamentale. Sostieni la rivoluzione sessuale raccontata da chi l’ha fatta veramente. Abbiamo di recente completato un premontaggio del film e abbiamo ora bisogno del vostro sostegno per finalizzare la post-produzione in modo che il film possa per essere visto. Abbiamo bisogno di 15.000 € per coprire le seguenti attività: Montaggio del suono; Mix audio; Correzione del colore; Conforme; Prima e seconda copia DCP. Questi passaggi, anche se tecnici, sono assolutamente essenziali perché il film possa partecipare a qualche festival e trovare una distribuzione cinematografica. Crediamo che questa sia una storia che deve essere raccontata su un grande schermo per un pubblico internazionale. Come premi per voi, abbiamo a disposizione diversi film inediti o molto rari di Riccardo Schicchi, Lasse Braun, Giuliana Gamba e Carmine Amoroso. In più, abbiamo creato una borsa di tela speciale PORN TO BE FREE e possiamo organizzare una prima romana del film, nonché un weekend di proiezione e dibattito nella Repubblica di Frigolandia in Umbria.
Film di Carmine Amoroso: COME MI VUOI (1997), COVER BOY (2006).
Film di Lasse Braun: 18 LOOPS (1966-1969), THE VIKINGS (1971), WET SEX (1972), CAKE ORGY (1972), DEPRAVED (1972), FRENCH BLUE (1974), PENETRATION (1974), SENSATION (1974), BODY LOVE (1978), TROPICAL (1969).
Film di Riccardo Schicchi: CICCIOLINA E L'ORGIA ATOMICA (1984).
Film di Giuliana Gamba: CLAUDE E CORINNE: UN RISTORANTE PARTICOLARE (1981).
Carmine Amoroso: regista, sceneggiatore ha scritto e diretto varie inchieste giornalistiche. È autore della sceneggiatura di Parenti Serpenti, regia di Mario Monicelli. Nel 1996 ha scritto e diretto Come Mi Vuoi, primo film italiano a tematica transgender, con Monica Bellucci e Vincent Cassel. Il film è stato distribuito nel mondo e divenendo negli anni uno dei film più rappresentativi del queer cinema. Nel 2007 ha realizzato il suo secondo lungometraggio Cover Boy. Il film ha rappresentato l’Italia in oltre 90 festival, vincendo 40 premi ed è entrato nella terna dei film candidati dall’Italia per il premio Oscar 2008, assieme a Gomorra e Il Divo. Nel 2008 ha scritto il soggetto del documentario Sound of Morocco per la regia di Giulia Gamba.
Riccardo Schicchi è finito in carcere per liberare tutti noi, per dimostrare che la pornografia non è un mero prodotto di consumo, ma un linguaggio di apertura. Riccardo Schicchi: fotografo, produttore, manager, è stato il protagonista assoluto della pornografia italiana degli anni settanta e ottanta. Ha sghettizzato il porno, sino a farlo diventare un prodotto di largo consumo. Decine di volte denunciato processato e condannato, è stato soprannominato il Che Guevara del porno. È stato l’inventore e lo scopritore di veri e proprie icone mediatiche, da Cicciolina a Moana Pozzi, passando per Rocco Siffredi.
Ilona Staller: in arte Cicciolina, è stata sicuramente la più famosa ma anche la più discussa pornostar di tutti i tempi. Nata in Ungheria e trasferitasi in Italia nei primi anni settanta ha contribuito in maniera decisiva a ridefinire i confini del comune senso del pudore, divenendo un’eroina della liberazione dei costumi sessuali per una generazione intera. Ilona Staller è stata la prima pornostar eletta in un parlamento nel 1987. Nel 1991 sposa uno degli artisti americani più celebri, Jeff Koons dal cui matrimonio nascerà il figlio Ludwig. Ritiratasi dal porno ma mai pentita, continua a battersi per la libertà sessuale dei carcerati, per la depenalizzazione delle droghe e contro ogni forma di censura.
Lasse Braun (Alberto Ferro): di origine italiana, è stato il re della Sex Revolution degli anni sessanta e settanta. Ha dedicato la vita alla liberalizzazione della pornografia che l’ha visto protagonista in Europa e negli Stati Uniti. Alla fine degli anni sessanta fonda a Stoccolma la AB Film producendo e dirigendo decine di film entrati nella storia del porno. Nel 1971 incontra l’americano Reuben Sturman, l’inventore dei peep show, che diventa suo socio d’affari. Nel 1974 è il primo regista a portare un film porno a Cannes. Nel 1977, dopo anni di lotte, successi e casi giudiziari, lascia l’attività militante continuando quella di regista e scrittore.
Giuliana Gamba: nei primi anni settanta, è stata la prima donna regista in Europea a realizzare film hard sotto lo pseudonimo di Therese Dunn, divenendo emblema del pornofemminismo. In seguito si orienta verso il cinema erotico per poi cambiare completamente genere, firmando documentari politici e serie per la televisione pubblica.
Porno e libertà, la censura di un film sulla censura. Dialogo col regista Carmine Amoroso, scrivono Gianni Carbotti e Camillo Maffia il 6 Luglio 2016 su "Agenzia radicale". Sarà mica che le idee di Marco Pannella sono più scomode oggi che negli anni Settanta? A giudicare da quello che sta accadendo al documentario “Porno e libertà” di Carmine Amoroso, che nel ritrarre un'epoca in cui faticosamente forze politiche come i Radicali tentavano di aprire la strada alla cosiddetta “liberazione sessuale” non manca d'inserire un contributo dello stesso Marco, che ricorda e commenta lo scandalo della elezione della pornodiva “Cicciolina” Ilona Staller, sembrerebbe proprio che il pensiero del leader radicale crei più scompensi ai benpensanti di oggi, che non a quelli di ieri. Non si spiega infatti il paradosso a cui stiamo assistendo in questi giorni: la censura di un film sulla censura, che dopo il bavaglio sui social network sta subendo anche una strana sorta di ostracismo di mercato, tanto che, a quanto racconta l'autore stesso, è sempre più difficile andarlo a vedere nei cinema. Per capire come stanno le cose, ci siamo rivolti proprio al regista di “Porno e libertà”.
Allora Amoroso, prima di entrare nella questione della censura di questi giorni, un riepilogo su come è nato il film. Quale è stato lo spunto che ha portato alla sua nascita?
«Il film nasce nel 2011, quando ho incontrato Riccardo Schicchi, che conoscevo da sempre come personaggio televisivo ma non avevo mai incontrato personalmente e, conoscendolo, mi sono reso conto che lui aveva combattuto per la libertà sessuale anche attraverso un'idea politica. Era questo che più m'interessava. Poi naturalmente Riccardo Schicchi apparteneva anche al mio immaginario adolescenziale con tutto quello che ha prodotto da Cicciolina a Moana Pozzi, ecc.»
Delle vere icone, potremmo dire...
«Sì, delle icone importanti per tanti. Diciamo che ha forgiato un po' la mia educazione, non sentimentale in questo caso ma erotica…»
Come per milioni di italiani. (Ride, n.d.r.)
«Come per milioni di italiani, certo. Insomma, mi ha fatto molto piacere incontrarlo e poi, ad un certo punto, mi sono improvvisamente reso conto che, mentre in America la cultura pornografica era stata analizzata, sono stati fatti molti film, i personaggi analizzati in maniera definitiva, ricordiamo il film di Forman (The People vs. Larry Flynt, 1996, N.d.R.), in Italia Riccardo Schicchi con tutto quello che aveva prodotto non era stato mai analizzato, non era mai stato fatto nulla, ecco».
Diciamo che qui il porno come genere è un po' relegato in una sorta di limbo da pornoshop o da edicola di periferia.
«Sì, certo, in una specie di ghetto... come tutto il resto d'altronde, nella nostra società abbiamo creato dei ghetti in cui raccogliere gli "scarti". In questo caso si tratta veramente di uno scarto culturale. Però non analizzare la pornografia - che secondo me è uno dei linguaggi principali della nostra contemporaneità - è molto grave e naturalmente tanto più impedire di farlo. Quindi tutto nasce dal mio incontro con Riccardo Schicchi. Decidiamo appunto di andare avanti, chiedo naturalmente l'aiuto finanziario da parte del Ministero che mi viene assolutamente negato nonostante io abbia presentato una sceneggiatura completa e poi abbia presentato anche dei frammenti di quello che stavo facendo. Mi hanno riso in faccia, veramente, perché per loro il termine stesso "porno" è qualche cosa di pruriginoso, relegato alla vergogna, ma non solo: è come se nell'accettare questa cosa in qualche modo s'intaccasse la reputazione delle persone, quindi non ho avuto alcun aiuto finanziario, anche da altri produttori (non parliamo della RAI). Ho dovuto praticamente farlo da solo insieme a degli amici. Abbiamo creato una società e mano a mano abbiamo tentato di realizzarlo con enormi sacrifici. Perché poi effettivamente quando si vuole fare un prodotto di qualità ci vogliono soldi. Non è che io potevo raccontare quest'avventura della pornografia, il suo rapporto con la controcultura degli anni '70 così, no? E' chiaro che ci vuole anche un impegno economico, impegno cui noi con grandi sacrifici abbiamo fatto fronte. C'è da dire che né io né i miei amici siamo stati pagati, finora ci abbiamo solo rimesso tanti soldi ma, nonostante questo, sono contento perché credo che questo film sia un documento importante. E poi da Schicchi, che nel frattempo purtroppo andava sempre più peggiorando perché, come sappiamo, lui aveva una forma di diabete molto forte ed era diventato quasi cieco, ho cercato mano a mano di allargarlo agli altri protagonisti di quegli anni come il grande Lasse Braun, questo personaggio secondo me mitico e misconosciuto, che addirittura nel '69 con il suo impegno dette un contributo notevole alla prima legge per la liberalizzazione della pornografia in Danimarca e così via, e sono arrivato anche a Marco per il suo apporto politico. Marco Pannella aveva capito molto bene la forza anche popolare della pornografia legata alla liberazione sessuale. Diciamo che è stato quasi preveggente in questo. E poi, con la sua intelligenza, assieme a Schicchi hanno realizzato questo capolavoro assoluto politico/mediatico che è stata secondo me l'elezione di Cicciolina-Ilona Staller. Penso che tutto ciò debba essere rivalutato in un'altra ottica, non quella spacciata sempre come becera, vergognosa, ma al contrario come elemento culturale di grande portata».
Giudicando dagli eventi, anche da quello che sta succedendo ultimamente intorno al tuo lavoro, ritieni che ci sia un'involuzione delle libertà rispetto all'epoca raccontata dal documentario?
«Certamente, c'è una sorta di nemesi storica. Nel mio documentario, all'inizio, Lasse Braun racconta tutto questo, cioè racconta come lui si fosse ribellato a qualcosa che considerava assolutamente assurdo: il non poter vedere rappresentato il corpo femminile o maschile... la nudità insomma. Parliamo degli anni '50 e '60. Ricordiamo che in quegli anni si andava in galera per queste cose, e non per chi producesse porno, ma anche per chi semplicemente detenesse qualche tipo di materiale considerato pornografico perché implicava la nudità».
Ricordiamo che la gente importava clandestinamente delle riviste e le donne si facevano mandare la pillola anticoncezionale dall'estero...
«Esatto! Vivevamo in quel periodo lì. Adesso però con Facebook praticamente si è tornati a quel clima, si vieta addirittura la rappresentazione del seno femminile, del capezzolo. Il capezzolo censurato! Non so se ricordate la pecetta nera che si apponeva negli anni '50 e '60... ecco, siamo tornati a questo! Secondo me si tratta di una gravissima involuzione culturale cui noi dobbiamo assolutamente ribellarci perché non è possibile e, tra l'altro, comporta anche un altro aspetto: quello dell'autocensura. Io ho notato per esempio che molti miei amici, e non solo, pensano: "Ah, no. Quella cosa lì non si può fare..." - non si può fare che cosa? Rappresentare il corpo nudo è una libertà che noi ci siamo conquistati con decenni di lotte, quindi voi non ci potete imporre questo! E' una cultura che non ci appartiene e che abbiamo superato, quindi perché? In base a che cosa? Adesso non mi si può venire a dire "perché Facebook è una cosa privata", perché non è così: è un servizio sociale messo a disposizione con un miliardo e mezzo di utenti al giorno! Attivi! In Italia milioni di utenti... E' il mezzo principale della rete attraverso cui noi possiamo comunicare. Quindi questa cosa è di una gravità assoluta, perché in questo caso non mi hanno solamente censurato il manifesto, mi hanno oscurato la pagina. La pagina di Facebook su cui abbiamo lavorato un anno e mezzo. Anche altre pagine collegate al film hanno subito dei blocchi. Io sono stato bloccato per un mese! Questo significa che tutti i miei contatti, che sono primari per il mio lavoro, sono stati bloccati. Non solo: Facebook è collegato con Messenger, che è una piattaforma tipo Whatsapp, per cui viene utilizzato quotidianamente anche sul cellulare. E cosa succede? Che io posso vedere i messaggi, ma non posso rispondere».
Un bavaglio di fatto!
«Un bavaglio e un danno anche personale quindi! Mi scrivono magari dei produttori, o comunque persone interessate al film, a cui io non posso rispondere. Loro non lo sanno, ma risulta che io li leggo e non rispondo. E l'immagine che mi viene in mente è proprio quella di Marco col bavaglio. Noi indipendenti abbiamo come mezzo esclusivo quello della rete, impedire la comunicazione nel momento in cui un film esce significa cancellarlo ed infatti il film non c'è più».
Insomma, siamo davanti a un vero paradosso: la censura di un film sulla censura...
«Proprio così! Infatti questo mio lavoro è importante perché in un certo modo costituisce una chiave di volta: come si fa a censurare un'opera che parla di censura? E' un assurdo! Mette in luce le contraddizioni della nostra contemporaneità, del nostro sistema "liberale" innanzitutto ma anche del concetto di libertà al tempo della rete, perché di solito loro censurano una foto, un nudo. In questo caso però non stanno facendo questo, stanno censurando un lavoro che parla di persone che per anni hanno lottato proprio contro la censura. E perché tutto questo accade? Perché non ci sono delle regole. Tutto questo viene fatto da chi? Chi sono, dove sono quelli che prendono queste decisioni? Altra cosa grave: io non sono stato contattato da loro, loro mandano di default quelle loro frasette che dicono "abbiamo rilevato delle violazioni" rispetto alle loro regole, rispetto poi a che cosa davvero non lo so! Parlano di creare un "ambiente accogliente e rispettabile"... rispettabile rispetto a che cosa?»
Fa un po' DC anni '70 una frase del genere in effetti.
«No, è proprio la STASI secondo me, l'organizzazione di sicurezza e spionaggio creata nella Germania dell'Est».
Uguale...
«Sì, anche se l'espressione "ambiente rispettabile" evoca, visto che stiamo parlando dell'Italia, situazioni tipo "Boccaccio 70". Un atteggiamento di fondo bacchettone che continua ad auto-alimentarsi. Come no, da Democrazia Cristiana e televisione degli anni '50 e '60, quando si censuravano le gambe delle Kessler in prima serata e si imponevano loro le calze scure e cose così insomma. E' davvero un ritorno al puritanesimo, all'oscurantismo di quegli anni. Io mi sento proprio umiliato nel mio lavoro, offeso... non so. Il non poter comunicare che io abbia fatto un film, che la gente non possa scegliere di andarlo a vedere, per me è una violenza. Non è possibile che tu mi vieti questo, fa parte delle mie libertà, è la mia libertà d'espressione che stai colpendo in maniera quasi scherzosa, perché chi sta decidendo questo? Un algoritmo? Dei ragazzi lì, a Dublino, come ho saputo, che stanno lì per due lire come in un call-center a vedere e decidere loro tra milioni di foto quali colpire?»
E con quale competenza poi?
«Infatti! Senza capire la storia, senza capire lo sforzo che noi stiamo facendo per fare questo film. E' allucinante!»
Tornando a Pannella, abbiamo assistito, dopo la sua scomparsa, a varie commemorazioni. E' stato costruito dai media quasi una sorta di "santino", eppure vediamo che è censurato in qualche modo anche dopo la sua morte. Possiamo dire, anche alla luce dell'intervento di Pannella che c'è nel tuo film, del ruolo che ha nel concetto stesso della liberazione sessuale in Italia, che il vero Pannella è più scomodo oggi di una volta?
«Beh, più che altro lo sono le idee di Pannella! E' la sua forza, la sua ribellione... è il suo anticonformismo che è scomodo. S'è creata per l'appunto la figura iconica di Marco Pannella che viene adesso acclamata. Quando io ho proiettato il film al "Quattro Fontane", dove avevo invitato un po' di amici, persone varie, è scattato subito l'applauso. Questo mi fa un piacere enorme, è chiaro, ma non è soltanto lui come figura, sono le sue idee, le sue battaglie, che noi dobbiamo portare avanti, altrimenti è come farlo morire un'altra volta. Farlo morire in maniera definitiva. Quello che dobbiamo coltivare è il messaggio libertario di Pannella».
Facendo un riepilogo: una persona che vuole vedere questo film segue la programmazione, si presenta al cinema è scopre che è stato tolto improvvisamente.
«È esatto».
Come al solito manca l'auto-determinazione: indipendentemente dal contenuto del film io non avrei il diritto di vederlo. Secondo te da cosa deriva questa censura? Dal mercato che segue quella dei social network?
«La reazione del mercato è molto semplice: un film oggi viene visto esclusivamente come merce. Non c'è più differenza tra un film costruito in maniera indipendente, senza possibilità economiche di promozione, e un qualsiasi film di intrattenimento. Questo che significa? Che se i primi giorni al cinema non funziona, cioè la gente non va, naturalmente viene spazzato via, viene eliminato. Ed è chiaramente una cosa illogica perché non si può mettere sullo stesso piano un lavoro che non ha grandi possibilità di promozione ma è comunque un prodotto culturale, italiano, di cui si è parlato, ha la sua forza, ma si basa esclusivamente sul passaparola, con un altro prodotto più commerciale. Sono due cose diverse, mi devi dare un minimo di tempo. Questa appunto è un'altra forma di censura, ancora più grave perché impedisce proprio al pubblico di vederlo. Non è possibile che siamo stati eliminati così. A parte il fatto che all'inizio hanno messo solo due spettacoli, il primo giorno solo alle 22.30 e gli altri due giorni alle 20.00 e alle 22.30, sempre relegando questo concetto di "porno" come qualcosa che si può vedere soltanto di notte».
La cosa buffa è che non è un film porno, è un film sul fenomeno del porno, sulla cultura del porno. E' stato quindi trattato allo stesso modo in cui negli anni '70 si trattavano i veri e propri porno relegati nei cinemini d'essai, di periferia, ad una certa ora. Questa vicenda possiamo dire che racconta molto sullo stato culturale del paese.
«Assolutamente sì, perché come dicevo prima è la chiave di volta per comprendere questi meccanismi dato che mette in luce delle contraddizioni fondamentali. Anche perché non è un documentario costruito per un pubblico elitario, intellettuale, ma è anche un lavoro popolare. Tutti conoscono questi personaggi: Marco Pannella, Riccardo Schicchi, Cicciolina. Ha bisogno anche di una sala normale, non di essere ghettizzato immediatamente in piccoli circuiti... che poi non abbiamo avuto neanche quelli. La cosa più grave è che ho anche saputo di un cinema, di cui posso tranquillamente fare il nome perché non me ne frega un cazzo, cioè il "Madison", che addirittura ha prima accettato il film, poi lo ha rifiutato per il manifesto, perché questo manifesto avrebbe dato fastidio agli altri film in programmazione, quelli di cartoni animati soprattutto perché frequentati per lo più da bambini. Quindi evidentemente è come se entrando nel cinema, vedendo questo manifesto - come se fosse chissà quale obbrobrio - il bambino venisse disturbato e quindi ce l'hanno eliminato. Vi rendete conto a che livelli siamo? Tanto più, e ora lo dico qua e lo denuncio, che uno dei responsabili del circuito cinematografico che ci ha penalizzato in questo modo - guarda caso! - in quegli anni gestiva le sale a luci rosse».
Questo è un aneddoto incredibile! Fantastico!
«E' surreale! Lo vedi che è lo stesso meccanismo? Tra l'altro queste persone che decidono, così come Facebook, non hanno visto il film. Hanno deciso senza vederlo. Il circuito cinematografico, che ha molte sale, ed è l'unico circuito che dovrebbe salvaguardare un pochino il cinema di qualità, un cinema che comunque lotta in maniera indipendente, neanche lo vede. Di cosa stiamo parlando? Almeno vedilo, no? Si decide quindi in base a dei criteri puramente commerciali. Nessuno va a vedere questo film che parla del porno alle dieci e mezzo di sera, nel weekend, a giugno perciò nel periodo delle partite europee, quindi lo tolgo. Non me ne frega un cazzo! Che tu ci hai lavorato cinque anni a questa cosa qua non me ne frega niente. Punto. Decido così... e non solo ho deciso così, decido di toglierlo un giorno prima, improvvisamente. D'emblée. Di martedì quando, di regola, l'avvicendamento delle pellicole avviene da mercoledì».
Inquietante, davvero.
«Io li dovrei denunciare per danni, dovrei denunciare per danni il "Giulio Cesare" perché, scusate, anche se avete impedito a dieci persone, cinque persone, tre persone, di vedere il mio film e non l'avete comunicato per me è un danno».
Per te è un danno ed è una violazione della libertà del cittadino di vedere quello che gli pare, fondamentalmente. Secondo te, a questo punto, specialmente per quanto riguarda la censura che il tuo film sta subendo nelle sale, chi non vuole che il film venga visto? Chi c'è dietro questa campagna?
«C'è secondo me una cultura moraleggiante verso cui noi stiamo scivolando, un oscurantismo quasi religioso. Un oscurantismo laico/religioso terribile. La nostra cultura sta scivolando verso una melma da cui non so dove arriveremo. Anche perché manca completamente un dibattito culturale e intellettuale. Censurare un film che tratta concettualmente un fenomeno che è uno dei più pervasivi della società contemporanea significa veramente che siamo arrivati alla frutta... non so».
... Con il paradosso che poi effettivamente il porno è uno dei prodotti più acquistati, di consumo, da parte degli utenti in generale...
«Ma sì, assolutamente. E' uno dei fenomeni sociali più pervasivi e tu, paradossalmente, mi vieti di parlarne da un punto di vista, ripeto, concettuale, serio. Di analisi. Perché non dovremmo analizzare questo fenomeno? Attraverso la pornografia passano tantissime istanze: politiche, religiose. Ma ci passa anche la letteratura, ci passa l'arte. E' un linguaggio, un linguaggio della contemporaneità e quindi bisogna analizzarlo, bisogna studiarlo, bisogna capirlo. Da dove nasce, che cos'è, come si è trasformato? Non si può parlare della pornografia oggi senza rendersi conto da dove si è partiti. E cioè dalla forza politica che aveva e come oggi si è trasformata. Parliamone! Perché mi vieti di parlarne?»
Quali azioni intendete intraprendere adesso per cercare di reagire a questa censura di fatto che state subendo?
«Ci dobbiamo chiaramente organizzare e tentare di fare più proiezioni possibile perché il pubblico lo possa vedere, poi magari lo possa anche criticare. Io tra l'altro dovrei anche affrontare un'altra cosa che è successa e secondo me è veramente inquietante, perché ci sono attualmente delle piattaforme che nascono, che sono pervasive e condizionano addirittura il mercato. Come MYmovies per esempio. MYmovies ormai è una specie di piovra nascosta sotto le sembianze di una cultura cinematografica che non è assolutamente tale. Loro sono gli unici che hanno scritto una critica assurda, perché dicono che non c'è un rapporto tra il mio film e la contemporaneità. È evidente la censura che hanno operato: questa scheda così negativa del film è la scheda utilizzata da tutti i maggiori network. Da SKY allo stesso circuito-cinema che adotta come scheda introduttiva al film quella di MYmovies. Quindi la critica non è più fine a se stessa, non so come dire, ma diventa uno strumento per colpire un prodotto che probabilmente non approvano, per orientare i gusti del pubblico in qualche maniera, perché tutti gli esercenti, le manifestazioni, utilizzano la scheda di MYmovies. Io ho avuto dei danni pazzeschi anche con "Come mi vuoi", il mio film del 1996, laddove una critica negativa ha condizionato il lavoro. Intendiamoci, io sono d'accordo con la critica, figuriamoci, perché fa parte anch'essa della libertà. Nel momento in cui io realizzo un'opera tu la devi criticare e sei liberissimo di farlo. Ma non che questa diventa l'unica scheda divulgativa e di ciò nessuno dice nulla perché MYmovies è diventato una potenza talmente forte che nessuno osa aprire bocca. Va' a controllare la mia scheda di MYmovies, leggi quello che c'è scritto e poi vai su SKY o su qualunque circuito... se tu vai al "Fratelli Marx" di Torino, la scheda è presa da lì. Questo va denunciato assolutamente. Perché loro utilizzano sistemi di comunicazione all'avanguardia rendendo il cinema nient'altro che merce e poi chiamano al loro interno delle persone, ragazzi laureati al DAMS o comunque che non hanno una base critica sostanziale; ma, ripeto, non è quello per me il problema, perché tu puoi tranquillamente dire che quello che ho fatto è orrendo, non ha valore. Va benissimo. Ma deve restare lì, non deve diventare una scheda divulgativa su tutti i network principali e su tutti i circuiti cinematografici. Ma stiamo delirando? Mi sento davvero in una gabbia».
Cicciolina l’arte dello scandalo, il documentario in tv. Scrive il 25 novembre 2016 la Redazione di "Tvzap" Sabato 26 novembre alle 23.00 su Sky Arte HD il film scritto e diretto da Alessandro Melazzini che racconta la storia di Ilona Staller e la politica italiana degli ultimi 10 anni. In occasione del compleanno di Ilona Staller (in arte Cicciolina), sabato 26 novembre va in onda alle 23.00 in prima visione su Sky Arte HD(canale 120 e 400 di Sky) e in simulcast su Cielo (DTT 26, Sky 126 e TivùSat 19) Cicciolina – L’arte dello scandalo, il film scritto e diretto da Alessandro Melazzini che racconta con passione e ironia, grazie anche a una approfondita ricerca sul materiale d’archivio, il fenomeno Ilona Stallernelle sue molteplici sfaccettature, collocandolo nel contesto politico italiano del tempo. Ilona Staller, meglio conosciuta come Cicciolina, ha vissuto un percorso artistico e umano forse unico nel panorama mondiale. Partita dall’Ungheria comunista inseguendo i richiami della Dolce Vita italiana, ha trovato nel Belpaese il terreno fertile per una carriera all’insegna dello scandalo. Le sue maliziose foto di ninfa svestita sono state il trampolino di lancio per una fulminante carriera che l’ha vista approdare prima in radio, poi in televisione e al cinema erotico e porno. Unica fino ad allora nella storia delle democrazie, Ilona Staller è riuscita, da pornostar, a farsi eleggere deputata, conseguendo con questa inaspettata vittoria una fama planetaria. Il tempestoso connubio con Jeff Koons, di cui è stata moglie e Musa, ha infine definitivamente consacrato il suo ruolo iconico nella cultura pop contemporanea. “La vicenda personale e artistica di Ilona Staller è un caso raro se non unico nel suo genere” – ha spiegato l’autore, regista e produttore Alessandro Melazzini. “Esaminarla con l’attenzione dovuta ai fenomeni mediatici che si impongono sulla scena internazionale – ha proseguito – è utile anche a capire l’evoluzione della politica italiana (e non) degli ultimi decenni”. “Realizzare un documentario su Cicciolina in coproduzione con il canale culturale ARTE è stato un po’ come compiere un triplo salto mortale – ha aggiunto -, camminando sul filo sottile dell’erotismo, della provocazione e della divulgazione”. “All’inizio non è stato facile convincere Ilona Staller a diventare oggetto di un documentario, ma dopo una lunga fase di avvicinamento, le diffidenze si sono sciolte per portare alla luce una persona collaborativa e intuitiva, che ha sposato il progetto confidandoci le gioie del suo percorso biografico-artistico, ma non nascondendone il dolore”, ha concluso Melazzini.
Cinema: Nel film Cicciolina l’arte dello scandalo, scrive Luca di Carlo su "Agenparl" il 24 novembre 2016. Dopo il successo ottenuto in Francia e in Germania, “Cicciolina l’Arte dello Scandalo” pornografico, politico, legale, ed artistico il nuovo film documentario, che verrà trasmesso per la prima volta in Italia sabato 26 novembre 2016 sui canali T.V. di Sky Arte e di Cielo alle ore 23:00. Una carriera incredibile fatta di battaglie. Prima l’incontro con Riccardo Schicchi, poi con Jeff Koons e poi con Luca Di Carlo. Riccardo Schicchi è l’entusiasmo pornografico. Jeff Koons è lo scultore d’avanguardia americano, di cui è stata musa ispiratrice dell’arte. Luca Di Carlo l’avvocato del diavolo è il suo salvatore. Con i tre Cicciolina ha definitivamente consacrato il suo ruolo iconico nella cultura pop contemporanea. Nella sua vita anche Moana Pozzi nell’orbita della pornografia e della politica. Il matrimonio con Jeff Koons naufragò dopo due anni e mezzo. L’attrice, trasferitasi negli Stati Uniti, ingaggiò una battaglia legale per ottenere l’affidamento del figlio. Ilona Staller rapì il figlio Ludwig Koons dagli Stati Uniti e lo condusse in Italia. Per questa vicenda fu accesa nei suoi confronti oltre ad un processo penale internazionale per sottrazione e rapimento del figlio minore anche una causa per danni morali, promossa da Jeff Koons, che chiese 6 milioni di dollari. Ilona Staller incaricò come suo difensore il leggendario avvocato Luca Di Carlo divenuto famoso con l’appellativo “Avvocato del Diavolo”, contro l’esercito degli avvocati dell’ex marito artista americano Jeff Koons, ed a avuto la vittoria nello storico processo di diritto internazionale penale di Ilona Staller, che fu anche assolta dalla Corte d’Appello di Roma dalle accuse di avere impedito all’ex coniuge di incontrare il figlio, ed avuto la vittoria processuale anche sulla richiesta risarcitoria milionaria promossa da Jeff Koons nel 2008, chiudendo così definitivamente, la storica battaglia legale internazionale del rapimento internazionale del minore dagli Stati Uniti. Luca Di Carlo “l’avvocato della strada” che un giorno disse “i pugili migliori sono quelli che vengono dalla strada così come gli avvocati” vincendo sulla legge regalò, nella redenzione, l’assoluzione a Cicciolina. Luca Di Carlo, Riccardo Schicchi e Jeff Koons erano destinati ad entrare nella storia di Cicciolina. Ilona Staller nell’arte dello scandalo pornografico, politico e legale finisce per diventare arte ed artista dipingendo nell’enfasi della trasgressione una serie di opere d’arte in particolare l’opera d’arte “l’angelo e il diavolo” che ritrae Ilona Staller e l’avvocato Luca Di Carlo il salvatore … il suo compito è illudere che esista il Paradiso in Terra. L’opera d’arte “l’angelo e il diavolo” fu creata da Cicciolina in onore dell’avvocato del diavolo che ha salvato la Vergine eterna di nome Cicciolina vincendo le grandi battaglie nella scandalosa trasgressione delle leggi umane, perché Cicciolina è la Vergine Eterna che può cancellare la colpa e la vergogna dalla vita. Riccardo Schicchi “il manager del porno”, Jeff Koons “lo scultore d’avanguardia”, Luca Di Carlo “l’avvocato del diavolo”, cosa conta davvero: l’oggetto o il progetto? Il porno e l’arte! la trasgressione e la legge! l’amore e il tradimento! Ilona Staller realizza l’opera d’arte “l’angelo e il diavolo” che ritrae Ilona Staller e l’avvocato Luca Di Carlo, e rinuncia pubblicamente ad ogni diritto di copyright affinché l’opera d’arte “l’angelo e il diavolo” sia di proprietà di pubblico dominio.
Rocco Siffredi: «Fare porno, in Italia, è un atto di coraggio». L'attore si racconta e spiega com'è cambiato il mondo del porno in 30 anni di carriera. Ma anche come, in 30 anni, l'Italia non sia cambiata affatto, scrive Greta Sclaunich il 27 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Fare il mio lavoro, in Italia, è un atto di coraggio. Ci siamo aperti a tutto, dalla violenza al cinismo. Ma non alla cosa che tutti cerchiamo: il sesso. Facciamo finta che non ci riguardi, e invece abbiamo il diritto di capire e conoscere. A cominciare dalla scuola, dove l’educazione sessuale ancora manca». Quando parla di sé, della sua vita e della sua carriera, Rocco Siffredi parla anche e soprattutto dell’Italia. Che ha lasciato 34 anni fa, appena maggiorenne, per una carriera nel porno che è andata dalla partecipazione alla produzione di film e, ora, anche all’insegnamento grazie alla fondazione, due anni fa, della Siffredi Hard Academy a Budapest. In Italia ci ritorna, certo. Ci ha anche investito, ma niente porno: da noi ha puntato sulla produzione di vino nel natio Abruzzo. Raggiunto al telefono tra uno scalo e l’altro (sta ripartendo da Parigi dove ha presentato «Rocco», il documentario sulla sua vita, per venire a Torino dove è l’ospite d’onore della Fiera Erotica in programma da giovedì 24 a domenica 27 novembre), premette che «questa intervista sarebbe stata diversa se me l’avessi fatta due giorni fa». Due giorni fa, cioè prima di assistere alla presentazione del documentario nella capitale francese: «Tappeto rosso, sala da 800 posti piena, interviste in tv. In Italia? Alla prima, a Roma, una trentina di amici miei e una trentina di fan sfegatati. Nessuno ne ha parlato e quindi nessuno è andato a vederlo. Però scommetto che appena arriverà in tv tutti quelli che si vergognavano di vederlo al cinema, perché-chissà-cosa-pensano-i-vicini, poi lo guarderanno. Come mi hanno guardato quando sono andato all’Isola dei Famosi» (programma al quale, conferma, non tornerà nell’edizione 2017). Quando parla di atto di coraggio, Siffredi si riferisce a sé stesso, «gli italiani amano Rocco Tano (il vero nome dell’attore, ndr), Rocco Siffredi no: rappresenta la trasgressione della quale abbiamo bisogno a letto ma della quale ci vergogniamo nella vita reale». Ma soprattutto alle donne: «A me in fondo è andata bene: fossi stato femmina, mio padre m’avrebbe rotto le gambe - riassume - L’ho detto a Malena, quando ha deciso di lanciarsi nel porno: attenta, per tutta la vita poi sarai la pornodiva e basta». Pazienza se la sua ultima scoperta Malena, al secolo Milena Mastromarino, ha anni di carriera politica (nel Pd) alle spalle: secondo lui quella del porno è una strada dalla quale, in Italia, non si torna indietro. Per questo pochissime decidono di intraprenderla: «Alla Siffredi Hard Academy arrivano tantissime candidature di italiani. Tutti uomini, però: diciamo che di donne, in proporzione, ce ne sarà una su mille. Le ragazze italiane il porno non lo vogliono fare: hanno capito di che pasta sono fatti gli uomini, da noi, e preferiscono non rischiare». Non rischiano - e questo lo dicono i numeri - nemmeno quando si tratta di esprimere i propri desideri. Secondo il sondaggio realizzato dalla Fiera Torino Erotica in occasione del lancio ben quattro donne su dieci si dichiarano insoddisfatte della creatività dei propri partner a letto. Gli uomini insoddisfatti della partner, invece, sono la metà: due su dieci. Siffredi sorride: «Solo quattro? Da quel che sento direi molto di più. Le donne oggi sanno quello che vogliono, se si fanno sottomettere è perché sono loro a deciderlo. Il problema è trovare uomini che davanti a questo atteggiamento non si spaventino. Io non ho paura, sono anni che penso che le donne siano il sesso forte: mi considero femminista». A proposito di donne che sanno quello che vogliono: secondo il sondaggio il 41% delle intervistate possiede un vibratore e il 39%, quindi quasi la totalità, dichiara di usarlo. E a proposito di uomini spaventati e non sicuri di sé: il 20% di quelli intervistati ammette di non essere soddisfatto delle dimensioni delle sue parti intime. «Mi viene tristezza quando vedo uomini che fanno di tutto per cercare di allungarselo - commenta Siffredi - Non hanno capito niente delle donne. Nemmeno della sessualità, che sta tutta nel cervello: il resto sono solo accessori». Secondo lui «quando una persona è serena, non ha bisogno di grandi trasgressioni». Se nella coppia però l’intesa è difficile da raggiungere, come sembrano suggerire altri dati del sondaggio della Fiera Erotica (il luogo preferito dove fare l’amore è il letto per il 60% degli uomini e solo il 15% delle donne, la posizione favorita è in piedi per il 30% delle donne e solo il 2% degli uomini), la soluzione è il dialogo, «che nella mia generazione, quella dei 50enni italiani, spesso manca del tutto». Per questo nei prossimi mesi inaugurerà una sezione della sua Academy dedicata all’educazione sessuale sia per i single che per le coppie, con corsi ma anche weekend di formazione. Per quanto riguarda la scuola tradizionale, invece, continuerà nel suo obiettivo di formare le nuove leve del porno. Impresa non facile: «Una volta in questi film si faceva sesso, ora si fanno atti teatrali: è molto più complesso. Tutti arrivano aspettandosi chissà cosa, poi si rendono conto che si tratta di lavoro: sul set ci si stanca. Ci si ferma, si riparte, se la voglia non c’è devi fartela tornare». Lui ora è passato dall’altra parte dell’obiettivo, ma al suo lavoro, dopo oltre 30 anni, non rinuncerebbe. Anche se, in passato, gli è stata proposta una carriera di tutt’altro genere: «Tre o quattro anni fa mi hanno contattato i Radicali. Ho detto no: non potrei mai fare il politico perché non accetto i compromessi, quindi o mi sentirei fuori luogo io o mi butterebbero fuori subito. Poi mi sembrerebbe incoerente occuparmi di politica, visto che non voto mai. Non voterò neanche il 4 dicembre, al referendum costituzionale. Non ho mai votato: a 18 anni già vivevo all’estero, non seguo la politica italiana e non saprei proprio a chi dare il mio voto».
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 -
Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di
Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali
un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si
depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come
abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su
una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%).
Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono
disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore
inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che:
"Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano
sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John
Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in
questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
CON LA RADIO NON S'IMBROGLIA. VIVA LA RADIO CHE NON MUORE MAI.
La radio? "Il mezzo più umano tra esseri umani". Data per spacciata una prima volta con l'arrivo della televisione, l'invenzione geniale di Marconi resta in ottima salute. Dopo oltre un secolo di vita sta dimostrando di sapersi adattare perfettamente alla stessa rivoluzione digitale. I dati la premiano: ascolti, pubblicità e credibilità continuano a crescere. E il suo potere persuasivo resta intatto: negli Usa può cambiare le sorti della Casa Bianca, a Roma decide spesso il destino degli allenatori di calcio, scrive il 7 dicembre 2015 “La Repubblica”.
Pragmatica e camaleontica di Carlo Ciavoni. Di epigrammi accorati, fiammeggianti, densi di dolore sulla sua possibile tomba, la radio ne ha dovuti ascoltare parecchi nella sua lunga vita. Una vita che alcuni in Italia vogliono far cominciare non tanto 91 anni fa, da quel 6 ottobre 1924 quando ci fu l'inizio ufficiale delle prime trasmissioni dell'Unione Radiofonica Italiana, poi Eiar e poi ancora Rai. No: c'è chi vorrebbe scrivere come data della sua venuta al mondo in Italia l'8 dicembre del 1895, 120 anni fa esatti, quando Guglielmo Marconi fece trillare tre volte un campanello posto a distanza a Villa Grifone nella località che ora si chiama Sasso Marconi. Insomma, è successo in diverse occasioni in tutto questo tempo, di sentirsi trattare come un'anziana e gloriosa combattente, sul punto di essere seppellita da logiche iper-neoliberiste sull'infallibilità del mercato. Sussulto di vitalità. Momenti tristi, dunque, per la radio ce ne sono stati. Ad esempio, anche a metà degli anni Cinquanta, con l'inizio della programmazione Tv. Ma poi nel corso degli anni successivi, in un'altalena di "svenimenti" e "rianimazioni", quando ha dovuto superare fasi in cui è sembrata lì lì per lasciarci o comunque finire nell'ombra. Un vero sussulto di vitalità ci fu poi all'indomani della sentenza della Corte Costituzionale del 1976, la numero 202 del 28 luglio. Cominciava la stagione delle "Radio Libere". Che fino ad allora trasmettevano sfruttando un'interpretazione estensiva della legge allora vigente, la 103 del 1975, col rischio di denunce e sequestri. Nonostante tutto però, molte radio trasmettevano con regolarità. Solo a Roma, alla fine del 1975, ce n'erano già una dozzina in piena attività. L'ultima volta che il respiro della Radio s'è di nuovo fatto pesante, fu agli inizi negli anni '90, quando - ancora una volta - le Tv commerciali sembrava stessero per sferrare il colpo finale e definitivo al medium più antico dell'era moderna. E invece no. Gli anni successivi a quell'ultima stagione un po' opaca hanno al contrario segnato una rimonta impressionante delle emittenti. L'ultima testimonianza viene da una ricerca della Gfk Eurisko e dalla Ipsos, dal titolo che annuncia già il senso e l'esito del sondaggio: "Come afferrare Proteo", il personaggio mitologico dalle forme mutevoli, capace di adattarsi con rapidità ai cambiamenti attorno a lui. Le analisi delle due società di rilevamento non lasciano dubbi. Dicono e ribadiscono che la radio ha tutti i connotati per essere definita "immortale", proprio grazie alla sua capacità di adeguarsi al mondo che la circonda. Un mondo geneticamente e tecnologicamente mutato, ma nel quale ha saputo convivere con discrezione assieme agli altri strumenti di comunicazione. Ma nello stesso tempo prosperando sulla nuova scena digitale, esibendo numeri che mostrano una crescita costante e, ciò che secondo gli analisti conta di più, aumentando la sua credibilità nella percezione diffusa tra il pubblico. Ha più valore un "... l'ha detto la Radio" che un "... l'ho sentito alla Tv". Lo confermano le statistiche. La ricerca Eurisko-Ipsos s'è svolta tra l'aprile e il maggio scorsi su un campione rappresentativo di 52.903.250 cittadini italiani, circa l'84% della popolazione residente nel nostro paese. I dati più importanti ci parlano della tenace resistenza della radio alle "intemperie" e alle "traversie" incontrate lungo la sua lunga storia. Un mezzo capace di resistere all'urto con l'era digitale, confermandosi un "mezzo di tutti", che vanta una platea complessiva di oltre 35 milioni di persone al giorno, all'interno della quale vive un target pubblicitariamente assai pregiato. Così la radio fa gola agli inserzionisti e ai pubblicitari, proprio perché cresce tra segmenti di pubblico più esposti alle nuove tecnologie, come i giovani. Il sondaggio ci dice infatti che per il 50% dei ragazzi tra 14 e 17 anni e il 47% dei 18-24enni l'ascolto della radio è in aumento rispetto a 3 anni fa. Un altro dato assai interessante è che il 90% di chi ascolta la musica attraverso supporti digitali, ascolta anche la radio, con i giovani che stanno mostrando di farlo con maggiore intensità rispetto al passato. Dice Giorgio De Rita, segretario generale del Censis: "La Radio attira e accresce i suoi ascoltatori con un miscuglio tra continuità con il passato, semplicità d'uso e capacità di trovare ospitalità nei nuovi strumenti della società dell'informazione. Sta giocando una scommessa con il futuro - aggiunge De Rita - esibendosi su tanti fronti e cerca di ricavare dal proprio successo di ascolti una nuova capacità d'integrazione nel mondo dei nuovi media, facendosi carico di una società che ha cambiato il proprio modo di fare coesione sociale". Giorgio Simonelli, docente al corso di laurea di "Linguaggi dei Media" alla Cattolica di Milano, riflette sui livelli di qualità che la radio deve mantenere, curando sempre di più i contenuti, con una più evoluta cultura della programmazione. Cita prodotti radiofonici capaci di "produrre un alto grado di partecipazione emotiva e coinvolgimento intellettuale". Un'attenzione particolare Simonelli la dedica all'audience radiofonica, citando il libro di Enrico Menduni ("Il mondo della Radio. Dal tansistor ai social network", il Mulino)". Sarebbe nato, insomma, un nuovo tipo di pubblico definito "reticolare", il quale "benché minoritario rispetto a quello tradizionale analogico rappresenta una realtà fondamentale, perché anche se non è in grado di generare valore economico, è comunque decisivo nella produzione di quello che Danah Boyd (studiosa statunitense esperta di media e del loro rapporto con i giovani ndr) definisce capitale reputazionale, per cui il pubblico della radio si misurerà sempre meno in base a logiche di massa numerica e sempre più in termini reputazionali, appunto, attraverso strumenti assai vicini alla sfera sentimentale". La prova simbolica della vitale longevità della radio e della sua inesauribile capacità di stupire e di generare gioie, ma anche tensioni e paure, viene da un ormai celeberrimo programma del 1938, La guerra dei mondi, uno sceneggiato radiofonico della CBS, protagonista Orson Welles. È rimasto un caposaldo della radiofonia di tutti i tempi, perché il perfetto realismo dell'interpretazione del grande attore e regista scatenò il panico tra la gente, dopo che Welles annunciò un'invasione di alieni, scesi sulla Terra con diverse astronavi, dalle parti di Grovers Mill, nel New Jersey. Furono in molti a non capire che si trattava di una finzione, nonostante dai microfoni della CBS, sia prima che dopo quella storica puntata del 30 ottobre, fossero stati diffusi avvertimenti che ricordavano, appunto, che si trattava solo di uno sceneggiato radiofonico. Nel corso del tempo è a personaggi e programmi di quella potenza che va attribuito il merito di aver creato, giorno dopo giorno, la fedeltà d'ascolto necessaria a generare la comunità di riferimento di ogni emittente. Di esempi nati sulle nostre onde hertziane e che hanno fatto la storia della radio italiana, ce ne sono numerosi. Rosso e Nero, tanto per citarne uno, che tenne per anni incollati all'apparecchio milioni di italiani il giovedì sera; ma poi tanti altri "monumenti" della radiofonia nazionale, come la Hit Parade di Lelio Luttazzi, Bandiera Gialla, Il Gambero, Alto Gradimento, Chiamate Roma 3131, Fabio e Fiamma la trave nell'occhio, Raistereonotte... fino al Ruggito del Coniglio, Caterpillar e 610 di Lillo e Greg, solo per citarne alcuni, così, un po' a casaccio. Ecco, oltre a questi esempi ci piace ricordarne un altro, che arriva dagli States, Arkansas. Si chiama Sonny Payne, ha 85 anni suonati, ed è ancora oggi, dopo 60 anni, al microfono di King Biscuit Time, un programma trasmesso da un'emittente della città di Helena. Il vecchio Sonny è lì tutte le sere a trasmettere ottimi blues, a dialogare con i suoi ascoltatori e, probabilmente, anche ad invitarli a gridare assieme lui, ogni tanto: "Viva la Radio".
Presta: "Non ha trucchi, nulla la può fermare" di Carlo Ciavoni. "Dicono che dopo un disastro nucleare gli unici a sopravvivere sarebbero gli scarafaggi. Ma non è così", sentenzia Marco Presta, attore, scrittore di successo, da vent'anni autore e conduttore assieme ad Antonello Dose, suo amico d'infanzia, di una delle trasmissioni cult di Radio Rai, Il Ruggito del Coniglio. "Non è così, perché a sopravvivere a tutto sarà soprattutto la radio. Sono sicuro che da qualche parte - dice - dopo quella malaugurata esplosione, si sentirebbe una voce che esce da una radiolina impolverata tra le macerie. Ho in testa questa immagine, sarà grave? Insomma, penso davvero spesso alla sua sostanziale immortalità e questo, secondo me, succede per un motivo molto semplice: la radio appartiene alla sfera del sentimento e i sentimenti, com'è noto, non muoiono mai. Si accendono, si trasformano, si spendono anche, ma vengono comunque rimpiazzati da altri stati emotivi. Insomma, c'è il vuoto sentimentale. "Alla radio - dice ancora l'autore che ha partecipato alla stesura della sceneggiatura della serie Tv Un medico in famiglia e che collabora alla scrittura dei testi per la Littizzetto - non c'è trucco né inganno, non ci sono paillettes, o smoking, né belle gnocche. C'è un flusso sentimentale che ha la stessa fisiologia e la stessa forza di quello che s'instaura tra esseri umani. Insomma, non c'è bisogno che io stia qui a ripeterlo, ma è un fatto che la radio è il mezzo che somiglia di più e che più di altri entra rapidamente e con efficacia in sintonia con l'animo delle persone. D'altra parte - conclude Marco Presta - la nostra lunga esperienza a Radio 2 con il Ruggito, ce lo continua a confermare: la radio riesce a trasformare in fatti rilevanti tutto ciò che riguarda la vita delle persone, persino le cose più banali. Nessuno riesce a raccontare o a rappresentare emotivamente meglio gli stati d'animo della gente. Ecco perché è immortale".
La corsa alla Casa Bianca si vince anche in Fm di Alberto Flores D'Arcais. Nell'era di Internet e dei social network, con dibattiti televisivi sempre più noiosi e la crisi della carta stampata, anche negli States la vecchia cara radio vive la sua ennesima giovinezza. Punta di diamante della propaganda politica nella prima metà del secolo scorso (poi arrivò la tv e il famoso scontro Kennedy-Nixon), quando celebri conduttori come Father Charles Coughlin (il prete anti-semita che amava Hitler e Mussolini raccontato da Philip Roth nel suo romanzo "Il complotto contro l'America") erano 'verbo' per milioni di persone, i talk-show sulle radio restano tra i più formidabili veicoli dell'informazione per convincere un elettorato sempre più disattento. Al passo con i tempi del mondo digitale (grazie ai podcast e alle radio satellitari come Sirius) le voci (e la propaganda) degli odierni guru, raggiungono ogni giorno decine di milioni di abitazioni, automobili, diners e via dicendo. Se la National Public Radio (Npr) - l'ente fondato nel 1971 sull'onda del Public Broadcasting Act del presidente Lyndon Johnson per la crescita della radio non commerciali - con il suo network di circa 900 emittenti in ogni angolo degli States mantiene i suoi standard di pubblico servizio (con una tendenza decisamente progressista) nell'informare un'audience che raggiunge ogni settimana oltre 25 milioni di ascoltatori, i veri padroni della radio sono però altri. In primo luogo i conduttori di talk-show più partigiani (e in grande maggioranza conservatori) che sono in grado di dettare gli argomenti più polemici e più esasperati (a volte anche più volgari) del dibattito politico. Conduttori che - in questo caso accomunati conservatori e progressisti - hanno come primo nemico i Palazzi di Washington (dalla Casa Bianca al Congresso) e la politica istituzionale. Campione indiscusso - ormai da più di un decennio - è Rush Limbaugh, 64enne del Missouri che iniziò la sua carriera nell'ormai lontano 1984 (a una radio californiana di Sacramento) che da solo ogni settimana ha un'audience che supera i 15 milioni di ascoltatori. Campione di ascolti e campione di polemiche. Con i suoi attacchi continui a tutto ciò che puzza di 'liberal'(o più semplicemente di democratico), con le sue campagne accusate di razzismo ("prima di parlare togliti l'anello che porti al naso", disse una volta sprezzantemente a un ascoltatore di colore), a favore della pena di morte e contro gli ambientalisti di ogni genere. Negli ultimi anni il suo regno è sempre più in pericolo grazie a Sean Hannity, anche lui conservatore anti-liberal ma meno sanguigno (e più colto) di Limbaugh, che adesso lo tallona da vicino con i suoi 14 milioni di ascoltatori settimanali e con i suoi libri (ad esempio "Liberaci dal male: sconfiggere terrorismo, dispotismo e liberalismo") che finiscono sempre nelle classifiche del New York Times sui libri più venduti. Altro guru radiofonico molto ascoltato è Glenn Beck, volto e star televisiva del canale Fox (il più conservatore, proprietà di Rupert Murdoch) che è anche fondatore e Ceo di Mercury Radio Arts, una casa di produzione multimedia (radio, tv, internet, teatro e carta stampata) e considerato da Hollywood Reporter uno dei cinquanta uomini "più influenti d'America nell'era digitale". Tra i conduttori radiofonici non mancano neanche figli d'arte. Come quelli di Ronald Reagan, uno dei presidenti più amati d'America, oggi divisi da credi e ideologie. Con Michael (figlio adottivo) che con il suo programma era riuscito a raggiungere anche la ottima quota di 5 milioni di ascoltatori alla settimana e Ron, di tredici anni più giovane che - ateo e sostenitore di Obama già nel 2008 - ha tradito gli ideali familiari e lavora adesso per la radio liberal Air America. E i progressisti? Per troppo tempo democratici, liberal e radical hanno delegato a Npr l'informazione "politicamente corretta". Solo negli ultimi anni, un po' come è successo con il canale televisivo all-news MsNbc che si contrappone in modo molto partisan alla Fox, hanno capito che oltre a Internet e ai social network (grande intuizione degli uomini di Obama nel 2008) anche la radio continua ad essere una formidabile macchina da voti. Ed ecco comparire sulla scena uomini come Bill Press - già presidente del partito democratico della California negli anni Novanta, volto conosciuto ai telespettatori di Cnn e MsNbc - che ha lanciato, con discreto successo, il suo talk-show. Un caso a parte è quello di Howard Stern. Produttore, autore televisivo, attore e fotografo, famoso per il suo radio show andato in onda dal 1986 al 2005 (con picchi di venti milioni di audience), ha da dieci anni un contratto milionario con Sirius XM Radio, l'emittente satellitare (per soli abbonati) più seguita d'America. Provocatorio, populista, conduttore di programmi notturni al limite del porno, politicamente può essere definito un 'libertario'. Come molti degli elettori indipendenti che alle elezioni possono fare la differenza.
Urlate e faziose, l'incubo di Roma e Lazio, di Matteo Pinci. C'è una radio che a Roma non si spegne mai. È quella che parla di calcio, e che sia Roma o Lazio non fa troppa differenza: più di cento ore al giorno in cui l'etere soffoca di polemiche e appelli, richieste e tifo, un mormorio costante e sotterraneo che non piace agli allenatori ma fa impazzire la piazza. In fondo, la Capitale s'è fatta interprete della terza declinazione della radio in Italia: dopo quella in musica e quella parlata, qui è fiorita la radio urlata. E pensare che nel 1974 le allora "radio libere" erano nate quasi come un bisbiglio: bastavano 5-10 watt di potenza per trasmettere. Oggi 30 volte tanti non sono sufficienti. Ma come spogliare la città di questa voce rumorosissima e costante che fa da sottofondo alle giornate di ministri e ambasciatori, pizzardoni e autisti atac? Perché il fenomeno non è solo costume, ma una tendenza che coinvolge le masse. Chi ha il microfono diventa un guru riconosciuto nell'universo popolare, si fa portavoce di idee che trovano poi riscontro nell'una o nell'altra tifoseria. Addirittura generano frazioni interne nello stesso gruppo di sostenitori. Alimentando figure diventate mitologiche, nonostante un curriculum non sempre limpidissimo. Paradigma di questa immagine, quasi un capobastone, è Mario Corsi, per tutti "Marione": capopopolo dell'etere, la sua - dicono i dati di ascolto - resta ancora la trasmissione più seguita. Tra le 10 e le 14 metà della Roma che si sposta in auto si sintonizza sulle frequenze in Fm per ascoltarne la voce. Ignorando - o fingendo di ignorare - il passato nei Nar e qualche accusa grave che negli anni ha macchiato la figura del conduttore. I tassisti lo adorano, i tifosi lo detestano e più o meno tutti lo ascoltano. Altra figura mitica dell'etere romano è quella di Carlo Zampa, radiocronista promosso a speaker dell'Olimpico giallorosso nell'anno dello scudetto che i bambini fermano per strada chiedendogli di mettersi i posa per un selfie.Tra chi parla di Lazio il capostipite resta invece indiscutibilmente Guido De Angelis, editore della rivista Lazialità, commentatore di rilievo delle emittenti in biancoceleste. Un guru, appunto. "Le radio romane sono sempre molto negative, non hanno mai un equilibrio e questo può influenzare il pubblico e la squadra", dice ogni volta che si ritrova a parlarne uno sceriffo dello spogliatoio come Fabio Capello. Lui, che pure aveva dovuto convivere con il brusio altrettanto diffuso di Madrid, nei cinque anni a Roma se n'è fatto un'idea limpida, evidentemente. Almeno tre stazioni parlano abitualmente della Roma, altrettante della Lazio, più una mista. Si chiamano Teleradiostereo o Centrosuono Sport, Radio sei o Radio Incontro Olympia, Rete Sport e Radio Radio, nomi generici che nella stragrande maggioranza dei casi per i tifosi vogliono dire invece appartenenza a una o all'altra bandiera: in tutto, una copertura che supera le 100 ore di trasmissione quotidiana, oltre 1.000 settimanali. E il fenomeno è dilagato al punto che anche le società di Pallotta e Lotito si sono dotate di una propria emittente radiofonica: un tentativo di contrastare il chiacchiericcio indirizzando l'ascoltatore verso una comunicazione istituzionalizzata. Tentativi che però non hanno soffocato la voce libera di chi strilla e contesta, punta l'indice dopo lo sconfitte per poi alzarlo al cielo dopo una vittoria. E non fanno sconti: a nessuno. Se n'èaccorta Francesca Brienza, la fidanzata dell'allenatore della Roma, quando le è scappato un commento sul tema: "Uno degli elementi più pericolosi che ci sono a Roma - ha detto - sono le radio romane, e chi dice il contrario è perché non le ha mai ascoltate". Il fuoco incrociato su Lady Garcia ne è la prova ulteriore: la radio (romana) non si discute, si ascolta.
L'oggetto muore, parole e musica sono eterne, di Ernesto Assante. “Abbassa la tua radio per favor”, recitava il testo di una celebre canzone, “Silenzioso slow” del 1940. Difficile che oggi qualcuno possa ripetere la stessa frase, perché di radio, in giro, ce n'è sempre di meno. Intendiamoci, parliamo dell'oggetto fisico, dei ricevitori che dal secolo scorso ci accompagnano e che hanno preso forme sempre diverse, perché la radio, come strumento di comunicazione, funziona egregiamente, ha un grande successo e nelle sue forme più innovative e moderne, quelle digitali, sta addirittura conquistando nuovi spazi e nuovo pubblico. La radio, come oggetto fisico, invece, è sempre meno diffusa, sempre meno presente. Basta andare in un grande magazzino d'elettronica per rendersene conto, i modelli presenti nei negozi sono sempre di meno, e l'offerta cala di anno in anno, persino per i nostalgici è diventato difficile trovare delle macchine che siano solo e soltanto radio. La radio non è più un oggetto ma un concetto, una funzione all'interno di altri oggetti, un modo di organizzare contenuti e renderli fruibili al pubblico. La radio “vecchio stampo” resiste a fatica, insomma, a casa ha sempre meno spazio, in macchina gode ancora di buona salute, ma ovunque si trasforma, cambia forma. Oggi non c'è una “radio”, anzi a dire il vero uno dei problemi più grandi per chi ama il mezzo e vorrebbe poter avere un ricevitore in grado di poter catturare tutte le forme possibili di radio che oggi abbiamo a disposizione è proprio che non c'è ancora un oggetto definitivo che offra la possibilità di ascoltare le radio web only, le radio tradizionali in am e fm, le radio digitali, quelle satellitari e i podcast. Si, perché a definire la radio oggi non è più nemmeno il sistema di trasmissione, perché solo parte della radiofonia trasmette usando “onde radio o radioonde sono onde elettromagnetiche, appartenenti allo spettro elettromagnetico, nella banda di frequenza compresa tra 0 e 300 GHz ovvero con lunghezza d'onda da 1 mm all'infinito”, come recita Wikipedia. La radio oggi arriva a noi attraverso la televisione, i computer, gli smartphone e i tablet, i satelliti, internet, e a dire il vero in molti di questi casi per definirla avremmo bisogno di nomi nuovi. Del resto, in principio, più di cento anni fa, la radio non aveva nemmeno questo nome. E non assomigliava in nessun modo all'oggetto che noi oggi conosciamo ed amiamo. I primi esperimenti di Marconi erano in realtà trasmissioni radiotelegrafiche, in cui dei segnali, dei piccoli rumori, venivano trasmessi da una parte all'altra, da un trasmettitore a un ricevitore. Bisognerà aspettare circa venti anni per arrivare ad ascoltare qualcosa che fosse una trasmissione d'intrattenimento, fatta per un pubblico di ascoltatori, un programma vero e proprio, come quelli che siamo abituati ad ascoltare ai giorni nostri. L'oggetto radiofonico è cambiato parallelamente al suo diverso uso ed alla crescente popolarità del mezzo. E si è aggiornato seguendo i tempi e le mode. Le prime radio erano degli oggetti meccanici che avevano poco fascino ma erano perfette per l'uso che se ne faceva nei primi anni del Novecento. La radio in origine altro non era che un "wireless telegraph", un telegrafo senza fili per comunicazioni da punto a punto, lì dove le linee telegrafiche non erano utilizzabili o affidabili. Il passo seguente fu quello di una trasmissione da una fonte simultaneamente a molti riceventi, usando il linguaggio Morse, e le macchine, pur modificandosi e migliorando, non furono molto diverse nell'aspetto. Erano macchine, erano utili per comunicare, non erano ancora strumenti di divertimento o intrattenimento popolare. Tutto cambiò con l'introduzione delle valvole elettroniche, che potevano essere usate in circuiti elettrici che rendevano i ricevitori radiofonici e agli amplificatori centinaia di volte più potenti e che potevano essere utilizzati per costruire dei trasmettitori più compatti ed efficienti. In pochi anni arrivarono sul mercato le prime vere e proprie radio, degli oggetti di legno, abbastanza grandi all'inizio, poi di dimensioni sempre più contenute. Oggetti eleganti, perché dovevano occupare un posto importante nelle case dei pochi fortunati che ne possedevano una, oggetti che avevano un design raffinato e che erano di facile uso. Tra gli anni venti e trenta la radio attraversa un clamoroso periodo di “boom”, entra nelle case di milioni di persone in tutto il mondo e la scatola magica dalla quale escono voci, suoni e rumori, diventa sempre più piccola, meno costosa e di maggiore qualità. Le dimensioni si riducono anche perché la radio, visti i costi in discesa e la sua ampia diffusione, non è più confinata nelle stanze delle case di ricchi signori, ma inizia a entrare in quelle di tutta la popolazione. L'oggetto diventa prodotto in serie, la stessa radio, lo stesso oggetto, è replicato in copie numerose e assume dimensioni da tavolo, più piccola e compatta. Tra gli anni trenta e quaranta l'oggetto radiofonico viene declinato in mille modi diversi, in modelli tra loro molto differenti, da quelli piccoli e compatti a veri e propri mobili in grado di occupare il posto d'onore nel salotto buono, dai grandi cassoni privi di forme ai piccoli oggetti di design, firmati anche, in alcuni casi, da veri e propri artisti. Quando alla fine degli anni Quaranta arriva la radio a transistor tutto cambia nuovamente: la radio non è più un oggetto casalingo, ma un modernissimo e portatile strumento in grado di seguirci durante tutto il giorno. Le piccole radioline a transistor conquistano i cuori degli ascoltatori degli anni Cinquanta, entrano nelle tasche, sono comode e leggere, permettono di ascoltare musica e notizie ovunque. La portatilità non è soltanto una rivoluzione tecnologia, ma il motore di una clamorosa rivoluzione culturale, attraverso la quale la radio conquista il ruolo centrale all'interno dell'universo dell'informazione che ha conservato fino ad oggi. Le radio perdono anche l'ultimo pizzico di seriosa importanza che avevano fino ad allora conservato, escono dalle case e dal controllo dei capifamiglia e diventano di plastica, si colorano di rosso, di giallo, di verde, diventano un oggetto dal costo bassissimo, perfetto per tutte le tasche e soprattutto per quelle dei giovanissimi, che eleggono la radio come strumento di comunicazione principale, come mezzo di divertimento e di svago, come piccolo simbolo generazionale, da mettere accanto ai dischi, ai jeans e al rock'n'roll. E gli adulti? Beh, di certo non vengono tagliati fuori dall'evoluzione della radio, anzi, l'avvento dell'alta fedeltà, intesa come una migliore esperienza di ascolto, porta alla nascita di apparecchi radiofonici costosi e più sofisticati, con amplificatori più potenti, filtri, e circuiti elettrici meno rumorosi, in grado di far ascoltare i suoni della radio in maniera più fedele all'originale. Se le piccole radio a transistor che si sentono piuttosto male catturano i cuori dei giovanissimi, le radio da salotto, comprensive di giradischi, degli anni Sessanta conquistano i genitori e gli appassionati di musica, che vogliono ascoltare sempre meglio la musica. Se a questo si aggiunge che i dischi, rigorosamente monofonici, cominciano ad essere stereo, si comprende come la qualità delle trasmissioni radio fosse destinata a migliorare costantemente. I ricevitori radiofonici diventano degli “elementi” dell'impianto stereo, perdono la forma tradizionale della radio per diventare “pezzi” di un insieme sonoro più ricco e complesso. Per la radio la chiave di volta per conquistare sempre di più il pubblico resta la portatilità. Ed ecco allora arrivare le autoradio, delle macchine che inizialmente garantivano un ascolto abbastanza limitato ma che in brevissimo tempo, complice il miglioramento delle trasmissioni e della copertura del territorio da parte delle emittenti, diventano un oggetto desiderato da ogni automobilista del mondo. Le autoradio si diffondono lentamente, a causa dei costi molto elevati dei ricevitori, ma con il passare degli anni diventano un accessorio di serie in tutte le macchine. Quando le trasmissioni in fm vengono “liberate” e nascono le radio private per l'oggetto radio inizia una nuova vita: la stereofonia si diffonde ovunque e le emittenti si moltiplicano come i funghi. Negli anni Ottanta, con l'avvento del walkman, anche la radio si adegua alla nuova moda, diventa sempre più piccola, elimina l'ascolto “aperto” in favore delle piccole cuffiette, si nasconde in mille altri oggetti, diventa radiosveglia, si fa piccina piccina e entra negli orologi, oppure cresce per diventare un ghetto blaster di grandi dimensioni. Insomma, non c'è più una radio ma mille oggetti che trasmettono musica e parole sulle frequenze preferite. E tra breve non ci sarà più nemmeno l'oggetto in se: già oggi è così, con le radio satellitari, che arrivano nelle nostre case dai ricevitori delle tv digitali, o con le radio internet, che non hanno bisogno nemmeno di un ricevitore e sono nascoste tra le pieghe del web, o con quelle che sono nelle nostre tasche all'interno del telefono cellulare o del lettore mp3. Insomma mentre il segnale della radio ha ampiamente superato i cento anni e gode di ottima salute, l'oggetto radiofonico sembra sempre di più destinato a sparire, a diventare una funzione di altri oggetti, a mescolarsi ad altri suoni, ad altre voci, restando sempre, straordinariamente, presente. La radio, nel nuovo mondo digitale, è un modo di organizzare contenuti, non più un modo di trasmetterli e riceverli, cosa che potremmo dire allo stesso modo dei giornali, o dei dischi, che perdendo fisicità hanno perso la forma comprensibile alla quale eravamo abituati. La radio, però, ha un vantaggio, è straordinariamente “contemporanea”, perché è per sua natura portatile, on demand, personalizzabile, si adatta con estrema facilità al nuovo mondo e alle nuove regole. E ha ancora uno splendido futuro davanti a sé.
INCHIESTA SUL CINEMA. DOVE SONO I SOLDI DELLE STAR?
Inchiesta sul cinema: "I soldi delle star finiti in un buco nero". Roma, compensi mai pagati dall'ente Imaie. La battaglia della cooperativa di Elio Germano. Nel mirino il nuovo cda dell'istituto. L'ipotesi è abuso d'ufficio. Cento milioni in ballo, scrive Conchita Sannino il 9 dicembre 2015 su “La Repubblica”. Fosse un film, sarebbe un legal thriller ambientato tra salotti romani, politica e spettacolo. E scorrerebbe sui volti di un cast affascinante: Elio Germano, Valeria Golino, Neri Marcoré, Michele Riondino, Claudio Santamaria e altri, capitanati dalla collega Cinzia Mascoli. Peccato che attori di rango, allenati ai ruoli scomodi e nella vita inclini all'impegno, qui non recitino: raccontano invece un pezzo di zona grigia, una battaglia per il riconoscimento di tutele e compensi, i cosiddetti "diritti connessi" ai passaggi di opere cinematografiche, musicali o audiovisive su network radio e tv (Rai, Mediaset, Sky, La 7). Una storia vera, con fiumi di denaro. E con un titolo ostico: che fine ha fatto la massa di fondi mai distribuiti dal vecchio Imaie, l'ex istituto mutualistico, alla folla di artisti interpreti ed esecutori che ne avevano diritto? Quasi cento milioni: in un cantuccio da anni. Perché? È la domanda a cui ora un'inchiesta della Procura di Roma sui vertici del nuovo Imaie proverà a rispondere. Misteri che hanno spinto questi artisti, caduto l'opaco monopolio del vecchio Imaie, a costituirsi in una società di distribuzione dei profitti, la Artisti 7607, guidata dalla Mascoli. I riflettori si riaccendono così sulla vicenda che qualcuno voleva sepolta. Ed è rabbia per quello che Marcoré chiama "un triste garbuglio", che Germano indica come "una storia piena di zone d'ombra", e che la Mascoli definisce "una commedia italiana che non fa ridere", sebbene per questa definizione sia stato chiesto loro un risarcimento di mezzo milione. Perché quel tesoro è rimasto lì congelato? Per quale scopo o convenienze si è consumato un abuso? Tra le motivazioni, una grottesca: non si trovavano i destinatari da pagare. Intanto dilagavano sprechi, assunzioni clientelari, truffe. E ancora: come mai i commissari liquidatori di oggi (3 milioni di parcelle, in tutto) hanno affidato alla stessa struttura operativa del vecchio Imaie il compito di ricalcolare le quote degli artisti, considerata l'incapacità del passato? L'inchiesta penale è in mano al pm Paolo D'Ovidio, indaga la Gdf. Tra gli indagati, i commissari liquidatori Giovanni Galloppi, Enrico Laghi e Giuseppe Tepedino. E il nuovo cda: Sabino Mogavero, Andrea Marco Ricci, Silvano Picardi, Franco Trevisi, con il presidente, l'avvocato Andrea Micciché (in lieve conflitto d'interesse, essendo anche stimato consulente di Emi, Raitrade e Fox Italia). L'ipotesi: abuso d'ufficio. Tra i primi ad essere sentiti, il professor Laghi, assistito dall'avvocato Carlo Longari. Il quale, interpellato, non ha tempo: "Nessuna opacità, siamo sereni". Sarcasmo: "Hanno costretto gli attori a ragionare, incredibile ", accusa Elio Germano, l'attore pluripremiato in versione capelli rasati, dal set francese dove veste i panni di Francesco d'Assisi. "E poiché quello che scoprivamo sul sistema Imaie non ci piaceva per niente, appena c'è stata la liberalizzazione, ci siamo organizzati senza intermediazioni: per distribuire con trasparenza ed efficienza". Risorse e criteri che ormai vedono radicalizzarsi lo scontro. Da un lato il nuovo Imaie nato nel 2010 dalle ceneri del vecchio, estinto dal prefetto di Roma per "incapacità gestionale " un anno prima e messo in liquidazione. Dall'altro, appunto, la 7607, ormai sotto attacco con sei contenziosi. L'ultimo duello ha visto prevalere il nuovo Imaie. "Ma non è vero che ci hanno bloccato 3 milioni - sostiene la Mascoli - la controparte ha ottenuto una inibitoria per quei soldi che restano da distribuire della cosiddetta copia privata 2012-2013, somme di molto inferiori, su cui abbiamo promosso reclamo. E ci auguriamo che i giudici esamineranno accuratamente gli atti". Un Marcoré affilato aggiunge: "A peggiorare tutto, ci si è messo il decreto 2014 che invece di riordinare la materia, ha interrotto la liberalizzazione, assegnando singolari vantaggi all'ex monopolista Imaie". Anche Santamaria va giù duro: "Abbiamo registrato conflitti di interessi, anomalie, è bene se ne occupino i pm". Prossima udienza al civile, tra due giorni. E intanto si apre il nuovo filone, nella Procura guidata da Giuseppe Pignatone. Mentre quelli di 7607 non mollano, neanche di fronte a condizionamenti e "ricatti" sui set. Tenacia. Germano e Marcoré: "In questo clima avvelenato, ci sono pressioni e boicottaggi: con l'obiettivo di penalizzare, nelle produzioni, gli attori iscritti alla nostra cooperativa". Cinzia Mascoli: "Può sembrare noioso, ma se fosse un film, gli spettatori, vi assicuro, starebbero con noi". Un cast di livello, e un legal thriller non indolore.
PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?
La domanda è sorta spontanea al dr Antonio Giangrande che sulla vicenda di Avetrana ha scritto il libro ed il sequel “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana, Il resoconto di un Avetranese”. Questione importante, quella sollevata da Antonio Giangrande, in quanto se fondata, mette in una luce diversa il rapporto tra la stessa dr.ssa Bruzzone e Michele Misseri, suo accusatore.
Veniamo alla notizia censurata dai media.
La criminologa Roberta Bruzzone vittima di stalking, si legge su “ net1news” dal 12 gennaio 2015. “La criminologa e psicologa Roberta Bruzzone ha denunciato il suo ex fidanzato per stalking. Proprio grazie alla sua professione, la donna si è spesso occupata di vittime di molestie e persecuzioni e mai forse avrebbe pensato di vivere tutta quell’angoscia in prima persona. Roberta Bruzzone che conduce una trasmissione sul canale tematico del digitale terrestre “real time” è ormai un volto noto essendo spesso ospite nei salotti televisivi in qualità di esperta della materia. La donna è però entrata a far parte della folta schiera di vittime di molestie. A perseguitarla, l’ex fidanzato, appartenente alle forze dell’ordine che dopo una relazione durata cinque anni, chiusasi nel 2008 ha cominciato a tormentarla. Telefonate, sms, ma anche pedinamenti e agguati veri e propri: “E’ arrivato a puntarmi una pistola alla tempia – ha confessato la criminologa – è pericoloso”. La Bruzzone ha denunciato il suo ex per ben sette volte. L’uomo ha anche diffuso calunnie sul suo conto via internet. Ora pare le cose vadano meglio. Sulla questione ci sono degli aggiornamenti. A riferirle a Net1 News tramite raccomandata sono i legali dell’interessato, secondo cui la dottoressa Bruzzone per le sue dichiarazioni ai media è stata rinviata a giudizio per diffamazione aggravata: la prima udienza del processo è stata fissata per quest’anno. Al processo, sempre secondo quanto riferisce la raccomandata ricevuta, si costituiranno parte civile alcune associazioni a tutela delle donne.”
A quanto pare l’interessato, che sembra abbia presentato varie controquerele, si lamenta del fatto che il perseguitato è proprio lui e che ciò sia fatto per screditarlo dal punto di vista professionale, perché entrambi i soggetti svolgono la stessa professione, anche con comparsate in tv.
Visionando l’atto pubblico si anticipa già che il processo a carico della Bruzzone avrà vita breve. Non perché non sia fondata l’accusa, la cui fondatezza non mi attiene rilevare, ma per una questione tecnica. I tempi adottati per la fissazione della prima udienza e il fatto che vi è un errore di procedura da parte del Pm (non si è rilevato il possibile reato di calunnia continuato e comunque il reato di atti persecutori, stalking, e quindi si è saltata la fase dell’udienza preliminare) mi porta a pensare che la prescrizione sarà l’ordinario esito della vicenda italica. Comunque un Decreto di Citazione a Giudizio diretto presso un Tribunale Monocratico contiene già di per se il seme del dubbio sul carattere della persona incriminata. Sospetto insinuato proprio da un magistrato e per questo credibile, salvo enunciazione di assoluzione postuma.
A me non interessa la vicenda in sé. Sarà la magistratura, senza condizionamenti, a decidere quale sia la verità. E sarà, comunque, la persona offesa dalla diffamazione in oggetto a dire la sua anche sul comportamento di alcuni organi di stampa citati in querela. Il professionista, noto perché svolge la stessa professione della Bruzzone, non cerca pubblicità, anche se, per amor di verità, è citatissimo sul blog di Roberta Bruzzone. In questa sede una cosa, però, mi preme rilevare. Dove sono tutti quei giornalisti che per la Bruzzone si stracciano le vesti, riportando a piè sospinto su tutti i media ogni sua iniziativa, mentre questa notizia del suo rinvio a giudizio non è stata ripresa da alcuno? Che ciò possa inclinare la sua credibilità e minare l’assunto per il quale Michele Misseri non abbia avuto alcun condizionamento nell’accusare la figlia Sabrina?
Oltre tutto la dr.ssa Bruzzone non ha gli stessi trattamenti di riguardo in Fori giudiziari che non siano Taranto.
A scanso di facili querele si spiega il termine “di riguardo” usato, riportandoci alle dichiarazioni del 19 marzo 2013 fatte dall’avv. di Sabrina Misseri, Franco Coppi: «Come si può definire priva di riscontri la confessione di un uomo che fa trovare il cadavere e il telefonino della vittima?», ha detto ancora Coppi. «Le motivazioni della successiva ritrattazione - ha aggiunto - rivalutano la confessione di Misseri come unica verità. La confessione del 6 ottobre 2010 spiazza i pubblici ministeri che già si erano affezionati alla pista che porta a Sabrina Misseri. Mi chiedo se quel metodo di indagine non sia contrario allo spirito del codice di procedura penale. I mutamenti di versione da parte di Michele avvengono quasi sempre dopo sospensioni di interrogatorio e su richiesta del difensore, anche con qualche aiuto involontario di quest'ultimo». Esempio, ha detto Coppi, l'interrogatorio in carcere di Michele Misseri del 5 novembre 2010, in cui l'agricoltore accusa la figlia Sabrina del delitto, e «al quale non si comprende a quale titolo partecipa la criminologa Roberta Bruzzone quale consulente di parte». «Michele è scaltro - ha aggiunto - e coglie l'occasione per accusare la figlia. C'è stata un'opera di persuasione efficace nei suoi confronti. E poi perché non dice nulla su quello che per gli inquirenti sarebbe il vero movente dell'omicidio, non dice nulla sull'arrivo di Mariangela, sulla moglie, e non basta dire, come fanno i pubblici ministeri, che lui non sapeva nulla perché non era in casa al momento del delitto».
Ecco, quindi, che a proposito dei diversi trattamenti riservati a Roberta Bruzzone si cita Savona. A Savona il tanto atteso colpo a sorpresa della parte civile non è arrivato, scrive “Il Secolo XIX”. Anzi. L’irruzione nel processo per il delitto di Stella della notissima criminologa genovese Roberta Bruzzone, è stato bloccato sul nascere dal giudice delle udienze preliminari Emilio Fois che ha respinto l’istanza del legale di Andrea Macciò, ucciso con un colpo di fucile al cuore il 13 dicembre 2013 da Claudio Tognini, di un incidente probatorio per la verifica dello stato dei luoghi dove si è consumato il dramma. L’obiettivo della parte civile sarebbe stato quello di cercare tracce ematiche nella cucina di Alessio Scardino, il proprietario del fucile che ha sparato e dell’alloggio, per arrivare ad una nuova ricostruzione dei fatti. Se il pubblico ministero Chiara Venturi non si è opposta alla richiesta, ci ha pensato il giudice a rigettarla.
Vittima di stalking denuncia la criminologa Bruzzone. Marzia Schenetti, parte offesa a processo contro l'ex fidanzato, si è sentita diffamata da una lettera della nota criminologa ora agli atti della causa di Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Due donne contro, di cui una a dir poco famosa visto che è spesso ospite di Bruno Vespa nel suo programma televisivo “Porta a porta”. Stiamo parlando della criminologa 41enne Roberta Bruzzone che, a partire da febbraio, dovrà affrontare un processo (davanti al giudice di pace) per diffamazione, visto che è stata denunciata dall’imprenditrice toanese 48enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l’ex fidanzato Rodolfo “Rudy” Marconi che accusa di stalking. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell’udienza del 17 maggio 2013 che “esplode” questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all’Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E’ in quest’ambito che fra le due nascono delle frizioni, talmente poco edificanti da finire a carte bollate. In questo clima avvelenato “piomba” – nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking – una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo il capo d’imputazione in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano che viene definita “soggetto alquanto discutibile che ha mostrato, in una serie innumerevole di occasioni, la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze al solo scopo di danneggiare le persone verso cui nutre rancore”. Giudizi sulla Schenetti che diventano vere e proprie rasoiate: “Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato e complesso come la violenza sulle donne e sui minori, persona con problematiche personologiche incline a distorcere e mistificare la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettative di fama, successo e arricchimento personale o che, come nel caso della scrivente – rimarca la criminologa – avevano la colpa di metterla in secondo piano». Con l’ultimo deciso affondo: “Persone come la Schenetti rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza e che il Marconi è stato raggiunto da una serie di false accuse, costruite a tavolino allo scopo di poter permettere alla presunta vittima di sfruttare biecamente la sua condizione ed ottenere così visibilità mediatica”. La Schenetti, tramite l’avvocatessa Enrica Sassi, ha denunciato per diffamazione la criminologa e di recente il giudice di pace ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, fissando le date del processo. «In realtà la diffamata sono io – replica la nota criminologa – e ho denunciato la Schenetti in procura a Roma. Testimonierò nel processo e, atti alla mano, spiegherò come stanno veramente le cose. Quella lettera è il mio pensiero e ritengo di avere agito in buona fede».
La criminologa tv finisce a processo. Roberta Bruzzone imputata per diffamazione. Tra i testimoni anche il generale Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Lei: «La vera vittima sono io» di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. Dalle poltrone bianche di Bruno Vespa, alle aule del tribunale di Reggio. Roberta Bruzzone, 41 anni, la fascinosa criminologa forense, si trova ora catapultata nella prospettiva opposta: imputata per diffamazione nei confronti di una reggiana, presunta vittima di stalking. Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking, e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi, poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. Per questo è accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone — si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due donne, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Nella missiva, infatti, il personaggio tv ribadiva come la parte civile di quel processo fosse «incline a distorcere la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettavate di fama, successo e arricchimento personale». Non solo. Avrebbe anche aggiunto, nero su bianco, che i soggetti come lei «rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza». L’ipotesi di reato, dunque, è diffamazione. Il giudice di pace, mercoledì, ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, Emanuele Florindi, e ha fissato le date delle prossime udienze: 4, 11, 18 e 25 febbraio. Tra i testimoni della parte offesa, c’è poi un altro personaggio di spicco: il generale in congedo Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Ma la Bruzzone, combattiva più che mai, si difende: «Si tratta di un ricorso diretto al giudice di pace che non ha avuto nemmeno il vaglio del pm — incalza —. Lei mi accusa in maniera falsa e infondata ed è stata a sua volta querelata da me. Quella lettera era stata mandata in virtù di consulente esperta, chiamata dal suo avvocato. Da sempre porto avanti una battaglia contro le finte vittime di stalking e questo mi pare uno di quei casi». Promette, anche, che arriverà qui, a spiegare le sue ragioni: «Io verrò a Reggio e sarò sottoposta a esame, come ho richiesto: intendo dimostrare a tutti chi è questa donna: una persona a caccia di visibilità, che non ha ottenuto in altro modi». Una prima udienza davanti al giudice di pace di Reggio Emilia piena di tensioni, perché la nota criminologa 42enne Roberta Bruzzone ha subito inteso replicare per le rime all’accusa per diffamazione mossagli dall’imprenditrice toanese 49enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l'ex fidanzato Rodolfo "Rudy" Marconi che accusa di stalking, scrive Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell'udienza del 17 maggio 2013 che "esplode" questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all'Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E' in quest'ambito che fra le due nascono delle frizioni, poi "piomba" - nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking - una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo la procura in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano, da qui la denuncia ora sfociata nel processo. Ieri la criminologa ha dato battaglia solo davanti ai cronisti (verrà sentita in aula più avanti): «La Schenetti ha un problema di visibilità – dice la Bruzzone – che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile e io non mi fermerò davanti a niente, procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei. Io non credo che sia una vittima e continuerò a ripeterlo in ogni sede». L'imprenditrice – costituitesi parte civile tramite l’avvocatessa Enrica Sassi – è sta sentita in udienza: «Per me quella lettera fu una violenza tremenda, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me». Tanti i nervi scoperti e siamo solo alla prima “puntata”...
Tacchi alti, vestita di nero, trucco impeccabile e capello fluente, scrive di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. È iniziato così, non senza momenti di tensione e brusii di chi la vedeva nei corridoi, il processo per diffamazione che vede imputata Roberta Bruzzone, 42 anni, la fascinosa criminologa forense habituée delle poltrone bianche di Bruno Vespa, a Porta a Porta. Ad accusarla è una donna reggiana, presunta vittima di persecuzioni (non ne riveliamo l’identità per proteggere la sua privacy). Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi (l’imputato), poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. La Bruzzone è dunque accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone – si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi (che rappresenta la parte offesa) e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Ieri la prima udienza, davanti al giudice di pace, con la testimonianza della presunta vittima. «Quella lettera per me fu una violenza tremenda – ha detto –. Non fu altro che un insieme di diffamazioni e calunnie, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Mi sono sentita colpita da una donna che si intrometteva con violenza in un procedimento di violenza che io stessa avevo subito». E ha aggiunto: «Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me. Ci siamo sentite una volta al telefono quando è entrata nell’associazione di cui io sono presidente e la Bruzzone mi ha detto di essere stata anche lei vittima di stalking. Io invece non le ho mai parlato della mia vicenda personale. Avrei voluto, ma non ne ho avuto il tempo. Poi ci siamo viste una volta a luglio del 2012 a Sinai (in provincia di Cagliari) durante un’iniziativa contro la violenza alle donne, in cui lei ha colto l’occasione per presentare il suo libro, senza citare la nostra associazione. Al termine del convegno le abbiamo chiesto di uscirne e lei lo ha fatto il giorno dopo». La Bruzzone, però, non ci sta. E a margine dell’udienza, chiosa: «Quella donna ha un problema di visibilità che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile. Io non mi fermerò davanti a niente e procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa che dirà contro di me. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei». Tutto rimandato alla settimana prossima, per i testimoni di parte civile.
Prossimamente scopriremo che credibilità ha Roberta Bruzzone, finta vittima di stalking che presto verrà processata... e non solo perché denunciata da un ufficiale di Polizia, scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando Contro Vento”. Non ho mai amato i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure amo quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire. Per questo preferisco contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa. Come me tanti altri si formano una propria idea in maniera autonoma, senza ascoltare i vari gossippari che si mostrano in video per convenienza professionale... quando non hanno un contratto a pagamento. Ma non tutti resistono alla tentazione, per cui c'è chi questi programmi li guarda. Addirittura c'è anche chi li ascolta e si infastidisce per le parole che sente. Ad esempio, giorni fa mi hanno informato di alcune frasi pronunciate in maniera troppo leggera e spensierata nella puntata di Porta a Porta trasmessa martedì 20 gennaio 2015. A pronunciarle il magistrato Simonetta Matone. Simonetta Matone in televisione non va con la toga da magistrato. Per cui figura essere un'opinionista con molta esperienza giuridica. Lei martedì 20 gennaio, forse non pensando al dopo, ha paragonato i gruppi facebook creati a favore degli imputati ai fanatici che inneggiano e osannano i terroristi, nel caso specifico a chi ha ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo e tanti altri francesi. Quella parte della puntata trattava l'omicidio di Loris Stival, quindi i gruppi a cui si riferiva sono certamente quelli che sostengono "Veronica Panarello". Non contenta, ha reiterato il reato verbale facendo credere ai telespettatori che chi aderisce ai gruppi innocentisti e critica le indagini, su internet scrive a vanvera e senza sapere nulla perché degli atti non ha letto neppure una riga. Probabile che non se ne sia resa conto, ma ha praticamente affermato che nessuno ha il diritto di criticare i magistrati perché questi sono "unici, bravi belli e infallibili". Ora c'è da dire che, pur essendosi ritagliata un'enorme visibilità mediatica partecipando da tanti anni al programma presentato da Bruno Vespa, nella vita privata è un magistrato che lavora al ministero di Grazia e Giustizia. E dai dati si capisce il probabile motivo per cui difende i magistrati. Ma c'è anche da dire che in questi anni trascorsi di fronte alle telecamere, lei prima di tutti ha dato giudizi senza aver letto neppure una riga, seppur cercando di restare neutrale chiarendo ogni volta il punto, sui casi di cronaca nera trattati da Porta a Porta. E fa specie che si permetta di giudicare in pubblico chi ha democraticamente il suo stesso diritto di parlare ed esternare la propria idea. La speranza è che a mente fredda abbia compreso di avere un tantino esagerato e magari chieda scusa a chi non è d'accordo col pensiero di alcuni magistrati, a chi si è sentito chiamato in causa anche se critica in maniera civile e dopo essersi informato al meglio (naturalmente non deve scuse a chi i magistrati li offende). Questo perché non tutti i magistrati sono infallibili. D'altronde le richieste di risarcimento a causa di errori giudiziari, in Italia sono quasi tremila ogni anno, stanno a dimostrare la non infallibilità della giustizia. In ogni caso, a parte la svista di cui sopra, le opinioni di Simonetta Matone si possono accettare perché ha un passato davvero encomiabile e in materia giuridica è senz'altro molto ferrata. Meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai? Su quest'ultimo punto vedremo se sarà dello stesso avviso dopo i diversi processi che la attendono da qui in avanti. Ad esempio, il 15 dicembre 2015 dovrà presentarsi al tribunale di Tivoli per rispondere del reato previsto dall'articolo 595 - comma tre - del codice penale per aver messo in atto, con più azioni consecutive, un disegno criminoso fatto di calunnie e offese atte a colpire un ufficiale di Polizia. Udienza conclusa con un decreto di citazione diretta in giudizio di fronte al giudice monocratico di Tivoli il giorno 3 ottobre 2016. Proc. N. 5860/2011 RGNT mod. 21. Infatti le accuse di stalking presentate dalla Bruzzone contro un ufficiale di Polizia col quale aveva avuto una relazione fra il 2004 e il 2005, addirittura una ventina di denunce dal 2009 al 2014, si sono rivelate tutte infondate. Mentre le interviste rilasciate sulla vicenda dalla opinionista di Porta a Porta, in cui non lesinava particolari sul comportamento malato, parole sue, di chi la perseguitava (ma ora grazie ai magistrati sappiamo che nessuno in realtà la perseguitava), sono tuttora impresse negli archivi delle testate giornalistiche nazionali (Corriere della Sera in primis), su internet e in televisione, sulle registrazioni di Porta a Porta e di Uno Mattina. Insomma, chi la fa l'aspetti - verrebbe da pensare - perché la vita a volte può riservare sorprese. E la Bruzzone di sorprese ne avrà una in più, perché, dato che è ambasciatrice di Telefono Rosa, un'associazione che aiuta le donne vittime di violenza, e viste le denunce per stalking da lei presentate e rivelatesi infondate, in tribunale si troverà di fronte anche alcune associazioni in difesa della donna che hanno deciso di costituirsi parte civile perché "l'utilizzo strumentale" della denuncia per un reato grave come lo stalking contribuisce a rendere meno credibili le donne che subiscono realmente una violenza. Ma non è l'unica bega che la Bruzzone dovrà affrontare in tribunale, visto che è indagata anche dalla Procura di Reggio Emilia per un reato simile ( così come su riportato da di Benedetta Salsi su “Il resto del Carlino” e Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. La moglie di un vero stalker, oggi ancora nei guai perché accusato di truffa da un'altra sua ex, si è sentita descrivere dalla Bruzzone quale finta vittima incline a distorcere la realtà (in pratica ha difeso lo stalker poi condannato). In questo caso le date del processo sono ancora più vicine nel tempo (le udienze sono fissate per il 4 - 11 - 18 e 25 febbraio 2015). Altra bega, che risale al 2012 e che presto verrà dipanata dai giudici, è una citazione civile che riguarda lei ed alcuni suoi collaboratori (promossa dall’associazione Donne per la Sicurezza. Lei e loro su Facebook, con frasi razziste, (secondo quanto riporta il sito dell’associazione: “Mmmmm.. quanto costa affittare una russa per fare qualche foto e far finta di avere una vita ???? troppo divertenteeeee…” oppure ““ ..ci vuole stomaco per stare con un pezzo di merda così anche se solo per sghei e solo per 5 minuti…STRANO MA VEROOO”), hanno insultato per lungo tempo sia la modella di origine russa Natalia Murashkina, moglie del poliziotto che nel contempo la Bruzzone denunciava ingiustamente, sia le ragazze russe trattate come donne che si vendono a poco prezzo. Di questa vicenda si interessò alla fine del 2012 anche "La Pravda", un giornale russo letto da oltre cento milioni di persone. Senza parlare delle accuse mosse contro di lei da Michele Misseri, che afferma di essere stato convinto dalla Bruzzone ad inserire nel delitto di Sarah Scazzi la figlia Sabrina (con prospettive davvero vantaggiose), affermazioni che se provate le costerebbero una condanna rilevante e la carriera, ciò che ancora nessuno ha capito, e immagino che al tribunale di Tivoli si cercherà anche di chiarire questo punto, è il motivo per cui la Bruzzone abbia innestato un movimento di denunce rivelatesi infondate condite da interviste mediaticamente rilevanti ma alla luce dei fatti false. O tutti ce l'hanno con lei, e francamente è difficile da credere, o è lei ad avere motivi che l'hanno spinta a screditare l'ufficiale di polizia e le altre persone. Che dietro ci sia qualcosa di importante? Su questo punto troviamo il dato certo che il poliziotto da lei accusato, nel 2009 - anno delle prime denunce di stalking - aveva avviato una campagna politico-sindacale per ridurre gli sprechi della pubblica amministrazione. In pratica, aveva proposto di far acquistare i prodotti per le investigazioni scientifiche (alle forze di polizia) direttamente in America risparmiando così milioni di dollari di tasse e, soprattutto, di spese di mediazione ad aziende di import export.
Questo è l’articolo di riferimento. Csi all'italiana: paghiamo il doppio degli altri la polvere per le impronte digitali. La denuncia del sindacato di polizia: la Scientifica è costretta a risparmiare sulle indagini. La colpa è dei mediatori che fanno raddoppiare il costo delle attrezzature made in Usa, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Ci vuole preparazione scientifica, occhio addestrato, pazienza: ma l'analisi scientifica della scena di un crimine si basa anche sull'utilizzo di materiale tecnico avanzato e costoso. Chi non è rimasto allibito nel vedere in televisione la prontezza con cui i tecnici della Csi, la polizia scientifica statunitense, sfoderano ogni genere di diavolerie hit-tech? Non che le forze di polizia italiane abbiano granchè da invidiare a quelle a stelle e strisce, quanto a preparazione. Ma l'abbondanza di mezzi è una delle caratteristiche che, in questo e in altri campi, ci separa irrimediabilmente dall'America. E, secondo la denuncia del sindacato di polizia Consap, la situazione negli ultimi tempi si è ulteriormente aggravata. La carenza di mezzi è diventata cronica, al punto che spesso e volentieri - in particolare sulla scena di reati considerati «minori», come i furti in appartamento - la polizia evita di compiere tutti i rilievi necessari perchè l'ordine è quello di risparmiare su tutto: compresa la polverina necessaria a rilevare le impronte digitali. Colpa della crisi economica, sicuramente. Ma anche di una anomalia tutta italiana: la polvere per le impronte è di produzione Usa, tutte le polizie la comprano direttamente dai produttori oltreoceano, mentre la polizia italiana passa - chissà perchè - attraverso una società di mediazione. Il risultato, sostiene il Consap, è che paghiamo il prodotto il doppio degli altri. «Prodotti, come ad esempio le polveri per rilevare le impronte digitali o il famoso luminol per la ricerca del sangue umano, hanno costi abbastanza elevati e vengono prodotti da poche ditte al mondo. In particolare la Polizia di Stato e le altre forze di polizia italiane utilizzano in larga parte prodotti della Sirchie, azienda americana leader del mercato per qualità e affidabilità dei materiali commercializzati. In questo periodo di profonda crisi economica, i tagli di bilancio, oltre che a congelare gli stipendi dei poliziotti, stanno riducendo la possibilità di acquisire una quantità sufficiente di tali sostanze e di fatto i reparti specializzati di investigazioni scientifiche devono limitare il loro impiego solo ai casi più eclatanti, in pratica solo gli omicidi e qualche rapina. Sempre più spesso i cittadini che hanno subito reati definiti minori, come furti, danneggiamenti, non ricevono un intervento adeguato da parte degli investigatori che non dispongono di attrezzature sufficienti e che spesso sopperiscono, per amor proprio, con materiali acquistati di tasca loro o con mezzi di fortuna che poi spesso vengono contestati in sede di processo. La Consap, che da più di un anno sta monitorando e analizzando questo problema, ha potuto constatare che i prodotti per criminalistica non vengono acquistati dall'Amministrazione direttamente dall'azienda produttrice ma da una ditta concessionaria italiana. In pratica la Polizia di Stato paga i materiali da utilizzare sulla scena del crimine circa il doppio del loro prezzo di catalogo. Il problema è stato da tempo posto all'attenzione degli esperti di settore e di alcuni politici. E si è subito avuta la sensazione di aver toccato degli interessi economici rilevanti». Uno «spreco ingiustificato, che si ripercuote in maniera drammatica sulla sicurezza e sulla possibilità di ottenere giustizia da parte del cittadino».
E ciò che pare strano, è che la Bruzzone collabora con le aziende che controllano la maggioranza delle forniture di prodotti alle forze di polizia (la Sirchie e la Raset). C'è da chiedersi se non voglia dire nulla la sua presenza nel video pubblicitario presente sulla pagina "Chi siamo" del sito internet della Sirchie.
In seguito a questo articolo ci sono stati degli sviluppi.
"Alla dottoressa Roberta Bruzzone non piace la critica e con una strana Diffida mi inviata a pagarle 250.000 euro e a darle il nome di chi mi informa..., - scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando-Controvento”. . E' capitato anche a me. Come altri in questi anni anch'io ho ricevuto la Diffida dalla dottoressa Roberta Bruzzone. Una diffida strana in cui mi invita a pagarle - inviandoli allo studio del suo avvocato – ben 250.000 euro quale risarcimento per i gravissimi danni di immagine provocati da ciò che ho scritto in un articolo, in questo articolo, in cui, visto quanto aveva affermato a Porta a Porta, l'ho criticata. Articolo che ho completato con le notizie su una serie di processi in cui dovrà difendersi. Alla fine, dopo aver notato alcune stranezze, ho anche posto una domanda lecita che si sarebbe sciolta in acqua con una semplice e veloce risposta plausibile. Invece mi è arrivata una diffida. Strana. Ora, prima di entrare nel dettaglio e contestare pubblicamente tutte le parole del legale della Bruzzone, voglio premettere che la nostra legge è chiara e che per fare una diffida ci vogliono motivi validi. Motivi che non esistono se chi informa scrive notizie vere usando parole non offensive senza entrare nella sfera privata del personaggio di cui parla. Quindi, per quanto riguarda il diritto di cronaca si devono usare certe accortezze e ci si deve informare in maniera esaustiva. Qualcosa cambia quando chi scrive esercita il diritto di critica. Naturalmente non si può criticare un pinco pallino qualunque in un articolo destinato a più persone, specialmente se il pinco pallino a livello nazionale non lo conosce nessuno e vive e agisce in un ambiente ristretto. Al contrario, però, si può criticare quanto dice chi nel tempo è diventato un personaggio pubblico e in pubblico, o in programmi seguiti da milioni di telespettatori, esprime proprie opinioni e concetti. Concetti e opinioni che non tutti debbono per forza condividere e proprio per questo si possono criticare, perché - come ha stabilito anche il tribunale di Roma già nel 1992 - chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica. Dopo questa obbligatoria premessa, mi addentro nella diffida inviatami dal legale della dottoressa Bruzzone, avvocato Emanuele Florindi, per dimostrare quanto sia strana, assurda e priva di ogni fondamento. Il legale inizia col dire che nell'articolo ho scritto un numero impressionante di falsità. E non appena ho letto questa frase mi è spuntato un sorriso venendomi alla mente la storia del bue che chiamava cornuto l'asino. Questa la prima parte della diffida: Dott.ssa Roberta Bruzzone Vs Massimo Prati. <Gentile Sig. Prati, formulo la presente in nome e per conto della Dott.ssa Roberta Bruzzone, in relazione all'articolo da lei pubblicato su volandocontrovento.blogspot.it, per contestarne integralmente toni e contenuti. Nello specifico, non soltanto il suo articolo contiene un numero impressionante di falsità e di imprecisioni, ma risulta anche essere singolarmente contraddittorio: è davvero strano, infatti, che, mentre nelle prime righe del suo articolo Lei affermi di non amare "i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure [...] quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire", poi si presti a fare esattamente la stessa cosa mescolando artatamente giuste informazioni, velate menzogne e subdole insinuazioni volte a creare pregiudizio alla mia Assistita. Non mi risulta neppure che Lei abbia provveduto a "contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa", dato che ha proceduto a pubblicare il suo articolo basandosi su fonti unilaterali... a tal proposito, saremmo piuttosto interessati a conoscere l'identità di tali fonti, visto che sembrerebbero aver concorso con Lei ad un trattamento illecito di dati personali e di dati giudiziari il che, per un paladino dei diritti dell'imputato quale Lei si presenta, appare piuttosto singolare. Basandosi su tali "fonti" Lei ha, infatti, redatto un articolo falso, diffamatorio e gratuitamente offensivo nei confronti della mia Assistita, da Lei presentata come faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare e falsificare la realtà e collusa con le aziende che controllano le forniture di prodotti alle forze di polizia.> Alla faccia! Sarò mica malato a scrivere le cotante robacce notate dal legale...Non sono malato, non necessito di cure e quindi, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali rispondo punto per punto perché mi sono accorto che né la dottoressa né il suo avvocato paiono aver capito un articolo non diffamatorio in cui non ho assolutamente presentato Roberta Bruzzone quale persona faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare, a falsificare la realtà e collusa. E mi chiedo con quale spirito e pensiero l'abbiano letto. Partiamo dall'inizio. E' vero che non amo quelle trasmissioni in cui gli opinionisti sono chiaramente ostili alle difese e danno per certo quanto trapela dalle procure. Mi piace l'imparzialità e non credo che trasmissioni "unilaterali" siano da mandare in onda. E' vero che per scrivere sui fatti di cronaca nera non mi baso su quanto scrivono quei media e quei "gossippari" che diffondono notizie che a posteriori si rivelano inutili e tendenziose. Gli esempi sono migliaia. E' vero che le mie fonti principali sono le stesse dei giornalisti: avvocati, indagati, i loro familiari e anche periti e inquirenti. E' vero che per non lasciarmi influenzare dai pregiudizi baso i miei scritti soprattutto sugli atti ufficiali, che leggo più volte per non travisarli, e sulla logica. Mi sembra il minimo da fare quando si vuol scrivere di cronaca nera in maniera corretta e di un indagato, magari in custodia cautelare in carcere, che si dichiara innocente e rischia l'ergastolo. Detto questo, non credo sia difficile comprendere che l'inciso inserito a inizio articolo era generico e riferito ai casi di cronaca nera e non alla dottoressa Bruzzone. Infatti è quando scrivo di cronaca nera che contatto chi è parte della notizia. Quindi nessuna falsità inserita nella premessa dell'articolo, che era solo una premessa, per l'appunto, e nulla c'entra con quanto ho poi scritto sulla dottoressa che, a meno non commetta un omicidio (o non ne confessi uno già commesso) o non venga carcerata ingiustamente, al momento non è parte di alcun caso di cronaca nera. Detto anche che per scrivere di processi che devono ancora iniziare non si necessita di "fonti" particolari, se la notizia è vera, se l'udienza è fissata e se il capo d'accusa esiste che fonte serve?, mi chiedo per quale motivo dovrei divulgare le identità di chi mi informa e, soprattutto, perché dovrei farle conoscere all'avvocato Florindi. Un motivo lecito e valido non esiste. Inoltre, nessun trattamento illecito dei dati personali si può rilevare quando si parla di atti processuali non secretati riguardanti i maggiorenni (non sono io che divulga quanto è secretato dalle procure), dato che sono atti pubblici a disposizione di chiunque ne faccia richiesta. Come non esiste nessun trattamento illecito sulla privacy se si vengono a conoscere notizie sui personaggi pubblici parlando del più e del meno in un bar con un magistrato, un cancelliere o un avvocato che frequenta quel dato tribunale. Perché, vista la dimensione mediatica della dottoressa Bruzzone, vale sempre il dettame dei giudici. Loro e non io hanno stabilito che chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla propria dimensione pubblica. Per cui, pare proprio che nella premessa di falsità non ne abbia scritte. E per continuare a confutare la diffida inviatami, ci sarebbe da chiedersi da quale esternazione, presente nei quasi novecento articoli da me scritti e presenti sul blog, l'avvocato abbia capito che io sono "un paladino dei diritti dell'imputato". Mai ho scritto di essere un paladino e mai che difendo tutti gli imputati. Difendo i diritti di alcuni, questo è vero, ma lo faccio quando sono lesi in maniera per me evidente. Per cui, tanto per esemplificare e far capire meglio, critico i procuratori e i giudici quando un indagato che si dichiara innocente viene spedito in carcere ancor prima di indagini approfondite o di riscontri che provino le accuse formulate da terzi. Basti pensare a Sabrina Misseri (in custodia cautelare da quattro anni e mezzo) che nel volgere di poche ore finì in galera senza alcuna verifica sulle parole del padre - che quel 15 ottobre 2010 non era nelle migliori condizioni fisiche e mentali - e che ora è in carcere per motivi assai diversi da quelli che si sono usati per carcerarla. Forse l'avvocato Florindi neppure sa che Michele Misseri fu svegliato a notte fonda e portato ad Avetrana dalle guardie penitenziarie che lo presero in custodia quando ancora era buio pesto. Tanto che una volta giunte al paese furono costrette a "nascondersi", con l'imputato in auto, fra la vegetazione di contrada Urmo in attesa dell'arrivo dei procuratori. Questa è una notizia inedita, mai uscita sui media, e dimostra che mi informo nei modi giusti e nei luoghi giusti senza cercare lo scoop a tutti i costi. In pratica dovrebbe far capire, anche all'avvocato, che non sono uno dei tanti che copia-incolla per avere un maggior numero di entrate e guadagnare mostrando improvvisamente uno spot pubblicitario. Inoltre non scrivo articoli a favore di chiunque sia indagato, perché gli assassini veri li vorrei vedere in carcere per la vita... anche i reo-confessi se autori di delitti efferati. Per questo critico la legge che permette a chi confessa di ottenere troppi benefici e di uscire dal carcere in tempi rapidi. Ma la dottoressa Bruzzone, nonostante i processi che la attendono, non è in carcere e nemmeno ci andrà mai. Lei è libera di esternare le sue convinzioni in televisione e di andare dove vuole. Nessuno, giustamente, ha limitato la sua libertà. Quindi nessun suo diritto è da difendere. Stia pur certo l'avvocato che se venisse spedita in carcere prima ancora di essere indagata nella giusta maniera, che se contro di lei i gossippari parlassero solo in base a chi accusa, sarei io il primo a difenderla e a criticare i media per la mancanza di etica e professionalità. E ancora: in quale passaggio dell'articolo avrei descritto la dottoressa faziosa, forcaiola e quant'altro? Io, dopo aver criticato la dottoressa Simonetta Matone per aver paragonato chi scrive su facebook, nel particolare si parlava dei siti innocentisti che credono a Veronica Panarello, a chi incita i terroristi (citando Charlie Hebdo), scrissi: "meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai?" Dove sarebbero le falsità, visto che la dottoressa si contrappone chiaramente a chi cerca di difendere Veronica Panarello e lo dice apertamente al dottor Vespa, allo stesso avvocato Villardita e ai telespettatori? Se è vero, come è vero, che Veronica Panarello deve ancora subire il primo processo e si dichiara innocente, dire di fronte a milioni di persone che si hanno idee diametralmente opposte all'avvocato Villardita, quindi colpevoliste, non significa forse parlare senza imparzialità e, soprattutto, senza considerare la presunzione di innocenza? Non è forse vero che l'opinione della dottoressa è molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori? Vista la sua popolarità credo proprio che questo non si possa negare. Come non si può negare che nelle mie parole non si trovino frasi che sottintendano termini quali: "incompetente" (mai scritta e mai pensata una cosa del genere), "forcaiola" (non c'è nulla nell'articolo che porti a questo termine, visto che viene usato per situazioni molto più gravi), "razzista" (questa parola neppure se ampliamo al massimo il significato entrando sulla Treccani c'entra nulla con quanto ho scritto), "faziosa" (per essere faziosi bisogna sostenere con intransigenza e senza obiettività le proprie tesi, non limitarsi ad esprimere una opinione parlando con toni alti e molto colpevolisti). Non ho quindi scritto alcuna falsità e la mia critica ha basi più che fondate. Anche perché vale sempre la legge che dice: il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca perché nell'articolo non si parla di fatti ma si esprime un giudizio o, più genericamente, un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un'interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti. Ora qui ribadisco che alla luce di quanto ho visto e ascoltato in registrazioni di Porta a Porta, la mia critica era più che obiettiva anche se per legge non necessitava di una obiettività approfondita. Quindi, ancora una volta mi chiedo per quale motivo l'avvocato Florindi mi abbia inviato una diffida. Comunque, tanto per finire, mi addentro anche nell'ultima accusa che mi fa, quella di aver dipinto la sua assistita come una persona propensa a mistificare la realtà e collusa con le aziende che "controllano le forniture alle forze di Polizia" (e tanto per far capire come son fatto, non per altro, mi sono chiesto subito cosa stessero a significare le parole - "controllano le forniture alle forze di Polizia" - scritte dall'avvocato). Nell'articolo mi chiedevo se la dottoressa Bruzzone considererà ancora infallibili i giudici e i procuratori dopo i processi che dovrà affrontare. Specialmente perché il rigetto di tutte le denunce da lei presentate contro un dirigente dell'UGL (Polizia di Stato) la dipingono come una falsa vittima di stalking che ha approfittato della sua posizione parlando ai media di reati mai subiti. E questo sarebbe veramente grave perché contribuirebbe a rendere meno credibili le tante vere vittime di stalking. E' per queste parole che per l'avvocato l'avrei dipinta come persona propensa a mistificare la realtà? Forse l'avvocato dimentica che non sono stato io a rigettare le denunce della dottoressa, ma i magistrati che hanno valutato le indagini partite in seguito a quelle denunce. Io mi sono limitato a riportare la notizia e a far qualche considerazione. Non è quindi a me che deve fare accuse, ma a chi ha svolto le indagini e a chi le ha valutate prima di rigettarle. Comunque, proprio a causa di quei rigetti mi chiedevo il motivo per cui, a partire dal 2009 (anno in cui uscì da una associazione di criminologi di cui il dirigente dell'UGL era presidente) avesse presentato una ventina di denunce, quelle poi rigettate, nei confronti del presidente stesso. E qui mi ero fermato. Ma dato che ora ne sto scrivendo, amplio l'informazione dicendo che le denunce coinvolsero altri membri del consiglio direttivo dell'associazione di cui fino a poco tempo prima lei stessa faceva parte. E che iniziò a presentarle dopo le richieste di spiegazioni su questioni economiche che la stessa associazione le poneva. Insomma, pur senza entrare nei dettagli, nell'articolo ponevo una domanda lecita a cui si poteva rispondere in maniera chiara così che, in maniera altrettanto chiara, avrei inserito la risposta a capo articolo dando spazio a una replica. Non era così complicato da fare. Anche perché nell'articolo di cui si discute non ho calcato la mano preferendo restar fuori da vicende ben più complesse che l'avvocato di certo conosce. Ma proseguiamo con la parte della diffida in cui è scritto: Se Lei, comportandosi da interlocutore corretto e scrupoloso ci avesse contattato, avremmo potuto produrLe pagine di osservazioni atte a smentire le informazioni in Suo possesso, dimostrando, ad esempio, che l'azione civile della sig.ra Natalia Murashkina (tra l'altro neppure Russa!) è pretestuosa, infondata e priva di riscontri (ci basti qui osservare che la pagina contestata risulta creata in data successiva ai fatti)... Mi fermo un attimo per un chiarimento e per dimostrare non che l'avvocato è male informato quando afferma che Natalia Murashkina non è neppure russa, perché pur se nata fuori dai confini è a tutti gli effetti russa e lui lo sa, ma per dirgli che gli sarà molto difficile convincere un giudice che non è reato scrivere parolacce e brutte offese su una donna russa nata fuori dai confini russi, mentre lo è scriverle su una donna russa nata a Mosca. Oltretutto l'avvocato sa per certo che in Russia i passaporti distinguono la nazionalità dalla cittadinanza. Motivo per cui si può essere di nazionalità russa anche se nati occasionalmente in altra nazione. In ogni caso, non erano né l'avvocato né la dottoressa che dovevo contattare per scrivere quelle quattro righe che riguardavano la vicenda di Natalia Murashkina, visto che al massimo avrebbero potuto fare una arringa difensiva (quella va indirizzata a un giudice e non a me) e non produrmi atti giudiziari in grado di contrastare il fatto che gli insulti, per il magistrato che porta avanti la causa ci furono. E a questo proposito oggi aggiungo una postilla che avevo evitato di inserire. Una informazione che potevo dare e non ho dato. E cioè che La Pravda nel suo articolo parlò di offese scritte anche da alcuni collaboratori della dottoressa. Particolare che avevo evitato di sottolineare perché mi pare non credibile (però ho chiesto e non risulta che la Pravda abbia ricevuto alcuna diffida), ma che oggi aggiungo per far capire quanto avessi scritto in maniera soft senza appesantire situazioni che invece paiono pesanti. A processo la pagina facebook risulterà essere successiva ai fatti? Meglio per la dottoressa e peggio per la Murashkina, che quando perderà la causa criticherò aspramente per aver denunciato il falso. Qui colgo l'occasione per aggiornare in maniera migliore la notizia e dire che la causa civile intentata da Natalia Murashkina è stata rigettata per vizio di forma. Non per altro. Naturalmente verrà ripresentata in appello senza alcun vizio. E naturalmente questo non inficia il procedimento penale - che si occupa degli stessi reati e ha un iter diverso - che continua per la sua strada. Andando avanti nella diffida si legge che il processo di Reggio Emilia ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile visto che dal dibattimento stanno emergendo dati ed informazioni in grado di confermare quando affermato dalla dott.ssa Bruzzone nel corso del processo a carico del presunto stalker (a proposito, lei non sosteneva a spada tratta la presunzione di innocenza?) che non risulta ancora condannato...No avvocato, non è proprio così che sta andando. Giusto per aggiornare anche questa notizia, le confermo che il processo di Reggio Emilia - in cui la dottoressa risponde di diffamazione - nella prossima udienza, fissata a maggio, vedrà sul banco dei testimoni - citati dal pubblico ministero - sia il Generale Luciano Garofano che lo stesso dirigente dell'UGL denunciato più volte dalla sua assistita. Inoltre, sempre in quel di Reggio Emilia, a causa di quanto la dottoressa ha dichiarato ai giornalisti all'uscita dall'aula dopo le prime udienze c'è la possibilità, neppure tanto remota, che si apra un secondo processo. Vedremo presto se ho sbagliato la diagnosi. In ogni caso il processo di Reggio Emilia non ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile, come ha scritto, e il signore che chiama presunto stalker è persona nota e prima della vicenda che ha visto coinvolta la dottoressa era già stato condannato sia per truffa (condanna definitiva) che per stalking (nel 2012 il pubblico ministero nella sua arringa lo definì uno "stalker seriale" e il giudice confermò le sue parole condannandolo). Motivo per cui, in questo caso la presunzione di innocenza, per come la vedo, poco c'entra. E ancora ha scritto che il processo di Tivoli del 15 dicembre 2015 viene atteso con ansia e trepidazione della nostra Assistita visto che in quella sede avrà finalmente modo di provare, innanzi ad un Giudice la fondatezza delle sue accuse... Per quanto riguarda Tivoli, non vedo l'ora di sentire cosa dirà la sua assistita al giudice e come risponderà alle domande. Mi auguro che abbia una spiegazione plausibile e delle prove a discolpa certe che la aiutino a non subire una condanna e a dimostrare di essere una vera vittima di stalking. Così che io possa poi criticare e chiedere una condanna per lo stalker, che al momento non esiste, e per i magistrati che non l'hanno fin qui creduta. Inoltre ha anche scritto: In merito a Michele Misseri, le avremmo spiegato che attualmente questo signore è sotto processo proprio per quelle famose affermazioni...Michele Misseri, come avrà capito, lo conosco e conosco anche le accuse da lui mosse contro la sua assistita. So che il processo ha già subito dei rinvii e che a maggio è in programma l'ennesima prima udienza. Quindi nessuno sul punto mi doveva spiegare nulla perché conosco perfettamente entrambe le posizioni. Inoltre nell'articolo mi sono limitato alla considerazione che se se alla dottoressa "andrà male" la sua carriera sarà finita. Questo perché è sempre possibile, almeno in ipotesi, che un processo si possa perdere. E continua scrivendo: mentre in relazione all'accusa di collusione con le aziende che forniscono materiali alle nostre Forze di Polizia... definire questa "notizia" ridicola è decisamente utilizzare un eufemismo. Mi scusi avvocato, ma quando mai ho parlato di collusione? Fare accuse di collusione significa affermare che un determinato accordo c'è stato sicuramente. Io invece ho semplicemente messo in relazione fra loro eventi verificabili da chiunque e notando una stranezza ho posto una domanda a cui bastava dare risposta. Scrivere che la "notizia" è ridicola non è dare una risposta, è aggirare l'ostacolo che non si vuole saltare. La mia domanda, posta a un personaggio pubblico, era lecita perché la cronistoria ci dice che la relazione fra la dottoressa e il dirigente della Polizia durò pochissimo e finì nel lontano duemilacinque. Che la sua assistita continuò la collaborazione con l'associazione di criminologi per altri quattro anni, fino al duemilanove quando si interruppe in maniera non amichevole. Che il presidente della stessa associazione - intervistato da Luca Fazzo nel 2011 - denunciò le enormi spese sostenute dal ministero e spiegò quanto fosse economicamente vantaggioso acquistare il materiale per le indagini direttamente in America e non dagli intermediari. La domanda che posi nell'articolo nacque da una serie di considerazioni. Nel duemilanove la dottoressa Bruzzone fondò l'associazione culturale A.I.S.F. (Accademia Internazionale Scienze Forensi), una organizzazione "non profit" - questo è da dire - che da statuto non dà dividendi ai soci. Una associazione che tra i suoi partner allinea l'azienda che produce e vende i prodotti alla Polizia e quella che ha l'esclusiva per l'Italia di tali prodotti. A questo si aggiungono due fatti certi: sia che la dottoressa ha partecipato al video pubblicitario dell'azienda produttrice, video presente sul sito internet dell'azienda e su You Tube (se lo ha fatto per amicizia bastava scriverlo senza pensar male delle mie parole), sia che le denunce di stalking, quelle rigettate, furono presentate a partire dal 2009 contro chi dapprima le chiedeva conto del denaro speso mentre collaborava con l'associazione di criminologi e dopo si era attivato in prima persona per cercare di far acquistare i prodotti direttamente dall'America senza pagare intermediari. Avvocato, lei sa che nell'articolo non ho scritto la parola "collusione" e sono rimasto soft non inserendo tante altre domande lecite che mi frullavano per la testa. Domande che in questa risposta pubblica inserisco per farle capire quale altro modo uso per informarmi. Ad esempio, nell'articolo in questione mi limitai e non chiesi se il dottor Bruno Vespa conosce il sito della A.I.S.F. ed è al corrente che ogni volta che presenta la dottoressa Bruzzone di riflesso pubblicizza, a titolo gratuito sulla principale televisione di stato, non solo l'organizzazione "no profit" di cui la dottoressa è presidente - la A.I.S.F. - ma anche un'azienda privata. Essendo l'associazione culturale una "non profit" la pubblicità gratuita è sicuramente lecita. Perlomeno credo fosse certamente lecita fin quando l'associazione nel suo sito internet non ha riportato l'IBAN (cioè un'utenza bancaria su cui fare bonifici) di una S.A.S. (Società in Accomandita Semplice) che in teoria dovrebbe essere esterna all'associazione stessa. La S.A.S a cui mi riferisco è quella aperta dalla stessa dottoressa Bruzzone il 06 giugno 2014 (quindi dieci mesi fa) e registrata alla camera di commercio il 12 giugno 2014. Una Società in Accomandita Semplice che, come da visura camerale, ha quali soci accomandatari anche i due avvocati che figurano con nome e cognome sulla carta intestata della diffida che mi ha inviato, assieme al suo signor Florindi. Gli stessi avvocati che, come lei d'altronde, figurano nel consiglio direttivo della "associazione no profit". Ora, per quanto possa capirne e mi hanno spiegato, credo che prima di fare un simile movimento pubblicitario, cioè inserire l'IBAN di una azienda commerciale che guadagna sul proprio lavoro ai piedi di tutte le pagine elettroniche di una associazione "no profit" (che essendo "no profit" non dà dividendi ai soci), ci si sia fatti consigliare da un buon commercialista. Per cui immagino che sia del tutto legale, dato che la SAS sul proprio guadagno ci paga le tasse. Ciò che trovo strano è altro. Una stranezza, ad esempio, è che il logo della SAS sia praticamente identico, tranne per le scritte, al logo dell'associazione "no profit". Un'altra ancora più strana è che cliccando sul logo della SAS presente nelle pagine dell'associazione "no profit", si venga reindirizzati su una pagina della stessa associazione "no profit" e non sul sito della SAS. Quasi che la SAS e l'associazione "no profit" siano l'unica faccia di due società. In pratica una società che per statuto non può dividere gli utili nel suo sito ospita e pubblicizza una SAS che gli utili fra i suoi soci li può dividere. Insomma, ciò che si vede dall'esterno (magari non è così e la Rai avrà la gentilezza di spiegarcelo in maniera chiara) è che il dottor Bruno Vespa pubblicizzando l'associazione no profit finisca per pubblicizzare gratuitamente una S.A.S. - capisce cosa intendo, avvocato? Che a un occhio critico la situazione pare quantomeno ambigua e andrebbe spiegata. Come ambigua è la parte della diffida in cui scrive: Ne consegue che, non avendo lei eseguito alcun riscontro nè alcuna verifica, ha redatto un articolo ricco di falsità ponendo in essere proprio quelle condotte che, tanto severamente, ha tentato di stigmatizzare nel suo testo. Tutto ciò premesso, la dott.ssa Bruzzone, mio tramite Vi - INVITA E DIFFIDA - a rimuovere dal Suo Blog l'articolo in questione, a comunicarci immediatamente, e comunque non oltre 5 giorni dal ricevimento della presente, il nominativo (o i nominativi) di chi Le ha fornito le informazioni ivi pubblicate e di versare, per il tramite di questo Studio, la somma di euro 250.000 a titolo di risarcimento per i gravissimi danni all'immagine della mia Assistita cagionati dalla diffusione di notizie false e diffamatorie. In queste sue parole, false e intimidatorie signor avvocato, un giudice di polso potrebbe pure configurare il reato di estorsione. Specialmente perché, seppur sia stato limitato volendo risponderle con un articolo che non può essere infinito, le ho dimostrato non solo che non ho assolutamente mentito, ma anche che prima di scrivere mi informo e faccio verifiche (e ne faccio tante), cerco riscontri e quando qualcosa non mi quadra pongo domande pubbliche per non ottenere risposte di circostanza (che non servono a nulla e non aiutano i lettori a capire). Per questi motivi non ho rimosso, e non ho alcuna intenzione di rimuovere, l'articolo in questione. Per questi motivi la invito a cambiare atteggiamento e, se vorrà, a rispondere alle mie domande in maniera pacata senza cercare di intimidire chi critica la sua assistita. Fornire ai lettori notizie relative a un personaggio pubblico è cosa che si fa tutti i giorni (e se il personaggio finisce sotto processo la notizia esiste e si può dare). Inoltre tutti i personaggi pubblici, finché restano tali, ricevono critiche per quanto dicono o scrivono. Dalla piccola show girl al Presidente della Repubblica. E' la norma, dato che la democrazia permette di non appiattirsi al pensiero altrui e di esternare il proprio, anche se diverso. Per questo motivo, non essendo avvezzo a criticare un personaggio pubblico a prescindere ma avendo l'abitudine di elogiarlo o criticarlo per i vari comportamenti che pone in essere di volta in volta, così come posso essere d'accordo e apprezzare la sua assistita per quanto fa e dice su certi casi di cronaca nera (Chico Forti è uno ma ce ne sono altri), posso anche non essere d'accordo e criticarla quando a parer mio non si dimostra all'altezza del suo ruolo pubblico o fa qualcosa che mi risulta strano e incomprensibile. Una cosa deve essere chiara. Volandocontrovento è un blog indipendente che non ha editori a cui obbedire. Un blog che prima di pubblicare articoli cerca informazioni e riscontri. Un blog in cui nessuno scrive falsità (al massimo negli articoli pubblicati si possono trovare piccole inesattezze scritte in buonafede). E fin quando la democrazia lo permetterà, a nessun personaggio, sia bianco o sia nero, sia giallo o sia verde, sia rosso o sia blu, sia pubblico o che pubblico lo diventi per quindici giorni o per quindici anni a causa di una posizione politica ridicola o di una indagine criminale in voga sui media, è concessa l'immunità da critiche...”
Bruzzone contro Raffaele: «Imitazione becera e volgare». La criminologa querela l'imitatrice: «Sessualizzazione della mia persona», scrive “Il Corriere della Sera”. Una «becera e volgare sessualizzazione della mia persona». Così la criminologa Roberta Bruzzone bolla, parlando a Fanpage.it, la performance di Virginia Raffaele che l’ha imitata sabato ad «Amici». «Io non ho nessun problema contro la satira» precisa Bruzzone, «l’elemento intollerabile è giocare sull’aspetto sessuale in maniera sguaiata, becera, volgare, gratuita», lontana - precisa - da una professionista che tutto questo l’ha sempre evitato. «L’elemento che mi porta in tv ormai da oltre dieci anni - sottolinea - non è la mia avvenenza fisica ma il tipo di contenuti che tratto e l’esperienza dovuta al lavoro che svolgo». « Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona» aggiunge, confermando la sua decisione di querelare la Raffaele. In tempi di femminicidi, mentre lottiamo contro la visione della donna-oggetto, «che questo tipo di contenuti sia proposto da una donna è ancora più sconcertante», osserva.
Selvaggia Lucarelli contro la criminologa Bruzzone: «La Raffaele è ben più simpatica e gnocca di lei», scrive “Il Messaggero”. Virginia Raffaele imita la criminologa Roberta Bruzzone, ma questa non gradisce. E nella faccenda non poteva che intromettersi Selvaggia Lucarelli. Ne è scaturito un botta e risposta che non va tanto per il sottile. «Bagascia vestita in modo improponibile», ha tuonato la Bruzzone contro l'imitatrice, "rea" di aver messo in scena «una rappresentazione becera, volgare, gratuita, sguaiata». Dopodiché in un tweet la Bruzzone ha annunciato che sarebbe passata alle vie legali. E la replica della Lucarelli non si è fatta attendere: «Leggo che la Bruzzone, in un tweet, lascia intendere di aver scomodato il suo favoloso team di legali per bastonare Virginia Raffaele che ha osato farne una parodia (divertente) ad Amici - ha scritto - Nella vita ho ricevuto un po' di querele, ma la lettera dell'avvocato della Bruzzone per un mio servizio su Sky me la ricordo bene. Spiccava. Non solo per la pretestuosità degli argomenti (era un servizio innocuo e fu l'unica tra 100 servizi a offendersi), ma perchè inviò copia al Ministero delle pari opportunità per accusarmi di sessismo». «La Raffaele - continua la Lucarelli - è ben più simpatica e gnocca di lei. (tanto il ministero delle pari opportunità è stato abolito, magari scriverà alla Boldrini)».
Vittorio Feltri contro Roberta Bruzzone: "Al suo confronto i pm sono delle mammolette", scrive “Libero Quotidiano”. Dopo le imitazioni di Virginia Raffaele, il commento di Vittorio Feltri. La criminologa diventata famosa al grande pubblico grazie a Bruno Vespa che l'ha invitata più volte a Porta a Porta, viene attaccata dal fondatore di Libero che scrive: "Si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere" Feltri l'accusa soprattutto di dare affosso all'imputato dato che è più facile che difenderlo. "La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia". Con una stilettata Feltri dice che in sui confronto i pubblici ministeri sono delle "mammolette". Feltri ricorda quando, durante una puntata di di Linea Gialla di Salvo Sottile si trovava accanto alla Bruzzone per comentare le vicenda giudiziaria di Raffale Sollecito che all'epoca era ancora in attesa di giudizio. Feltri riteneva che non vi fossero gli estremi per condannarlo, lei sì. La Cassazione ha dato ragione a Vittorio. Da qui la conclusione di Feltri: "Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".
“Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione”…, scrive Vittorio Feltri per “il Giornale”. "Da alcuni anni Roberta Bruzzone, criminologa dall'aspetto attraente (ciò che aiuta sempre a rendersi riconoscibili e, perché no, apprezzabili a occhi maschili e pure femminili), è personaggio televisivo tra i più noti. Il suo bel volto compare spesso in video, anzi sempre, nelle trasmissioni che trattano di morti ammazzati, assassini probabili, gialli irrisolti: temi che da qualche tempo vanno forte e hanno un seguito notevole di pubblico. A lanciare la gentile signora è stato Bruno Vespa a Porta a porta, in cui gli omicidi raccontati sono frequenti e costituiscono una sorta di rubrica fissa, come il bollettino meteorologico. Il principe dei conduttori, dopo averla invitata una prima volta, non ricordo in quale circostanza, avendone gradito gli interventi - forse anche le fattezze - non ha più smesso di convocarla per discettare di coltellate, strangolamenti, alibi e roba del genere noir. Roberta si è tenacemente costruita una fama di investigatrice spietata: ormai è ospite indispensabile in qualsiasi programma al sangue in onda su varie emittenti, tutte assai interessate a dissertare di delitti, un filone appassionante per il pubblico serale, stanco di talk show politici prodotti in serie con la fotocopiatrice. La criminologa mostra di trovarsi a proprio agio nelle discussioni, di solito vivaci, sulla colpevolezza di Tizio e di Caio; e si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere. Si sa come vanno i processi mediatici. Si dà addosso all'imputato dato che è più facile e più spettacolare che non difenderlo. Si calca la mano sugli elementi a suo carico e si sorvola su quelli a discarico. Cosicché la gente, sempre vogliosa di sentenze esemplari, si eccita e non tocca il telecomando nel timore di perdersi le fasi più sadiche del linciaggio. La natura umana fa schifo e collide con i principi basilari del diritto: chi è stato incastrato dalla cosiddetta giustizia andrebbe considerato innocente fino a prova contraria. La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia. In confronto a lei, i pubblici ministeri sono mammolette. Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione. Ciascuno ha le proprie inclinazioni e magari le asseconda con pertinacia. La criminologa, benché non sia togata, agisce con una determinazione impressionante: nei dibattiti davanti alla telecamera riesce a spiazzare chiunque, magistrati inclusi. Una notte, a Linea gialla, diretta da Salvo Sottile (bravo e preparato), ero seduto accanto a Bruzzone per esaminare la vicenda di Raffaele Sollecito, in attesa di giudizio. Personalmente ero dell'idea che il giovanotto fosse da assolvere per mancanza di prove; lei aveva un'opinione opposta alla mia. Non dico che litigammo, ma eravamo in procinto di farlo. Trascorsi alcuni mesi, la Cassazione ha dato ragione a me. Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".
Questo è quanto riportato dalla stampa con verità, attinenza ed interesse pubblico.
Chi di processi ferisce di processo perisce, scrive Alberto Dandolo per Dagospia. A Milano non si fa altro che parlare della citazione a giudizio della platinatissima criminologa Roberta Bruzzone nell’ambito di un procedimento penale a suo carico presso il Tribunale di Tivoli. La vispa professionista deve infatti difendersi dalle accuse di un suo ex compagno, Marco Strano che l’ha trascinata in tribunale in quanto, si legge nelle carte, ne avrebbe “ripetutamente offeso la reputazione…pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori”. Nei documenti si legge che la criminologa amata da Vespa e dalla Parodi deve difendersi dall’accusa che “utilizzava altresì più volte in maniera denigratoria l’aggettivo “strano” facendo chiaro riferimento alla persona del suo ex compagno, come nei seguenti post: “in effetti mi sembra proprio strano …questo impulso diffamatorio irrefrenabile…, “questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee”; e ancora sottolineava : “è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine”; “ non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all’estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…” ( post del 23.11.2010) , lo definiva, quindi un mitomane fallito con in dotazione una calibro 9”, lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane, ed infine commentava, con riferimento alla nuova compagna straniera del querelante, che lui l’aveva affittata staccandone il cartellino ed acquistata in qualche compravendita di spose dall’est facendosi qualche foto con lei per far finta di avere una vita (post del 01-12- 2010).”
La criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori": ecco i post "incriminati", scrive Mario Valenza il 16/09/2015 su “Il Giornale”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9". Queste e altre dure espressioni sarebbero state Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Strano sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". E ora i post su Facebook potrebbero sbarcare in tribunale...
Tivoli, la criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione, scrive “Libero Quotidiano”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9": questa e altre frasi sono state rivolte da Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Egli sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". Come andrà a finire?
Caso Marco Strano - Roberta Bruzzone - Bruno Vespa e milioni di inganni e sprechi ai danni della Polizia - Interrogazione "aperta" al capo della Polizia si legge sul sito internet di Polizia Nuova Forza Democratica. L'Organismo Sindacale Polizia Nuova Forza Democratica nasce con lo scopo di salvaguardare i doveri degli appartenenti alle Forze dell'Ordine e di tutelare i diritti di donne e uomini che hanno consacrato la propria vita professionale alla sicurezza di tutti i cittadini. Il legislatore, con l'approvazione della Legge 121/81, ha previsto la demilitarizzazione del Dipartimento Della Pubblica Sicurezza e il conseguente Ordinamento Civile della Polizia Di Stato, con l'obbiettivo di rendere tangibile la sinergia sociale tra cittadini e poliziotti. Il nostro Organismo P.N.F.D. condivide, con spirito di servizio, "l'animus del Legislatore" deputando proprio fondamento la collaborazione tra i tutori dell'ordine e la società civile. Il nostro statuto, non a caso, prevede l'iscrizione all'organismo P.N.F.D. sia per gli operatori della Polizia Di Stato, soci ordinari, sia per i rappresentanti del mondo del lavoro o associazioni che operano nel volontariato sociale, soci aggregati e onorari. Polizia Nuova Forza Democratica vuole essere la calcina che lega tutti i cittadini che, senza clamore, ogni giorno, con il coraggio dell'onestà compiono il proprio dovere costruendo il bene comune. Questa organizzazione sindacale intende costituirsi parte civile nei vari processi che, a partire dal prossimo dicembre, vedono imputata la c.d. "Ambasciatrice di Telefono Rosa" - Roberta Bruzzone che sarà giudicata dall'Autorità giudiziaria per aver indirizzato accuse di stalking, false e strumentali, attraverso denunce, poi archiviate, interviste televisive e sui giornali, migliaia di pagine di social networks, nei confronti di Marco Strano, funzionario di Polizia, moralmente e professionalmente incensurabile, per questo stimato a livello nazionale e internazionale e quindi lustro per la Polizia di Stato. Accuse che stanno provocando un crescente malumore tra i colleghi che ben conoscono la vicenda reale, completamente diversa da quella veicolata dai media. Le accuse di stalking si sono infatti rivelate poi assolutamente infondate, ma hanno ingiustamente gettato un'ombra sull'intera categoria degli appartenenti alla Polizia di Stato tanto che la magistratura ha approfondito - attraverso già due rinvii a giudizio di Bruzzone per diffamazione aggravata e attraverso altri procedimenti tuttora in fase di indagine per altri più gravi reati presso le Procure di Roma e di Tivoli (che riguardano anche soci e collaboratori della predetta) - come il contrasto con il collega Strano non fosse legato a vicende sentimentali, come si voleva far intendere (il collega è felicemente sposato da anni), ma molto più presumibilmente al fatto che quest'ultimo ha pubblicamente denunciato il business dei corsi di formazione. Neanche a farlo apposta, infatti, la suddetta organizza corsi attraverso il marchio AISF(Accademia Internazionale di Scienze Forensi) - marchio spesso citato anche nella trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa - solo apparentemente no-profit in quanto strettamente collegato con la SaS CSI-Academy (di cui Roberta Bruzzone risulta socio accomandante e che propone corsi e perizie forensi a pagamento): SaS che ha un logo pressoché identico a quello dell'Associazione pubblicizzata da Bruno Vespa e con cui condivide un sito web, situazione che potrebbe trarre in inganno milioni di telespettatori. Tutto ciò a nostro avviso dovrà essere analizzato attentamente innanzitutto dal Garante per le comunicazioni, per motivi di pubblicità occulta e di concorrenza sleale. Ma soprattutto: sarà "sicuramente casuale" che la società di Roberta Bruzzone risulti partner commerciale dell'azienda statunitense SIRCHIE e della società di rappresentanza italiana RASET - leaders in Italia nella commercializzazione di prodotti per criminalistica - e che il collega Marco Strano abbia intrapreso da almeno 5 anni una battaglia politico-sindacale finalizzata alla razionalizzazione della spesa pubblica nel settore dei prodotti per investigazioni scientifiche che, se andasse in porto, porterebbe un calo di fatturato di milioni di euro nelle predette aziende a vantaggio dell'Amministrazione della PS, i cui vertici purtroppo persistono invece nello sprecarli, a discapito dell'erario oltre che riducendo le potenzialità investigativo-scientifiche. Per quanto sopra esposto, chiediamo se il Capo della Polizia sia al corrente o meno della suddetta vicenda, quali iniziative abbia intrapreso e/o intenda intraprendere affinché sia ripristinato il prestigio della categoria e fatta luce su sprechi, privilegi e abusi che ne stanno seriamente minando le fondazioni.
Roma, 11 ottobre 2015
F.TO
Il Segretario Nazionale per l'Italia centrale e gli uffici dipartimentali -
FILIPPO BERTOLAMI
Il Segretario Nazionale Generale - Rappresentante Legale - FRANCO PICARDI
Rissa legale tra criminologi, scrive Mauro Sartori su “Il Giornale di Vicenza”. Si trasferisce anche in città il duro confronto tra Roberta Bruzzone e l'ex compagno Marco Strano. L'uomo accusa di plagio l'autrice per alcuni passaggi riportati. Lei replica con denunce per stalking e chiedendo misure di sicurezza. Carabinieri a piantonare la sala, notifica di documenti legali per spiegare il terreno minato su cui si muoveva l'incontro pubblico di ieri sera, querele e minacce attraverso i social network: sono gli ingredienti della guerra in atto fra due criminologi di fama, che ieri ha vissuto un capitolo scledense. Da una parte Roberta Bruzzone, psicologa forense nota per le partecipazioni come consulente ai talk show televisivi quando si parla di omicidi; dall'altra l'ex fidanzato Marco Strano, dirigente della polizia di stato, fondatore dell'Associazione internazionale di analisi del crimine. Oggetto del contendere il libro “Chi è l'assassino - diario di una criminologa”, edito dalla Mondadori. Strano accusa Bruzzone di plagio. Nella parte introduttiva del libro ci sarebbero passaggi copiati senza autorizzazione, tanto che il dirigente della polizia avrebbe chiesto con una procedura d'urgenza il ritiro dal commercio del libro, ma non l'ha ottenuto. Ieri sera la criminologa, chiamata come esperta da Bruno Vespa per le puntate di “Porta a porta” in cui si parla dei delitti di Sarah Scazzi e Melania Rea, tanto per citare i due più conosciuti, era a palazzo Toaldi Capra, dove ha presentato proprio il libro conteso ed ha parlato anche della sua attività quale ambasciatrice di “Telefono rosa”. L'altro ieri alla libreria Ubik, che organizzava l'incontro, due avvocati dell'Alto Vicentino, come domiciliatari dei legali di Strano, hanno recapitato ai titolari copia di un'ordinanza emessa dal tribunale di Milano in cui viene rigettato il ricorso di sequestro del libro, ma lascia aperta la porta ad un eventuale risarcimento del danno patito dal poliziotto. Una mossa che in verità non ha avuto conseguenze sullo svolgimento della serata ma che ha inasprito la tensione fra le due parti, tanto che ieri Bruzzone ha twittato parlando «di due scagnozzi non identificati che denuncerò per concorso in atti persecutori» che sarebbero andati alla Ubik e, in una successiva mail diffusa, «di un ennesimo tentativo di screditarm posto in essere da un soggetto che ormai trova l'unica ragione della sua misera esistenza nel rancore nutrito nei miei confronti e nel porre in essere atti persecutori nei miei confronti di cui sono vittima da quattro anni». In pratica da quando è finita la relazione sentimentale fra i due che un tempo andavano d'amore e d'accordo. La criminologa si è sentita minacciata tanto da richiedere misure di sicurezza ai promotori, prima di entrare in sala: «L'ho denunciato per stalking e quanto accaduto a Schio mi seriverà per integrare la denuncia stessa. Purtroppo non accetta l'evidenza dei fatti - ci ha riferito ieri sera Roberta Bruzzone. - La mia è un'opera autonoma, tratta da miei incarichi documentati. Le sue accuse sono deliranti. Per me la vicenda era chiusa con il rigetto del ricorso ma non si rassegna e allora comincio ad avere timore, soprattutto se si allarga a minacciare anche gli organizzatori delle mie serate nel tentativo di boicottarle. La mia vita è cristallina, ma non posso andare avanti così».
La criminologa di Vespa e gli affari con la polizia. Un sindacato: “Costose forniture alla Scientifica da azienda legata alla Ong di Bruzzone. E spot a ‘Porta a Porta’”. E poi continuano le polemiche dopo il servizio di “Report” sulla Corte Costituzionale. Rassegna stampa: Il Fatto Quotidiano, pagina 15, 1 dicembre 2015, di Ferruccio Sansa. Un esposto al capo della polizia Alessandro Pansa. Poi una lettera protocollata al ministro Angelino Alfano, al presidente della Commissione parlamentare Rai Roberto Fico e al presidente Rai Monica Maggioni. Titolo: “Caso Bruzzone-Vespa”. A scrivere un gruppo di dirigenti che si raccoglie dietro la sigla Polizia Nuova Forza Democratica. Che non per la prima volta critica i massimi vertici della polizia. Oggetto: pubblicità occulta, forniture di materiale per la polizia scientifica. E convegni organizzati presso la Questura di Roma da società private. Il principale bersaglio delle critiche è la criminologa Roberta Bruzzone, una delle regine del salotto politico più famoso d’Italia: Porta a Porta. Sì, la trasmissione di Bruno Vespa viene nominata più volte. Anche per la famigerata puntata in cui ospitò i Casamonica. Non sarebbero comportamenti illeciti, fino a prova contraria. Ma la lettera, visti i nomi in gioco, sta creando polemiche negli ambienti delle forze dell’ordine e della Rai. Mentre Bruzzone smentisce e annuncia querele. Primo: il sindacato punta il dito sui costi del materiale in uso alla polizia scientifica come la polvere per il rilievo delle impronte digitali. «Sarebbe possibile – si sostiene – acquistare prodotti della medesima qualità evitando i dazi doganali sui prodotti americani con un risparmio dal 20 al 30%». Che cosa c’entrerebbe Bruzzone? Da visure effettuate dal Fattonon risulta sia socia dell’impresa importatrice. Filippo Bertolami, segretario Pnfd, aggiunge però: «Dai siti Internet della società di Bruzzone emerge che l’importatore ha una partnership con la sua fondazione. Così come, peraltro, con lo stesso programma della tv pubblica Porta a Porta». Per questo il sindacato parla di «pubblicità occulta, svolta anche con magliette e sottopancia nel corso delle trasmissioni». Il punto: «L’Accademia internazionale di scienze forensi (una Ong che fa capo a Bruzzone, ndr.), che beneficerebbe di tale pubblicità ha un sito che trasferisce ad arte sul sito della Csi Academy, società di consulenza che si occupa di perizie e di formazione. Un’impresa con un logo quasi identico a quello dell’associazione no profit». Gli stessi soggetti che organizzano, riferisce Bertolami, eventi e corsi presso i locali della Questura di Roma: «Per i poliziotti di un sindacato sono gratuiti, ma tutti gli altri devono pagare. Chiediamo se sia possibile che un locale istituzionale sia utilizzato per iniziative a fini di lucro». Il Fatto Quotidiano ha raccolto le versioni di tutti gli interessati. Pubblicità occulta nel salotto più famoso della Rai? Bruno Vespa giura: «Mi pare impossibile. Sto molto attento. Se qualcuno l’ha fatto, non accadrà più. Stiamo attentissimi». Bruzzone aggiunge: «Quella lettera riferisce un mucchio di falsità. Ho già consegnato personalmente una lettera al capo della polizia per chiarire le cose». E la fornitura per la polizia scientifica effettuata da società legate a Bruzzone? «Se i prodotti costano più che se fossero comprati in America dipende dai dazi doganali e dalla spedizione», assicura il titolare. Fonti della polizia aggiungono: «Ci sono regolari gare». Ma quegli eventi realizzati negli uffici della Questura? «Il corso è organizzato da un altro sindacato. Ma se non sarà gratuito per tutti non concederemo gli spazi».
Occhio per occhio dente per dente, scrive Massimo Prati su "Albatros. Volando Controvento". Una drastica soluzione per far cessare i sequestri di stato dei magistrati non professionali che se ne fregano della vita altrui. Un altro processo che neppure doveva iniziare si sta celebrando contro Massimo Bossetti nell'italica terra conosciuta nel mondo perché resa famosa da santi, poeti e navigatori. Queste le categorie più famose. Ma in Italia ci sono anche tanti eccellenti investigatori, procuratori e giudici che operando per come vuole la legge riescono a chiudere indagini scomode prima che finiscano sui media. Su quei media che pressando mischiano le carte e calando l'asso del pregiudizio aizzano il popolo e spaiano le indagini. Naturalmente le eccellenze non si fanno notare. Com'è giusto che sia restano nell'ombra, non cercano pubblicità e non accettano, specialmente prima di aver portato l'imputato a processo, di parlare coi media, italiani o stranieri, di una indagine che ancora non ha superato il vaglio dei giudici. Le persone semplici ammirano gli uomini con la divisa o con la toga. Li vedono maneggiare il potere e pensano di avere a che fare con menti superiori, con una categoria professionale e seria al cento per cento. Ma una categoria simile non esiste in nessuna parte del mondo. Come capita in qualsiasi azienda, fra migliaia di persone che lavorano nel migliore dei modi si troverà sempre una percentuale, alta o bassa che sia, che risulta meno produttiva o addirittura incapace. Logicamente l'azienda privata può migliorare in produttività se chi la dirige usa gli strumenti in suo possesso per provare a livellare i suoi dipendenti (se non ci riesce li licenzia). Basandosi su questa ovvia banalità c'è quindi da chiedersi chi diriga l'azienda Italia, in special modo il settore giustizia, visto che lo stesso discorso sulla professionalità si può fare sui giudici. Anche fra loro ce ne sono di molto validi (che sentenziano basandosi sul codice penale e sul buonsenso) e di poco validi (quelli che si affidano alle procure e a regole proprie non scritte in nessun codice penale). Che sia così non è una mia impressione, ma è un dato di fatto visto che la nostra giustizia non sta messa bene (prima di noi in classifica ci sono Gambia, Mongolia e Vietnam), visto che Strasburgo ciclicamente ci multa a causa dei processi infiniti e dei troppi anni trascorsi in carcere da chi è in attesa dei verdetti. Nessun media alza la voce e il popolo non si indigna per i tanti milioni di euro buttati al vento da una categoria privilegiata con stipendi di lusso. Forse è per questo che la pubblica opinione non ha neppure capito che in Italia i veri criminali, nonostante le indagini massicce e i tanti denari spesi, non si scoprono mai (vedi il caso del "mostro di Firenze", ma anche di Simonetta Cesaroni, Serena Mollicone, Emanuela Orlandi, Denise Pipitone, Cristina Golinucci, Angela Celentano e tantissimi altri archiviati o in odor di archiviazione). Anche i criminali stranieri sanno che i nostri processi faticano a partire e quando partono non arrivano coi tempi giusti, che troppo spesso finiscono con la prescrizione del reato, che troppo spesso sono preparati e celebrati con spirito libero e fantasioso e non con le tavole della legge. Lo sanno che in una situazione del genere difficilmente rischiano di restare per troppi anni in una cella italiana. E questo dovremmo saperlo anche noi, dato che siamo una delle nazioni che non accontentandosi di avere una propria e ben nutrita lista di organizzazioni criminali (mafia, n'drangheta, camorra e via dicendo) permette ad altre di entrare liberamente e proliferare. Criminali africani e dell'est Europa, della Cina e di ogni altro Stato che applichi pene certe e dure, si ritrovano nelle nostre città e si associano perché da noi certi crimini sono ormai una routine e per i media non paiono essere di prima fascia. Pochi sono i delinquenti che una volta arrestati da poliziotti e carabinieri restano in carcere. Alla faccia di chi ha rischiato anche la vita pur di portare di fronte a un giudice chi è di certo colpevole perché arrestato in fragranza di reato. Ma i loschi personaggi che delinquono abitualmente da noi se la cavano con una tirata d'orecchie e un foglio di via che nove volte su dieci rimane lettera morta. Quante volte ci siamo sentiti dire che l'assassino del tal dei tali era già stato arrestato e poi rilasciato con un foglio di via? Per tutti vale Ezzedine Sebai, che fu arrestato e rilasciato innumerevoli volte prima che si spostasse in Puglia dove uccise moltissime donne anziane. La nostra giustizia è particolare e nelle carceri italiane non ci restano neppure i reo confessi che ammazzano in maniera efferata e che, confessando i delitti, quasi mai vanno in cella prima del processo e dopo la condanna in galera ci stanno dai sette ai dieci anni. Non di più. Da noi, fateci caso, in carcere in attesa dei processi più seguiti dai media ci sono persone incensurate, quelle che come la maggioranza degli italiani vivono una vita semplice e che credendo nella giustizia si dichiarano innocenti perché non è giusto ammettere di aver ucciso se non si è ucciso. Persone che non avendo mai frequentato il mondo giustizia, in cui vivono investigatori procuratori e giudici, non immaginano neppure che una volta rinchiuse in cella non usciranno più perché la custodia cautelare è una bestia assatanata che ubbidisce solo alle procure e che neppure i giudici sono capaci di domare. Gli esempi al momento sono tanti. Si va da Veronica Panarello a Michele Buoninconti, da Padre Graziano a Massimo Bossetti e ad altri un po' meno mediatici. Tutte persone ancora da giudicare che si dichiarano innocenti e attendono in carcere processi e sentenze. Persone che dalle loro celle guardano la televisione e assistono impotenti ai processi sommari in cui vengono stuprate moralmente e condannate a prescindere. Ma più di loro il carcere cautelare ha colpito Amanda Knox e Raffaele Sollecito, ora assolti con sentenza definitiva, e ancora più di questi ultimi è toccato a Sabrina Misseri (ma anche a sua madre) sulla cui posizione occorre soffermarsi un attimo. La stragrande maggioranza degli italiani crede che la ragazza di Avetrana abbia ucciso sua cugina e meriti di restare in galera. Lo crede non perché ci siano prove a conferma, non perché a processo sia stata dipinta quale ragazza vendicativa capace di alzare le mani sulle rivali, ma perché l'informazione e gli opinionisti mediatici, in nome e per conto della procura, hanno spruzzato quell'enorme odore di pregiudizio che fa perdere alla mente ogni cognizione razionale. Tutti si sono sentiti, grazie all'impronta data alle notizie dai giornalai, buoni investigatori e buoni giudici e tutti ora credono che per giudicare colpevole una persona, semplice come loro ma dipinta di nero dai media, non serva leggere gli atti e ascoltare gli interrogatori ma basti l'intuito, il particolare stonato che fa pensar male ed è confermato dal tal opinionista televisivo che, dice, ha letto ogni parola. Ma non è vero che ha letto ogni parola è non così che funziona la giustizia. Se si ragionasse a questo modo tutti potremmo finire in carcere e dopo essere dipinti di nero restarvi per la vita. Per giudicare occorre avere la mente sgombra. Per imbastire un giusto processo bisogna evitare che i giudici popolari ascoltino gli opinionisti dare per certa la colpevolezza dell'imputato che ancora deve essere giudicato. I giudici togati e popolari non si scelgono ad inizio indagine ma a inizio processo. Perciò non si possono tenere all'oscuro di ciò che nel frattempo sui media "si dice" e si dà per certo. Per questo i giudici moderni, togati e popolari, quando un processo è mediatico non dovrebbero essere italiani ma stranieri. Solo così vi sarebbe la certezza di far entrare in tribunale persone che nulla sanno né del crimine in questione né di chi la procura crede colpevole. E' l'unica soluzione accettabile, dato che invece di far parlare e scrivere i giornalisti specializzati gli editori lasciano campo libero ai giornalai dello scoop. Per essere veri giornalisti, per essere idonei ad informare la pubblica opinione (quindi anche i giudici popolari) senza inserire pregiudizi, occorre saper guardare i fatti senza emotività e ragionare con la propria testa evitando di riportare, in video o sui giornali, quanto dice l'accusa senza prima averlo vagliato con logica e, se è possibile, senza prima averne parlato con la difesa. Invece il settore informazione è in confusione. Vige la regola del chi prima arriva meglio alloggia e pur di pubblicare lo scoop non si verifica nulla di quanto si scrive finendo per fare il gioco di chi sa bene che le parole fanno più male delle armi. Un giornalista degno di tal nome, dopo aver letto gli atti e ascoltato i vari testimoni interrogati nel primo processo di Taranto non potrebbe fare a meno di dire ad alta voce che non c'è uno straccio di indizio valido che faccia pensare colpevole Sabrina Misseri, che per assolverla sarebbe bastato un solo processo celebrato in un'altra città. Purtroppo non tutti hanno letto e ascoltato e purtroppo a qualcuno, che sui media ci sguazza, la condanna "fa gioco". Ma lasciamoli perdere i processi di Taranto perché troppo spesso si rivelano sbagliati (vedi Domenico Morrone e tanti altri condannati dai giudici tarantini e poi riconosciuti innocenti) e concentriamoci sulla legge italiana che vuole in custodia cautelare chi, accusato di un crimine, restando libero ha la possibilità di reiterare il reato (un serial killer dovrebbe restare in carcere, non un incensurato ancora da giudicare), di fuggire dall'Italia (un criminale sconosciuto al grande pubblico che ha amicizie a Santo Domingo dovrebbe restare in carcere, non chi per anni ha visto la sua faccia campeggiare sui media) e inquinare le prove (se ci sono indagini in corso e testimoni da interrogare è giusto che l'imputato resti in carcere, ma quando le indagini finiscono cosa può inquinare?). Queste le tre condizioni necessarie per tenere in galera chi è in attesa di processo (ne basta una valida per non liberare gli imputati). Ora dovete sapere che Sabrina Misseri è in custodia cautelare dal 15 ottobre 2010 e che il giudice Patrizia Sinisi qualche giorno fa le ha notificato un atto in cui le comunica che, non si dovesse pronunciare prima la Corte di Cassazione, magari perché alla giudice servirà più di un anno e mezzo per motivare la sua sentenza (d'altronde la sua collega tarantina Cesarina Trunfio ci mise un anno), i termini di custodia in carcere per lei scadranno nel settembre del 2017. Quindi, per la ragazza di Avetrana i giusti anni in custodia cautelare sarebbero sette, tanti quanti ne ha scontati un marito di Belluno dopo aver ucciso la moglie con venti coltellate mentre la loro bimba dormiva nella camera accanto. In pratica, l'uomo di Belluno, che certamente è un assassino dato che ha ucciso barbaramente sua moglie, dopo soli sette anni di carcere è tornato libero perché ha scontato la sua pena. Sabrina Misseri, che come altri imputati italiani è in custodia cautelare perché si è dichiarata estranea al delitto, potrebbe invece restare sequestrata per gli stessi sette anni... ma senza motivo se alla fine dell'iter processuale la Cassazione dovesse ritenerla innocente. In certi casi la giustizia italiana interpreta a suo piacimento. Bruciato il codice penale se la prende comoda, motiva a piacimento e dopo aver fatto un rapido calcolo matematico decide che tutto torna. Come se fosse normale restare chiusi in galera in attesa di essere processati per qualcosa che si dice non aver commesso. Certo è che tanti procuratori e giudici ritengono la custodia cautelare in carcere una misura giuridica normale, visto che per anni e anni chiudono in galera gli imputati che si proclamano innocenti. In carcere sono e in carcere devono restare quelle persone che l'accusa vuole colpevoli. Anche se sono incensurate, anche se non ci sono prove e gli indizi non si incastrano fra loro, anche se non sono ancora state depositate le perizie in grado di confermare, ma anche di smentire, tesi accusatorie che spesso superano la normale immaginazione. Penso a Massimo Bossetti, arrestato in maniera vergognosa mentre lavorava e infilato in galera a causa di un Dna strampalato. Penso a Michele Buoninconti, arrestato a causa di una perizia voluta dalla procura che due mesi dopo anche i tecnici dei carabinieri hanno smentito. Penso a Veronica Panarello, arrestata dopo un interrogatorio fuorilegge e chiusa in carcere in attesa di una perizia che potrebbe inchiodarla ma anche scagionarla. Penso che se per i procuratori e i giudici è normale che una ragazza resti sette anni in custodia cautelare, dovrebbe essere anche normale che chi lavora per lo Stato paghi con la stessa moneta se un domani la Cassazione decidesse, a buon ragione, di mettere davvero in pratica le motivazioni della sentenza Knox-Sollecito. Insomma, le ricostruzioni accusatorie assurde non sono idonee né a condannare né a tenere in carcere persone incensurate e chi le fa proprie, per ottenere condanne e condannare, deve assumersi le proprie responsabilità se invece della condanna arriva l'assoluzione. Arrestare e rinchiudere in carcere persone innocenti è o non è un sequestro di stato? Se un domani prossimo a venire Sabrina Misseri, Cosima Serrano, Veronica Panarello, Massimo Bossetti e gli altri ora in galera venissero scagionati per l'assurdità delle ricostruzioni accusatorie, chi ridarebbe loro la dignità stuprata dai media e gli anni trascorsi ingiustamente in cella? Chi ridarebbe la vita e la dignità persa a una ragazza diventata donna in carcere, a una madre a cui hanno ucciso un figlio e a un carpentiere a cui hanno distrutto vita e famiglia? Non c'è in natura nulla che possa ridare quanto perso. Non c'è nulla che possa riuscire a cancellare il dolore subito a causa di persone che non si sono mostrate professionali. Chi manda in carcere le persone innocenti capisce quanto dolore provoca? Forse no, forse certi magistrati dovrebbero provarlo sulla loro pelle per capirlo. Ed allora non c'è altra soluzione che mandare in carcere i procuratori e i giudici che vogliono e avallano la custodia cautelare senza avere in mano prove serie. Magari con ricostruzioni oniriche o fantasiose. Questi uomini a cui lo stato dona potere sarebbero disposti a pareggiare la situazione e a rimetterci del loro nel caso di assoluzioni in Cassazione? Sarebbero disposti a mostrarsi uomini veri e ad andare in galera se si scoprisse che non hanno lavorato in maniera professionale? Io credo di no. Credo che non rinunceranno mai ai privilegi che garantisce lo stato anche se loro per primi, sequestrando e mandando persone in carcere (senza avere alcuna certezza della colpevolezza), sputano sopra la presunzione d'innocenza e su altri diritti che la Giustizia vuole siano garantiti a chi viene indagato. Non ultimo quello di poter attendere gli esiti dei procedimenti giudiziari assieme alla propria famiglia e non in carcere. Quella della custodia cautelare ingiusta è una piaga che va debellata, non v'è dubbio, e dovrebbe essere l'informazione a inserire il dito nella ferita affinché il male continuo costringa le istituzioni a curarla. Ma quando mai lo farà? A parer mio basterebbe un anno di"occhio per occhio - dente per dente" per rimettere in carreggiata i magistrati che ne abusano. Non sarebbe una cosa assurda e visto che tantissimi procuratori e giudici sono davvero bravi e professionali, forse non sarebbe neppure difficile da far accettare a quella maggioranza dei magistrati che da tempo è stanca di essere accomunata a certe persone...
Noi non possiamo tacere. Meditazioni su giustizia e dignità della persona. Convegno Palaia (16 settembre 2015). Processi in tv: dall'indizio all'elaborazione "letteraria" del pregiudizio (passando per gli artifici della retorica). Intervento di Annamaria Cotrozzi pubblicato da EUGIUS - Unione Europea Giudici Scrittori - Non sono un'addetta ai lavori: per professione non mi occupo di diritto, ma di testi classici. Mi sono accostata alle tematiche che oggi affrontiamo per senso di dovere civico, in quanto sempre più sconcertata di fronte alla deriva inarrestabile delle gogne mediatiche e dei "processi" celebrati in tv, del tutto al di fuori sia dalle regole del diritto, sia dal rispetto della persona e dai valori dell'humanitas. Di recente, le motivazioni del verdetto di Cassazione sul caso Kercher hanno esplicitato il condizionamento che sulle indagini, e di conseguenza sull'iter giudiziario, può essere esercitato dalla pressione mediatica. Dopo tale autorevole parere, direi che la questione abbia ora il crisma dell'allarme ufficiale. Le sentenze televisive, anticipate e costruite, giorno dopo giorno, sul pregiudizio mediaticamente indotto, possono influire sull'esito dell'iter giudiziario vero e proprio, e portare alla conferma, in sede di tribunale, di condanne già da tempo date per scontate, sancite dalle opinioni degli ospiti dei programmi di cronaca, e richieste a gran voce dall'opinione pubblica che da tali opinioni è stata inevitabilmente condizionata. Fiction. Quando un caso giudiziario sale alla ribalta della cronaca ed entra nei "salotti" televisivi, si crea un circolo vizioso per cui, paradossalmente, proprio l'indizio più vago, più labile e oggettivamente meno significativo è quello potenzialmente più adatto ad essere romanzato, ad avviare un racconto d'invenzione, a fornire spunti per la fiction di intrattenimento con cui si riempiranno infiniti pomeriggi: il tutto avviene mediante una serie di procedimenti retorici che meriterebbero un'indagine specifica e dettagliata (magari anche da sviluppare in tesi di laurea). Va anche detto che lo strapotere degli opinionisti dei talk show - ognuno dei quali, odierno Minosse, "giudica e manda secondo ch'avvinghia", in base, spesso, a una conoscenza palesemente approssimativa del caso - è anche conseguenza della fine del vero giornalismo, quello d'inchiesta, a cui si è ormai sostituito il giornalismo ombra di se stesso, il giornalismo del "copia e incolla", quello che si limita a raccogliere il gossip e a entrare nella catena del tam-tam mediatico senza verificare la notizia (violando l'abbiccì delle norme del giornalismo), e che ripropone all'infinito e amplifica i presunti indizi filtrati dalle sedi giudiziarie, presentandoli come verità assodate tramite la ripetizione parossistica delle frasi fatte, capziose e e imbroglianti, alle quali il pubblico si abitua fino a farle proprie (e fino a credere di averle pensate autonomamente, come avviene con la pubblicità occulta). Evidente meccanismo di manipolazione, che uccide il senso critico. Avetrana. A mio avviso, in questi ultimi anni, tutto questo è stato rappresentato emblematicamente dal caso Scazzi, di cui mi sono occupata in modo approfondito maturando il convincimento dell'innocenza delle due imputate, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, in custodia cautelare da cinque anni e raggiunte, anche in secondo grado, entrambe dalla condanna all'ergastolo. Il poco tempo a disposizione non mi consente ovviamente di approfondire in questa sede l'analisi del delirio mediatico verificatosi intorno a questo specifico caso, né di dedicare a questo tragico fatto di cronaca, e alla sconcertante vicenda giudiziaria che ne é seguita, tutto lo spazio necessario. Mi limito quindi a riferirmi a questa vicenda allo scopo di esemplificare i suddetti procedimenti di manipolazione retorica. La tv ha dedicato a questo caso montagne di ore, un vero delirio senza precedenti: ricordo che fu la diretta televisiva no-stop della sera in cui fu ritrovato il corpo della giovane vittima a far schizzare in alto sia l'interesse per la vicenda, sia, di conseguenza, l'audience. Le immagini. Nella civiltà dell'immagine, ha preso ovviamente campo anche la retorica visiva (analoga a quella verbale). Effetti devastanti si possono ottenere anche attraverso l'uso di fotogrammi fissati ad hoc e riproposti all'infinito, a fine suggestivo, come avviene in pubblicità: Sabrina Misseri con l'espressione tormentata o che piange (e così si è dato credito al nonsense dell'espressione "lacrime di plastica"), Amanda Knox e Raffaele Sollecito che si baciano all'indomani della tragedia, Cosima Serrano che spinge il marito in garage per sottrarlo all'assalto di giornalisti e fotografi, un gesto riproposto ad arte come rappresentativo del presunto ruolo dispotico della donna, data in pasto al pubblico come la "sfinge" e la "matriarca", in linea con quanto richiesto dai ruoli e dalla trama del "romanzo a puntate" in cui la l'evento tragico si andava trasformando. Come si vede, siamo persino sotto la soglia dell'indizio, ma l'immagine trasmessa e ritrasmessa mille volte è sufficiente a scatenare l'odio popolare, e viene tradotta mentalmente: "lei è quella che ha ucciso la ragazzina e ha ordinato al marito di far sparire il corpo". L'immagine capziosa non resta inerte, ed infatti è divenuta la molla micidiale che ha portato alle grida selvagge e agli applausi vigliacchi del momento dell'arresto, offerto anche quello al pubblico come spettacolo. Una forma di antifemminismo collettivo porta a trovare normale un fatto, a mio avviso, di inaudita gravità, cioè che sulle donne coinvolte in quest tragiche vicende si esprimano giudizi persino in riferimento al loro grado di avvenenza fisica (!), e anche in ciò si pensi di trovare riscontri per gli indizi di colpevolezza (Sabrina gelosa perché non abbastanza bella, Amanda troppo bella e perciò manipolatrice, e altre sciocchezze del genere: sciocchezze, certo, ma dalle devastanti conseguenze). I trucchi della retorica. Sul piano del linguaggio e dei messaggi verbali, la formidabile cassa di risonanza televisiva riesce a mettere in circolazione assiomi fatti passare per verità provate, slogan la cui vacuità è mascherata da deduzione logica: "allora si è uccisa da sola" (frase che circola nel web in riferimento a tutti i casi di cronaca divenuti famosi), "sono stati gli extraterrestri"; più grave ancora l'ipocrisia ricattatoria con cui il colpevolismo acritico e viscerale si accaparra la difesa della vittima tramite frasi del tipo: "io sono dalla parte della vittima" (donde il paralogismo: se difendi gli indagati o imputati, vuol dire che tu non sei dalla parte della vittima) , "se fosse stata tua figlia?". Falsi sillogismi. Si sono usati, nel caso di Avetrana, per dare consistenza al presunto movente della gelosia: per crearli si diffondono notizie inesatte (la storia, falsa, dei diari di Sarah che Sabrina avrebbe nascosto), si insiste sull'aspetto fisico dell'imputata (era grassa, la cugina era magra, dunque l'invidia e la gelosia sono possibili, dunque ha ucciso per gelosia). Passaggio successivo sono le domande rivolte agli "esperti": secondo lei si può uccidere per gelosia?" "Sì, certo che si può" (lo sappiamo tutti che si può, non occorrono gli "esperti"): ergo Sabrina ha ucciso per gelosia (esempio ricorrente di falso sillogismo in questa vicenda). Il lessico. A farci caso, si riscontra la passione dei media per le espressioni verbali dure, violente, quasi sadiche: incastrare, inchiodare, torchiare. C'è sempre, in agguato, lo scoop riguardo a "prove" che incastrerebbero l'imputato di turno (poi si scopre, il più delle volte, che si tratta in realtà soltanto di parvenze di indizi, o di elementi irrilevanti interpretati come tali). Il sensazionalismo, comunque, si manifesta soprattutto nell'abuso del termine "supertestimone", ormai irrimediabilmente inflazionato, e riferito in genere ad autori e autrici di banali "rivelazioni" da gossip paesano. Va aggiunto il "Vergogna"!, il grido preferito di giustizialisti e giustizieri, quello urlato dalla folla inferocita accorsa a godersi gli arresti, o davanti ai tribunali in caso di assoluzione, dovunque nel web. L'uso perverso della retorica, soprattutto da parte di giornalisti e operatori televisivi, consiste anche nell' illuminare il segmento che interessa oscurando ciò che andrebbe a favore dell'imputato: è un procedimento, del resto, canonizzato nei trattati di oratoria (le Controversiae di Seneca il Vecchio ce ne rappresentano l'uso concreto e abituale nelle esercitazioni delle antiche scuole di retorica); la retorica, si sa, procede anche per omissioni: e così, per esempio, della questione orari, dirimente nel caso di Avetrana, in tv non si parla quasi mai, e mai con precisione: la retrocessione forzata degli orari, in base a testimonianze – malcerte - di mesi dopo, è il vero scandalo di questa vicenda giudiziaria. Naturalmente si parla invece moltissimo, all'interno di affrettate analisi psicologistiche da due soldi, di atteggiamenti ritenuti strani e sospetti, reazioni emotive, espressioni facciali, presunta eccessiva agitazione, presunta eccessiva calma delle persone imputate. Sì, per paradosso sia l'agitazione, sia la calma si prestano a essere interpretate come indizi di colpevolezza: altro espediente – di bassa lega, sia chiaro – della retorica televisiva. Le condanne a furor di popolo: cominciano dagli sms forcaioli letti in trasmissione. A tutto questo bisogna opporsi, con le armi della civiltà e della ragione, altrimenti secoli di progresso nel diritto saranno spazzati via dallo strapotere mediatico, dalla grancassa televisiva, dalle urla maleducate con cui, in quei "salotti", viene non di rado impedito e interrotto anche il più timido tentativo di approfondimento: un'inciviltà (travestita da voglia di giustizia), che, tra l'altro, alimenta nel pubblico un modo di ragionare e di esprimersi primitivo, rozzo e persino violento (si pensi al dilagante "gettate le chiavi": perché allora non anche inchiodare la porta, “chiavar l’uscio di sotto”, come si fece col conte Ugolino?). Che cosa può fare, per esempio, la scuola? Con una tv così diseducativa, con programmi che uccidono sia il senso critico che il senso di umanità, a mio avviso deve fare quello che è da sempre il suo compito: insegnare a pensare, favorire l'autonomia del giudizio, lo smascheramento del trucco retorico, la demolizione del pregiudizio alimentato ad arte, il riconoscimento dei meccanismi di manipolazione e degli espedienti "pubblicitari" a cui prima ho fatto riferimento. Ci si può anche aiutare con la letteratura, dove tutto è già stato detto: Per esempio, sarebbe importante far riflettere i giovani sul fatto che il linciaggio mediatico è la versione moderna del procedimento, analiticamente descritto da Manzoni, della caccia agli untori; si potrebbe proporre la lettura del capolavoro di Dacia Maraini, "La lunga vita di Marianna Ucria", con la descrizione della folla che accorre a gustarsi una barbara esecuzione di piazza; si potrebbe anche ricordare loro che il percorso allucinante, da incubo, di un innocente che finisce in arresto e sotto processo ce lo ha già raccontato Kafka. Per concludere: ma perché accade tutto questo? Perché mai è così facile, da parte dei media, alimentare (irresponsabilmente, visto che chi detiene il megafono televisivo avrebbe l'obbligo della massima prudenza) il colpevolismo acritico e viscerale, e addirittura l'odio, il linciaggio verbale che potrebbe persino diventare linciaggio fisico, se gli imputati finissero nelle mani della folla (come si vede, ripeto, dagli applausi, gli insulti e gli sputi agli arresti)? Anche qui il mondo antico ci può suggerire delle risposte: forse per lo stesso motivo antropologico, per le medesime pulsioni che facevano accorrere il popolo agli spettacoli di sangue dell'arena (utile rileggere l'epistola 7 di Seneca), e forse anche per il medesimo istinto e intento autopurificatorio, anch'esso di notevole interesse antropologico, per cui una città proiettava sul malcapitato di turno (il pharmakòs, una vittima sacrificale predestinata), tutti i mali che voleva stornare da sé: versione mitigata e divenuta quasi simbolica, secondo alcuni, di un precedente uso dei sacrifici umani. L'espulsione violenta del poveretto dalla comunità, attuata con umilianti gesti di maltrattamento rituale, aveva una funzione espiatoria di chiara valenza apotropaica. Forse illustrare tutto questo alle generazioni che cerchiamo di educare non guasterebbe.
PARLIAMO DEI PRESENZIALISTI IN TV.
Presenzialismo: l'assidua presenza ad ogni genere di avvenimento.
Il Presenzialista definito da Paolo Fabbri. Ci sono parole da venirci a parole, cioè da prendere a (male) parole. Come Presenzialista, neologismo dall'alito cattivo. Perché mai? Coi tempi che corrono chi non è presente è imperfetto e non ha futuro. Ricordate le scritte ubique "dio c'è"? Ecco, quel che conta non è l'essenza ma la presenza. Bisogna esserci e, come da etimologia, sporgersi in avanti (lat. prae-sum). Il verbo Presenziare è diventato intransitivo: in locuzioni come "Presenzierà Sgarbi", Sgarbi è soggetto e pagato per esserlo. È di prammatica quindi il Presenzialismo, "tendenza ad essere sempre presente ad avvenimenti di qualche importanza, ad intervenire a manifestazioni pubbliche, a incontri mondani, a partecipare ad iniziative culturali o simili per esibizionismo, snobismo o vanità" (Treccani). Con lo scopo di far parlar di sé e curare la propria immagine in condizioni d'ufficialità e di privilegio. Scavalcato l'aggettivo Presenziale, segnaliamo l'arrivo in massa dell'immancabile e invadente Presenzialista, sostantivo e aggettivo: lui assiste e partecipa sempre, incontra "grossi personaggi", rilascia dichiarazioni dimenticabili alla luce dei flash, in un bagno di folla VIPpesca. (È recente la notizia di un Presenzialista che ha chiesto di partecipare ad un applaudito funerale, con un posto "sotto il morto"). Intrufolato nell'inesistenza, il Presenzialista è pluralista e antideologico, tuttologo e nientologo. Non è tenuto ad alcuna presenza di spirito, bastano le tracce mediatizzate del suo effimero esserci. Come la nota presentatrice o il Presenzialista per antonomasia, Gabriele Paolini che impalla le inquadrature di qualunque trasmissione televisiva. Tutt'al più qualche alterco e chiassata, con l'obbiettivo d'attrarre gli obbiettivi e giungere "sulla bocca di tutti". Il Presenzialista è un instancabile collante da gossip, personalmente lubrico e socialmente lubrificante: più che un uccello impagliato mi ricorda l'inevitabile macchia di grasso da ricevimento in piedi. Che fare? Un antiPresenzialismo è ancora possibile? Non esserci significa ormai farsi fantasma, rifiutarsi alla comparsata è diventare un disapparecido. Attenti: non si tratta più d'esibizionismo mediatico del sembrare, ma d'un nuovo modo d'essere. Presenzialista è chiamato il corpo di spedizione italiano in Iraq. E all'intellettuale organico, che firmava ogni appello, si è sostituito l'iper-Presenzialista e auto-Presenzialista telematico, che si presenta instancabile ogni volta che aprite l'e-mail. È necessario riallacciare la rete semantica della presenza e dell'assenza. Non si parla più dell'antico arrampicatore, che si muoveva in una società stratificata: del vecchio protagonismo, che primeggiava in eventi reali, del divismo, che calcolava accuratamente le sue manifestazioni. Tutto è Presenzialistico: anche la regolare frequenza al proprio posto di lavoro: ed è assenteista chi manca ad un luogo per Presenziare in un altro! Propongo allora d'introdurre la parola Assenzialista - calcata su assistenzialista - che designa quanti sanno che il loro assenteismo sarà più notato del loro Presenzialismo.
IL MERCATO DELLA MORTE IN DIRETTA. PELLEGRINAGGI DELL'ORRORE AD AVETRANA: I "GIORNALISTI" SI MERAVIGLIANO? Scrive Lucio Galluzzi. Da ieri la maggior parte dei TG e della stampa quotidiana racconta con meraviglia e disappunto quello che sta succedendo ad Avetrana con il turismo dell'orrore. Il Sindaco del paese ha dovuto transennare, bloccandone l'accesso, le vie che conducono a casa Scazzi e Misseri perché sono in arrivo pullman da diverse regioni italiane che trasporteranno famigliole necrofile sui luoghi del delitto. Papà e mamme, nei giorni scorsi, hanno perfino "pellegrinato" con i loro bambini sul sito del pozzo,dove era stato occultato il cadavere di Sarah. I nostri giornalisti si meravigliano adesso? E con quale faccia? Usando che etica? Non parlo dell'etica professionale, anche se ci sarebbe molto da dire pure su quella, ma quella personale, che ti obbliga, ad certo punto, quando hai superato i limiti della decenza a fermarti e rinsavire un po'. I meravigliosi meraviglianti fanno finta di accorgersi solo ora dei "mostri" che creano. Ci svendono l'apparente memoria corta dei loro "operati". Già era successa la stessa identica cosa per Cogne. Ancora oggi la villa Franzoni è mèta di "escursione con foto panoramica" che includa villeggianti con sfondo casa omicidio. E già: non se lo ricordano i raccontatori indefessi del macabro, giunto al delirio investigativo privatissimo, per Avetrana si fingono illibati. L'elenco delle trasmissioni che si occupano a ciclo continuo dell'orrore per Sarah è lungo: Quarto Grado, Pomeriggio 5, Mattina 5, Porta a Porta, Chi l'ha Visto?, La Vita in Diretta, Matrix, L'Arena, Buona Domenica, L'Italia sul Due, Uno Mattina… tutti e sempre con gli stessi personaggi. A parte i politici, che devono essere presenti come il prezzemolo di ogni minestra, per legge par condicio [che c'entrano i partiti con la cronaca nera?], il ventaglio degli ospitati è alquanto ristretto, pochi nomi che saltano da uno studio all'altro per dire sempre le stesse identiche cose, cambiando solo qualche termine, così non pare recitazione a memoria. Ad occuparsi di morti ammazzati male, ed ancora peggio [vedi anche caso Claps] ci sono:
l'immarcescibile moglie di Rutelli, quella Barbara Palombelli che di viso ricorda tanto la statua dell'impassibilità botulinica, specializzata ormai solo in terrore famigliare;
l'immancabile, inguardabile ed inascostabile Francesco Bruno, criminologo, quello che parla come un etilista affetto da insonnia cronica, talmente presente che l'altro giorno, in diretta, s'è addormentato tra un servizio ed un altro e al richiamo della conduttrice non rispondeva… ;
l'oscar dei presenziasti del terrore Alessandro Meluzzi, psicoterapeuta, psichiatra, prete, rappresentate di Comunella e Liberattutti… non si capisce bene cosa sia, come non si comprendono i deliri integralisti cattolici che spara a raffica;
il George Clooney del crimine, Massimo Picozzi, ormai assunto in cielo come Verbo Assoluto della Verità Inconfutabile;
l'ex capo dei RIS di Parma, Luciano Garofano, dimessosi dall'incarico che ricopriva dopo una denuncia dell'avvocato Taormina per "presunte irregolarità durante le consulenze tecniche prestate dal Ris in diversi casi. Le accuse a suo carico sarebbero di truffa ai danni dello Stato, abuso d'ufficio e falso ideologico." [IGN, 15 nov 2009];
Roberta Bruzzone, criminologa, pare uscita da una fiction, è bellissima;
Antonella Boralevi, scrittrice, tuttologa, Pomeriggio 5 la gettona per tutto: dagli UFO alle madonne piangenti, dagli stupratori seriali alle diete dimagranti di Hollywood;
Vittorio Sgarbi, non è commendabile, lo fa già da solo, una capra;
Paolo Crepet, lo psichiatra, quello che ha smesso i maglioni Missoni, i baffi, si è cancellato l'aria da ragazzone e ora pare uno dei figli adulti seri di Ugo Tognazzi, onnipresente quando si parla di infanzia e adolescenza;
Simonetta Matone, giudice del Tribunale per i Minori, presenzialista governativa: dalla festa cavallerizza di Gheddafi a quella della donna insieme alla Carfagna a Belio Polje [Kosovo] nel villaggio dei militari italiani: sa tutto di "sparizioni" di adolescenti, è stata lei in una diretta da Porta a Porta collegata con la mamma di Sarah a dire senza mezzi termini "il ritrovamento del telefonino è un segnale, come dire chi sa non parli… è chiaro che a questo punto la ragazza è morta" [Porta a Porta, puntata dopo il ritrovamento del cellulare parte di Misseri zio]; per correttezza di rilevamento la notizia alla signora Concetta sulla figlia ormai morta non è stata data da "Chi l'ha Visto?" ma dalla signora Matone e parecchi giorni prima. A tutte queste comparsate si devono aggiungere i conduttori [con tutti i loro inviati] sul luogo del crimine, anche loro sono tutto un programma di eticità: Barbara D'Urso, Federica Panicucci, Claudio Brachino, Paolo dello Debbio, Paolo Liguori, Massimo Giletti, Sonia Grey, Michele Cucuzza, Lamberto Sposini, Bruno Vespa… chi più ne ha ne metta, si aggiungano pure i soliti sacerdoti che per Concordato ci sono pure loro…Da qui il voyeurismo perverso e squallido ricade a cascata su chi sta davanti alla scatola luminosa che guida le menti. Se è normale portare in studio plastici per ricostruire la scena del crimine, inscenare con attori le dinamiche delle torture e assassinio, mandare inviati a spiare nelle case dei protagonisti del dolore e del crimine, a citofonare nelle case degli indagati, cercare i fidanzati dei cadaveri da poco ritrovati, portare lo scoop sanguinolento prima di tutti gli altri per ottenere la scritta "esclusiva"… è anche normale allora che la gente si senta autorizzata a "visitare" i luoghi della morte, magari a cercare tracce di sperma di uno o dell'altro, vedere se si trovano reperti da portare a casa come souvenir…E' il mercato che lo richiede: tutti diventano profilers, criminologi e opinionisti. E' sempre il mercato che detta legge: più si tratta di sangue e macelli, più lo share aumenta, maggiore è l'introito pubblicitario. La morte in diretta per vendere.
RIFLESSIONE SUI PRESENZIALISTI IN TV ......ESPERTI IN CASI DI OMICIDI, scrive Maria Sabina Lembo. Ritengo che sia necessario un severo controllo dei vari Ordini Professionali che dovrebbero sorvegliare sui comportamenti tenuti dagli iscritti ai vari Albi. Non si può consentire ad avvocati, psicologi e CTU O CTP che stanno lavorando per un procedimento penale in corso di intervenire a dibattiti televisivi peraltro odierni. Chi partecipa a queste trasmissioni, a mio avviso, lo fa a svantaggio del proprio assistito e violando il segreto professionale e anticipando mosse e strategie difensive. Tutto ciò avrebbe un senso a conclusione del procedimento quanto meno di primo grado. in caso contrario anche i membri popolari della Corte d’Assise non saranno sereni nel loro convincimento. L’intervento degli esperti che invece non sono coinvolti nel procedimento de quo, ha un senso meramente discrezionale e soggettivo non avendo essi contezza del fascicolo processuale. Pertanto ritengo che sarebbe preferibile intervistare gli esperti su problemi in generale senza addentrarsi in casi particolari perchè ciò non consente loro di fare affermazioni supportate da dati oggettivi e anzi rischia di bruciarli allorchè si lancino in interpretazioni che spesso non hanno avuto riscontro.
SOGGETTI TELEVISIVI NON MEGLIO IDENTIFICATI: L’INDAGINE CONTINUA…, scrive Fabio Morasca. Se pensavate che il nostro viaggio alla scoperta di soggetti televisivi dalle identità pressochè sconosciute e da un ’utilità apparentemente non dissimile a quella di Flavia Vento, fosse concluso, vi sbagliavate di grosso. La nostra “missione” prosegue con la seconda serie di “soggetti non meglio identificati”, riportati improvvisamente alla luce come solo noi, abili speleologi catodici, sappiamo fare. In barba alle difficoltà riscontrate, e senza perderci d’animo nemmeno per un istante, anche questa volta non lesineremo descrizioni accurate, caratteristiche, particolarità e informazioni personali dei nostri nuovi 4 soggetti misteriosi:
Alessandro Cocco: il soggetto misterioso è solito apparire praticamente dappertutto. Studi televisivi, molteplici trasmissioni e centri di produzioni tv, spesso più di una volta al giorno, al punto che c’è chi si continua ad interrogare se abbia il dono dell’ubiquità. Cocco è il presenzialista più famoso della tv con la bellezza di circa 4.500 “apparizioni”. Insomma, l’abbiamo visto più noi che sua moglie. Con quell’aria tranquilla e beata, tipica di un uomo sulla sessantina, è facile intravedere Cocco affiorare dal pubblico come per magia. E’ talmente facile che diviene logico domandarsi se dorma in qualche sgabuzzino di Cologno Monzese e se abbia davvero una vita privata. Con le sue presenze in tv è riuscito a entrare nel Guinness dei Primati, e con i suoi 24 Festival di Sanremo consecutivi, da spettatore, è stato istituito appositamente per lui il Premio Nobel al coraggio.
Il maggiordomo Ricky: se avvertissimo il bisogno insignificante di stilare una classifica degli uomini più umiliati in tv, il maggiordomo Ricky sarebbe come l’Inter: al primo posto incontrastato. Il suo ingresso in Tv è avvenuto nel lontano 2001, quando Maria De Filippi, in un momento in cui il suo fiuto da talent scout era ko per un raffreddore, decise di portarlo con sè a Uomini e Donne per farlo calare nel ruolo di maggiordomo, visti gli anni di intenso studio all’Actors Academy di Edoardo Costa. Il nostro Ricky non deve aver avuto un’infanzia facile: se vieni trattato a pesci in faccia da una come Tina Cipollari senza fare una piega, significa che ne hai viste di peggio in vita tua. Ha inoltre ammesso di imbarazzarsi molto quando viene riconosciuto per strada, e noi non lo biasimiamo affatto: sappiamo che incassare insulti non è cosa semplice. E’ per questo che si è ritirato, sostituito recentemente da una personalità sicuramente all’altezza: un finto pappagallo telecomandato.
Big Jimmy: se state guardando in santa pace la vostra televisione e tutto ad un tratto il vostro schermo si scurisce senza un apparente motivo, non affrettatevi a chiamare il vostro antennista di fiducia: probabilmente si tratta di un primo piano di Big Jimmy. Figura di spicco tra i soggetti misteriosi, lo si può notare nelle vesti di buttafuori ufficiale in varie trasmissioni, prime tra tutte il Grande Fratello e Buona Domenica. Fissandolo attentamente in volto, e in considerazione della sua stazza fisica abnorme, possiamo confermare che non ha mai fatto il buttafuori in un programma di Rosanna Lambertucci. Big Jimmy ha anche tentato la carriera da attore, ma dopo aver ammirato le sue doti recitative, non solo siamo sicuri che non abbia mai frequentato nessuna Actors Academy, ma anche che abbia preteso a forza il diploma stampando un destro in faccia allo stesso Edoardo Costa. Esaminata nei dettagli la mole di Jimmy, poichè desideriamo continuare a scrivere su questo blog con le nostre manine senza l’utilizzo di alcun sintetizzatore vocale, preferiamo fermarci qui.
Schulz: si può ammirare questo soggetto, neanche tanto misterioso, in tutta quanta la sua bellezza durante La Corrida, nel preciso istante in cui porge il microfono a Gerry Scotti e successivamente fissa la telecamera per pochi nanosecondi con sguardo semilobotomizzato e andatura zigzagante. Ma questa mansione per Schulz è ormai consolidata routine, visti i suoi 30 anni come super-microfonista del Maurizio Costanzo Show. Consideriamo quindi che, se molti ospiti alquanto opinabili si siano potuti esprimere in tutta la loro irriverenza sul famoso palco del Parioli, l’indagato numero uno da perseguire potrebbe essere proprio lui. Schulz però non si fa intimorire, e i 30 anni trascorsi vicino a Costanzo non lo hanno scalfito affatto: ogni venerdì fa la sua tinta al Crodino e il sabato sera è splendido splendente per la Corrida. La pensione è ancora lontana.
Disturbatori, presenzialisti e apparizionalisti in tv: ecco chi sono. Gabriele Paolini, Mauro Fortini e Alessandro Cocco. Si fa presto a definirli ‘Carneadi’, scrive G. Santaniello su “Spot and web”. Mauro Fortini e Alessandro Cocco, chi furono costui? Dei semplici ‘Carneadi’ a sentire solo il loro nome. Ma, a vederli di viso, due personaggi famosissimi, che vantano ore e ore di tv, tanto che tutte le famiglie italiane li hanno riconosciuti almeno una volta nella vita. E tanto che il critico televisivo Aldo Grasso se ne occupa nella sua rubrica sul settimanale Sette del Corriere della Sera in edicola oggi. Il primo è il presenzialista di tutti i tg. Lo si vede apparire a vantaggio di telecamera nei capannelli dei giornalisti all’inseguimento dei politici di turno. Fa finta di segnare qualche appunto sul suo taccuino, ma non è affatto un cronista. Solo l’ex socio di Gabriele Paolini, il disturbatore incubo per tutti i cronisti chiamati a fare un collegamento in diretta dai pressi dei palazzi del Potere romano. C’è da dire, però, che a differenza di Paolini (con cui ha litigato), Fortini non colleziona denunce, solo presenze. Il suo obiettivo, dal 1998, è essere, ogni sera, in tv. Punto e basta. Alessandro Cocco, invece, si definisce un "apparizionista". Alla strada e ai collegamenti dei tg, preferisce le molto più comode tribune degli studi televisivi. Lo si scorge puntualmente tra il pubblico dal 1975. E’ entrato nel Guiness dei primati per essere stato ritratto per più di 4000 volte accanto a dei vip, “stile Forrest Gamp”, scrive Grasso. Ha partecipato ad oltre 2000 programmi televisivi. E nell’ambiente dicono che porti fortuna: per i debutti delle nuove trasmissioni viene letteralmente conteso. Ma a lui basta essere ripreso, anche se solo per un secondo.
Disturbatori e presenzialisti: gli abusivi della Tv, scrive Tommaso Botto su “Dovatu”. Il mondo è bello perché è vario ed è frequentato da tanti personaggi estrosi. Se vedete qualche telegiornale nazionale, ogni tanto vi capiterà di notare due individui (in verità sono di più) non previsti dal rigido protocollo della diretta Tv: infatti, pur non essendo né intervistatori né intervistati, Gabriele Paolini e Mauro Fortini appaiono in video, seppur con modalità molto differenti tra loro. Il trentaseienne Paolini è un vero e proprio cataclisma: appare all’improvviso, si avventa sui microfoni ed urla insulti al destinatario di turno (Berlusconi, Emilio Fede, etc.); temuto e detestato da tantissimi giornalisti è quindi un vero e proprio disturbatore televisivo, con alcune sentenze di condanna a proprio carico e numerosi processi pendenti. Lo zimbello della diretta, creatore del genere. Il cinquantenne Fortini, invece, è pacificamente bonario: si posiziona dietro all’intervistato, per lo più un personaggio politico, e simula di raccogliere le dichiarazioni di questo, annotandole su un taccuino ed annuendo col capo, appoggiando sovente la biro tra le labbra; non disturba mai e può essere classificato come presenzialista televisivo. I due sono molto amici, nonostante uno screzio di percorso. La loro missione è quella di “inquinatori televisivi”: la psiche umana è piena di segreti e di questa originalissima attività i due hanno fatto una professione. Paolini, fondatore del “Paolinismo” è certamente più organizzato (web, uffici stampa, assistenza legale) mentre Fortini, avviato alla carriera mediatica dal primo, si considera “un semplice artigiano”. Paolini, conosciuto anche come il Profeta del Condom, l’Arlecchino della televisione e l’Arsenio Lupin Catodico vanta un curriculum assai intenso: annoverato nell’enciclopedia Garzanti della Tv (Aldo Grasso), ha ispirato alcune tesi di laurea ed è entrato nel 2002 nel “Guinness dei Primati” per i suoi 20.000 sabotaggi; sceso in politica nel 2004, ha fondato il Ppp (Paolini Pro Preservativo); l’Estate scorsa ha festeggiato in grande stile le 2.000 querele ricevute. Ma ne ha anche presentate: “1.500”, ci dice. Ma come campa? “La gente non sa che ho ricevuto in tanti anni 130 mila euro da Rai e Mediaset”, afferma Paolini, “ho poi tre fonti di reddito principali: vendo la mia immagine (un gettone di presenza, ad esempio in discoteca, costa 800-1.000 euro); molti soldi mi nascono dal cinema hard (dieci film, sto ultimando l’undicesimo, tutti distribuiti nei sexy-shop), altri da quote di partecipazione in due saune gay e lesbo; altro reddito, non ufficiale, proviene dalle interviste di giornalisti stranieri. Tutto rigorosamente in nero: le tasse vanno giustamente pagate ma non quando altre persone, come i politici, hanno troppi privilegi; pago solo la tassa per la raccolta dei rifiuti; non pago, come i parlamentari, il treno, ed infatti ho collezionato 178 verbali. Devo, a seguito di sentenze di primo grado, 750 mila euro alla Rai e un milione e mezzo ad Emilio Fede”. Un terremoto: ma Paolini non è solo colore: “Sono assolutamente infelice, perché so che non si può essere felici; ho tentato tre volte il suicidio ma non lo farò più perché non voglio far del male ai miei genitori, con i quali ho un rapporto meraviglioso. Non devo mai fermarmi, se vedo indietro, vedo troppe cose che mi addolorano, in primis l’abuso sessuale subito a sedici anni da parte di un sacerdote. Per un motivo mi sento una persona giusta: faccio picchiare i pedofili.” Mauro Fortini, che ha iniziato per curiosità nel 1998, spiega così il suo operato: “Il taccuino e la penna sono nati istintivamente; dedico due ore al mattino e due ore al pomeriggio all’attività televisiva; nel resto del tempo mi prendo cura di mia madre. Voglio raggiungere il record d’apparizioni; ora sono a circa 6-7.000, anche se le conto in modo casalingo. Paolini ha il record certificato, io no, faccio tutto da solo. Tento di far capire alla gente che i politici pensano solo a rapaci guadagni. Inoltre, stigmatizzo il fatto che, nella crocchia dei giornalisti, vi è solo uno che segue veramente il discorso, gli altri poi vanno a ruota…” Fortini dichiara che non ricava nulla da queste sue apparizioni, anche perché non avrebbe il tempo per sviluppare la carriera televisiva: “Se capita sfrutto l’occasione. Mai ricevuto compensi. Ho partecipato ad alcune trasmissioni come Matrix, Mattino in famiglia, Tg5; sono deluso ma in undici anni solo tre volte a Striscia la notizia. Il Tg3 nazionale mi detesta”. Anche Fortini ha un argomento che gli sta particolarmente a cuore: “In Italia vengono abbandonate le persone anziane, c’è molta indifferenza e finta solidarietà”. Sinceri? Fastidiosi? Patetici? Boh?! Di sicuro è che fanno crescere gli ascolti e che dietro ogni “scemo”, c’è un villaggio. Anche da noi ci sono tanti minuscoli presenzialisti: guardare (il Tgr FVG), per credere.
IN UN PAESE DI DISTURBATI, ANCHE IL DISTURBATORE HA LA SUA CONCORRENZA: E’ MAURO FORTINI, “PRESENZIALISTA”. Il rivale di Paolini vanta 11mila apparizioni dal 1998 al 13 maggio 2013: “Ma io voglio solo apparire, non ho messaggi da dare”. Infatti operatori e giornalisti gli vogliono bene, e spesso fa da “ponte” - Ha 52 anni, campa dell’eredità dei genitori e “lavora” intorno ai Palazzi di Roma 7 giorni su 7…
SUL PALAZZO ALEGGIA IL NEO-DISTURBATORE, scrive Mauro Fortini per "Il Fatto Quotidiano". Antonio Rezza, nel lontano 1996, inventò per il suo film Escoriandoli il personaggio di Elio, "l'uomo che vive all'epicentro della massa": un tizio che tutte le mattine si alzava e raggiungeva manifestazioni, vernissage e marce d'ogni genere pur di finire al telegiornale. Oggi Elio s'è incarnato in un simpatico romano 52enne che chiunque ha visto in tv qualche decina di volte.
Il suo nome è Mauro Fortini: "Io sono un presenzialista, Paolini invece è un disturbatore: lui fa le dirette, io invece le interviste". La distinzione non paia troppo sottile. Mentre Paolini, appunto, disturba i collegamenti, Fortini si piazza invece accanto al politico dichiarante e sta lì muto, impersonando un giornalista: taccuino in mano e penna in bocca, spesso finge morbosa concentrazione stringendosi il labbro inferiore tra pollice e indice, altre volte affida ai suoi fogli un suo inventato resoconto stenografico. Da qualche tempo, in lenta ma inevitabile identificazione tra l'immagine e la realtà, si spinge a fare qualche domanda: "Ho cominciato perché dopo aver accumulato per anni migliaia di dichiarazioni, dovevo espellerle in qualche modo. È come una psicoterapia: così me sfogo pe' tutte le cazzate che ho sentito proprio cor diretto interessato". Un diploma da odontotecnico mai utilizzato ("ce l'ho eh, statale"), Fortini ha vissuto una vita coi genitori al quartiere Ostiense, oggi invece s'è trasferito a Bracciano, da sua zia, e campa con quel po' di soldi che ha messo da parte con la sua quota di eredità: "Tanto io, a parte quello de metteme davanti alle telecamere, non ho vizi: non bevo, non fumo e il caffè lo pijo solo il sabato pe' via della gastrite". E si tiene pure in forma, Fortini: "Oltre ai chilometri che mi faccio in centro tra i posti in cui stanno di solito le telecamere, faccio pure footing due volte a settimana: a 52 anni accetto qualunque sfida co' un ventenne, qualunque...". Come che sia, il nostro è di una professionalità straordinaria. Persino nei weekend in cui a Roma non è previsto alcun appuntamento da telecamera Fortini si fa i suoi "soliti giri": Camera, Senato, sedi dei partiti. Di più: Fortini va "a lavorare" anche quando sta male. In un video postato sulla sua fan page di Facebook (ovviamente ne ha una) si vede lui lamentarsi del freddo: "Oggi m'è venuta pure la febbre... pensa pe' famme n'inquadratura che me tocca fa...". E gli tocca, perché pare non ne possa fare a meno. Dice che ha cominciato "così, un po' per svago", ma adesso il suo scopo è quello di diventare il recordman delle apparizioni in tv: "Ora sto a 40 mila, anche se non sono tutte registrate e il record non me lo certificano: comunque continuo finché le forze mi reggono". La folgorazione per la carriera di presenzialista lo colse la bellezza di 15 anni fa, nel 1998, davanti alla ressa di telecamere seguita al crollo di una palazzina in via di Vigna Jacobini, a Roma: 27 morti, 5 bambini. È lì che Mauro incontra Gabriele Paolini, il disturbatore: "Dal 1999 abbiamo cominciato insieme a fare le dirette del Tg1 da piazza Colonna: siamo andati avanti insieme fino al 2005 con l'elezione di papa Ratzinger". Poi ognuno si è specializzato nel suo campo: Paolini porta avanti la sua guerriglia psicofisica con inviati e cameramen, Fortini s'insinua tra i sentimenti dei presenti col suo modo gentile. E infatti, a differenza del "collega", "Mauro" è assai benvoluto tra i cameramen e i giornalisti che dividono il marciapiede con lui: "Faccio pure da ponte radio qualche volta, gli do le dritte: magari stanno tutti davanti al Pd, per dire, e io li avverto se succede qualcosa da un'altra parte". E così si chiude il cerchio. Anche Fortini, il presenzialista non disturbatore, ha assunto una sua funzione professionale nel circo mediatico collegando apparenza e sostanza: "E pensa che prima manco li guardavo i telegiornali...".
Sveglia alle 5, calci negli stinchi la dura vita dei presenzialisti tv. Mauro Fortini e Niki Giusino. Uno non può lavorare: "Ho la sindrome di Scheuermann". L'altro ci ha provato: faceva l'odontotecnico in nero. "Però quando non c'è il giornalista, i tg usano noi", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Dura la vita del presenzialista, così si definisce Mauro Fortini. Sveglia alle 5. Consultazione immediata della pagina 104 di Televideo, che elenca orari e luoghi degli appuntamenti istituzionali di giornata. Partenza da Bracciano con il treno delle 7.32, arrivo a Roma alle 8.16. Da quel momento in avanti, la Caienna. «Stamattina so' annato: a Montecitorio; a Palazzo Madama, be', dalla Camera e dal Senato ce passo ogni ora; dal ministro Giancarlo Padoan alla Confcommercio, ahò, manco una telecamera ci ho trovato; poi ar Nazareno, sede del Pd; a San Lorenzo in Lucina, sede di Forza Italia; al Forum hotel, dove alloggia Beppe Grillo quando scende nella capitale, nun so se l'abbia scelto perché lì prima ce dormiva Mario Monti; a Palazzo Grazioli, casa di Silvio Berlusconi; a via Uffici del Vicario, sede dei gruppi parlamentari; un giretto ar Pantheon; 'n'artro ar Tempio di Adriano, lì però ormai so' off limits, te fanno entra' solo con l'invito». Ecco spiegato perché alle 15.30, provvisoriamente fermo in un bar, il nostro ingolli una bustina di zucchero dietro l'altra e acqua minerale a garganella, «me devo sostene', me devo idrata'», e come mai il suo peso resti sotto i 65 chili. La maratona quotidiana prosegue fino alle 21.22, quando gli riparte l'ultimo treno per Bracciano. Festivi e ferie mai. Il presenzialista Fortini è quel tizio dal viso smunto che da anni fa capolino dietro gli intervistati nei telegiornali, con una penna appoggiata alle labbra, «eccola qua, s'è pure rotta, l'ho dovuta incerotta'», talvolta elevata all'altezza della fronte e poi di nuovo riportata alla bocca, in un ipnotico saliscendi che distrae il telespettatore, sottrae la scena al potentone di turno e manda in bestia i cameraman, costretti a stringere l'inquadratura nell'inane tentativo di far scomparire l'intruso. Il destino ha voluto che dal 2010 gli intrusi diventassero due: a destra o a sinistra del politico, intento a declamare in 10 secondi netti la sua scipita sentenza quotidiana, compare anche Niki Giusino, chioma da Pel di carota, naso all'insù da Michael Jackson, «l'altra faccia della tv», ipse dixit. E lì c'è poco da stringere perché sono 113 chili, roba che metà video se ne va tutta per lui. Vediamo com'è nato, per partenogenesi, il duplo mediatico. Fortini, il maestro, è del 1960. Diploma di odontotecnico. Genitori defunti. Il padre Bruno, fabbro, aveva la bottega a San Lorenzo ma non forgiava solo inferriate: anche scenografie per la Rai. Quindi c'entra la predestinazione. La madre Nicolina, casalinga, ebbe cinque figli. Giusino, l'allievo, è del 1995. Studi da grafico industriale interrotti al terzo anno per dedicarsi alle comparsate televisive. Il padre Mario, meccanico, lo fece battezzare direttamente Niki, anziché Nicola, sicuro che quello sarebbe stato il diminutivo che tutti avrebbero affibbiato all'ultimogenito, e dunque tanto valeva imporglielo fin dalla nascita. La madre Sara, casalinga, ha messo al mondo altri due figli. Per Fortini la data della prima apparizione in video è il 16 dicembre 1998. Crolla un edificio in via di Vigna Jacobini, 27 morti. Mosso da un inspiegabile impulso, il presenzialista si reca sul posto. Alle 20.30 la sua faccia irrompe in mondovisione nel Tg2. Giuseppe, il fratello di suo cognato che fa il gelataio a New York, la vede e telefona dalla Grande Mela per complimentarsi. «Capii d'aver trovato la mia strada nella vita». Anche per Giusino galeotta fu la morte, in questo caso una sola, benché di rango: quella di Francesco Cossiga. Il 17 agosto 2010 passa dalle parti del Policlinico Gemelli, nota un groviglio di telecamere, decide di fermarsi e s'intrufola nella diretta del Tg3, alle spalle di Francesca Lagorio, la quale alla fine si congratula per l'atteggiamento rispettoso mantenuto durante l'incursione. La coppia Fortini & Giusino ha dapprima oscurato e poi ereditato il ruolo un tempo ricoperto da Gabriele Paolini, il primo disturbatore televisivo, passato dai fogli di via alle disavventure giudiziarie per prostituzione minorile, detenzione di materiale pedopornografico, molestie, tentata estorsione, calunnia, diffamazione, fino al recente rinvio a giudizio per violenza sessuale aggravata e interruzione di pubblico servizio: aveva palpeggiato una cronista del Tg1.
Un'eredità controversa.
Fortini: «Io non sono un disturbatore. Al massimo un abusivo».
Giusino: «Gliel'ho anche detto: a' Gabrie', ma erede de che? Io so' stanco de fa' l'intruso».
E che cosa vorrebbe fare?
«Il postino di Maria De Filippi. A novembre ho intrapreso uno sciopero della fame per impietosirla. Me so' pure girato un video minacciatorio pe' dicce: Maria, la mia incolumità è nelle tue mani!».
Nel 1999, non ancora scoppiato del tutto, Paolini mi confessò che la sua missione era «inquinare i telegiornali». La vostra?
Fortini: «Finire del Guinness world records. Avrò più di 10.000 videocassette delle mie apparizioni. Le sto riversando nei Dvd, prima che si rovinino».
Giusino: «Io ho totalizzato 3.000 dirette. L'attore Francesco Pannofino e Massimo Ferrero, Er Viperetta presidente della Sampdoria, mi hanno detto che ho le doti per fare del cinema. Vorrei sfondare. Finora ho sfondato solo due letti».
Paolini si batteva per la diffusione dei preservativi, tant'è che quando importunò Giancarlo Magalli agitando uno di quei cosi, il presentatore svicolò con prontezza di spirito: «L'avesse usato tua mamma, sai come saremmo contenti?». E voi?
Fortini: «L'unico appello potrei farlo per gli animali. Ho allevato di tutto: cani, merli, piccioni, tartarughe. M'è pure morta annegata una gallina nella tinozza in cui mi lavavo. È scivolata sulla sponda saponata, porella. È colpa mia se fino al 1976 in casa al posto del bagno avevamo solo la bagnarola?».
Giusino: «Io tenevo sul balcone, al quartiere Boccea, una pecorella abbandonata. La allattavo con il biberon. Anche un gallo ho allevato sul poggiolo».
Ma non potreste rendervi utili?
Giusino: «Mia zia è laureata in psicologia. Manco la bidella je fanno fa'. Servono le raccomandazioni». Su Twitter ho letto un invito: «Vai al lavoro, consumatore di aria!». «Lascio il mio posto ai più bisognosi. Non lo dico per scherzo. Che potrei fa' con la sindrome di Scheuermann? Giusto le fotocopie. Lavori pesanti no, perché due anni fa sono rimasto per 18 ore sotto i ferri al Gemelli. Il professor Francesco Tamburelli mi ha sottoposto a un intervento di stabilizzazione della colonna vertebrale: protesi in titanio e 88 punti di sutura per correggere una grave forma di cifosi-scoliosi».
Fortini: «Sono stato idraulico, fabbro, muratore. Ho avuto un banco di ferramenta a Porta Portese. Ho esercitato in nero come odontotecnico. Poi per 11 anni ho assistito mi' padre e mi' madre, finché non sono morti e ho perso l'indennità di accompagnamento».
E attualmente di che vive?
«Ho venduto l'appartamento che mamma aveva lasciato a me e ai miei fratelli. Me so' toccati 70.000 euro. Perciò vivo di rendita. Ho fatto conto che non spendo più di 5.000 euro l'anno per mangiare, vestirmi e pagare le bollette. La casa di Bracciano me l'ha messa a disposizione gratis una parente».
E lei, Giusino, di che campa?
«Di Youtube. Il mio canale ha avuto 7 milioni di visualizzazioni in tre anni, quindi attira molti sponsor. Arrivo a farci 300 euro al mese».
Sarete anche sulle spese, stando in giro per Roma tutto il giorno.
«Ci portiamo i panini da casa. O andiamo da Bufala & Pachino, a via Firenze, dove una pastasciutta costa solo 1 euro e 90. Ma se piji un supplì, te lo fanno paga' 1 euro come dappertutto».
Non vi prendono a calci, come fece il povero Paolo Frajese con Paolini in una memorabile diretta del Tg1?
Giusino: «Mi hanno menato solo al corteo della Fiom in partenza da piazza Esedra. Un metalmeccanico m'ha tirato una pedata nello stinco. Tre giorni di prognosi. Se la pijano con noi perché annamo appresso ai politici».
Fortini: «A me Ignazio La Russa ha dato del cojone. Mi ha spintonato e insultato. Potevo denunciarlo».
Dimentica Laura Ravetto, che, stizzita dalle sue interferenze, la invitò a infilarsi «la matita» in quel posto.
«L'onorevole ce scherza, ma a forza di rosicchiare la penna ho perso quattro denti: un incisivo, un canino e due premolari». (Scosta la guancia con un dito, mostrando la cavità orale disastrata).
Che pensa di Matteo Renzi?
«È la brutta copia di Silvio Berlusconi».
Giusino: «No, di mister Bean».
Fortini: «Berlusconi ha tolto la tassa sulla casa. Il Pd l'ha rimessa. Ora Renzi la vuole leva' di nuovo. E gli 80 euro? Ma chi li prende? A me nun m'ha dato gnente. Anzi, da marzo gli inoccupati devono pure paga' er ticket sanitario».
Scusi, Fortini, ma non è geloso di 'sto ragazzone che le fa concorrenza?
«Pe' gnente. Non è mica il primo che entra in competizione. Tra i presenzialisti ce so' stati Valentino Castriota, che poi fu arruolato come portavoce dai familiari della povera Sarah Scazzi; un tal Maurizio da Frosinone; pure una giornalista, 'na certa Bibbi. Ma nessuno è durato quanto me».
So che deve vedersela persino con una vecchietta di nome Annarella.
«Quello è un caso a parte. Ha 89 anni. S'è messa in mezzo nei tiggì dal 2010. Ma lei prende di petto i politici».
Giusino: «E quelli je danno le mezze piotte, così se sta' zitta».
Cioè?
«La mazzetta, 100 euro».
Fortini: «A' voja! Je danno pure i cappotti e i vestiti, je pagano le bollette».
Non tutti sono pazienti come Francesco Nucara, segretario del Pri, con il quale lei s'improvvisò intervistatore.
«Ma quando in piazza c'è solo l'operatore, senza giornalista, e le uniche domande al politico le pone Fortini, le tv mandano in onda le risposte. Allora je vado bene! Me dovrebbero ringrazia'».
Com'è che Papa Francesco non siete mai riusciti a molestarlo?
Fortini: «Troppo star. Nun c'è gusto».
Giusino: «Se fa i selfie pure con i sanpietrini, però è un grande».
Fortini: «La deve smette' de fasse i selfie, sta a diventa' ridicolo. Facesse er Papa. Distante. Che parla dall'alto. Sennò la religione perde la sua sacralità».
Il personaggio pubblico più conciliante?
Giusino: «Maurizio Gasparri».
Fortini: «Ha pure lanciato un appello all'Ordine dei giornalisti perché mi dia il tesserino ad honorem».
Giusino: «Invece Massimo D'Alema e Piero Fassino, quanno ce vedono, scappano».
Comparire sempre nei tg offre qualche chance con le donne?
Giusino: «Io so' stato con due giornaliste di testate online, famose».
Fortini: «Io co' le vecchie. Dai 60 ai 78 anni. Solo sesso orale, però. De davanti me farebbe senso. Tariffario Fortini. Vojono che mi metto la parrucca. Alcune non hanno più avuto bisogno della cardioaspirina. Il sesso fa bene alla salute, che tte credi?».
Chi è il migliore dei due, televisivamente parlando?
«Io, Mauro Fortini».
Giusino: «Questo lo dici te. Alora pur'io dico che er mijore so' io. Però nun lo posso di'».
Ma c'è qualche momento della vita in cui siete seri?
Fortini: «Quando faccio il mio lavoro non retribuito. Ce sto a perde' la vita».
Giusino: «Ai funerali». (Ride).
L'ultima volta che avete pianto?
Fortini: «Nel 2011, quanno è morta mi' madre».
Giusino: «Quanno m'hanno detto che me dovevano opera'».
Un sogno nel cassetto?
Fortini: «Vorrei condurre una trasmissione tipo Geo & Geo. Conosco tutti gli anfratti di Roma, anche quelli dove manco Mario Tozzi ha mai messo piede».
Giusino: «Maria De Filippi forever!».
Io capisco tutto, ma non penserete davvero di arrivare a 80 anni gigioneggiando nei telegiornali.
Fortini: «Ne avevo 39 quanno ho cominciato, mo' ne ho 55. Me tocca continua'».
Senza la tv, che fareste nella vita?
Giusino: «Me butto su Internet».
Fortini: «Il radioamatore».
Non avete mai l'impressione di sprecarla, la vita?
Giusino: «Sì».
Fortini: «No. Perché un giorno si ricorderanno di me».
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini Il Giornale E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».
«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”
In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di
polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta
quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra
amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza
assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le
cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che
sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le
conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica
in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di
giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo
rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti
a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio
Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale che ha portato
quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che,
più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo
un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo
ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e,
più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di
Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per
tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato
illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in
tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte
costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista
a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica,
la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un
Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi
sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
HANNO FATTO CHIUDERE I CIRCHI.
Il sipario strappato dei circhi italiani. Inchiesta di “La Repubblica”. Stretto tra crisi economica, polemiche animaliste e bambini sempre più attratti da altri divertimenti, il movimento circense si trova in grandissima difficoltà con spettatori e incassi in netto calo. Il rischio, in mancanza di una riforma, è che vada perduta una tradizione straordinaria che ha plasmato l'immaginario di intere generazioni e ispirato il genio di artisti come Federico Fellini.
Incassi ridotti e animalisti, storia di un declino, scrive Luciano Grosso. E se, dopo quasi duemila anni, il circo si stesse preparando a smontare il tendone, salutare e andarsene via per sempre? L'ipotesi, per quanto amara e forse ancora lontana nel tempo, è meno peregrina di quel che possa sembrare, perché semplicemente, al circo non va quasi più nessuno. Da un pezzo. Un po' per via del fatto che i bambini, oggi, preferiscono le meraviglie di tv e videogiochi a quelle del tendone, un po' per via del fatto che la crisi c'è, o c'è stata, e non risparmia nessuno, tanto meno uno spettacolo un po' vecchio e impolverato, che a fatica tiene il passo con i tempi, un po' perché i circensi stessi non hanno saputo giocare bene le loro carte nella dura battaglia che da tempo li vede guerreggiare contro gli animalisti, scontro al termine del quale la loro immagine pubblica ne è uscita fatta a pezzi. O forse, semplicemente, perché tutto prima o poi finisce e stavolta tocca a uno degli spettacoli più antichi del mondo. Secondo i numeri della Siae, nel 2013 il circo per la prima volta è sceso sotto il milione di biglietti staccati: 983 mila ingressi, per un giro di affari complessivo pari a 9,8 milioni di euro. Anche negli anni precedenti andava male, ma mai così: solo nel 2006, per esempio, gli ingressi erano stati oltre un milione e 400 mila e il volume di affari aveva superato i 23 milioni. Numeri che all'Ente Nazionale Circhi, l'unico organismo che rappresenta i circensi italiani, certo non piacciono, anche se non li scoraggiano del tutto: "Per capire come sta il circo, bisogna pensare a come sta l'Italia: il circo va allo stesso modo, né più né meno", dice il presidente Antonio Buccioni, che prova a mettere ordine sui vari mali che affliggono il circo e su quello che, invece, lascia sperare che non tutto sia perduto. "Non siamo solo artisti, siamo anche imprenditori e come tali non spendiamo tempo e soldi in un'impresa che non funziona. Se siamo ancora qui vuol dire che la baracca sta ancora in piedi. La nostra fortuna è che il pubblico, per quanto sia poco, è radicato e affezionato e supera le molte difficoltà che il nostro spettacolo incontra". Tra le voci di difficoltà in primo luogo c'è la questione economica: il circo si ritrova al centro di una tenaglia che vede da un lato la crisi picchiare duro, con le famiglie costrette a tagliare le spese per lo svago, e dall'altro il Fus, il Fondo Unico per lo Spettacolo, che ha via via ridotto i fondi messi a disposizione. "I contributi statali che riceviamo sono molto scarsi - continua Buccioni - si parla di una cifra che non supera, almeno per questo ultimo anno, il milione e ottocento mila euro: l'1,1% del totale del Fus, che comunque dobbiamo dividere con giostrai e spettacolo viaggiante. Si tratta di cifre molto piccole se si conta che oggi in Italia ci sono circa 50 circhi che sono attivi 365 giorni all'anno, con costi di gestione elevatissimi non comprimibili, come quelli per la struttura, gli animali, il carburante per spostarsi e le mille questioni burocratiche, come autorizzazioni, imposte e permessi vari, che affrontiamo ricominciando da zero ogni volta che cambiamo piazza, come se fossimo un negozio che fa una nuova inaugurazione ogni settimana. I circhi più grandi arrivano ad affrontare spese che superano i 15 mila euro al giorno e non ricevono più di 250 mila euro: il che significa meno di un mese del loro lavoro". A rendere insonni le notti dei circensi, oltre a questo, ci sono due questioni per così dire politiche: la prima riguarda la strettoia mai veramente risolta della legge del 1968 che prescrive che in ogni comune di Italia ci sia un'area attrezzata per gli spettacoli all'aperto: "In teoria si sarebbe dovuto tutelare il circo e il suo valore culturale, assicurando in ogni comune uno spazio per il circo e lo spettacolo il che, come è sotto gli occhi di tutti, non succede. Anzi. Spesso il nostro arrivo nei comuni e nei paesi viene percepito con ostilità e fastidio"; la seconda questione riguarda l'eterna polemica con gli animalisti, Lega antivivisezione in testa, che da tempo chiedono la messa al bando degli spettacoli che usano animali e l'avvio di un nuovo modo di fare circo, che preveda solo artisti umani. "Esattamente - dicono citando il caso più famoso del mondo - come avviene per il Cirque du Soleil. Se ne gioverebbero anche i circensi stessi, se è vero come è vero che il Rapporto Italia Eurispes 2015 conferma che il 68,3% degli italiani ha una posizione contraria ai circhi con animali. Nonostante questo - dicono ancora dalla Lav - in Italia si stima, perché dati ufficiali non ce ne sono, che siano tenuti in cattività nei circhi circa 2000 animali". "Noi - concludono dall'associazione - ci stiamo battendo affinché chi tiene animali venga escluso dalla distribuzione dei fondi pubblici a prescindere". Accuse e proposte che i circensi rispediscono al mittente: "Un giorno di questi ci sentiremo dire che bisogna mettere al bando i violini perché gli alberi non sono stati fatti per essere suonati - replicano dall'Ente Circhi - Il problema è assolutamente strumentale: in Italia ci sono meno di duemila animali utilizzati dai circhi, di cui più di un terzo equini. Perché i cavalli possono essere usati per l'equitazione, per l'ippica o per la macellazione e non nei circhi?".
"Basta barbarie contro tigri e leoni", continua Luciano Grosso. "Noi non abbiamo niente contro il circo, in sé. Anzi. Auguriamo ai circensi ogni fortuna. A patto però che la piantino con la barbarie dell'uso degli animali". La Lav, lega antivivisezione italiana, è da sempre in prima fila nella lotta, non di rado aspra nei toni e nei modi, contro l'uso degli animali nei circhi. La loro richiesta più forte è che la rinuncia sia la condizione chiave da parte dei circhi per avere accesso ai fondi per lo spettacolo. "Ad oggi, almeno in teoria, dovrebbero essere esclusi dall'accesso ai fondi solo i circhi condannati per maltrattamenti, invece, in genere, questa misura viene disattesa. Nei tendoni gli animali non ci devono stare più. Non è una richiesta assurda, in altri paesi del mondo è stato fatto e senza drammi: in Grecia, Malta e Bolivia sono stati proibiti in toto gli animali; in quasi tutti i paesi Ue sono stati proibiti quelli esotici; il Cirque du Soleil, che ad oggi è il più famoso e popolare del mondo, non li usa e per anni il nostro circo Orfei ne ha fatto a meno. Dov'è il dramma?", si chiedono alla Lav. "Tanto più - sottolineano ancora dall'associazione - che è provato che il pubblico, spesso, si sente respinto invece che attratto da questi spettacoli con gli animali vestiti come pagliacci e costretti a fare cose che non sono nella loro natura". La questione degli animali nei circhi, per come la affronta la Lav, è molto complessa: "Partiamo da un punto fondamentale senza discutere il quale non si va da nessuna parte - dice il vicepresidente di Lav Roberto Bennati - In Italia non c'è un'anagrafe degli animali esotici in cattività: non siamo in grado di sapere né quanti animali di preciso ci sono, né dove sono, né in che condizione di salute sono, né come muoiono, né quanti di loro nascono. Niente". Ad oggi la stima più affidabile, fatta empiricamente girando per i circhi d'Italia, è di 2000 animali di cui si presuppone 400 siano cavalli, 80 'bovidi' tra cui una decina di bisonti e poi cammelli, lama, giraffe, rinoceronti, ippopotami, tigri e altri felini (più di 200), elefanti, pinguini, pesci, rettili e uccelli (in gran numero pappagalli). "Al di là del mistero dei numeri, che non ci sono, parlando di animali nei circhi ci sono tre ordini di problemi: il primo riguarda l'addestramento degli animali, il secondo riguarda il loro mantenimento e il terzo riguarda la loro riproduzione e tracciabilità", dice sempre Bennati. L'addestramento per fortuna nella stragrande maggioranza dei casi oggi non avviene più con metodi violenti, fruste e scosse elettriche, ma con metodi più dolci e di rafforzamento positivo, ricompense più che punizioni. A occuparsene sono i domatori buoni che non ci stanno a fare la parte degli aguzzini e che, anzi, rivendicano l'amore e la sapienza con cui trattano i loro animali che, dettaglio non da poco, dopo generazioni in cattività non potrebbero in nessun modo tornare nel loro ambiente naturale. "Nessuno dice di prendere un leone e di riportarlo nella savana - continua Bennati - Ciò che sarebbe ragionevole fare per questi animali è semplicemente evitare che si riproducano così da far finire la storia. Invece li si mantiene in gabbia". "L'addestramento - insiste il rappresentante della Lav - comporta comunque abusi e forza comportamenti e posture innaturali, violando la dignità degli animali. Il 'rafforzamento positivo', benché sia meno cruento delle vecchie fruste o scosse elettriche, è in ogni caso dannoso perché, come accade ad esempio con i felini, dando loro continue gratificazioni alimentari si confonde il loro apparato digerente. Per non parlare poi del fatto che spesso gli animali vengono trasportati in condizioni misere all'interno di camion per centinaia di chilometri ed esposti in piazzali e tendoni, imponendo loro comportamenti che sono etologicamente inesistenti. Penso allo stare da solo per un elefante che è un animale da branco o il convivere con erbivori per i carnivori come le tigri, che spesso vengono sedate, oppure ancora di lasciare all'asciutto o in piccole tinozze gli ippopotami o al freddo animali come zebre e giraffe. Tutti casi documentati, purtroppo, contro i quali difficilmente riusciamo ad agire con efficacia". Anche quella del seguito giudiziario delle denunce per maltrattamento è una questione aperta tra circensi e animalisti: “Chi ci accusa di prendere soldi dice una cosa che è falsa nei fatti: la legge lo prevederebbe, ma il fondo che dovrebbe garantire degli stanziamenti dedicati non è mai stato attivato. Ad oggi gli animali che prendiamo in carico per la riabilitazione sono a completo carico della Lav che fa, a sue spese, quello che può. Inoltre va detto che esiste il pericolo che i casi di maltrattamento siano non sovra, ma sottostimati: non solo perché non c’è un’anagrafe o un organismo che censisca la presenza di animali da circo in Italia, ma anche perché spesso i veterinari Asl deputati alle ispezioni non hanno una formazione specialistica in animali esotici e dunque rischiano di non sapere cosa cercare e come operare. A volte possono persino trascurare macro dettagli, come per esempio il fatto che un animale nato come selvatico stia in una gabbia o sull’asfalto”.
Un passato ricco di gloria che conquistò Fellini, continua Luciano Grosso. Una carovana, rumorosa e un po' scalcagnata, che si sposta continuamente, di città in città; un tendone colorato e sgargiante, dentro il quale si esibiscono clown, animali, acrobati e contorsionisti; un posto, che proprio per la sua natura nomade e sfumata, sembra non esistere davvero, ma solo nell'immaginazione di ognuno di noi. "La nostra idea di circo, almeno in Italia, è intrisa del racconto che ne ha fatto Federico Fellini, tanto che sembra difficile distinguere dove finisca il racconto del cinema e dove cominci la realtà del circo vero", spiega Alessandro Serena, uno dei più ferrati storici di circo italiano, docente di Storia dello spettacolo circense e di strada all'Università degli studi di Milano e direttore dell'area ricerca del Cedac (Centro Educativo di Documentazione delle Arti Circensi) di Verona. Nel suo parlare fitto Serena inanella uno dopo l'altro, aneddoti, storie, date e fatti di un'epopea poco nota, per quanto, da secoli, sotto gli occhi di tutti. "Il circo è molto antico, nasce dall'arte dei saltimbanchi e degli acrobati, uomini che contorcendo il proprio corpo e forzandolo a fare cose per il quale non è nato, superavano e trascendevano i loro limiti fisici. Poi, nei secoli, ci sono state mille evoluzioni e trasformazioni, fino alla nascita del circo che conosciamo ora, che inizia a prendere forma alla fine del '700 in Inghilterra". Il primo circo, quello inglese, è una specie di arena coperta e rotonda in cui ci si esibisce in numeri di acrobazia con i cavalli. E' un successo e piano piano prende piede in tutta Europa con una forma stanziale. "Il circo itinerante che conosciamo, con il tendone girovago, è una faccenda molto italiana che si diffonde negli anni tra le due guerre - continua Serena - come spettacolo che spesso si spostava seguendo il flusso delle fiere e delle sagre di paese. Erano anni in cui la piazza era ancora il luogo privilegiato della cittadinanza e in cui si stavano diffondendo i primi teatri politeama, attrezzati con le scuderie per i cavalli dei circhi". Nasce così, nell'Italia del ventennio, il circo italiano per come lo conosciamo oggi, anche se è dalla Seconda guerra mondiale in poi che cambiano le cose: "La grave crisi economica - continua Serena - penalizzò i circuiti di varietà, permettendo al circo itinerante di affermarsi. Il numero delle imprese circensi prese a cresce nonostante i viaggi lunghi e faticosi. I fratelli Togni in quegli anni erano soliti per esempio montare il tendone negli spazi lasciati dai bombardamenti, quasi a simboleggiare la vita che ricomincia". Inizia così, proprio con la ferita della guerra, un rapporto di familiarità e affetto tra i mille campanili italiani e queste comitive itineranti che darà origine a un mercato vitale in grado di trovare tra gli anni '50 e i '70 il suo periodo di maggiore vigore con famiglie come quella dei Casartelli, dei Bellucci, dei Parlmiri, dei Rastelli e soprattutto, dei Togni e degli Orfei, ancora oggi le più celebri. "A dare particolare lustro a queste famiglie sono i nomi di artisti e circensi unici, per creatività, audacia, e popolarità. Penso a Nando Orfei, musicista, attore, proprio con Fellini, e fondatore di uno dei circhi più importanti d'Italia. Penso a Moira, sua sorella, nata in un carrozzone e diventata, oltre che artista di circo, soprattutto icona pop: è lei, tanto per intenderci, quella che cammina di spalle, fasciata in un vestito bianco in una delle più celebri fotografie di Mario De Biasi. Ed è sua anche la faccia che tappezza i muri delle città quando arriva il circo. Sull'altro versante del circo italiano, quello dei Togni, non si può non citare Darix che nel 1959 compì la traversata delle Alpi con gli elefanti per seguire a ritroso la strada percorsa da Annibale; divenne un personaggio così amato dal pubblico che nel 1963 migliaia di bambini di tutta Italia gli inviarono spontaneamente delle offerte per la ricostruzione del suo circo distrutto da un incendio. Flavio Togni, invece, dagli anni Settanta in poi si distinse fra le maggiori stelle dell'ammaestramento di animali, esibendosi in tutta Europa e riuscendo a presentare fino a venticinque elefanti nello stesso tempo. Ad oggi è l'unico artista al mondo ad avere ricevuto tre volte (1976, 1983, 1998) il Clown d'Argento al Festival di Monte Carlo, l'equivalente delle Olimpiadi del Circo, nel cui medagliere l'Italia compare tra le nazioni più titolate: un successo non da poco per un paese il cui circo è, o sembra essere, in crisi.
Dai tendoni a pediatria, così il clown si ricicla, continua Luciano Grosso. Roberto ha trent'anni e, per lavoro, tutti i giorni fa ridere chi non ride mai. Poi, smesso di lavorare, continua a fare la stessa cosa, ma da volontario: "Suona strano da dire, ma io faccio il clown a tempo pieno. Ho cominciato per scherzo con un amico un'estate e poi non ho più smesso. Nei giorni normali lavoro nei centri diurni per disabili del comune di Milano, all'interno dei quali abbiamo sviluppato progetti molto belli di clown terapia. Ci sono ragazzi che trascorrono lì giornate intere e che attraverso la clownerie trovano uno strumento di valorizzazione delle loro risorse creative: si tratta di un'arte basata sulla semplicità e sull'immediatezza e che per questo è comprensibile da tutti. La nostra proposta è quella di ricreare ad ogni incontro l'atmosfera della pista del circo, con i partecipanti che iniziano il laboratorio 'entrando' in pista e salutando il pubblico immaginario a ritmo di musica. Ad ogni incontro si affronta una disciplina diversa: equilibrismo, acrobazia, magia, clownerie, esercizi di forza e di abilità e quello che cerchiamo di ottenere non è una prova di virtuosismo ma una messa in scena del come se, durante la quale i partecipanti sono liberi di immaginarsi in altri panni". Se questo è il "vero" lavoro di Roberto, poi c'è anche quello che fa nel tempo libero con l'associazione milanese Veronica Sacchi Onlus che si occupa di clownterapia in ospedali, orfanotrofi, case di riposo e comunità. "Far ridere i ragazzi del reparto pediatria è una faccenda diversa. Spesso sono adolescenti che sulle prime mi guardano annoiati, come a dire 'chi è 'sto sfigato? Mi diverto di più a giocare con l'iPad' e se ne stanno sulle loro. Almeno per i primi minuti. Poi però, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, crollano e si fanno coinvolgere dal gioco. E' diverso con i bambini più piccoli delle elementari che sono invece i più facili da far giocare e sorridere perché ne hanno voglia, perché sono quelli che hanno meno problemi con la sospensione dell'incredulità e che più facilmente si lasciano trascinare dal racconto; infine ci sono i bambini molto piccoli, magari di pochi mesi: e allora occorre tentare di far sorridere i genitori. Io mi ingegno come posso. Con semplici giochi o con un pappagallo che ho mascherato da papera e che ho chiamato Rita. Il punto, quello che deve passare, è che il mio personaggio è davvero stupido. Più stupido risulto io, più facile sarà che le persone attorno a me ridano". Tutt'un'altra storia ancora quella del volontariato con gli anziani, nelle case di riposo: "Quello è forse l'unico caso in cui la nostra attività è più passiva che attiva: non siamo noi che diamo impulsi al nostro pubblico, ma il nostro pubblico che ci aspetta, per parlare e raccontare. Gli anziani più di ogni altra cosa vogliono raccontare, raccontarsi, ricordare. E la cosa che fa loro più piacere è trovare qualcuno che li ascolti: noi andiamo lì per quello, per ricordare loro le cose allegre della vita e, in buona sostanza, farcele raccontare".
Il futuro passa da un castello francese, scrive Alessandro Cecioni. "No, qui animali non li abbiamo, è l'altro circo, fatto di clown, di trapezzisti, di musica, di gesti, un po' teatro, un po' rappresentazione fantastica". La voce di Cille Lansade arriva dallo Chateau de Monthelon, dipartimento della Yonne, Borgogna. E' qui la Residenza che accoglie ogni anno 200 artisti che provengono nel 60% dei casi dalla Francia ma anche dal resto d'Europa (nel 2014 nessun italiano) e persino da più lontano: Giappone e Russia, Stati Uniti e Argentina, Cile. "Chi vuole venire deve mandarci un progetto, un'idea che vuole sviluppare, uno spettacolo o anche solo una parte di esso, noi lo valutiamo e se ci sembra interessante offriamo l'ospitalità, le sale, l'attrezzatura", dice ancora Cille. L'idea della Residenza si è fatta strada anni fa nella testa di Ueli Hirzel, clown con radici in Cile e in Svizzera. Un visionario. "Il circo - è solito dire - è l'ultima forma anarchica di arte". "All'inizio, era il 1989 - spiegava l'anno scorso Hirzel in un'intervista - cercavo solo un posto dove far riposare la mia compagnia, le Cirque Aladin. Un luogo dove appoggiare le nostre scenografie, il materiale e dove provare. Monthelon mi apparve come il posto giusto, la Yonne rispondeva a ciò che cercavamo: tranquillità. Poi le cose sono cambiate. A giocare un ruolo determinante è stato il passa-parola fra la gente del circo. Hanno iniziato ad arrivare gli amici, poi gli amici degli amici". Oggi molti si presentano con le roulotte al seguito, ma in tanti dormono anche nella Residenza. "Abbiamo camere a molti letti, le usiamo soprattutto per i gruppi di giovani, ma ci sono anche stanze per due, tre persone. Chi sta qui deve provvedere al cibo, al resto pensiamo noi", dice ancora Cille. Certo, la sistemazione è molto spartana. La prima cosa che fu realizzata furono i bagni perché non c'erano. L'acqua corrente è arrivata da pochi anni, la luce un po' prima. "Manca ancora il riscaldamento, per ora usiamo camini e stufe, ma quest'anno penso proprio che ce la faremo a realizzarlo". Puntando sul lavoro volontario degli ospiti che soggiornano gratis, ma danno volentieri una mano a pulire e a restaurare le sale dove si lavora. E i soldi per tutto questo? In gran parte pubblici. Nel 2014 su un bilancio di 161mila euro ne sono arrivati 131mila fra Drac (Direzione generale degli affari culturali), consiglio regionale, dalla Comunità dei Comuni del Serrain e del Pays Avallonais e dal Comune di Montréal. "Il resto - raccontava ancora Hirzel - proviene da sponsor privati e dai progetti che si realizzano". Soldi che vanno interamente al sostegno dell'attività di ricerca svolta attraverso una sessantina di progetti sviluppati ogni anno nel campo del circo (il 40% del totale con una prevalenza di clown), della musica, del teatro (19%), della scrittura, del cinema, della danza, delle performances. "Quando un artista se ne va di solito presenta agli altri ospiti il suo lavoro. Non si tratta di spettacoli veri e propri, a volte quello che è stato realizzato del progetto è ancora un embrione, ma è bello condividerlo e vedere la meraviglia sui volti degli altri ospiti - dice ancora Cille Lansade - perché lo spettacolo che abbiamo in mente noi è qualcosa di fantastico, inteso come frutto della fantasia, è qualcosa che stupisce, affascina". Solo una volta all'anno, in estate, le Chateau si apre al pubblico per "Les rencontres de Monthelon". "Tre giorni di spettacoli sia di artisti residenti che venuti per l'occasione - dice Cille - Il biglietto d'ingresso va da 0 a 5 euro e il prezzo si scopre tirando un dado, in modo che lo spettacolo inizi da subito. Si va avanti dalla mattina alla sera, e si sceglie dove stare, se sotto il tendone, in giardino o nel castello: gli spettacoli sono ovunque e ovunque si vedono cose fantastiche".
Giovanardi: “Animalisti anti italiani”, scrive Claudio Monti su “Il Circo”. “Bisogna cominciare ad interrogarsi sulle conseguenze delle posizioni più estremiste dell’animalismo sui settori più vitali dell’economia italiana: turismo, spettacolo, filiera dell’allevamento e del made in Italy”. Ma attenzione: non si pensi che l’estremismo in questa galassia sia da circoscrivere solo alle sigle più rumorose e violente. Il senatore del Pdl, Carlo Giovanardi, nell’ultimo governo Berlusconi sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle politiche per la famiglia, non è tenero nemmeno con alcuni suoi colleghi di partito, a partire dall’onorevole Brambilla. Lo abbiamo incontrato a Modena, nel suo ufficio di parlamentare, e Giovanardi è un fiume in piena, deciso a dare battaglia. Ecco l’intervista che ha rilasciato in esclusiva a Circo.it, di cui oggi pubblichiamo la prima parte. Di recente è stato pubblicato e presentato il volume Viene prima l’uomo o la gallina? (Koiné editore), una iniziativa che nasce proprio dal senatore Giovanardi, il quale ha radunato una serie di esperti nei diversi settori per cercare di mettere un po’ di ordine in una materia che sembrava diventata dominio esclusivo delle organizzazioni animaliste. Fra gli interventi raccolti nel libro ci sono quelli di mons. Mauro Cozzoli, ordinario di teologia morale alla Pontificia Università Lateranense, Giorgio Calabrese, medico nutrizionista, Luigi Scordamaglia, vicepresidente Federalimentare, Roberto Scarpella, presidente dell’associazione italiana Pellicceria e Nino Andena, presidente Aia e vicepresidente nazionale Coldiretti. Alla presentazione del volume, che si è tenuta a Roma lo scorso 24 maggio, è intervenuto ed ha preso la parola anche il presidente dell’Ente Nazionale Circhi, Antonio Buccioni.
Senatore, perché ha sentito l’esigenza di affrontare l’argomento in maniera così approfondita?
«Ho organizzato qualche mese fa una tavola rotonda in sede parlamentare per affrontare in maniera organica e meditata un problema che ha varie sfaccettature e molte ricadute sulla società italiana. Conoscevo le posizioni di alcune associazioni animaliste contrarie all’utilizzo degli animali nei circhi e negli spettacoli in genere. Non mi era sfuggita la contestazione al Palio di Siena fatta dal ministro Brambilla, un attacco diretto ad una manifestazione che affonda le sue radici nella nostra cultura e storia oltre che nella identità della intera città, che appassiona i senesi e milioni di turisti, e nella quale non si può dire che i cavalli vengano trattati male, anzi sono trattati meglio dei fantini…, dico un paradosso ma sostanzialmente è così».
Circhi, Palio e cos’altro?
«Conosco poi anche troppo bene le operazioni di commando compiute dagli animalisti nella bassa modenese, che hanno distrutto le gabbie e fatto scappare i visoni dagli allevamenti contestando tutti i settori della pellicceria e del made in Italy. Li ascoltiamo spesso dire che “si devono vergognare le signore che indossano cadaveri di animali” come se invece indossare vestiti fatti coi derivati del petrolio non fosse dal punto di vista ambientale e delle vite umane ancora più oneroso. E poi gli attacchi agli allevamenti di conigli, il tema della crudeltà che deriverebbe dal castrare i maialini, che sembra un discorso poco importante ma se non si castrassero i maialini tutta la filiera italiana del prosciutto, compreso l’indotto di migliaia di aziende che producono ed esportano la qualità italiana, scomparirebbe. E poi l’attacco all’allevamento delle galline ovaiole ed altro».
Un ampio fronte di guerra.
«Che mette a rischio ormai la sopravvivenza di milioni di aziende e nasce da una visione culturale che pone sullo stesso piano gli animali e gli uomini, cancellando ogni gerarchia, anzi mettendo al primo posto gli animali e i loro diritti. A me sembra incredibile non tanto che pochi animalisti sostengano queste tesi e si facciano propaganda, ma che tutti gli altri non facciano una riflessione comune. Se in Italia, nazione che invecchia, che ha bisogno di soldi per la sanità, per l’assistenza, per gli anziani, gli handicappati, per trovare lavoro ai giovani, buttiamo a mare tutto ciò che ha a che fare con le attività che vedono coinvolti gli animali, che futuro potremo mai avere? E come faremo a mantenere la qualità della vita che abbiamo raggiunto? Se l’Italia dovesse rimanere ostaggio dei tanti gruppi dei no (No Tav, no gas, no agli inceneritori, no agli allevamenti, no al Palio, no ai circhi, eccetera) non avrebbe futuro. Nel nostro Paese prima dello sviluppo economico l’età media di vita era 35 anni, milioni di persone sono dovute emigrare all’estero, c’era la pellagra, una miseria che si tagliava a fette, una mortalità infantile molto alta: vogliamo tornare indietro? Ecco perché credo si debbano coalizzare tutti quelli che, rispettando gli animali, non fanno dell’animalismo una religione e rifiutano quello che finisce per diventare uno spirito anti italiano».
Come spiega che certe posizioni di animalismo estremista trovano oggi in Parlamento dei sostegni così trasversali?
«Perché sono di moda. L’onorevole Brambilla è spesso in televisione con i suoi cani in braccio e questo fa molto tendenza anche dal punto di vista emotivo. Eppure lei commercia salmoni, ci sono anche queste contraddizioni… Chi decide quali animali hanno diritti e quali no? Le zanzare, i pesci, i topi non hanno diritto di vivere? Chi redige la gerarchia? E le piante? E allora un animalista che volesse essere del tutto conseguente non dovrebbe vivere mangiando solo minerali? E tutti quelli che si stracciano le vesti per gli animali, non sono turbati dalla manipolazione dell’embrione umano, dall’aborto, eccetera? Così come fa molto effetto sentir dire a proposito dei circhi che è una crudeltà ammaestrare gli animali».
E lo è?
«Perché, i cuccioli d’uomo, cioè i bambini, non vengono forse “ammaestrati”? Non devono fare i conti con un maestro fin dai tre anni di età? Se non vogliamo usare il termine ammaestrare, utilizziamo quello di educare ma la sostanza non cambia: i nostri bambini li mettiamo seduti in un banco, in una posizione anche scomoda, e per molti mesi l’anno li teniamo tutte le mattine all’interno di una scuola dove insegniamo loro determinati comportamenti. Un bambino preferirebbe forse giocare libero, ma i genitori in un certo senso lo “costringono” ad andare a scuola. Penso che la gente non andrebbe neanche in miniera a lavorare se potesse, o a fare i tanti lavori scomodi e pesanti che invece bisogna fare».
Che effetto le fa l’attivismo animalista dell’onorevole Brambilla, che condivide insieme a lei la militanza nel Pdl?
«Già quando eravamo insieme al governo, ho detto chiaramente che non lo condividevo assolutamente. Lei ha contestato il Palio di Siena ed io sono andato al Palio di Siena. Però tengo a chiarire una cosa…»
Dica.
«Né il Pdl e nè il governo Berlusconi si sono mai sognati di assumere le posizioni dell’onorevole Brambilla, dicendo no al Palio, ai circhi o all’indotto economico che deriva dalla filiera dell’allevamento, della pellicceria e del made in Italy. Sono posizioni personali dell’onorevole Brambilla che non hanno mai coinvolto il Pdl o il governo».
L’Intergruppo animalista alla Camera è formato da diversi colleghi anche del suo partito.
«E’ animato da giovani colleghi che sono piene di zelo in questa attività, salvo incorrere anche loro in infortuni demagogici».
Del tipo?
«Quando hanno proposto una piccola tassa comunale per mantenere i canili, sono stati travolti dalle critiche e hanno fatto marcia indietro. Ma realisticamente, se vogliamo avere delle strutture nelle quali gli animali vengano raccolti e curati, occorre pensare anche alle risorse necessarie».
Non le sembra un paradosso che le associazioni animaliste, e fra queste le più importanti su scala nazionale (a partire dalla Lav), godano dello status giuridico di onlus, posizione riservata a quelle associazioni che perseguono finalità di “solidarietà sociale”, mentre l’impegno degli animalisti si dispiega contro i circhi, contro i palii, contro le pellicce, contro la vivisezione, contro la caccia, contro gli allevamenti…?
«E’ un argomento molto importante e da approfondire, a partire dalla funzione che svolgo, anche rispetto ai finanziamenti che queste associazioni ricevono dai ministeri e che a quanto mi risulta non vengono resi pubblici. Un conto è operare per il benessere gli animali, un altro è fare politica, come stanno facendo, perché allora bisogna tenere in considerazione anche altri interessi che ci sono sul territorio, meritevoli di tutela e che magari non vengono tutelati».
L’accusa che spesso viene rivolta alle principali organizzazioni animaliste italiane e straniere è che costituiscono ormai una lobby potentissima che gode fra le altre cose di un ascolto privilegiato sugli organi di informazione. Cosa ne pensa?
«Più che un’accusa è una constatazione e che godano di forti appoggi sulla stampa è un’evidenza. Basta guardare la televisione e sfogliare i giornali per vedere che c’è sicuramente una sproporzione assoluta fra la visibilità data a chi sostiene le tesi animaliste radicali e i milioni di operatori dei diversi settori che non riescono a farsi sentire. Se i media capissero che la stragrande maggioranza degli italiani non è sulla lunghezza d’onda degli animalisti, forse terrebbero un atteggiamento diverso. E la stessa cosa farebbero quei politici che sposano la causa animalista per ragioni di consenso, perché pensano di cavalcare la popolarità, ignorando che milioni di italiani, la maggioranza silenziosa, si vestono e si nutrono con prodotti di origine animale, amano il circo e i palii, e tantissimi – veramente tanti – ricavano il loro reddito da attività imprenditoriali legate all’allevamento».
Alcune amministrazione comunali e fra queste anche la sua città, il Comune di Modena, hanno adottato provvedimenti che vietano l’attività dei circhi con animali, nonostante questi regolamenti comunali o ordinanze siano in aperto contrasto con la legge dello Stato che regola la materia, come continuano a ribadire i Tar di mezza Italia.
«Sbaglia il Comune di Modena e qualunque altra amministrazione che ostacoli l’attività dei circhi, che è tutelata dallo Stato, così come sbagliano tutti quei Comuni che aprono gli “sportelli per i diritti degli animali”, diritti che non esistono. Esistono i diritti degli uomini e delle donne ed esiste la necessità di trattare gli animali secondo il loro benessere, evitando ogni crudeltà nei loro confronti».
Cosa pensa del circo, della sua tradizione artistica e culturale?
«Il circo è espressione di una cultura secolare sia di tipo artistico e sia dal punto di vista di quel legame peculiare fra uomo e animale che costituisce una ricchezza dell’identità italiana. Una cultura che si è sedimentata nel tempo e che ha prodotto espressioni artistiche di altissima qualità, che anche per questo va salvaguardata e tutelata. L’idea che una generazione pensi di cancellare una tradizione e un patrimonio che durano da secoli perché ritiene di avere maturato delle convinzioni che considera più sagge di quelle delle generazioni precedenti, è qualcosa che mi ha sempre sconcertato. Ogni volta che si pretende di spazzare via tradizione, cultura, arte, folclore di un popolo, bisogna davvero preoccuparsi. Chiudere i circhi con animali, che in Italia sono la quasi totalità, segnerebbe un impoverimento. Fra l’altro a favore di chi andrebbe questa cancellazione dei circhi? Non certo degli animali che vivono nei circhi da generazioni e in un certo senso sono naturalizzati in quell’ambiente. Più probabile che chi si batte per togliere gli animali dai circhi lo faccia, oltreché per una errata concezione del rapporto fra uomo e animali, per incrementare un proprio potere».
Alla presentazione del libro Viene prima l’uomo o la gallina? lei ha detto che gli animalisti radicali utilizzano metodi intimidatori. Può spiegare meglio a cosa si riferiva?
«Uno dei casi recenti è quello di cui ha fatto le spese don Antonio Mazzi della comunità Exodus, il quale ha detto sostanzialmente: prima di cani e gatti vengono le vite umane da salvare. Beh, ha ricevuto tanti di quegli insulti che anche lui è rimasto stupefatto dalla virulenza degli attacchi. Io di messaggi di insulti ne ho collezionati a centinaia ma non mi spaventano e non mi fanno cambiare idea. Ma è un fatto oggettivo che chi non la pensa come gli animalisti o chi svolge attività che non collimano con la loro visione del mondo, viene fatto oggetto di violenza verbale e non solo,… anche i circhi ne sanno qualcosa. Si viene pesantemente intimiditi facendo passare come un mostro chi non la pensa secondo i canoni della religione animalista. Io non ho paura, ma su tanti miei colleghi questo condizionamento non è indifferente perché chi prende certe posizioni rischia il linciaggio morale e anche qualcosa di più».
VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.
Brogli a Sanremo, parte la denuncia. Michelangelo Giordano, cantautore 36enne calabrese approdato a Milano in cerca di gloria, si è ritrovato con una lettera di esclusione in mano, scrive Martino Villosio su “Il Tempo”. L'appuntamento è per il 13 aprile 2015, tribunale civile di Imperia. È lì che andrà in scena la prima "puntata" di un dopo Festival al vetriolo. Una querelle diversa da quelle costruite ogni anno per insapidire le tradizionali settimane sanremesi, perché stavolta di mezzo c'è una causa per danni, e le accuse - la cui eventuale fondatezza toccherà ai giudici riscontrare - di un giovane cantautore calabrese. Si chiama Michelangelo Giordano, ha 36 anni e nel suo curriculum rivendica alcuni guizzi pregevoli, come la vittoria del premio "Una canzone per Amnesty 2013", oltre ad un mentore del calibro di Mogol che lo avrebbe notato durante un seminario di musica organizzato dalla scuola di musica fondata dallo stesso paroliere (il CET) incoraggiandolo a trasferirsi dalla Calabria a Milano. Il concorso Giordano, lo scorso settembre 2014, decide di iscriversi alla manifestazione "Area Sanremo 2014", promossa con bando pubblico e gestita dalla società "Sanremo Promotion" controllata dal comune ligure. Il concorso, che ha aperto le porte della partecipazione al Festival della canzone italiana 2015 ai suoi due vincitori, prevedeva nella sua prima fase la selezione di 40 finalisti da parte di un'apposita commissione di valutazione, composta dalla storica voce dei Pooh Roby Facchinetti (presidente), dalla cantante Giusy Ferreri e dal produttore e rapper Dargen D'Amico. A novembre, Giordano si è esibito davanti a quella giuria eseguendo il brano "Chi bussa alla porta", tema impegnato (il panico e la sofferenza di chi è vulnerabile ai suoi attacchi), parole e musica scritte da lui. Al termine, come riportano i suoi avvocati Marzia Eoli e Luca Fucini nell'atto di citazione presentato ad Imperia contro la Sanremo Promotion, i giudizi della commissione sarebbero stati "entusiasti", sia per "l'originalità del brano prescelto" che per la musica e il testo. Un giudizio positivo che troverà riscontro, evidenziano ancora gli avvocati, nella scheda di valutazione di Giordano al quale Roby Facchinetti attribuirà addirittura quattro dieci su quattro. La doccia fredda Cinque giorni dopo, però, l'artista riceve da Sanremo Promotion la comunicazione del mancato superamento della fase eliminatoria. Chiede di poter visionare la propria scheda di valutazione, e davanti ai giudizi "più che lusinghieri" (scrivono i suoi due avvocati) che la inchiostrano rimane ancora più sconcertato. Decide così di fare un accesso agli atti, per confrontare la sua scheda con quelle dei 40 finalisti, per conoscere i criteri di valutazione adottati e per visionare i verbali della commissione contenenti questi ultimi. Punteggi più alti Dalle schede, recita ancora l'atto di citazione, emerge che "alcuni candidati ammessi alla successiva fase finale riportano giudizi espressi, sia con punteggi numerici e sia con il giudizio complessivo, di gran lunga inferiori a quelli riportati da Giordano". Nella scheda di valutazione, in effetti, il cantautore ha un 9,17 (media finale dei punteggi ottenuti per le singole componenti dell'audizione e cioè voce, presenza scenica, performance e brano) e un 9 (giudizio complessivo espresso dai commissari). Altri quattro concorrenti selezionati al suo posto tra i 40 finalisti, portati come esempio nella citazione, hanno tutti voti inferiori al 9, oscillanti tra l'8,80 e l'8,50. "Perché", si chiede l'artista, "sono stato scartato dopo essere stato valutato così positivamente?". Il verbale Nel verbale stilato dalla commissione e che data a prima dell'inizio delle selezioni, in realtà, si dice che "al termine di ogni audizione la commissione compilerà una scheda dell'esibizione. La commissione stabilisce che le valutazioni contenute nelle suddette schede non determineranno la classifica finale dei candidati e quindi non saranno in alcun modo vincolanti in ordine alla scelta dei finalisti". Quelle valutazioni formulate dai giurati andrebbero considerate alla stregua di consigli utili ai giovani concorrenti per individuare i propri punti forti e quelli da perfezionare. Per gli avvocati di Giordano, invece, le cose non starebbero così. Le schede di cui si parla nel verbale sono definite "dell'esibizione" e non "di valutazione", dicono. Nel bando di concorso che disciplina "Area Sanremo 2014", riportano inoltre nella citazione, all'articolo 6 si legge che "la commissione di valutazione adotterà le proprie decisioni in seduta segreta secondo i criteri che saranno resi noti ai candidati prima dell'inizio delle selezioni mediante pubblicazione sul sito internet www.area-sanremo.it". Il bando e i criteri delineati nel sito, sostengono gli avvocati di Giordano, sarebbero pertanto l'unica "legge di gara" individuabile e le schede di valutazione "l'unico elemento di giudizio in cui la commissione ha espresso un punteggio numerico per ogni parametro ispirato ai criteri fissati sul sito internet". "Siamo di fronte a una selezione con bando pubblico", afferma Giordano al telefono da Sesto San Giovanni, "un parametro di valutazione trasparente doveva esistere e i punteggi delle schede di valutazione sono l'unico che si possa individuare in questo concorso". Gli avvocati del cantautore chiedono alla Sanremo Promotion 250.000 euro, puntando su un risarcimento per "perdita di chance" dal momento che il loro assistito, escluso dalla selezione finale malgrado l'alto punteggio ottenuto, non ha potuto esibirsi davanti ai rappresentanti delle principali case discografiche multinazionali e ai manager musicali ammessi all'ascolto dei 40 finalisti. Chiedono anche il ristoro dei 3.860 euro che l'artista, al pari degli altri 3876 concorrenti, ha dovuto spendere per poter partecipare alla selezione. Inclusi, riportano ancora gli avvocati, i soldi versati per la partecipazione ad un corso di formazione per gli iscritti, obbligatoria per poter accedere alle selezioni vere e proprie, con vitto, alloggio e viaggio a carico dei cantanti. Il comune di Sanremo, da noi contattato, non ha inteso per il momento commentare la vicenda. Abbiamo fatto pervenire una richiesta di replica anche a Sanremo Promotion, posta in liquidazione a febbraio dopo il voto a maggioranza del consiglio comunale cittadino, senza però venire ricontattati.
Denis Fantina, la star di Amici rifiutato al talent The Voice di Rai 2, scrive “Libero Quotidiano”. Il talent The Voice quest'anno è diventato l'ultima spiaggia di tanti cantanti quasi dimenticati. Dopo Chiara Iezzi di Paola e Chiara, nell'ultima puntata del talent in onda su Rai 2 si è presentato Denis Fantina, vincitore della prima edizione di Saranno Famosi, oggi conosciuto come Amici, ben 15 anni fa. I giudici però lo hanno bocciato clamorosamente. Denis ha cantato il brano di Marco Mengoni "Credimi ancora" e, una volta capito chi fosse, i giudici hanno cercato di giustificarsi. Il primo ad arrampicarsi sugli specchi è stato il giudice Francesco Facchinetti: “Per quanto riguarda il team Fach eravamo quasi sul pulsante, hai fatto trenta e non hai fatto trentuno”. Cerca di metterci una pezza anche Piero Pelù: “Io non mi sono girato perché tu hai portato questo pezzo di Mengoni e lo hai cantato con un piglio metallaro ma se tu ti fossi buttato più sul versante heavy metal ti avrei votato. Complimenti perché hai cantato da Dio”. Un'amara consolazione, senz'altro.
Le Blind Audition di The Voice 3 sono terminate, scrive "Panorama”. Il 25 marzo 2015 i quattro coach hanno infatti completato le loro squadre, che comprendono 16 talenti per team, e dal prossimo mercoledì si passa dunque alla seconda fase del talent show, ovvero le Battle: accoppiati due a due dal proprio giudice, i cantanti dovranno scontarsi per rimanere in gara cantando la stessa canzone. In queste puntate, l’eliminato avrà la possibilità di essere ripescato da un altro giudice. È il momento di osare e di fare il grande salto, è l’ultima chance per molti degli aspiranti cantanti, visto che i quattro team sono quasi chiusi. Nella lunga carrellata di talenti che si sono esibiti ieri sera, ce n’è uno già noto: alle audizioni al buio si è presentato anche Dennis Fantina, vincitore di Saranno Famosi, cioè la prima edizione di Amici. “Quando vinci credi che il tuo mondo cambi totalmente, invece non è così – racconta nell’rvm di presentazione – Oggi collaboro con un bar, si fa fatica, meno male che mia moglie lavora. Dopo il programma ho fatto album e concerti, poi il fermento è venuto meno. Voglio masticare nuovamente musica: della mia voce mi fido molto, dell’emozione no. Me la gioco e vediamo cosa accade”. Così sale sul palco e canta Credimi ancora di Marco Mengoni – e su Twitter Fiorello sottolinea la scelta sbagliata del brano - ma nessuno dei giudici si gira. Il primo a riconoscerlo è Francesco Facchinetti, poi a ruota gli altri. Quando torna nel backstage Fantina è visibilmente contrariato e intanto i giudici commentano la sua esibizione. “Se canta Zarrillo, spacca”, azzarda Facchinetti e J-Ax replica ironico: “Ma nessuno vuole che canti Zarrillo, nemmeno Zarrillo”. Francesco e Roby Facchinetti - ribattezzato “il sommo maestro, l’eccelso cantore”, per via delle perifrasi ardite, dal conduttore Federico Russo – sono i primi a chiudere il team scegliendo Giulia Pugliese. Dunque il cantante dei Pooh non può più schiacciare il “pirellone”, come aveva erroneamente ribattezzato il pulsante che consente alla sedia di girarsi. Il #teamFach è al completo. “Abbiamo iniziato col botto, cioè con la tua caduta, e finiamo alla grande”, commenta Francesco. In totale, padre e figlio portano alla Battle dieci donne e sei uomini: “Abbiamo trovato quello che cercavamo”. Noemi e Piero Pelù hanno un solo cantante da scegliere, J-Ax invece ancora due. Tocca a Noemi tagliare il traguardo per seconda e chiudere il team dei fiori d’acciaio – così lo chiama perché, spiega, delicato ma al tempo stesso solido – e scommette su Giuseppe Izzo. “Quest’anno il team Noemi spacca. Non mi sono focalizzata su un solo tipo di voce: ho timbri unici e super pop, è molto eterogeneo”. Contenta e soddisfatta. Restano tre posti a disposizione e Pierluca Tevere ipoteca l’accesso alle Battle conquistando Piero Pelù, che pigia il pulsante poi s’infila sotto il tendone che nasconde il cantante a tutto il pubblico. “Stavo svenendo quando ho visto la testa di Piero”, commenta Pierluca. “Mi aspettavo una donna, è stato un piacevolissimo shock. Il team Diablo ha una grandissima varietà di timbri e di personalità”, commenta il coach. Il quindicesimo posto nel team J-Ax se lo aggiudica invece Edoardo Esposito, in arte Edo Sparks, poi il rapper la tira per le lunghe, fa esibire quattro diversi aspiranti cantanti ma non trova quella che definisce “una voce killer”. Alla fine punta su Maurizio Di Cesare, cagliaritano di 22 anni, che lo conquista e chiude la Blind Audition. “Questa è la voce che volevo: mi fa perdere la testa. Ora il team loser 2.0 è chiuso: mi sono lasciato guidare da istinto ed emozione, ho tentato di cercare cose non precise o intonate, ma stilose”.
The Voice, Dennis Fantina fuori: “Hai cantato la canzone sbagliata”. E lui su Facebook: “Il brano non l’ho scelto io”, scrive Michele Monina su “Il Fatto Quotidiano”. L'eliminazione dell'ex vincitore di Amici non è certo un caso di Stato ma fa un po' specie che si escluda un professionista accampando scuse ridicole. Così come fa specie che i giudici, specie Noemi, la cui carriera è tutta da costruire, e Francesco Facchinetti, si lascino andare a commenti lapidari non si capisce bene da che altezza. Ci risiamo. Ieri sera si sono chiuse le Blind audition di The Voice, terza stagione, e come era già capitato in passato con la cantante dei Jalisse, eliminata alla cieca, i cinque baldi giudici hanno seccato Dennis Fantina, primo vincitore di Amici di Maria De Filippi, una vita fa. E esattamente come è capitato con colei che ha reso Fiumi di parole uno dei peggiori incubi della nostra giovinezza, via a scuse e supercazzole per giustificare l’aver escluso incautamente un professionista dalla futura competizione televisiva. Ora, partiamo da un presupposto fondamentale, The Voice è un programma tv. Niente a che fare con la musica. Nessun cantante di successo è uscito da li, neanche altrove. Chi ne esce rafforzato, molto, è il giudice, che in Italia, come altrove, vede spesso una carriera morta di colpo rinata. Ma di musica, niente. Dennis è stato sputato sul palco a giochi praticamente fatti. Pochi i posti disponibili rimasti, e quindi selezioni più ardue. I giudici, mentre cantava, ne hanno decantato le doti, ma nessuno si è girato. Bye bey Dennis. La canzone non è adatta, hanno detto, aprendo un piccolo caso. Perché, anche qui, ci si pone una domanda: chi decide le canzoni da proporre? Spesso gli autori stessi. Quindi, decidono di giocare un volto conosciuto a giochi fatti, gli scelgono la canzone e tanti saluti. Chiara di Paola e Chiara, per dire, la cui presenza sicuramente è più interessante rispetto a quella d Dennis, un po’ usurato dal tempo, è stata messa in condizione di passare a scatola chiusa, tra le prime a esibirsi. Non che l’eliminazione di Dennis sia un caso di Stato, chiaro. Ma fa un po’ specie che si escluda un professionista accampando scuse ridicole. Così come fa specie che i giudici, specie Noemi, la cui carriera è tutta da costruire, e Francesco Facchinetti, si lascino andare a commenti lapidari non si capisce bene da che altezza. Diciamolo, The Voice, che l’anno scorso ha avuto un po’ di successo non certo per la voce di Suor Cristina, ma per il famoso abito che fa la monaca, è il talent con meno talento tra quanti si vedono in giro. E quando un talento c’è, spesso, viene lasciato scappare, per pura opportunità televisiva. Non è un caso che Laura Pausini si sia guardata bene dal venire a fare il giudice in Italia, andando prima in Messico e poi, ora, in Spagna. Ora le squadre sono chiuse, c’è una trans, qualche caso umano, Chiara Iezzi e poco altro di interessante. C’è j-Ax coi suoi stucchevoli Axforismi, Noemi con la sua boria, i due Facchinetti che mettono in scena un quadretto familiare tutto da dimostrare e Piero Pelù, l’unico che sembra affrontare la cosa con un minimo di cuore. Poi c’è la gara, ma fortunatamente non lascerà traccia dietro di sè.
POVIA ED I MORALIZZATORI.
Saccenti e cattivi. Ecco a voi i sinistroidi.
I moralizzatori della rete prendono di mira Povia. Ovviamente sono quasi tutti utenti fake, scrive Riccardo Ghezzi su “Quelsi”. Giuseppe Povia come Red Ronnie. Amaro destino per artisti o personaggi pubblici che non fanno del “politicamente corretto” la loro ragione di vita. Guai a dire qualsiasi cosa che non strizzi l’occhio al pensiero unico e dominante della kultura, ossia al pensiero, se così si può chiamare, della sinistra. Anche un innocente post come “L’Italia va gestito da italiani”, in riferimento alla nomina del ministro italo-congolese Kyenge la “nera”, può scatenare una reazione turbolenta da parte degli evangelizzatori giustizieri della rete. Era già successo a Red Ronnie quando aveva osato andar contro il guru Giuliano Pisapia in piena campagna elettorale per le amministrative di Milano, ora la medesima sorte è riservata a Povia, reo di avere espresso un semplice parere su facebook. La fan page di Povia non è invasa come quella di Red Ronnie ai tempi, ma il cantante riceve quotidianamente messaggi di insulti o disprezzo, a volta dal contenuto palesemente diffamatorio, altre con minacce od inviti a “suicidarsi”. Povia, pazientemente e pacatamente, risponde a tutti. Anche agli utenti con nome e foto palesemente fittizi. Inutile dire che i leoni da tastiera si sottraggono regolarmente alla discussione, preferendo la “toccata e fuga” di insulti.
Da qui l'intervento tramite facebook di Antonio Giangrande in favore di Povia. «Sig. Povia, lei conosce Antonio Giangrande? Basta mettere il suo nome su Google e vedere le pagine web che parlano di me e poi, cliccare su libri. Li si vedranno i titoli di tutti i saggi che ho scritto, ciascuno di 800 pagine circa. Dimostro in fatti, quello che lei, traduce nei suoi testi. Libri che ho scritto dopo 20 anni di ricerche. Sono censurato, come lei, perché scomodo. Le devo dire, però, caro compagno di viaggio, orgogliosi di essere diversi, che a quelli come noi liberi e non omologati alla cultura sinistroide, non rimane che raccontare con i propri libri e con le proprie canzoni la realtà contemporanea ai posteri ed agli stranieri, perché in Italiopolitania, Italiopoli degli italioti, siamo un seme che mai attecchirà.»
«Antonio, grazie, pubblicalo sulla mia bacheca quello che hai scritto, che mi fai sentire meno solo e guardati questi video sennò non capisci bene. Ci vediamo in live Giuse.»
"Chi comanda il mondo": il web si schiera pro e contro sulla canzone di Povia, scrive di Don Ferruccio Bortolotto su “Riviera 24”. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Domanda, denuncia vie di soluzione ed un’aggressiva quanto risanatrice profezia sono nel ritmo della canzone di Povia «Chi comanda il mondo». Ho guardato e riguardato il video, che mi è stato inviato da un amico, con la matita in mano per fermare sulla carta i frammenti della visione del cantautore, che come pugni rompono i muri di pietra degli occhi e della testa. «La musica può arrivare dove le parole non possono» - canta Povia – ed è vero: le sue percussioni e la sua voce scavano un solco che non può lasciare indifferenti. In questo caso la musica riesce a diventare un imperativo ascoltato dalla nostra volontà intorpidita e saccheggiata di dolore e di potere. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Cerco un silenzio che non sia quello che precede ed accompagna il sonno, ma quello di chi con attenzione veglia custodendo il fuoco di un desiderio profondo che tutti abbiamo nel cuore: la voglia di sapere. Non difendere questo desiderio è acconsentire alla tirannia.
Povia e Assotutela: botte da orbi sul web. L'artista accusato di "istigare l'odio razziale" nel suo ultimo brano "Chi comanda il mondo?", scrive Chiara Rai su “Il Tempo”. Il cantautore Giuseppe Povia e il presidente di Assotutela Michel Emi Maritato danno spettacolo su Facebook. Ad accendere la miccia non è stato l'artista: l'ultima canzone di Povia ha mandato su tutte le furie Maritato il quale non digerisce le parole contenute nell'ultimo brano dell'artista a tal punto da minacciarlo di denuncia per istigazione alla violenza e all'odio razziale. Queste accuse pesanti come macigni sorgono, secondo Maritato, da alcuni passaggi che conterrebbero messaggi subliminali che alimenterebbero l'antisemitismo. Così, sicuro della sua veste di paladino della causa, il presidente di Assotutela non risparmia commenti al vitriolo: "Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia - esordisce Maritato - in questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall'Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina. Il nuovo brano ‘Chi comanda il mondo?’ contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo". E poi minaccia: "Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali - conclude - stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all'odio razziale, mi meraviglio della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento". In pratica la tesi di Assotutela è questa: dato che Povia sarebbe in decadenza, l'unica forma di promozione è lanciare un pezzo shock per alimentare le polemiche e dunque vendere più dischi. Ma la risposta del cantautore non si è fatta attendere. Povia non ci sta e le canta al presidente Maritato: "Addirittura una denuncia? Invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte". E poi l'artista spiega meglio: "La canzone 'Chi comanda il mondo?' è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto". Povia, rivolgendosi poi direttamente ad AssoTutela commenta: "Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure". Il cantautore infine conclude con un invito invito al dialogo: "Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone: 'siamo divisi dai simboli, noi singoli' ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci". Ma la questione non sembra chiusa qui, a quanto pare le spiegazioni sembrano non essere sufficienti. Soltanto la conclusione del continuo tam tam di messaggi sul social network potranno dirci chi dei due avrà la meglio sull'altro.
Testo - Chi comanda il mondo? – Povia
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e disegnate i colori
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore
e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire
Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire
Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire
e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele
C’è una dittatura di illusionisti finti
economisti equilibristi
terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti
che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti
gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia
fino a portarci all’apatia
creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa
media, oggetti, nomi, colori, simboli
la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli
dormiamo bene sotto le coperte
siamo servi di queste sorridenti merde
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e www.nuovecanzoni.com disegnate i colori
Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà
e l’uomo più forte del mondo diventerà
portando in alto l’amore
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene
La libertà e la lotta contro l’ingiustizia
non sono né di destra né di sinistra
la musica può arrivare nell’essenziale
dove non arrivano le parole da sole
gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati
da Maastricht a Lisbona
siamo tutti indignati perché questi trattati
annullano ogni costituzione
quì bisogna dare un bel colpo di scopa
e spazzare via ogni stato da quest’Europa
se ogni stato uscisse dall’Euro davvero
magari ogni debito andrebbe a zero
perché per tutti c’è un punto d’arrivo
nessuno lascerà questo mondo da vivo
vogliamo una terra sana, sana
meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e disegnate i colori
Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà
e l’uomo più forte del mondo diventerà
portando in alto l’amore
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore
e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire
Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire
Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire
e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Povia e il coraggio di dire di no: meglio una moneta sovrana che puttana, scrive Gloria Sabatini su “Il Secolo d’Italia”. Chi comanda il mondo? Chi comanda il mondo? È la domanda ossessiva che dà il titolo all’ultimo album di Giuseppe Povia, che, piglio naif e linguaggio scomodo, apre uno squarcio di luce potente sull’attualità mettendo in musica il suo gigantesco no al dominio planetario della grande finanza, di «illusionisti e finti economisti». C’è una dittatura – canta Povia – un dittatura senza volto, fatta di balle e finte illusioni che vorrebbe un popolo inebetito. «Silenzio / fate la nanna bambini / verranno tempi migliori / Chi comanda il mondo? / C’è una dittatura, c’è una dittatura / Non puoi immaginare quanto fa paura / Chi comanda il mondo? / Oltre che il potere / vuole il tuo dolore / e dovrai soffrire / e sarai costretto ad obbedire…», è l’incipit del brano che farà discutere e solleverà lo sdegno delle anime belle del progressismo planetario, quelle sempre pronte a gridare allo scandalo e al complotto. «C’è una dittatura di illusionisti finti economisti equilibristi, terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti…Ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia fino a portarci all’apatia». La dichiarazione di guerra all’eurocrazia non potrebbe essere più esplicita: «Gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati da Maastricht a Lisbona, siamo tutti indignati perché questi trattati annullano ogni costituzione». Povia conferma la sua verve provocatoria e anti-ideologica quando canta che «la libertà è la lotta contro l’ingiustizia non sono né di destra né di sinistra, la musica può arrivare nell’essenziale dove non arrivano le parole da sole». Un passo avanti a molti politologi e opinionisti. E per finire un appello contro i grand commis di oggi e di ieri: «Qui bisogna dare un bel colpo di scopa e spazzare via ogni Stato da quest’Europa. Se ogni Stato uscisse dall’euro davvero magari ogni debito andrebbe a zero. Vogliamo una terra sana sana, meglio una moneta sovrana che una moneta puttana».
Messo in croce dal web. L’autore de I bambini fanno oh e di Luca era gay non è nuovo ad attacchi e isterie online. Qualche giorno fa Michel Emi Maritato, presidente di Assotutela, ha ingaggiato un derby a distanza dalla sua bacheca Facebook accusando Povia di contenuti antisemiti e arrivando a minacciare denunce «per istigazione alla violenza e all’odio razziale». «In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina». A dir poco squallida la tesi di Assotutela secondo la quale l’artista avrebbe lanciato il pezzo shock per vendere più dischi e risalire dalla “decadenza”. «Addirittura una denuncia – risponde elegantemente Povia – invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte. La canzone Chi comanda il mondo? è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto». Dov’è lo scandalo? «Se vi riferite alla frase “messo sulla croce in Israele”, vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo, che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell’attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi». Geniale.
Povia e la denuncia per Chi Comanda il Mondo?: il Dott. Maritato fa chiarezza su “New Notizie”. Da due giorni circola inarrestabile sul web la notizia secondo la quale Povia rischierebbe di essere denunciato per il suo ultimo brano Chi comanda il mondo?: a detta di diverse fonti sul web, la denuncia potrebbe partire dall’Associazione per la tutela del cittadino AssoTutela, presieduta da Michel Emi Maritato. Ma facciamo una breve cronistoria di quanto accaduto. Il 5 Marzo Povia pubblica sul proprio canale YouTube il brano Chi comanda il mondo?, brano di denuncia che tende a sottolineare le dinamiche di potere – a volte occulte – che governerebbero il mondo e costringerebbero l’umanità ad una sorta di schiavitù. Passa circa una settimana (e giungono alcune decine di migliaia di views per il video, che vi proponiamo in coda) e si diffonde la notizia secondo la quale AssoTutela sarebbe pronta a sporgere denuncia contro il cantante per le tematiche proposte (vedremo che, in realtà, non è esattamente così). Pronta, quindi, giunge la replica di Povia attraverso Facebook. Dal canto nostro, abbiamo avuto modo di sentire telefonicamente il Dottor Michel Emi Maritato che, disponibilissimo, ci ha spiegato la propria personale posizione: “Per Povia ho una grande stima e mi ritengo un suo fan. Condivido le tematiche espresse nel brano; dal canto mio sono un signoraggista, lavoro quotidianamente per combattere contro l’usura bancaria e gli abusi di Equitalia. Ciò che non condivido è un certo tipo di simbologia esoterica, presente all’interno del video. Una simbologia che sottende una lotta al potere ebraico e che rappresenta una scelta quantomeno poco felice in un momento come quello attuale, con l’incombenza della minaccia dell’Isis”. “Il messaggio poteva passare anche senza determinate immagini, in maniera più delicata”. Circa la denuncia, quindi, il Dottor Maritato ha detto: “La denuncia è al vaglio dei legali. Saremmo comunque felici se Povia accettasse un confronto e spiegasse le sue posizioni, magari attraverso i nostri mezzi di comunicazione”. Per poi concludere: “Povia è una grande arista. Un artista anticonformista che con le sue scelte rischia di essere tagliato dai circuiti mainstream. Chi ha confezionato il videoclip, d’altro canto, ha inserito dei simboli che possono incitare all’odio razziale. Ciò magari è stato fatto senza che Povia ne fosse consapevole, ma rimane il fatto che una determinata simbologia si sarebbe potuta evitare”.
AssoTutela contro Povia per il brano ''Chi comanda il mondo'', scrive “Il Mamilio”. Al centro della vicenda il brano ''Chi comanda il mondo''. “Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia”. Lo dichiara in una nota il presidente di AssoTutela Michel Emi Maritato. “In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi ci manca la genialata di Giuseppe Povia benzina sul fuoco. Il nuovo brano Chi comanda il mondo contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo. Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali, stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all’odio razziale, mi meraviglio – conclude Maritato nel comunicato – della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento''. La reazione di Povia, direttamente dal suo profilo Facebook, non si è fatta attendere: ''La canzone "Chi comanda il mondo" - scrive - è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto. Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme''. ''Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella - continua il cantante - avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure. Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone: "Siamo divisi dai simboli, noi singoli" ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci''.
Per la canzone mi dicono: “VENDUTO!! GUADAGNI SOLDI!!” (Leggete dai..non è possibile), scrive Povia sul suo Blog Lunedì, 09 Marzo 2015. Il video della canzone “Chi comanda il mondo” è stato visto in meno di 4 giorni da oltre 40 mila persone senza pubblicità. SONO SOLO LO VOLETE CAPIRE? SOLO! SENZA PUBBLICITA’. Solo con il vostro PASSAPAROLA e vi dico G R A Z I E! Anzi devo ringraziare anche rispettivamente i creatori di Facebook e Youtube che mi permettono di diffondere un minimo la mia musica e ciò che penso. La canzone l’ho prodotta di tasca mia e il video mi è stato concesso da Marco Carlucci, uno dei più grandi registi social-underground che ci sono nel panorama italiano. Neanche lui è un venduto, sennò non avremmo trovato intesa su certi argomenti che toccano la finanza. Lui è lo stesso che mi fece i video di “Luca era gay” e “La Verità” realizzati soprattutto per ammirazione artistica e intellettuale nei miei confronti. Abbiamo pensato che poteva nascere un video da quest’altra canzone, punto. Come andava andava. Senza aspettative. (Parlo di “chi comanda il mondo”). VENDUTO? IO? Dai..vi prego.. Non voglio dire parolacce o insulti perchè non servono in questo caso ma vorrei chiarire che non solo non sono un venduto e non lo sono mai stato davvero, ma non guadagno soldi su questo brano per il seguente ed elementare motivo: Non l’ho caricato sui portali a pagamento, E’ GRATIS, lo potete ascoltare e vedere quando e come volete. Lo ripeto QUANDO E COME VOLETE. Scommetto che ce lo avete già sull’I-pod in mp3 vero? E’ GRATIS. E sarei VENDUTO? E DOVE LI GUADAGNEREI I SOLDI SENTIAMO? Bene, la notizia vera però è questa: SONO IN VENDITA!!! SONO IN VENDITA, CERTO CHE SI! Ma non ho bisogno di qualcuno che mi produca solo un disco, ho bisogno che sposi il mio pensiero, la mia spiritualità, il mio carattere la mia arte e il mio combattere questo ANTISISTEMA che sta degenerando tutte le nuove generazioni vendendo una “Libertà” fatta di troppa devastazione, troppo eccesso di droga, sesso e amore venduto come quello che si vede sui siti porno gratuiti. IO SONO IN VENDITA! MA NON SONO VENDUTO, MAI! AVREI PARTECIPATO ALL’ISOLA DEI FAMOSI, UN PROGRAMMA PER IDIOTI. Non ce l’ho con chi ci partecipa ma con chi lo guarda. Non è l’abbondanza il problema, ma chi se la beve. e si, ho detto che combatto contro L’ANTISISTEMA, avete capito bene! Il problema è proprio L’ANTISISTEMA! Quello che ci fa sentire in colpa se esprimiamo il nostro normalissimo pensiero. Insultate i vostri idoli! Insultate coloro che vi dicono ciò che volete sentirvi dire. Quelli che girano intorno al problema ma non lo centrano come si deve, perchè si cagano addosso. Quelli che rinnegano i loro testi, le loro canzoni, le loro dichiarazioni. Quelli che parlano di un'umiltà che non ha nessuno in questo mondo e che fanno i finti umili. Insultate quelli che vogliono farvi credere che non si vendono ma che invece in quest’ambiente di cani e cagnette in calore tutti messi a pecora, ci sguazzano e ci si ritrovano proprio bene. Quelli sono i veri VENDUTI e voi i loro COMPLICI PERFETTI. Io sono solo, artisticamente solo e non piango: MI CI GIOVO, ME NE VANTO, GODO! SONO LIBERO.
Povia ad Affari: "Il concerto del Primo Maggio? Non ci vado solo perché fa figo". Intervista di Giovanni Bogani Martedì, 11 aprile 2006. Il piccione di Povia? Abitava su un tetto, nel centro di Firenze. Quello che ha ispirato la canzone che ha vinto a Sanremo, quello che si accontentava delle briciole, quello che volava basso, perché il segreto è volare basso. Stava su un tetto fiorentino. “E neanche lo sopportavo”, dice lui, fiorentino per amore, da cinque anni: per amore della sua donna Teresa, che gli ha dato da poco una figlia. “Ogni mattina, a mezzogiorno, io appena sveglio, e questo piccione a tubare, ad amoreggiare e a rumoreggiare, con tutti i suoi rumorini da piccione. E io, piano piano, mi sono chiesto se non avesse ragione lui, con il suo amore così semplice, in qualche modo così assoluto. E ho cominciato a scrivere una canzone su di lui”. Povia, nelle strade medievali di Firenze, tra i vicoli intorno a Ponte Vecchio, ha vissuto anni di bohème. E in questi anni, ha maturato il suo talento. Ha coltivato i suoi sogni, tra un turno e l’altro del suo lavoro di cameriere. Lo incontriamo in un bar. E ci facciamo raccontare i suoi anni anonimi. Quando ancora il successo era un miraggio lontano, da afferrare, semmai, o forse da non raggiungere mai.
Povia, quali erano i luoghi della tua Firenze?
“Piazza Santo Spirito, dove mi ritrovavo con il mio amico Simone Cristicchi, che aveva anche lui una fidanzata a Firenze; il Porto di Mare e l’Eskimo, due locali dove si fa musica dal vivo, ai quali sono molto legato. E piazza della Passera: lì, al caffè degli Artigiani, un piccolo caffè frequentato da turisti americani, nel mezzo del cuore della Firenze antica, ho lavorato per due anni”.
Hai lavorato a lungo come cameriere?
“In tutto, diciotto anni. Di qua e di là, a Milano, a Porto azzurro all’isola d’Elba, e poi a Firenze”.
Che cosa si impara?
“La pazienza, prima di tutto. E poi si impara a riconoscere le brave persone. E anche gli altri, quelli che brave persone non sono”.
Ci sono stati momenti in cui hai pensato di smettere, di mollare tutto?
“Praticamente, in continuazione. Pensavo sempre: basta, adesso smetto. In questo mondo, nessuno ti apre le porte. Stavo male, mi sentivo a mio agio solo con la mia fidanzata…”.
Quando l’hai conosciuta, Teresa?
“L’ho conosciuta in modo classico, in una discoteca all’isola d’Elba. Dodici anni fa. Teresa è di Firenze; ci siamo visti per sette anni attraversando l’Italia da una parte all’altra. Poi, cinque anni fa, sono venuto ad abitare qui”.
E ora chi sei?
“Uno che non si considera un artista, ma uno che vorrebbe scrivere canzoni per tutti. Per comunicare alla gente. Uno che vorrebbe essere semplice, e chiaro, e dare emozioni. Insomma, vorrei essere ‘pop’. E non sono né di destra né di sinistra. Ho cantato per il papa, ma non per vestirmi di una bandiera. Perché ci credo io, e basta”.
Insomma, tu non ti schieri. Ma la religione è importante per te. Da quando?
“Da quando ero depresso, praticamente disperato. Non riuscivo a sfondare con la musica, passavo da un lavoro di cameriere all’altro, non avevo neanche una città di cui potessi dire: è casa mia….E poi, nella sala di aspetto di una stazione, do un euro a un frate cappuccino che chiedeva, con molta discrezione, dei soldi. Lui mi dice: siediti. Come, siediti? Mi sono seduto, perché ho visto che aveva un volto intenso, serio, che aveva qualcosa da dire. Abbiamo parlato. E questo frate cappuccino mi ha cambiato la vita”.
Come è la tua vita adesso?
“Semplicissima. Sto con la mia donna, Teresa, con mia figlia Emma, che ha 15 mesi e comincia a ‘gattonare’. E vado a fare la spesa al supermercato, come tutti”.
E’ più bello scrivere le canzoni o cantarle?
“Per me, scriverle. Mi ci vogliono cinque minuti per avere un’idea, e mesi per finire una canzone. E nel mezzo, c’è il lavoro più bello del mondo. Dare vita a una melodia, a un’armonia, a delle parole. Creare qualcosa che prima non esisteva. A volte mi stupisco ancora, di questo miracolo che accade ogni volta”.
Una curiosità. Ma dove abitava il piccione della canzone con cui hai vinto Sanremo?
“Di fronte alla mansarda dove vivevo io, a Firenze. Mi svegliavo, e vedevo tutti i giorni questo piccione che tubava. Non lo sopportavo: io non amo i piccioni, per niente! Ma poi ho capito che aveva la sua ragione di vita, che aveva il suo diritto alla felicità, all’amore. E che, a suo modo, sui tetti di fronte a casa mia, lui viveva l’amore in un modo assoluto”.
Quale canzone stai scrivendo?
“Una canzone sull’amicizia. Che sarà più bella di tutte quelle che ho scritto fino ad ora. Ma una canzone non si fa in cinque minuti. Ci vogliono mesi. In cinque minuti ti viene un’idea, un titolo, un ritornello. Il resto è lavoro, è fatica”.
Concerti? Farai quello del Primo Maggio?
“No. Ma non perché ho suonato per il Papa, e non faccio il Primo Maggio. Non lo faccio perché molti suonano in quel concerto per atteggiamento, e non per convinzione. Ci vanno perché fa figo”.
«Preferisco rinunciare sia a consensi, sia a compensi - spiega Povia in un video pubblicato sul suo profilo Facebook il 10 marzo 2015 - Perché tanto so che se dico di sì a uno, poi gli altri se la prendono e storcono il naso. Tanto sempre è andata così. Nel 2005 stavo partecipando con i”I Bambini fanno oh” al concerto del Primo maggio a Roma, ma poi mi dissero: se vieni da noi, poi non devi mai andare con gli altri. Allora risposi: no, grazie. E da lì il mio percorso è quello che conoscete, senza mai nessun appoggio politico o discografico e sempre pieno, pieno di critiche e di insulti che non tarderanno ad arrivare».
POVIA: SE CANTASSI "LUCA E’ TORNATO GAY" DIREBBERO CHE HO SCRITTO UNA CANZONE BELLISSIMA. Intervista di Davide Maggio. Con le sue canzoni ha fatto parlare spesso di sè negli ultimi anni. Prima “I bambini fanno oh” poi “Luca era Gay”, passando per “Vorrei avere il becco”, Giuseppe Povia è un cantautore che sa come colpire l’opinione pubblica. In occasione del suo impegno a I Migliori Anni, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con lui e ne è uscita fuori l’immagine di un cantautore con le idee chiare, che crede molto nel suo lavoro, consapevole del fatto che le critiche siano parte del gioco. L’importante, dice, è essere intellettualmente onesti.
Stai ricevendo consensi di pubblico a I Migliori Anni. Essere popolare ti lusinga o ti infastidisce perché allontana la tua immagine da quella del cantautore di nicchia?
«Quando hai qualcosa da dire devi essere popolare, perché a più persone arrivi e più puoi aiutare, altrimenti è inutile che fai arte, inutile che fai musica. Ci sono invece personaggi di nicchia che vogliono rimanere nella nicchia… ma se la raccontano. Io guardo fissa la telecamera perché la gente deve riconoscere in me uno che canta delle canzoni che possono aiutare a vivere meglio. La musica può cambiare tantissime cose. I bambini fanno oh ha aiutato dei bambini a uscire dal coma».
In Italia esistono dei cantautori di serie A e di serie B?
«Sono gli addetti ai lavori che ti accreditano o screditano. Ogni artista ha un consenso da una parte e poco consenso dall’altra. Io, per esempio, vengo attaccato da varie fazioni per le tematiche che tocco, da altre invece vengo acclamato. E’ chiaro però che mi sento cantautore a 360 gradi e non posso parlare solo d’amore. De Gregori fu attaccato dalla critica velatamente perché lo accusarono di aver offeso le persone obese con La Donna Cannone, oppure De Andrè fu criticato perché istigava alla prostituzione con Bocca di Rosa. Non mi sto paragonando a loro, dico solo che la strada che seguo nella musica è quella del cantautore. Se scrivo “Luca era gay” o “La verità”, ispirata alla storia di Eluana Englaro, ci sono dei motivi che vanno oltre la furbizia per far parlare di me. Ma poi chi non è furbo in questo ambiente? (ride) E meglio esserlo su argomenti intellettualmente onesti che per le movenze o per i vestiti».
Conosci Pierdavide Carone?
«Si, l’ho sentito a Sanremo dove ha portato un pezzo che mi piaceva con Dalla e poi ha cantato “Di Notte”, una canzone che andava su parecchie radio. So che è un autore giovane e gli autori giovani servono in Italia. E poi è uno dei pochi che scrive pure per gli altri e non solo per sé».
Il tuo rapporto con i talent, dunque?
«Non ce l’ho con i talent. Da una parte è positivo perché parla di musica e dall’altra parte è deleterio perchè su 40 persone che partecipano non ce la possono fare tutti. Se hai una squadra di persone che ti stanno dietro e che fanno un progetto per te come è stato fatto per la Amoroso, Giusy Ferreri o Marco Mengoni può funzionare. Se fai il primo singolo che magari non va tanto bene e ti abbandonano, vai in crisi psicologica».
Sottolinei spesso l’importanza del cantautorato.
«I cantautori, dal dopoguerra in poi, hanno fatto la storia della musica italiana attraverso filosofie di pensiero e emozioni nuove. Attraverso le loro canzoni hanno parlato di satira, di politica e di tante tematiche sociali. La figura del cantautore dovrebbe tornare a essere qualificata perché negli ultimi dieci anni è stata un po’ sorpassata. Oggi si tende più ad omologare la musica a un unico genere, a un unico suono. Io ho la sensazione di sentire sempre la stessa canzone cantata da cantanti diversi. Il suono deve essere quello, altrimenti radiofonicamente sei penalizzato. Voglio togliermi dalla testa la parola radiofonico».
Hai inaugurato anche una scuola per cantautori.
«Sì, la scuola è il CMM di Grosseto che è aperta dal 1994 e si occupa di musica a 360 gradi. Al suo interno ho aperto la sezione cantautori che non ha la presunzione di insegnare a scrivere le canzoni, perché le emozioni non si insegnano da nessuna parte. Arrivano molti ragazzi giovani che hanno del talento insegno loro quello che Giancarlo Bigazzi, che per tre anni è stato il mio maestro, ha insegnato a me».
Nel tuo inedito, Siamo Italiani, presentato a I Migliori Anni, avresti potuto essere più cattivo con la nostra descrizione. C’è una strofa che avresti voluto inserire ma poi hai preferito tagliare?
«A essere cattivi ci pensano agli altri, io sono il buonista. Dicono che “siamo italiani è populista”. Populista è un termine nobile, a parte che finisce per ista. Dovrebbe essere populesimo che è ancora più bello. E’ un termine patriottico, popolare e poi in questo caso è un termine che parla al cuore degli italiani. “Siamo italiani” è una canzone che parla dei nostri pregi e dei difetti. Siamo uno stivale al centro del mondo e tutti ci vogliono mettere i piedi dentro, anche se ci criticano».
Una strofa della tua canzone dice: “siamo italiani, ed è ora di cambiare questa storia. ci meritiamo di vivere in un mondo che abbiamo inventato noi”.
«Gli italiani sono positivi, sono quelli che si rialzano. Non è una canzone cattiva, ma positiva. Sono tutti bravi a fare gli oratori, ma alla fine l’ipocrisia non paga. Se uno riesce a dire le cose che pensa veramente fa più bella figura anche se ci si brucia una parte di pubblico. Quindi “siamo italiani… su le mani”».
Su le mani, perché?
«Qualcuno intende su le mani perché ci stanno puntando una pistola, invece qualcun altro intende su le mani perché possiamo conquistare pure il cielo. E questo è vero».
Già deciso per chi votare?
«Non ancora, non c’è una faccia nuova. Mi piaceva molto Renzi, l’ho conosciuto e avrà tempo per farsi strada. Non è che io sia politicamente disilluso, perché un pensiero ce l’ho, che è quello che va a favore di famiglia, di ricerca, sanità, strutture, di cultura, però alla fine dentro un partito ci sono tre leader che litigano… ti sembra una cosa un po’ una comica e la prendi a ridere. Probabilmente, credo che non andrò a votare perché non mi sento stimolato».
Luca era gay è del 2009. A cantarla oggi le polemiche sarebbero state le stesse di allora?
«Si, certo. Se cantassi: “Luca non sta più con lei ed è tornato gay” tutti direbbero che ho scritto una canzone bellissima. Io ho cantato “Luca era gay e adesso sta con lei” e sono stato accusato di aver detto che un gay è malato. Io ho rispetto per la parola malattia che credo sia una parola con cui nessuno voglia avere a che fare: nella canzone c’è una strofa che dice “Questa è la mia storia, solo la mia storia, nessuna malattia, nessuna guarigione”. Parlavo della storia di una persona che se non si trova in una condizione può cambiare perché – al di là del fatto che la storia sia vera – è vero che si può. Non ho cantato la parte che avrebbero voluto sentire quelli che fanno i finti paladini difensori. Ho raccontato una storia e non pensavo che succedesse tanto casino. La racconterò tutta la vita. Ad avercene di “Luca era gay”, anche perché è una canzone intellettualmente onesta».
Cosa ne pensi delle adozioni gay?
«Secondo me, un bambino dovrebbe avere una figura paterna e una materna. Questa è pedagogia. Poi da una parte ci sarà la gente che ritiene che sia meglio affidare i bambini a una coppia omosessuale che si vuole bene piuttosto che abbandonarli in un bidone o affidarli ad una casa famiglia. Secondo il mio pensiero personale, e quindi condivisibile o meno, nelle case famiglia lavorano persone preparate e che conoscono i bambini e poi ci sono tantissime coppie eterosessuali in attesa inutilmente che gli venga affidato un bambino».
A differenza che in quello della musica, nel mondo del calcio, l’omosessualità è ancora un argomento tabù.
«Si arriverà anche nel calcio a parlarne. perché il mondo sta andando in quella direzione. Bisogna riuscire ad accettare una persona nella condizione in cui sta bene. Io sono stato scambiato per quello che ce l’ha con i gay, e se fosse così lo direi. Mi hanno dato dell’ omofobo e adesso quando faccio i concerti spiego cosa significa davvero omofobia. Io non ho paura degli omosessuali. Credo che nessuno ne abbia. Omofobia è un termine politicamente inventato negli ultimi anni. Forse il nuovo termine è “poviafobia.” A Firenze (dove vive, ndDM) non ho nessun problema a entrare in un locale gay, ma in quel momento sento di esser guardato male e allora chi è che discrimina?»
Al posto di Morgan a XFactor o al posto di Grazia Di Michele ad Amici?
«Morgan è uno che giudica e ha il suo carattere, è un cantautore e non ha mai scritto una canzone che ha scalato le classifiche. E’ molto stimato perché ha una grande cultura. Vorrei avere la cultura di Morgan e il buon senso di Grazia Di Michele».
Parliamo di televisione, qual è il programma che proprio non riesci a guardare?
«La pubblicità (ride). Non lo so, non c’è un programma. A parte il calcio, la televisione non la guardo tanto. Guardo Violetta, a cui mi ha fatto appassionare mia figlia Emma. E’ la storia di una ragazzina che canta. Quando verrà in Italia, le ho promesso che la porterò al concerto».
Vasco Rossi o Ligabue?
«Io son cresciuto con Vasco Rossi, con i suoi testi, con il suo stile di vita. Sono stato due anni in comunità perché ho fatto delle cavolate ai tempi in cui avevo venti, ventidue anni. Vasco l’ho ascoltato perché le sue canzoni mi davano la speranza di vivere in una condizione migliore. Cosa che poi è accaduta. Ligabue è molto più preciso. Ha dei testi ultimamente molto più forti..Scrive cose tipo “l’amore conta – conosci un altro modo per fregar la morte” che è una cosa che avrei volto scrivere io».
Devi scegliere un cantante con cui fare un tour. Chi sceglieresti?
«Non sopporto i duetti e queste operazioni discografiche. Forse con Baglioni, ma a cantare i suoi pezzi. Se dovessi fargli da corista, allora sì».
Il prossimo brano che interpreterai a I Migliori Anni?
«Tanta voglia di lei dei Pooh. E’ la prima canzone che ho cantato…e non è detto che la canti bene».
Sei nella condizione di poter invitare a cena fuori una tua collega de I Migliori Anni, chi scegli?
«Alexia. Non che ci sia qualcosa, per carità (ride). E’ una ragazza intelligente, piacevole, con la quale puoi parlare di tantissime cose. Ha un cervello, è mamma e a me piacciono le donne mature di testa».
Guarderesti Italia’s Got Talent se non fossi impegnato con I Migliori Anni?
«A me di solito piacciono i programmi di cose inedite. Gli darei un’occhiata per curiosità, ma poi non so».
Hai mai detto in un’intervista qualcosa di cui poi ti sei pentito?
«Si, ma alla fine bisogna dire quello che si pensa. Certo, un cantautore o un personaggio di spettacolo deve stare attento a pesare le parole. Qualunque cosa io dica vengo sempre catalogato in una casella politica. Non mi piace che ogni volta alcuni giornalisti facciano il gioco della collocazione politica dell’editore».
Quando uscirà il tuo disco?
«Esce il 19 novembre che è il giorno del mio compleanno e si chiamerà Cantautore. E poi nel 2014 porterò in giro per i teatri uno spettacolo. Parlerà di tutto, d’amore, di politica, di ironia, di satira, tematiche sociali. Sono 90 minuti di chitarra e voce per rilanciare il concetto del cantautore, far capire, più a me stesso che alla gente, che una canzone resta in piedi anche se è solo chitarra e voce. Una volta fatto questo si può riarrangiarla come vuoi. Oggi invece si fa un po’ il contrario».
Guarderai Sanremo?
«Si. Fazio, bisogna rendergliene merito, ha fatto un Sanremo rischioso, secondo i suoi gusti e con un cast apparentemente di nicchia Con un cast così il rischio è che anche questo Sanremo sarà costruito più sul contorno che sulla musica. Sono curioso di sentire la canzone di Marco Mengoni che mi piace un sacco. Secondo me potrebbe vincere. E’ uno, che non so come faccia, ma canta come Freddy Mercury».
Hai un look ben distinguibile, all’apparenza sembri uno di quelli che non ci pensa tanto e invece…
«L’abito fa il monaco (ride). Non mi vesto mai in maniera distratta. Sabato scorso ai Miglior Anni ero vestito di bianco, che dà sempre l’idea di pulito… e poi bianco fuori un po’ sporco dentro. Quando mi vesto di nero, metto una collana che fa luce, mi piacciono gli accessori, i capelli lunghi e lo scegliere le scarpe intonate».
EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.
Eppure Che Guevara organizzò il primo campo di concentramento per gay, scrive Enrico Oliari su “Quelsi”. Il medico argentino che condusse la rivoluzione cubana organizzò i lager per i dissidenti e gli omosessuali. Questi ultimi furono da lui perseguitati in quanto tali: il “Che” non fu secondo nemmeno ai nazisti. Ecco un ritratto che Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, ha descritto del rivoluzionario. Con la fuga del dittatore Fulgencio Batista e la vittoria di Fidel Castro, nel 1959, il Comandante militare della rivoluzione, Ernesto “Che” Guevara, ricevette l’incarico provvisorio di Procuratore militare. Suo compito è far fuori le resistenze alla rivoluzione. Lasciamo subito la parola a Massimo Caprara (*), ex segretario particolare di Palmiro Togliatti: “Le accuse nei Tribunali sommari rivolte ai controrivoluzionari vengono accuratamente selezionate e applicate con severità: ai religiosi, fra i quali l’Arcivescovo dell’Avana, agli omosessuali, perfino ad adolescenti e bambini”. Nel 1960 il procuratore militare Guevara illustra a Fidel e applica un “Piano generale del carcere”, definendone anche la specializzazione. Tra questi, ci sono quelli dedicati agli omosessuali in quanto tali, soprattutto attori, ballerini, artisti, anche se hanno partecipato alla rivoluzione. Pochi mesi dopo, ai primi di gennaio, si apre a Cuba il primo “Campo di lavoro correzionale”, ossia di lavoro forzato. È il Che che lo dispone preventivamente e lo organizza nella penisola di Guanaha. Poi, sempre quand’era ministro di Castro, approntò e riempì fino all’orlo quattro lager: oltre a Guanaha, dove trovarono la morte migliaia di avversari, quello di Arco Iris, di Nueva Vida (che spiritoso, il “Che”) e di Capitolo, nella zona di Palos, destinato ai bambini sotto ai dieci anni, figli degli oppositori a loro volta incarcerati e uccisi, per essere “rieducati” ai principi del comunismo. È sempre Guevara a decidere della vita e della morte; può graziare e condannare senza processo. “Un dettagliato regolamento elaborato puntigliosamente dal medico argentino – prosegue Caprara, sottolinenado che Guevara sarebbe legato al giuramento d’Ippocrate – fissa le punizioni corporali per i dissidenti recidivi e “pericolosi” incarcerati: salire le scale delle varie prigioni con scarpe zavorrate di piombo; tagliare l’erba con i denti; essere impiegati nudi nelle “quadrillas” di lavori agricoli; venire immersi nei pozzi neri”. Sono solo alcune delle sevizie da lui progettate, scrupolosamente applicate ai dissidenti e agli omosessuali. Il “Che” guiderà la stagione dei “terrorismo rosso” fino al 1962, quando l’incarico sarà assunto da altri, tra cui il fratello di Fidel, Raoul Castro. Sulla base del piano del carcere guevarista e delle sue indicazioni riguardo l’atroce trattamento, nacquero le Umap, Unità Militari per l’Aiuto alla Produzione (vedi il dossier di Massimo Consoli in queste pagine), destinati in particolare agli omosessuali. Degli anni successivi, Caprara scrive: “Sono così organizzate le case di detenzione “Kilo 5,5″ a Pinar del Rio. Esse contengono celle disciplinari definite “tostadoras”, ossia tostapane, per il calore che emanano. La prigione “Kilo 7″ è frettolosamente fatta sorgere a Camaguey: una rissa nata dalla condizioni atroci procurerà la morte di 40 prigionieri. La prigione Boniato comprende celle con le grate chiamate “tapiades”, nelle quali il poeta Jorge Valls trascorrerà migliaia di giorni di prigione. Il carcere “Tres Racios de Oriente” include celle soffocanti larghe appena un metro, alte 1.8 e lunghe 10 metri, chiamate “gavetas”. La prigione di Santiago “Nueva Vida” ospita 500 adolescenti da rieducare. Quella “Palos”, bambini di dieci anni; quella “Nueva Carceral de la Habana del Est” ospita omosessuali dichiarati o sospettati (in base a semplici delazioni, ndr). Ne parla il film su Reinaldo Arenas “Prima che sia notte”, di Julian Schnabel uscito nel 2000″. Anni dopo alcuni dissidenti scappati negli Usa descriveranno le condizioni allucinanti riservate ai “corrigendi”, costretti a vivere in celle di 6 metri per 5 con 22 brandine sovrapposte, in tutto 42 persone in una cella. Il “Che” lavora con strategia rivolta al futuro Stato dittatoriale. Nel corso dei due anni passati come responsabile della Seguridad del Estado, della Sicurezza dello Stato, parecchie migliaia di persone hanno perduto la vita fino al 1961 nel periodo in cui Guevara era artefice massimo del sistema segregazionista dell’isola. Il “Che”, soprannominato “il macellaio del carcere-mattatoio di “La Cabana”, si opporrà sempre con forza alla proposta di sospendere le fucilazioni dei “criminali di guerra” (in realtà semplici oppositori politici) che pure veniva richiesta da diversi comunisti cubani. Fidel lo ringrazia pubblicamente con calore per la sua opera repressiva, generalizzando ancor più i metodi per cui ai propri nuovi collaboratori. Secondo Amnesty International, più di 100.000 cubani sono stati nei campi di lavoro; sono state assassinate da parte del regime circa 17.000 mila persone (accertate), più dei desaparecidos del regime cileno di Pinochet, più o meno equivalente a quelli dei militari argentini. La figura del “Che” ricorda da vicino quella del dottor Mengele, il medico nazista che seviziava i prigionieri col pretesto degli esperimenti scientifici.
CHI HA PAURA DEGLI ARTISTI DI STRADA?
Chi ha paura degli artisti di strada, si chiede in una sua inchiesta Arianna Di Cori su “La Repubblica”. In parte spinti dalla crisi, in parte come scelta di vita, il numero di musicisti, giocolieri, mimi e funamboli che si esibisce nelle piazze è in continua crescita. Una tradizione dal passato glorioso che ha formato autentiche star come Dario Fo o Philippe Petit. Eppure, a differenza che nel resto d'Europa, le città italiane sembrano voler fare di tutto per tenere lontani questi spettacoli vissuti quasi sempre come un problema di ordine pubblico.
Costretti o per scelta, identikit di un fenomeno. "La strada mi regala delle emozioni impagabili. Alla fine di ogni spettacolo mi sento carico dell'energia degli spettatori e loro della mia. È uno scambio a cui non rinuncerei mai, per nulla al mondo". Daniele Sardella è un artista di strada, faceva l'ingegnere ma ha mollato tutto. Una scelta di vita. A pensarla come lui sono sempre più persone. L'arte di strada, in tutte le sue forme, dai primi anni del 2000 ha visto una crescita esponenziale. In Italia sono almeno 10mila i musicisti, giocolieri, acrobati, clown, danzatori, mimi, madonnari, cantanti e altro che si esibiscono tra strade, piazze cittadine ed eventi organizzati in tutta la Penisola. Solo a Roma e a Milano, tra il 2013 e il 2014, più di 3000 performer si sono iscritti agli speciali registri comunali. Daniele si asciuga qualche goccia di sudore dalla fronte, accende una sigaretta. Il fumo disegna rivoli bianchi nel cielo azzurro di una luminosa giornata d'inverno. Alcuni passanti gli lanciano un'occhiata incuriosita mentre si sfila il gilet rosso, indossa un t-shirt e ritorna ad essere uno dei tanti anonimi frequentatori del lungomare. Pontile di Ostia, fino a pochi minuti fa un centinaio di persone erano strette intorno a lui, tra risate e applausi. Alcuni bambini non vogliono allontanarsi, lo tirano per un lembo dei pantaloni e gli chiedono insistentemente quando ricomincerà. "Per oggi ho finito," dice loro sorridendo. I suoi spettacoli attraggono grandi e piccoli. Sono una fusione di clownerie, acrobazia e danza. Grazie al suo mestiere ha viaggiato per l'Italia e l'Europa, tra festival, piazze e fiere. Ma è solo dal 2001 che Daniele lavora esclusivamente come artista di strada. "Subito dopo la laurea in ingegneria a Catania avevo trovato un buon lavoro a Roma. Avevo ottime possibilità di crescita. Tutti si aspettavano che sarei diventato un 40enne con lo stipendio a 4 zeri. E invece eccomi qua, a 40 anni, a girare col camper a fare spettacoli". La sua è stata una scelta ponderata, venuta dopo un "periodo di prova". "Il weekend mi lasciavo alle spalle l'ufficio e i computer, prendevo le clave e andavo a piazza Navona a esibirmi. Non ero ancora bravo, ma ho capito che potevo sopravvivere con questo mestiere. Quando mi sono licenziato i miei genitori mi hanno preso per pazzo. Ma oggi capiscono quanto questa scelta mi abbia giovato. La loro unica preoccupazione continua ad essere quella della mancanza di una pensione, ma tanto ormai la pensione è sempre più un miraggio", scherza. "Un tempo gli artisti di strada in Italia si contavano su una mano. Nelle grandi città c'erano 4-5 persone fisse, perlopiù musicisti. Ogni tanto arrivava qualcuno da fuori, ma restava un universo di nicchia: ci conoscevamo tutti - ricorda Claudio Montuori, in arte Ami Buz, polistrumentista romano sessantenne con 30 anni di esperienza di strada - In quegli anni i pochi festival erano un'occasione per ritrovarci, oggi nemmeno su Facebook ci conosciamo tutti". Alcuni festival di arte di strada come il Mercantia di Certaldo, il Buskes Festival di Ferrara, l'Ibla Buskers Festival di Ragusa, Artisti in Piazza di Pennabilli, Il Festival Mirabilia di Fossano hanno una eco che va al di là dei confini nazionali e attraggono milioni di spettatori. Ma in tutta Italia fioriscono eventi di questo genere, se ne contano più di 200 l'anno e in tutti i casi si tratta di occasioni di apertura e di turismo. Si calcola un indotto sul territorio da 3 a 7 euro per ogni euro investito in questo tipo di manifestazioni. "Ma al di là dei numeri l'arte di strada è un patrimonio che qualsiasi istituzione dovrebbe promuovere e valorizzare", spiega Luigi Russo, presidente ad interim della Fnas, la Federazione nazionale arte di strada italiana. "L'arte di strada va incontro alla gente, ai giovani, alle persone che hanno meno occasione di frequentare i teatri o le sale da concerto, crea conoscenza, interessi e passioni che possono invogliare anche a frequentare i luoghi più tradizionali della cultura. E crea occasioni di lavoro". "L'idea stessa di arte di strada è legata all'idea del viaggio, dello scambio e dell'accoglienza. Ma siamo consapevoli che in alcune realtà, come città metropolitane, o quelle interessate da forti flussi turistici, bisogna fornire all'amministrazione strumenti atti a gestire fenomeni che interessano centinaia e centinaia di artisti". Dice ancora Luigi Russo della Fnas. Nata nel 1998 per riunire tutte le realtà del settore (artisti, compagnie, organizzatori, promotori), la Fnas ha cercato negli anni di fare da ponte con le pubbliche amministrazioni per far sì che la categoria ottenesse un maggiore riconosciumento sul piano legale e giuridico. Ci è riuscita, in parte, per quello che riguarda il finanziamento dei festival (dei quali, tra l'altro, vari membri del direttivo della Federazione sono organizzatori - ad esempio Luigi Russo è direttore artistico dell'enorme Ferrara Buskers Festival, 370mila euro di budget per indotti diretti e indiretti "di qualche milione"). Oggi lo spettacolo di strada, è contemplato dal Fus (Fondo unico per lo spettacolo). Tuttavia quella degli artisti di strada l'unica categoria che non può ottenere sostegno per l'esercizio e la creazione artistica, ma solo per la promozione di quest'ultima. E nonostante un aumento di fondi, raddoppiati rispetto al 2013 (da 83 mila a 125 mila euro), nel 2014 il settore ha ricevuto solo lo 0,031% dei 406 milioni elargiti, pur trattandosi, in termini di diffusione, del 20% dell'offerta di spettacolo dal vivo su territorio nazionale. La nascita di numerose scuole e corsi di arti circensi (oltre 150 in Italia) ha contribuito ad avvicinare tanti giovani a queste discipline. I tre istituti più accreditati, la Cirko Vertigo e la Flic a Torino, e la Scuola Romana di circo, ogni anno formano circa un migliaio di giocolieri, trampolisti, trapezisti, arealist, verticalisti professionisti. "Circa il 90% dei ragazzi che passano dalle scuole lavorano anche come artisti di strada, magari d'estate, per pagarsi i corsi, o in attesa di trovare lavoro presso compagnie, la maggior parte delle quali si trova all'estero, però - spiega Catia Fusciardi, direttore della Scuola romana di circo - La strada resta la migliore palestra per mettere a frutto le tecniche imparate a scuola e sviluppa le capacità di relazione col pubblico, è un passaggio naturale". C'è anche chi si avvicina all'arte di strada per necessità. "I teatri chiudono, le orchestre licenziano, e noi ci ritroviamo senza lavoro", racconta Micol Picchioni, arpista diplomata al conservatorio. Prima arpa dell'orchestra giovanile Luigi Cherubini diretta dal Maestro Riccardo Muti, dopo aver fatto tournée in tutto il mondo, da un anno e mezzo è una presenza fissa a Piazza Navona. "All'inizio è stata dura. Con la mia formazione accademica non avrei mai pensato di arrivare a questo. Ma non riuscirei a sopravvivere solo insegnando nelle scuole di musica e facendo occasionalmente concerti. E poi - conclude Micol - la strada è l'unico modo che ho per poter suonare tutti i giorni davanti a un pubblico". Nonostante un numero sempre maggiore di persone che si avvicinano a questa modalità di esibizione, rimane un problema di riconoscimento del valore dell'arte di strada sotto il profilo artistico, culturale, sociale ed economico da parte della pubblica amministrazione italiana. La categoria non è riconosciuta da una legge nazionale e nella maggior parte dei casi gli artisti di strada sono ancora vissuti come un problema di ordine pubblico. Per questo sono molti a scegliere di emigrare in paesi dove questa forma di intrattenimento è tutelata dalla legge. "È soprattutto una questione di considerazione sociale - dice Alessandro, 26 anni, giocoliere emigrato a Bruxelles nel 2011 - Qui in Italia gli artisti di strada vengono visti come poco più che dei mendicanti, lì ti considerano un artista a tutti gli effetti". In Belgio, come in Francia, gli artisti di strada rientrano nella categoria degli "intermittenti dello spettacolo" e hanno diritto ad incentivi per la formazione, la creazione di spettacoli, oltre che un sussidio di disoccupazione. "Ma c'è una cosa mi manca dell'Italia - conclude Alessandro - è la possibilità di esibirmi per le strade a offerta libera, il cosiddetto spettacolo 'a cappello'. Al nord non esiste una cultura in questo senso. E l'energia che ti dà un cerchio di persone di tutte le estrazioni sociali che per qualche minuto si dimenticano dei loro impegni quotidiani per godere di uno spettacolo spontaneo, è una sensazione bellissima che non ha prezzo". Nel 1993 La sociologa statunitense Susie J. Tanenbaum, dopo aver studiato per un decennio i buskers di New York, ha concluso che nei lughi dove sono presenti musicisti ed artisti di strada, gli indici di crminalità tendono a scendere; inoltre la loro presenza tende allevia lo stress nelle zone commericali. Nel 1997 Antanas Mockus, professore universitario diventato sindaco o di Bogotà, portò avanti un curioso esperimento: assoldò dei clown al posto dei vigli urbani e li mise a dirigere il caotico traffico locale. All'epoca a Bogotà si registravano 4500 omicidi l'anno, 12 morti al giorno per 5 milioni di persone. I clown prendevano in giro gli automobilisti maleducati e danzavano o regalavano un fiore a quelli che rispettavano il codice della strada. I cittadini si scoprirono più spaventati dall'idea di essere derisi che dalle multe dei vigili. E, straordinariamente, nel giro di una settimana non solo il traffico si regolarizzò, ma calò anche il numero di omicidi. Trattati come un problema in troppe città. Decine di musicisti affermati sono partiti dalla strada da Rod Stewart a Tracy Chapman, o attori come Robin Williams e Pierce Brosnan. Ma forse il più celebre artista di strada della storia è stato Benjamin Franklin. Il geniale politico, inventore, scienziato e scrittore statunitense da adolescente andava a decantare le sue poesie per le strade di Boston, con grande successo di pubblico. La sua esperienza contribuì a rafforzare in lui i principi di libertà di parola e di espressione che si tramutarono nel primo emendamento della Costituzione americana. Nonostante questo la prima legge nei confronti della categoria è tutt'altro che tollerante. La troviamo nell'antica Roma del 450 avanti Cristo, tra le leggi delle XII tavole. Risulta proibito eseguire in pubblico una parodia o un canto diffamatorio, pena la morte. Per secoli l'artista che intendeva esibirsi in un grande centro abitato chiedeva il permesso all'autorità del luogo. Alcuni spazi sono storicamente considerati "piazze degli artisti". Una di queste è piazza Navona a Roma. Un permesso datato 23 Luglio 1778 recita: "Eccellenza, Antonio Blasco Calabrese ore umo dell'Eccza vostra divotamente la supplica di volerli concedere la Necessaria licenza di potere Rappresentare al pubblico in questa Città il Ballo sopra la corda lenta ed il volo essendo la sua arte per procacciarsi necessariamente il pane; spera essere esaudito e pregherà per la conservazione di Vostra Eccellenza". Oggi, gli artisti di strada mantengono inalterato lo spirito di un tempo. Offrono occasioni di svago e aggregazione a titolo gratuito, senza pubblicità, in cambio di un obolo facoltativo. Con la loro storia millenaria sono indissociabili dal centro di una città. La particolarità dell'arte di strada rispetto al teatro, l'opera, il cinema, e le altre categorie dello spettacolo è che si tratta dell'unica forma di intrattenimento che non richiede particolari strutture. Per esercitare "a cappello" ossia a libera offerta, nelle strade e nelle piazze, basta solo l'artista stesso e il pubblico casuale.
Decine di musicisti affermati sono partiti dalla strada da Rod Stewart a Tracy Chapman, o attori come Robin Williams e Pierce Brosnan. Senza contare funamboli come Philippe Petit, che riuscì nella celebre impresa di stendere un cavo tra le torri gemelle per una passeggiata nel vuoto diventata un'icona di New York.
Fino al 2001 l'unico testo di legge che contemplava la categoria degli artisti di strada era l'articolo 121 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, datato 1931. Accorpava tutti i mestieri girovaghi (la maggior parte dei quali, come i lustrascarpe e i cenciaroli, sono scomparsi ai giorni nostri) e obbligava chi li esercitasse a registrarsi presso un ufficio preposto nel Comune di residenza. "[...] non può essere esercitato il mestiere ambulante di venditore o distributore di merci, generi alimentari o bevande, di scritti o disegni, di cenciaiolo, saltimbanco, cantante, suonatore, servitore di piazza, facchino, cocchiere, conduttore di autoveicoli di piazza, barcaiuolo, lustrascarpe e mestieri analoghi, senza previa iscrizione in un registro apposito presso l'autorità locale di pubblica sicurezza [....] In tutti i casi è vietato il mestiere di ciarlatano". L'abrogazione dell'articolo del Tulps ha lasciato ai singoli Comuni la possibilità di deliberare in materia. Ma non essendo stato imposto alcun obbligo, il risultato è di fatto un vuoto legislativo e una forte spaccatura tra Regioni più tolleranti ed altre più repressive. Solo il Piemonte e la Puglia hanno liberalizzato l'arte di strada sul territorio permettendo il libero esercizio delle arti di strada in ogni Comune. Molte città d'arte storiche, come Venezia, Firenze, Roma, rendono molto difficile se non praticamente impossibile il libero esercizio. È paradossale considerando la diffusione di eventi organizzati di arte di strada autorizzati durante l'anno dalle stesse città. "Nei piccoli Comuni la situazione è più semplice", spiega Wanda, sputafuoco che da 25 anni gira per le valli d'Italia portando il suo "Circo del sorriso", compagnia di teatro di strada che ha fondato con i figli. "Nei paesi l'artista di strada è vissuto come una novità. La gente è più disponibile a seguire uno spettacolo. Difficilmente si creano problemi con le amministrazioni. A volte addirittura sgombrano le piazze dalle macchine, portano le sedie nei luoghi dove si terrà la performance, si creano delle atmosfere che in una grande città non sono possibili. Si respira un'aria di convivialità che nelle grandi città è andata persa", aggiunge. I ritmi frenetici nelle metropoli e il moltiplicarsi dei problemi da affrontare da parte delle amministrazioni locali, unite alla mancanza di chiarezza a livello legislativo - spesso accentuato da un disinteresse nei confronti della categoria - stanno allontanando molti validi artisti. "Quello che ho potuto vedere in questi anni di confusione - dice Adrian Kaye, clown inglese trapiantato a Roma - è che oggi i più bravi, le promesse, se ne vanno via". Dario Fo: "Grande scuola per capire il pubblico". Parlando di arte di strada non può non venire in mente Dario Fo, uno dei più grandi portavoce di questa forma di intrattenimento. Lo abbiamo raggiunto al telefono tra un tour e una prova a teatro: in queste settimane sarà possibile seguirlo in una trasmissione televisiva "L'arte secondo Fo", in onda su Rai5, dove, da varie città d'Italia, terrà delle particolari "lezioni" di storia dell'arte. "E molti dei luoghi nei quali ho presentato il programma erano luoghi all'aperto, tra le intemperie. La mia esperienza di teatro di strada mi è tornata utile per gestire l'imprevisto," scherza il premio Nobel per la letteratura. Tra gli anni '60 e '70 con il suo collettivo "La Comune" ha avvicinato un pubblico lontano dai luoghi convenzionali dello spettacolo a un teatro di strada dai forti messaggi politici e satirici. "A proposito," esordisce prima ancora di cominciare l'intervista, "ho avuto un'esperienza straordinaria in Francia 20 anni fa. Ero stato invitato a mettere in scena un Molière della Comédie-Française, primo italiano a farlo. Nella compagnia scoprii che tre attori venivano dall'arte di strada. Furono la mia fortuna! Dovevo mettere "Il medico volante" in scena. E il medico in alcuni momenti doveva davvero volare, appeso alle funi o in equilibrio su di esse. E loro erano gli unici in grado di fare acrobazie, avevano un modo di recitare che non si trova nel nostro teatro tradizionale. Erano i più completi, attori totali."
Partendo da questa sua esperienza, pensa che lo spettacolo di strada dovrebbe essere valorizzato come quello nei teatri?
"Sì. Non si dovrebbero fare distinzioni in questo senso. Mi viene in mente quando alcuni ragazzi di Milano della Scuola di Paolo Grassi sono andati in Francia, al Festival di Avignone, per portare 'Mistero Buffo'. Quando sono arrivati, hanno visto che nessuno si era occupato di fare una propaganda adeguata. E così sono andati in strada. Hanno recitato per tre, quattro giorni dicendo al pubblico che se voleva seguirli anche all'interno e vederli per tutta una serata poteva venire a teatro. Hanno avuto successo, un gran successo. Anzi, lo scendere in strada ha fatto si che i giornali parlassero di loro. Anche se gli applausi sono un elogio molto più diretto che i giornali e le radio".
Sempre a proposito del contatto diretto tra persone, quali crede siano le differenze tra fare uno spettacolo al chiuso o in strada?
"In strada si crea quasi sempre una partecipazione spontanea, diretta. Succede anche all'interno ma dipende dalla cultura teatrale del pubblico. A volte si crea un muro, e quando il pubblico diventa ostile sei finito, a meno che non possiedi una forza trainante, straordinaria e la capacità di rompere questo muro. Luca Ronconi, morto proprio pochi giorni fa, aveva questa capacità, su quel piano era bravissimo. Mi ricordo quando mise in scena a Milano 'L'Orlando Furioso' in Piazza del Duomo. C'erano centinaia di persone che andavano, passavano, avevano altri problemi. E lui, attraverso il coinvolgimento, riuscì a far diventare il pubblico transitorio un pubblico di ascolto, di attesa e di meraviglia".
Lo ha riscontrato anche in altri spettacoli di strada?
"Lo spirito è sempre lo stesso. Prendersi la strada. Ma bisogna conquistarsela, naturalmente coinvolgendo la popolazione. Non può arrivare un gruppo e dire: 'Eccoci qua, ora la strada è nostra'. Non funziona così. La strada va conquistata".
Quanto oggi l'arte di strada fa parte della nostra società?
"Nei paesi esistono delle sceneggiate che si ripetono da secoli, in particolare la sceneggiata fissa è quella della Via Crucis. La Via Crucis è di fatto un teatro di strada. Il luogo fisico dove si svolge è la strada. Perfino la crocifissione è su una montagna, più di strada di così...".
Qual è secondo lei l'anima del teatro di strada?
"È l'invenzione di quello che si fa al momento che si fa. Dove, come, con che ritmo, non sei tu che dirigi lo spettacolo, è il pubblico che ti dirige. E il pubblico allo stesso tempo parla, si muove, si avvicina, e senza rendersene conto diventa parte dello spettacolo. E' l'improvvisazione che gira, il rapporto con il pubblico, la possibilità di giocare insieme. Questo è lo spettacolo di strada".
E c'è un valore politico in questa forma di spettacoli?
"Guai se non ci fosse! C'è sempre stato. Non per altro tutte le grandi compagnie che lavoravano in Italia nel 1400 furono cacciate con la Controriforma. Facevano teatro politico. Ad esempio si battevano per il diritto delle donne di esistere, di decidere della propria vita, guardate una commedia come La Venexiana, dove le donne sono soggetto e non oggetto di desiderio. Distruggevano le convenzioni, le ritualità, le strutture della famiglia normale, che spesso diventava un chiostro infame dove agire in libertà perché si detiene il potere".
E oggi, invece, questo tipo di rappresentazioni hanno lo stesso valore?
"E' la stessa cosa di un tempo. La società ha dei codici che vuole imporre a tutti i costi. Pensiamo alla situazione che vivono oggi i giovani. Ci sono giovani che hanno raggiunto i 40 anni e vivono ancora con la famiglia, ma ben volentieri se ne andrebbero! Non hanno lavoro e non hanno libertà. Bisogna rompere il codice".
Lei ha fatto molto teatro di strada negli anni '60. Cosa l'aveva spinta ad avvicinarsi a questo tipo di performance?
"Non solo era di strada, era d'autostrada. Recitavamo anche sui camion, in ogni luogo, dentro e fuori. Volevamo far notare come i testi delle commedie che si portavano in scena in teatro non fossero frutto del nostro pensiero e dalla volontà di raccontare una storia, ma frutto di un'imposizione. Ed era vero. Quando abbiamo deciso di uscire dai teatri, andare nelle piazze, nelle fabbriche, nei luoghi degli operai, del popolo, noi facevamo politica, prima e dopo lo spettacolo. Ci facevamo raccontare dal pubblico cosa provavano, come vivevano. Lo spettacolo diventava il mezzo per poter parlare, un mezzo per la vita. Ecco cosa abbiamo perso oggi! Non si discute più della politica quando finisce lo spettacolo".
Avevate problemi con le forze dell'ordine?
"Molte volte avevamo a che fare con la polizia e dovevamo sgombrare. C'erano delle leggi fasciste. Quella di non potersi esibire per strada è una legge fascista. Oggi c'è ancora questa legge?".
Oggi questa legge è stata abolita.
"Ma non mi pare che nel comune di Milano questo valga in positivo. A Venezia ci si può esibire liberamente?".
No, a Venezia oggi è molto difficile.
"Ecco. Se mi dava una bella notizia mi ubriacavo stasera".
Milano e Torino le più accoglienti. Alcune città d'arte e di turismo come Firenze o Venezia sono chiuse in se stesse e molto poco ospitali verso gli artisti di strada. Solo pochi possono esibirsi ed è virtualmente impossibile fermarsi in queste città per un'esibizione di passaggio.mAnche a Roma la situazione non è molto felice. Dal 2012 è in vigore una delibera che limita molto la libertà degli artisti di strada, con orari restrittivi e poche postazioni. Ma il problema maggiore è il rapporto con le forze dell'ordine. "C'è una situazione di intolleranza generale. E tra abusivi che vendono paccottiglia e movida notturna che porta disagi, la categoria degli artisti di strada è la più vulnerabile", spiega Daniele Leppe, avvocato che i questi anni ha seguito da vicino gli artisti di strada romani. Il Comune non fornisce un vero permesso, si tratta di una "comunicazione formale". In molti casi le stesse forze dell'ordine si ritrovano in difficoltà davanti alle proteste di negozianti o residenti di un quartiere e si ritrovano costretti a sgomberare un artista di strada anche se in piena regola. "Non è colpa di nessuno, le associazioni del centro storico non ne possono più e i vigili fanno il loro lavoro", conclude Leppe. Tra gli articoli della Delibera ve ne erano alcuni che bandivano ogni forma di amplificazione, strumenti a fiato e a percussione, ma grazie al lavoro congiunto di artisti e avvocato vennero aboliti nel 2013 grazie ad un ricorso al Tar. A Milano invece dal 2012 è in vigore un sistema informatico venduto al Comune dalla Fnas, Strad@aperta. Si tratta di una piattaforma online che permette di prenotare la propria postazione con un click da casa. L'introduzione del sistema ha fatto sì che Milano si posizionasse al terzo posto nella classifica delle "Migliori città per l'arte di strada" stilata dal quotidiano irlandese Indipendent, a pari merito con Dublino e Praga e preceduta da Sidney e San Paolo. "Gli artisti di strada sono una grande risorsa, oggi, abbiamo 1.800 artisti che operano in città", dice l'assessore al Tempo libero e qualità della vita, Chiara Bisconti. Tuttavia, "è talmente facile prenotarsi che alcuni lo fanno con leggerezza - spiega Gianni Guaglio, musicista di strada milanese - e capita che alcune postazioni risultino occupate ma di fatto siano libere, limitando le possibilità di lavoro per gli altri. Ma si tratta di un sistema sperimentale che può essere migliorato". Forse è proprio per la troppa facilità a scendere in strada che offre il sistema di prenotazioni che anche a Milano si comincia a notare un'invasione di persone ben lontane dall'arte di strada. In vista dell'Expo, l'amministrazione comunale sta pensando ad una commissione che valuti la qualità degli spettacoli. Tuttavia i rapporti a Milano tra artisti di strada e forze dell'ordine sono più amichevoli. "Non vogliamo creare problemi di ordine pubblico, se qualcuno alza troppo il volume cerchiamo di dirglielo noi prima che sopraggiungono i vigili. Sono convinto che per avere una situazione in strada felice basti un po' di buonsenso tra noi", conclude Guaglio. Ed è proprio all'insegna del buonsenso che si lavora a Torino, una delle città dove l'arte di strada è più tollerata e valorizzata. Non ci sono opinioni discordanti, tutti gli artisti condividono la linea di Alberto Bertolino, uno degli artisti storici che si esibisce con un organetto di Barberia, lo strumento a manovella anni '30. "Con una piccola spesa offriamo alla città un intrattenimento di qualità, questo l'amministrazione comunale lo sa - dice Bertolino - Cinque euro, uno ad artista, un gelato e passi un bel pomeriggio vedendoti 5 spettacoli". "In 10 anni che lavoro qui - dice ancora Bertolino -solo una volta i vigili sono venuti a chiedermi i documenti. Generalmente ci salutano cortesemente. Al massimo mi è capitato di vederli andare a far abbassare il volume ai ragazzi che suonavano troppo alto. Ma qui noi artisti non abbiamo mai avuto alcun problema". Il motivo sta nella capacità insita nella strada, e negli artisti che la popolano, di autoregolarsi. "Noi artisti di strada come tutti - continua Bertolino - abbiamo bisogno di guadagnare. Chi non riesce a guadagnare, non continua a fare questo lavoro. Chi non capisce le regole della strada, il rispetto verso gli altri artisti, i negozianti, il pubblico, non dura. Lo vediamo d'estate quando le strade vengono invase da ragazzi giovani con la chitarra e gli amplificatori. Si divertono finché fa caldo, ma con i primi freddi se ne vanno. Poi certo, ci sono e ci saranno sempre persone bisognose , o disperate, che strimpellano la stessa canzone tutto il giorno per 10 euro, ma anche quella è la strada".
Senza di loro ci sarebbe solo il rumore, commenta Ernesto Assante. La strada è un palcoscenico. Anzi, per molti è "il" palcoscenico. E non solo per chi è alle prime armi, cerca di farsi conoscere, prova per la prima volta il contatto con un pubblico che ascolta, ma anche per chi di carriera ne ha già fatta abbastanza, perché il contatto diretto con chi sta facendo qualcos'altro, passa, cammina, e viene catturato dalla musica è incredibilmente diverso da tutto il resto. Lo sa bene Claudio Baglioni, che si è divertito alcune volte a suonare in strada sotto mentite spoglie negli anni passati. Lo sa Bruce Springsteen, che continua a sorpresa a scendere in strada a suonare la sua chitarra quando può e ne ha voglia. E di musica in strada sono piene le biografie di tante grandi star, italiani come Bennato, internazionali come Tracy Chapman. Perché la strada ha un fascino incredibile, la possibilità di "colpire" per qualche istante il cervello di chi passa con una sensazione, un sentimento, un suono, è diversa da tutte le altre che vengono offerte a un musicista su un palco, anche piccolo, anche nascosto. Suonare in strada è per molti versi una dimensione professionale, bisogna saperlo fare, saper entrare con garbo nella vita di chi passa e ascolta, capire i momenti, le ore, le giornate, suonare in strada è un'arte a se stante che si impara con l'esperienza e che arricchisce chi la pratica in maniera profondissima. Ora, è bene fare differenza tra chi suona sempre le stesse tre canzoni, con una chitarra scordata o con un sassofono, davanti ai tavoli di un ristorante per racimolare qualche spicciolo dai turisti, e chi invece propone in strada la propria arte, senza compromessi e con molto coraggio. Se i primi contribuiscono unicamente al rumore di fondo delle città e anzi maltrattano la musica con incredibile pervicacia, i secondi invece sono i cultori dell'arte musicale, che vivono senza compromessi e in prima persona, senza pensare a "prodotti", "promozioni", "classifiche", "successi" e quant'altro. No, per i musicisti di strada la musica non è solo una fonte di sostentamento per il corpo, ma soprattutto per l'anima. Il loro scopo è altissimo, è quello di far scattare, in chi passa in fretta da una strada per un qualsiasi motivo, una leva emozionale che lo spinga, per un momento, a fermarsi, a dare ascolto e attenzione alla musica, così come non fa quasi nessuno ascoltando la radio o con i propri auricolari facendo qualcos'altro. I musicisti di strada, invece, chiedono al proprio pubblico di fermarsi per qualche minuto e prestare attenzione alla musica, trasformandosi in guardiani dell'arte, in difensori della bellezza, che provano a propagare tra le pieghe delle nostre città, negli angoli delle vie centrali, nei tunnel delle metropolitane, li dove possono e riescono a suonare. Dobbiamo ringraziarli, perché senza di loro le città avrebbero solo il rumore delle auto o della musica di consumo che esce dai negozi.
PAY TV: SPORT E PIRATERIA.
Gli imbattibili streaming illegali del calcio, scrive “Il Post”. Sono ovunque, per quanto i network gli facciano la guerra, e il loro successo è legato alla natura stessa del tifo: per contrastarli non bastano le azioni poliziesche, scrive l'Atlantic. Trovare online un link che permetta di vedere una partita di calcio in streaming è facilissimo: spesso basta semplicemente cercare su Google oppure andare a colpo sicuro su uno dei quattro o cinque siti ormai famosissimi che pubblicano ogni giorno i link – link di altri siti, e questo è uno dei motivi per cui non possono essere chiusi – degli streaming. Il problema è che queste dirette in streaming sono quasi sempre illegali, e questo crea una situazione paradossale: i network televisivi pagano moltissimi soldi per trasmettere le partite in esclusiva e quei soldi sono utilizzati dalle squadre per comprare buoni giocatori e in generale alzare la qualità media del gioco e il divertimento; e più un evento sportivo è divertente e spettacolare, più le persone cercheranno di vederlo illegalmente in streaming. La Serie A, per esempio, quest’anno ha guadagnato 945 milioni di euro dalla vendita dei diritti a Sky e Mediaset Premium per la trasmissione delle partite di calcio. La Premier League l’anno scorso ha incassato l’equivalente di 3 miliardi di euro. Per il momento la strategia dei network per contenere gli streaming illegali si articola in due modi. Il primo è offrire un prodotto di sempre più alto livello qualitativo, a cominciare dalla definizione delle immagini. Il secondo è battere internet palmo a palmo, far rimuovere i contenuti illegali e far chiudere i siti che li diffondono. Il problema è che la legge non è del tutto chiara. Inoltre ci sono un sacco di zone grigie ed è impossibile agire così velocemente da impedire che uno streaming di una partita resti online il tempo che serve: cioè il tempo di una partita di calcio. In Italia nel 2013 un gip aveva stabilito che è illegale non solo trasmettere eventi sportivi in streaming se non si possiedono i diritti (e fin qui) ma anche che è illegale linkare i siti che trasmettono eventi sportivi in streaming senza averne i diritti. Qualche tempo dopo una sentenza impedì al Post addirittura di citare – citare e non linkare – in un articolo giornalistico sul tema i nomi di alcuni dei siti più famosi al mondo che raccolgono i link alle trasmissioni di eventi sportivi in streaming. Altrove la legge applica qualche distinzione in più e di fatto è risultato fino a questo momento impossibile chiudere quei tre o quattro siti che tutti gli appassionati di calcio conoscono e che offrono quotidianamente decine e decine di link dove trovare le trasmissioni degli eventi sportivi in streaming: perché non sono loro a trasmetterle direttamente, bensì altri siti che loro linkano. L’Atlantic racconta per esempio la storia di Guilherme Neto, dal Portogallo, che ha messo online nel 2010 uno dei più popolari siti di streaming online. Il sito di Neto non trasmette le partite ma linka i migliori siti dove guardare le partite. La sua pagina Facebook ha oltre 3,5 milioni di iscritti. Dice Neto: «Non tutti hanno i mezzi per pagare tra i 35 e gli 80 euro di pacchetti televisivi per vedere la loro squadra del cuore giocare sei, sette volte al mese. I prezzi ovviamente variano da paese a paese, ma per milioni di persone sono comunque troppo alti». Neto è convinto di non essere perseguibile poiché il suo sito non contiene direttamente lo streaming: lui fornisce il prodotto al pubblico ma non lo “ruba”, lo mette solo a disposizione. «Onestamente non ci vedo nulla di illegale, tutti gli streaming che indichiamo sono aperti al pubblico e si possono trovare comunque con tutti i motori di ricerca». Per quanto sia facilissimo trovare online un sito che trasmetta una partita di calcio in streaming, non è molto comodo né rilassante guardare così una partita. Intanto la qualità video non è sempre buona e capita che lo streaming si blocchi, specie con connessioni non velocissime. Inoltre le pagine che ospitano questi streaming sono poco affidabili, lente e stracolme di pop-up pubblicitari e trappole da clic. Questa è una classica pagina da cui poter vedere una partita in streaming su uno di questi siti. La pagina è piena di annunci e pop-up che confondono e si aprono da soli. Devi aspettare 15 secondi che si chiuda un annuncio, poi devi aspettare altri 15, se clicchi sulla X in realtà si apre un altro pop-up e forse ti prendi anche un malware sul computer. Queste pagine sono fatte così perché questo è il modo con cui quelli che forniscono lo streaming illegale delle partite ci guadagnano dei soldi. Neto spiega però che non sono poi così tanti i soldi guadagnati da chi fornisce questo servizio: «Alla fine molti streamers non guadagnano molti soldi, giusto abbastanza per andare avanti». Un’altra strada intrapresa dai network per contrastare gli streaming online delle partite è offrirli legalmente. Sia Sky che Mediaset oggi offrono tutti i loro contenuti gratis in streaming ma solo ai loro abbonati; chi vuole vedere una sola partita non può farlo sempre e quando è possibile deve pagare fino a 10 euro. Lo stesso fanno i grandi network internazionali. Ma anche gli streaming legali hanno alcuni dei problemi degli streaming illegali: la qualità video non impeccabile, il ritardo rispetto al segnale televisivo, il segnale che salta. Oggi c’è un altro problema in più che riguarda i canali sportivi: dopo la partita molti tifosi cercano e diffondono sui social network i video dei gol e delle azioni più belle della partita. Il video di un gol si può trovare online dopo pochissimi minuti dalla marcatura: ultimamente soprattutto su Vine, un’app per smartphone creata da Twitter che permette di girare video che possono durare al massimo sei secondi e diffonderli sui social network. Durante i Mondiali in Brasile c’erano video di Vine ovunque. La qualità dei Vine è ancora più bassa di quella degli streaming: si tratta di video ripresi direttamente dalla tv, che durano pochissimo e spesso hanno rumori o orribili colonne sonore in sottofondo. Eppure circolano moltissimo: sono in questo momento il modo più rapido ed efficace per cercare e guardare un gol online. Lo stesso avviene da qualche tempo con i file GIF, che sono anche un po’ più complicati da trovare e rimuovere. Quello delle immagini diffuse illecitamente su Vine non è un problema che riguarda solamente i tifosi: anche alcuni calciatori e società hanno caricato video girati all’interno dello spogliatoio o durante il riscaldamento precedente alle partite, contenuti che in Italia sono riservati a Sky. La Lega della Serie A ha quindi comunicato a settembre ai club la proibizione di pubblicare contenuti di questo tipo. Questo video, per esempio, pubblicato dall’account ufficiale della Roma alla prima giornata di campionato, non potrebbe più essere caricato secondo le nuove regole della Lega. Dan Johnson è il direttore della comunicazione della Premier League, il più importante campionato di calcio inglese nonché probabilmente il più bello e incerto al mondo. Johnson ha spiegato all’Atlantic: «So che può sembrare che vogliamo togliere il divertimento ai tifosi, ma dobbiamo proteggere la nostra proprietà intellettuale. La Premier League vende ai canali tv anche le clip delle azioni più belle, che fanno parte di un pacchetto per cui le emittenti pagano molti soldi». In Spagna, dove giocano i due considerati oggi i più forti al mondo (Lionel Messi e Cristiano Ronaldo), è partita una campagna contro gli streaming illegali –”#antipiratería“ – pubblicizzata da un video in cui si vedono dei tifosi che entrano in scivolata, ostacolano o picchiano i giocatori in campo: un modo per far capire alla gente il “danno” che la pirateria causa al calcio, indebolendo i network televisivi che versano così tanti soldi alle squadre di calcio. «La qualità, il successo e la popolarità della Premier League – ma si può parlare ugualmente di tutti gli altri campionati – sono costruiti attorno a un circolo di investimenti. I calciatori di alto livello giocano in stadi pieni, attraggono l’interesse del mondo e quindi tanti investimenti. Tutto quello che mette a rischio questo modello, come il furto della proprietà intellettuale, potrebbe in fin dei conti rendere meno attraente la competizione», ha detto Johnson, spiegando perché secondo lui condividere il Vine di un gol straordinario potrebbe contribuire a danneggiare la Premier League e in ultima istanza avere meno gol straordinari. Il problema è che per ogni sito chiuso ne nascono due; per ogni Vine rimosso ne vengono caricati tre. La lotta alla pirateria delle immagini degli eventi sportivi può sembrare simile a quella contro la diffusione illecita di musica e film online, scrive l’Atlantic, ma in realtà si tratta di fenomeni molto diversi: innanzitutto perché una partita di calcio in sé non è un’opera intellettuale, ma soprattutto perché si tratta di un fenomeno in qualche modo intrinseco alla cultura dello sport. Il calcio è un prodotto globale: spesso si vedono immagini di centinaia o migliaia di persone che guardano le partite intorno a un maxischermo, anche in paesi molto lontani dal reale svolgimento della gara, tutte insieme con un solo schermo. I tifosi delle squadre più famose non sono soltanto nel paese stesso della squadra ma si trovano anche in altri continenti e ogni paese ha la sua giurisdizione, cosa che rende molto complicato andare a caccia dei contenuti illeciti. Non è chiaro comunque quanto gli streaming illegali danneggino i profitti di un campionato. Quello che è certo, scrive l’Atlantic, è che molti tifosi non guardano le partite di calcio solamente in modo illegale. Spesso capita in occasioni isolate, perché sono in ufficio e non casa dove hanno il loro decoder, oppure perché la partita che vogliono vedere non è trasmessa dal network a cui sono abbonati. Spesso capita che siano persone abbonate legalmente a un network che trasmette le partite a filmare un gol dalla propria tv e diffonderlo su Vine, per condividerlo con i propri amici. E quelle stesse persone che guardano le partite in streaming vanno comunque allo stadio di tanto in tanto, o comprano le costose magliette ufficiali della squadra. In alcuni casi lo streaming può quasi essere un vantaggio: quest’estate Real Madrid e Manchester United hanno giocato un’amichevole in uno stadio in Michigan, con il pubblico più numeroso di sempre. Molte di quelle persone hanno probabilmente cominciato a conoscere le squadre e i giocatori – per cui hanno pagato il biglietto – tramite gli streaming illegali. Senza quella esposizione online si sarebbero presentate così tante persone a vedere una partita amichevole? L’Atlantic conclude che gli organizzatori dei campionati di calcio dovrebbero provare a prendere esempio da quello che sta succedendo nelle altre industrie alle prese col problema della pirateria. Netflix era un servizio di film a noleggio: ora è diventata di fatto una pay tv. Uno studio del 2012 ha dimostrato che il download illegale di musica è diminuito dopo l’introduzione di servizi a pagamento a un costo ragionevole, come Spotify. Aumentare la facilità di accesso ai contenuti legali, abbattere i costi che devono accollarsi gli utenti, arricchire la loro offerta con contenuti che è impossibile trovare altrove. Christopher Harris, fondatore di worldsoccertalk.com, un sito dedicato a tutti i maggiori campionati di calcio, ha spiegato come secondo lui si potrebbe risolvere il problema, ed è una soluzione piuttosto semplice: «Di questo passo l’abitudine a guardare le partite online continuerà a crescere, soprattutto per i giovani. Quelli che possiedono i diritti per il campionato hanno il vantaggio di avere un accesso maggiore alle squadre e ai giocatori, che va oltre ai 90 minuti in cui scendono in campo campo. Dovrebbero sfruttarlo per aumentare l’offerta dei loro streaming legali, con contenuti che i siti pirata non possono avere».
Il sequestro non ferma il calcio pirata alla tv, scrive Gabriele De Palma su “Il Corriere della Sera”. Lo streaming degli eventi sportivi continua indisturbato. Quando martedì il Corriere.it ha diffuso la notizia del sequestro preventivo di dieci piattaforme illegali che rilanciavano il segnale – criptato – delle tv sportive a pagamento mi sono preoccupato. Non per me, io di solito queste piattaforme non le frequento e lo sport in tv non mi esalta, ma sapevo che alcuni amici avrebbero messo il lutto al braccio nell'apprendere i termini del provvedimento del procuratore aggiunto di Milano che ha accettato la richiesta di Rti-Mediaset. Ma gli amici servono nei momenti del bisogno e così ho subito pensato di rassicurarli: non sono un tecnico ma ho abbastanza esperienza di Web da sapere che oscurare la Rete, anche in piccola parte, è quasi impossibile. Confidavo sul fatto che sequestrata una piattaforma ne sarebbe spuntata subito un'altra. Così ieri notte, insieme a uno degli amici «pirati» che di fare l'abbonamento alle pay-tv non ha voglia (e nemmeno i soldi a dire il vero) ma è un vero sport-addicted, ho provato a testare la bontà delle mie conoscenze (ripeto non tecniche) e quella del provvedimento di sequestro. Mentre stavamo terminando la parca cena l'amico accende la tv per vedere i quarti di Coppa Italia Inter – Bologna. Ma anziché sulla Rai (dove la partita è in chiaro e si vede benissimo), e solo per motivi sperimentali, proviamo a collegarci tramite una dei più popolari siti che indicizzano le piattaforme che offrono le partite in diretta. Fare nomi è scortese, per intenderci quella piattaforma il cui logo è un celebre ex-arbitro italiano che sventola un cartellino rosso. Ci sintonizziamo all'ottavo minuto del primo tempo su una telecronaca in spagnolo dell'incontro diffusa – suppongo senza riconoscerne i diritti – da Masdesportv (il nome è camuffato, come lo saranno tutti quelli delle piattaforme citate in seguito). La qualità del segnale è buona, abbastanza da apprezzare le espressioni sui volti dei calciatori e per vedere il gran gol di Guarin a fine primo tempo. Dopo il gol ci trasferiamo su un'altra piattaforma (Fuffo Stream) che rilancia il segnale Rai e anche in questo caso nessun problema a vedere il match. All'inizio del secondo tempo decidiamo di dare un'occhiata a quel che succede nella Coppa del Re spagnola: Real Madrid-Valencia. Questa volta il commento è in arabo e si distinguono solo i nomi dei giocatori, motivo per cui azzeriamo il volume. Finalmente al quinto minuto del secondo tempo lo schermo si fa nero e, penso, si vede che il sequestro è avvenuto proprio adesso. Ma invece è solo un appannamento della connessione e il segnale si riprende in pochi secondi. Il mio amico mi avverte che di solito succede che durante la diretta le piattaforme vengano criptate, frustrando l'esperienza dello spettatore via web e allora riproviamo a sintonizzarci su Inter-Bologna. Tutto a posto, si vede come prima e per di più la partita è godibilissima (finirà 3 a 2 per l'Inter con gol all'ultimo minuto dei supplementari). A quel punto avrei anche esaurito le energie e la voglia di vedere altre partite è sottozero, ma l'amico è un fanatico e vuole andare avanti fino a quando vengono trasmesse le partite del basket Nba. Quindi bisogna tirare fino alle 2 del mattino quando inizierà Houston Rockets-Los Angeles Clippers. Che fare nell'attesa? Già che ci siamo e per non far scorrere via liscia la serata come se il sequestro preventivo non avesse alcun effetto, proviamo con altre piattaforme e altre partite. Il menu offre tra i piatti più succulenti Paraguay-Cile under 20. Commento in spagnolo, piattaforma Iustream e tutto tranquillo. Tranquillo dalla nostra parte dello schermo, in campo invece «gioco maschio» come avrebbe detto 30 anni fa Marcello Giannini da Firenze. Partita bellissima e anche qui 3 a 2 con gol decisivo segnato all'ultimo minuto. La telecronaca in spagnolo (l'emittente piratata in questo caso era una pay-tv colombiana) adesso non solo non infastidisce ma anzi arricchisce l'esperienza, anche perché il cronista è di quelli che si scaldano e ogni rete è salutata dal classico e interminabile “goooooooooool!”. Ecco finalmente ci siamo, sono le due ed è l'ora della Nba. Io però stavolta mi limito a seguire il mio amico nella scelta della piattaforma (sempre raggiungibile dallo stesso indice con logo di ex-arbitro italiano) e verificare che anche questa volta il segnale sia pulito e la trasmissione fluida. Seleziono la piattaforma e aspetto i tradizionali 20 secondi per agganciare il segnale in un tripudio di banner pubblicitari. Nessun problema e quindi saluto l'amico che ha recuperato energie non so dove ed eccitatissimo si è seduto in punta di divano aspettando le schiacciate di Blake Griffin. Torno a casa a piedi al freddo e penso che se la notizia del sequestro preventivo fosse rimasta taciuta nessuno tra gli utenti se ne sarebbe accorto e io avrei perso meno ore di sonno. Vero è che tecnicamente non abbiamo utilizzato nessuna delle piattaforme sequestrate (dinozap.tv, freedocast.com, hdcaster.net, hqcast.tv, ilive.to, limev.com, livescorehunter.tv, mips.tv, veemi.com) ma è anche vero che da spettatori non abbiamo notato alcun disservizio. E addormentandomi, felice di aver dimostrato all'amico che non doveva temere e stralunato da tanto sport in tv, mi torna in mente l'unico fastidio della serata, tutta quella pubblicità, non solo banner facilmente eliminabili o le reclame trasmesse dalla tv «piratata» ma anche spot video che interrompono la trasmissione via web. E in italiano, di inserzionisti italiani. E mi chiedo: non è che i detentori dei diritti stanno combattendo il nemico sbagliato?
Ecco come guardare gratis tutte le partire di serie A. Viaggio nei siti che permettono di vedere eventi sportivi italiani ed esteri. Un traffico che sembra tollerato. Per gli spettatori di frodo ci sono anche banner pubblicitari e persino l’opportunità di fare donazioni, scrive Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. Se scriviamo Rojadirecta siamo sicuri che a molti non suonerà un nome sconosciuto. È la piattaforma più nota dai “pirati sportivi” del web. Nel 2011 intervenne addirittura il Dipartimento di Stato americano per chiuderlo (espropriando il dominio internet) temendo che potesse mandare on line anche la finale del Superbowl. Potevano farlo? Per la giustizia spagnola no, tanto che un tribunale iberico ha ritenuto il sito legale considerandolo solo un contenitore di link. Così, in principio fu rojadirecta.org, poi rojadirecta.com, rojadirecta.me e oggi è raggiungibile su rojadirecta.eu. In Italia, proprio la settimana scorsa, il Gip Gaspare Sturzo ha ordinato la chiusura di 124 siti internet illegali con sede all’estero. Trasmettevano le partite del nostro campionato e delle principali leghe straniere. La Guardia di Finanza li ha oscurati. Non Rojadirecta. In passato ci aveva provato anche la Procura di Milano a bloccarlo con una richiesta inviata agli ISP (Internet Service Provider, cioè chi fornisce i servizi internet) ma evidentemente senza grandi risultati. Beghe legali a parte e saltando il complesso sistema di rinvio ai siti stranieri, Rojadirecta è solo uno dei tanti indirizzi attraverso i quali poter vedere tutte le partite del campionato di calcio di Serie A. Basta collegarsi all’home page e digitare nel form “Oggi su internet Tv” (un vero e proprio palinsesto) la squadra che si intende seguire. Ma è possibile vedere anche il basket Nba, il tennis, l’hockey, la Formula 1 e la Moto Gp. Dopodiché compare un elenco di link a siti come Rivo tv, Vsp match, Zonesport, Millox tv, Futbol tv, lacasadeltikitaka, etc (dove però Rojadirecta è indicato come “official partner”). Per ognuno corrisponde un indirizzo che replica la telecronaca di una partita. Può essere in lingua spagnola, rumena, inglese, italiana. Nell’ultimo caso si duplica sul web principalmente quello che trasmette Rai Italia (il canale della televisione pubblica dedicato agli italiani all’estero), Mediaset Premium e Sky Sport. Facciamo una prova: guardare tutte le partite di calcio della ventesima giornata di Serie A. Dall’anticipo Cagliari - Sassuolo al posticipo Napoli - Genoa non perdiamo una gara. Dello stesso incontro è possibile scegliere la pay tv preferita, cambiare da Mediaset a Sky passando per Fox sports e ESPN (un’emittente televisiva statunitense che trasmette eventi sportivi h24). Si può trovare il rispettivo canale HD, anche se la qualità video resta quella dello streaming. All’inizio occorre pazientare un po’ a causa delle varie finestre pubblicitarie che si aprono. Non di rado chiedono di scaricare software per accedere al canale. Va detto che alcuni utenti hanno segnalato casi di phishing (vere e proprie truffe realizzate attraverso l’imitazione di siti - come postepay o paypal - che chiedono i dati della carta di credito o altre informazioni personali) e di spyware (programmi che rubano dal computer le informazioni relative alla propria attività su internet). Tuttavia abbiamo visualizzato correttamente ogni match senza scaricare nulla. La trasmissione in streaming non si interrompe mai, nemmeno durante l’intervallo tra primo e secondo tempo. E’ possibile vedere le interviste a bordo campo, la moviola, i commenti degli ospiti in studio, le riprese esclusive negli spogliatoi o nel tunnel che conduce i calciatori sul terreno di gioco. Il guadagno sarebbe assicurato dalla pubblicità. Non solo quello derivante dall’apertura di finestre pop-up ma soprattutto da tradizionali banner. Per i fanatici del “tutto gratis” è possibile fare anche donazioni. Con tanto di invito che ha un po’ il sapore della beffa: “Aiutaci ad aiutare. Il calcio è di chi lo ama e non di chi ha i soldi o di chi ci specula sopra. Se puoi, Dona! Grazie”. Gli inserzionisti che vediamo sono colossi dell’internet commerce come Yoox, il “partner globale di Internet retail per i principali brand di moda & design” si legge in home page. Oppure Immobiliare.it, il “portale N.1 in Italia negli annunci immobiliari”. Ma il paradosso è che tra gli sponsor dei siti “ pirata” compaiono le stesse Mediaset e Sky che detengono i diritti tv e sono i primi danneggiati dalle dirette in streaming. Su un banner si legge: “Per chi fai il tifo? Scegli la tua squadra … Con Mediaset connect scopri il nuovo modo di vedere il calcio”. O anche: “Abbiamo migliorato un’offerta imbattibile. Passa a Sky”. Ma più imbattibile del “vedo gratis” non c’è niente.
Crispino è l’autore di un servizio video sulle carceri italiane, pubblicato anche dallo scrittore Antonio Giangrande che ha vari canali web di divulgazione. Inchiesta video del bravo e coraggioso giornalista Antonio Crispino, pubblicata su you tube in vari video e su varie fonti, che ne hanno consentito la copia ed il montaggio. Da queste fonti è omessa l’indicazione del logo del detentore dei diritti di pubblicazione. Mancanza non riconducibile al curatore di questo video, ossia il dr Antonio Giangrande, che immediatamente provvede a precisare su sollecitazione dell’autore. La precisazione è doverosa poiché il Corriere della Sera detiene i diritti d’autore delle opere dell’autore (quindi non basta citare l’autore) ed è l’unico soggetto legittimato a disporne la pubblicazione, tanto più che dai video caricati su YouTube risulta tagliato il logo CorriereTv in alto a destra che ne indica la proprietà.
Come dire Antonio Crispino ci tiene alle guarentigie del diritto d’autore, anche se ciò ne limita la conoscenza dell’opera per il pubblico servizio.
Vedere partite calcio gratis su Internet con lo streaming, spiega “Sportivi dentro”. Come si fa a vedere le partite di calcio gratis su Internet? Da tempo ormai le partite di calcio trasmesse in chiaro in TV sono davvero poche e spesso bisogna abbonarsi a servizi come il digitale terrestre di Mediaset o la pay-per-view di Sky per guardare la propria squadra del cuore. Non è però l’unico metodo; grazie alle tv straniere che trasmettono in streaming su Internet le partite della Serie A, della Champions League, della Premiere League inglese, della Liga spagnola e della Bundesliga tedesca infatti, è possibile vedere GRATIS e legalmente le partite che preferiamo. Per vedere le partite di calcio gratis su Internet, servono dei software gratuiti da scaricare e installare sul PC; poi basta andare su dei siti che indicano i canali su cui le partite sono trasmesse e far partire il programma per vedere la gara. I software più famosi che permettono di vedere le partite sono TvAnts, PPLive, PPStream, Coolstreaming, PPMate, Sopcast, TVUPlayer.
E’ legale vedere le partite di calcio gratis su Internet? Si, perchè le TV (cinesi, inglesi o di qualsiasi altro Paese) che trasmettono Serie A, Champions League e altri campionati in streaming hanno acquistato i diritti televisivi di quei campionati. Una volta installati alcuni (o tutti se preferite) dei software sopra indicati, non bisogna far altro che andare su uno dei siti dove sono elencati i canali (ad esempio MyP2P), almeno 15 minuti prima della partita, e cliccare sul link che fa riferimento alla partita che volete seguire. Date il tempo al programma di caricare il canale e poi potrete seguire l’evento scelto live (con alcuni secondi di ritardo). Buona visione.
Vedere il calcio gratis? Ecco come, scrive Dario Ferri su “Giornalettismo”. Decoder, card sharing, streaming: già oggi l’utente può aggirare il duopolio di Sky e Mediaset. La sentenza con cui l’alta corte Ue ha stabilito che non è illegale comprare decoder e schede di decodifica da emittenti straniere fa tremare Sky. La concorrenza si allarga e oltre ai due colossi potremmo presto trovare nei negozi sotto casa offerte convenienti per godere dei match di tutto il Vecchio continente. Ma sul Corriere di oggi si racconta che esistono comunque altri modi per “aggirare” il duopolio: Per la Corte infatti è lecito seguire le partite con smartcard e decoder di altri stati membri. Così ha accolto le ragioni della titolare di un piccolo pub di Portsmouth che usava decoder e scheda greca per far vedere ai suoi clienti le partite della Premier League. A parte il commento in greco, l’affare era vantaggioso: 800 sterline l’anno contro le 700 al mese se si fosse abbonata a Sky nel Regno Unito. Ma sarà davvero rivoluzione per l’utente? Quanti compreranno decoder lettoni, ungheresi o slovacchi per vedere il calcio a prezzi ribassati? Le leghe calcistiche, a partire da quella italiana, ci stanno ragionando. Il presidente Maurizio Beretta a caldo immagina che la sentenza impatti più sul sistema inglese che su quello italiano. Quel che è certo è che i modi illegali di aggirare l’abbonamento alla pay tv sono di nicchia ma più vivi di quanto si creda: In principio fu la smartcard taroccata. Un sistema tutto sommato semplice e «accessibile » a molti, tanto che la pirateria fu uno dei crucci di Tele+ prima e Sky dopo. Fino al 2005 il sistema di codifica Seca che serviva a cifrare lo stream dvb (audio/ video digitale in forma compressa) era facilmente aggirabile. Così Sky fece una grossa operazione per rendere più difficile violare i codici, inventando un nuovo sistema di codifica (Nds) passando ai decoder Nds, prodotti dalla stessa Sky. Fu un’operazione antipirateria non indifferente, perché la pay tv inviò, a proprie spese, agli abbonati un decoder Nds (un milione emezzo di pezzi) e una smartcard Nds (un milione e 900 mila schede). Codifica più sicura ma non impenetrabile. Per lo «smanettone » la soddisfazione di non pagare è pari a quella di aggirare un colosso delle telecomunicazioni. Così appare Dream- Box, un decoder basato su tecnologia Linux dal costo di circa 500 euro. Il sistema è complicato, alla portata soprattutto dei nativi digitali, ma anche in questo caso scaricando i codici da internet si riesca a settare il proprio decoder in modo da accedere al pacchetto Sky (in meno di un anno si ammortizza il costo del decoder). Unico problema: Ogni tanto le pay tv cambiano i codici di «encryption », ma il buco nero dura una massimo due settimane, il tempo di scoprire i nuovi codici e poi torna tutto chiaro. Tranquilli. C’è anche il sistema per aggirare questo scocciatura. La soluzione è il card sharing, una pratica (illegale) attraverso la quale è possibile condividere un abbonamento a una pay tv tra più utenti attraverso internet, sottoscrivendo un solo abbonamento che poi viene smistato a «enne» clienti. Ma per vedere gratis le partite di calcio il sistema illegale più diffuso è quello del live streaming attraverso siti internet, soprattutto giapponesi ma anche spagnoli. Dove è possibile seguire in diretta le partite del campionato di calcio anche in hd, anche con commento in italiano. L’accesso può essere a numero chiuso, perché la banda, a seconda dei siti, può supportare un certo numero di utenti. Ma nello stadio virtuale un posto a sedere smanettando si trova sempre.
Nuova pirateria: calcio gratis... troppo facile, scrive Roberto Pezzali su “DDay”. L'oscuramento di Rojadirecta.me ha lasciato spazio a centinaia di siti che offrono link a canali dove vedere partite in alta qualità e senza pagare nulla. Un fenomeno che sta assumendo dimensioni incontrollabili. Lo scorso 4 luglio 2013 il Tribunale di Milano ha disposto la “censura” mediante oscuramento dell’IP di Rojadirecta.me, il popolare sito spagnolo che offriva (e offre ancora per i paesi dove non è censurato) un servizio di indicizzazione per gli eventi sportivi di tutto il mondo. Rojadirecta è però solo la punta dell’Iceberg, il portale più noto di un mondo che negli ultimi sei mesi grazie anche a nuove tecnologie è esploso a dismisura diventando di fatto la Nuova Pirateria. Un tempo si scaricavano film e musica, oggi lo si fa ancora ma forse la minaccia più grande arriva dalla facilità con cui è possibile guardare una partita di calcio o una gara di Formula 1 con una qualità più che accettabile rinunciando solo (ma non sempre) alla telecronaca nella propria lingua. La chiusura di Rojadirecta ha di fatto aperto la strada a centinaia di portali e siti che prima erano sconosciuti e che offrono un servizio simile, anzi, a volte anche migliore grazie ad una selezione più accurata dei canali di streaming e alla scelta di tecnologie diverse dal classico Flash player con i fastidiosi pupup di pubblicità e i continui blocchi. Il proliferare di siti che indicizzano canali “nascosti” per poter vedere partite e eventi sportivi senza pagare è sotto gli occhi di tutti: basta fare una ricerca in Google inserendo la partita che interessa vedere seguita dal tipo di tecnologia che si vuole utilizzare per entrare in un mondo dove si vede tutto e non si paga niente. Siti che appaiono professionali, ben fatti, con tanto di dislaimer legale e un'interfaccia utente pulita e intuitiva. Una minaccia enorme per un paese come l’Italia dove il calcio è visto come un qualcosa a cui difficilmente si può rinunciare e dove l’intero sistema calcistico italiano è sorretto proprio dai contributi che le pay TV, Sky e Mediaset, versano per i diritti di trasmissione delle partite. Lo streaming da altri paesi è legale? Assolutamente no. Per un breve periodo di tempo si è diffusa la convinzione che guardare partite gratis in streaming trasmesse da altri paesi europei fosse legale. La convinzione è arrivata dopo la famosa sentenza della Corte di Giustizia Europea che ha dato ragione al pub inglese che trasmetteva le partite utilizzando una tessera greca: secondo la Corte di Giustizia Europea è ingiustificato limitare territorialmente le licenze di trasmissione. Secondo una dichiarazione rilasciata a Wired da Fulvio Sarzana, avvocato tra i massimi esperti di diritto d’autore nei nuovi media, con la sentenza “Diventano leciti i link a siti esteri europei che hanno legittimamente acquisito il diritto a trasmettere l'evento. Anche quando la normativa nazionale prevede (come accade in italia) diritti di esclusiva su base territoriale. Secondo la mia interpretazione, quindi, gli utenti sono autorizzati a prendere la partita ovunque la trovino, senza poter essere limitati dal titolare del diritto”. La Corte di Giustizia non ci ha messo però molto a chiarire la posizione: tutte le piattaforme che trasmettono contenuti televisivi in streaming sono tenuti ad accordarsi con i broadcaster per evitare cause legali. Trasmettere le partite in streaming è quindi illegale (era abbastanza scontato) ma nel caso dei siti che indicizzano i canali sui quali queste partite sono trasmesse la situazione è molto più complessa: questi siti non sono altro che una “Guida TV” che fornisce link, spesso senza scopo di lucro, e la stessa Rojadirecta è stata assolta in Spagna dopo 3 anni di causa perché la veicolazione di link non è illegale. In Italia invece Rojadirecta è stato oscurato preventivamente (non si può sequestrare non essendo su server italiani) perché secondo il GIP di Milano Andrea Ghinetti «rappresenta un vero e proprio portale per l'abusiva diffusione di eventi sportivi in violazione degli altrui diritti di privativa». La causa però è tutt’altro che conclusa, anche se sembra uno uno spreco di tempo: tra DNS pubblici, altri siti e altri sistemi Rojadirecta è solo un granello di sabbia che presto sarà dimenticato. Un sistema difficilissimo da fermare. Chi ha provato a guardare almeno una volta una partita in streaming, sfruttando magari un canale in flash, sa bene quanto l’esperienza è tutt’altro che appagante: pubblicità a non finire, rallentamenti, blocchi e problemi di ogni tipo che aumentano con l’aumentare del numero di persone che guardano quel singolo evento. L’aumento però della banda disponibile, soprattutto in upload, e l’arrivo di nuove tecnologie per lo streaming che sfruttano il P2P hanno alzato di diversi livelli la qualità di visione: alcuni eventi, trasmessi con un bitrate di 3 Mbit, hanno la qualità di un buon segnale SD e si vedono praticamente come le partite trasmesse da Mediaset sul digitale terrestre. Il tutto senza pubblicità e senza interruzioni: abbiamo provato a vedere alcune partite dei preliminari di Coppa dei Campioni e il segnale sembrava provenire dal decoder. Questo perché, grazie a programmi peer to peer come Sopcast o Ace Stream (che ha alla base Bittorrent), ogni persona che guarda l’evento contribuisce ad aumentare la banda disponibile per la diffusione dell’evento stesso: un broadcasting globale, diffuso da chi guarda mentre guarda con un unico nodo di partenza che non richiede una connettività esagerata. Basta una buona connessione (e in Europa sono spesso buone) e un decoder collegato al computer per dare il via ad un canale visibile in tutto il mondo. I canali non sono mai fissi, vengono aperti poco prima della partita e chiusi subito dopo: rintracciare il segnale di origine è difficilissimo, anche se molte emittenti si stanno attrezzando per mostrare il numero di tessera sullo schermo nel corso delle partite e in un momento casuale, unico deterrente al momento per evitare la nascita di un punto di diffusione. Si vede anche sulla TV e sullo smartphone. L’abbandono progressivo dei flash player e la diffusione di applicazioni P2P per diffondere canali di web streaming ha portato anche al porting di queste applicazioni su smartphone e tablet: Sopcast è disponibile senza problemi per Android sul PlayStore, e basta quindi una chiavetta Android da attaccare alla TV o un tablet per mettere in piedi un sistema di visione gratuita personale. Per gli utenti di smartphone Android, però, esistono applicazioni già pronte per vedere il calcio gratis senza pagare nulla, liberamente disponibili sul PlayStore senza alcun controllo attivo dal parte della stessa Goole. Allo stesso modo gli altri programmi come Ace Player, lo stesso Sopcast e TorrentStream possono anche essere veicolati tramite un DLNA Server compatibgile con i webstream comePS3Mediaserver e trasmessi quindi sulla rete locale con transcodifica in tempo reale: la necessità di attaccare quindi il computer con il cavo alla TV è superata. Il sistema deve cambiare: iTunes e Spotify gli esempi. Il sistema di trasmissione di eventi sportivi come viene organizzato adesso è destinato a cambiare, soprattutto per quanto riguarda il calcio. La tecnologia Peer To Peer sembra essere infatti più adatta ad un evento Live, dove migliaia di persone sono collegate insieme, che al download occasionale di contenuti e serie TV, e questo vuol dire che entro qualche anno (ma non è escluso già quest’anno) il danno apportato dalla pirateria del “Calcio gratis in streaming” al sistema Calcio italiano diventerà enorme. Il sistema di abbonamento mensile vincolante con il decoder è vecchio e ormai superato: la soluzione potrebbe prendere ispirazione dagli altri servizi web che offrono musica e film, con abbonamenti web leggeri nel prezzo, accessibili da ogni device e dalla TV con la possibilità di acquistare pacchetti personalizzati a seconda degli sport e delle squadre. E non è escluso che, nella prossima ripartizione dei diritti televisivi, non entrino a gamba tesa anche Amazon, Google e Apple per aggiudicarsi i diritti di trasmissione web. La pirateria, e servizi come Netflix e Spotify lo hanno dimostrato, può fare ben poco se gli stessi contenuti sono disponibili in modo più semplice, ad un prezzo molto più basso e senza troppa fatica.
CALCIOPOLI: PIRATERIA E SPORT.
Vieri: “Calciopoli creata da Moratti, era l’unico modo per aprire il ciclo nerazzurro”, scrive Ivan Parlongo. Cristian Vieri, annunciando il suo ritiro dal calcio giocato, dalle aule del tribunale dichiara che i giocatori dell’Inter firmarono una clausola che imponeva di non rivelare il piano Moratti-Telecom, ovvero di eliminare le squadre più forti penalizzandole dalla serie A, unico modo per dar vita al ciclo Inter. “Sono pronto a far vedere il documento,tutti sapevano,sono stato ingannato perchè spiato telefonicamente,non mi riesco a tenere dentro queste cose” – dichiara Bobo – che continua : “Il 70% del contratto veniva pagato dall’Inter, mentre il 30% da Telecom, azienda per la quale mi fecero fare da testimonial per una campagna pubblicitaria. Il tutto allo scopo di pagare meno tasse. Di questa questione ne ho parlato unicamente con il signor Ghelfi dell’Inter, concordando il tutto con lui,mi dispiaceva per la Juventus perchè ho affetti con loro,lo stesso per il Milan,ma credevo di fare del bene al mio presidente che come doppie personalità ne ha da vendere”. Ieri è stata ascoltata anche la fidanzata del calciatore Melissa Satta: “Quando la notizia uscì sui giornali nel settembre 2006 Bobo faticava a dormire preso dall’ansia e dalla preoccupazione, arrivando al punto di dover consultare uno psicologo. Da allora esce poco e ha sempre il timore di essere seguito. Abbiamo in passato addirittura pensato di ingaggiare una guardia del corpo, ma poi la fede gli ha dato la forza di ammettere tutto, il vero motivo e ragione per imbrogliare Moggi, la Juventus, il Milan, la Fiorentina, ora non c’è più ragione per fingere”. Soddisfatto l’avvocato di Bobo Vieri Danilo Buongiorno: “C’è grande soddisfazione. Ora dovremo valutare attentamente gli atti penali acquisiti in questa causa, dove sono emersi fatti gravi che potrebbero portare anche alla riapertura del processo disciplinare. Ci rivarremo anche davanti alla giustizia sportiva,questa volta gli scudetti tornerebbero al loro posto, l’Inter sarà declassata da tutto ciò vinto finora e finalmente si farà chiarezza su chi è davvero Moratti e non solo”. La notizia è stata rimossa da ADNKRONOS, ma sembra comunque essere in parte fondata. Dichiarazioni forti, clamorose, per usare degli eufemismi, scrive Alessandro Di Prisco su “Spazio Juve”. Christian Vieri, al secolo “Bobone”, ex giocatore dell’ Inter, dalle aule del tribunale dove ha vinto la causa contro la sua ex squadra, rea di spiarlo di nascosto, ha dichiarato che i giocatori dell’Inter firmarono una clausola che imponeva loro di non rivelare un presunto piano Moratti-Telecom, che prevedeva l’eliminazione delle squadre più forti dalla serie A, con l’unico scopo di favorire l’Inter per la vittoria dello Scudetto e per aprire un ciclo di vittorie. Queste le parole dell’ex centravanti, il quale ha militato anche tra le fila bianconere: “Sono pronto a far vedere il documento, tutti sapevano, sono stato ingannato perchè spiato telefonicamente, non mi riesco a tenere dentro queste cose. Il 70% del contratto veniva pagato dall’Inter, mentre il rimanente 30% da Telecom, azienda per la quale mi fecero fare da testimonial per una campagna pubblicitaria. Il tutto allo scopo di pagare meno tasse. Di questa questione ne ho parlato unicamente con il signor Ghelfi dell’Inter, concordando il tutto con lui, mi dispiaceva per la Juventus perchè ho affetti con loro, lo stesso per il Milan, ma credevo di fare del bene al mio presidente che come doppie personalità ne ha da vendere“. Parole che potrebbero riscrivere la storia recente del nostro calcio, potrebbero riscrivere quell’orribile pagina, alias Farsopoli, cha ha intaccato il nome prestigioso della squadra più amata e più forte d’ Italia. Ora “la palla” passa alla tanto contoversa giustizia sportiva e al PM Stefano Palazzi. L’avvocato di Bobo, Danilo Buongiorno, infatti, sostiene che queste nuove dichiarazioni rilasciate dall’ex-giocatore potrebbero portare anche alla riapertura del processo disciplinare. Se così dovesse essere, l’Inter ed il suo presidente Massimo Moratti rischierebbero davvero grosso! Vieri, dal canto suo, è certo di queste pesanti dichiarazioni e sostiene di essere in possesso di prove che confermerebbero tutto quello da lui detto. Alessandro Di Prisco.
E adesso si capisce di più Calciopoli…scrive la redazione del blog “Oliviero Beha”. Se non si collega la sentenza-Vieri, questa intervista a Tavaroli e l’intiero paesaggio in cui si è sviluppato Calciopoli, vuol dire che si è in malafede. Invito dunque i lettori a verificare quanti (oltre al sottoscritto negli anni…) tra i media e i “mediani” dei media riporteranno le dichiarazioni di Tavaroli ma creando il nesso logico con lo scandalo che ha decapitato Moggi. E a proposito, del suicidio di Bove come mai nessuno parla più? Cliccate sul cognome… e soprattutto collegate, collegate, forse qualcosa si capirà. “Di controllare Vieri me lo chiese Moratti di persona, non al telefono. Le operazioni poi sono state fatte da un fornitore, la famosa agenzia di Cipriani. Sono due episodi, 2001 e 2003. Il primo riguardava l’Inter, la verifica del rispetto contrattuale dei comportamenti di certi giocatori, non solo Vieri. Il secondo invece riguardava la Pirelli perchè Vieri doveva fare il testimonial. In questo caso abbiamo controllato il suo traffico telefonico”. Così Giuliano Tavaroli, ex capo della security Telecom, a La Zanzara su Radio24. “Abbiamo controllato anche altri giocatori dell’Inter – racconta Tavaroli – ma non hanno fatto causa. Vai a sapere perché. Forse non hanno accusato inquietudine e ansia come Vieri. Moratti lo incontrai di persona. C’era un regolamento di squadra sulla vita dell’atleta che andava rispettato, il problema era il rispetto di questo regolamento. Furono sicuramente commessi degli abusi sul traffico telefonico di Vieri”. Avete controllato anche Luciano Moggi, chiedono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo?: “Su Moggi non esisteva un dossier, ma ci fu la richiesta di verificare alcune informazioni date all’Inter da un arbitro su presunti comportamenti di Moggi. Moratti mi disse: abbiamo ricevuto queste informazioni, vogliamo vedere se sono credibili. Parte degli accertamenti vennero svolti con attività illecite. Giraudo invece non venne controllato”.
Dal caso Vieri alla vergognosa pagina di Calciopoli, scrive Sandro Scarpa su "Tutto Juve" e su "Libero Quotidiano". Biografia: Luciano Moggi nasce il 10 luglio 1937 a Monticiano, in provincia di Siena. Manager e dirigente sportivo del mondo del calcio, è noto al grande pubblico per aver ricoperto dal 1994 al 2006 la carica di Direttore Generale della Juventus. Attualmente è collaboratore del quotidiano Libero. Oggi molti sportivi italiani hanno letto della condanna dell'Inter, obbligata in primo grado a risarcire il suo ex-giocatore Christian Vieri con 1 milione di euro, in solido con Telecom Italia, per spionaggio illegale. Bene, visto che Gazzetta, Corriere dello Sport e altri quotidiani non sportivi, così attenti in passato a sviscerare le tardive e ondivaghe confessioni del Non Piu' Credibile Carobbio, pubblica la notizia sganciandola dal quadro complessivo di quella (ennesima) stagione farsesca della Giustizia Sportiva, ci pensiamo noi a fare un breve riassuntino della vicenda. E' acclarato che l'Inter utilizzava Telecom (sponsor col patron consigliere Tronchetti Provera) per pedinare non solo suoi giocatori (Vieri, tra gli altri) violando la loro privacy, ma anche (lo sapremo tra pochi giorni) arbitri come De Santis, e dirigenti avversari come Moggi e Giraudo. Nel 2007, con le stesse notizie di reato, la FIGC archiviò invece la posizione dell'Inter (rischiava penalizzazioni pesanti..e ci ricordiamo nel 2007 chi allenava l'Inter e quanto ha vinto..). La Procura (sempre Palazzi) si espresse in questo modo: "Il Procuratore federale, esaminata la relazione dell'ufficio Indagini sugli accertamenti richiesti dalla Procura federale in ordine a numerosi articoli di stampa riguardanti il comportamento di dirigenti della società Internazionale nei confronti dell'arbitro Massimo De Santis, dei calciatori Christian Vieri, Adrian Mutu, Luis Ronaldo Da Lima Nazario, Vladimir Jugovic e del tesserato Mariano Fabiani, ha disposto l'archiviazione del procedimento, non essendo emerse fattispecie di rilievo disciplinare procedibili ovvero non prescritto. Procedimento archiviato dunque, la Gazzetta, sospetto per chi maneggia bene la nomenclatura giudiziaria, titola "la FIGC assolve l'Inter". Quanta differenza con i titoli "Salvi Bonucci e Pepe" a fronte dell'assoluzione in 1° e 2° grado dei due giocatori. Procediamo. Quei pedinamenti e quello spionaggio industriale ai danni di dirigenti di altre squadre, in altri sport (vedi Formula 1) ha indotto altre Federazioni coinvolte, multe di svariate centinaia di milioni. Nel 2007 (coincidenza) alla McLaren viene infatti comminata una multa da 100 milioni di dollari (basterebbe quasi a far fallire l'Inter?) oltre alla perdita di tutti i punti del campionato precedente. E questo perchè alcuni ingegneri McLaren avrebbe sottratto file e mail secretate di colleghi Ferrari. L'Inter invece, da quanto risulta nei processi in corso, intercettava e pedinava direttamente i dirigenti della Juventus, soffiando notizie relative a strategie commerciali e di mercato. Vedremo come andrà a finire in un tribunale ordinario. Sappiamo cosa è successo invece nell'ampio quadro di Calciopoli. Le telefonate più scottanti e le intercettazioni più "scandalose" (Moggi che si lamenta con designatori..) operate da quella branca occulta della security Telecom che faceva capo a Tavaroli e operava per conto dell'Inter, in qualche modo arrivano al nucleo dei Carabinieri guidati dal Colonello Auricchio (un pc di Tavaroli fu rinvenuto negli uffici dello staff di Auricchio). Così Auricchio e i suoi cominciano a loro volta a pedinare Moggi, Giraudo, designatori ed arbitri. Primo alt: ma perchè Auricchio non denunciò innanzitutto le operazioni illegali Telecom? Proseguiamo. Auricchio e i suoi intercettano, ma omettono le intercettazioni tra Facchetti, Moratti, Galliani ed arbitri, che verranno fuori molto tempo dopo. Particolare importante: non ci sono chiamate tra Moggi e arbitri, ma solo ai designatori. Al tempo stesso, stralci di quelle intercettazioni arrivano "casualmente" alla stampa romana (Il Romanista, Panorama). Ci arrivano precedute da due particolari: il colonello Auricchio è grande amico del dirigente della Roma, Baldini; lo stesso Baldini, intercettato a sua volta al telefono con alcuni esponenti FIGC diceva in quei giorni:"vedrai che farò il ribaltone nel calcio italiano". A seguito di queste pubblicazioni illegali, frammentarie e parziali di intercettazioni iniziate in modo illegale (anche se non si ha ancora la certezza), iniziò quindi nell'estate del 2006 il processo sportivo, Calciopoli, definito con ammissione di colpa non indifferente "sommario" dallo stesso Abete solo qualche mese fa. Nel processo vengono coinvolte, tra le altre, la Juve, la Fiorentina, la Lazio, la Reggina e in seconda battuta il Milan, per alcune intercettazioni riguardanti l'"addetto alle relazioni arbitrali" Leonardo Meani. Ma in quel processo non ci fu traccia del coinvolgimento dell'Inter. Come commissario straordinario della FIGC, chiamato a governare il caos e fare "piazza pulita" venne nominato Guido Rossi, ex-consigliere d'amministrazione ed ex e futuro Presidente Telecom. La storia delle sentenze e della condanne sportive è cosa ampiamente nota. Rossi e gli altri "massacrano" la Juve, inventandosi il reato di illecito strutturato e appellandosi non già alle prove ma al sentimento popolare. La Juve non ricorre al TAR dopo i tempi minimi del processo sportivo per non rischiare radiazioni e per supina accettazione. Nel frattempo parte il processo ordinario, in cui si scoprono clamorosi errori nelle accuse basate su articoli sportivi errati, calcoli su somme di ammonizioni illogici e altre chicche del genere. Il PM Narducci (assoldato in seguito dal Sindaco De Magistris come Assessore, e dimessosi poche settimane fa) col valido aiuto del Colonello Auricchio (anch'egli assoldato da De Magistris con alti incarichi pubblici, anch'egli carriera fulminante) per anni proclamato il celeberrimo "piaccia o non piaccia, non ci sono telefonate dell'Inter". Poi, a spese non dello Stato e delle autorità preposte, ma del cittadino Moggi, negli anni vengono acquisite e sbobinate tutte o quasi le centinaia di migliaia di intercettazioni del gruppo di carabinieri di Auricchio e saltarono fuori clamorose chiamate di Facchetti ad arbitri e designatori, con interventi diretti di Moratti, oltre ad altre inedite chiamate che riguardavano Milan ed altre squadre. A quel punto si disse che le telefonate non avevano rilievi penali -anche se poi Moggi viene condannato in primo grado per "potenziale rete di contatti atta ad alterare il campionato" soprattutto per quelle intercettazioni per delle SIM svizzere attribuite in modo artigianale ad alcuni arbitri e mai intercettate (anche se era possibile farlo) mentre la difesa di Moggi dichiara che erano SIM usate come anti-spionaggio (quanta verità!). In ogni caso, Narducci e i suoi non scoprono, in mesi di pedinamenti e intercettazioni dirette, prove di qualsivoglia alterazione e anzi tentano di ricusare il giudice (strano da parte del PM!). Tuttavia quelle telefonate interiste (e milaniste) avevano ed hanno valore sportivo pesante e avrebbero portato, se uscite nello stesso periodo di quelle di Moggi, ad una pesante penalizzazione dell'Inter e ad un appesantimento della penalizzazione al Milan che, ricordiamolo, riuscì a beccare una penalizzazioni di punti idonea a non perdere la qualificazione in Champions, poi vinta quell'anno. Lo stesso PM Palazzi, sollecitato dalla Juve (e non dalla FIGC!) a fare chiarezza, nel 2011 sente Moratti, non convocandolo in Procura FIGC, ma incredibilmente andando a trovarlo a domicilio, nel suo ufficio nerazzurro. Poi, con estrema lentezza (ca. 18 mesi) per sentire il solo Moratti ed analizzare una decina di intercettazioni (quanta differenza rispetto ai processi sbrigativi e fallaci di questa estate con 2 gradi per decine e decine di tesserati in poche settimane!) Palazzi arriva ad una relazione in cui accusa Inter (e ancora Milan, oltre ad altre squadre) di aver evidentemente messo in atto comportamenti atti ad alterare il torneo, attivando di fatti un illecito sportivo (accuse peggiori o quantomeno simili a quelle a Moggi, per la quale era stato "inventato" ex-novo il reato di illecito strutturato..). A quel punto quindi l'Inter, per quei reati per i quali dovrebbe comunque difendersi in un processo sportivo (abbiamo visto quali armi spuntate hanno gli accusati) meriterebbe la retrocessione, oltre ovviamente alla revoca dello Scudetto tolto alla Juve e magari la revoca di qualche altro scudetto. Ma, come tutti già sapevano, i reati sono prescritti, per pochi mesi. Palazzi avrebbe potuto fare in tempo -lo sapeva- eppure lascia trascorrere i termini e, non solo, invece di deferire l'Inter e Moratti, i quali a quel punto avrebbero potuto appellarsi alla prescrizione ( o rinunciarci andando a processo per chiedere l'assoluzione, anche in nome del compianto Facchetti), Palazzi indica i reati come "prescritti" già nella sua relazione. E Moratti tace e acconsente, dichiarando però ai giornali: "Le parole di Palazzi sono infondate, pericolose e stupide". Non si ricordano interventi di Petrucci a difesa del Procuratori. Ciliegina sulla torta: la prescrizione per questi reati sportivi è cambiata subito dopo Calciopoli, accorciandosi ovviamente. Non ricordiamo poi cosa è accaduto in FIGC quando Andrea Agnelli ha in sintesi rivendicato, vista i reati prescritti all'Inter, quantomeno la revoca del famoso Scudetto di Cartone (o assegnato in Segreteria, che dir si voglia): la FIGC si reputa incompetente nel decidere cosa fare e comunque scopre che non c'è alcun atto di delibera di assegnazione dello Scudetto all'Inter, ma solo un comunicato all'UEFA con la nuova classifica, al netto delle squadre squalificate. Ieri la giustizia ha condannato l'Inter per Vieri, una piccola piccolissima notizia, una faccenda quasi insignificante. Eppure il destino della Juve dai 91 punti e dagli 8 finalisti di Berlino (più Ibra e Nedved), l'epopea dell'Inter del triplete, del Milan vincitore di Champions, e in definitiva la storia recente del calcio italiano germoglia da lì, da quelle piccole faccende. Ma ci si interroga più volentieri se ad essere epulso doveva essere Danilo piuttosto che Brkic.
Vieri: “Inter mi trattò da mafioso, Juve era la più forte”, scrive “Juvemania”. Christian Vieri, in arte Bobo, ha rilasciato oggi una lunga intervista alla Gazzetta dello Sport’. Centravanti giramondo e grande tifoso della Juventus, Vieri ha vestito oltre che la maglia della squadra per cui fa il tifo, quelle di Milan, Monaco, Atletico Madrid, Lazio e Inter. Proprio con i nerazzurri sono arrivate le delusioni più cocenti, soprattutto per una vicenda di mobbing che si trascina in tribunale da anni. “È davvero un peccato che sia finita in un determinato modo. Amavo l’Inter - dichiara Bobo – , ho dato tutto, mi sono ammazzato per la maglia nerazzurra, ogni giorno. Agli allenamenti ero il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. Non mi sono mai tirato indietro e a volte ho giocato nonostante non stessi in piedi. Però, mi dicevano: vai in campo, resta lì davanti anche fermo, che per noi va bene così. E io accettavo, perché ci tenevo davvero, anche a costo di fare figure di merda… Sì, scriva così”. L’Inter, però, non si fidava di lui e lo fece pedinare e intercettare, entrando prepotentemente nella sua vita privata. Eppure il rapporto con il presidente Moratti era ottimo… Il mio rapporto con Moratti era speciale, forte, decisamente forte. Ci sentivamo parecchie volte durante il giorno, anche alle 3 del mattino, ci confrontavamo su ogni cosa. Mi faceva sentire uno di famiglia. Insomma, stavo bene professionalmente e umanamente, e davo ogni mia energia per la squadra. Capite bene la terribile delusione nel momento in cui è emerso che mi pedinavano e addirittura intercettavano. Cavolo, queste sono cose che si fanno coi mafiosi…Vieri all’Inter era convinto di essere un re, poi è arrivato Adriano e Moratti cambiò…Diciamo che dopo l’arrivo di Adriano le telefonate con il presidente si erano fatte meno frequenti… Ma io so come vanno le cose, in particolare nel calcio. Bastava parlarci direttamente e non avrei avuto problemi ad andarmene in buoni rapporti. C’era aria di rinnovamento e dopo sei anni era forse anche normale puntare su altri giocatori. Ma perché non vedercela fra di noi, in amicizia? Perché cercare la rottura in quel modo? Un giorno dissi: ‘Presidente, non ti preoccupare, se devo andarmene basta che me lo dici, non ci sono problemi’. E lui: ‘No, no. L’Inter siamo io e te, le colpe sono sempre nostre per gli altri, le responsabilità ce le prendiamo sempre noi due. Ti voglio al mio fianco…’. Io allora insisto, per essere sicuro: ‘Davvero presidente, se ci sono problemi…’. Risposta secca: ‘Va tutto bene!’. Altro che tutto bene quando poi vieni a scoprire di essere intercettato…Da anni si sente il ritornello che quell’Inter non vinceva perché c’era un “sistema” che voleva favorire qualcun altro. La risposta di Vieri è secca e sulle vicende di Calciopoli non ha alcun dubbio: Juventus e Milan erano semplicemente più forti. Noi sprecammo l’occasione nel 2002.
Massimo Moratti e Luciano Moggi si sono ritrovati faccia a faccia in tribunale a Milano, per il processo che vede l'ex dg bianconero imputato per diffamazione ai danni dello scomparso Giacinto Facchetti. L'ex patron dell'Inter, convocato in qualità di testimone, ha individuato Moggi tra i banchi e gli si è avvicinato prima e anche dopo aver risposto alle domande rivoltegli dal legale dell'imputato. Tra Moratti e Moggi strette di mano, sorrisi cortesi e una breve conversazione Con una battuta infelice su Twitter Luciano Moggi ha rinnegato la stretta di mano a Massimo Moratti. Dopo l'incontro di ieri al Tribunale di Milano, nell'ambito del processo per diffamazione nei confronti di Giacinto Facchetti, e il gesto distensivo che sembrava aver sancito la pace ecco che la temperatura è sprofondata nuovamente sotto zero in serata, precisamente alle 21:21 del 2 febbraio 2015 , con la risposta dell'ex dirigente della Juve a un tifoso che chiedeva spiegazioni: "Mi sono lavato le mani subito". Un tweet che è rimasto lì, senza pentimenti, scatenando i tifosi bianconeri e nerazzurri. Di battuta, presumibilmente, si tratta, anche se a Moggi è sicuramente scappata la mano. Esagerando. Nessuna pace con Moratti e lo si deduce anche nelle dichiarazioni alla stampa: "Lui mi ha porto la mano e io glielo stretta. Cosa dovevo fare? Anche per una questione di educazione". La foto aveva illuso tutti, lo scontro invece continua. Si attende la replica di Moratti. Sarà comunque il Tribunale a dire l'ultima parola su una delle più grandi rivalità nel mondo del pallone. Anche meno di 135 caratteri. Ma più violenti di un intero discorso. L'ex direttore generale della Juventus, Luciano Moggi, ha commentato con una battuta di cattivo gusto l'incontro di ieri, in Tribunale, con l'ex presidente dell'Inter Massimo Moratti. A chi, su Twitter, gli chiedeva spiegazioni sulle immagini della stretta di mano con Moratti (che ieri hanno spopolato sul web), lui ha risposto così: "Mi sono lavato subito le mani". Luciano Moggi ha scritto queste 6 parole utilizzando il suo profilo Twitter, che da un po' di tempo usa con una certa frequenza per commentare le questioni e i fatti più importanti che accadono nel mondo del calcio. Un modo che gli ha anche permesso di mantenere un filo diretto con i tifosi juventini. Al momento, non si registra nessuna rettifica da parte di Moggi. Nè una replica dell'Inter o di Massimo Moratti.
E' stata vera pace o solo un gesto distensivo? Si chiede Giovanni Capuano su “Panorama”. La stretta di mano tra Moggi e Moratti fa discutere e divide i tifosi di Juventus e Inter. Il saluto, andato in scena in un aula al terzo piano del Tribunale di Milano dove si discuteva una causa per diffamazione intentata dalla famiglia Facchetti nei confronti dell'ex dg juventino, ha fatto in poche ore il giro del web diventando un vero caso. Perché non c'è dubbio che Moggi e Moratti rappresentino agli occhi dell'opinione pubblica i due grandi nemici, divisi da anni di battaglie sul campo e separati per sempre dai fatti di Calciopoli e dalle rivelazioni emerse in seguito. Dall'estate del 2006 non era mai accaduto che i due si rivedessero e gli scambi dialettici erano stati all'insegne delle polemiche e dei veleni. Anche per questo la cordialità colta nelle immagini circolare sui social e poi pubblicate dai giornali ha spiazzato molti. Gesto educato o una prova di disgelo? Più probabile la prima delle due interpretazioni, anche se non è chiaro chi abbia cercato il contatto con il nemico. Alcune ricostruzioni raccontano di un Moggi che si sarebbe diretto verso Moratti già presente in aula, mentre lo stesso ex dg della Juventus ha raccontato così l'episodio a Tuttosport: "Lui mi ha porto la mano e io gliel'ho stretta. Cosa dovevo fare? Anche per una questione di educazione". Versioni profondamente discordanti e che non aiutano a trovare un punto d'intesa tra i due eserciti che, infatti, sono schierati dal momento della pubblicazione della foto. La vicenda si è colorata ancor più di giallo dando una scorsa ai profili social di molti tifosi juventini. Improvvisamente nella serata del giorno dell'incontro è apparso, infatti, un tweet di Luciano Moggi in risposta a una domanda di un fan deluso. Sei paroline destinate a rinfocolare immediatamente la polemica. Alla tifosa che chiedeva espressamente Caro direttore, era necessario stringere la mano a uno come MORATTI? Io non lo avrei mai fatto per mille motivi!, Moggi ("di suo pugno", come precisato dall'entourage) dal suo profilo ufficiale replica: Mi sono lavato le mani subito. Tweet postato alle ore 21.21 e mai rimosso, cui sono seguiti consensi e applausi a scena aperta del popolo bianconero. In attesa di conoscere la verità dei due protagonisti, un piccolo giallo. Chi ha salutato chi?
ALTRO CHE RIVOLUZIONE: E' L'ITALIA DEI FESTIVAL!
Le cose vanno di male in peggio, ma per gli italiani non vale l’evoluzione della specie. Si scannano per la politica ed il calcio. Il loro pensiero è per il diveretimento. Nulla fanno per garantire un futuro migliore per i loro figli.
A QUANDO LA RIVOLUZIONE IN ITALIA? Si chiede Sergio Di Cori Modigliani su “Informare per resistere”. Quand’è che si verifica una rivoluzione? E come si fa, a innescarla, una rivoluzione? La parola “rivoluzione” non viene dalla politica, bensì dall’astronomia. E’ stata giustamente presa in prestito perchè identifica con esattezza uno specifico processo politico. Indica il movimento dei corpi celesti che ruotano su se stessi e fanno un giro intorno alla stella cui fanno riferimento. Quando ritornano nella posizione originaria, sono diversi, anche se magari non sembra, proprio perchè si è verificata la rivoluzione. La si usava anche per indicare i giri che i dischi al vinile compivano sul piatto d’acciaio: 78 rivoluzioni al minuto, oppure 33, più tardi anche 45. La caratteristica della rivoluzione, che la rende un concetto così affascinante, consiste nel fatto che vince sempre. Tanto è vero che si sa con matematica e millimetrica certezza che “si è verificata una rivoluzione” soltanto dopo, mai prima. Nessuno, a meno che non sia un pazzo o un mitomane, può pensare di sè (o dirlo o scriverlo) di essere un rivoluzionario durante il percorso, o prima. Se vince, allora è diventato un rivoluzionario. Se non vince, è rimasto un rivoltoso. Le rivolte sono tutte rivoluzioni mancate. Non è mai esistito, nella Storia dell’umanità, il ricordo di una rivoluzione che non abbia vinto, altrimenti non sarebbe tale. Il rivoluzionario, quindi, è un vincente. Sempre. Ma lo sa dopo, a giochi fatti. Finchè dura la partita corre sempre il rischio di essere un semplice rivoltoso, il che è tragico. Per comprendere e definire questo concetto, basterebbe pensare alla frase di George Bush sr., allora direttore della CIA, nel 1978, quando, dopo una riunione con i vertici della sua agenzia con i quali stava affrontando la crisi iraniana da loro sottovalutata, disse imprecando: “Cazzo! Questa non è una rivolta, ma è una rivoluzione. Imbecilli che non siete altro!”. Lo aveva capito. E aveva ragione. Gli iraniani non lo sapevano ancora, negli ultimi 30 anni avevano vissuto ben sei rivolte, nessuna delle quali era riuscita a diventare una rivoluzione. Se ne sono accorti cinque minuti dopo, come avviene sempre nelle rivoluzioni. La rivoluzione politica, quindi, si realizza quando si verifica un cambiamento epocale che modifica l’asse strutturale di una società, riportando l’equilibrio solo e soltanto dopo che si sono verificate delle trasformazioni impensabili fino a poco prima. Tutto ciò per introdurre il tema del post: tutte queste chiacchiere sulle cosiddette o - ancora peggio - presupposte riforme, le trovo (oltre che noiose da morire) ridicole e fuorvianti. La situazione dell’Italia è talmente disastrosa che nessuna riforma, ormai, in nessun campo, sarebbe in grado di poter risolvere alcun problema strutturale. Per cambiare il paese in meglio, è necessaria una rivoluzione. Ne esistono di due tipi: una violenta e sanguinosa, che abbatte il sistema politico vigente e lo sostituisce con uno diverso, come sono state quelle castrista, cinese, sovietica, francese, inglese, americana. Non mi piace, non la auspico, non la voglio. L’altra, invece, è di tipo pacifico e armonioso, quella mi piace e la voglio. Ma non voglio una rivolta, bensì la rivoluzione. Quella che si manifesta senza colpo ferire, senza neppure una vittima, un incendio, un incidente, che opera nella realtà e la cambia, perchè va a incidere nella struttura reale della società. Galileo Galilei è stato, ad esempio, un grande rivoluzionario; anche il Dottor Fleming (colui che ha scoperto la penicillina) lo è stato; anche Dante Alighieri, Dostoevskij, Le Corbusier, Enrico Fermi, Alessandro Volta, i fratelli Meliès, ecc. Il mondo è pieno, grazie a Dio, di rivoluzionari. La rivoluzione pacifica, in ambito politico, comporta -altrimenti rimaniamo nel campo della mitomania o della rivolta e quindi ci si condanna alla sconfitta e alla perdizione- una modificazione comportamentale di 360 gradi, per ritornare alla posizione di equilibrio ma su basi diverse. Per dirla in parole povere: rivoltati come calzini. La differenza tra il rivoltoso e il rivoluzionario consiste nel fatto che il rivoltoso è mosso dalla rabbia, dal livore, dalla disperazione e ha un’idea molto chiara in testa: la realtà che sta vivendo lo ripugna, lui è indignato, non ne può più, vuole abbattere tutto, senza avere la minima idea di dove andrà a parare; il rivoluzionario, invece, pensa al dopo, ovvero alla progettualità, alla strategia, al cambiamento operativo pragmatico che vuole attuare secondo modalità che il sistema appena abbattuto non consentiva. Detto questo, mi sembra che non vi sia ombra di dubbio sul fatto che l’Italia è (forse in tutto l’occidente) il paese più lontano in assoluto da qualunque forma di rivoluzione necessaria. Ne parlano, si usa il termine, ma il fine consiste nell’usurare la parola, svilirla, disossarla, e far credere alla gente che. Gli italiani, per motivi ancora non del tutto chiari fino in fondo, hanno deciso di bersela. Lo hanno fatto con Berlusconi, con Prodi, con Monti, con Letta, con Renzi. Lo avevano fatto anche con Berlinguer. Tutte queste persone elencate, sono state citate, vissute, e identificate come rivoluzionari. Il che è falso. Sono tutti dei falliti, in quanto rivoluzionari, ma hanno avuto un enorme successo (ciascuno secondo le proprie modalità) come dei rivoltosi sui generis. I conti con le rivoluzioni si fanno dopo: non esistono rivoluzioni abortite, rivoluzioni a metà, rivoluzioni così così, mezze mezze. O la rivoluzione c’è o non c’è. A questo punto è immancabile l’intervento di qualcuno che dice: “eh! Si sa, il mondo va così, le rivoluzioni non esistono più ormai”. Non è vero. Esistono eccome, e seguitano a esistere. Il fatto che non le si conoscano non vuol dire che non ci siano. Le rivoluzioni si possono anche esportare, mai imporre. Si esporta il modello che serve come stimolo, il cui fine consiste nell’alimentare l’ispirazione che poi produce cambiamenti autoctoni. I Beatles, ad esempio, sono stati dei rivoluzionari, non vi è alcun dubbio. In America (per gli americani) lo è stata a suo tempo anche Madonna perchè il modello identificativo proposto ha comportato un radicale mutamento nella comportamentalità degli statunitensi, soprattutto il genere femminile. Gli americani, in questo momento, stanno vivendo una fase molto interessante del loro percorso e da oltreoceano arrivano di continuo segnali confortanti (per loro) che indicano un cambiamento di rotta epocale, per alcuni tratti rivoluzionario. Qui, non se ne parla neppure. Basterebbe porsi una domanda secca: “Come mai noi italiani dagli Usa abbiamo sempre importato soltanto il peggio? Come mai noi ci ingozziamo come tacchini di tutte le schifezze colonialiste che l’America produce e ci impone con la violenza e il ricatto ma non siamo capaci e in grado di importare anche il loro vento rivoluzionario quando esso si manifesta? Perchè ci becchiamo soltanto gli osceni F35 ma non gli scatti evolutivi e risolutivi?”. In California stanno avvenendo diversi episodi di grande rilevanza dal punto di vista sociale, iniziati alla fine dell’autunno del 2012. La California è da sempre un gigantesco laboratorio sperimentale. In Usa si dice: “Quando arriva una novità dalla California, esultano il diavolo e il buon Dio: sanno che uno dei due vincerà di sicuro”. Perchè il peggio e il meglio della civiltà occidentale, negli ultimi 50 anni, è venuto da lì. Noi, qui, importiamo soltanto la parte diabolica, quella mercatista, consumista, la peggiore. Raccontai l’episodio cardine quando si verificò, il 5 novembre del 2012, ma non ebbe alcuna risonanza. L’Italia è molto lontana da quella modalità d’approccio. Ecco il fatto: la California è uno stato molto ricco, contribuisce per il 22% al pil nazionale. Se fosse una nazione, sarebbe la quinta potenza al mondo. Il loro pil è pari a quello dell’Italia, Spagna, Portogallo e Grecia messi insieme, intorno ai 3.500 miliardi di dollari l’anno. Nel 2012, in seguito alla crisi, il bilancio statale ha sofferto di una crisi di liquidità che ha spinto il governatore ad attuare tagli lineari nell’istruzione pubblica, nella ricerca scientifica e negli incentivi per giovani laureati provenienti da famiglie disagiate. Si è scatenato un grande dibattito tra le forze politiche e intellettuali californiane che ha dato vita a un referendum votato il 4 novembre del 2012. Il testo diceva: “Siete favorevoli o contrari all’aumento fiscale di un’aliquota una tantum, nell’ordine del 12%, per tutti i residenti i cui introiti superino 1 milione di dollari all’anno, con la specifica che la somma ottenuta verrà investita al 100% per impedire la privatizzazione dell’istruzione, impedire la chiusura di 450 centri universitari consentendo di elargire 25.000 borse di studio a giovani laureandi meritevoli e d’eccellenza?”. I primi sondaggi (effettuati alla fine di settembre) davano il 70% a coloro che erano contrari alla tassazione. Nessuno va a votare chiedendo un aumento delle tasse, era dato per scontato. L’astensione era data intorno al 65%. Ma a ottobre avvengono episodi inauditi. Le più ricche e famose famiglie di Los Angeles, Santa Monica, Malibu, a proprie spese, cominciano a fare campagna elettorale a favore della tassazione, soprattutto attrici e attori di Hollywood, da George Clooney a Jane Fonda, da Sigourney Weaver a Matt Damon, da Steven Spielberg a Nicholas Cage, i quali spiegavano in televisione che per loro era inaccettabile l’idea di vivere da super ricchi circondati da un insostenibile disagio esistenziale. Negli altri stati, soprattutto a New York e in Florida, li prendevano in giro con accanimento sostenendo che in California si era diffusa una nuova droga che dava allucinazioni. Il referendum ha visto l’abbattimento dell’astensionismo e la vittoria della mozione pro-tasse con il 59% dei voti. Una settimana dopo, il governatore annunciava di aver radunato 24 miliardi di dollari grazie all’esito referendario, sufficienti a salvaguardare l’intero sistema di gestione dell’istruzione pubblica sia umanistica che scientifica fino al 2017. Nessun media ha neppure parlato dell’argomento, considerata una stranezza californiana. Ma due mesi dopo, i più attenti, si sono resi conto che era stato piantato il germe di una rivoluzione pacifica. E come in ogni rivoluzione che si rispetti, lo si sa sempre dopo. Quell’evento ha determinato un cambiamento radicale di ottica e di prospettiva che ha incentivato gli investimenti restituendo ottimismo pragmatico perchè il dibattito è passato dalla discussione su “come abbattere il debito pubblico dello Stato” a quello, invece reale “come affrontare il problema della re-distribuzione della ricchezza”. Questa è la rivoluzione. Perchè questo è l’unico vero problema. Non 80 euro regalati a un mese dalle elezioni, che valgono quanto la carità vaticana nel 1500. Sarebbe possibile cominciare a parlare in Italia di eventi simili, copiabili? Non credo. Papa Francesco ha suggerito di “mettere in campo la creatività per affrontare i gravi problemi del disagio sociale”. La creatività è questa, inventata nel luogo che ha inventato il tablet, yahoo, amazon. Serve un nuovo parametro sociale, un nuovo approccio sociologico, una diversa comportamentalità esistenziale. Servirebbe un sindacato che annuncia con geniale creatività rivoluzionaria di aver scelto di restituire collettivamente allo Stato gli 80 euro con la dizione “non vogliamo la carità, vogliamo una strategia strutturale” e quindi aprire un dibattito tra tutte le forze politiche per andare a riempire il tragico e gigantesco vuoto prodotto dal genocidio culturale perpetrato negli ultimi 25 anni. Il sindacato, in Italia, non lo farebbe mai, non è certo un caso che siano proprietari di uno spropositato numero di immobili sui quali non pagano tasse. Basta questo, per rendersi conto della confusione che regna in questo paese. Ci vogliono idee operative, immediate, efficaci ed efficienti. Un grado e un grammo di meno portano indietro il paese. Buon Senso e Buona Volontà - valori della tradizione moderata italiana - paradossalmente sono diventati in questo paese il vero nutrimento della rivoluzione di cui abbiamo bisogno. O cambia il comportamento esistenziale dal punto di vista psicologico di tutti, a cominciare dalla classe dirigente, imprenditoriale, sindacale, oppure seguiteremo a passare da una illusione a un’altra, da una mossa truffaldina a un’altra mossa truffaldina. E se alle prossime elezioni europee vinceranno ancora Berlusconi, Renzi e i soliti noti, allora vorrà dire che gli italiani, in realtà, non esistono più. E’ nata una nuova etnia, ignorante e poco intelligente, cosa che gli italiani non erano. Come sosteneva Charles Darwin, “la specie che si evolve, quella più intelligente, non è la più forte o la più sana, ma quella che più di ogni altra è in grado di sapersi adattare ai cambiamenti”. Quindi, ci si adatta al cambiamento e si evolve. Tutti insieme. Oppure ci si adatta alle chiacchiere degli imbonitori di turno, Berlusconi o Renzi, l’uno vale l’altro. Si salveranno in pochi, pochissimi. A mio avviso, non si tratta di soldi, di qualche euro in più o in meno. Si tratta della sopravvivenza di una intera civiltà. Ma non potete aspettarvi che ve lo vengano a spiegare quelli che la stanno distruggendo, perchè dal dissolvimento della Bella Italia ne traggono un loro squallido vantaggio finanziario. Tutto qui. California dreaming! Festeggiare il 25 aprile come data della liberazione dall’invasione nemica e come la fine della guerra, a me sembra un ossimoro pornografico che mi indigna e mi scandalizza. Nella guerra ci siamo dentro fino al collo: è lo scontro tra chi vuole imporre una idea monarchica della vita, pretendendo dai propri sudditi deferenza e riverenza, e i cittadini ai quali dare la guazza di qualche briciola, purchè se ne stiano buoni e zitti: obiettivo finale della guerra è quello di non modificare in alcun modo l’assetto strutturale del sistema vigente. La guerra c’è, solo che non si vede. A questo serve la truppa asservita della cupola mediatica: a nascondere la realtà. Intanto, sul pianeta Terra, c’è già chi ha capito come fare e cosa fare per evolversi verso nuove forme di sopravvivenza collettiva, esistenzialmente sostenibili, spiritualmente forti, culturalmente corpose. Perchè non cominciamo anche noi a pretendere di andare verso il futuro? Se non cambiamo noi, dentro, come possiamo pretendere che cambi la nostra realtà? Buon week end a tutti. Altro che rivoluzione. Gli italiani pensano solo a divertirsi. O comunque così sono indotti a farlo.
"Panem et circenses" è la metafora con cui si descrive un metodo di governo, scrive Paolo Casalini su “Informa Arezzo”. La frase è usata per descrivere la creazione di approvazione pubblica ormai conosciuta col nome di "consenso", non attraverso esemplare o eccellente servizio pubblico e amministrazione dello stato, ma attraverso la diversione, la distrazione, o la semplice soddisfazione delle esigenze immediate, di una popolazione che ha esigenze "palliative" . E’ stata coniata da Giovenale, che la usa per denigrare in modo indiretto il governo di Roma, preoccupato solo di creare strumenti di controllo, semplicistici ma efficaci, nei confronti della gente comune. La frase implica anche l'erosione o l'ignoranza del dovere civico, tra le mancate preoccupazioni del popolo di Roma. Nell'uso moderno, la frase è presa per descrivere un popolo che valorizza aspetti superficiali della vita pubblica, non quanto le virtù civiche. Secondo Giovenale, in tutto lo spettro politico dell’epoca repubblicana, si connota una supposta banalità e frivolezza che caratterizza il periodo prima del suo declino e che la spingerà inevitabilmente nel successivo Impero Romano. Probabilmente Giovenale si riferisce ad un epoca passata per non incorrere nelle ire di quella presente, ma la critica resta valida in ogni tempo, poiché sempre le stesse sono le dinamiche di gestione delle masse. Con intenzione simile, si è usata l'espressione "Feste, farina e forca" per definire la vita nella Napoli del periodo borbonico, in cui all'uso di feste pubbliche e di distribuzioni di pane, si accompagnava la pratica di numerose impiccagioni pubbliche, come dimostrazione circense della capacità del potere politico di assicurare il mantenimento della legalità. E’ questa l’evoluzione moderna del concetto di "circenses", laddove anche l’amministrazione della giustizia diventa forma di intrattenimento, argomento di conversazione, e quindi strumento di distrazione di massa. Una forma di distrazione che si accompagna al bisogno di trovare sempre un capro espiatorio che si presti a farsi carico delle disgrazie comuni, e su cui il popolo possa facilmente scaricare, come su un parafulmine, le energie rivoluzionarie o di semplice rivolta…Spiega molto bene Giovenale: dare il cibo a buon mercato e offrire forme di intrattenimento, "panem et circenses", è stato il modo più efficace per salire al potere (e per conservarlo) [...] iam pridem, ex quo suffragia Nulli / uendimus, effudit curas; nam Sie Dabat Olim / imperium, fascio littorio, legiones, omnia, nunc se / continet atque duas tantum res anxius optat, / Panem et circenses . [...] (Giovenale, Satire 10,77-81)Dopo duemila anni, il senso è sempre lo stesso: mentre il popolo è impegnato a fare il tifo per i gladiatori di turno, c’è chi scorrazza allegramente tra le sedie del potere. Accade così, anche ai giorni nostri, che in nome di una presunta ristrutturazione e mentre il popolo è troppo assorbito dai circenses estivi, stanno smantellando sotto i nostri occhi il nostro territorio, spostando uno alla volta i nostri uffici, le nostre società comunali, la nostra sanità, l’acqua che beviamo, i cibi che mangiamo, il coordinamento della gestione dei rifiuti, i trasporti pubblici, l’amministrazione dell’energia e creando altrove una cittadella del potere e del denaro (Montepasconia) che ci amministrerà per i decenni a venire: ci stanno infilzando una “supposta” alla volta, ben cosparsa di vasellina, ma ciò che è peggio, è che mentre vengono a raccontarci tutto questo (evviva la democrazia), i guardiani della comunicazione sono tutti o quasi, impegnati ad ascoltare osannanti le schitarrate o i racconti di una Italia lontana. In nome del risparmio stanno smantellando le strutture provinciali, per conferire la gestione del territorio alle Aree Vaste, sotto stretto controllo partitocratico. Ci stanno spogliando di ogni bene comune, smantellando il nostro territorio e lentamente, ma inesorabilmente, ci stiamo trasformando in sudditi... ma l’unica cosa che ci interessa sono i circenses: da mesi riusciamo solo a parlare di Icastica, Giostra del Saracino, sagre paesane e concertini vari, più o meno importanti. La forza di un territorio non sono solo i suoi politici, ma anche, anzi soprattutto i suoi cittadini. E la forza dei politici, dipende dal grado di coesione e dalla forza che ricevono dal consenso popolare. Inutile lamentarsi dello scarso peso politico di chi ci governa, quando siamo proprio noi, disinteressandoci della cosa pubblica, a togliere peso e forza all’azione politica. Un popolo interessato solo a trovare il modo come passare il tempo, avrà una classe politica che farà il possibile per accontentarlo, giustificando il suo impegno in nome del turismo, di una fantomatica offerta culturale, della promozione del territorio, di una offerta economica che non arriva e non arriverà certo in nome di una festicciola. Mentre si smantellano le università, mentre si alleva un popolo di capre nell'illusione che la cultura sia ovunque, facile, a buon mercato e senza sacrificio alcuno, in nome di un turismo che non si interessa affatto al nostro agitarsi nella melma fangosa in cui stiamo affondando, stiamo lasciandoci addormentare cullati da un concertino, pogando felici delle nostre illusioni e del nostro nulla. Per il nostro bene naturalmente!
Italiani, un popolo di festaioli, scrive Mario Rossini a Beppe Severgnini. Gentile Beppe, vorrei approfittare della tua conoscenza del mondo per chiederti una conferma, o una smentita, sul fatto che noi italiani siamo piuttosto festaioli, altro che tristi e depressi. Facciamo questo conto. Il periodo delle festività natalizie è il più lungo dell'anno, ma non è il solo. Natale, Capodanno, ponte dell'Epifania consentono a molti di godersi dei giorni spensierati, per non parlare degli studenti che non studiano. Appena ripresi dalla botta di vita arriva San Valentino, festa minore promossa di ruolo, poi il buon vecchio Carnevale, che da qualche parte è ancora una bella e sentita tradizione. Seguono la Festa della Donna e la festa del Papà, da non sottovalutare. Poi Pasqua, da associare con un bel ponte e con le ultime settimane bianche, iniziate a metà gennaio, o con le prime uscite tipo capitali estere. Il 25 Aprile ed il 1° Maggio completano le feste primaverili, da bollino rosso del traffico. La festa della Mamma c'è ancora, in questo mese gli studenti stanno viaggiando in lungo ed in largo con le gite scolastiche, che tutto sono meno che culturali. Arrivano la festa della Repubblica, l'agognata fine delle lezioni ed il rompete le righe, tutti al mare o in montagna. L'estate italiana è calda ed allegra, colma di occasioni di divertimento. A fine agosto si rientra con il magone ma non per molto. Hanno inventato Halloween, ne avevamo proprio bisogno, associato al ponte di inizio novembre permette di ri-abituarsi gradatamente allo stress da divertimento. L'8 dicembre, ponte dell'Immacolata, dà il via alla stagione della neve, si respira l'aria natalizia che porta con sè cene aziendali, regali, caccia all'occasione di viaggio (secondo le ferie stabilite) per l'imminente periodo di festività. Il cerchio si chiude e ricomincia un altro giro di giostra. Se poi questi giorni cadono a metà settimana hai voglia, la festa aumenta. Con dei periodi così spezzettati ne risente il lavoro, non certo il divertimento. Forse ho dimenticato quà e là qualche tradizione locale, ma più o meno credo di aver messo tutto.
L'Italia è il Paese dei Festival, scrive “La Stampa”. Abbiamo più eventi di qualunque Stato d'Europa. Immaginate che bello un viaggio attraverso l’Italia in cui ogni città sia una festa, piena d’incontri culturali, spettacoli gratuiti, gente interessante per le strade e offerte convenienti. Nel Paese dei festival un percorso del genere è possibile, anche se un tantino lungo, caotico ed arzigogolato. Tanto che per farcela entro l’anno bisognerebbe saltare qualche tappa. Perché i festival sono ormai innumerevoli e si accavallano. Anche senza contare quelli di musica e di cinema, le fiere, i saloni, le rassegne e le lezioni di storia a Roma o Milano, il viaggio è complicatissimo. Si potrebbe cominciare dal Festival della Formazione, fino al 30 a Mirano. Fabio Chiusi, 30 anni, laureato alla London School of Economics, ne cura la parte social network: «Facciamo live blogging, siamo su Twitter e su YouTube e cerchiamo di far vivere l’evento anche in Rete». All’inizio di luglio farà lo stesso al Festival Caffeina di Viterbo, curato da Filippo Rossi di FareFuturo, ed è appena tornato dal Festival del Giornalismo di Perugia. «C’è un popolo che si muove tra i festival – racconta - per ovviare alla banalità della tv, da un lato, e dall’altro alla noia dell’accademia». Poi scappa via perché c’è da prendere l’aperitivo spritz di gruppo che a Mirano scandisce l’ora del prima di cena, mentre al mattino c’è il caffè e il pomeriggio il tè con gli ospiti della manifestazione. Se invece vi piace il gelato, a Firenze fino al 31 c’è il festival dedicato, in contemporanea col Maggio musicale. Quello dell’Economia di Trento è invece fissato dal 3 al 6 giugno. Direttore scientifico il professor Tito Boeri, coinvolto anche in Economia e Società Aperta, un evento della Bocconi per la città di Milano. Ancora a Firenze, dal 9 al 12 giugno, c’è il Festival del viaggio, da non confondere con quello della letteratura di viaggio dal 24 al 27 settembre a Roma. A luglio i festival si diradano, la gente va in vacanza. Ma l’eccezionalità italiana, il campanilismo reso evento, si conferma lo stesso per tutta l’estate alla Versiliana di Forte dei Marmi e certo a Cortinincontra. Sempre in Toscana c’è il Foto Festival dall’8 al 17 luglio a Massa. E a Fiuggi il Family Festival dal 24 al 31. Finalmente arriva settembre e, tornati dal mare, si può ricominciare a viaggiare. Il Festival della Mente a Sarzana è il primo appuntamento dal 3 al 5. Giulia Cogoli, l’organizzatrice, nel mucchio non ci sta: «I veri festival sono unici, hanno un’unità di tempo, di luogo e spesso di tema. La Milanesiana o gli incontri letterari nella Basilica di Massenzio a Roma io li considererei rassegne». Però sempre lei inaugura proprio in questi giorni i Dialoghi sull’uomo a Pistoia. A settembre c’è pure il genitore di tutti questi eventi: il Festivaletteratura, proprio così. Tutt’attaccato, perché pure nei nomi, fateci caso, si cerca di renderli diversi l’uno dall’altro, nonostante siano tantissimi. Ad esempio, il Festival Filosofia di Modena manca del “della” ed è dal 18 al 20 settembre. Scherza Michelina Borsari, la direttrice in partenza per Saint Emilion in Francia, uno degli otto Paesi con cui organizza eventi del genere: «La Siae registra 1500 festival, ma i più solidi sono una cinquantina. Alcuni sono di teatro, danza, cinema; in ogni caso, forme contemporanee di sapere che riportano la parola nello spazio pubblico. Un’esigenza che non caratterizza soltanto l’Italia ma che qui è stata più acuta». Forse pure troppo, già che gli eventi eccezionali son diventati perenni. Ecco il Festival Internazionale di Poesia dal 9 al 21 giugno a Genova, Parma Poesia dal 15 al 19 dello stesso mese, Parco poesia a settembre a Riccione, il Poesia Festival a fine settembre in provincia di Modena e il Festival della Poesia civile a novembre a Vercelli. C’era pure Bergamo poesia, ma ora rimane solo Bergamo scienza ad ottobre. In compagnia del Festival della Scienza dal 29 ottobre al 7 novembre a Genova, del Festival delle Scienze a gennaio all’Auditorium di Roma, di Scienza in piazza dall’11 al 21 marzo a Bologna. A Perugia invece, dal 30 settembre al 3 ottobre, c’è il Science Festival. Infine a Milano, dal 22 al 28 marzo, c’è il Vedere la Scienza Festival. Non va meglio con la letteratura, che non contenta di Mantova aggiunge dal 18 al 20 giugno a Bassano del Grappa il Piccolofestival Letteratura, dal 20 maggio al 22 giugno il Festival Letterature a Roma, dal 29 giugno all’1 luglio il FestivAltura a Verbania sui temi della montagna, dal 18 al 21 novembre a Cuneo Scrittori in città e dal 15 al 19 settembre Pordenone legge. Ed esiste pure Pordenone pensa. Se non vi bastasse.
Quanto vanno forte i festival Tra letteratura e scienza, riparte la stagione delle rassegne. Che non conoscono crisi, grazie ai finanziatori più assortiti, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Piazza Grande gremita per la lezione magistrale di Enzo Bianchi al Festival Filosofia 2014 Avanti, cultura! Con il debutto delle Scienze all’Auditorium di Roma è iniziato il lungo calendario dei festival, una corsa fra almeno 67 eventi - alcuni studi ne censiscono fino a 209 - dedicati a libri e astronauti, economisti e filosofi ma anche cuochi e tradizioni. Nonostante la crisi, gli appuntamenti culturali spopolano: per allungare la stagione turistica, a maggio come in autunno, non c’è ormai sindaco che non desideri affollare la propria città di fan di un grande scrittore o di uno scienziato illuminato. Gli happening intellettuali hanno successo di pubblico. E di sponsor, istituzionali e privati: attraggono investimenti che superano i 24 milioni di euro all’anno, 400mila in media per ogni rassegna secondo le stime di Guido Guerzoni della Bocconi di Milano. Ma i soldi arrivano anche dall’Unione Europea: solo come “fondi strutturali” per lo sviluppo del Mezzogiorno, le regioni del Sud hanno ricevuto in cinque anni da Bruxelles 72 milioni di euro per portare in piazza arti e saperi. Dalla fine degli anni ‘90 i festival culturali hanno conquistato la scena in tutta Italia, grazie alla loro capacità di avvicinare lettori ed esperti, di coinvolgere autori, ricercatori, studenti, fondazioni ed enti locali. Solo per la letteratura, seguendo l’esempio della manifestazione più antica, quella di Mantova (che ha compiuto 18 anni), ce ne sono oggi almeno 33. BookCity a Milano si è conclusa nel 2014 vantando come l’anno prima “130 mila visitatori” e centinaia di incontri. L’agenda s’infittisce ogni stagione. «L’impatto economico positivo per le città è stato confermato da innumerevoli studi», commenta Pierluigi Sacco, professore ordinario di Economia alla Iulm. Ma se la forza commerciale è certa, lo è meno quella sociale: la voglia di sapere testimoniata da questi appuntamenti non è ancora riuscita a innescare un cambiamento nazionale, almeno stando alle statistiche che ci vedono in coda all’Europa per consumi culturali. Perché? Prima del dibattito, la radiografia. Quanto costano i festival impegnati? I big, come Mantova o Genova per la Scienza, hanno un budget che va dagli 1,5 ai due milioni di euro. Pochi però possono contare su investimenti così consistenti: meno di uno su 10, stando all’ultimo rapporto di Guido Guerzoni, “Effettofestival”. Un quarto degli eventi si mantiene invece con un bilancio fra i 250 e i 500mila euro. Quasi la metà se la cava con meno. E chi li paga? Principalmente gli enti locali. Praticamente ogni festival ha almeno un comune, una provincia o una regione fra i sostenitori, a cui si affiancano spesso le camere di commercio. Il municipio di Milano, ad esempio, nel 2013 ha finanziato 29 kermesse, per un totale di un milione e 400 mila euro di contributi. Il grosso è andato a rassegne di cinema e teatro, ma ci sono anche eventi come la Milanesiana di Elisabetta Sgarbi (direttore editoriale di Bompiani) a cui sono stati assicurati 80mila euro. “Collisioni”, la manifestazione che unisce letteratura e musica a Barolo, ha ricevuto dal Piemonte 70mila euro. Il Pirellone del leghista Roberto Maroni ha dato il suo supporto alle tradizioni padane: con 5mila euro al Festival celtico dell’Insubria 4mila al Festival internazionale del Folclore. Invece i dialoghi di Trani, in Puglia, per l’edizione 2013 hanno potuto contare su 46mila euro dall’Unione Europea e altri 32mila da Stato e Regione. Briciole rispetto ai 104 mila euro arrivati da Bruxelles al “festival della Magia” di Crotone attraverso il dipartimento calabrese all’Istruzione. Ed è ancora niente rispetto ai 118 mila euro garantiti dai “Fondi strutturali europei” per l’ultimo Diamante Festival nel Cosentino, dove fra mostre, convegni e concerti si celebra sua maestà il Peperoncino: aggiungendo i contributi nazionali, lo show “piccante” ha ricevuto 348mila euro a stagione, e ne ha raccolti quasi altrettanti dai privati. A parte la sponda europea, solida soprattutto al Mezzogiorno, è difficile contare sul settore pubblico in tempi di spending review. Al festival della Letteratura di viaggio di Roma il Campidoglio ha dimezzato l’anno scorso le sovvenzioni: da 80 a 48mila euro. «Noi abbiamo subìto tagli del 35 per cento», racconta Vittorio Bo, creatore del primo e più importante Festival della Scienza, quello di Genova. La Provincia era fra i fondatori del progetto: ancora nel 2009 aveva garantito 100mila euro. «Un contributo importante, ora azzerato», spiega Bo: «Manteniamo per fortuna il sostegno degli altri, fra cui il ministero dell’Istruzione. E le riduzioni in generale sono state proporzionali a quelle decise dai privati». Quali privati? Le più presenti, anche se si trovano a metà tra pubblico e profit, sono le fondazioni bancarie. L’ente filantropico della Cassa di risparmio di Torino, ad esempio, ha finanziato nel 2013 ben 72 festival per 975mila euro. Gli aiuti sono andati a iniziative consolidate come Scrittorincittà, organizzata dall’assessorato alla Cultura di Cuneo, ma anche a un “Festival nazionale Luigi Pirandello” (stessi fondi: 20mila euro) allestito da un’agenzia di comunicazione torinese, del cui evento nella vicina Coazze resta in Rete giusto una pagina Facebook con 134 “mi piace”. E ancora: gli incontri sulla Scienza a Genova sono stati possibili anche grazie ai 360mila euro della fondazione di Compagnia di San Paolo. Mentre dal ramo solidale del Banco di Sardegna sono arrivati 40mila euro al noto festival di Gavoi e altrettanti a “Leggendo Metropolitano” di Cagliari. Accanto alle fondazioni, è aumentata in questi anni la presenza delle multiutility e delle società di servizi locali, che vogliono così radicare la loro influenza sul territorio. Hera, il colosso che controlla rifiuti, acqua ed energia in Emilia Romagna e in parte del Nord Est, ha speso nel 2013 quasi tre milioni di euro in sponsorizzazioni, un milione e 100 solo per la cultura. A Bologna, dove ha la sede principale, ha sostenuto di recente un festival poetico, uno di fumetti, diversi di cinema e alcuni musicali. L’emiliana Iren ha messo in bilancio 4 milioni e 700mila euro per sostenere iniziative benefiche, sportive e letterarie. Per il suo Nord-Ovest, A2A ha investito un milione e 750mila euro. La romana Acea poco meno di tre milioni. Ci sono poi grandi aziende come Eni, 21 milioni e 438 mila euro spesi destinati alla cultura nel 2013 – anche se con l’arrivo di Claudio Descalzi la generosità è in corso di revisione –, Finmeccanica, Coop (che ha partecipato al festival della Tv di Dogliani, a quello di Mantova e all’“Ilaria Alpi” di Riccione), Vodafone e Telecom. Infine, ci sono i partner locali. Dalle banche agli aeroporti, sino a pastifici, bar, trattorie, hotel, artigiani, autoricambi, caseifici, arredatori e vivai. Il Festival di Mantova riceve dai privati il 75 per cento del budget (dipendendo solo per l’11 dalle istituzioni mentre il resto viene dai biglietti), e ha 150 sponsor, che vanno da Hera a Persol passando per studi di commercialisti o “il raviolificio sotto casa”: «Alcune grosse aziende si sono allontanate perché mettiamo tutti gli sponsor sullo stesso piano», racconta Marzia Corraini: «Ogni incontro ha il suo pannello con i loghi dei promotori, a prescindere dalla dimensione della società. Certo: c’è chi è presente per più giorni. Ma per noi tutti i partner, grandi e piccoli, sono uguali: è in questo la nostra libertà. E la nostra forza sul territorio». I contributi possono essere sia economici che “strumentali”: dagli sconti per i partecipanti alla pubblicità per gli eventi. Il “Centro Latte Rapallo” ad esempio ha messo a disposizione «le etichette di oltre 100 mila bottiglie di “Latte Fresco Tigullio Alta Qualità”, distribuite in tutta la provincia di Genova» per pubblicizzare il festival di Comunicazione di Camogli. Comunicazione riuscita: ad ascoltare Umberto Eco e gli altri ospiti sembra siano arrivate 20 mila persone. Perché ai privati interessa tanto investire sulle riflessioni in pubblico del filosofo Remo Bodei o del romanziere Andrea de Carlo? Perché sono seguite da un sacco di gente. Anche se stabilire con certezza quanta, è impossibile. I festival più trasparenti comunicano solo le presenze: ovvero non i visitatori, ma il numero complessivo di partecipanti, che conta due volte chi segue due convegni. Ed eccoli: 66mila biglietti venduti a Mantova; 130mila spettatori per gli eventi gratuiti di BookCity, 90mila ascoltatori al Festival di Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo (220mila considerando anche gli incontri non filosofici), 45mila al raduno della Mente di Sarzana, 14mila a LetterAltura sul Lago Maggiore, 13mila a Bergamoscienza, e così via. C’è però anche chi si limita, nei comunicati, a indicare “migliaia di spettatori” (Popsophia, Tolentino), oppure segnala soltanto il numero di click online o ancora dichiara laconicamente “sale piene”. Quello che è certo è che il pubblico non ha conosciuto crisi. «Devo ammettere: avevamo un po’ di paura l’anno scorso, considerate le difficoltà economiche delle famiglie», racconta Marzia Corraini, fra i fondatori del FestivaLetteratura di Mantova: «Ma ancora una volta ci siamo stupiti: i visitatori sono aumentati». E non è solo dal numero di sedie riempiti che si può valutare il successo. Ci sono eventi piccoli come “Dedica” di Pordenone, che raggiunge solo le cinquemila presenze ma riesce ogni anno ad approfondire un autore nuovo, producendo contenuti di spessore. E poi c’è il contesto. Quello che una rassegna dà al suo territorio. Lo spiega bene lo scrittore e presidente dell’Associazione “L’Isola delle storie” Marcello Fois in una ricerca su “L’Italia creativa” di Annalisa Cicerchia: «L’ultima edizione del Festival di Gavoi», racconta, «è stata visitata da 30mila spettatori, in un paese di tremila abitanti. Arrivano grandi scrittori che non ricevono alcun tipo di cachet. La manifestazione costa 220 mila euro e in questi anni il Pil del Comune è cresciuto del 24 per cento. Ciò significa che si sono aperti alberghi dove non esistevano, si è riavviato un camping che da 25 anni era chiuso. Il turismo si è espanso per tutto l’anno, compreso l’inverno. In Barbagia». Che i conti tornino, per i commercianti locali, lo ha dimostrato anche il Festival per l’Economia di Trento (chi se non loro?), che nel 2008 ha affidato ai propri partecipanti una card con cui segnalare le spese in pernottamenti, ristoranti, negozi e musei: scontrini da 154mila euro al giorno. «Tocca chiederci oggi: cosa resta di tutto questo fermento?», si domanda l’economista Pierluigi Sacco: «I grandi eventi danno grandi ritorni - sul breve periodo - per grandi investimenti. Ma dobbiamo confrontarci sul loro scopo: riescono a cambiare la politica dei luoghi in cui avvengono? Ad avere un impatto sull’istruzione? Sui consumi? Sulle abitudini della popolazione?». Secondo Sacco, la risposta è: più o meno no. Nel senso che hanno dimostrato di servire poco nella loro forma-standard, che vuole un grande scrittore, o un noto intellettuale davanti a un pubblico passivo e felice. L’unico modo perché della cultura “resti attaccata”, sostiene il docente, è puntare sull’interazione. Sullo scambio. Come avviene, insiste, nei laboratori per studenti del Festival di Genova, che permettono ai bambini di “mettere le mani” nella scienza. Secondo lui, il dialogo da attivare fra gli adulti e gli autori dovrebbe essere diverso: un confronto, più che una conferenza. «È vero, il nostro pubblico è composto per più della metà da scuole», risponde Vittorio Bo, «ma non dobbiamo snobbare gli incontri frontali, anzi: c’è un pubblico adulto che ha bisogno di sedersi e ascoltare persone intelligenti. Il dialogo forse non si sente. Ma perché è interiore e profondo».
Dura dodici mesi l’anno la stagione dei festival letterari in Italia, scrive "Italia.it". Con formule collaudate o innovative da presentare agli operatori, agli appassionati di buone letture e al grande pubblico, il panorama dei festival letterari mette in risalto “firme”emergenti e scrittori già affermati a livello nazionale e internazionale. Il panorama di queste manifestazioni che si susseguono tutto l'anno lungo la penisola è molto variegato sia nelle proposte che nella formula tematica, territoriale o commerciale. I festival letterari rappresentano spesso un vero e proprio connubio tra il fatto culturale e l’evento spettacolare. Il festival è infatti un momento unico in cui l'autore può creare un contatto diretto con il proprio pubblico. Diversi per storia e origini, nati per iniziativa di intellettuali, fondazioni o librai, i festival letterari rappresentano vere e proprie realtà di riferimento per la narrativa italiana. Saldi al momento nella loro leadership e forti della loro lunga storia, si possono elencare il Salone Internazionale del Libro di Torino, la Fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi di Roma, il Festival della Letteratura di Mantova e quello degli autori di Lucca, il Festival Internazionale di Poesia di Genova e quello organizzato da Internazionale a Ferrara. Accanto ai capisaldi della letteratura spiccano kermesse autoriali che si contraddistinguono per la particolarità della location. Accolte in piccoli borghi o un suggestive piazze, queste manifestazioni rappresentano vere e proprie chicche nel calendario di incontri letterari italiani. Cortina d'Ampezzo, per esempio, ospita nei tradizionali spazi delle Poste e nella nuova e suggestiva cornice della “Conchiglia” di piazza Venezia, una rassegna dedicata alla letteratura ma che dà spazio anche ai dibattiti, al teatro e alla musica. E ancora, scendendo lungo la penisola, nelle ridenti cittadine di mare di Toscana, Romagna e, già fino alle Marche e all’Abruzzo sono decine e decine le occasioni di incontro con gli autori di saggi, romanzi e cataloghi. A cominciare dalla frequentatissima vetrina di Capalbio libri, che si tiene ogni anno nel cuore del borgo medievale. Dalla costa tirrenica a quella Adriatica. A San Benedetto del Tronto va in scena Scrittori sotto le Stelle, l’appuntamento estivo in riva al mare. A Palermo, nello splendido palazzo Steri, si rinnova l'appuntamento dedicato all'editoria indipendente, Una Marina di Libri. La capitale ospita uno dei festival più suggestivi: Letterature, festival Internazionale di Roma, apprezzata kermesse presso la Basilica di Massenzio al Foro Romano. Lungo tutta la penisola vi è poi un filone di manifestazioni che fondono tra loro vari "generi": scienza, filosofia, noir, fumetto. Genova si è affermata in questo senso come punto di riferimento per la divulgazione scientifica, mentre Modena, Carpi e Sassuolo sono diventate capitali della filosofia con il Festivalfiolosofia. Courmayeur da oltre vent'anni dà spazio al giallo con Noir in Festival, mentre Trento è la vetrina in cui presentare libri sull'economia e accendere dibattiti a tema. Ce n'è per tutti i gusti.
L'Italia dei festival cinematografici, scrive “Italia.it”. L’Italia, patria di grandi registi, ma anche luogo di innumerevoli set italiani e stranieri, ospita ogni anno diverse rassegne cinematografiche di carattere internazionale. Sicuramente la più importante è la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica che ha luogo nell’incantevole Venezia, all’interno dello storico Palazzo del Cinema, sul Lungomare Marconi, al Lido di Venezia. Il festival, che si svolge tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, è il secondo festival cinematografico più antico del mondo dopo il Premio Oscar (la prima edizione si tenne, infatti, nel 1932). Si svolge sempre in un’altra bellissima città d’arte italiana, il Torino film festival. Nata nel 1982 nella città della mole antonelliana, che ospita anche il Museo del cinema, la rassegna è dedicata soprattutto alle realizzazioni indipendenti e, oltre al cinema d’autore e di genere, prende in considerazione anche cinematografie straniere e produzioni video. Dal 2006 anche la Città Eterna ha la sua rassegna cinematografica; si tratta del Festival internazionale del film di Roma che si tiene in autunno a Roma presso l'auditorium Parco della Musica. Nella città considerata la capitale del cinema italiano e dell'industria cinematografica, location prediletta dai grandi registi e sede della cosiddetta “fabbrica dei sogni”, Cinecittà, non poteva mancare un festival dedicato alla Settima Arte. Sempre a Roma ha luogo anche il RIFF - Rome independent film festival. Nato nel 2000, ha lo scopo di promuovere il circuito cinematografico indipendente, con particolare attenzione alle opere prime italiane. Il festival si tiene presso il nuovo cinema Aquila, la Casa del Cinema a Villa Borghese e il Kino. Degni di interesse anche festival cinematografici minori che hanno un certo riscontro di pubblico e critica e che si svolgono, tra l'altro, in bellissime zone di villeggiatura. A cominciare dall'Ischia Film Festival nel Castello Aragonese di Ischia, a luglio. La manifestazione, in cui si premiano le opere, i registi, i direttori della fotografia e gli scenografi che valorizzano “location” italiane o straniere, organizza anche il Convegno Nazionale sul cineturismo. C'è poi il “Taormina film fest”, storico festival cinematografico internazionale che si tiene nel suggestivo Teatro antico di Taormina. La rassegna ha anche ospitato la premiazione dei “David di Donatello”, il premio cinematografico italiano per eccellenza, e i Nastri d'argento del sindacato giornalisti cinematografici. Infine, la Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, altro importante festival cinematografico che nasce nel 1964, si tiene nella splendida città costiera delle Marche. Una menzione a parte, poi, per il Giffoni film festival, una rassegna di cinema per i ragazzi che ha luogo a Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno dal 1971. Le giurie del Festival sono composte da giovani italiani e stranieri che vengono ospitati dalle famiglie di Giffoni e dintorni e che, oltre a visionare i film, discutono con registi, autori e interpreti. Grandissimi nomi partecipano ogni anno a questa rassegna della quale il regista François Truffaut, nel 1982, ha lasciato scritto: “Di tutti i festival del cinema, quello di Giffoni è il più necessario”.
L’Italia dei Festival del cinema scrive Ambra Vannicelli su “50epiù”. Da quello di Venezia, il più antico del mondo, agli oltre 150 Festival sparsi in tutto il Paese. Prossimo appuntamento è con il Festival Internazionale del Film di Roma. La Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, in corso fino al 6 settembre, è il festival più vecchio del mondo. Ha 71 anni e non sentirli, visto che ancora oggi si conferma un importante punto di riferimento per la produzione cinematografica mondiale. L’Italia ha all’attivo un numero assai sostanzioso di Festival dedicati al cinema, cortometraggi inclusi. Il calendario è fittissimo. Basti pensare che una volta chiusa la Mostra di Venezia seguirà una sfilza di rassegne cinematografiche. Il primo appuntamento che segnaliamo è con il Festival Internazionale del Film di Roma. Tra gli ultimi arrivati (nasce nel 2006), si tiene dal 16 al 25 ottobre. Torna a ottobre anche il Napoli Film Festival che quest’anno celebra Michelangelo Antonioni in occasione dei 50 anni di “Deserto Rosso”, il film che vinse il Leone d’Oro a Venezia nel 1964. A seguire Torino Film Festival, alla 32° edizione, in programma dal 21 al 29 novembre. Da Torino a Firenze con il Festival dei Popoli, dedicato al cinema documentario, che si tiene dal 28 novembre al 5 dicembre. E poi sarà la volta del Festival Internazionale del Cinema di Salerno, uno dei più antichi, nato all'indomani della Seconda Guerra Mondiale, nel 1946. In Italia, secondo un elenco parziale stilato da wikipedia, si contano oltre 150 festival cinematografici, nessun Paese ne vanta così tanti, nemmeno gli Stati Uniti nonostante l’imponente industria cinematografia. Alcune rassegne sono molto longeve e ancora attive. Nel 1949 ne debuttano ben due: il Filmvideo festival internazionale del cinema di Montecatini Terme (Pt), rassegna che propone il meglio dei cortometraggi, che si terrà dal 12 al 19 ottobre, e il Valdarno cinema FEDIC a San Giovanni Valdarno (Fi), dedicato al cinema indipendente. Nel 1952 invece nasce Trento Film Festival. La rassegna presenta e promuove film e video di ogni nazionalità, genere e durata con al centro la montagna, l’avventura e l’esplorazione. L’appuntamento con la 63° edizione è dal 30 aprile al 10 maggio 2015. Andando avanti con le rassegne più longeve nostrane e ancora in attività, tra le più prestigiose c’è il Taormina Film Fest, erede della Rassegna Cinematografica di Messina e Taormina nata nel 1955. A questo punto impossibile non ricordare i Premi David di Donatello, destinati alla migliore produzione cinematografica italiana e straniera. La prima cerimonia di premiazione si è tenuta 1956 a Roma al Cinema Fiamma. Nel 2007 il David è diventato Accademia del Cinema Italiano. Il 25 novembre 2009 Gian Luigi Rondi, classe 1921, viene nominato presidente a vita. Altri Festival dedicati al cinema nasceranno nel corso degli anni, sempre più internazionali, originali, ma anche di “nicchia”. Tra i tanti meriti, quello di far conoscere i film di giovani registi, opere prime, pellicole che hanno avuto poca fortuna nella distribuzione. Al riguardo 50&Più con la sua sede di Roma fa la sua parte sponsorizzando sin dall’inizio il Santamarinella Film Festival (Rm), nato dieci anni fa. La rassegna è dedicata al giovane cinema italiano d’autore, vetrina per quei registi esordienti che non trovano adeguati spazi per presentare le proprie opere. Infine, oltre al primato del Festival cinematografico più vecchio del mondo, l’Italia vanta un Festival molto particolare. Si tratta del Festival di Giffoni (Sa). Nato da un’idea dell’attore Claudio Gubitosi per promuovere e far conoscere il cinema per ragazzi. Una delle particolarità di questo Festival sono i giurati: hanno dai 18 anni in giù e provengono da ogni parte del mondo.
Più festival che scandali, ed è tutto dire, scrive Beppe Severgnini dal Corriere della Sera. Della Letteratura. Delle Letterature. Del Libro. Dei Libri. Del Libro Usato. Del Libro Internazionale. Del Libro per Ragazzi. Del Libro all’Orizzonte. Dell’Autore. Degli Autori. Del Libro con gli Autori. Dell’Inedito. Della Piccola e Media Editoria. Dell’Editoria Indipendente. Della Microeditoria. Del Giornalismo. Della Poesia. Della Marina. Del Noir. Del Giallo. Del Fumetto e dell’Animazione. Della Penna d’Oca (e del Byte). Dei Bambini (o Children che dir si voglia). Del Racconto. Delle Parole dello Schermo. Del Viaggio. Del Pensiero. Della Filosofia. Della Comunicazione. Di Cinema e Letteratura. Dell’Innovazione. Del Mondo Antico. Della Scienza. Della Mente. E poi: Internazionale, In Riva al Mare, A Piedi Nudi nel Parco, Sotto le Stelle, Sul Fiume, sulle Bocche. Questa selezione dimostra una cosa: in Italia produciamo più festival che scandali, ed è tutto dire. Alcuni sono diventati i migliori d’Europa nel loro genere (Mantova per la letteratura, Perugia per il giornalismo). Molti sono buoni. Tutti sono volonterosi e, quasi sempre, pieni di gente. Il fenomeno è stato studiato, discusso, copiato. Le rivalità italiane si sono, infatti, festivalizzate. Se una città ha un festival, la città vicina non può farne da meno. Cosa spinge il pubblico verso questi incontri? Il piacere di stare insieme, la confusione gioiosa, la gratuità e un po’ di serendipity: la voglia di trovare ciò che non si sta cercando (un libro, un’idea o un fidanzato, dipende). Nelle sagre – caposaldo della vita sociale italiana – si mangia, si beve, si balla. Nei festival si può ascoltare e guardare. Per chi ha problemi di colesterolo e coordinazione, una dignitosa soluzione. Cosa spinge le amministrazioni locali a organizzare, sostenere, sponsorizzare i festival? La possibilità di ottenere molto con poco. Gli autori, a differenza di ogni professionista dello spettacolo, si offrono gratuitamente. Il verbo non è scelto a caso: per molti di noi il richiamo dell’approvazione è irresistibile. In tanti, ormai, sono in grado di riempire una piazza; e chi non ci riesce si consola, a cena, pensando d’essere un intellettuale. E’ questa umanissima debolezza il carburante del sistema. Gli scrittori sono manodopera gratuita, zelante, incontenibile. Nessuno attraversa l’Italia per vendere venti copie d’un libro; molti sono disposti a farlo in cambio di una distesa di occhi attenti e dell’applauso finale. Parlate con un editore. Vi dirà: per impedire a certi autori di partecipare ai festival dovremmo incatenarli! E sarebbe fatica inutile. Si presenterebbero così sul palco, con un nuovo titolo, “Novello Prometeo”. A proposito: se qualcuno fosse a Firenze, oggi tocca a me (Festival del Viaggio). Sabato ad Asti apro invece Passepartout (direttore scientifico Alberto Sinigaglia). Poi chiudo coi microfoni fino a settembre. Sarà una lunga estate d’astinenza. Se parlerò ai ginepri della Gallura nel maestrale, vuol dire che sono proprio conciato male.
Sanremo:I grandi scandali del passato, scrive Gigi Vesigna su “Marida Caterini”. Non solo canzonette. Le polemiche, il gossip, gli scandali, veri o costruiti ad arte, sono sempre stati ingredienti fondamentali per il Festival di Sanremo. Nel corso degli anni molti sono stati gli avvenimenti rimasti nascosti al grande pubblico che hanno coinvolto i protagonisti. Ho scelto cinque edizioni, tra le sessantadue della storia della kermess, e di queste vi svelo alcuni episodi curiosi che sono venuti alla luce soltanto anni dopo. Cominciamo quasi dagli inizi.
Siamo nel 1955 . Claudio Villa è il vincitore annunciato del Festival, prima ancora che cominci. Alla vigilia della serata finale, colpo di scena: Villa si dà malato, colpito da una bronchite fulminante che gli impedisce di cantare. Lo fotografano a letto, nella sua camera all'Hotel Nazionale, dove appare sofferente: poi arriva l'annuncio ufficiale:non canterà la sera della finale. Sconforto tra i molti fan del Reuccio, ma la verità è un'altra. Sua moglie Miranda. nota doppiatrice (sua la voce italiana di Sherley Temple) ha scoperto che Claudio l'ha tradita e si è precipata a Sanremo, minacciando di fargli una scenata in diretta tv. Panico tra gli organizzatori, poi il regista Vito Molinari ha un'idea risolutiva: le telecamere inquadrano un giradischi con il disco "Buongiorno tristezza" canzone che, naturalmente, vince, mentre Villa segue il festival in tv. Solo dopo un incontro senza testimoni, riferiscono che è scoppiata la pace. Claudio Pica e Miranda si erano sposati nel 1952 e si separeranno nel 1962...
Undici anni dopo: è il 1966. Arbore e Boncompagni arrivano al Festival in macchina da Roma con l'amica Carla Puccini e si inventano una beffa ai danni dell'ormai mitico Mike Bongiorno che presenterà la manifestazione con lei e con Paola Penni. A un certo punto Carla dovrà svenire in scena e beccarsi un bel po' di pubblicità. Ma Mike fiuta l'inganno e quando, con la coda dell'occhio, vede che alla sua destra Carla sta per accasciarsi, chiama la telecamera sul suo primo piano e la mantiene sinchè il palco non è sgombrato dalla "salma". Grande Mike che con gli undici Festival presentati, merita ampiamente il monumento che sarà collocato a Sanremo in via Escoffier, angolo via Matteotti, a due passi dall'Ariston e inaugurato da Fabio Fazio il 15 febbraio. Alto un metro e 96, a Sanremo non è costato un euro perchè ha pagato tutto la moglie Daniela. Un altro monumento, dedicato a Michael Nicholas Salvatore Bongiorno ( è il suo nome per intero) si trova a Breuil, vicino Corina, dove Mike aveva una casa e andava a sciare.
Arriviamo al 1974. E' il festival più scassato della storia: vince una certa Gilda che fa l'infermiera a Torino. Si scatenano i rumours: secondo alcuni, Gilda, una bella ragazza bionda, sarebbe "fidanzata" con il potente assessore al turismo Napoleone Cavaliere, secondo altri protetta da camorra o 'ndrangheta. La realtà è molto più banale. Il suo agente, Nello Marti, ha saputo che le giurie sarebbero state dislocate soltanto in caserme e così, prima del Festival, Gilda fece una tournèe proprio nelle caserme italiane. E vinse facile.
Eccoci al 1990. Grazie al patron Adriano Aragozzini, al festival si torna a cantare dal vivo, ma la sede è il nuovo Palafiori, una cattedrale nel deserto voluto per motivi politici da un potente gruppo democristiano. Dentro fa un freddo glaciale, sulla volta volano sciami di pipistrelli. Vincono i Pooh con "Uomini soli", ma la vittoria se la sarebbe meritata Toto Cutugno che canta "Amori" con Ray Charles. Ma già alla vigilia i Pooh avevano in tasca la vittoria: era la condizione perchè, per la prima volta, si mettessero in gioco al Festival.
E siamo nel terzo millennio: è il 2001. Come quest'anno è vigilia di elezioni e tocca a Raffaella Carrà la presentazione del festival. Lei è riluttante: da sempre sa- gliel'ha preannunciato un profetico pendolino- che Sanremo per lei sarebbe stata sicuramente una sciagura. Ma la Rai praticamente la costringe: subito dopo il Festival si va alle urne e in viale Mazzini sanno bene che con lei non ci saranno comportamenti politicamente scorretti. Il rischio era che il Festival potesse andare in malora. Cosa che non succede, grazie alla vittoria di Elisa e al secondo posto di Giorgia. Le canzoni salvano le elezioni. Un dèjà vu? Speriamo.
Estate 2015: gli italiani ammazzano i festival? Si chiede “Rockol”. Ci sono, sì, realtà solide e funzionali sul panorama musicale estivo dal vivo in Italia, e rassegne ormai istituzionali come il Rock in Roma o il Lucca Summer Festival (o festival emergenti come l'Home Festival di Treviso, per citarne uno), dopotutto, sono lì a dimostrarlo. L'estate rock all'aperto italiana, però, negli ultimi anni ha perso dei pezzi difficili da rimpiazzare (e, al proposito, di una nuova edizione di Mondo Ichnusa al momento non si hanno notizie), e presto potrebbe perderne altri. Perché da una parte ci sono dei promoter e degli imprenditori pronti a tenere duro, e dell'altra dei comitati di quartiere sul piede di guerra o delle giunte comunali che di collaborare, proprio, non ne vogliono sapere. Così, mentre all'estero si annunciano i sold-out nelle prevendite e le ultime definizioni nei cartelloni dei maggiori eventi per la prossima estate, qui da noi manifestazioni di primi piano ancora lottano nella speranza di poter aprire i battenti. C'è chi è fortunato, come il Milano City Sound, che proprio in queste ore dovrebbe ufficializzare la propria edizione 2015, e c'è chi ancora naviga a vista - Rock in Idro e Arezzo Wave - nella speranza che qualosa, di qui a breve - perché se Roma non è stata costruita in un giorno, nemmeno un festival di prima grandezza si può organizzare in una settimana - si muova. Ecco, quindi, cosa abbiamo rischiato, o ancora stiamo rischiando, di perderci per la prossima estate. Il Rock in Idro, dopo anni passati a migrare tra le aree periferiche al capoluogo lombardo, pareva aver trovato un porto sicuro nell'Arena Joe Strummer del Parco Nord, a Bologna: la conferenza stampa - e le dichiarazioni degli attori coinvolti (municipalità e promoter) - prima, durante e dopo l'edizione 2014 parlavano di un contratto triennale che avrebbe messo in sicurezza il festival almeno fino al 2017. Poi, a inizio del 2014, l'amara sorpresa: un ripensamento del Comune avrebbe indotto l'agenzia organizzatrice, Hub Music Factory, a tornare sui suoi passi e cercare - compatibilmente con le tempistiche necessarie per organizzare una manifestazione di tali proporzioni - una location alternativa. "Siamo rimasti soli, ancora una volta, nella ricerca di una location che di diventare stabile - purtroppo - non ne vuole sapere", ci ha confessato una decina di giorni fa il co-fondatore della Hub, Alex Fabbro, allora prossimo a una riunione con l'assessorato che sulla carta avrebbe potuto essere dirimente. Ma che, ad oggi, di sbrogliare la situazione non è stata ancora in grado. Problemi, ma connessi ai comitati di quartiere, li ha avuti anche il Milano City Sound, il tribolato festival milanese un tempo ospitato dall'Arena Civica poi spostatasi - negli ultimi due anni - all'Ippodromo, sempre nel capoluogo lombardo, e che dal 2015 troverà spazio in una porzione del parco di Monte Stella, sempre nel quartiere di San Siro: dopo ripetuti sopralluoghi tecnici da parte delle autorità, la rassegna organizzata da Vittorio Quattrone dovrebbe ufficializzare la nuova edizione a giorni. Ancora top secret, al momento, il cast per la prossima estate, anche se il promoter ha già anticipato - per sommi capi - quali saranno le caratteristiche della rassegna prossima ventura: nell'area concerti di trentamila metri quadri complessivi, oltre a due aree per altrettanti palchi - della capienza di 18mila presenze per il main stage e 3mila per il palco secondario - troveranno spazio anche posti ristoro, strutture sportivi e spazi polifunzionali per incontri, corsi e altro. "Ci hanno accusato di voler cementificare uno spazio verde", ha risposto Quattrone alle accuse dei comitati che hanno dato battaglia perché il Comune non concedesse lo sfruttamento del parco attiguo all'ex area del PalaSharp: "Per la verità il discorso portato avanti da chi ci osteggia vede nel pubblico dei concerti un'orda di criminali. Il nostro scopo, invece, è solo quello di valorizzare - per due mesi su dodici - una porzione di uno spazio verde di Milano, che comunque resterà a disposizione del pubblico. Il piano sottoposto ai tecnici del comune, che, tra l'altro, non hanno mai rilevato irregolarità, non prevede nessun intervento che possa arrecare danni permanenti (come, ad esempio, l'utilizzo di piastre in acciaio o in cemento per gli allestimenti), ma include il ripristino a nostro carico del manto erboso dopo la manifestazione in zone che ne prevedano l'eventuale rinnovamento". Ancora più ricca di ostacoli, che ne starebbero seriamente ipotecando la realizzazione, è la strada che potrebbe condurre al prossimo Torino Traffic Free Festival. Le ultime, in merito, sono state riferite a metà gennaio dal giornalista della Stampa Gabriele Ferraris: nonostante un progetto molto ambizioso, che potrebbe vedere iscritti nel cartellone i nomi nientemeno che di Thom Yorke e Bjork, l'impossibilità da parte del municipio del capoluogo piemontese, unita alla confusione creatasi in giunta dopo la presentazione di almeno tre progetti, due da parte degli organizzatori storici (divisisi in due gruppi, con da una parte Gianluca Gozzi e il chitarrista dei Subsonica Max Casacci, e dall'altra il direttore artistico del locale Hiroshima Mon Amour Fabrizio Gargarone e il giornalista Alberto Campo) e uno (quasi subito abortito) da parte della giunta, non avrebbe fatto altro che complicare ulteriormente il processo di organizzazione, già dalle fasi preliminari. Non va meglio dall'altra parte dell'Italia, a Napoli, dove il Neapolis Festival, già lo scorso anno, fu costretto a chiudere i battenti. E anche per la prossima esatte Sigfrido Caccese, che della manifestazione è uno degli organizzatori, vede nero. E ripete riflessioni che gli addetti ai lavori conoscono fin troppo bene: "Sembra che la formula festival, in Italia, di funzionare non ne voglia sapere. Soprattutto in una città come Napoli, che oggi come non mai sta mostrando una scarsa inclinazione verso questi spettacoli. Ed è un vero peccato, non solo per gli appassionati, perché un festival come il Neapolis crea un grande indotto". Scarsa vocazione festivaliera a parte, il muro di gomma contro al quale rimbalzano i tentativi degli organizzatori pare essere il solito: "La mancanza di collaborazione da parte delle istituzioni è totale", denuncia Caccese, "Ormai, ad averli come interlocutori, non ci proviamo nemmeno più. Per il resto noi non molliamo, e a organizzare il festival ci proviamo. Magari su soli due giorni, invece di tre, come successo in occasione delle passate edizioni, magari più in piccolo: se non quest'anno, l'anno prossimo la formula giusta per imbastire la manifestazione la si troverà". E se dovessimo dare una percentuale di possibilità di una riapertura dei battenti già per la prossima estate? "Il 20, 30%. Non di più...". E non c'è storia o tradizione, quando si tratta di mettere in piedi un festival, a tenere. Lo sanno bene gli organizzatori di Arezzo Wave, una delle sigle storiche sul panorama tricolore, che da un paio d'anni a questa parte sembrava aver ritrovato il suo spazio - seppure decentrato, nel 2013, quando si tenne in Valdichiana, rispetto alle edizioni storiche - nella città che gli aveva dato i natali: l'edizione del 2015 della manifestazione ideata da Mauro Valenti è a rischio. Il problema? Il solito: istituzioni estremamente lente nel fornire risposte e comitati di zona sul piede di guerra. A spiegarlo è stato lo stesso Valenti, in una lettera aperta inviata al Corriere di Arezzo: "Nelle edizioni 2012 e 2014 (nel 2013 non ci è stata data la possibilità di farlo ad Arezzo) abbiamo investito più di 1.200.000 euro senza ricevere un euro dal Comune, portando risorse nel territorio e mettendo Arezzo come capitale delle politiche musicali giovanili del nostro paese. Ciò nonostante ogni nostra richiesta è ignorata, cosa strana visto anche il marchio di proprietà comune tra fondazione e amministrazione e l'obiettivo teorico della sua valorizzazione".
Storia di un fallimento (perchè l’Italia non ha un grande festival), si chiede Daniele Salomone, Direttore di Onstage. Perché l’Italia non ha un grande festival? Perché non riusciamo ad organizzare un evento all’altezza di quelli che invidiamo ai paesi europei e agli Stati Uniti? Domande simili sono tornate di moda quest’anno perché è saltato l’Heineken Jammin’ Festival e abbiamo assistito al caso eclatante dell’A Perfect Day, annullato dopo che la line up completa era stata annunciata. Ma questo problema in Italia ha radici molto profonde: è un grave fallimento del sistema-paese. Se non abbiamo un festival degno di questo nome le responsabilità sono di tutti. Dei privati, delle istituzioni e del cosiddetto popolo. Il lungo periodo di recessione non aiuta, ma non può essere un alibi: in questo campo faticavamo molto anche quando il paese cresceva. I privati. Eventi come Glastonbury e Sziget contano su organizzazioni che lavorano 12 mesi l’anno sulle proprie creature, mentre da noi sono sempre stati i promoter a tentare di mettere in piedi i grossi festival. Un’anomalia che produce effetti negativi: intanto è possibile che una struttura impegnata nella produzione di concerti abbia poche risorse per organizzare raduni lunghi e di una certa dimensione. Poi c’è un conflitto d’interesse: il promoter tende a privilegiare l’artista del suo roster nella costruzione del cast, anche se la scelta si rivela controproducente per la qualità del cast stesso. Ma soprattutto esiste un problema imprenditoriale: nessuno è riuscito a proporre un prodotto-festival all’altezza del mercato. Per esempio, le location si sono sempre rivelate inadatte e l’offerta di ristorazione non si è mai evoluta: non è più accettabile stare in coda due ore per bere una birra e non poter mangiare altro che un panino freddo con la salsiccia scotta. Dovreste vedere come funzionano questi servizi nei festival europei. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di eventi destinati a una fascia di popolazione benestante. Le istituzioni. Non è una novità che la classe politica italiana abbia problemi con la gestione del patrimonio e delle iniziative culturali. L’amministrazione pubblica non riesce a prendersi cura di un tesoro dell’umanità come Pompei, figuriamoci se può comprendere l’utilità di un festival musicale per l’economia di un territorio e di una collettività. Per il Sziget si mobilitano gli enti di promozione turistica ungheresi: non è un caso che degli oltre 350mila spettatori, la stragrande maggioranza sia straniera. Budapest spalanca le porte ai turisti e mostra all’Europa il suo profilo migliore. Noi non sappiamo farlo, eppure di turismo dovremmo essere campioni. E non posso fare a meno di chiedermi come si comporterebbe un Comune di fronte alla possibilità di organizzare un grande festival nel proprio territorio, se qualche abitante protestasse perché contrario. A giudicare da quanto avviene a Milano, dove un piccolo comitato di residenti condiziona la programmazione e la qualità (acustica) dei concerti a San Siro, ho come il sospetto di conoscere la risposta. Gli abitanti sono voti. Il pubblico. Noi. Noi che viviamo la musica come il calcio, con le tifoserie di artisti e generi che rifiutano tutto quello che è “avversario”. Noi che non abbiamo il minimo interesse per quello che non conosciamo e persino ai concerti dei nostri idoli non degniamo di uno sguardo gli artisti spalla. Noi che diamo la colpa agli organizzatori se il prezzo del biglietto ci pare troppo alto, quando invece dipende quasi sempre dal cachet degli artisti. Noi che se il prezzo è giusto ci lamentiamo del cast (e, appunto, ignoriamo le richieste dei big). Noi che tra un weekend al mare e tre giorni dentro una tenda non abbiamo dubbi. Noi che ai festival italiani non ci andiamo, ma all’estero si perché è più figo. In effetti. Ho citato Glastonbury e Sziget perché sono realtà virtuose che propongono modelli opposti. Il primo punta tutto sulla qualità (e la quantità) della proposta musicale, ma state certi che vostro figlio di due anni troverà tutte le strutture necessarie per passare una splendida giornata. E se vi si dovessero rompere le acque mentre ascoltate i Rolling Stones, non c’è problema. Tanto per capirci, in 40 anni di storia, Glasto si è costruito una tale credibilità che i biglietti finiscono 8 mesi prima dell’evento, quando nessun artista è stato annunciato. A Budapest invece hanno puntato sull’esperienza: andare al Sziget significa farsi una settimana di vacanza in un parco a tema (musicale) situato dentro un’isola sul Danubio. Concerti di tutti i generi e dimensioni, dj-set, ma anche giostre, meditazione, sport e infinite altre attività. Peace&Love. L’ingresso costa relativamente poco ma la struttura guadagna offrendo tutti i servizi necessari con efficienza ed efficacia. E Budapest gioca di sponda. Sia in Inghilterra che in Ungheria, pur in epoche e contesti diversi, hanno pensato a un prodotto (magari aggiustandolo in corsa), l’hanno posizionato presso un pubblico che lo chiedeva e non hanno incontrato resistenze sul territorio. Guadagnano, creano lavoro e fanno divertire un sacco di gente. Così succede negli Stati Uniti per eventi come Coachella e il South By Southwest. Noi, d’estate, dobbiamo accontentarci dei cosiddetti concert series, cioè manifestazioni che offrono più o meno uno show a sera in un determinato periodo e nella stessa location. Va bene perché comunque ci portano grandi nomi, soprattutto internazionali. Accontentiamoci, ma non nascondiamo la testa sotto la sabbia.
LA CONTROSTORIA DELLE CASE EDITRICI ALTERNATIVE.
"Controstoria", ecco il dossier sulle case editrici alternative, scrive Gaetano Farina su “Affari Italiani”. Poiché va tanto di moda pubblicare “dossier”, anche noi abbiamo deciso di elaborarne uno per scavare nell’“oscuro” mondo della Controinformazione. In tutti questi anni di Governo– Berlusconi, il problema dell’indipendenza dell’informazione è inevitabilmente rimasto centrale nel dibattito del nostro Paese. I recenti avvenimenti – più o meno scandalosi - “Veline in Parlamento”, “Compleanno Noemi”, “Escort a Palazzo Grazioli”, “Festini ad Arcore”, “Guerra contro Anno Zero”, “Nuove Case ai Terremotati Abruzzesi”, “Querele a Repubblica, Unità e Manifesto”, “Decreto Intercettazioni”, “P3”, “Appaltopoli” e “Lodi vari”, anzi, hanno acceso, se non avvelenato, ancor di più il dibattito. E allora, dopo aver “recensito”, sempre su Affari Italiani, le testate on-line e cartacee cosiddette “alternative”, i tempi ci sembrano appropriati anche per proporre un ampio dossier sulle case editrici votate alla controinformazione, a pochi giorni dalla conclusione della seconda edizione del Salone dell’Editoria Sociale, nuovo punto di riferimento per l’editoria indipendente in contrapposizione alla Fiera del Libro di Torino sempre più assomigliante ad un “megagalatticomarket” spudoratamente allineato agli interessi ed alle strategie dei più forti marchi editoriali e dei numerosi sponsor bancari. Dunque, proviamo qui a riunire tutte quelle case editrici che - seppur con un profilo e un approccio differente - ricercano, molto più delle altre, le Verità oltre quelle ufficiali, istituzionali e veicolate dai media convenzionali; s’impegnano a diffondere storie ed informazioni taciute, scarsamente rappresentate o liberate dalla manipolazione mediatica. Un modus operandi che, in Italia, viene etichettato come Controinformazione. Un’etichetta paradossale dato che, dagli anni dello stragismo terroristico, passando per i delitti di Mafia, sino ad oggi, all’epopea del trionfante berlusconismo, la controinformazione è spesso coincisa con la vera informazione. Esplorare la produzione di queste agenzie culturali significa, contemporaneamente, ripercorrere i fatti e gli avvenimenti, analizzare i problemi cruciali della storia contemporanea d’Italia e del resto del mondo, al riparo dalle censure, le manipolazioni, le omissioni, le finalità propagandistiche, i limiti ed i difetti propri dei normali organi d’informazione, asserviti ai grandi poteri istituzionali ed economici. Le produzioni che tratteremo e la controinformazione, in generale, possono essere accusati di “dietrologia” o di alimentare “teorie complottiste”, ma, alla lunga, qui in Italia, riguardo alle grandi stragi, ai problemi legati alle grandi opere, agli sprechi miliardari, alla corruzione, alla connivenza Mafia-Politica, hanno quasi sempre avuto ragione. Hanno anticipato verità e futuri scenari, o, comunque, hanno contribuito a suggerirci altre strade di ricerca della verità, oltre a quelle battute dagli organi d’inchiesta (inclusi media) istituzionali o convenzionali. Inoltre, la controinformazione ha il merito di dar voce a culture, movimenti, comunità, aggregati di pensiero e di espressione alternativi al modello cultural-ideologico dominante che, spesso, per autopreservarsi, è costretto a nascondere, mistificare, dissimulare. Del resto, strati sempre più ampi della popolazione e dell’opinione pubblica faticano a identificare i giornali e l’informazione universale come un “contropotere”. Quando, al contrario, il ruolo, il mestiere, la vocazione del giornalista dovrebbe essere quella di controllare il Potere che, per natura, tende a strabordare, a violare quelli che dovrebbero essere i suoi limiti, che, per autoalimentarsi e riprodursi, tende a mettere in secondo piano gli interessi della collettività. La controinformazione è un “fenomeno” che ha origine dagli anni ’60-’70, grazie al lavoro ed alla militanza di quella che viene battezzata “Sinistra Antagonista”, massima contestatrice, almeno a quell’epoca, delle basi economiche e culturali su cui si regge il nostro sistema sociale. Oggi, tante cose sono cambiate, sembra quasi che la Sinistra sia collassata o preferisca/sia costretta ad essere assente, sebbene si continui a sostenere che la cultura, l’istruzione, l’intellettualismo “siano più cose di sinistra”. In verità, è un sentimento diffuso la nostalgia per la controinformazione ed il giornalismo d’inchiesta di una volta, si lamenta la perdita (e la mancanza) di intellettuali veri ed onesti e di giornalisti coraggiosi e liberi. Compito del vero (autentico) giornalista, a servizio non del suo giornale, ma della comunità e della Verità, dovrebbe esser quello di richiamare il Potere ai suoi doveri - in ogni settore e in ogni articolazione -, smascherarlo e denunciarlo se agisce contro il bene comune, se ricorre a trucchi ed accordi sottobanco per mantenersi intatto. Da un po’ di anni, fortunatamente (a dispetto di chi promuove campagne contro i movimenti d’opinione diffondibili sui social-network), ci è venuto in soccorso il Web ed i potentissimi strumenti che ci offre permettono di addestrarci e prepararci ad una rivoluzione nell’indagine giornalistica e nel modo di fare informazione, in generale. Nel o sul web, e quindi ad ogni lato ed angolo del planisfero, i fatti, le notizie, le foto, le immagini, i video, i grafici, i dati statistici, i commenti, le opinioni, i giudizi, le descrizioni, le osservazioni, le critiche, le riflessioni e le denunce circolano ad una rapidità tale che sono molto difficili da monitorare e quindi da “censurare”. Tanto che, grazie al lavoro e ai contributi condivisi in rete da qualsiasi area del mondo, si sono sviluppati – dal basso - network indipendenti di influenza globale come Indymedia. Estremamente utili, se non fondamentali, per chi cerca ricostruzioni non veicolate da media o da fonti giornalistiche “di parte”. Per chi vuole bypassare i network controllati o, almeno, condizionati da poteri economici e politici, asserviti, anche geneticamente o inconsapevolmente, alla cultura e al pensiero dominante, lottizzati, limitati ad una “visione occidentale” della realtà o a una sua visione “economica”-“capitalistica”, escludendo a priori l’ approccio “umanistico”, snobbisti dei “Sud” del mondo. Per chi è alla ricerca di fatti e notizie che normalmente sono oscurati o ignorati, per chi è interessato a quelle azioni, istanze, richieste, proposte e rivendicazioni provenienti da critici e contestatori dello status quo economico-sociale e dei modelli su cui si fonda, alle minoranze, ai gruppi sociali discriminati, alle controculture, ai portatori di valori e di sistemi di pensiero minoritari. Tutte le 7000 case editrici sparpagliate sul nostro territorio si possono avvalere dei prodigi di Internet, ossia dell’estrema facilità e velocità con cui si possono ricercare e reperire analisi, documenti, commenti, interpretazioni, confronti, dibattiti, approfondimenti, proposte, idee su determinate questioni e problematiche. Tanto che è sempre più fiorente la produzione di quelli che vengono chiamati “Istant Book” su problemi, vicende politiche e giudiziarie, catastrofi, tragedie, delitti e fatti criminosi di particolare gravità ancora all’ordine del giorno. Certo, nel catalogo di quasi tutte le case editrici, anche di colossi come Arnoldo Mondadori per intenderci, si ritrovano opere che - per come solitamente viene intesa rispetto ai criteri che abbiamo descritto sinora - si possono definire di “controinformazione” o che, in diversa maniera e misura, non risparmiano critiche feroci o sbattono in faccia verità scomode ai poteri forti e/o ai “padroni del mondo”. Tuttavia, in quello stesso catalogo se ne possono trovare, contemporaneamente, tante altre (di opere) che sostengono questi poteri o esaltano idee e tesi a loro favorevoli. Nell’elenco che fra qualche riga vi presenteremo, abbiamo voluto visibilizzare, invece, quelle realtà che, sfruttando lo strumento-libro, sono nate per/ si pongono l’obiettivo di sostenere e diffondere una visione, un’interpretazione, una lettura alternativa della società, del presente e del passato, dei fatti, degli avvenimenti, dei problemi più complessi. “Alternativa” che si può tradurre in: contropotere, controculturale, antistituzionale, anticapitalistica e antimperialistica, antilobby, nonviolenta, fuori dal pensiero dominante, umanistica, improntata alla centralità assoluta dei diritti umani, al dialogo ed alla solidarietà fra i popoli, alla ricerca della verità oltre le rappresentazioni ufficiali, all’incontro con la “diversità”, che non si fida dei media convenzionali – solitamente di proprietà di rilevanti gruppi economici -, che non si fida delle promesse e degli appelli dei politici e della politica, di chi ci governa, che è per il rispetto dell’ambiente e per uno sviluppo sostenibile. Certo, come ammonisce il giornalista-attivista Paolo Barnard, bisogna stare attenti a identificare alcuni scrittori, giornalisti, giornali ed editori come degli “Eroi Anti-Sistema”. Altrimenti si rischia di prendere per “oro colato” tutto quello che dicono, quando, invece, anche nei confronti di chi ci appare “amico” o “fidato” occorre mantenere costantemente una distanza critica. Alla lunga, in tanti si possono rilevare dei finti eroi, interessati esclusivamente a crearsi un determinato tipo di pubblico a cui destinare in vendita i propri “prodotti” e nulla più. Qui di seguito troverete quasi 300 schede di case editrici più o meno conosciute; alcune, in verità, sono completamente nuove al grande pubblico e possono risultare delle “semplici” associazioni culturali. Ciò significa che hanno bisogno ancor di più di questa “vetrina”…In ogni scheda proposta viene sintetizzata la biografia e l’ “identità” della casa editrice, ma, soprattutto, sono recensite alcune sue pubblicazioni, diciamo, “rappresentative” o che siamo riusciti ad analizzare. Considerando anche il grado di collaborazione delle case editrici interpellate, possono essere presentati uno o più titoli per ogni scheda. In universo così magmatico come quello dell’editoria italiana, in cui navigano oltre 7000 editori, ammettiamo di aver potuto perdere la bussola, qualche volta: pertanto, ci scusiamo, fin da ora, con chi abbiamo dimenticato o “non recuperato”. Siamo pronti ad essere redarguiti ed, eventualmente, a “riparare” in qualche modo, rivisitando e “ristrutturando” periodicamente il dossier. Ma, insomma, avendo a disposizione gli spazi offertici da Affari Italiani, ci sembrava doveroso contribuire alla riaffermazione degli attori, delle agenzie, dei laboratori e delle correnti culturali impegnati nella contro-informazione e offrire un minimo di visibilità a quei marchi che, soffocati e stritolati nel mercato editoriale da grandi colossi quali Mondadori, Rizzoli o Feltrinelli, meriterebbero più considerazione per le storie e le Verità che ci propongono.
FAMILISMO AMORALE. LE GUERRE PER L'EREDITA' DEGLI ARTISTI.
Anche per Totò, il principe, ci furono due funerali. Una folla immensa e commossa diede l'ultimo saluto al grande attore. ''A Roma 30mila e nella sua Napoli 150mila'' dice il cinegiornale Luce del 24 aprile del 1967, che titolò il servizio: ''Il principe e la marionetta''.
La morte di Pino Daniele. Due verità sulle ultime ore. L’ex moglie rilancia: era svenuto, ritardi nei soccorsi. Amanda: ha deciso lui. Furto nella villa in Maremma. L’autopsia: confermata l’insufficienza cardiaca, scrive Fulvio Fiano su “Il Corriere della Sera”. Non poteva essere l’autopsia a dare una risposta alle domande sulla scomparsa di Pino Daniele, che - come appurato dall’esame effettuato ieri - è morto per insufficienza cardiaca (e dietro l’asciutta formula ci sono i vent’anni di gravissimi e ben noti problemi al cuore del cantautore, anche questi confermati dai medici incaricati dalla procura). Di altro tipo sono i dubbi rilanciati anche ieri dalla seconda moglie dell’artista, Fabiola Sciabbarrasi: «Qualcosa è andato storto, Pino stava molto male e la scelta di portarlo in auto in un ospedale lontano oltre 150 chilometri non me la spiego». Il dolore delle parole non fa sconti alla rivale in amore e ultima compagna del bluesman, Amanda Bonini, di avergli quanto meno prestato soccorsi (e consigli) inadeguati. «Pino era svenuto non avrebbe potuto decidere lui di andare a Roma», accusa la prima. «Era lucido, ha detto lui di metterci in auto», replica la seconda. Una doppia verità che segna una distanza tra le due famiglie marcata già dalle divisioni sui funerali, replicati a Napoli poche ore dopo Roma. Se quel viaggio si potesse e dovesse evitare resta una valutazione soggettiva, in mancanza di una diagnosi medica diretta sul malore. L’unico consulto, che ha preceduto la chiamata, poi annullata, al 118, c’è stato al telefono con Achille Gaspardone, che in tutti questi anni lo ha avuto in cura, con successo: «Pino stava sufficientemente bene - racconta il cardiologo -. Mi ha detto che aveva un senso di malessere, ma non mi ha trasmesso l’ansia di una situazione grave». Sintomi analoghi c’erano stati già in passato e in quei casi Daniele aveva preferito farsi visitare di persona dal medico di fiducia: «Ho parlato sia con lui che con la compagna - continua Gaspardone - e gli ho consigliato di chiamare l’ambulanza». Quindi, prosegue lo specialista, «credo abbia chiamato e poi disdetto perché stava sufficientemente bene, era piuttosto stabile e preferiva andare in un ambiente dove era conosciuto. Poi tutto è precipitato come può succedere nei casi di ischemia miocardica». Daniele, 59 anni, è arrivato nella Capitale dopo oltre un’ora d’auto, quando era già morto. Si sarebbe potuto salvare con un intervento più tempestivo? «Sarebbe prematuro e senza alcuna oggettività dirlo adesso», sottolinea Vittorio Fineschi, uno dei medici incaricati dell’esame (presenti i periti nominati da Fabiola Sciabbarrasi). L’autopsia è durata tre ore e mezza e darà ulteriori risultati nei prossimi giorni con gli accertamenti in programma su campioni prelevati. Dopo la folla dei giorni scorsi, l’artista era solo nella camera mortuaria. Tanti invece gli amici e parenti di un 21enne ucciso la scorsa notte in una storia di camorra. La salma del cantante è tornata in serata a Roma, al cimitero di Prima Porta, per la cremazione. Acquisita all’inchiesta per omicidio colposo (a carico di ignoti) la documentazione medica pregressa. E al ritorno nella villa in Maremma un’altra brutta notizia per la famiglia del cantautore. La serratura di una porta finestra sul retro scardinata ha aperto l’ex podere alla razzia dei ladri. Rubati contanti e due preziose chitarre. A dare l’allarme, ieri pomeriggio, è stata Amanda Bonini. La villa, in una zona isolata, con un ampio giardino attorno e le mura di cinta delimitate da cipressi, non è dotata di videosorveglianza ma di un sistema d’allarme che però sarebbe stato divelto dai ladri, entrati nella proprietà dopo aver scavalcato la recinzione. Secondo i primi accertamenti dei carabinieri di Orbetello il furto sarebbe avvenuto la sera in cui centinaia di migliaia di persone piangevano l’artista scomparso.
Battisti, Pavarotti, Dalla: quando la morte finisce in lite. La decisione sulle esequie e le battaglie per l’eredità. All’origine un incrocio di affetti privati, scrive Renato Franco su “Il Corriere della Sera”. Quei nemici di casa. “Parenti serpenti” (Mario Monicelli, 1992), ma anche “Fratelli coltelli” (Maurizio Ponzi, 1997). La famiglia che da vincolo di solidarietà e fratellanza si trasforma in groviglio di attriti. La battuta di Kipling («tre italiani, tre partiti politici») nel momento solenne della morte diventa «tre parenti, tre opinioni diverse». Se poi i parenti sono pure di più il caos è esponenziale. Nelle famiglie - larghe o allargate che siano - ognuno vuole dire la sua quando arriva l’ora di funerali & eredità. Ma basta anche una testa sola, ma tenace, come quella della vedova di Lucio Battisti a rendere complicati omaggi e celebrazioni.
Grazia Veronese, vedova Battisti, negli anni ha sempre cercato di bloccare tutte le manifestazioni di omaggio al cantautore tanto a Poggio Bustone (Rieti) dove era nato quanto a Molteno (Lecco) che aveva eletto a buen retiro. Ora sarà la Cassazione a decidere la legittimità o meno del Festival «Un’avventura, le emozioni» che si è sempre tenuto a Molteno. Nel frattempo per scoraggiare il pellegrinaggio dei fan sulla tomba di Battisti, ha deciso che le spoglie avrebbero lasciato il cimitero. Sono rimaste solo le canzoni.
Non è stata semplice la gestione dell’eredità Pavarotti. Il tenore morto nel 2007 ci mise del suo, facendo diversi testamenti. Mentre all’indomani del funerale spuntò un’amica che accusò la seconda moglie, Nicoletta Mantovani, di isolarlo dalle figlie avute dal primo matrimonio. Ci fu anche un’inchiesta della procura di Pesaro, a carico di ignoti, su una presunta circonvenzione di incapace quando Pavarotti prima di morire ridefinì eredità ed eredi. Alla fine pace fu: Nicoletta Mantovani e le tre figlie nate dal matrimonio con Adua Veroni hanno raggiunto un accordo per la divisione dei beni immobili.
Per Lucio Dalla nessun testamento, cinque eredi e un grande escluso. Gli eredi sono i cinque cugini (con i figli sono in 10 ad avere voce in capitolo), il grande escluso è quel Marco Alemanno che ha convissuto con il cantante fino alla sua morte. Quindici anni insieme, ma per la legge sono nulla.
FAMILISMO AMORALE (E PATRIMONIALE) - LA GUERRA TRA MADRE E FIGLIO, PER IL TESTAMENTO DI ORIANA FALLACI, È SOLO L’ULTIMO EPISODIO DI UNA FICTION SGUAIATA CHE VEDE LE COSIDDETTE ‘FAMIGLIE PER BENE’ PRENDERSI A CALCI IN FACCIA PER L’EREDITÀ - E’ ACCADUTO IN CASA AGNELLI, CON LA FAIDA TRA MARGHERITA E MARELLA CARACCIOLO - TRA IL FIGLIO ADOTTATO DI RENATO GUTTUSO E MARTA MARZOTTO - FINIRONO IN TRIBUNALE ANCHE I QUADRI DELLA COLLEZIONE DI CARMELO BENE E LE VILLE DI PAVAROTTI…
Francesco Persili per "Il Messaggero". Dynasty all'italiana. La battaglia sull'eredità di Oriana Fallaci è solo l'ultima puntata di una saga di contenziosi giudiziari e appetiti patrimoniali che ha visto dilaniarsi i rapporti all'interno delle grandi famiglie del capitalismo italiano e ha raccontato di lotte senza esclusioni di veleni per le grandi fortune di Guttuso, Carmelo Bene, Pavarotti. Più che la storia di un'eredità contesa, è la fotografia in chiaroscuro della più grande dinastia italiana, la guerra degli Agnelli che ha opposto la figlia Margherita alla madre, Marella Caracciolo, al resto della famiglia, e ad alcuni fra i più importanti avvocati e manager dell'Avvocato. Una disfida sul patrimonio che ha portato la mamma di John, Lapo e Ginevra Elkann a «sentirsi danneggiata dagli accordi ereditari con cui sono stati spartiti i beni del padre Gianni» e ad avviare, prima della pax, una battaglia legale che ha riguardato ville, società, quadri, proprietà e un presunto «tesoretto» di un miliardo di euro. Un altro conflitto che sa di maledizione è quello che ha visto protagonisti gli eredi Formenton e Mondadori sullo sfondo di quella partita di complessi equilibri e battaglie legali mai finite tra Berlusconi e De Benedetti che passerà alla storia come guerra di Segrate. Si trasforma in un feuilleton, invece, la contesa testamentaria sull'eredità di Renato Guttuso, che disvela una lunga controversia tra la musa del grande pittore siciliano, Marta Marzotto, e il figlio adottivo, Fabio Carapezza, designato dall'artista di Bagheria, in punto di morte, suo erede legittimo. La contessa viene accusata dalla magistratura di Varese di aver realizzato in concorso con lo stampatore, Paolo Paoli, e senza l'autorizzazione dell'erede legittimo dell'artista, settecento copie di opere che il pittore siciliano le aveva regalato negli anni del loro grande amore. Marzotto esibisce la fotocopia di una lettera autografa di Guttuso, datata «Roma 23 settembre 1986» con la quale l'artista la autorizzava a riprodurre le sue opere. La vicenda si trascina per anni, il giudice della corte di Appello dà ragione a Marzotto, inizialmente condannata, anche se Fabio Carapezza continua ad essere il solo titolare dell'eredità Guttuso. Un altro artista, la cui eredità diventa un caso giudiziario internazionale al punto da coinvolgere la magistratura italiana, quella francese, e quella del principato di Monaco, è Alberto Burri, il cui patrimonio viene conteso tra il fratello della vedova, la ballerina e coreografa americana, Minsa Craig, e la fondazione dedicata al maestro umbro. La controversia si è chiusa nel 2007 con un accordo che stabilisce che tutte le opere e i beni del maestro spettano alla Fondazione a lui intitolata mentre ai parenti di Minsa Craig sarebbe stata destinata la parte di patrimonio che aveva ereditato da Burri. Tre De Chirico, una tela di Dalì, un dipinto di Kandinskij, un disegno di Tirinnanzi nel quale Carmelo Bene amava specchiarsi, e altri oggetti d'arte sono le opere, invece, al centro del contenzioso tra Raffaella Baracchi, vedova dell'attore e madre della sua unica figlia Salomè, e l'ultima compagna di Bene, Luisa Viglietti, accusata di furto aggravato e continuato. Se il Tribunale civile di Roma ha definitivamente affermato che gli unici eredi dello scrittore Giorgio Bassani sono i figli Paola ed Enrico, rigettando l'impugnazione del testamento avanzata da Portia Prebys, l'insegnante americana che è stata la compagna del romanziere negli ultimi vent'anni di vita, l'eredità di Luciano Pavarotti ha detto della battaglia tra le figlie nate dal matrimonio con Adua Veroni e l'ultima moglie Nicoletta Mantovani. Il contenzioso si è risolto con l'assegnazione a Nicoletta degli immobili newyorchesi, mentre alle figlie restavano la villa di Pesaro, l'appartamento di Montecarlo e alcune proprietà italiane, oltre a una cospicua somma di denaro. Si è conclusa, invece, con una transazione la controversia, condotta a colpi di carte bollate, richieste di prova del Dna e bordate a mezzo stampa, sull'eredità del conte amateur Carlo Caracciolo, tra gli editori più importanti d'Italia, presidente del gruppo L'Espresso e fondatore del quotidiano La Repubblica. Carlo Edoardo e Margherita Revelli, che alla morte dell'editore avevano chiesto il riconoscimento di paternità per poter partecipare all'eredità, si sono visti assegnare parte dell'11,72% dell'Espresso, che alla morte di Caracciolo, era passato a Jacaranda Falck. Un compromesso che fa calare il sipario su una serie vicissitudini dinastiche ché tanto, poi, come scriveva Tolstoj, «le famiglie felici si somigliano tutte mentre ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Specie quando c'è di mezzo l'eredità.
Eredità, da Fallaci a Pavarotti: i contenziosi sulle grandi fortune, scrive Adnkronos. La guerra tra le figlie del tenore modenese e Nicoletta Mantovani; Marta Marzotto contro il figlio adottivo di Renato Guttuso, Fabio Carapezza. Aspra la contesa tra la vedova di Burri e la fondazione intestata all'artista. La battaglia legale sull'eredità di Oriana Fallaci, scomparsa nel 2006, è un ulteriore capitolo che si aggiunge alla storia dei contenziosi giudiziari che si aprono ogni volta che muore un grande personaggio. Da Pavarotti a Guttuso, da Burri a Bassani a Carmelo Bene, le guerre tra gli eredi hanno sempre riempito pagine di cronaca e aule di tribunali. L'ultima in ordine di tempo è quella che riguarda l'eredità di Luciano Pavarotti. Il tenore modenese è scomparso nel 2007, un anno dopo la Fallaci, ma nel caso di Big Luciano la battaglia si aprì subito tra le figlie della prima moglie e Nicoletta Mantovani. Nel testamento depositato dal notaio Luciano Buonanno, uno dei tre in circolazione, il tenore scriveva che il 50% del suo patrimonio sarebbe stato diviso tra le quattro figlie, il 25% sarebbe andato alla moglie e il restante 25 avrebbe rappresentato, invece, la 'disponibile', di cui il testatore poteva fare quello che riteneva opportuno. Il contenzioso tra Mantovani e le tre figlie del tenore, nate dal matrimonio con Adua Veroni, si sarebbe risolto un anno dopo con l'assegnazione a Nicoletta degli immobili newyorchesi, mentre alle figlie restava la villa di Pesaro, l'ambito appartamento di Montecarlo e alcune proprietà italiane, oltre a una cospicua somma di denaro liquidata loro da Nicoletta Mantovani. Un altro contenzioso giudiziario che ha fatto epoca è quello per l'eredità del grande pittore siciliano Renato Guttuso, scomparso il 18 gennaio 1987. La magistratura ha sempre dato ragione a Fabio Carapezza, l'allora giovane funzionario del ministero degli Interni che, Guttuso, gravemente malato e prostrato dall'improvvisa morte della moglie Mimise Dotti, aveva adottato nell'ottobre 1986 e, sul letto di morte, designato suo erede legittimo. Fu un'adozione lampo (tutto, dall'istanza alla sentenza, si svolse nel solo mese d'ottobre al Tribunale di Roma) dichiarata senz'ombre da altri giudici che hanno rigettato le denunce dei nipoti Dotti. All'epoca dell'adozione Carapezza aveva 32 anni. Quanto a Marta Marzotto, a lungo sua musa ispiratrice e amante, non ha mai dimenticato come fu emarginata da Palazzo del Grillo, casa-studio a Roma del pittore, nei giorni dell'agonia di Guttuso e della sua improvvisa conversione. Nel febbraio 2006 la Marzotto è stata accusata dalla magistratura di Varese di aver realizzato in concorso con lo stampatore, Paolo Paoli, senza l'autorizzazione dell'erede legittimo dell'artista, Fabio Carapezza Guttuso, 700 copie di opere che il pittore siciliano le aveva regalato negli anni del loro grande amore. E questo è solo l'ultimo processo della serie. Senza il consenso dell'erede di Guttuso, Marta Marzotto aveva fatto incollare sul retro delle opere una sorta di personale autentica. Si trattava della fotocopia di una lettera autografa di Guttuso, datata 'Roma 23 settembre 1986', con la quale l'artista autorizzava l'ex contessa a riprodurre le sue opere, in diversi materiali (carta, ceramica etc.) per lo scopo che lei avrebbe ritenuto opportuno. Peccato, però che, all'improvviso poche settimane dopo adottò Fabio e lo nominò suo erede, e che quella lettera non essendo stata autenticata da un notaio non aveva nessun valore legale. Il 16 aprile 2002 la Cassazione ha, infatti, confermato le pronunce del Tribunale e della Corte d'Appello di Milano: Fabio Carapezza Guttuso è il solo titolare dell'eredità Guttuso. Dal civile al penale: Fabio Carapezza Guttuso ha portato alle sbarre la ex contessa. "Ma niente di personale, in giro per l'Italia ci sono 40 processi contro chi ha riprodotto o contraffatto opere di Guttuso", dichiarò. Dopo la morte del pittore, il figlio adottivo ha fondato gli Archivi Guttuso, cui ha destinato lo studio di Piazza del Grillo, e ha integrato la collezione del museo di Bagheria. Ben più intricata la vicenda giudiziaria scatenatasi dopo la morte dell'artista umbro Alberto Burri, scomparso a Nizza nel 1995, che ha coinvolto le magistrature italiana, francese e quella del Principato di Monaco. Il contenzioso si è concluso nel 2007 con un accordo che stabilisce che tutte le opere e i beni del maestro spettano alla Fondazione a lui intitolata. Il patrimonio di Minsa Craig, vedova dell'artista, ballerina e coreografa americana, andrà invece al fratello Cecil e agli altri parenti. Ma la fortuna lasciata da Burri era stata contesa, in un primo momento, tra la vedova e la Fondazione dedicata al marito. Nel 2001 la tregua davanti al notaio: alla fondazione spettevano tutte le opere custodite nell'ex essicatoio del tabacco di Città di Castello, a palazzo Albizzini e nell'abitazione del maestro, mentre a Minsa Craig andavano il casale, i terreni, le ville in Francia incluso tutti i beni che vi erano custoditi e una cospiciua somma di denaro. A riaprire il contenzioso fu il fratello 85enne di Minsa, quando questa scomparve nel 2003. L'accordo raggiunto ha quindi rispettato quello precedente tra la fondazione e la vedova, destinando ai parenti di quest'ultima la parte di patrimonio che aveva ereditato dall'artista umbro. Risale al 2003, invece, la chiusura della battaglia giudiziaria per ereditare i beni lasciati dallo scrittore Giorgio Bassani, scomparso all'età di 84 anni il 13 aprile 2000. La quarta sezione del Tribunale civile di Roma, a marzo di quattro anni fa, ha definitivamente affermato che gli unici eredi dell'autore del capolavoro 'Il giardino dei Finzi Contini' sono Paola ed Enrico Bassani, rigettando l'impugnazione del testamento avanzata da Portia Prebys, l'insegnante americana che è stata la compagna del romanziere negli ultimi vent'anni di vita. A promuovere la causa civile era stata Portia Prebys, che aveva chiesto al Tribunale di diseredare i figli dello scrittore "per indegnità a succedere al padre". Questa richiesta era l'ennesimo atto di una battaglia legale tra i figli e la compagna del loro anziano padre. "Finalmente, ora, questa sentenza, dopo anni di aspra contesa, ha riconosciuto che i figli del professor Giorgio Bassani sono gli unici eredi, respingendo le pretese finora avanzate dalla sua ex convivente, e riconoscendo ai figli quel ruolo morale e affettivo che essi hanno sempre rivendicato con decisione e fierezza", aveva commentato in quell'occasione l'avvocato Alessandro Mete, legale di Paola ed Enrico Bassani. In base al testamento del romanziere, aperto a Roma a metà maggio del 2000 (depositato dal notaio Livio Colizzi presso l'Ufficio successioni del Tribunale civile di Roma), gli unici eredi sono Enrico e Paola Bassani, avuti dalla moglie Valeria Sinigallia, con il quale era separato di fatto. Quel testamento olografo, cioè scritto di pugno, fu steso dallo scrittore ferrarese il 13 luglio 1997. Questo atto notarile ha annullato il precedente testamento redatto nel 1991, nel quale era inclusa tra i beneficiati dall'eredità anche Portia Prebys. Il testamento del 1997 nomina eredi universali i due figli, i quali sono impegnati espressamente dal padre "a curare con sensibilità ed amore la pubblicazione e la diffusione delle mie opere". Prebys aveva chiesto dichiarare nullo questo testamento, ma il Tribunale civile, nel 2003, ha rigettato l'istanza. Tre De Chirico, una tela di Dalì, un dipinto di Kandinskij, un disegno di Tirinnanzi nel quale Carmelo Bene amava specchiarsi, e altri oggetti d'arte. Sono le opere al centro del contenzioso tra la vedova dell'attore e madre della sua unica figlia Salomè, Raffaella Baracchi, e l'ultima compagna di Bene, Luisa Viglietti, finito in tribunale con una denuncia per furto aggravato e continuato fatta dal pm Fabio Santoni ai danni di Viglietti. E Baracchi si è costituita parte civile. La vedova dell'attore, ex Miss Italia '83, che fece coppia con Bene, scomparso nel 2002, dal 1988 al 1992, ha sempre detto di volere tutelare la figlia che oggi ha 19 anni. Moglie e figlia avevano ottenuto l'eredità, pari a circa 3 milioni di euro, nel 2005, dopo che il Tribunale ha condannato la Fondazione 'L'Immemoriale di Carmelo Bene' a rinunciare ai beni che lo stesso attore e regista aveva assegnato alla Fondazione in due testamenti, redatti il 6 ottobre 2000 e il 21 giugno 2001. Bene infatti non aveva lasciato nulla alla moglie, mentre alla figlia Salomè aveva intestato la metà delle quote (l'altra metà come tutto il resto andava alla Fondazione) della società 'Nostra Signora' che gestisce i diritti d'autore e l'appartamento di via Aventina a Roma. All'ultima compagna, Luisa Viglietti, accusata di furto, Bene aveva lasciato il diritto di abitare una parte della casa rimasta a Salomè. Una vicenda intricata nella quale si innestano anche le rivendicazioni della sorella del regista, Maria Luisa Bene, che si è rivolta in Tribunale più volte chiedendo di far luce sulle circostanze della morte del fratello.
NEOREALISMO E MODA.
Il neorealismo di Dolce e Gabbana. «All’Italia del Dopoguerra ha dato un’immagine fortissima. Adesso invece c’è chi pensa che “troppo italiano” sia volgare. Che errore», scrive Paola Pollo su “Il Corriere della Sera”. «Siamo stilisti, non costumisti». Domenico Dolce e Stefano Gabbana mettono subito le cose in chiaro. Non sia mai che qualcuno fraintenda: tra loro e il cinema, anzi il cinema neorealista, è «solo» amore, passione, attrazione. Nonché fonte inesauribile di ispirazione. Così se a New York sono i supporter di «Costumes for Cinema from Tirelli Atelier», esposizione dei capi della sartoria romana creata per i più famosi film, al MoMi (Museum of Moving Arts) è solo perché, nella vita, ad un certo punto tutto torna. Ecco cosa. Inaugurazione, serata, premio (agli stilisti per il «Fashion Award»; a Baz Luhrman per il «Movie Award») e installazione «Nero Sicilia» (24 look uomo e donna dall’archivio).
«È che quando ci è stato chiesto di collaborare a questa iniziativa, per noi è stato come andare a nozze». Tirelli, cioè il Gattopardo: «Erano i primissimi anni e ci ispiravamo a quelle immagini. Ma eravamo giovani non sapevamo chi aveva fatto quegli abiti. Quando lo scoprimmo decidemmo di commissionare a Tirelli l’abito bianco della Cardinale. Volevamo capire se eravamo sulla strada giusta. E quando arrivò ci piaceva certo, ma era così rigido e pesante! Ecco la differenza fra lo stilista e il costumista, ci siamo detti».
Però è anche vero che il neorealismo ce lo avete nel sangue.
«Di più è il nostro mondo. La prima musa fu la Magnani, poi la Loren: mediterranee e formose, sempre le stesse donne».
Possibile che non siete mai stati tentati dagli abiti di scena?
«Ce l’hanno chiesto ma il lavoro del costumista è conoscere, veramente, la storia. Noi ne siamo solo incuriositi. Comunque anche quando lavoriamo con Tornatore e Scorsese per i nostri film chiariamo subito che agli abiti ci devono pensare loro perché la moda in quelle immagini non la vogliamo vedere».
Quindi in un film la moda non dovrebbe mai prendere il sopravvento sul resto?
«Assolutamente no».
Ma ci sono grandi film imprescindibili dalla moda…
«Come colazione da Tiffany, certo. Ma adesso non può essere più così».
Al successo di «Sex in the city» hanno contribuito anche abiti e scarpe.
«E hanno usato anche molti nostri capi, certo. Ma in quei filoni gli abiti durano cinque minuti, poi via un altro».
Facile raccontare ora di voi e il neorealismo, ma quando avete cominciato era a dir poco bizzarro che due poco più che ventenni guardassero a quel mondo.
«Le nostre prime due collezioni parlavano di super modernismo e trasformismo: un vestito poteva diventare tre abiti diversi. Ma fu un insuccesso commerciale: arrivavano i capi e non sapevano neppure come appenderli alle grucce e ci volevano le istruzioni per indossarli. Detto questo: il nero e la femminilità c’erano. Poi a Palermo vedemmo quella locandina con una donna nuda avvolta in uno scialle nero al balcone di un palazzo barocco! “Questo dobbiamo fare noi”, ci siamo detti. Era il 1986. Silvana Torregrossa, un’amica, ci disse che il fotografo era Ferdinando Scianna. E lì nacque tutto. Lo cercammo come pazzi, all’ultimo tentativo lui rispose, salvo scoprire che quella foto non era sua ma lui era l’uomo giusto».
Stefano Gabbana: «Io poi ero attratto da quel mondo che non conoscevo. Domenico invece mi diceva che ero pazzo a parlare di uncinetto e che lui era scappato da quelle cose e che aveva buttato via tutti i portaombrelli di ceramiche! Io adoravo. Milanese con genitori veneti, ero sempre stato infatuato dal Sud. Poi comunque mia nonna vestiva di nero e con il fazzoletto in testa. Quindi era un immagine che conoscevo». Domenico Dolce: «Al liceo mi ero iscritto ai cineforum e andavo a vedermi tutti i film dedicati a Visconti. Ricordo che mi era innamorato di Morte a Venezia. Ma a quell’età non è che sei attratto dall’estetica, non sapevo neanche che avrei fatto questo lavoro».
I film cult e gli abiti di conseguenza?
«“La terra trema”, con gli abiti sdruciti di Tony; “Rocco e i suoi fratelli” e le maglie di Delon, “Bellissima” con i tailleur e le sottovesti della Magnani, “Ossessione” e le canotte bianche di Massimo Girotti».
Il neorealismo oggi?
«Giuseppe Tornatore. Ma viviamo in un’epoca dove tutto è troppo ritoccato e dove ognuno vuole dire la sua. La presa diretta è impossibile. Il neorealismo rappresentava un Paese, che era l’Italia nel Dopoguerra, un’immagine fortissima. Adesso addirittura la gente pensa che il troppo italiano è volgare. Peccato perché non è così La «Grande bellezza? «Meraviglioso ma tristemente vero. E fa pure un po’ male: tutte quelle donne rifatte e ansiolitiche. E anche lui che perde il suo tempo in feste quando potrebbe scrivere. Lo specchio dei tempi: cioè la ciafferia. Ma non ci piace perché noi siamo romantici e sognatori e vogliamo che le donne siano belle e reali».
LA FUNZIONE DELLA TELEVISIONE.
Sabrina Misseri – condannata in primo grado all’ergastolo per l’omicidio della cugina quindicenne Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010 – deve rimanere in carcere e non può essere messa agli arresti domiciliari perchè ha «una personalità portatrice di accentuata pericolosità e propensione a delitti della specie» di quelli commessi. Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni depositate oggi e relative al «no» alla scarcerazione della Misseri deciso nell’udienza dello scorso 27 giugno 2014. Ad avviso della Suprema Corte - sentenza 34071 della Prima sezione penale – deve essere confermata la decisione del Tribunale di Taranto che lo scorso 18 febbraio aveva escluso che la Misseri potesse uscire dal carcere. Secondo gli ermellini, i giudici di merito hanno detto «no» alla scarcerazione con «argomenti esaurienti, in diritto corretti e non illogici in fatto, ancorati ai dati processuali e riferiti a condotte, allo stato positivamente accertate, costitutive di non uno, ma ben quattro delitti (sequestro di persona e omicidio, occultamento di cadavere e calunnia) e di una ritenuta costante e pervicace opera di depistaggio, inarrestabilmente proseguita anche dopo il delitto più grave, sino all’arresto». Correttamente, sottolinea la Cassazione, queste «condotte sono state ritenute tutte nel loro complesso indice di una personalità portatrice di accentuata pericolosità e propensione a delitti» come quelli già commessi. «In altri termini – prosegue la Suprema Corte – gli articolati riferimenti alla molteplicità ed estrema gravità dei fatti delittuosi commessi, alla propensione manifestata dalla Misseri ad ostacolare l’accertamento della verità, alle modalità odiose di consumazione dei delitti, all’inquietante atteggiamento tenuto nelle interrelazioni familiari e parentali, al movente futile e alla spregiudicatezza manifestata, correttamente e non illogicamente risultano complessivamente valorizzati per escludere sia l’insussistenza di esigenza cautelari sia la sussistenza di elementi specifici idonei a dimostrare positivamente che dette esigenze potevano essere soddisfatte con altre misure».
Una motivazione televisiva.
LA FUNZIONE DELLA TELEVISIONE, scritto da Solange Manfredi.
Al Qaeda, sventati piani attacchi in Francia, Germania e Gb
Niger: Francia attende richieste di al-Qaeda su ostaggi
Afghanistan/ Inglese rapita, i talebani vogliono Lady Al Qaeda
Islamabad: ucciso il capo di al Qaeda in Afghanistan e Pakistan
Donne kamikaze, Europa a rischio ''Al Qaeda punta a terrorizzarci''
Mali, due civili uccisi in raid Mauritania contro al Qaeda
Yemen, esercito libera la provincia di Shabwan da milizie di al-Qaeda
Niger: Kouchner, al Qaeda probabile responsabile rapimento francesi
Allarme negli Usa: Al Qaida cerca terroristi già residenti
Iraq: al Qaeda rivendica duplice attentato di domenica a Baghdad
Questi sono solo alcuni dei titoli comparsi in questa settimana sui principali quotidiani nazionali.
Il problema è che Al-Qaeda non esiste più almeno dal 2002. Proprio così. A dirlo non sono io, ma, come già evidenziato da un precedente articolo di Maurizio Blondet, il capo dei servizi segreti francesi davanti al senato: “Il 29 gennaio 2010 la Commissione Affari Esteri convoca Allain Chouet, già capo della DGSE (Direction Générale de la Sécurité Extérieure, il controspionaggio francese) per dare una sua valutazione sul «Medio Oriente nell’ora del nucleare». Ecco come esordisce monsieur Chouet: «Come molti miei colleghi professionisti nel mondo, ritengo, sulla base di informazioni serie e verificate, che Al Qaeda è morta sul piano operativo nelle tane di Tora Bora nel 2002….Sui circa 400 membri attivi dell’organizzazione che esisteva nel 2001, meno di una cinquantina di seconde scelte (a parte Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri che non hanno alcuna attitudine sul piano operativo) sono riusciti a scampare e a scomparire in zone remote, vivendo in condizioni precarie, e disponendo di mezzi di comunicazione rustici o incerti». «Non è con tale dispositivo che si può animare una rete coordinata di violenza politica su scala planetaria. Del reso appare chiaramente che nessuno dei terroristi autori degli attentati post-11 settembre (Londra, Madrid, Sharm el-Sheikm, Bali, Casablanca, Bombay, eccetera) ha avuto contatti con l’organizzazione. …..Tuttavia, si deve constatare che tutti, a forza d’invocarla ad ogni occasione e spesso fuori proposito, appena un atto di violenza è commesso da un musulmano, o quando un musulmano si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato, o anche quando non ci sono musulmani affatto (come negli attentati all’antrace in USA), a forza d’invocarla di continuo, certi media o presunti “esperti” di qua e di là dell’Atlantico, hanno finito non già di resuscitarla, ma di trasformarla come quell’Amedeo del commediografo Eugene Ionesco, quel morto il cui cadavere continua a crescere e a occultare la realtà, e di cui non si sa come sbarazzarsi». Dunque Al Qaeda non esiste più sin dal 2002. Eppure i nostri media, i nostri governi, se non ogni giorno, sicuramente ogni settimana ci ripropongono questo nemico inesistente. Perché? La risposta è semplice: perché siamo gli obiettivi di una guerra psicologica e, in questo caso, la tecnica utilizzata si chiama “MECCANISMO DELLA RIPETIZIONE” (si ripetere un fatto non vero così spesso da farlo diventare reale). La Guerra psicologica consiste nell'uso pianificato di operazioni psicologiche allo scopo principale di influenzare opinioni, emozioni, atteggiamenti e comportamento delle masse. Condizione necessaria perché le operazioni di guerra psicologica possano aver successo è quella di creare nella “popolazione obiettivo” frustrazione insicurezza e paura. Queste condizioni, infatti, riducono l'uomo ad uno stato di sottomissione in cui le sue capacità di ragionamento sono annebbiate e in cui il suo responso emotivo a vari stimoli e situazioni diventa non solo prevedibile ma “sagomabile”.
Per creare frustrazione, insicurezza e paura si devono creare all’interno del paese le seguenti condizioni:
Inflazione
tassazione non equa
concussione e corruzione
scarsezza di uomini nelle forze dell’ordine
appoggiare forme di sanzione o altro
scarsezza di necessità primarie come di abitazioni e altro
fomentare l'intolleranza razziale e religiosa
disunità politica e mancanza di fiducia nei capi
mancanza di risorse che possono sostenere l'economia
azioni di terrorismo e di violazione dei diritti umani
Create queste condizioni l’operatore di guerra psicologica può iniziare il suo lavoro.
I mezzi primari di manipolazione mentale sono la scuola, televisione e l’industria dell’intrattenimento (altri sono la droga, l’alcool, gli psicofarmaci e l’alimentazione).
Della scuola abbiamo già parlato in un precedente articolo sottolineando come questa operi per:
Insegnare lo stretto necessario perché la popolazione possa essere produttiva nei termini e nei modi voluti dal potere;
imporre sistemi d’istruzione che sono volti a uniformare e conformare la popolazione evitando accuratamente di insegnare le materie che sviluppino la capacità di ragionamento (dialettica, retorica, logica, ecc.), ovvero quelle materie che sviluppano il pensiero critico, autonomo;
instillare nei giovani quei preconcetti, pregiudizi e stereotipi su cui poi conformeranno tutte le loro esperienze.
La funzione esercitata dalla scuola, che ha il vantaggio di poter agire sui bambini e giovani, maggiormente ricettivi all’instillazione di pregiudizi e stereotipi, è importantissima dal momento che l’operatore di guerra psicologica, per poter operare con successo, deve poter contare su una popolazione che risponde a determinate sollecitazioni, ovvero per poter manipolare deve conoscere il modello di comportamento della popolazione, i modi di comunicazione, le motivazioni poste alla base del loro agire. Preparato il terreno dalla scuola, arriva la manipolazione attraverso i media. Strumento fondamentale di guerra psicologica dal momento che la nostra mente, tendenzialmente pigra, è attratta da tutto ciò che non richiede lo sforzo di pensare. Oltre a ciò è mediamente consapevole di di 200 bits di informazioni su 400 miliardi che il cervello elabora in un secondo. Ovvero siamo consapevoli di mezzo miliardesimo di ciò che avviene nel nostro cervello. Tutto il resto ci condiziona senza che ce ne accorgiamo.
Le principali tecniche di manipolazione attraverso i media sono:
creare un messaggio credibile
usare il linguaggio giusto
creare un ampio numero di fonti di informazione
creare “opinion leader”
attivare il meccanismo della ripetizione
operare debunking.
Vediamole nel dettaglio
CREARE UN MESSAGGIO CREDIBILE. L’operatore di guerra psicologica che,
come abbiamo detto, conosce gli schemi su cui si muove la popolazione, deve
creare messaggi credibili. Attenzione il messaggio deve essere credibile, non
vero. Anzi, spesso, la verità toglie credibilità al messaggio. Le menzogne sono
più attraenti della verità perché fanno leva sulle nostre speranze, sui nostri
pregiudizi, ecc... La verità, invece, ha la sconcertante abitudine di metterci
davanti all’imprevisto, a ciò a cui non eravamo preparati e che, tendenzialmente
quindi, rifiutiamo. L’operatore di guerra psicologica, che sa perfettamente che
la maggior parte del pubblico non è alla ricerca della verità, ma di ciò che le
permette di non uscire dagli schemi psichici indotti, su queste basi manipola la
realtà. Facciamo un esempio. La sera del 10 aprile 1991 140 persone morirono
bruciate sul Moby Prince davanti al porto di Livorno. Se domandi a qualcuno cosa
causò la tragedia ancora oggi ti senti rispondere: c’era una fitta nebbia,
l’equipaggio, davanti alla televisione a vedere la semifinale di Coppa delle
coppe Juventus Barcellona, e non si è accorto della petroliera Agip Abruzzi
entrando con questa in collisione. Tutto ciò è falso. Dagli atti e documenti
processuali è emerso che:
- quella sera la visibilità era perfetta, nessuna nebbia né prima, né durante né subito dopo la collisione (come dimostrano foto, e video amatoriali, uno dei quali trasmesso anche dal TG1);
- nessuno dell’equipaggio stava guardando la partita (nella cabina di comando non vi erano televisori);
- l’impatto non è stato improvviso. Tutti i passeggeri erano nel salone De Lux (stanza provvista di porte tagliafuoco) con bagagli e giubbotti di salvataggio. Questo significa che erano stati richiamati dalle cabine presso cui si trovavano, alcuni stavano mettendo a letto i bambini visto che tutto è successo dopo le dieci di sera, invitati a rifare i bagagli, indossare i giubbotti e radunarsi nel salone, là dove sono stati trovati. Nessuno dei corpi presentava traumi.
Difficile conciliare tutto ciò con un impatto improvviso causato dalla negligenza dal personale che guardava la partita, ma nella memoria collettiva è rimasto quella notizia: la tragedia è avvenuta perché l’equipaggio guardava la partita di calcio. Perché? Perché il messaggio selezionato dall’operatore era assolutamente credibile, mezza Italia si ferma davanti ad una semifinale di Coppa delle Coppe.
USARE IL LINGUAGGIO GIUSTO. Come abbiamo accennato l'uomo vede il mondo in termini di precedenti esperienze, pregiudizi e stereotipi. Oltre a ciò, avendo una mente tendenzialmente pigra è attratto da tutto ciò che gli permette di ridurre problemi complessi in formule semplicistiche (tecnica che serve anche a costruire ed alimentare a dismisura il nostro ego facendoci credere di essere intelligentissimi e di aver capito tutto). L'operatore di guerra psicologica risponde a questa esigenza usando le parole. Gli stereotipi sono parole o frasi così intimamente associate ad idee o credenze comunemente accettate da essere di per se stesse convincenti senza bisogno della ragione o dell’apporto dell’informazione. Esse fanno appello a quelle emozioni quali l’amore per la patria, il desiderio di libertà, ecc.. Ovvero si accettano senza sottoporle ad un ragionamento operando su di esse un transfert. Proprio per questo gli stereotipi sono lasciati volutamente vaghi, affinché l’uditore possa interpretarli in maniera personale. Anche in questo caso facciamo un esempio. I nostri telegiornali, parlandoci del conflitto in Iraq usano il termine "guerra di liberazione", in realtà si tratta di una guerra di aggressione preventiva, illegale e criminale secondo il diritto internazionale. Le truppe dei paesi invasori al telegiornale diventano “truppe alleate”, mentre i combattenti iracheni vengono definiti "fedelissimi di Saddam", per condizionare i telespettatori e far pensare che siano uomini che combattono per difendere un criminale, non il loro paese.
CREARE AMPIO NUMERO DI FONTI DI INFORMAZIONE. L'uditorio non deve avere la sensazione di essere controllato. L’operatore di guerra psicologica crea, quindi, un ampio numero di fonti d’informazione, i cui messaggi devono essere leggermente diversi, ma condizionare tutti allo stesso modo, così da dare la sensazione all’obiettivo di stare scegliendo di propria volontà tra diverse opzioni e programmi (basti pensare ai telegiornali, non solo danno le stesse notizie, ma, spesso, hanno anche la stessa scaletta).
CREARE "OPINION LEADERS". L’operatore di guerra psicologica sa perfettamente che gli “opinion leaders”, hanno il potere di influire sull’opinione pubblica quanto le personalità politiche ed allora li crea. Sono quelle persone che compaiono in tutte le trasmissioni televisive e la cui fama viene costruita dai media. Vengono presentati come esperti del settore, opinionisti, ma difficile per il telespettatore dire se l’opinionista sia diventato esperto del settore perché è comparso in televisione o sia comparso in televisione perché realmente era un esperto del settore.
ATTIVARE IL MECCANISMO DELLA RIPETIZIONE. Creata la realtà voluta l’operatore di guerra psicologica deve attivare il meccanismo della ripetizione, ovvero deve ripetere un fatto non vero così spesso da farlo diventare reale, come nel succitato caso di Al Quaeda.
OPERARE DUBUNKING. Il debunking è una forma di manipolazione che consiste nello smontare e confutare teorie ed informazioni che vanno contro l’informazione (leggi manipolazione) ufficiale, ovvero la c.d. controinformazione. L’opera del debunker è di fondamentale importanza per la guerra psicologica, egli opera con messaggi semplici, prevalentemente diretti a livello emotivo con ganci diretti all’inconscio, ovvero a quei pregiudizi e stereotipi inculcati sin dai tempi della scuola e rinforzati quotidianamente dai media. Normalmente il messaggio teso a screditare la fonte di controinformazione del debunking si apre con un attacco sul piano personale, ovvero etichettando la persona con insinuazioni varie. Le principali etichette sono: bugiardo, paranoico, complottista, affetto da delirio di persecuzione, mitomane in cerca di pubblicità, Euroscettico, conservatore, nazionalista, xenofobo, razzista, fascista, sionista, antisemita, fondamentalista, comunista, ecc.. Tali parole (etichette) hanno la capacità, inserendosi in automatismi creati sin dalla scuola, di “impermeabilizzare” la nostra mente , ovvero neutralizzare a priori ogni possibile apporto ad un pensiero diverso. Queste sono le principali tecniche di manipolazione mentale. Ora che si conoscono le tecniche ci si può difendere. Come? Ad esempio:
- quando i media trasmettono notizie come quelle su Al-Quaeda ci si deve domandare cosa vogliono ottenere terrorizzando la popolazione. Vogliono far passare leggi che elidano ancora di più i diritti fondamentali dei cittadini? Si tratta di un “falso bersaglio”, ovvero desiderano attirare l’attenzione della massa su un fronte per operare indisturbati su un altro?
- Quando una persona in un dibattito non confuta i fatti ma si affida a frasi generiche e banali con ganci chiaramente emotivi si deve cambiare canale ed approfondire personalmente la questione. Stessa cosa si deve fare tutte le volte che qualcuno, invece di contestare nel merito un’affermazione, attacca sul piano personale etichettando l’interlocutore allo scopo di delegittimarlo;
- si deve analizzare sempre il contenuto di ciò che viene detto, ovvero verificare se si tratta solo di forma (parole inutili e stereotipi) o vi è anche sostanza, ecc…
Gli esempi potrebbero essere infiniti ma tutto si riduce, in fondo, ad una sola cosa: ci dobbiamo riappropriare della capacità di pensare.
Proprio a ridosso dell'articolo di Solange sulla funzione della televisione, ci viene dato un esempio plateale di come questo strumento serva a prendere in giro i cittadini, veicolando false notizie e manipolando la realtà, scrive Paolo Franceschetti. Da giorni molti mi hanno scritto, anche su questo blog o privatamente, chiedendomi perché non scrivevo un articolo su Sarah Scazzi. La risposta è semplice. Non so nulla di questa vicenda. Non potevo scrivere nulla, perché le mie idee me le facevo solo - come tutti - leggendo i giornali. L'unica cosa che mi era chiara è che eravamo davanti all'ennesima presa in giro perpetrata dai media ai danni delle persone normali. Anche semplicemente leggendo le notizie ufficiali era possibile rilevare queste anomalie.
Primo. In Italia scompaiono circa 1000 persone all'anno. Nel 2009 erano 1033, secondo le stime ufficiali della Polizia di Stato. Difficile capire come e perché i media avessero scelto di occuparsi solo ed esclusivamente di Sarah. Abbiamo detto molte volte che quando di un fatto se ne occupa ossessivamente la TV, vuol dire che dietro c'è molto altro, rispetto a quello che dicono.
Secondo. L'altra anomalia è che la famiglia Scazzi sceglie come difensore l'avvocato Walter Biscotti, già difensore di Rudy Guede nel processo Meredith, e coinvolto anche nel caso Marrazzo. L'avvocato risiede a Perugia. C'è da domandarsi come ha fatto la famiglia a scegliere un difensore che risiede a centinaia di chilometri, e con che criterio. Inoltre, nella fase di ricerca di una persona scomparsa, il difensore è assolutamente inutile, non essendoci procedimenti né civili né penali da affidare al legale. Guarda caso poi, il legale in questione non solo trova il tempo di recarsi personalmente ad Avetrana, ma ha anche la fortuna di trovarsi alla trasmissione "Chi l'ha visto" proprio quando in diretta mandano la notizia del ritrovamento del cadavere.
Terzo. Nella trasmissione Porta a porta, del 4 ottobre (quindi precedente al ritrovamento del cadavere), Bruno Vespa incalzava la moglie di Michele Misseri e la madre di Sarah domandando loro "ma voi credete a quest'uomo? pensate che menta?". Vespa parlava come se già sapesse chi sarebbe stato il futuro assassino, anche quando non esisteva l'ombra di un sospetto.
Il culmine del baraccone mediatico però arriva con la trasmissione Chi l'ha visto, dove, per "coincidenza", viene data in diretta la notizia del ritrovamento del cadavere. Dopodiché, ancora un'immancabile puntata di Porta a porta, con gli immancabili esperti, sempre gli stessi: Roberta Bruzzone, Paolo Crepet, Francesco Bruno (intervistato dai giornali), come se in Italia esistessero solo loro. A chiunque abbia un minimo di capacità di osservazione, risulta chiara una cosa. Che il caso di Sarah Scazzi è un'immensa presa in giro, concordata in anticipo ed eterodiretta dall'alto. Un immenso rito mediatico. L'ennesimo, ove tutto era calcolato fin dall'inizio. Aveva ragione Pasolini: niente di più feroce della banalissima televisione.
SI CENSURA, MA NON SI DICE.
Non fu la resistenza a liberare l'Italia ma solo gli alleati. Gli elementi dominanti della Resistenza, quelli comunisti, lottavano per l'Unione sovietica. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull'Italia, scrive Nicholas Farrell su “Il Giornale”. Quando guardo in streaming le facce nobili dei vecchi uomini inglesi e americani e del Commonwealth che hanno partecipato all'invasione della Francia nel 1944 e che ora sono tornati alle spiagge della Normandia per commemorare il 70° anniversario del «Longest Day», e poi, quando ascolto le loro parole piango - sorridendo. Sono da onorare perché sono uomini in perfetta sintonia con la regola antica della vita, cioè: per meritare l'onore, un uomo deve dimostrare prima l'umiltà e poi la virtù. E loro, questi uomini che ormai hanno compiuto i 90 anni - e tutti i loro compagni caduti in nome della libertà - ce l'hanno fatta. Poi, però, penso alla liberazione di Roma dagli stessi anglo-americani, accaduta due giorni prima del D-Day - il 4 giugno 1944 - e mi incazzo. Per parecchi motivi. In anzitutto, mi incazzo perché sono inglese ma in Italia si commemora la liberazione d'Italia ogni 25 aprile come se fosse un lavoro compiuto da partigiani e basta. E mi sento offeso che a Forlì in Romagna dove abito la strada che porta ad uno dei due cimiteri degli alleati nella città si chiama Via dei Partigiani. E mi sento offeso che quando si parla di alleati in discorsi o sui giornali, si fa riferimento solo agli «americani». In quei due cimiteri di Forlì giacciono i resti mortali di 1.234 soldati dell'Ottava Armata Britannica. Così tanti morti, solo a Forlì. Ma vi rendete conto? Non è ora - dopo 70 anni - di affrontare una semplice verità? Eccola: la Resistenza in Italia era completamente irrilevante dal punto di vista militare. In ogni caso, nell'estate del 1944 non esisteva una Resistenza in Italia. Dopo, invece - dall'autunno del 1944 in poi - che cosa di concreto ha portato questa Resistenza? Peggio. Secondo la storiografia la Resistenza lottava per la patria, la libertà e la democrazia. Non è vero. I suoi elementi comunisti (quelli dominanti) lottavano per l'Unione sovietica, la dittatura e il comunismo. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull'Italia. Voleva a tutti costi fermare le forze comuniste nei Balcani e in Austria. Roosevelt no, invece, e ha prevalso il Presidente americano. Perciò, gli alleati, che avevano invaso l'Italia nel 1943, non ebbero le forze necessarie in Italia per liberarla fino all'aprile 1945. Si dice: solo grazie alla Ue ci sono stati 70 anni di pace in Europa. Non è vero. C'è stata pace in Europa solo grazie agli anglo-americani e al piano Marshall. Oggi, la Ue e la sua moneta unica rappresentano la più grave minaccia alla pace in Europa.
Di questo oscurantismo la tv di Stato ne è molto responsabile, ma guai a toccarla. Santoro confessa: "Sono un vecchio comunista", scrive “Libero quotidiano”. Il teletribuno: "Giusto lo sciopero in Rai, ma la tv pubblica è vecchia e tre tg sono troppi". Lo sciopero Rai? Se lui lavorasse ancora nella tv pubblica vi aderirebbe, "perchè sono un vecchio comunista e se il mio sindacato me lo chiede io non faccio il crumiro". Esordisce così, Michele Santoro, nell'intervista concessa oggi a Repubblica e nella quale affronta lo spinoso tema della televisione pubblica, alle prese col taglio da 150 milioni imposto da Renzi. una mossa che il teletribuno applaude nei fini ma non nei contenuti: "Tagliare di botto 150 milioni significa imporre tagli lineari, costringere l'azienda a ridimensionare il prodotto. Ma Renzi, che ha nell'intuito la sua più grande dote, ha capito che la Rai è l'ultima sopravvissuta del vecchio sistema politico e i tagli sono un modo per destabilizzare tutto. Nel senso che Grillo si è messo a difendere lo sciopero passando così come l'alfiere del passato, col "vecchio" Pd e Forza Italia che hanno fatto alleanza mentre lui li osserva dall'altra parte. Un capolavoro politico". Santoro ricorda i suoi esordi in viale Mazzini nel lontano 1987, "quando ero la voce della piazza mentre ora rischio anch'io di passare per istituzionale perchè la tv generalista, non solo la Rai, è in crisi profonda per una mancanza di reale concorrenza tra i due grandi poli che ha abbattuto la qualità di ciò che viene trasmesso. Basti guardare le fiction: parlano di preti, di carabinieri, di buoni sentimenti. Non c'è il futuro, non c'è modernità, capacità di innovare". Poi c'è la questione della "lottizzazione" e dei tre tg nazionali: "Un sistema vecchio, figlio di quando c'erano le grandi ideologie a contendersi il Paese. Ma oggi non c'è una domanda di pubblico che giustifiche tre grandi redazioni". Con un occhio al suo futuro professionale, con voci che ogni anno lo vedono verso un rientro in Rai, Santoro definisce invece demagogia chiedere che le star del piccolo schermo, da Vespa a Floris a Fazio si taglino lo stipendio: "Se non hai Maradona, lo stadio non lo riempi, così senza Celentano non fai audience". E il futuro di viale Mazzini? "un canale finanziato col canone che faccia tutto quello che il mercato non fa: niente reality, grande informazione, innovazione. E due canali aperti ai privati".
Quando Santoro e De Gregorio erano colleghi al quotidiano comunista. Dopo la parentesi in un gruppo maoista, il teletribuno lavorò a "La Voce della Campania". E tra i collaboratori c'era il nuovo idolo della sinistra, scrive “Libero Quotidiano”. Dopo Massimo Ciancimino, la sinistra manettara, santoriana e travaglina ha un nuovo totem: Sergio De Gregorio. L'ex senatore dell'Idv è il testimone chiave dell'inchiesta napoletana sulla compravendita di onorevoli, per le toghe orchestrata da Silvio Berlusconi, che tra il 2007 e il 2008 avrebbe fatto cadere il governo Prodi. Roba tosta, insomma, roba in grado di trasformare De Gregorio in superstar della prima puntata della nuova stagione di Servizio Pubblico, la trasmissione di Michele Santoro a cui partecipa Marco Travaglio e dalle cui labbra pende tutta la sinistra manettara. Il terzetto si ricompone, insomma, e con De Gregorio si trasforma in quartetto. In questo quartetto, però, c'è un legame che affonda le sue radici più in là nel tempo. E' quello tra il teletribuno Michele e l'ex "traditore" De Gregorio, fino a qualche mese fa liquidato nel migliore dei casi come "maneggione" e oggi, invece, asso nella manica nella guerra contro il Cavaliere. Già, perché i due sono ex colleghi. Entrambi campani - Santoro classe 1951, De Gregorio 1960 -, il primo giornalista e il secondo, invece, ex giornalista, avevano iniziato le loro attività da cronisti nel quotidiano comunista La voce della Campania tra la fine degli anni '70 e gli inizi degli anni '80. Una conoscenza, la loro, nata tra le scrivanie della redazione di un quotidiano comunista: nessuna sorpresa per Santoro, un po' di stupore in più, invece, per De Gregorio (ex socialista ed ex valorista). Che Santoro abbia lavorato a La Voce della Campania non è certo un mistero: la sua parentesi al quotidiano rosso iniziò dopo quella con il periodico Servire il popolo, edito dal gruppo maoista Unione Comunisti Italiani in cui militò fino alla sua chiusura, nel 1975. De Gregorio collaborò con La voce della Campania proprio nella seconda metà degli anni '70: negli anni successivi, dopo l'ingresso in politica, promosse il ritorno in edicola della testata. Il nuovo idolo della sinistra, insomma, il senatore De Gregorio (lo stesso che, ha denunciato Maurizio Belpietro, "mi propose di pagare la Camorra"), consosceva Santoro da anni, dai tempi della militanza comunista. Una carriera iniziata insieme, quella di Michele e Sergio, che a distanza di quasi 40 anni si sono ritrovati sul piccolo schermo, a La7, per spalare fango contro Berlusconi.
La Rai "censura" il giornalista e le sue scomode verità sulla Sardegna. La Rai intervista Anthony W. Muroni (direttore dell'Unione Sarda) e dopo decide per la "censura", non mandando in onda il suo intervento. Poi la retromarcia: ecco la denuncia. Prima l'hanno chiamato per un'intervista sulla tragedia della Sardegna e poi gli hanno riferito che non sarebbe mai andata in onda, con un commento secco: "Meglio non parlare di queste cose". E lui, Anthony W. Muroni, direttore dell'Unione Sarda, ha denunciato la "censura" della Rai sulla sua pagina Facebook. Nell'intervento registrato per il Tg2, riferisce lo stesso Muroni, il giornalista aveva invitato ad interrogarsi sul "perché i ponti crollano, sul perché i cantieri per la messa in sicurezza dei fiumi si bloccano per anni a causa di contenziosi tra Comuni e imprese appaltatrici". Ecco la sua denuncia su Facebook: Mezz'ora fa ho registrato un intervento per il Tg2, nel quale ripetevo i concetti già espressi a Uno Mattina: serve solidarietà, servono interventi, servono aiuti, serve combattere l'emergenza, Ma serve anche interrogarsi sul perché i ponti crollano, sul perché i cantieri per la messa in sicurezza dei fiumi si bloccano per anni a causa di contenziosi tra Comuni e imprese appaltatrici. Ho detto anche: va bene la solidarietà del governo e gli stanziamenti, ma forse dovrebbero rendersi conto che c'è un intero sistema che non funziona. E che in Sardegna, dieci anni dopo Capoterra, stiamo ancora parlando delle stesse cose. Mi ha appena chiamato una collega della Rai: l'intervista non verrà mandata in onda: "Meglio non parlare di queste cose". Tanti saluti. Poi è arrivata la retromarcia, dopo che la notizia aveva fatto il giro dei social network. Come scrive su Twitter lo stesso Muroni, l'intervista, dopo un equivoco, andrà in onda questa sera: "Mi ha chiamato Rocco Tolfa, vicedirettore Tg2: c'è stato equivoco. Intervista in onda alle 20.30".
Censura in Italia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'Italia è ad uno dei livelli più bassi per quanto concerne la libertà di stampa in Europa. Un'analisi effettuata da Freedom House classifica l'Italia come "parzialmente libera", uno dei soli due paesi dell'Europa Occidentale (il secondo è la Turchia), relegandola dietro anche a diversi paesi comunisti dell'Europa Orientale. A livello mondiale, Reporter Senza Frontiere classifica l'Italia al 57º posto per la libertà di stampa. La censura viene applicata tanto sulla televisione quanto sugli altri mezzi di informazione e di stampa.
Storia della censura in Italia. Nel periodo che segue il Congresso di Vienna (1814-1815), in territorio italiano era in atto un incisivo controllo sulla stampa da parte delle monarchie. Nelle capitali dei vari staterelli, e nei centri urbani più importanti, in genere usciva solo un foglio ufficiale della monarchia, generalmente intitolato Gazzetta, che serviva per la pubblicazione delle leggi e di una cronaca attentamente selezionata. Oltre a questi tuttavia erano presenti dei periodici letterari e culturali, dove potevano essere espresse nuove idee. Nel 1816, su iniziativa degli austriaci, a Milano fu fondato un mensile letterario intitolato Biblioteca Italiana, in cui vengono invitati a collaborare (non sempre con successo) oltre 400 fra intellettuali e letterati di tutta Italia. A questa rivista faceva da contraltare Il Conciliatore, periodico statistico-letterario vicino alle idee romantiche di Madame de Staël, che continuerà ad uscire fino al 1819, quando sarà costretto alla chiusura. La situazione del giornalismo italiano comincia a cambiare con la nascita di numerosi fogli clandestini, stampati dai nuclei carbonari e dai movimenti rivoluzionari sotterranei, che porteranno ai moti del 1820-1821. Uno dei giornali più noti di questo periodo è L'Illuminismo, pubblicato nelle Legazioni pontificie nel 1820, ma abbiamo anche La Minerva di Napoli e La Sentinella subalpina di Torino. Nello stesso periodo, anche negli ambienti liberali italiani ci fu un certo attivismo giornalistico. Risalgono a quegli anni infatti Antologia, giornale di scienze, lettere e arti, nato a Firenze nel 1821, i genovesi Corriere mercantile del 1824 e L'Indicatore genovese, cui collaborò anche il giovane Giuseppe Mazzini. Nel 1847 e nel 1848 furono promulgati gli editti di Pio IX e di Carlo Alberto, relativi alla libertà di stampa. La prima legge che introduceva un vero e proprio intervento censorio è quella relativa alle proiezioni cinematografiche e risale al 1913. Con questa legge si impediva la rappresentazione di spettacoli osceni o impressionanti o contrari alla decenza, al decoro, all'ordine pubblico, al prestigio delle istituzioni e delle autorità. Il successivo regolamento, emanato nel 1914, elencava una lunga serie di divieti e trasferiva il potere di intervento dalle autorità locali di pubblica sicurezza al Ministero dell'Interno. Nel 1920 con un Regio Decreto fu istituita una commissione, che fra le altre cose aveva il compito di visionare preventivamente il copione del film prima dell'inizio delle riprese. La censura fascista in Italia, consistente nella forte limitazione della libertà di stampa, radiodiffusione, assemblea e della semplice libertà di espressione in pubblico, durante il ventennio (1922-1944), non fu creata dal regime fascista, e non terminò con la fine di questo.
I principali scopi di questa attività erano:
Controllo sull'immagine pubblica del regime.
Controllo costante dell'opinione pubblica come strumento di misurazione del consenso.
Creazione di archivi nazionali e locali (schedatura) nei quali ogni cittadino veniva catalogato e classificato a seconda delle sue idee, le sue abitudini, le sue relazioni d'amicizia e sessuali, costituendo così di fatto uno stato di polizia.
La censura fascista combatteva ogni contenuto ideologico alieno al fascismo o disfattista dell'immagine nazionale. La censura nel settore dei media veniva posta in atto dal Ministero della Cultura Popolare (Min.Cul.Pop.), che aveva competenza su tutti i contenuti che potessero apparire in giornali, radio, letteratura, teatro, cinema, ed in genere qualsiasi altra forma di comunicazione o arte. Nel 1930 fu proibita la distribuzione di libri con contenuti di ideologia marxista o simili. Questi libri dovevano essere raccolti, presso le biblioteche pubbliche, in sezioni speciali non aperte al vasto pubblico. Per avere accesso a questi testi bisognava ottenere una autorizzazione governativa, che veniva concessa dietro alla manifestazione di validi e chiari propositi scientifici o culturali. Grandi falò di libri si verificarono sin dal 1938: le opere contenenti temi sulla cultura ebraica, la massoneria, l'ideologia comunista, vennero rimosse dagli occulti scaffali di biblioteche e librerie. Per poter evitare i sequestri e le conseguenze delle ispezioni fatte dalla polizia fascista, molti bibliotecari nascosero le opere incriminate, ed in effetti in molti casi queste vennero ritrovate alla fine della guerra. Un episodio recente di censura è stata la cancellazione di una puntata della trasmissione televisiva Le Iene che avrebbe dovuto mandare in onda un test sull'uso della droga all'interno del Parlamento Italiano. Come per tutto il resto dei sistemi di informazione italiani, l'industria della televisione italiana è considerata, sia da fonti interne che esterne al paese, ampiamente politicizzata. Riprendendo un sondaggio effettuato nel dicembre del 2008, solo il 24% degli italiani crede ai programmi informativi televisivi, in netto svantaggio ad esempio con il dato della Gran Bretagna che è al 38%, facendo dell'Italia uno degli unici tre paesi esaminati dove le risorse online informative sono ritenute più affidabili di quelle televisive. Spesso in Italia i cartoni animati e gli anime vengono tagliati o modificati per evitare scene di violenza o di sesso. Uno degli esempi più eclatanti è sicuramente Naruto. L'8 dicembre 2008, la rete televisiva Rai 2 ha diffuso una versione censurata del film I segreti di Brokeback Mountain nella quale due scene sono state tagliate (la scena dove è rievocata la prima relazione sessuale tra i due eroi e la scena dove si abbracciano). La censura ha suscitato le proteste dei telespettatori e delle associazioni omosessuali. Nel 2009 la RAI e Mediaset si sono rifiutate di mandare in onda il trailer promozionale di Videocracy, un'analisi del potere della televisione e di come essa influenzi comportamenti e scelte della popolazione italiana, di come essa sia entrata nella vita quotidiana come principale fonte di informazione per la quasi totalità delle persone, a causa di motivi, rispettivamente per RAI e Mediaset, politici e di opportunità. Nel 2010 in concomitanza con le elezioni regionali, erano stati sospesi i talk show informativi dell'intero panorama televisivo italiano, su ordinanza dell'Agcom, poi abrogata dal TAR del Lazio con sentenza del 12 marzo 2010. In realtà poi rimasero sospesi alcuni talk show RAI, inclusi Porta a Porta, Ballarò e Anno Zero, come precedentemente sancito dal Consiglio di Amministrazione e poi ribadito dalla Commissione Vigilanza della RAI, in ottemperanza al previgente ordinamento Agcom. Nel 2009 la televisione di stato RAI tagliò i fondi per l'assistenza legale al programma televisivo d'inchiesta giornalistica Report (messo in onda da Rai 3). Il programma si è sempre interessato di questioni molto sensibili, esponendo spesso i giornalisti ad azioni legali (esempio fra tutti l'autorizzazione alla costruzione di edifici che non rispondevano a specifiche tecniche di resistenza ai terremoti, casi di eccessiva e mala burocrazia, i lunghi tempi della giustizia italiana, prostituzione, scandali di malasanità, casi di banchieri falliti che segretamente possedevano dipinti e opere d'arte di altissimo valore, cattiva gestione dei rifiuti tossici e di diossina, casi di cancro causati dalle schermature antincendio in amianto (Eternit) e casi di inquinamento ambientale causati da centrali elettriche a carbone (Taranto). Un accumulo di cause pendenti contro i giornalisti in assenza di fondi per la loro gestione potrebbe portare il programma ad una fine. Prima del 2004, nel rapporto dell'organizzazione americana Freedom House sulla libertà di stampa, l'Italia era sempre stata considerata "libera". Nel 2004 fu declassata a “Parzialmente Libera” a causa dei '”'20 anni di fallita amministrazione politica”, la “controversa Legge Gasparri del 2003” e soprattutto per tutte le “possibilità del primo ministro di influenzare la RAI (radiotelevisione italiana di stato), uno dei più lampanti conflitti d'interesse al mondo” (citazione del rapporto). Lo status del resoconto risalì al grado libero dal 2007 al 2008 durante il Governo Prodi II, per tornare subito a parzialmente libero dal 2009 con il Governo Berlusconi IV. La Freedom House ha notato come l'Italia costituisca un “valore erratico regionale” e, più precisamente, che “l'attuale governo ha incrementato i tentativi di interferire con la politica editoriale della televisione di stato, in particolare per quanto riguarda la copertura degli scandali che circondano il presidente Silvio Berlusconi”. Il controllo estensivo di Berlusconi sui media è stato ampiamente criticato sia da analisti che da organizzazioni per la libertà di stampa, che concordano nel considerare i media italiani con una limitata libertà di espressione. La Freedom of the Press 2004 Global Survey, uno studio annuale promosso dall'organizzazione americana Freedom House, per tali motivi ha più volte declassato l'Italia da Libera a Parzialmente Libera esplicitamente a causa dell'influenza di Berlusconi sulla Rai, una valutazione condivisa in tutta l'Europa Occidentale solo dalla Turchia. Reporter Senza Frontiere afferma che nel 2004 Il conflitto d'interessi che coinvolge il primo ministro Silvio Berlusconi e il suo vasto impero mediatico non è stato ancora risolto e continua a minacciare la democrazia informativa. Nell'aprile del 2004, la Federazione Internazionale dei Giornalisti si unì a tali critiche, obiettando al passaggio di una legge respinta da Carlo Azeglio Ciampi nel 2003, che criticanti credono sia disegnata appositamente per proteggere il controllo al 90% del sistema televisivo italiano da parte di Silvio Berlusconi. L'influenza di Berlusconi sulla RAI divenne evidente quando a Sofia, Bulgaria, espresse le sue opinioni sui giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro, e sul comico e attore Daniele Luttazzi. Berlusconi disse che “usano la televisione come un mezzo di comunicazione criminale”. Come risultato i tre persero il loro lavoro. Questa affermazione fu chiamata dai critici "Editto Bulgaro". La trasmissione televisiva di un programma satirico chiamato Raiot fu censurata nel novembre del 2003 dopo che la comica Sabina Guzzanti aveva espressamente criticato l'impero mediatico di Silvio Berlusconi. Nel 2006, all'uscita del film Il caimano di Nanni Moretti, la RAI (che essendo televisione di stato utilizza denaro pubblico) acquisisce il film per un milione e mezzo di euro per 5 passaggi del film sulle reti RAI in altrettanti anni. Il film, che ricalca in molti punti e situazioni la figura di Silvio Berlusconi e soprattutto le questioni riguardanti i media e le sue controversie con la giustizia italiana, non è stato tuttora mai trasmesso. La questione risulta particolarmente calda durante gli scandali che coinvolgono il presidente del consiglio Silvio Berlusconi nel 2010 e 2011, facendo risultare il film di Nanni Moretti particolarmente profetico e accendendo a tal riguardo l'opinione pubblica. La Mediaset, il gruppo televisivo di Silvio Berlusconi, ha affermato che esso utilizza gli stessi criteri della televisione pubblica (RAI) nell'assegnazione di un'appropriata visibilità ai più importanti partiti movimenti politici (la cosiddetta par condicio) – tale affermazione è stata più volte confutata. Nel mese di ottobre del 2009, il segretario generale di Reporter Senza Frontiere Jean-François Julliard dichiarò che Berlusconi è sul limite per essere aggiunto sulla nostra lista dei Predatori della Libertà di Stampa, rendendolo così il primo leader europeo della lista. Aggiunse anche che l'Italia sarebbe probabilmente posizionata all'ultimo posto nell'Unione Europea per quanto riguardava l'imminente edizione della lista annuale dei paesi in base alla libertà di stampa. Attualmente la filtrazione internet in Italia viene applicata a circa 5500 siti sulla base di richieste dell'autorità giudiziaria, della polizia postale e delle comunicazioni (tramite il Centro nazionale per il contrasto alla pedo-pornografia su Internet), dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Nell'elenco sono compresi anche siti web che contengono pedopornografia e ad alcuni siti P2P. Dal febbraio del 2009 il sito internet The Pirate Bay e il loro indirizzo IP è stato reso inaccessibile dall'Italia, bloccato direttamente dai Provider e seguendo un verdetto definito dalla Corte di Bergamo, poi confermato dalla Corte Suprema definendo quest'azione utile per la prevenzione dell'infrangimento del copyright. Un filtraggio pervasivo viene applicato ai siti di gioco d'azzardo che non hanno una licenza locale per operare in Italia. Vari strumenti legali vengono però anche utilizzati per monitorare e censurare l'accesso ai contenuti internet. Alcuni esempi sono dati dalle applicazioni della legge Romani, in seguito ai numerosi casi di gruppi Facebook creati contro il primo ministro Silvio Berlusconi. Una legge anti-terrorismo venne promulgata nel 2005 dopo gli attacchi terroristici a Madrid e a Londra, con essa il ministro degli interni Giuseppe Pisanu restrinse l'apertura di nuovi Hotspot (WLAN), sottoponendo così le entità interessate ad una richiesta di permesso da aprire presso la Polizia di Stato di competenza e gli utenti di Internet ad identificazione, presentando un documento d'identità. Ciò inibì l'apertura di hotspots in tutta l'Italia, con un numero di hotspots inferiore di 5 volte rispetto alla Francia e con la sostanziale assenza di network wireless municipali. Nel 2009 solo il 32% degli utenti Internet italiani ha un accesso Wi-Fi. L'Italia ha inoltre posto una restrizione ai bookmaker stranieri su internet, dando mandato ad alcuni ISP di deviare il traffico di alcuni host DNS.
C'era una volta... la censura Rai, scrive Alesandra Comazzi su “La Stampa”. Avevo scritto per La Stampa un pezzo sulla puntata di "Da da da" dedicata alla censura Rai. Poi, sapete come capita nei giornali, il pezzo è saltato, scacciato dalla morte di Amy Winehouse. Allora eccolo qui sul blog, ci sono cose divertenti. E' «Da da da» una trasmissione a basso costo ma ad alto contenuto, concentrato in una mezzora, su Raiuno dopo il Tg. «Da da da» come la vecchia canzone del 1982, gruppo tedesco Trio. Ideatore è Michele Bovi, capostruttura intrattenimento, la firma è di Elisabetta Barduagni, ricercatrice e regista Rai. Ogni puntata, un argomento diverso, qualche sera fa toccava alla censura televisiva Anni '60-'70. Dunque censura Rai, operando a quei tempi la Rai in regime di monopolio. Intorno al tema, si costruisce una narrazione fatta di spezzoni d'epoca, ritagli definiti «tivucinemusicali». Attraverso questi ritagli si racconta la storia del Paese, dove non si stava meglio quando si stava peggio: ma certo, si stava diversamente. Tra i censurati d'epoca, antesignani di Morgan, di Daniele Luttazzi, di Sabina Guzzanti, rivedremo Clem Sacco, Herbert Pagani, i Nomadi, Giorgio Gaber, tutti bloccati a causa di quelle che evidentemente non erano solo canzonette. «Clem Sacco - racconta Michele Bovi - si può considerare il nonno di Elio e le Storie Tese, il suo cavallo di battaglia si intitolava "Baciami la vena varicosa". Figuriamoci se una cosa così poteva passare, in quegli anni». E le altre canzoni proibite? «Solo alcuni esempi: Herbert Pagani non potè cantare "L'albergo a ore", I Nomadi "Dio è morto" e Gaber "Addio Lugano bella", c'erano problemi con la Svizzera». Insomma, in quegli anni di tv educativa, la censura era pesante, sul piano politico, ma anche su quello del «buon costume». Gli zelanti funzionari Rai avevano preparato un elenco di parole impronunciabili: non si poteva dire «membro» di un partito; restò memorabile il grottesco giro di parole sul quale si dovette inerpicare Ugo Zatterin, che conduceva il telegiornale, per dire che era stata approvata la legge Merlin, e che si chiudevano le case di tolleranza. Ma dagli stessi problemi censori nascevano scene sarcastiche e provocatorie, come quelle di Tognazzi e Vianello in «Un, due, tre». Il loro programma fu sospeso quando si permisero di prendere in giro il presidente della Repubblica Gronchi. Le ballerine dovevano fare il loro mestiere con i mutandoni; le gemelle Kessler, che per prime misero in mostra le gambe, ebbero a ricoprirle con una pesante calzamaglia nera. Ancora adesso ricordano: «Non si doveva vedere la pelle. E quando facevamo la prova generale, c'era sempre un funzionario del Vaticano che vigilava. Se qualche scollatura era troppo profonda, qualche parola troppo spinta, lui segnalava, e gli autori cambiavano». Un funzionario del Vaticano, addirittura: siete sicure? «Siamo sicure». L'americana Abbe Lane, moglie del cubano Xavier Cugat, che dirigeva l'orchestra con il cagnolino in braccio, fu costretta a cucirsi una rosa sul generoso petto, tanto per coprirlo un po': e a ballare praticamente da ferma. D'altronde, e «Da da da» si è aperta proprio con Fanfani, il governo aveva appena approvato la legge sul buon costume, «La dolce vita» era oggetto di attacchi furibondi («come osa Fellini dissacrare la città del Papa?»), in un ristorante Scalfaro aveva schiaffeggiato una signora che si era tolto il giubbino. E poi, in questa tv bacchettona ma nello stesso tempo fervida, ci fu la cacciata di Dario Fo, avvenuta durante la «Canzonissima» 1962. Ettore Bernabei era diventato direttore generale Rai nel 1961, con l'appoggio di Fanfani. Manterrà la carica fino al 1974. Raccontò così il caso Fo: «La mia non fu censura. C'era lo sciopero nazionale degli edili, una manifestazione in piazza SS. Apostoli degenerò in scontri violentissimi con la polizia, che aveva ordini di non infierire, trenta poliziotti finirono all'ospedale. Dario Fo volle cambiare lo sketch previsto con la solita figura del costruttore col panciotto, il palazzinaro romano che, quando gli portano la notizia di un suo operaio che cade da un'impalcatura e muore, se ne infischia e regala un gioiello all'amante. Io bloccai tutto, sì: troppa tensione in piazza». Aggiunge Bovi: «Un uso del repertorio dinamico, non parassitario, ci aiuta a raccontare, ben più della politica, quanto sia cambiato il comune senso del pudore».
Anche la Rai "censura" Tortora. Se questo è servizio pubblico...Dopo l'esclusione del docufilm dal Festival del cinema di Roma un'altra bocciatura. Il Pd attacca viale Mazzini: "Occasione persa", scrive Emanuela Fontana “Il Giornale”. Il film escluso, condiviso, e ora «scippato». Enzo Tortora, una ferita italiana di Ambrogio Crespi è stato proiettato in anteprima nazionale ieri alla Camera dei deputati, ed è questa condivisione, tra parlamentari di partiti diversi, il riscatto per una pellicola esclusa dal Festival del cinema di Roma, ma ancora di più per Tortora e per la «malagiustizia», per dirla con le parole del regista. La polemica, partita proprio dal «no» alla proiezione all'auditorium dei red carpet, è sempre alta. E questa volta investe in pieno i concorrenti Rai e Mediaset. Stralci del film sono stati mostrati a Matrix ieri su Canale 5, e la produzione ha ufficializzato che la prima proiezione integrale è stata ottenuta proprio da Mediaset, a discapito della Rai. Rai che era la casa di Tortora e del suo Portobello. Il Pd ha fatto partire un bombardamento contro i piani alti di viale Mazzini: «Un'occasione persa per la Rai. L'azienda si è fatta scippare da Mediaset il docufilm». A firmare la dichiarazione i deputati Michele Anzaldi e Gero Grassi, con il senatore Federico Fornaro. Alla Rai non sarebbero mancati gli spazi per inserire il docufilm, insistono i parlamentari, «ma appare evidente che l'azienda ha deciso di regalare il ruolo di servizio pubblico a Mediaset, perdendo una nuova occasione per fare della buona informazione». Non si conosce ancora la data della messa in onda del film, ma regista e produzione hanno precisato che l'interesse non è il lucro: «Questo film dovrà essere di tutti, proiettato nelle scuole», la precisazione ieri di Crespi. E a eccezione delle «piccole spese» di produzione, gran parte degli introiti sarà destinato alla fondazione presieduta dalla compagna di Tortora, Francesca Scopelliti. Un grazie per la proiezione in Parlamento «va ai radicali - chiarisce il regista - poco fa mi ha chiamato Pannella in lacrime, dopo aver visto il film. Se ripenso a quanto ha lottato in quegli anni, per me è il miglior premio che potessi ricevere». È normale che ieri ci sia stata qualche garbata reazione al rifiuto della proiezione al festival romano. Tra le motivazioni della direzione: il film è troppo televisivo e «dura solo cinquanta minuti, forse non hanno controllato l'orologio», dice Francesca Scopelliti. In una conferenza stampa che ha preceduto la proiezione, l'ex compagna del conduttore ha poi invitato le forze politiche a pensare a una «legge Tortora»: sono ancora troppi i detenuti nelle carceri in attesa di giudizio, è necessaria una riflessione più approfondita «sulla modifica del codice penale». A 30 anni dall'arresto, 25 dalla morte, questa storia rimane sempre una «ferita» della giustizia. Una storia ora contesa dalla televisione, senza pace ma che parla «anche per coloro che non possono parlare», come ricorda Scopelliti citando una frase di Tortora. Un film che «non è né berlusconiano né antiberlusconiano», chiarisce Crespi. Non è «contro i magistrati», ma contro «la malagiustizia. Muller (il direttore artistico del Festival, ndr) è stato forse un po' miope nell'anima».
Censura Rai, una storia antica, scrive Franca Rame su “Il Fatto Quotidiano”. Ci sono nella vita di ogni uomo o donna, o in entrambi, uno o due momenti chiave con picchi a salire e a scendere. Dario e io ne abbiamo vissuti più di uno e tutti di straordinario valore, anche perché non si muovevano solo nell’ambito del nostro particolare interesse, ma coinvolgevano molta altra gente. Quando esplose per esempio lo scandalo Canzonissima, non si trattò solo di un contenzioso fra la televisione e noi, cioè due attori e autori di un programma di sketch e di canzoni che si ribellavano ad un Ente statale a proposito di un contratto, ma tirava in ballo la vita e i diritti degli operai, quella della libertà di informazione oltre che di esprimersi riguardo alla politica: cioè tirava in ballo addirittura la Costituzione. Inoltre, per la prima volta attraverso un programma di puro intrattenimento popolare, si denunciava l’esistenza di due grandi conflitti, nei quali c’erano morti e feriti ogni giorno. Si trattava delle morti sul lavoro e della guerra di mafia. Di questi atti incivili e spesso criminali non se ne parlava mai in televisione e molto raramente sui quotidiani. Anzi, in televisione nessuno aveva mai trattato di questa realtà. Tutto era mascherato e seppellito. Il fatto poi che il vaso delle nefandezze fosse rovesciato nel programma più seguito non solo in televisione, ma anche attraverso la totalità dei mezzi d’informazione, fu il detonatore massimo della bomba e del relativo scandalo. Il caso volle che, nello stesso momento in cui andava in onda la scena che trattava delle morti bianche, tutti gli operai d’Italia, in primo luogo i muratori, avessero indetto uno sciopero di alcuni giorni per protestare contro la mancanza di protezione sul lavoro, cioè la causa prima dei continui incidenti che causavano ormai una vera e propria strage in tutti settori. Proibire che quell’atto unico satirico e di forte denuncia fosse trasmesso, era come buttare benzina sul fuoco. Bernabei, direttore politico e organizzativo dei programmi Rai, scelse per il fuoco, sperando nei pompieri, quelli politici, soprattutto. Ma la cosa non funzionò e la protesta divampò coinvolgendo anche quei movimenti sindacali che normalmente accettano compromessi come certi pesci s’ingoiano l’esca con l’amo. Sempre in Canzonissima, mi pare la puntata appresso, ecco che va in scena un dialogo fra una “mugliera” sicula e un giornalista inviato dal continente. La donna è intenta ad avvolgere un lungo filo. Forse allude a una delle tre Parche, allegoria della vita e della morte. Ogni tanto si odono degli spari e qualche botto. Il giornalista chiede di che si tratti, e la donna risponde che forse, quello sparo, proviene dal fucile di qualche cacciatore solitario, ma poi si corregge: può darsi che sia anche quello che uccide un infame che si piglia la sentenza. Altro sparo, ed ecco che viene indicato un sindacalista che creava guai; un botto, ed è il salto in aria della casa di qualcuno che non ha pagato il pizzo e così via, fra spari e mitragliate si arriva al punto in cui il giornalista chiede: “Come mai all’istante hanno cessato di far botti?” e la donna risponde: “Sempre prima dell’ultimo sparo c’è un attimo di silenzio”. “E a chi andrà l’ultimo botto?” Chiede il cronista. E la donna risponde: “A chillu cchi fa troppe domande, cioè a te”. Sparo, il cronista cade riverso. Il peso e la forza di quella satira sfuggì ai censori. Era ritenuta troppo enigmatica per preoccuparsene, ma tutti gli spettatori, soprattutto a cominciare da quelli siciliani, capirono immediatamente che si trattava di discorsi sulla mafia e sui crimini che nell’isola si susseguivano a ripetizione (giudici, poliziotti e 70 sindacalisti uccisi in pochi anni). Si scandalizzarono i politici, a cominciare dai ministri del governo. Perfino i liberali con il loro segretario in capo, Malagodi, presero una posizione durissima, insultandoci e ricordandoci che già altri comici avevano sbattuto tempo addietro la faccia sulle tavole del palcoscenico, per aver esagerato nell’ironizzare sul potere; ma chi erano questi comici colpiti con tanta ferocia? Ed ecco che il segretario dei liberali fa il nome di un certo Mattia Perollo, comico di Trieste che si prese una fucilata da un fanatico fascista durante una rappresentazione. Il cardinale arcivescovo di Palermo fece pure un’omelia contro quello sconcio in grottesco; urlò: “La mafia non esiste, o ad ogni modo non si tratta di un’organizzazione criminale che voglia sostituirsi allo Stato, ma di normale delinquenza locale”. Ricevemmo lettere minatorie in gran numero, scritte addirittura col sangue e biglietti sui quali era disegnata una lupara. Le minacce arrivarono anche su nostro figlio Jacopo, che aveva sei anni, al punto che per tutto l’anno scolastico dovemmo vederlo andare a scuola protetto da due poliziotti. Il direttore in capo della Rai, all’unisono con il dottor Bernabei, quando ci rifiutammo, in seguito alle loro censure, di salire sul palcoscenico per recitare il nulla (giacchè ogni sketch di satira ci era stato cancellato) ci avvertì: “Voi rischiate molto, più di quanto non crediate. A parte una denuncia per turbativa dell’ordine pubblico, per la quale rischiate l’arresto immediato, sappiate che per anni e anni non vi capiterà più di poter calcare le scene della televisione…” e fu proprio così. Fummo letteralmente cancellati dallo schermo televisivo per la bellezza di sedici anni, il che significa, nel mondo dello spettacolo, essere messi al bando per una vita. Ci restava solo il teatro, ma le varie piazze gestite da comuni dalla Dc come Bergamo, Vicenza, Padova, Rovigo, eccetera erano per noi assolutamente proibite. Ma il nostro gesto aveva mosso una notevole solidarietà da parte dei nostri colleghi, che avevano capito che bisognava rispondere non a branco, contro la prepotenza dei gestori culturali di Stato, ma era giocoforza organizzarsi con la creazione di un autentico sindacato degli attori e dei tecnici. La sorpresa più straordinaria l’avemmo dal pubblico che, come rimontammo sulla scena con un nuovo spettacolo – si trattava di “/Isabella, tre caravelle e un cacciaballe/” – rispose al nostro apparire con uno slancio ed entusiasmo sconvolgenti. L’Odeon, teatro nel quale avevamo debuttato, era stato letteralmente preso d’assalto. Il botteghino dovette aprire le prenotazioni addirittura con dieci giorni di anticipo. La gente ci fermava per strada e ognuno ci dimostrava affetto e stima. Per di più la notizia della nostra vicenda era giunta anche all’estero, per cui ricevemmo visite da cronisti da tutta Europa, nonché inviti da alcuni teatri di Francia e d’Inghilterra perché debuttassimo da loro. Naturalmente la Rai ci fece causa, ma prevedendo il gesto, riuscimmo a superare in velocità l’ente pubblico e sporgemmo denuncia contro di loro con grande anticipo. Eravamo nei primi anni ’60, e quello era il tempo in cui esplodeva il grande miracolo economico dell’Italia… dappertutto crescevano case e palazzi come funghi, la produzione industriale era in forte rimonta e il grande successo della nostra economia aveva sorpreso tutti gli altri paesi dell’Europa; anche la coscienza civile e politica delle classi subalterne si trovava in forte crescita e ognuno era partecipe del fermento culturale che stava montando in tutti i settori, dal cinema alla letteratura al teatro. Uno degli argomenti di cui maggiormente si discuteva riguardava il ruolo dell’intellettuale nella società. Naturalmente c’era chi parlava di impegno politico, e in particolare se gli uomini di pensiero ed arte dovessero schierarsi per una causa o dovessero rimanere al di fuori d’ogni coinvolgimento, completamente autonomi e indipendenti da ogni gioco di potere. Fra l’altro c’era chi riprendeva l’antico tema dell’arte per l’arte alla ricerca della pura bellezza edonistica. Fu proprio per entrare a piedi giunti nel dibattito che scegliemmo il tema delle grandi scoperte, prima fra tutte quella che culminò con il viaggio di Colombo nelle Americhe. Ci siamo serviti come testo base del saggio del grande storico spagnolo Salvador De Madariaga e ci inserimmo come contrappunto dominante la repressione condotta dal Tribunale dell’Inquisizione in quell’epoca in tutta la penisola iberica. Lo spettacolo si apriva infatti con una processione d’auto da fè, dove si notava subito la presenza d’alcuni condannati per eresia, fra i quali in primo piano appariva un attore capocomico che veniva portato al patibolo poiché ritenuto colpevole d’aver messo in scena un testo satirico che prendeva spunto dalla spedizione di Cristoforo Colombo, con relativa strage di selvaggi rei di credere in divinità estranee alla fede cristiana. Oltretutto nel testo opera presunta di Fernando de Rojas si trattava della grande diaspora di ebrei che venivano spogliati dei propri beni allo scopo di rimpinguare le casse dissanguate dello Stato. Il condannato spera nel sopraggiungere seppur in extremis della grazia concessa dal re. Quasi a mo’ di beffa gli viene ingiunto di recitare insieme alla sua compagnia, che finora lo ha seguito in prossimità del patibolo, l’opera che gli ha causato la condanna, cioè la vita di Cristobal Colon, il tutto direttamente sul palco del supplizio. Pur di prender tempo l’attore accetta: il palco delle esecuzioni si trasformerà in palcoscenico e di volta in volta diventerà nave, con tanto d’alberi e vele, cattedrale e trono sul quale siederanno il re e la regina contornati dai giudici dell’Inquisizione. Con questo espediente è logico che tutta la vicenda riceverà una spinta paradossale straordinaria. Più che di personaggi, quindi, si tratterà di maschere: re, ammiragli e regine appariranno in tutta la loro vis comica deformante. Cristoforo Colombo verrà interpretato dall’attore condannato, quindi le vite dei due personaggi saranno costrette a una sintonia quasi metafisica. E così scopriremo se il grande navigatore è maggiormente interessato alla scienza o agli affari e le cariche di potere; se dimostra pietà per i selvaggi fatti schiavi o piuttosto ha interesse a trarne utile nella tratta; e soprattutto capiremo come mai alla fine dei suoi viaggi, che hanno procurato tanta ricchezza e prestigio alla corte spagnola, viene da questa condannato alle catene e posto in galera. Dicevamo che la turnè con quest’opera ci regalò un notevole successo, applausi ma anche contestazioni da parte di alcuni scalmanati reazionari, che male accettavano si svelassero alcune verità troppo aspre per alcuni palati. Fra l’altro, la commedia satirica era sostenuta da canti carichi di esplicita ironia; un coro, eseguito da otto uomini d’ordine esaltava l’odio razziale e l’intolleranza come aspetti del tutto positivi di una società. La prima strofa diceva: “Ogni tanto fa un certo piacere/ il poter bastonare qualcuno, il poter legalmente sfogare/ il livor di sentirsi nessuno/ su, urliamo, copriam di pernacchie/ Questa razza di bestie in ginocchio/ su pestiamoli senza pietà./ Oh che grande invenzione il nemico/ un nemico che sia disarmato/ ringraziam chi ce l’ha procurato/ umiliato e per giunta marchiato”. Ognuno può ben capire che si tratta di versi, ahimè, di una attualità sconcertante. È facile intuire che questo fosse uno dei momenti dello spettacolo che in qualcuno poteva maggiormente produrre forte indignazione e rabbia, tant’è che una sera, all’uscita del teatro Valle di Roma, fummo aggrediti da una squadra di fascisti che ci tirò addosso ogni lordura. Poi giacchè noi si era reagito, eccoli fuggire come di regola. In quegli anni, una compagnia di Barcellona – mi pare si chiamassero i Comedians – tentò di mettere in scena la satira su Colon. La Spagna era ancora sotto il regime di Franco. La compagnia riuscì anche ad eseguire la prova generale. Alla fine della prova gli attori furono tutti arrestati e portati in carcere, compreso il suggeritore. Chi guarda oggi la televisione italiana probabilmente non crederà che solo fino a una ventina di anni fa le donne vestivano in modo poco vistoso, le ballerine portavano il calzamaglia per non mettere in mostra le gambe nude e il linguaggio doveva essere controllatissimo: parole come amante, parto, vizio, verginità, talamo, alcova, amplesso erano assolutamente vietate. E vietatissime erano espressioni come "membro del parlamento" o "in seno alla commissione". Figuriamoci le parolacce!, Scrive Roberto Tartaglione. Negli ultimi anni le censure collegate al linguaggio, al comportamento, alla morale, al sesso e all'esibizione del nudo sono praticamente scomparse. Resta invece (e forse aumenta pericolosamente) la censura (e l'autocensura) collegata alla politica. Vediamo una rapida carrellata degli episodi censori più famosi dei cinquant'anni di televisione italiana.
Nel 1954 il varietà "La piazzetta" viene sospeso: la ballerina Alba Arnova porta un calzamaglia così aderente che sembra nuda. Scandalo! Il primo caso di censura "storica" riguarda però la coppia di comici Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi: in una popolare trasmissione dal titolo Un, due, tre, i due prendono in giro il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, durante una serata di gala con il Presidente francese Charles de Gaulle, si era seduto male su una sedia e era caduto per terra. L'umorismo sullo scivolone presidenziale non piace al mondo politico di allora e il varietà viene sospeso. Siamo nel 1959.
Nel 1960 viene allontanato dalla televisione il presentatore Enzo Tortora: in una sua trasmissione l'imitatore Alighiero Noschese aveva scherzato su Amintore Fanfani, potente uomo della Democrazia Cristiana. Tortora rientrerà in televisione solo dieci anni dopo. Un clamoroso caso di censura riguarda Dario Fo (premio Nobel per il teatro nel 1997): insieme a Franca Rame, nel 1962, è conduttore e autore dei testi del varietà Canzonissima, probabilmente la più famosa trasmissione della televisione italiana di tutti gli Anni Sessanta. Le sue scenette sulla mafia e sulle fabbriche (in particolare quella che parla di incidenti sul lavoro) non piacciono ai vertici della RAI. I due sono costretti ad abbandonare la trasmissione. Dario Fo ritornerà in video soltanto nel 1977 con il suo famoso spettacolo Mistero Buffo: anche questa volta suscita scandalo e da allora le sue presenze sugli schermi della televisione sono stati pochissime. Ancora oggi, nonostante il Nobel vinto nel 1997, ha qualche difficoltà a portare in giro le sue opere nei teatri italiani.
Nel 1974 in Italia c'è il referendum sul divorzio. Durante lo sceneggiato televisivo David Copperfield viene censurato l'audio di una frase detta da un vecchio signore alla sua giovane moglie. La frase tagliata è: "Se vuoi ti concedo il divorzio, non mi oppongo!" Nel 1980 è Roberto Benigni (premio Oscar per il film La vita è bella del 1998) a incorrere nelle ire dei vertici Rai: durante un Festival di Sanremo dice scherzosamente e affettuosamente Woytilaccio, riferito a Papa Woytila, Giovanni Paolo II. L'espressione, tipicamente toscana e comunque non offensiva, viene però ritenuta assolutamente irrispettosa.
Nel 1984, durante la trasmissione musicale Blitz, programma della Rai condotto da Stella Pende, a Leopoldo Mastelloni scappa una bestemmia. Condannato per "turpiloquio" viene cacciato dal video e il suo "esilio" dura ancora oggi.Beppe Grillo viene allontanato dalla televisione nel 1986. Durante un programma attacca duramente i socialisti (racconta che quando Craxi era andato in Cina accompagnato da decine di compagni di partito, Claudio Martelli, il suo vice, gli ha domandato: "Ma se sono tutti socialisti, a chi rubano?"). Tutto questo alcuni anni prima che lo scandalo di "Tangentopoli" mettesse fuori gioco l'intero partito socialista che poi sparirà dalla geografia politica italiana. Fatto è che l'attacco di Beppe Grillo provoca la sua espulsione dalla tv e, ancora oggi, il popolare comico si esibisce quasi esclusivamente nei teatri senza poter rientrare negli schermi televisivi.
Nello stesso 1986 uno sketch del trio comico Marchesini-Lopez-Solenghi provoca quasi un incidente diplomatico: i tre prendono in giro addirittura l'Ayatholla Khomeini. L'Iran-air chiude i voli per l'Italia e a Tehran ci sono seri problemi per l'Ambasciata e per l'Istituto Italiano di Cultura, uno dei pochissimi centri culturali stranieri ancora aperti nella capitale persiana. In breve l'incidente si chiude e i tre comici riprenderanno a lavorare per la televisione senza problemi. Il resto è storia contemporanea: le censure politiche negli ultimi due anni sono più numerose di tutte quelle degli anni precedenti.
Nel 2001 il Presidente del Consiglio italiano Berlusconi dichiara pubblicamente che i giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro, insieme con il comico Daniele Luttazzi "fanno una televisione criminale". Immediatamente tutti e tre vengono allontanati dalla tv e le loro trasmissioni sono sospese.
Il programma satirico Blob, nel 2002, prevede quattro trasmissioni speciali sul Presidente del Consiglio: vanno in onda le prime tre puntate e la quarta viene annullata. Nel 2003 - dopo la prima puntata - viene sospesa la trasmissione Raiot, di Sabina Guzzanti: la satira contro il Presidente del Consiglio e il governo di centro-destra è giudicata troppo forte. Nello stesso anno viene impedito al comico Paolo Rossi di presentare in televisione un brano teatrale tratto da un discorso di Pericle. Il pezzo, che è di 2500 anni fa, sembra attaccare troppo direttamente il Presidente del Consiglio italiano. Questo il pericolosissimo testo:"Qui ad Atene noi facciamo così. Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi per questo è detto democrazia. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private. Ma in nessun caso si occupa delle pubbliche faccende per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così, ci è stato insegnato a rispettare i magistrati e c'è stato insegnato a rispettare le leggi, anche quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede soltanto nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di buon senso. La nostra città è aperta ed è per questo che noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così" .
Niente nudi, sangue e fasci Così la censura spegneva i film. La religione, la politica, il sesso e la violenza: ecco tutte le scene vietate nel nostro Paese in cento anni di (assurdi) divieti cinematografici, scrive Cinzia Romani su "Il Giornale”. Finalmente conquistiamo un profilo internazionale con la divulgazione elettronica del nostro pregiato patrimonio cinematografico. Qualcosa che il mondo ci invidia e che giaceva sepolto dall'incuria e la burocrazia. Il film di Totò "Gli onorevoli" (1963) di Corbucci andò nei cinema dopo che le parole "culo" e "rincoglionito" furono sostituite con "popò" e "rimbambito". Arriva Cinecensura. 100 anni di revisione cinematografica italiana (dal 12 disponibile in Rete: cinecensura.com), mostra online della Cineteca Nazionale e del Ministero dei Beni e le attività culturali, progettata dagli studiosi di cinema Pier Luigi Raffaelli e Tatti Sanguineti, che dopo anni di trappismo d'archivio, con la Cineteca di Bologna, l'Archivio Luce, il Museo del cinema di Torino e l'Archivio centrale di Stato, hanno messo su piattaforma digitale, a disposizione di tutti, un'esposizione davvero notevole. Che ha il pregio di appassionare non soltanto i cinefili, ma anche chi voglia conoscere il secolo trascorso, dal punto di vista del costume e dei cambiamenti sociali. Così profondi, sotto la lente dell'intrattenimento pop, che ci s'intenerisce, di fronte alle richieste dei prefetti di provincia, o degli spettatori più bigotti, tra i pruriginosi Quaranta e Cinquanta, lesti a invocare revisioni e controlli di frasi, cosce, allusioni. E giù lettere, carte da bollo di Lire 200, processi e ricorsi, dove Visconti e Pasolini, De Sica e Bertolucci vagano per tribunali, alla mercè di qualche massaia, pronta a scandalizzarsi per un particolare, che oggi fa sorridere. Il materiale a disposizione è sterminato: 300 lungometraggi, 90 cinegiornali o pubblicità, 86 cortometraggi, 28 manifesti censurati, filmati di tagli di 75 film, 15 cinegiornali e videointerviste. Il tutto divido in sale virtuali “a tema”: sesso, politica religione, violenza. Sesso: se nel 1938 il Trio Lescano cantava Ma le gambe, nei Cinquanta repressi gli arti inferiori femminili destano prurigini. Dove sta Zazà (1947) di Giorgio C. Simonelli ottiene il nulla osta, a patto si eliminino alcune scene. Le donne cristiane del Centro italiano femminile di Palermo scrivono al ministero degli Interni, sentendosi insultate dalla pubblicità «ad ogni angolo di strada, raffigurante una ballerina quasi nuda». La dignità morale del popolo pare vilipesa anche ne La famiglia Passaguai (1951) di Aldo Fabrizi, con la procace Rita Dover: foto-busta sotto accusa. Un kafkiano Segretariato della Moralità di Foligno inoltra formale denuncia alla Procura della Repubblica di Perugia, chiedendo l'immediato ritiro del materiale raffigurante «una persona in succintissimo e disgustoso atteggiamento,con una bottiglia in mano e in posizione quanto mai provocante in cabina da bagno». Oggi che si fa sesso per strada, chi pensa alle cabine? Ma è Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci il film-simbolo della guerra tra censura e libertà espressiva. Denunciato e condannato “al rogo” per la scena in cui «il protagonista, utilizzando del burro, possiede contro natura la ragazza». Vani i tagli per 9,80 metri di pellicola... Certi fatti hanno perso capacità offensiva, se pensiamo che in Terza liceo (1954) di Luciano Emmer, vietato ai minori di 16 anni, un prof. si stranisce, scoprendo nel libro di un'allieva «Anita nuda con i baffi»: per la versione tv, via la sequenza. Tacendo di Nino Manfredi, una condanna penale per essere apparso «in mutande, con i pantaloni in mano» nel film a episodi Le bambole (1965). Sequestri e denunce aprono la strada al cinema a luci rosse, nei '60 e '70 affollati di pellicole vietate ai minori. «Scopate e fellatio entrano così in modo surrettizio», spiega Sanguineti. Politica. C'è sempre qualcuno che si sente diffamato. Così sparisce Tragica alba a Dongo (1951) di Vittorio Crucillà, redattore di Omnibus, che mai avrà il nulla osta per il film. Frutto della collaborazione tra Comune di Dongo, partigiani e volontari della guerra di Liberazione, il film ritrae Mussolini e Claretta Petacci, visti di spalle, durante la loro fuga, cattura e fucilazione. Materia scottante, che per l'onorevole Andreotti «può ingenerare all'estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese». La diffida della famiglia Mussolini, verso la casa produttrice, metterà una pietra tombale su quei 1040 metri di docufilm, che per Crucillà, «umile regista e soggettista», implorante udienza ad Andreotti, doveva «preparare la rinascita dell'Italia democratica». Ce n'è pure per Togliatti è ritornato (1948) di Lizzani, stoppato per le immagini d'una festa dell'Unità al Foro Italico: potevano «determinare perturbamento dell'ordine pubblico». Peccato che sia una canaglia (1954) di Alessandro Blasetti è bloccato perché un maresciallo «si esprime con espressioni dialettali e grottesche»...Religione. Nei Cinquanta, i preti spopolano al cinema. Anche perché sono 5.900 le sale parrocchiali, dove censura di Stato e revisione cattolica controllano l'orientamento delle masse. Così non si contano i processi intentati da associazioni cattoliche. A finire nel tritafilm, Viridiana (1961) di Buñuel; La dolce vita (1960) di Fellini e Ro.Go.Pa.G (1963), film a episodi, che suscitò accanimento giudiziario nei confronti dell'episodio La ricotta di Pasolini: «È sempre un rischio violare il mistero che circonda ogni uomo», scriveva la Pontificia Università Gregoriana al produttore, Alfredo Bini. Adesso, certi misteri non lo sono più.
Censura cinematografica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La censura cinematografica è il mezzo attraverso il quale una autorità attua il controllo preventivo di un'opera cinematografica, autorizzando o negando la sua proiezione in pubblico, o limitandone la visione ad un pubblico adulto. Lo Stato si è sempre riservato la possibilità di intervenire sui contenuti di rappresentazioni pubbliche, offensivi alla morale e al buon costume o pericolosi per l'ordine pubblico, ancora prima della nascita del cinematografo. Risale tuttavia al 1913 la prima legge che introduceva un vero e proprio intervento censorio sulle proiezioni, allo scopo di impedire la rappresentazione di spettacoli osceni o impressionanti o contrari alla decenza, al decoro, all'ordine pubblico, al prestigio delle istituzioni e delle autorità. Il successivo regolamento elencava una lunga serie di divieti e trasferiva il potere di intervento dalle autorità locali di pubblica sicurezza al Ministero dell'Interno. Questi, dopo il giudizio espresso da un revisore, rilasciava il nulla osta, eventualmente eliminando alcune parti della pellicola giudicate non idonee alla proiezione. Era prevista comunque la possibilità di un secondo grado di giudizio, al quale poteva essere sottoposta la pellicola se giudicata in primo grado non idonea. Nel 1920 un Regio Decreto istituì una vera e propria commissione, composta anche da soggetti esterni alle istituzioni: ne facevano parte, oltre a due funzionari di pubblica sicurezza, un magistrato, un educatore o un rappresentante di associazioni umanitarie, una madre di famiglia, un esperto di arte o di letteratura e un pubblicista. Con questo decreto si prevedeva anche che il copione del film venisse preventivamente sottoposto alla commissione prima dell'inizio delle riprese. Il regime fascista confermò le disposizioni precedenti, intuendo fin dall'inizio le potenzialità del cinema come mezzo di comunicazione e utilizzandolo spesso a fini di propaganda politica. Il controllo, prima accentrato presso il ministero dell'Interno, venne in seguito affidato al Ministero della Cultura popolare. Venne introdotta la possibilità di sottoporre a revisione ogni fase della realizzazione del film, quindi la possibilità anche di interrompere le riprese, se necessario, e venne istituito un nulla osta anche per le pellicole destinate alla proiezione all'estero, nulla osta che poteva essere negato se il film era ritenuto dannoso per il decoro e il prestigio della nazione o se poteva turbare i rapporti internazionali. Nel 1926 fu anche introdotta la tutela dei minori, con un decreto che consentiva il divieto della visione di alcuni film ai minori di 16 anni. Durante il ventennio, la censura venne "potenziata" sia in senso preventivo, sia per "istruire" le folle ai valori del regime, tanto che nel 1934 venne istituita una apposita Direzione generale per la cinematografia. Con l'avvento della repubblica, contrariamente a quanto si pensa, non vennero introdotte sostanziali modifiche, nonostante l'articolo 21 della Costituzione consentisse la libertà di stampa e di tutte le forme di espressione. Su pressioni soprattutto del mondo cattolico, venne anzi aggiunto il comma che sancisce il divieto degli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. Presso la Presidenza del Consiglio fu istituito un Ufficio centrale per la cinematografia, al quale confluivano i giudizi delle commissioni di primo e secondo grado, che in sostanza erano rimaste quelle del 1923, anche se leggermente variate nella loro composizione. Nel 1949 fu emanata una legge, presentata dall'allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti, che doveva sostenere e promuovere la crescita del cinema italiano e al contempo frenare l'avanzata dei film americani ma anche gli imbarazzanti "eccessi" del neorealismo. A seguito di questa norma, prima di poter ricevere finanziamenti pubblici, la sceneggiatura doveva essere approvata da una commissione statale. Inoltre se si riteneva che un film diffamava l'Italia poteva essere negata la licenza di esportazione, insomma era nata una sorta di censura preventiva. Nel 1962 venne approvata una nuova legge sulla Revisione dei film e dei lavori teatrali, tuttora in vigore: pur apportando alcuni cambiamenti, essa confermava il mantenimento di un sistema preventivo di censura e assoggettava al rilascio del nulla osta la proiezione pubblica dei film e la loro esportazione all'estero. In base a tale legge, il parere sul film viene dato da un'apposita Commissione di primo grado (e da una di secondo grado per i ricorsi), mentre il nulla osta è rilasciato dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Le Commissioni di censura, definite dalla legge "Commissioni per la revisione cinematografica", sono otto e fanno capo al Dipartimento dello Spettacolo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ogni commissione è composta da un presidente (di solito un magistrato o un docente di diritto), due esponenti della categoria (produttori e distributori), due genitori in rappresentanza delle associazioni per i diritti dei minori, due esperti di cultura cinematografica, uno psicologo. Ad essi si affianca un esponente delle associazioni animaliste se nel film compaiono anche animali. Ad ognuna di queste otto commissioni sono assegnati dei film da visionare. Le commissioni possono approvare la diffusione del film per tutti o imporre un divieto ai minori. La casa distributrice dell’opera ha a disposizione 20 giorni per presentare appello, o per effettuare tagli e modifiche, di solito suggerite dalla commissione stessa, per rendere la pellicola adatta ad un pubblico di minori. Una volta accolto l’appello, la commissione visiona nuovamente il film e decide se confermare il divieto, abbassarlo dai 18 ai 14 anni oppure revocarlo definitivamente una volta accertata l’eliminazione delle scene suggerite. In caso di ulteriore rifiuto, è possibile il ricorso al TAR. L'autore o il produttore del film può chiedere eventualmente di essere ascoltato dalla commissione, per "difendere" le ragioni del film e per evitare il rifiuto del nulla osta o il divieto della visione del film ai minori. Il rilascio del nulla osta condizionato dal divieto ai minori di anni 14 o 18 si ripercuote anche sullo sfruttamento televisivo del film. Infatti i film ai quali viene negato il nulla osta e quelli vietati ai minori degli anni 18 non possono essere trasmessi in televisione, mentre i film vietati ai minori degli anni 14 possono essere trasmessi solo in determinate fasce orarie, regolate dalla successiva Legge 203 del 1995, per cui la trasmissione di film che contengano immagini di sesso o di violenza tali da poter incidere negativamente sulla sensibilità dei minori, è ammessa (...) solo fra le 23 e le 7. Talvolta i distributori e i produttori anticipano le probabili richieste delle Commissioni, presentando alla revisione pellicole già ridotte nelle parti che condurrebbero ad un divieto per i minori. Oggi, vista la soppressione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, le sue funzioni sono state delegate, dal 1998, al nuovo Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Sempre nel 1998 veniva abrogato l'art. 11, rimuovendo quindi la censura dalle opere teatrali. A luglio 2007 il disegno di legge Modifiche alla legge 21 aprile 1962, n.161, in tema di revisione cinematografica, è stato approvato dal Consiglio dei ministri. Esso cancella la censura preventiva nei film, ma introduce nuovi paletti per la visione di film e cartoni: i produttori di programmi, film, cartoni dovranno autocertificare se il loro prodotto è per tutti, o deve essere vietato ai minori di 18, 14 o 10 anni (quest'ultimo divieto introdotto appositamente con questa legge), oppure affidarsi ad un'apposita Commissione di classificazione dei film per la tutela dei minori istituita presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali che esprimerà un parere sulla classificazione. Nel caso la classificazione autocertificata non sia poi considerata consona, sono previste sanzioni amministrative fino a 100.000 euro e l'arresto fino a sei mesi. Oltre alla censura totale, dagli anni trenta fino agli anni novanta in Italia è stata in voga un'altra forma di censura, quella dei tagli mirati. In pratica si usava tagliare le parti di pellicola che non si voleva venissero mostrate, permettendo tuttavia di mandare in visione il film così mutilato.
La censura ed il cinema. Una torbida storia di censura, autori seviziati e pellicole passate al tritacarne. Leggi censorie. Si intende di seguito presentare una breve carrellata delle normative che hanno interessato l’industria cinematografica dal 1913 al dopoguerra, per arrivare poi alla normativa vigente ( Legge 161 del 21 aprile 1962).
20 febbraio 1913 Il presidente del Consiglio Giolitti dirama ai prefetti una circolare che colpisce “le rappresentazioni dei famosi atti di sangue, di adulteri, di rapine, di altri delitti” e i film che “rendono odiosi i rappresentanti della pubblica forza e simpatici i rei; gli ignobili eccitamenti al sensualismo (…), ed altri film da cui scaturisce un eccitamento all’odio tra le classi sociali ovvero di offesa al decoro nazionale”.
Legge 25 giugno 1913, n. 785 Il primo provvedimento legislativo registrato in materia di censura autorizza “il governo del Re ad esercitare la vigilanza sulla produzione delle pellicole cinematografiche, prodotte all’interno o importate dall’estero”.
Il regolamento esecutivo della legge (Regio decreto 31 maggio 1914, n. 532) è di grande importanza, perché introduce quella casistica di argomenti suscettibili di rientrare nell’ambito della censura che verrà ripresa fedelmente, adattata e ampliata, non solo nel periodo fascista ma anche in età repubblicana.
Obiettivo della legge è vietare al pubblico la visione di: “spettacoli offensivi della morale, del buon costume, della pubblica decenza e dei privati cittadini; spettacoli contrari alla reputazione e al decoro nazionale o all’ordine pubblico, ovvero che possano turbare i buoni rapporti internazionali; spettacoli offensivi del decoro e del prestigio delle istituzioni e autorità pubbliche, dei funzionari e degli agenti della forza pubblica; scene truci, ripugnanti o di crudeltà, anche se a danno di animali; delitti o suicidi impressionanti e in generale azioni perverse o fatti che possano essere scuola o incentivo al delitto, ovvero turbare gli animi o eccitare al male”. La legge accenna anche alla questione della lingua straniera: “I titoli, i sottotitoli e le scritture (…) debbono essere in corretta lingua italiana. Possono tuttavia essere espressi anche in lingua straniera, purché riprodotti fedelmente e correttamente anche in lingua italiana”. La censura sui film è esercitata dal ministro dell’Interno, cui spetta concedere o negare il nulla osta “in conformità al giudizio del revisore” (ed eventualmente imporre una nuova revisione a film già muniti di nulla osta). Sono previsti due gradi di giudizio per la revisione delle pellicole: in primo grado il revisore è un funzionario della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza o un commissario di polizia, in secondo grado una commissione composta dal vice-direttore generale e da due capi divisione della Direzione Generale della P.S.
Il R.d. 9 ottobre 1919, n. 1953 introduce il controllo preventivo sul “copione o scenario”: perché una pellicola possa accedere al procedimento di revisione, prima dell’inizio delle riprese il soggetto deve essere “in massima riconosciuto rappresentabile” dalla censura. Nella pratica, tuttavia, il copione viene sempre presentato alla commissione di primo grado insieme al film finito: il controllo preventivo sarà applicato con rigore solo a partire dal 1935.
R.d. 22 aprile 1920, n. 531 (a firma del ministro dell’Interno F. S. Nitti). Anche la revisione di primo grado è affidata a una commissione, che non ha più una natura solo repressiva ma si allarga ad altri soggetti, seppur sempre di nomina ministeriale: oltre a due funzionari della Pubblica Sicurezza, “un magistrato, una madre di famiglia, un membro da scegliersi fra educatori e rappresentanti di associazioni umanitarie che si propongono la protezione morale del popolo e della gioventù, una persona competente in materia artistica e letteraria e un pubblicista”. Alla casistica censoria si aggiungono l’offesa al “pudore”, l’offesa al “Regio esercito e alla Regia armata”, “l’apologia di un fatto che la legge prevede come reato” e “le operazioni chirurgiche e i fenomeni ipnotici e medianici”.
R.d. 24 settembre 1923, n. 3287. La composizione delle commissioni di revisione viene trasformata in senso rigidamente burocratico. Quella di primo grado si riduce a “singoli funzionari di prima categoria dell’Amministrazione dell’Interno appartenenti alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza”, ma viene ripristinata un anno dopo (R.d. 18 settembre 1924, n. 1682) e conta tre membri: un funzionario di polizia, un magistrato e una madre di famiglia. In quella di secondo grado o di appello, che rimane di sette membri, l’educatore è sostituito con un professore e la “persona competente in materia artistica e letteraria” è prima eliminata e poi reintegrata. L’elenco delle scene da proibire riprende fedelmente quello del 1920 (a sua volta ricalcato su quello del 1914), con l’aggiunta di una sola frase sulle “scene, fatti e soggetti” che “incitino all’odio fra le varie classi sociali”, tuttavia già presente nella circolare del 1913. È stabilita un’apposita revisione per le pellicole destinate all’esportazione: sono da vietare quelle che possano, tra l’altro, “ingenerare, all’estero, errati o dannosi apprezzamenti sul nostro paese”.
Il R.d. 6 novembre 1926, n. 1848 introduce una prima forma specifica di tutela dei minori: è consentito vietare la visione dei film ai minori di anni 16, pur senza alcuna indicazione sui motivi del possibile divieto. Un precedente si ritrova nella l. 10 dicembre 1925, n. 2277, art. 22: “La commissione a cui spetta di autorizzare gli spettacoli cinematografici deciderà a quali di essi possano assistere i fanciulli e adolescenti dell’uno e dell’altro sesso”, che verrà applicata con un divieto ai minori di anni 15.
L. 16 giugno 1927, n. 1121 Tra i parametri di valutazione di un’opera in sede di censura rientra anche la qualità artistica: un film può essere vietato quando non presenti “sufficienti requisiti di dignità artistica così nella trama del soggetto, come nella esecuzione tecnica”.
R.d. 9 aprile 1928, L. 24 giugno 1929, L. 18 giugno 1931 Aumenta progressivamente la politicizzazione delle commissioni di revisione. Sia in quelle di primo che di secondo grado, entrano rappresentanti del Partito Nazionale Fascista e dei ministeri dell’Educazione Nazionale, delle Corporazioni, delle Colonie e della Guerra (gli ultimi due competenti solo per copioni e pellicole di carattere “militare o coloniale”). La presenza di rappresentanti dell’Istituto Nazionale LUCE e dell’Ente nazionale per la cinematografia, introdotta nel 1929, dura solo due anni: la legge più restrittiva del ’31 riduce di nuovo il numero dei censori abolendo anche le persone “competenti in materia artistica, letteraria e tecnica cinematografica” nominate dal Ministero dell’Educazione.
Il R.d. 28 settembre 1934, n. 1506 trasferisce la responsabilità amministrativa della censura, non solo cinematografica, dal Ministero dell’Interno al nuovo Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda (trasformato un anno dopo in Ministero, rinominato nel 1937 Ministero della Cultura Popolare). Come sezione del Sottosegretariato nasce anche la Direzione generale della cinematografia, che riunisce le competenze sul cinema prima suddivise fra i vari ministeri ed è affidata a Luigi Freddi, protagonista indiscusso della politica cinematografica italiana e convinto sostenitore del rafforzamento del ruolo della censura, che d’ora in poi non si limiterà a compiti di mero controllo ma sarà anche attiva, “ispiratrice”, propositiva. Tra le competenze della Direzione generale c’è infatti quella di esaminare e revisionare i soggetti dei film di produzione nazionale: comincia l’applicazione rigorosa del principio della censura preventiva, già formulato nel 1919.
La l. 10 gennaio 1935, n. 65, conversione del decreto precedente,uniforma la composizione delle commissioni di primo grado e di appello fissando per entrambe a cinque il numero di membri: tre in rappresentanza dei ministeri dell’Interno, delle Corporazioni e della Guerra, uno del Partito Nazionale Fascista e uno dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti), designato dal segretario del partito. Il processo di assoggettamento al potere politico è completo: gli ultimi ad essere esclusi sono il magistrato e la madre di famiglia. La presidenza spetta per legge a un funzionario del Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda nelle commissioni di primo grado, direttamente al Sottosegretario o per delega al Direttore generale della cinematografia in quelle di appello.
L. 29 maggio 1939, n. 926 A seguito della conquista dell’Etiopia, si aggiunge in entrambe le commissioni di controllo un rappresentante del Ministero dell’Africa Italiana, per stabilire “quali delle pellicole, sia nazionali che estere, possono essere destinate alla proiezione nell’Africa Italiana”.
Il R.d. 30 novembre 1939 ufficializza la censura preventiva: “Chiunque intenda produrre una pellicola cinematografica destinata alla rappresentazione nel Regno o all’esportazione, dovrà ottenere, prima di iniziarne la lavorazione, il nulla osta del Ministero della Cultura Popolare. Sono esenti dal nulla osta (…) le pellicole di attualità e i documenti eseguiti dall’Istituto Nazionale LUCE”.
L. 16 maggio 1947, n. 379 L’Assemblea costituente affida il controllo preventivo sui film al nuovo Ufficio centrale per la cinematografia, costituito presso la Presidenza del Consiglio, previo parere delle Commissioni di primo e secondo grado, nuovamente mutate nella loro composizione. Si elimina l’obbligo della revisione dei copioni, ma per il resto sono confermate tutte le disposizioni contenute nella legge del 1923, compresa la casistica delle scene da proibire.
L’art. 21, comma VI, della Costituzione recita: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.
La l. 29 dicembre 1949, n. 958 non apporta nessuna innovazione in materia. La necessità di un aggiornamento della disciplina si realizzerà solo con la legge 161/1962, che in ogni caso, nonostante le novità, manterrà il sistema della censura preventiva.
(fonti: italiataglia.it e P. Caretti, Diritto pubblico dell’informazione, Bologna, Il Mulino, 1994).
Andreotti e il cinema, dalla censura di Stato al maligno "Il Divo", scrive “Notizie Tiscali”. Quando la televisione non c'era ancora, e i politici non litigavano per la presidenza della commissione di Vigilanza Rai, un sottosegretario di appena una trentina d'anni vigilava sul cinema italiano, allora ritenuto un potente mezzo di formazione delle coscienze dei cittadini. Tra il luglio del 1951 e il luglio del 1953, Giulio Andreotti, nel settimo e ottavo governo De Gasperi, aveva il delicato compito di occuparsi di tutto il settore dello spettacolo. Luci e ombre caratterizzano l'operato di quel suo primo incarico governativo. L'allora sottosegretario, per dirne una, aveva obbligato le produzioni americane a versare nelle casse dello Stato italiano una percentuale degli utili del botteghino. La tassa su Hollywood serviva per finanziare il cinema tricolore, e qui cominciavano i guai. Per accedere ai contributi, bisognava passare attraverso il giudizio di commissioni e burocrati di nomina governativa: e così succedeva che la saga di Peppone e Don Camillo ricevesse dieci volte di più di un film di Vittorio De Sica. Il fatto è che, al giovane sottosegretario, il neorealismo proprio non piaceva, perché insisteva troppo sugli aspetti tragici dell'Italia del dopoguerra. Secondo la vulgata, Andreotti avrebbe espresso il suo astio nei confronti dei neorealisti con la celebre battuta (sempre smentita) "i panni sporchi si lavano in famiglia". Se l'autenticità della frase è dubbia, viene però dalla penna di Andreotti un articolo per "Il Popolo" contro "Umberto D.", un film di Vittorio De Sica che racconta la storia di un pensionato ridotto alla miseria: "Se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. é l'Italia della metà del XX secolo - scriveva Andreotti - De Sica avrà reso un pessimo servigio alla patria, che è la patria di don Bosco, di Forlanini e di una progredita legislazione". Il film di De Sica, come ha denunciato recentemente il figlio Manuel, ancora oggi non può essere trasmesso in Tv in prima serata, perché fu bollato dalla commissione censura (della quale Andreotti faceva parte) come "disfattista". Dietro la posizione di Andreotti c'era l'insofferenza del Vaticano per la lontananza della cinematografia italiana dai valori della tradizione cattolica. "La verità - scrisse Andreotti a monsignor Montini, il futuro Paolo VI - è che la gran parte dei registi, dei produttori e dei soggettisti non proviene dalle nostre file né condivide con noi le essenziali convinzioni religiose". Lo stesso Andreotti, nei suoi diari, racconta che papa Pio XII gli telefonava per protestare contro questa o quella scena scabrosa vista in un film. Una volta Papa Pacelli lo chiamò perché in una copertina della Settimana Incom Illustrata si vedeva un'attrice che, scendendo dalla macchina, mostrava le gambe un po' sopra le ginocchia. Il Vaticano non transigeva e Andreotti non risparmiava energie per raddrizzare le storture. Largamente sua era la normativa contro l'oscenità e "tutto ciò che può turbare l'adolescenza" (ma anche un certo numero di esponenti della sinistra, tra i quali Pietro Ingrao, votarono a favore). Anni dopo, quando la sua stella era all'apogeo, Andreotti accettò di interpretare sé stesso nel film di Alberto Sordi "Il tassinaro". A bordo del taxi di Sordi, tra le strade di una Roma dei primi anni '80, Andreotti chiacchierava con il conducente di calcio e politica, probabilmente convinto che la Dc avrebbe governato l'Italia per altri 50 anni. Passati altri 20 e più anni, con la prescrizione al processo per mafia alle spalle, Andreotti si è ritrovato protagonista di un film che lo presentava come il simbolo del "lato oscuro" della politica italiana. Di fronte a "Il Divo" di Paolo Sorrentino, il flemmatico Andreotti è sbottato: "E' cattivo, é maligno, è una mascalzonata", disse il giorno della prima. Poi però tornò a essere andreottiano: "Ho esagerato, le mascalzonate sono ben altre. Questa la cancello".
ATTORI E REGISTI: UNA CASTA DI IDIOTI DI SINISTRA RACCOMANDATI.
Luca Barbareschi intervistato al telefono da Gabriele Lazzaro a “Anche io ero off” e pubblicato su “Il Giornale”: «Sono solo contro una casta di idioti raccomandati».
Luca, mi racconti un episodio OFF degli inizi della tua carriera?
«Ce ne sono tanti… quest’anno compio quarant’anni di carriera…»
Uno che però non hai mai raccontato a nessuno?
«Il mio vero primo ruolo nell’Enrico V – poi dopo ho lavorato solo in ruoli più importanti – era suonare il tamburo nascosto in quinta, cioè, fare le rullate mentre Gabriele Lavia faceva i monologhi. Chiuso in una scatola di legno, a Verona, a luglio, con un caldo infernale, suonavo questa grancassa per circa un’ora e mezza pensando di suonare la batteria. Questo è stato il mio debutto teatrale, a diciotto anni.»
Come si vive a diciotto anni un’esperienza del genere?
«Mah, io ero felice! mi sembrava di toccare il cielo con un dito! Era una compagnia meravigliosa, c’era il Garrani, Lavia… Meschieri e Fo erano i produttori… Ciò che mi fa tristezza oggi è vedere ragazzi di 18 anni che sono già vecchi. Sanno già tutto, hanno già capito tutto, sono già depressi. E’ tutto politico… invece ai miei inizi era poesia pura, arte pura: il teatro, di sera, nella Piazzetta delle Erbe… Suonavo bene la chitarra e il piano: ero un musicista, più che altro, per cui intrattenevo gli altri, cercavo gli spazi cercando di fare simpatia e di fare il mio lavoro: l’entertainer. Ma questo ha messo in moto il mio futuro: il regista mi aveva preso all’inizio come uno che doveva fare il caffè, poi sono diventato il suo primo aiuto – lui era il numero due insieme a Strehler al Piccolo – e due mesi dopo ero a Chicago a fare il primo aiuto all’Opera Lirica. Le opportunità, se le vivi con entusiasmo, sono bellissime. Anche perché poi, questo lo vedo adesso, a quasi sessant’anni vuoi circondarti di persone piene di entusiasmo, di voglia di fare, e di bellezza. No?»
Certo. E quindi questo stupore è un po’ quello che ti ha accompagnato in questi quarant’anni di carriera…
«E’ ancora così per me. Se vieni a vedere il mio one man show a Spoleto a giugno, piangerai e riderai. Ci sono io con una band di cinque elementi, uno è Marco Zurzolo, un jazzista che ha aperto Umbria Jazz, tra i più bravi musicisti italiani; io mi diverto con in scena le mie Stratocaster, le Martin, un pianoforte a coda Steinway, cinque elementi d’orchestra… facciamo di tutto, per due ore e un quarto. Come se avessi quindici anni.»
Il tuo one man show, “Cercando segnali d’amore nell’universo”, per la regia di Chiara Noschese lo vedrò al Teatro Manzoni, perché verrai anche qui a Milano… ti aspettiamo! Nella tua carriera hai fatto veramente di tutto: teatro, cinema, hai condotto programmi di successo: alcuni me li ricordo anche molto bene…
«“Il grande bluff”…»
Come no! E “C’eravamo tanto amati”. Ma questo tuo essere così tanto eclettico e così professionale in qualche modo lo devi all’esperienza americana?
«Infatti io sto sulle palle a tutti i vari Virzì e Servillo… questa gente qui mi odia, perché loro sono degli snob tremendi… quindi, fanno finta di essere intimisti, profondi, ma è tutta gente che vive in una casta. Io ho imparato a vivere in America che qualsiasi cosa fai ti arricchisce: facevo l’aiuto regista, facevo i servizi per Gerry Minà sulla storia della boxe e contemporaneamente vincevo a Venezia con il mio film “Summertime”. Poi non c’avevo più una lira di nuovo e facevo l’aiuto regista per Mario Merola in “Da Corleone a Brooklyn”… In questo modo mi sono costruito un curriculum che credo non abbia nessuno. Ho una bellissima azienda, oggi, che ha prodotto più di centotrenta film, ho quotato in borsa la mia azienda di informatica… e l’ho fatto per curiosità. Quando vedo i ragazzi demotivati… Io adesso sto facendo un film sulla vita di Pietro Mennea, per esempio, è la cosa più bella è che lui è stato il più grande campione del mondo come velocista e poi si è preso tre lauree, si è candidato parlamentare europeo, è ricordato come uno degli uomini più importanti del Parlamento Europeo… Perché tutto dipende da noi, alla fine. Da quanto tu credi che la vita ti possa dare e da quanto sei aperto.»
Proprio parlando di tutte queste trasformazioni che possono far parte del percorso di una persona, nel 2002 hai diretto “Il trasformista”, che è un film molto arrabbiato verso il cattivo uso della politica…
«I miei film verranno apprezzati tra vent’anni. Perché in quel film ho detto tutto quello che sarebbe successo dieci anni dopo, ma quando l’ho fatto io… poi, quando l’hanno dato in televisione è andato bene, ma in sala… mi ricordo che quando ho fatto il primo film, Ardena, tutti i vari ortodossi della sinistra hanno fatto un picchetto per impedire al Barberini di andare a vedere il film del fascista Barbareschi. Che imbecillità… il povero Morando Morandini ha anche scritto da qualche parte: “Barbareschi ha osato fare un film falcata, tempio degli intellettuali come Amanda Sandrelli”… delle cazzate così neanche uno sceneggiatore se le può inventare. Adesso l’ha rifatto con “Something good”, questo film sulle frodi alimentari, l’han tolto dopo un giorno dalle sale! Tu pensa a Milano Expo il tema è la sicurezza alimentare, ed il mio film che è venduto in tutto il mondo, girato in Cina sul tema alimentare, niente. Non è interessante!»
È pazzesco, perché tra l’altro è stato anche apprezzatissimo da Spielberg…
«Ti mando le foto: alla prima al festival di Los Angeles, c’erano ad applaudire Meryl Streep, Julia Roberts, Tom Hanks, Bono degli U2 con il suo chitarrista The Edge… c’era tutta Hollywood ma in Italia non se ne è parlato per niente. Basta vedere i David di Donatello: la più grande porcata fatta in televisione negli ultimi vent’anni. Dove un’idiota come Ruffini si permette di insultare Sophia Loren dicendole “bella topa”… Qui c’è una casta di idioti raccomandati, protetti dalla politica, protetti dalla casta autocelebrativa, che ha ucciso lo spettacolo italiano. Ci sono anche quelli veri, oggi, nello spettacolo, c’è gente che fa un patto col pubblico: Brignano fa 130 mila euro a sera. Cioè, gente vera… Proietti, io, che faccio teatro da quarant’anni,Branciaroli… Poi però c’è una casta autocelebrata che può anche fare un peto al cinema o in teatro. Ed è sempre Chanel.»
Una Casta che lavora moltissimo…
«Io il David di Donatello non lo vincerò neanche se faccio Ben Hur… io non son stato neanche invitato.»
Perché Ruffini alla conduzione? È sempre stato molto istituzionale…
«Perché non hanno capito che chi deve celebrare la messa non può far le pernacchie. Il master of ceremony deve essere istituzionale. O sennò è un genio come Billy Crystal, quando ha presentato una volta gli Academy Awards, che però non si è permesso di insultare Jack Nicholson. Anche perché Jack Nicholson gli staccava la testa in diretta… Invece i premi italiani sono finti. I David sono finti, i Leoni sono finti. Io ho ricevuto una lettera di Alberto Barbera, il direttore della Mostra del cinema di Venezia, quest’estate … non mi hanno preso perché non faccio parte della schiera dei suoi amici.»
È una cosa forte, questa…
«Ma mi ha scritto su carta da bollo protocollata! Allora, siccome sono cretini, fanno marchette autocelebrativa che infatti hanno ucciso il cinema. Lo scollamento dell’autocelebrazione critica della casta è totale. Checco Zalone può piacere o non piacere – a me personalmente piace – e quest’anno ha fatto settanta milioni. Ma non può non aver vinto un premio! È bravissimo e spiritosissimo e non puoi non tener conto di quello che esiste, no? Ma ho detto una vecchia cosa. Tornatore ha fatto un film bellissimo quest’anno e in televisione l’avrebbero ucciso.»
Tornando a bomba sulla politica di cui tu hai parlato ne “Il trasformista”, quindi sei stato un po’ profetico… com’è cambiata la politica del 2002 rispetto a quella di oggi? I politici sono gli stessi…
«La politica di una volta – ti faccio un’immagine molto semplice – da cinquant’anni in America ci sono due simboli: l’asinello e l’elefantino. Uno sono i repubblicani e l’altro i democratici. Dentro quei due piccoli simboli per cinquant’anni cambiano le facce. In Italia succede l’opposto: le facce son le stesse, cambiano i simboli. Ulivo, melo… il nome: PD, PDC MDC, CFC…Questa secondo me è l’immagine di un paese morto. A parte che è morto perché in mano a mafia, ’ndrangheta e camorra. Al di là della corruzione dei politici, che fanno schifo, al di là di queste facciate delle Iene da cui mi son preso delle querele, io le leggi le ho fatte. Tu vai a vedere la legge sulla tax credit, è mia. Pensi che qualcuno mi abbia ringraziato?»
Penso proprio di no.
«Infatti, nessuno. La legge sulla pedofilia, l’ho fatta io. Poi l’altro giorno ho fatto un tweet di sfogo, stupido, da ragazzino, che dimostra la mia età dell’anima… dicevo che qualsiasi cosa io faccia – perché l’altro giorno c’è stato un processo in cui ero parte lesa, perché dopo otto anni hanno finalmente condannato una pazza…»
La skipper?
«La skipper, sì. Sai cos’ha scritto Repubblica? “Barbareschi dal suo panfilo caccia una povera lavoratrice del mare”. Capisci che, visto così, la mia responsabilità va a quel paese. Io, anche se faccio Arancia Meccanica moltiplicato per Otto e mezzo di Fellini, devo firmarlo con un nome diverso. Perché sono scomodo, perché voglio essere indipendente, non me ne frega più un cazzo di nessuno di questi servi che hanno scritto sulla stampa le cose peggiori, anzi non hanno scritto… La vera tangentopoli dei giornalisti dev’essere ancora scritta!»
Ti fa onore l’aver trasformato il tuo percorso artistico, la tua fortuna, tutto quello che fa parte del tuo impero, in forza lavoro, perché hai aperto una società di produzione…
«È questo, il mio “Summertime”, che ha vinto a Venezia quando non c’erano ancora questi mentecatti servi dei politici.»
In un certo senso sei un esempio per i giovani…
«Voi però dovete ribellarvi! Dovete mandarli a fanculo. Sai perché odio quelli del Valle? Non perché l’hanno occupato, perché l’occuperei anch’io, ma perché non hanno fatto un cazzo dentro il Valle. È questa la tragedia: Peter Brook alla Gare du Nord dentro un garage ha rivoluzionato il teatro mondiale! Noi, nel nostro piccolo, all’Elfo di Milano… “Sogno di una notte d’estate” fatto trent’anni fa, è stato in cartellone un anno, ed eravamo degli illustri sconosciuti! Io, Claudio Bisio, Paolo Rossi, Maddalena Crippa, Irene Capitani… oggi siamo tutti conosciuti, ma allora eravamo sconosciuti. Eravamo in un garage, non è che fossimo al Piccolo. Un anno in cartellone, ottocento persone a sera. Contro il Piccolo di Strehler, che stava morendo. Non abbiamo mica avuto bisogno di occupare il Teatro Lirico… Però c’era talento. Eravamo tutti giovani pieni di talento che hanno fatto delle cose. Qui invece occupano i teatri e non hanno idee… e questo è il risultato.»
Hai citato il Teatro Valle… noi abbiamo lanciato anche una petizione…
«Sai chi sono i peggiori, in malafede? Sono Gifuni, il figlio di Gifuni, il funzionario di stato. Quell’altro, come si chiama? Che è anche un bravissimo attore, ricciolino, rosso…»
Elio Germano?
«Elio Germano. Tutti froci col culo degli altri! Vanno al Valle, fanno i combattenti, però col cazzo che si fanno arrestare. Hanno distrutto la società di raccolta per gli attori, questo per colpa anche di un senatore idiota del Pdl… tutti quelli di adesso hanno distrutto la Repubblica. Perché non appena arriva uno di sinistra si calano le braghe per essere accettati. Di società di raccolta ce ne erano tre, adesso più niente.»
Noi fra l’altro siamo contenti di averti fra le firme di quelli che hanno aderito a questa petizione per liberare il Teatro Valle perché l’iniziativa che ha lanciato Edoardo Sylos Labini dalle nostre pagine secondo me è fondamentale…
«È encomiabile, ha fatto bene. Infatti ho aderito subito, io ci sono anche andato a litigare da solo.»
Ma sai che non è facile…
«Io ho chiesto di farmi entrare perché volevo parlare. Ma ormai non c’è più nessuno, cinquanta precari, gente che non ha mai fatto un provino in vita sua, non c’è gente dello spettacolo lì.»
Ma ti hanno ascoltato, quando sei andato a bussare alla loro porta?
«Ma chi? Non sono attori! Qui c’è il malinteso: gli occupanti del Valle non sono attori. Non sono registi, non sono scenografi… sono dei precari, c’è gente di cinquant’anni. Ma sai chi è l’altro deficiente, lì? Ronconi è andato al Valle a dire “sono con voi”. Ronconi! Ronconi ha devastato il teatro italiano: al Piccolo non lavora un giovane da vent’anni. Capisci com’è facile il trucco? Quando c’erano le manifestazioni a Milano, c’era gente che scendeva dalle Rolls Royce col maggiordomo, che diceva: “Vi passo a prendere dopo, che la mamma vi manda tutti a Saint Moritz?”, questo era il movimento studentesco a Milano. Nessuno racconterà mai la verità su questo. I movimenti veri erano Lotta Comunista, Lotta Continua a Torino. Gli operai, non i fighetti di Milano!»
Però, Luca, non è semplice…
«Posso dirti? Il signore del Giornale vostro, il signor Sallusti, quando c’è da fare una battaglia con quelli come me non la fa. Diteglielo pure. Io non sono mica la Santanché.»
Glielo stai dicendo tu, perché sarai ascoltato…
«Glielo dico, glielo dico. Perché son spariti tutti, invece di far coesione fra i cervelli migliori, vanno a Cannes, si fanno vedere alla Festa dei Ciak…c’è Servillo a braccetto con Verdone e la Santanché…. Qui è una questione di competenze, di mettere il meglio, fare scuole di eccellenza, però bisogna capirle, le cose. Io son contento che ci sia Edoardo, perché ha tanta competenza e tanta voglia di fare. Io le ho fatte le mie battaglie, da onorevole, per cinque anni. Litigai con lo stesso Berlusconi con cui ai tempi non ero d’accordo.»
Ecco, il bello della battaglia di Edoardo è proprio che è bipartisan, a nome della cultura libera e al di là del colore politico.
«Ma non vi caga nessuno. Guarda, io sto a testa alta, perché nelle mie produzioni, tu le avrai viste, da Olivetti a Walter Chiari, lavorano solo professionisti. Mai raccomandati. Tu vedrai da Paolo Graziosi a Rocco Papaleo. Però se faccio la prima di “Something Good” gli attori che ho fatto lavorare credi che siano venuti? No, perché hanno paura che se vai a una prima di Barbareschi magari non ti chiama Nanni Moretti. A me di Nanni Moretti non me ne frega un cazzo, ma neanche a nessuno di questi. Io lavorerei domani con Moretti, se ha voglia, alla pari però.»
Torniamo alla tua carriera: tu teatralmente hai sempre fatto delle scelte originali. Hai portato sulla scena italiana autori come Mamet, Polanski… oggi, secondo te, di quali testi avremmo ancora bisogno teatralmente?
«Banalmente di copiare quello che hanno fatto all’estero. Se tu vai a vedere, il teatro è contemporaneo: solo qui è un’eccezione. Il teatro racconta quello che accade in questo momento, non quello che accadeva. Poi, i grandi teatri stabili dovrebbero star fermi e non itinerare. Ma i teatri non me li danno mai, l’unico teatro che ho diretto per due anni è stato l’Eliseo e hanno tentato di cacciarmi subito, perché io mi opponevo a questa consorteria degli scambi, di comprare a scatola chiusa uno spettacolo.»
«Ma infatti la tua direzione artistica si è conclusa poco dopo…
«Perché ho detto che avrei fatto una compagnia fissa a Roma, con otto novità all’anno e fine. Risparmiavo sulle spese per i trasporti e diventava un teatro innovativo.»
Quindi copiamo dall’estero. Importiamo novità dall’estero…
«Ma li vedi questi qua del Piccolo? Che non sanno neanche la differenza tra sceneggiatura, scenografia e coreografia? Gente attaccata alla sedia, al potere, fanno gli scambi, prendono chi è utile, che è figlio di questo o di quello…»
LA TELEVISIONE ED I MEDIA: L’OPPIO DEI POVERI CHE DANNEGGIA LE FACOLTA’ MENTALI.
Televisione e media: l’oppio dei poveri!, scrive Marcello Pamio. Se «le religioni sono l’oppio dei popoli», «la televisione e i media in generale sono l’oppio dei poveri». Ovviamente mi riferisco ai poveri di Spirito, ai poveri dentro, nell’animo, che si accontentano, proprio per questa carenza interiore, per questo vuoto, di quello che il tubo catodico e gli altri canali d'informazione, ”regalano” loro giorno dopo giorno, senza preoccuparsi se i messaggi gentilmente offerti dal Sistema sono veri oppure no, e soprattutto se ci sono altre notizie che non vengono dette o che vengono oscurate. Il populino che l’intellettuale statunitense, Noam Chomsky, chiama «gregge disorientato». Partiamo da un dato di fatto assodato e dimostrabile: i media in generale, in quanto aziende e/o società per azioni, sono tutti controllati. Non entro nel merito delle varie forme di controllo diretto e indiretto: redazionale, azionariato, politico ed economico (sponsor, banche controllanti, ecc.), anche perché mi porterebbe lontano. Ma gli esempi di censura e di auto-censura, mediatica sono innumerevoli. Per questo non possiamo pretendere che le informazioni che ci arrivano dentro casa, siano, non dico vere, ma almeno obiettive. E infatti non lo sono, e in un sistema come quello attuale non potranno mai esserlo. Ma andiamo avanti nel ragionamento. Le informazioni non sono obiettive e prendono, per così dire, il “colore” politico del direttore, dell’editore, degli azionisti, delle banche dietro, ecc. Con un minimo di allenamento cerebrale, e senza tanto impegno, è possibile notare queste sfumature, anche se questo lavoro sta diventando più difficile perché i media si stanno sempre più uniformando e appiattendo, si stanno sempre più globalizzando, per usare un termine caro al Sistema. La cosa veramente difficile è venire a conoscenza delle notizie oscurate volutamente dai media: mi riferisco alle notizie scomode, alle notizie che en-passant (magari alle 6 di mattina) fanno la loro apparizione e poi spariscono nell’oblio, o a quelle notizie che NON vengono per niente veicolate. E la cosa è ancora più complessa, se questo vuoto informativo viene apparentemente “riempito” da un palinsesto televisivo creato ad hoc. Spettacoli, notizie mirate, reality show, fatti di cronaca nera (come alcuni strani rapimenti, sparizioni di bambini che puntualmente e in maniera sincronica fanno la loro comparsa, ecc.), appuntamenti sportivi, ecc. Il tutto per riempire il cervello e ottenebrare le menti delle persone. Oggi il Mondiale di calcio in Germania sta tenendo milioni di persone con il fiato sospeso e questa occupazione andrà avanti fino ai primi di luglio, poi naturalmente subentreranno le ferie, e ci ritroveremo a settembre, magari con la nazionale di calcio con una coppa del mondo in più in bacheca (che servirà a far dimenticare lo scandalo vergognoso delle truffe, del doping, delle scommesse, delle droghe, della prostituzione, e di un sistema in metastasi che non riguarda certamente solo Moggi & C.), proprio come successe nel lontano 1982… Quindi la coppa del mondo è un ottimo anestetico cerebrale e un potente chemioterapico…almeno fino alla prossima biopsia, o fino al prossimo giornalista e/o magistrato coraggioso! Anche perché, diciamocelo onestamente: se la gente perde la fede nel dio-pallone, e non va più in chiesa (stadio) o non ascolta più il tele-evangelista (cronache sportive), chi accetterebbe più un sistema come questo? Il calcio è indubbiamente un collante sociale potentissimo che NON può mancare al Sistema. Ecco perché tutto rientrerà, ad ogni costo e con ogni mezzo…anche regalando, un primo o un secondo posto sul podio!
Detto questo, una persona “comune”, che riceve le notizie esclusivamente dal tubo catodico, come fa a sapere quello che la “scatola infernale” NON dice? Esistono certamente canali alternativi, ma questi implicano una ben precisa presa di coscienza e soprattutto voglia di conoscenza, di non accettare passivamente quello che ci viene servito nel piatto, ma di trasformare questa passività in azione per capire meglio comprendere cosa accade tutto intorno a noi.
Come la tv danneggia le
facoltà mentali, scrive Marco Della Luna.
Le funzioni psichiche superiori, cognitive e metacognitive, possono essere
sviluppate, mediante l’addestramento (famigliare, scolastico, professionale) e/o
pratiche autonome, ma anche impedite nel loro sviluppo, o danneggiate. Uno dei
fattori più attivi in questo senso, sia per intensità che per quantità di
persone colpite, è la televisione, assieme ai videogiochi. Norman Doidge, in
The Brain that Changes Itself (Penguin Books, 2007), espone allarmanti
risultati di rilevamenti scientifici sugli effetti neuroplastici
dell’esposizione alla televisione e ai video games. Preliminarmente, Doidge
illustra come la neuroplasticità, di cui già abbiamo trattato, fa sì che, come
il cervello foggia la cultura, così la cultura, le pratiche di vita (anche
quelle che possono essere imposte a fini manipolatori) foggiano il cervello. Lo
foggiano generando e potenziando reti neurali, collegamenti nervosi,
innervazioni, che consentono di compiere prestazioni ritenute estranee alle
facoltà dell’uomo, come aggiustare la vista alla visione subacquea senza l’uso
di occhialini (osservato negli “zingari del mare”, una popolazione di pescatori
di perle, e sperimentalmente riprodotto in bambini svedesi – Doidge, cit., pag.
288). Anche l’attività di meditazione muta il cervello, aumentando le dimensioni
dell’insula (pag. 290). Anche la pratica della lettura produce modificazioni
espansive di alcune aree corticali (pag. 293). I nostri cervelli sono diversi da
quelli dei nostri antenati. Principio basilare della neuroplasticità è che
quando due aree cerebrali lavorano abitualmente assieme, si influenzano
reciprocamente e a sviluppare connessioni, formando un’unità funzionale. Ciò può
avvenire tra aree di livello evolutivo diverso: ad esempio, nel gioco degli
scacchi, dove si punta a dare la caccia al re avversario, tra aree arcaiche
esprimenti e organizzanti l’istinto della predazione, e aree corticali
esprimenti l’intellettualità (297): in tal modo, l’attività predatoria viene
temperata e trasfigurata. Naturalmente, il condizionamento cerebrale,
l’impianto di schemi neurali (valori, codici, inibizioni, fedi) è assai più
agevole e rapido nell’infanzia e nella prima adolescenza, prima che si compia il
processo di sfoltimento dei neuroni e delle loro connessioni (neuroplasticità
sottrattiva) (pag. 288). Per tale ragione, tutte le istituzioni totalizzanti –
religiose e politiche – tendono ad impadronirsi della gestione dell’infanzia;
notevole è il caso del regime nordcoreano, che gestisce i bambini dai 5 anni in
poi impegnando quasi tutto il loro tempo in attività di culto delle personalità
del dittatore e di suo padre. Altresì per questa ragione, l’integrazione
culturale e morale degli immigrati adulti è pressoché impossibile, se richiede
estesi “ricablaggi” neurali. (pag. 299). Anche la percezione e l’analisi di
eventi avviene in modi diversi a seconda dell’imprinting ricevuto, e non per
effetto di differenze meramente culturali, ma a causa di diversità di reti
neurali, come hanno confermato esperimenti di comparazione tra occidentali e
orientali (pagg. 298-304). Dopo tali premesse, Doidge spiega come la
televisione, e gli schermi in generale, risultano esercitare un’importante
influenza neuroplastica, soprattutto sui bambini, con dannose conseguenze, nel
senso soprattutto di compromettere la facoltà dell’attenzione. Uno studio su
oltre 2.500 bambini ha mostrato che l’esposizione alla tv tra 1 e 3 anni mina la
capacità di prestare attenzione e di controllare gli impulsi nella successiva
fanciullezza. Ogni ora passata alla tv a quell’età comportava una perdita del
10% della capacità attentiva all’età di 7 anni (pag. 307). La pratica di
guardare la tv è molto diffusa tra i bambini sotto i 2 anni. Quindi la tv è
verosimilmente un’importante causa del moltiplicarsi di sindromi di deficit
attenzionale e di iperattività (ADD, ADHD) e della minore capacità di seguire le
lezioni, di imparare, di capire – che si nota vistosamente nelle scuole anche
italiane, dove la necessità di abbassare il livello dell’insegnamento per farsi
capire ha già portato a una sostanziale dequalificazione. E l’introduzione di
computers in classe, evidentemente, rischia di peggiorare le cose. Notevole è
che questi perniciosi effetti non sono dovuti ai contenuti delle trasmissioni
televisive o dei videogiochi, bensì al veicolo stesso, allo schermo. Il mezzo è
parte costitutiva del messaggio, come intuì per primo Marshall McLuan. Il
medesimo testo è processato diversamente dal cervello, a seconda che arrivi
dalla lettura del giornale o dalla televisione. I centri di comprensione
attivati sono diversi, come mostrano scansioni cerebrali mirate (pag. 308).
“Molto del danno causato dalla televisione e da altri media elettronici, come i
music videos e i computer games, viene dal loro effetto sull’attenzione. Bambini
e adolescenti dediti a giochi di combattimento sono impegnati in un’attività
concentrata e sono gratificati in misura crescente. Video games, come pure il
porno in Internet, hanno tutti i requisiti per mutare plasticamente la mappa
cerebrale.” Un esperimento con un gioco di combattimento (sparare al nemico e
schivare il suo fuoco) “mostrò che la dopamina – il neurotrasmettitore della
gratificazione, rilasciato anche per effetto di droghe assuefacenti – è secreto
dal cervello durante siffatti giochi. Coloro che sviluppano dipendenza dai
giochi cibernetici mostrano tutti i segni delle altre dipendenze: bramosia
quando cessano il gioco, trascuranza per altre attività, euforia quando sono al
pc, tendenza a negare o minimizzare il loro coinvolgimento effettivo.
Televisione, video musicali, e videogiochi – tutti utilizzanti tecniche tv –
operano a un ritmo assai più rapido che la vita reale, e vanno accelerando, così
che la gente è costretta a sviluppare un crescente appetito per sequenze veloci
in quei media. E’ la forma del mezzo televisivo – tagli, inserti, zumate,
panoramiche, improvvisi rumori – che alterano il cervello, attivando quella che
Pavlov chiamava “reazione di orientamento”, che scatta ogniqualvolta avvertiamo
un improvviso cambiamento nel mondo intorno a noi, soprattutto un movimento
improvviso. Istintivamente interrompiamo checché stiamo facendo, focalizziamo
l’attenzione, e facciamo il punto. La reazione di orientamento si è evoluta,
senza dubbio, perché i nostri antenati erano sia predatori che prede e
abbisognavamo di reagire a situazioni potenzialmente pericolose o tali da
offrire opportunità per cose come il cibo o il sesso, o semplicemente a nuove
circostanze. La reazione è fisiologica: il battito cardiaco cala per 4 – 6
secondi. La tv fa scattare questa reazione con frequenza molto maggiore di
quanto ci accada nella vita – ed è per questo che non riusciamo a staccare gli
occhi dalla tv, persino nel mezzo di un’animata conversazione; ed è pure per
questo che si finisce per passare alla tv più tempo di quanto si intende. Poiché
i tipici video musicali, le sequenze di azione, e gli spot pubblicitari fanno
scattare la reazione in parola ogni secondo, stare a guardarli ti mette in uno
stato di incessante reazione di orientamento senza recupero. Non c’è da
stupirsi, quindi, se le persone si sentono svuotate dopo aver guardato la
televisione. Però contraggono un gusto per essa e finiscono per trovare noiosi i
ritmi di cambiamento più lenti. Il prezzo di ciò è che attività quali lettura,
conversazioni complesse, e ascolto di lezioni divengono più difficili.” (pag.
309-310). In sostanza, la televisione rende la gente al contempo dipendenti da
sé (quindi proni ai suoi input propagandistici e pubblicitari), e meno capaci di
attenzione, dialettica e apprendimento. Diventa quindi uno strumento di “social
control”, un tranquillante per le masse, e al contempo un veicolo per impiantare
in esse la percezione della realtà che si vuole che abbia. Inoltre, la tv crea
disturbi dell’attenzione e del controllo degli impulsi, che aprono un florido e
rapidamente crescente mercato per le industrie farmaceutiche, la psichiatria, la
psicologia clinica – come approfonditamente spiega l’Appendice di Regina
Biondetti alla 2a edizione di Neuroschiavi. Va inoltre evidenziato che la
televisione abitua la mente a un rapporto unidirezionale, passivo, e non
interattivo, in cui si può solo recepire senza replicare o criticare, e non vi è
il tempo di analizzare e filtrare. Inoltre, abitua a seguire immagini e suoni,
non i discorsi, i ragionamenti; inibisce la capacità di costruire o seguire
sequenze logiche, con corrispondenti difficoltà o impossibilità di apprendimento
attraverso lo studio di testi scritti.
Essenzialmente, la tv è il mass media per le classi mentalmente subalterne e
inerti. Ovvia misura protettiva contro questo mezzo di manipolazione mentale e
neurale sarà quindi il non esporre, o esporre solo minimamente, i bambini alla
televisione e ai video giochi, e il moderare assai anche l’esposizione degli
adulti. Inoltre, è opportuno trovarsi tempi e ambienti idonei al recupero, alla
riflessione solitaria, alla conversazione approfondita coi propri simili. Faccio
presente che è importante, ma non è sufficiente, il selezionare i contenuti,
cioè il tipo di programma che si guarda, perché il danno viene soprattutto dalla
televisione o dal videogame in sé, come veicolo, come modo di trasmissione e
ricezione.
I DISCORSI DI FINE ANNO IN TV.
Milena Gabanelli contro la Rai. La giornalista di Report chiude l'anno con un editoriale sul Corriere dove impallina viale Mazzini. La Gabanelli mette nel mirino tutta la struttura Rai e propone di smantellarla: "Privatizzare la Rai è un tema ricorrente. Nessun Paese europeo pensa di vendersi il servizio pubblico perché è un cardine della democrazia non sacrificabile. In nessun Paese europeo però ci sono 25 sedi locali: Potenza, Perugia, Catanzaro, Ancona. In Sicilia ce ne sono addirittura due, a Palermo e a Catania, ma anche in Veneto c'è una sede a Venezia e una a Verona, in Trentino Alto Adige una a Trento e una a Bolzano. La Rai di Genova sta dentro a un grattacielo di 12 piani... ma ne occupano a malapena 3. A Cagliari invece l'edificio è fatiscente con problemi di incolumità per i dipendenti. Poi ci sono i centri di produzione che non producono nulla, come quelli di Palermo e Firenze. A cosa servono 25 sedi?". E ancora: "A produrre tre tg regionali al giorno, con prevalenza di servizi sulle sagre, assessori che inaugurano mostre, qualche fatto di cronaca. L'edizione di mezzanotte, che è una ribattuta, costa 4 milioni l'anno solo di personale. Perché non cominciare a razionalizzare?". Poi propone la sua ricetta: "Se informazione locale deve essere, facciamola sul serio, con piccoli nuclei, utilizzando agili collaboratori sul posto in caso di eventi o calamità, e in sinergia con Rai news 24. Non si farà fatica, con tutte le scuole di giornalismo che sfornano ogni anno qualche centinaio di giornalisti! Vogliamo cominciare da lì nel 2014? O ci dobbiamo attendere presidenti di Regione che si imbavagliano davanti a viale Mazzini per chiedere la testa del direttore di turno che ha avuto la malaugurata idea di fare il suo mestiere? È probabile, visto che la maggior parte di quelle 25 sedi serve a garantire un microfono aperto ai politici locali".
La politica del noi faremo, spiega Milena Gabanelli su “Il Corriere della Sera”. A fine anno, nella vita come in tv, si replica. Il Capo dello Stato fa il suo discorso, quello del Governo ricicla le dichiarazioni di 6 mesi fa in occasione del decreto del fare, con l’enfasi di un brindisi: «Faremo». Vorremmo un governo che a fine anno dica «abbiamo fatto» senza dover essere smentito. Il Ministro Lupi fa l’elenco della spesa: 10 miliardi per i cantieri, «saranno realizzate cose come piazze, tutto ciò di cui c’è un bisogno primario». C’è un bisogno primario di piazze e di rotatorie? «Trecentoventi milioni per la Salerno-Reggio Calabria». Ancora fondi per la Salerno Reggio-Calabria? Fondi per l’allacciamento wi-fi. Ma non erano già nel piano dell’Agenda Digitale? E poi la notizia numero uno: «Le tasse sono diminuite». Vorrei sapere dal premier Letta per chi sono diminuite, perché le mie sono aumentate, e anche quelle di tutte le persone che conosco o che a me si rivolgono. È aumentata la bolletta elettrica, l’Iva, l’Irpef, la Tares. L’acconto da versare a fine anno è arrivato al 102% delle imposte pagate nel 2012, quando nel 2013 tutti hanno guadagnato meno rispetto all’anno prima. Certo l’anno prossimo si andrà a credito, ma intanto magari chiudi o licenzi. E tu Stato, quando questi soldi li dovrai restituire dove li trovi? Farai una manovra che andrà a penalizzare qualcuno. I debiti della pubblica amministrazione con le imprese ammontano a 91 miliardi. A giugno il Governo dichiara: «Stanziati 16 miliardi». È un falso, perché quei 16 miliardi sono un prestito fatto da Cassa Depositi e Prestiti agli enti locali. E per rimborsare questo mutuo, i comuni, le province e regioni hanno aumentato le imposte. L’Assessore al Bilancio della Regione Piemonte in un’intervista a Report ha detto: «Per non caricare il pagamento dei debiti sui cittadini, si doveva tagliare sul corpo centrale delle spese del Governo, e se non si raggiungeva la cifra… non so.. vendo la Rai!». Privatizzare la Rai è un tema ricorrente. Nessun paese europeo pensa di vendersi il servizio pubblico perché è un cardine della democrazia non sacrificabile. In nessun paese europeo però ci sono 25 sedi locali: Potenza, Perugia, Catanzaro, Ancona. In Sicilia ce ne sono addirittura due, a Palermo e a Catania, ma anche in Veneto c’è una sede a Venezia e una a Verona, in Trentino Alto Adige una a Trento e una a Bolzano. La Rai di Genova sta dentro ad un grattacielo di 12 piani…ma ne occupano a malapena 3. A Cagliari invece l’edificio è fatiscente con problemi di incolumità per i dipendenti. Poi ci sono i Centri di Produzione che non producono nulla, come quelli di Palermo e Firenze. A cosa servono 25 sedi? A produrre tre tg regionali al giorno, con prevalenza di servizi sulle sagre, assessori che inaugurano mostre, qualche fatto di cronaca. L’edizione di mezzanotte, che è una ribattuta, costa 4 milioni l’anno solo di personale. Perché non cominciare a razionalizzare? Se informazione locale deve essere, facciamola sul serio, con piccoli nuclei, utilizzando agili collaboratori sul posto in caso di eventi o calamità, e in sinergia con Rai news 24. Non si farà fatica, con tutte le scuole di giornalismo che sfornano ogni anno qualche centinaio di giornalisti! Vogliamo cominciare da lì nel 2014? O ci dobbiamo attendere presidenti di Regione che si imbavagliano davanti a Viale Mazzini per chiedere la testa del direttore di turno che ha avuto la malaugurata idea di fare il suo mestiere? È probabile, visto che la maggior parte di quelle 25 sedi serve a garantire un microfono aperto ai politici locali. Le Regioni moltiplicano per 21 le attività che possono essere fatte da un unico organismo. Prendiamo un esempio cruciale: il turismo. Ogni regione ha il suo ente, la sua sede, il suo organico, il suo budget, le sue consulenze, e ognuno si fa la sua campagna pubblicitaria. La Basilicata si fa il suo stand per sponsorizzare Metaponto a Shangai. Ognuno pensa a sé, alla sua clientela (non turistica, sia chiaro) da foraggiare. E alla fine l’Italia, all’estero, come offerta turistica, non esiste. Dal mio modesto osservatorio che da 16 anni verifica e approfondisce le ricadute di leggi approvate e decreti mai emanati che mettono in difficoltà cittadini e imprese, mi permetto di fare un elenco di fatti che mi auguro, a fine 2014, vengano definitivamente risolti. Punto 1. Ridefinizione del concetto di flessibilità. Chi legifera dentro al palazzo forse non conosce il muro contro cui va a sbattere chi vorrebbe dare lavoro, e chi lo cerca. Un datore di lavoro (che sia impresa o libero professionista) se utilizza un collaboratore per più di 1 mese l’anno, lo deve assumere. Essendo troppo oneroso preferisce cambiare spesso collaboratore. Il precario, a sua volta, se offre una prestazione che supera i 5000 euro per lo stesso datore di lavoro, non può fare la prestazione occasionale, ma deve aprire la partita Iva, che pur essendo nel regime dei minimi lo costringe comunque al versamento degli acconti; inoltre deve rivolgersi ad un commercialista per la dichiarazione dei redditi, perché la norma è di tre righe, ma per dirti come interpretare quelle tre righe, ci sono delle circolari ministeriali di 30 pagine, che cambiano continuamente. Il principio di spingere le persone a mettersi in proprio è buono, ma poi le regole vengono rimpinzate di lacci e alla fine la partita Iva diventa poco utilizzabile. Perché non alzare il tetto della «prestazione occasionale» fino a quando il precario non ha definito il proprio percorso professionale? Il mondo del lavoro non è fatto solo da imprese che sfruttano, ma da migliaia di micropossibilità che vengono annientate da una visione che conosce solo la logica del posto fisso. Si dirà: «Ma se non metti dei paletti ci troveremo un mondo di precari a cui nessuno versa i contributi». Allora cominci lo Stato ad interrompere il blocco delle assunzioni e smetta di esternalizzare! Oggi alle scuole servono 11.000 bidelli che costerebbero 300 milioni l’anno. Lo Stato invece preferisce dare questi 300 milioni ad alcune imprese, che ricavano i loro margini abbassando gli stipendi (600 euro al mese) e di conseguenza i contributi. Che pensione avranno questi bidelli? In compenso lo Stato non ha risparmiato nulla…però obbliga un libero professionista o una piccola impresa ad assumere un collaboratore che gli serve solo qualche mese l’anno. Il risultato è un incremento della piaga che si voleva combattere: il lavoro nero. Punto 2. Giustizia. Mentre aspettiamo di vedere l’annunciata legge che archivia i reati minori (chi falsifica il biglietto dell’autobus si prenderà una multa senza fare 3 gradi di giudizio), occorrerebbe cancellare i processi agli irreperibili. Oggi chi è beccato a vendere borse false per strada viene denunciato; però l’immigrato spesso non ha fissa dimora, e diventa impossibile notificare gli atti, ma il processo va avanti lo stesso, con l’avvocato d’ufficio, pagato dallo Stato, il quale ha tutto l’interesse a ricorrere in caso di condanna. Una macchina costosissima che riguarda circa il 30% delle sentenze dei tribunali monocratici, per condannare un soggetto che «non c’è». Se poi un giorno lo trovi, poiché la legge europea prevede il suo diritto a difendersi, si ricomincia da capo. Perché non fare come fan tutti, ovvero sospendere il processo fino a quando non trovi l’irreperibile? Siamo anche l’unico paese al mondo ad aver introdotto il reato di clandestinità: una volta accertato che tizio è clandestino, anziché imbarcarlo subito su una nave verso il suo paese, prima gli facciamo il processo e poi lo espelliamo. Una presa in giro utile a far credere alla popolazione, che paga il conto, che «noi ce l’abbiamo duro». Punto 3. L’autorità che vigila sui mercati e sul risparmio. Dal 15 dicembre, scaduto il mandato del commissario Pezzinga, la Consob è composta da soli due componenti. La nomina del terzo commissario compete al Presidente del Consiglio sentito il Ministro dell’Economia ed avviene con decreto del Presidente della Repubblica. Nella migliore delle ipotesi ci vorranno un paio di mesi di burocrazia una volta che si sono messi d’accordo sul nome. Ad oggi l’iter non è ancora stato avviato e l’Autorità non assolve il suo ruolo indipendente proprio quando si deve occupare di dossier strategici per il futuro economico-finanziario del Paese come MPS, Unipol-Fonsai e Telecom. Di fatto Vegas può decidere come vigilare sui mercati finanziari e sul risparmio, direttamente da casa, magari dopo essersi consultato con Tremonti (che lo aveva a suo tempo indicato), visto che il voto del Presidente vale doppio in caso di parità, e i Commissari hanno facoltà di astensione. Perché il Governo non si è posto il problema qualche mese fa, e perché non si è ancora fatto carico di una nomina autorevole, indipendente e in grado di riportare al rispetto delle regole? Punto 4. Ilva. È alla firma del Capo dello Stato il decreto «terra dei fuochi», dentro ci hanno messo un articolo che autorizza l’ottantenne Commissario Bondi a farsi dare i circa 2 miliardi dei Riva sequestrati dalla procura di Milano. Ottimo! Peccato che non sia specificato che quei soldi devono essere investiti nella bonifica. Inoltre Bondi è inadempiente, ma il decreto gli da una proroga di altri 3 anni, e se poi non sarà riuscito a risanare, non è prevista nessuna sanzione. Nel frattempo che ne è del diritto non prorogabile della popolazione a non respirare diossina? Ovunque, di fronte ad un disastro ambientale, si sequestra, si bonifica e i responsabili pagano. Per il nostro governo si può morire ancora un po’. Come contribuente e come cittadina non mi interessa un governo di giovani quarantenni. Pretendo di essere governata da persone competenti e responsabili, che blaterino meno e ci tirino fuori dai guai. Pretendo che l’età della pensione valga per tutti, che il rinnovo degli incarichi operativi non sia più uno orrendo scambio di poltrone fra la solita compagnia di giro. Pretendo di essere governata da una classe politica che non insegna ai nostri figli che impegnarsi a dare il meglio è inutile.
Dopo la pubblicazione dell’articolo Tutto quello che non ha fatto la politica del «noi faremo» di Milena Gabanelli sul Corriere di martedì 31 dicembre 2013 la risposta piccata dell’Usigrai. Rai. Usigrai su Gabanelli sul Corriere. L’attacco alle sedi regionali della Rai sferrato da Milena Gabanelli dalle colonne del Corriere della Sera è disinformazione pura: dati errati e una scarsa conoscenza dell’azienda per la quale lavora da anni. Una operazione del genere fatta in una fase cruciale del rinnovo del Contratto di Servizio e del dibattito sul Concessione di Servizio Pubblico del 2016 rischia di dare un grande aiuto ai detrattori della Rai. Prima di fornire alcuni dati, non posso che esprimere sconcerto per l’opinione che Gabanelli ha delle colleghe e colleghi che lavorano nelle redazioni regionali: nella Tgr non abbiamo 700 reggimicrofono o esperti di sagre, ma straordinari professionisti che ogni giorno garantiscono l’informazione di Servizio Pubblico per e dal territorio. Passiamo ai dati. Le sedi regionali non sono 25, ma 21: una per ogni regione, più Trento e Bolzano. Le redazioni invece sono 24, perché si aggiungono quelle di minoranza linguistica: bolzano tedesca, bolzano ladina e trieste slovena. Le redazioni regionali non producono solo 3 tg al giorno, ma 3 telegiornali, 2 giornali radio, gli appuntamenti quotidiani della mattina Buongiorno Regione e Buongiorno Italia, un tg scientifico quotidiano, un settimanale, diverse rubriche quotidiane e settimanali a trasmissione nazionale, cui vanno aggiunti tutti i servizi che ogni giorno vengono prodotti per i tg nazionali. Solo per fare alcuni numeri: da Milano, Torino e Napoli arrivano oltre 12mila pezzi all’anno. In sintesi, la TgR produce 8500 ore tv e 6200 radiofoniche. Sul tg della sera (la cosiddetta terza edizione) ricordiamo che - nonostante l’assenza di un orario fisso - garantisce alla rete sempre un leggere aumento di ascolto. È falso che Firenze e Palermo siano centri di produzione. Come è falso che non producano nulla. A Firenze si produce Bellitalia, rubrica nazionale dedicata ai beni culturali. A Palermo si produce Mediterraneo, rubrica di attualità internazionale realizzata con France 3, in collaborazione con Entv Algeria e trasmessa da 8 emittenti europee e in lingua araba. Che alcuni immobili poi siano sovradimensionati lo abbiamo denunciato noi per primi, proponendo alla Rai una valutazione congiunta, convinti che in alcuni casi si possano trovare soluzioni più adeguate e con il ricavo investire in innovazione tecnologica. Insomma, con un condensato di luoghi comuni, Gabanelli si iscrive di diritto nel partito - a dire il vero molto trasversale - di quanti pensano che il problema della Rai sia come ridimensionarla. E infatti, rivolgendosi al governo e ai partiti attraverso l’autorevole tribuna del Corriere della Sera (grazie a un contratto Rai che non le impone l’esclusiva), Gabanelli si inserisce nella scia qualunquista per chiedere una sforbiciata alla Rai e non invece ciò che realmente serve alla nostra azienda di Servizio Pubblico. Innanzitutto una legge di nomina dei vertici che garantisca autonomia e indipendenza dai partiti e dai governi. Una riforma del canone che assicuri certezza di risorse alla Rai e permetta ai cittadini di pagarla tutti, pagare meno, e in maniera progressiva sul reddito: invece la giornalista neanche una parola ha scritto sull’evasione di 550 milioni di euro all’anno. Poi una legge sui conflitti di interesse. Come quello che permette di essere in Commissione parlamentare di Vigilanza al proprietario di una tv privata locale che da imprenditore e da senatore chiede che la Concessione di Servizio Pubblico venga affidata ad azienda come la sua. Eppure è un tema che Gabanelli ben conosce visto che è stato oggetto di una intervista che la sua redazione mi ha chiesto ormai mesi fa, anche se ancora non ha avuto occasione di mandare in onda. Insomma, stimo fortemente Milena Gabanelli come professionista e leader di una squadra che assicura inchieste che danno lustro alla Rai. Proprio la sua autorevolezza e credibilità, dovrebbe indurla a informarsi con più attenzione prima di esprimere giudizi sul lavoro di centinaia di colleghe e colleghi e proporre soluzioni che rischiano di fare il gioco di chi vuole ridimensionare la Rai e quindi l’informazione di Servizio Pubblico. Vittorio di Trapani Segretario Usigrai.
Di seguito la risposta di Milena Gabanelli. Scusi, ma le redazioni di Verona e Catania si occupano di minoranza linguistica?. Ci mancherebbe che 700 giornalisti si tirassero le dita! Io non li ho umiliati, poiché non sono sempre i giornalisti che decidono di occuparsi di sagre o assessori, ma magari il loro di direttore, di nomina politica. E la mancata razionalizzazione delle sedi locali (ostacolata dalla politica e a quanto pare anche dai sindacati) è un peso che impedirà alla Rai di essere realmente concorrenziale. Non bisogna difendere solo i diritti acquisiti, bisogna anche capire in quale direzione deve andare l’azienda! i tempi sono cambiati, c’è il web, c’è Rainews24. Nel 1994 mi occupavo di un programma che si chiamava Professione Reporter e spiegava ai giornalisti il più agile ed economico modello di videogiornalismo , l’Usigrai protestò e chiese di chiudere il programma, perché non avrebbe avuto altro scopo che la riduzione dei cameramen. Oggi più o meno tutti i giornalisti sanno usare la videocamera. Se l’allora direttore di Rai2 Minoli, vi avesse ascoltato, Report non sarebbe mai nato, e non produrrebbe ad un costo così competitivo. Per quel che riguarda il resto noi ce ne siamo occupati più volte affrontando l’ira del cda di turno. Non mi risulta che l’abbiano fatto pubblicamente altri colleghi. Le ricordo che non sono una dipendente Rai, ma capisco che secondo la sua ottica non dovrei scrivere per il Corriere. Lo faceva anche Biagi (altro calibro, certo)... ma forse abbiamo idee diverse su cosa sia il valore aggiunto. Buon Anno. Milena Gabanelli.
I TELEGIORNALI DI
PULCINELLA.
La manipolazione dell'opinione pubblica nei Tg italiani, scrive Antonella
Randazzo. I giornalisti dei nostri telegiornali sono diventati presentatori e
pubblicitari. Altre competenze, ben diverse dall'informazione obiettiva e "sul
campo". I servizi giornalistici sembrano creati ad arte per mostrare alcune cose
e nasconderne altre. In un paese in cui sempre meno persone leggono i giornali,
l'informazione televisiva rappresenta per la maggior parte della popolazione
l'unica fonte d'informazione. Molte di queste persone credono che i telegiornali
li informino su ciò che accade nel mondo, e si troverebbero increduli di fronte
al solo pensiero che i Tg possano essere utilizzati per manipolare le loro
opinioni. Eppure ciò appare sempre più evidente, dall'omissione di elementi
indispensabili per capire i fatti, dall'alterazione di alcune notizie e
dall'assenza di altre. L'opinione pubblica è fondamentale per la stabilità di un
sistema, e nel nostro sistema viene formata attraverso il bombardamento
mediatico. Per mantenere la stabilità, nell'attuale assetto politico-economico,
occorre che l'opinione pubblica sia piegata a ciò che è funzionale al sistema e
non apprenda alcune verità. Ciò rende il potere mediatico notevolmente
importante. Il controllo da parte del potere avviene oggi all'interno delle
nostre case, attraverso la Tv. La manipolazione dell'informazione è sempre più
sistematica, progettata per essere efficace e per rimanere nascosta agli occhi
dei cittadini. Le agenzie internazionali (americane, europee o giapponesi) che
forniscono le informazioni, sono supportate da agenzie di propaganda,
soprattutto americane, che pianificano non soltanto cosa rendere noto ma
soprattutto "come" dare informazione. La quantità di notizie viene sfoltita e
ridotta al 5/10% del totale. La verifica delle fonti e l'utilizzo del senso
critico sono ormai capacità atrofizzate dall'assumere passivamente il punto di
vista delle poche agenzie che informano centinaia di paesi, come la Adnkronos e
l'Ansa. Considerando come assolute alcune fonti e ignorandone altre,
l'informazione è già alterata in origine, derivando da un unico punto di vista,
che nel contesto appare oggettivo. Di tanto in tanto, nei nostri Tg, appare
qualche debole critica, ad esempio contro il governo statunitense. Si tratta
delle cosiddette “fessure controllate”, cioè critiche fatte ad oc per
generare fiducia nel Tg, ma che risultano vaghe e discordanti. Alcune notizie
assumono nei Tg un certo rilievo, soprattutto quelle che evocano emozioni.
Suscitare associazioni emotive e commozione è diventato uno degli scopi
principali dei Tg. I fatti di cronaca, specie se si tratta di delitti contro
bambini, si prestano a questo scopo, e quindi talvolta occupano uno spazio ampio
dei telegiornali. Si tratta di un modo per distrarre l’attenzione pubblica da
altri fatti assai più importanti per la vita dei cittadini. In altre parole,
vengono amplificate notizie (di solito di cronaca o relative ad uno specifico
problema) che non mettono in pericolo il sistema, per evitare di trattare altri
argomenti "scottanti" e pericolosi per l'assetto che i politici hanno il compito
di proteggere. Ad esempio, siamo stati indotti a parlare a lungo dei Pacs (una
legge che sarebbe stato ovvio approvare senza tanti problemi), mentre si
occultavano, tra le altre cose, le spese ingenti per la "difesa". Nessun
telegiornale ha detto che parte del Tfr dei lavoratori andrà per spese belliche.
In questi ultimi tempi, un altro argomento, che viene utilizzato dai Tg per
dirottare l'attenzione su fatti non pericolosi per il sistema, è quello dei
malati gravi che chiedono l'eutanasia. Invece di approvare una legge che ponga
fine al problema, il nostro sistema utilizza questi casi disperati (ieri quello
di Welby, oggi quello di Nuvoli), per riempire spazi e suscitare angoscia e
commozione. Si stimola la parte emotiva dei telespettatori, per coinvolgere in
una questione umana drammatica, senza far capire che il potere di risolvere il
problema è nelle mani proprio di chi sta strumentalizzando cinicamente il fatto.
Spesso alcune notizie sono oggetto di "sovrinformazione", cioè se ne parla in
molti programmi e abbondantemente. Ciò avviene o per focalizzare l'attenzione
soltanto su alcuni aspetti e fare in modo che i cittadini si sentano abbastanza
informati e non vadano ad informarsi altrove (come nel caso della finanziaria o
del Tfr), oppure per dare l'impressione che ci sia un'abbondante informazione.
Ma si tratta di informazioni ripetitive, che non spiegano davvero la questione e
talvolta la manipolano. Paradossalmente, il cittadino viene sommerso di
"informazione" per fare in modo che rimanga disinformato. La sovrinformazionze
può riguardare anche temi banali, come la separazione di una coppia nota, o
l'uso di droga da parte di un personaggio famoso. In questi casi si tratta di
distogliere l'attenzione da decisioni o eventi politici che stanno accadendo nel
paese, e di cui occorrerebbe parlare, ma non risulta conveniente al sistema. Si
sta affermando sempre più il metodo americano di creare trasmissioni
giornalistiche o televisive organizzate da agenzie di Pubbliche Relazioni, per
manipolare l'opinione pubblica su un determinato argomento. L'argomento di
solito è emerso all'attenzione pubblica senza che il sistema potesse impedirlo
(ad esempio, la Tv spazzatura o la violenza giovanile). A queste trasmissioni
partecipano personaggi accuratamente selezionati, che in apparenza sembrano
avere opinioni diverse, ma in realtà esprimono tutti un unico punto di vista,
che si vuole far apparire come unica verità. Talvolta è l'assunto di base della
conversazione ad essere errato, ma viene acquisito come vero da tutti i
partecipanti. Spesso si utilizza la figura dell'"esperto" che è abbastanza
persuasiva, rappresentando il mondo della "scienza", che si intende come fonte
di verità oggettiva. L'informazione dei Tg viene falsata in maniera sempre più
sottile e manipolatoria. Quando vengono sollevate smentite, soltanto in pochi
casi viene reso pubblico. Lo spazio e l'ordine dato ad un'informazione sono
molto importanti per valorizzare la notizia o sminuirla. Alcune notizie passano
inosservate perché vengono dette per ultime e frettolosamente, mentre ad altre
si dedica molto tempo all'inizio del Tg. Si stabilisce quindi una gerarchia in
ordine all'importanza e al rilievo che si vuole dare alla notizia. Si
privilegiano alcune notizie, altre vengono emarginate e altre ancora occultate.
L'informazione obiettiva è quella contestualizzata, verificata alla fonte e
commentata da opinionisti di diverse tendenze. Sentire le opinioni dei politici
di entrambi gli schieramenti serve a dare l'idea che si stanno sentendo più
punti di vista, ma ciò spesso non è vero, perché la maggior parte dei politici
non attua una vera critica al sistema, e si limita a spiegare le divergenze
rispetto all'altro schieramento. Il sistema politico-economico attuale è sempre
più intoccabile, e coloro che lo criticano appaiono sempre meno in televisione.
Nei Tg, le notizie vengono date come fatti isolati dal contesto, per impedire
una comprensione approfondita. Si tende ad esagerarne un aspetto, che è sempre
quello più emotivo. Lo stesso titolo talvolta è già gran parte della
mistificazione, perché da esso si inferisce se si tratta di una cosa giusta o
sbagliata, da approvare o da disapprovare. Ad esempio, quando si danno notizie
sull'Iran si tende a far apparire questo paese colpevole di qualcosa, e i titoli
sono "L'Iran sfida la comunità internazionale", oppure "L'Iran si ostina sul
programma nucleare". I paesi indicati dalle autorità Usa come nemici diventano
automaticamente nemici anche per le nostre autorità, che li criminalizzano in
modo impietoso, evitando di menzionare le continue minacce e la preparazione
alla guerra contro l'Iran da parte degli Stati Uniti. Si manipola l'opinione
pubblica italiana a pensarla come le autorità americane, e a ritenere che alcuni
paesi debbano essere colpiti perché "pericolosi". Non si danno notizie sui
numerosi crimini e attentati terroristici attuati dalle autorità Usa nel mondo,
se non quando ciò risulta inevitabile. I nostri telegiornali si limitano a
parlare di "attentati terroristici" in Iraq, Afghanistan o in altri paesi, senza
raccontare la situazione vera. Ad esempio, non parlano mai della resistenza
irachena e afghana, anche se ormai molti sanno che questi paesi sono occupati e
che la popolazione cerca in tutti i modi di resistere (anche con metodi
pacifici) all'invasore. Difficilmente le notizie su paesi in guerra vengono
spiegate in maniera approfondita, fornendo gli antecedenti politici, economici,
internazionali, ecc. che possano far capire i fatti e le situazioni attuali. La
decontestualizzazione è quindi uno dei modi per disinformare dando l'impressione
opposta. Il fatto viene slegato da altri fatti che lo renderebbero più
comprensibile. Ad esempio la violenza negli stadi viene slegata dal fenomeno
della violenza nei giovani e dalle pressioni mediatiche che incitano alla
violenza. Il tono e il tipo di linguaggio utilizzato influiscono su come
l'informazione viene percepita. Il tono può essere dispregiativo, di condanna,
oppure enfatico ed entusiasta. Il tono dà un significato positivo o negativo
alla notizia. La scelta delle parole è molto importante nel lavoro
propagandistico, perché ogni parola è evocativa di significati o di emozioni e
quindi deve essere scelta accuratamente per ottenere gli effetti voluti. Ad
esempio, per trasmettere un senso di negatività, i gruppi considerati pericolosi
per il sistema, come gli ambientalisti, i no-global o i comunisti, vengono
definiti come "radicali", "fanatici" o "estremisti". La polizia viene chiamata
"forza dell'ordine" anche quando reprime. Coloro che sono repressi vengono
chiamati "ribelli" o "giovani estremisti". La violenza di Stato, anche quando
uccide brutalmente, viene definita "sicurezza" o "difesa". I violenti sono
sempre coloro che protestano contro il sistema e mai le autorità dello Stato,
anche quando comandano una dura repressione, com'è accaduto al G8 di Genova.
Anche le immagini utilizzate hanno scopo manipolativo. Le immagini servono a
dare un'impronta negativa o positiva a luoghi, situazioni o concetti. Ad
esempio, quando si parla di cultura araba si mostrano le donne con il burqa
oppure immagini di fanatismo e violenza, per indurre un'associazione negativa.
Un altro mezzo efficace per manipolare l'informazione è l'uso di cifre. Le
analisi statistiche sono relative al campione scelto e al modello utilizzato. Le
statistiche possono essere utilizzate come un dato inoppugnabile e
incontestabile. Ma basta selezionare un determinato campione che possa alterare
i risultati, per dare l'informazione che si vuole.
Le notizie sono spiegate dallo stesso punto di vista in tutti i telegiornali. I
poteri al vertice del sistema, cioè le banche e le corporation, appaiono sempre
più raramente, e soltanto nei casi in cui si annuncia una fusione, l'acquisto di
un'azienda o la nomina di un direttore amministrativo. Quando una corporation
viene denunciata per gravi reati come l'uccisione di sindacalisti, la
schiavizzazione dei bambini o altri crimini contro i diritti umani, non viene
quasi mai notificato dai nostri telegiornali. Fino all'inizio degli anni Ottanta
esisteva l'inchiesta televisiva obiettiva, che mostrava la società nella sua
verità e complessità. Oggi, invece, la mistificazione mediatica riguarda anche
la società stessa. Non appaiono quasi più i lavoratori mentre stanno faticando.
Lo spazio dedicato alle proteste sindacali è ridotto al minimo. Alcune
manifestazioni di protesta non vengono documentate. Si manipola persino
l'immagine della società civile, che deve apparire accondiscendente anche quando
non lo è. Non si va mai alla radice delle questioni lavorative o sindacali e non
si fa comprendere abbastanza per poter giungere alla soluzione (che
richiederebbe cambiamenti al sistema) del problema. Le notizie sul dissenso alla
politica di governo sono pregne di accenti nefasti. Spesso vengono utilizzate
categorie stereotipate o etichette per puntare il dito contro chi mette in
dubbio l'operato politico del governo. I telegiornali fanno in modo che gli
oppositori appaiano come poche persone che non vogliono la "modernizzazione", il
"progresso" oppure come persone emarginate, fanatiche e "antiamericane". Ciò è
accaduto nel caso della Tav in Val di Susa e della Base americana a Vicenza. Nei
telegiornali si mostravano singole persone intervistate che esprimevano pareri
contrapposti, per far capire che c'erano pareri discordanti e occultare che la
stragrande maggioranza dei cittadini era contraria alle decisioni di governo. Si
vuole nascondere che il potere dei cittadini è continuamente svilito dal
sistema. E che quest'ultimo è distante da ciò che la gente vuole. Le questioni
che stanno a cuore alla cittadinanza, come l'ambiente, la pace e la libertà di
decidere sul proprio territorio, vengono denigrate dall'informazione tendenziosa
e manipolatoria dei Tg. Ad esempio, i cittadini della Val di Susa che
protestavano venivano mostrati come un gruppo sparuto di persone che avevano
paura di avere il "treno che gli passa sotto casa". La verità che si cercava di
occultare era che sotto al Musinè c'è l'amianto. Inoltre, nella Val di Susa
esiste già una linea ferroviaria Torino-Lione, attualmente sottoutilizzata, in
grado di poter reggere il traffico. Un'altra tecnica, utilizzata dai Tg, per
deviare l'attenzione sulla questione del dissenso e per semplificare i fatti
(per non far emergere altri aspetti), è di connotare ideologicamente il problema
con "destra" e "sinistra". Quando i cittadini si oppongono ad una questione lo
fanno per motivi razionali, ma il telegiornale tende a far credere che siano
motivi ideologici, oppure irrazionali e non accettabili. Nelle questioni in cui
gli Usa impongono un severo diktat, come nel caso delle truppe in Afghanistan e
della base militare a Vicenza, i giornalisti assumono un tono allarmato verso il
dissenso. In particolare, nel caso di Vicenza, mettevano in evidenza che anche
all'interno della maggioranza c'erano coloro che avversavano la scelta del
governo. Il sistema dei due schieramenti è stato creato per impedire un vero
esercizio di sovranità. I giornalisti reggono questo gioco e si mostrano stupiti
che lo schieramento al potere possa avere persone che ragionano con la propria
testa e non eseguono passivamente "l'ordine". I Tg colpevolizzano queste persone
facendole sentire responsabili di "indebolire il governo" o di metterne in
pericolo la stabilità. Ciò nasconde che i nostri politici non prendono scelte
sulla base del benessere dei cittadini, ma per tutelare e rafforzare il sistema
stesso. I nostri giornalisti hanno dimenticato che l'essenza della democrazia è
proprio il pluralismo. Si sono allineati al sistema in cui tutti gli
schieramenti politici sono obbligati ad obbedire ai veri padroni del paese:
l'élite economico-finanziaria. In questi giorni i Tg gridavano "allarme" per la
manifestazione di protesta organizzata per il 17 febbraio contro la nuova base
militare di Vicenza. Ma in quale democrazia i giornalisti mettono in allarme i
cittadini per una manifestazione che esprime la volontà di quasi tutta la
cittadinanza? Il 16 febbraio, annunciando la manifestazione di protesta del
giorno successivo, i telegiornali dicevano "si temono violenze", come se chi
protesta contro il militarismo è violento. Siamo al paradosso di definire
violento chi è contro la guerra e il militarismo, e non chi vuole nuove basi per
meglio fare la guerra. Un modo manipolatorio di dare notizie relative a proteste
o a sgomberi violenti è quello di mettere vicina una notizia di criminalità, in
modo da indurre l'associazione fra "delinquente" e chi protesta contro il
sistema. Il 17 febbraio i telegiornali annunciavano: "Manifestazione di
Vicenza... Imponenti misure di sicurezza". Trasmettevano anche un appello di
Prodi: "Le manifestazioni sono il sale della democrazia ma siate pacifici". Il
tono era quello del buon padre di famiglia, e non traspariva affatto che la
realtà era esattamente l'opposto. Cioè coloro che stavano manifestando erano
contro la violenza e il bellicismo americano, mentre Prodi era il politico che,
lungi dall'avere a cuore il bene dei cittadini, stava sostenendo gli interessi
bellici americani contro la volontà della maggior parte dei cittadini di
Vicenza. Quindi, si trattava di scelte politiche non democratiche prese dal
governo, ma i Tg facevano in modo da creare allarme attorno a coloro che stavano
pacificamente, e giustamente, protestando. Qualche telegiornale osava un "Si
temono infiltrazioni", ma non spiegava che soltanto il sistema difeso dai
politici ha interesse ad infiltrare falsi manifestanti che creino disordine e
violenza (com'è accaduto nel G8 di Genova), per poterli far apparire violenti ed
estremisti, come cercavano di descriverli i Tg attraverso messaggi allarmanti.
Il Tg3 precisava che le forze dell'ordine erano "a difesa del centro storico
della città", come se i manifestanti fossero pericolosi e distruttivi. Poi
aggiungeva: "c'è anche chi è preoccupato" e si intervistava una persona anziana
che appariva confusa per le tante persone arrivate in città. Il porre l'accento
sul "pericolo di violenze" serviva anche a distogliere l'attenzione dal valore
che la protesta avrebbe avuto sulle scelte del governo, e a nascondere che la
volontà dei cittadini non conta nulla di fronte alle imposizioni americane. Non
essendoci state violenze, il giornalista del Tg2 ha messo in evidenza uno
striscione che definiva di "solidarietà con i terroristi arrestati". Un altro
modo per dirottare l'attenzione e per criminalizzare il dissenso. Impegnati
com'erano a colpevolizzare chi protestava contro la nuova base americana, i
giornalisti dei Tg hanno omesso la notizia che la nuova base sarà pagata da noi
per il 41% delle spese di mantenimento (anche per le altre basi paghiamo parte
delle spese). Chi è contrario alla guerra è diventato un "estremista radicale".
Chi denuncia i crimini come la tortura è un "antiamericano". Viene messo sotto
processo chi avversa le guerre, e non chi le organizza. Nello stesso
telegiornale (Tg2, ma anche gli altri erano pressoché uguali) del 17 febbraio
appariva Prodi in posa accanto al presidente afghano Hamid Karzai, come se
quest'ultimo fosse un vero rappresentante politico del popolo afghano e non un
personaggio foraggiato da Washington.
Quando i telegiornali notificano gli attentati terroristici in Iraq, in Afghanistan, in Pakistan, in Turchia o in altri paesi, danno soltanto la stima dei morti e il luogo dov'è avvenuto lo scoppio, e non spiegano la situazione del paese. Talvolta menzionano al Qaeda associandola all'attentato, senza indicare le prove a sostegno di ciò. Le notizie dall'Africa, dall'Asia o dal Sud America arrivano soltanto se c'è un problema che riguarda i nostri connazionali (rapimenti, uccisioni ecc.), oppure quando ci sono le elezioni politiche, che ormai nel nostro sistema sono diventate il simbolo stesso della "democrazia". Come a dire che se non documentassimo le elezioni (che si svolgono ovunque, persino in Iraq e in Afghanistan), non troveremmo altro modo per provare che la "democrazia" esista. Quelle poche volte che i telegiornali parlano delle guerre in Africa, lo fanno in modo confuso e impreciso, parlando di "conflitti etnici", e senza precisare chi organizza i gruppi in lotta e chi li arma. Non viene detto che nella maggior parte dei casi si tratta dei governi e dei servizi segreti europei e americani, che organizzano le guerre per controllare il territorio e saccheggiarne le risorse. Le grandi metropoli e periferie del sud Italia appaiono nei Tg nel loro degrado ambientale, appare anche la microcriminalità e la disperazione dei giovani disoccupati. Tutto questo è descritto in modo fatalistico, come se i governi si trovassero impotenti di fronte a questi problemi. Quando a Napoli c'era il problema dei rifiuti, i telegiornali mostravano la città sommersa dalla sporcizia e dall'immondizia, ma non dicevano che questo stava accadendo perché il servizio era stato privatizzato e si impediva ai vecchi impiegati di operare, negando loro i mezzi idonei alla raccolta dei rifiuti. Per avvantaggiare i privati si stava organizzando il servizio diversamente. I cittadini apparivano "colpevoli" di qualcosa, ma in realtà ricevevano le bollette da pagare senza ottenere alcun servizio. Nessun telegiornale trasmise la manifestazione degli operatori ecologici napoletani che protestavano perché non erano messi in grado di lavorare. I cartelli che essi mostravano avrebbero potuto far capire la vera situazione, mentre i telegiornali rendevano impossibile capirla alla radice. C'è una serie di argomenti "riservati", di cui i telegiornali non parlano. Ad esempio, delle stragi che l'Agip attua in Nigeria, oppure della produzione di armi (ad esempio le cluster bomb), in diverse fabbriche italiane. Armi che vengono esportate in molti paesi, compresi quelli in cui c'è guerra. I Tg non parlano mai di Signoraggio, che è il metodo utilizzato dalle banche per saccheggiare i paesi. Non si parla nemmeno degli statuti delle banche e del sistema bancario della Banca Europea, che ha sottratto all'Italia ben il 38% della finanziaria, impedendo al paese una crescita economica significativa. Sono state tagliate le spese per la scuola e la sanità ed è stata aumentata la pressione fiscale, per pagare le banche e sostenere gli Usa nelle guerre. Quando si è parlato della finanziaria, nonostante lo spazio dedicato a quest'argomento, i telegiornali hanno accuratamente evitato di notificare le ingenti risorse che le banche sottraggono al paese. La trasmissione Ballarò è stata l'unica a rivelare il fatto (ma senza metterlo in evidenza). Un altro argomento tabù è quello delle regole e dell'operato delle istituzioni come il Wto, la Banca mondiale (Bm) e Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Nessun telegiornale ha mai spiegato che a causa di queste organizzazioni, negli ultimi venti anni, la miseria e la fame sono aumentate, e che il collasso economico di molti paesi, compresa l'Argentina, è stato causato dalle misure imposte proprio dalla Bm e dal Fmi. Moltissimi altri argomenti non vengono trattati, ad esempio, la situazione di disuguaglianza degli immigrati, le gravi discriminazioni che essi subiscono, le persecuzioni di cittadini africani da parte dei governi fantoccio al soldo degli Usa, i massacri in Somalia, in Etiopia, in Nigeria, ad Haiti e in molti altri luoghi. Un altro argomento tabù è il denaro che lo Stato dà alle grandi aziende, somme spesso molto elevate. Il telegiornale parla di droga soltanto quando comunica la notizia che le forze dell'ordine sono riuscite a sequestrare quantitativi di stupefacenti. Ma non parla mai delle implicazioni e connivenze delle corporation e dei governi nei commerci internazionali di droga. Si parla di mafia quando si arresta qualche presunto mafioso o quando avvengono delitti, ma non si spiega cos'è davvero la mafia, e come essa sia in espansione grazie alle liberalizzazioni finanziarie, che hanno spianato la strada al riciclaggio facile. I minuti di politica interna, nei Tg, si risolvono nelle brevi interviste ad esponenti di destra e sinistra, per mostrare come ci sia una questione, una disputa, e come i duellanti siano decisi e forti. Le differenti opinioni sembrano battute teatrali, in uno scenario sempre più avvilente e assurdo. Le questioni sono trattate sempre in modo marginale e superficiale, anche quando si tratta di questioni serie, come l'invio di soldati in Afghanistan. L'informazione si riduce all'opinione dei politici, la maggior parte dei quali non oserebbe sfidare il sistema nemmeno nelle questioni minime. Alcune questioni interne non sono divulgate. Ad esempio, nel 2002, il Parlamento, quasi all'unanimità, approvò una legge che permette di abolire il tetto massimo di spesa per il "rimborso ai partiti". I cittadini italiani avevano espresso la loro volontà di non dare denaro pubblico ai partiti, attraverso il referendum del 1993, in cui oltre il 90% degli elettori votò contro. La gente crede che oggi questa volontà venga rispettata e non è stata informata quando, nel 1999 è stata approvata una legge che di fatto reintroduceva il finanziamento pubblico ai partiti chiamandolo "rimborso elettorale". Nel 2002 tutti gli schieramenti, ad eccezione dei radicali, votarono a favore di una nuova legge, la n. 156 del 26 luglio 2002, che titolava "Disposizioni in materia di Rimborsi Elettorali". La legge abbassava il quorum di accesso al rimborso dal 4% all'1% e aboliva il tetto di spesa, permettendo a quasi tutti i partiti di ricevere somme molto alte di denaro pubblico. Ad esempio, Berlusconi ha incassato, l'anno scorso, 41 milioni di euro per Forza Italia, la Margherita ne ha presi 20 milioni, l'Udc 15 milioni, i Ds 35 milioni, An 23 milioni, Rifondazione 10 milioni, ecc. Dato l'ingente costo pubblico che ci sarebbe stato, l'approvazione della legge era una questione molto importante per l'opinione pubblica, ma non è stata sottoposta all'attenzione di tutti noi. I Tg non ne hanno nemmeno fatto cenno. Le questioni spinose, come la malasanità o il costo pubblico di aziende privatizzate (come le ferrovie e le autostrade) vengono trattate come se il problema non fosse risolvibile e senza una sufficiente documentazione. Ad esempio, si parla superficialmente dei tagli alla sanità che stanno causando gravissimi problemi nella gestione delle strutture, oppure dei contratti truffaldini che importanti imprenditori (come Benetton) hanno stipulato con lo Stato. Questi contratti potrebbero essere rescissi se il governo volesse. Molti cittadini se lo aspettavano, dato che in precedenza erano stati duramente criticati dall'attuale maggioranza. La povertà o la precarietà lavorativa sono diventate nei telegiornali o nelle rubriche di approfondimento una specie di calamità naturale. I poveri ragazzi trentenni vengono intervistati per sapere quanto guadagnano e che tipo di contratto hanno nei call center, nelle fabbriche o addirittura negli uffici pubblici. Si mette in evidenza che queste persone sono spesso laureate e molto preparate, e alcune di esse volgono funzioni essenziali nel settore pubblico. Ma non si parla delle leggi che permettono il lavoro precario. Di quando sono state approvate e da chi, e di come sono state peggiorate nel tempo. Poi ci sono i servizi giornalistici che hanno il compito di prepararci ad accettare il peggio. Ad esempio, quelli che ci allarmano sulla "crisi energetica" (per prepararci all'aumento della bolletta), quelli che ci mostrano i giovani delle gang di Londra, o quelli che documentano gli strani fenomeni atmosferici. Anche in questi casi non si va alla radice e non si spiega come è stato creato il problema e da chi. In un servizio del 17 febbraio, il Tg3 informava sull'omicidio di un ragazzo ad opera delle gang giovanili dei sobborghi di Londra. Il giornalista diceva: "Il problema sono le condizioni sociali... le famiglie non sono in grado, a causa della povertà, di fronteggiare il problema, allora c'è l'alcol, la droga o le armi da fuoco". Nessun cenno alla situazione politico-economica, e al bombardamento mediatico che esalta sempre più la violenza. Anche l'allarme Sars rientrava nelle notizie che avevano l'obiettivo di preoccupare. Per alcuni mesi siamo stati bombardati da notizie allarmanti su presunti casi di questa malattia. Quello che non si diceva era che la Sars è nata da un esperimento avvenuto nell'aprile del 2003 a Toronto, ad opera di associazioni governative statunitensi e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, sostenuti finanziariamente dalla famiglia Rockefeller, dalla Carnegie Foundation, e da importanti produttori di farmaci. L'obiettivo era quello di ridurre la popolazione e far acquistare nuovi farmaci, come spiega il Dott. Leonard Horowitz: La SARS e l'attuale timore per l'influenza aviaria ricevono l'approvazione dei capitani delle industrie militar-medico-farmaceutico-petrolchimiche, che parimenti in molti casi documentati operano al di sopra delle leggi... consideriamo il fatto che il flusso delle informazioni date dai mezzi di comunicazione di massa è stato pesantemente influenzato, se non interamente controllato, dai garanti delle imprese multinazionali, che hanno protetto e fatto avanzare gli interessi di un gruppo relativamente ristretto di imprese globali... Avendo testimoniato di fronte al Congresso USA, ho personalmente verificato come le prime donne dell'industria farmaceutica dirigono dal punto di vista economico e politico i nostri rappresentanti al governo. Le malattie che stanno emergendo sono di complemento alla politica della "Guerra contro il Terrorismo" e alla nostra cultura influenzata dal bioterrorismo. Questa agenda serve per due obiettivi principali: il profitto e la riduzione della popolazione. Realtà politica contro i miti mass-mediologici. Quando è emerso che l'allarme aviaria in Europa aveva lo scopo di indurre ad acquistare il farmaco Tamiflu, e che la sicurezza e l'efficacia del farmaco non erano mai state provate, le notizie allarmanti sono sparite. In questi ultimi giorni stanno ritornando altre notizie sulla variante H5N1 dell'aviaria. Probabilmente è stato prodotto un nuovo farmaco. Nei nostri Tg, dopo pochi minuti di notizie di politica interna ed estera, arriva la parte più lunga della cronaca e dell'attualità. La scelta spesso cade su notizie riguardanti nuovi prodotti per la calvizie, la bellezza o tecnologici. Giuseppe Altamore, nel suo libro I padroni delle notizie, spiega che sempre più spesso i giornalisti televisivi presentano pubbliredazionali come fossero semplici notizie. Si tratta di presentare in modo enfatico prodotti che vanno dal nuovo tipo di telefonino a nuovi cosmetici, capi di abbigliamento e addirittura farmaci. Dopo l'impiccagione di Saddam, il Tg2 annunciò la creazione negli Stati Uniti di un nuovo giocattolo: il pupazzo Saddam corredato da cappio. Il giornalista si curò di precisare anche il prezzo e la possibilità di acquistarlo via Internet. La cronaca rosa ha il suo spazio nei Tg, sempre più ampio: matrimoni o divorzi fra vip, se Madonna adotta un nuovo bimbo, oppure se un'attrice si è gonfiata di silicone o si droga. I servizi sulla moda, sull'elezione di Miss Italia o di Miss Universo non mancano. Talvolta i Tg riempiono spazio raccontando la storia di un animale o spiegando l'esecuzione di una ricetta. Viene documentato persino il "Raduno internazionale delle Mongolfiere", e ci informano anche sugli ultimi modelli dei vestitini per cani e gatti. Si tratta di modi per confondere su ciò che dovrebbe essere veramente la comunicazione giornalistica, che negli ultimi venti anni è stata declassata e fuorviata nel modo stesso di intenderla. L'informazione dei Tg segue ormai il "pensiero unico" e anche la regia è unica. Si tratta delle grandi agenzie di propaganda americane, come la Heritage Foundation , l'American Enterprise Institute e il Manhattan Institute. Le agenzie di propaganda americane provvedono affinché l'opinione pubblica subisca pesanti manipolazioni, che rendano difficile una vera consapevolezza di quello che sta accadendo nel mondo di oggi. Per riuscire a capire occorre utilizzare Internet e leggere le notizie dal mondo. E' una cosa che soltanto pochi si possono permettere di fare; e di solito non si tratta di anziani, casalinghe o persone che lavorano per molte ore al giorno, e che non hanno tempo materiale di informarsi se non attraverso la Tv. Per queste persone c'è soltanto quell'infomazione "emotiva" e distorta che serve a renderli docili e incapaci di difendere i propri diritti. Come osserva Sartori: "Sostenere che la cittadinanza dell'era elettronica è caratterizzata dalla possibilità di accedere a infinite informazioni... sarebbe come dire che la cittadinanza nel capitalismo consente a tutti di diventare capitalisti… È vero che un'immagine può valere più di mille parole. Ma è ancor più vero che un milione di immagini non danno un solo concetto". I telegiornali sono ormai rotocalchi di una realtà che non è quella in cui viviamo. Sono sempre più orientati allo spettacolo, all'appiattimento e alla banalità. Come in un circo, ognuno fa il suo numero, con l'obiettivo di emozionare, catturare l'attenzione, intrattenere e persino fare divertire. Mentre gli eventi occultati diventano sempre più inaccettabili: quei due terzi del mondo ridotti in estrema miseria, quei milioni di bambini che per mangiare devono cercare nella spazzatura, le nostre regioni soggette al potere mafioso implacabile e crudele, le guerre contro i popoli, le dure persecuzioni contro chi lotta per la giustizia e i diritti umani... Finché il potere mediatico sarà quasi completamente nelle mani di chi vuole un sistema politico-economico basato sulla legge del più forte e sul controllo dei popoli, è ingenuo credere che le risorse umane, spirituali e culturali degli individui stiano ricevendo impulso alla loro libera realizzazione. Le sottili tecniche di coercizione, di diseducazione e di appiattimento culturale sono dirette contro ognuno di noi, come un ulteriore affronto alle nostre menti e alla nostra dignità di cittadini.
I TG ridotti a spazzatura, scrive Gabriele Sannino. Non è un mistero che in Italia i telegiornali non facciano più informazione. Quotidianamente, infatti, assistiamo al suicidio dell' informazione, alla demenza giornalistica, ad uno sciacallaggio mediatico che ha validi esempi solo nei paesi dove la dittature, ormai, sono roba consolidata. I telegiornali di Berlusconi,ad esempio, emblema per eccellenza della disinformazione, rispettano pienamente l'uomo: donne nude a gogò, servizi inutili, pieni di curiosità, senza senso, informazione centellinata e soprattutto mistificata dai poteri di turno.
STUDIO APERTO è l'apoteosi della stupidità giornalistica: ogni giorno, in questo varietà, si assiste al consumo dell'intelligenza e dello spirito critico e al trionfo della mistificazione e della disinformazione. I servizi ruotano e sono nella sostanza sempre gli stessi, omicidi, la cronaca nera impazza ormai una volta era relegata a testate giornalistiche specifiche ora è onnipresente in tv, rapine, servizi sugli animali, la festa dei cornuti, i pappagalli sono colorati, le scimmie urlano, i cani abbaiano ma i gatti no, le donne non sanno se indosseranno il perizoma o lo slip per l'estate, gli uomini, dall'altro canto, non sanno se sceglieranno la canotta o la maglietta e inoltre, come se i problemi non fossero abbastanza, piove e fa freddo, nevica e c'è gelo, è estate e si muore dal caldo! Insomma, tutto questo è un vero tripudio alla stupidità di massa. Perfino un adolescente si rende conto che sta assistendo in pratica ad un varietà, più che altro.
Il TG4 è un TG onesto: si perché Emilio Fede censura in diretta, seduta stante, lo fa senza alcuna remora o senso di colpa. Quando i suoi collaboratori gli portano in diretta delle veline da leggere, lui decide se farlo o no. Davanti, ad esempio, ad una dichiarazione di Di Pietro, lui semplicemente glissa. E lo dice anche ai suoi telespettatori: nulla, nada, non si legge. Non lo saprete mai. Almeno non da me E via però al servizio sul meteo e sul caldo incipiente che arriva con la bella stagione!
Il TG5, quello che molti si ostinano a considerare il più serio ed istituzionale, in realtà non fa altro che scremare le notizie, tagliarle, copiarle ed incollarle, dirle insomma in modo diverso, è il più furbo dei tre, per poi puntare - anche lui - sui soliti cavalli di battaglia come la cronaca, anche qui impera! - e le notizie dall'estero.
I TG della RAI, Quello di RAI UNO per fare un nome a caso, è talmente lontano dall' informazione che perfino i suoi giornalisti si licenziano, con tanto di lettere alla collettività per far conoscere le loro ragioni. Mentre invece la faziosità del Tg3 viene spacciata per informazione democratica. Essi sono limitati fortemente dal potere dei partiti, con il risultato che partecipano anche loro al quotidiano banchetto di disinformazione di massa. Che fine fanno, dunque, le inchieste in generale? Che fine hanno fatto i lavoratori che ogni giorno perdono i posti di lavoro? Che fine fanno tutte le notizie scomode al potere se è proprio il potere che controlla l’informazione? Semplice, ve lo dico io, dritte nel cestino. Come mai tutti i telegiornali, ormai, danno le stesse e identiche notizie, anche quelle più stupide? E come mai si creano climi di emergenza come quella stupri, della sicurezza, cani che uccidono i padroni ecc per poi far sparire tutto improvvisamente come una bolla di sapone? Possibile che gli italiani diventino tutti stupratori un mese all'anno? Stiamo vivendo un Truman show di massa, come sostiene la grandissima e pluripremiata giornalista Barbara Spinelli. Viviamo ormai in una telecrazia, non in una democrazia. Perciò, facciamoci tutti un grande, un enorme favore: spegniamo la tv e accendiamo finalmente i nostri cervelli.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA RAI DEI GIORNALISTI ROSICONI.
Pardo (Mediaset) ospite della Rai. La protesta del cdr: "Ma è stato pagato?", scrive il 27 novembre 2016 “La Repubblica”. Rai, di tutto di più. Proprio così: adesso si è messa a fare pubblicità anche alla concorrenza, a Mediaset, sempre che sia davvero concorrenza. Nella trasmissione di Savino, "Quelli che il calcio", su Rai 2, è stato invitato infatti oggi Pierluigi Pardo, conduttore sportivo di punta di Mediaset, molto stimato in Rai e che, cosa che non guasta, ha un agente importante molto introdotto anche dalle parti di Saxa Rubra. Pardo ha fatto il mattatore in Rai, dimostrando ancora una volta la sua bravura (è più bravo di Savino). Anzi, dicono che il direttore di Rai Sport, Gabriele Romagnoli, avesse pensato proprio ad un trasmissione alla Pardo quando si è inventato quest'anno "Calcio champagne". Solo che su Rai 2 la trasmissione è stata un flop, nonostante abbiano cambiato tre volte scenografia (bastasse). Chissà, forse ci voleva davvero Pardo... Ma la decisione di dedicare uno spot simile ad un giornalista-conduttore-show man della cosidetta concorrenza, ha scatenato l'ira del cdr di Rai Sport che nella stessa giornata di oggi ha fatto un durissimo comunicato. Eccolo: " Il CdR di RaiSport e il Fiduciario di Milano ritengono assolutamente inaccettabile che all'interno delle trasmissioni Rai vengano ospitati ed abbiano anche la possibilità di promuovere le proprie trasmissioni giornalisti e conduttori della concorrenza. Cosa che si è verificata nella puntata odierna di Quelli che il Calcio - trasmissione di punta di Rai 2 - con Pier Luigi Pardo e Melissa Satta di Mediaset. Oltre alla presenza di Giorgio Terruzzi. E' un fatto grave che denunciamo e respingiamo con forza - se si considera anche che il conduttore Nicola Savino lo ha pure sottolineato nel consueto lancio in chiusura dell'edizione delle ore 13 del TG2 - che non solo va contro gli interessi e danneggia la credibilità dei giornalisti e dei conduttori di Raisport - che per essere ospitati e promuovere nostre trasmissioni devono chiedere sempre specifica autorizzazione che spesso viene negata - ma più in generale va contro gli interessi dell'Azienda. Vorremmo inoltre sapere se i colleghi della concorrenza abbiano percepito un gettone di presenza per partecipare alla trasmissione Quelli che".
Tiki Taka, Pardo ospita Savino e risponde a Rai Sport: "Contaminare è divertente", scrive Massimo Galanto lunedì 28 novembre 2016 su Tv Blog. La replica alle polemiche sollevate ieri dal cdr di Rai Sport dopo la partecipazione di Pardo a Quelli che il calcio. Nel corso della puntata di lunedì 28 novembre 2016 di Tiki Taka, Pierluigi Pardo ha in qualche modo risposto alle polemiche sollevate dal Cdr di Rai Sport dopo la sua partecipazione, in coppia con Melissa Satta, a Quelli che il calcio di domenica scorsa. Il giornalista, come previsto, ha ospitato proprio Nicola Savino, padrone di casa della storica trasmissione domenicale Rai. E ha spiegato: Approfitto, visto che c'è stata.... io sono venuto in amicizia da te, con Melissa, anche lei venuta in amicizia, tu sei venuto in amicizia da noi. Savino ha sottolineato che "in amicizia" significa "che non avete percepito denaro". La Satta ha osservato che "tra cugini ci si sopporta e supporta, un po' come Inter e Milan". Pardo ha chiosato così: Volevamo fare questa cosa e l'abbiamo fatta. Io ringrazio Videonews, Brachino, straordinario, Crippa, Delogu e le tue (rivolgendosi a Savino) direzioni che ci hanno concesso questo gioco; pensiamo sia divertente mescolare e contaminare. Dalle parti di Rai Sport si saranno divertiti anche stavolta?
LA RAI DELLE MAZZETTE.
Terremoto tangenti sul Festival di Sanremo. Trema il mondo dei funzionari e dirigenti tv. Finisce in carcere David Biancifiori, l'imprenditore che si era accaparrato l’appalto da 400mila euro per le luci dell’edizione 2013 del Festival. Un vorticoso giro di fatture false per schermare illecite operazioni fiscali. Un sistema che in meno di cinque anni avrebbe evaso imposte per oltre 50 milioni, scrive Floriana Bulfon il 14 dicembre 2015 su “L’Espresso”. La corruzione ha un costo, meglio dedurla fiscalmente. Per pagare le tangenti serve denaro e per ottenerlo David Biancifiori, imprenditore attivo nel settore dei servizi televisivi, avrebbe messo in piedi un sistema per realizzare fondi neri e scaricarne il costo sull’erario. Finisce così in carcere lo Scarface capace di accaparrarsi l’appalto da 400mila euro per le luci dell’edizione 2013 di Sanremo, quello per l’assistenza e la manutenzione delle tecnologie audio-video della presidenza del Consiglio sotto il governo di Silvio Berlusconi e forniture di impianti audio e regie mobili, in cambio, secondo le accuse, di pianoforti, biglietti aerei, vacanze in resort a cinque stelle e assunzione di parenti e amici di funzionari Rai, La7, Mediaset e Infront (la società advisor della Lega di serie A per i diritti televisivi ndr). Gli uomini del nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza, guidati dal colonnello Cosimo Di Gesù, hanno fatto luce sul vorticoso giro di fatture false del ‘sistema’ Biancifiori, un sistema in cui i contanti per le tangenti sarebbero stati alimentati con le sovrafatturazioni e le società del gruppo utilizzate come cartiere per schermare illecite operazioni fiscali. Con fatture emesse a fronte di operazioni inesistenti e persino l’occultamento delle scritture contabili per tentare di impedire l’accertamento dei reati, il sodalizio criminale capeggiato da Biancifiori in meno di cinque anni avrebbe evaso imposte per oltre 50 milioni. Un fiume di contanti buono per corrompere “pubblici ufficiali appartenenti alle forze dell’ordine, quelli incaricati di pubblico servizio in Rai e ottenere favori da dirigenti di società televisive private”, scrivono gli inquirenti. E così società senza dipendenti e mezzi, intestate a prestanome, emettevano fatture per prestazioni inesistenti esclusivamente nei confronti della Di.Bi. Technology di Biancifiori. Quando poi le fatture emesse dalle ‘cartiere’ del gruppo non bastavano, ecco arrivare in soccorso quelle di compiacenti aziende dedite alle competizioni di rally. Del resto è sufficiente stipulare contratti di sponsorizzazione del tutto antieconomici, che il ritorno d’immagine non serve, quel che conta è l’effetto ‘lavatrice’. E così, secondo l’accusa, le società di Biancifori si accordano per erogare ingenti somme a Vomero Racing, New Vomero Racing, Sponsport, Brokerage and Agency Services, salvo poi farsele restituire in contanti. “Loro si tenevano l’IVA più mi sembra il 15 per cento”, dichiara il fratello di Biancifiori al pm Paolo Ielo della Procura di Roma, “il resto veniva riportato indietro”, in comode buste portate a domicilio “dal pilota di rally Francesco Laganà alla guida di una BMW serie 3”. Una restituzione cash che ammonterebbe a oltre 2 milioni di euro. E poi ci sono i documenti contabili che spariscono in circostanze misteriose, come è accaduto per la Di and Di Lighting and Truck. La società tra il 2005 e il 2011 quadruplica il volume d’affari, passando da 4 milioni a oltre 22, poi, nel dicembre 2011, viene affidata a Giancarlo Bianconi fino alla sua liquidazione e cancellazione dal registro delle imprese, avvenuta nel 2014. Bianconi uno che “pur detenendo quote del capitale sociale di 24 società, ricoprendo cariche societarie in 18 ed essendo avente causa in dieci compravendite di azioni per 148mila euro, non ha mai effettuato versamenti di imposta e dal 2012 risulta percepire esclusivamente redditi da pensione per circa 5mila”. In compenso possiede ben 15 auto. Quando lo scorso 17 giungo gli uomini della Finanza fanno una serie di perquisizioni, a casa di Giuliano Palci (arrestato oggi ndr), alter ego di David Biancifiori, trovano all’interno di una valigetta una busta ‘Da Giancarlo (Bianconi ndr) all’attenzione del rag. Giuliano (Palci ndr)’. All’interno una nota dell’Agenzia delle Entrate, datata 7 ottobre 2014, in cui veniva chiesto a Bianconi di presentare la documentazione contabile per una verifica fiscale. Ma nella busta compare anche la copia di una denuncia, presentata proprio da Bianconi. L’oggetto della denuncia? Il furto di tutta la documentazione contabile della società dal 2001 al 2011 avvenuta proprio due giorni dopo la richiesta della verifica fiscale. Per gli investigatori la dichiarazione sarebbe mendace e Bianconi un prestanome di David Biancifiori. Il ‘sistema’ Biancifiori del resto sarebbe riuscito persino ad ovviare al problema delle verifiche fiscali grazie al compiacente militare della Guardia di Finanza Pietro Triberio (arrestato oggi ndr). Un uomo capace di miracoli finanziari, tanto che nel suo conto in banca finiscono oltre 360mila euro, tutti prontamente versati in contanti. Peccato percepisse solo redditi da lavoro dipendente regolarmente accreditati tramite bonifico. E ora che si è scoperta la modalità con cui Biancifiori trovava le risorse per pagare le tangenti, trema il mondo dei funzionari e dirigenti tv. In ballo ci sono ancora ad esempio le 37 relazioni che riportano gli esiti degli audit fatti dalla Rai negli ultimi anni per appalti e acquisti da centinaia di milioni. Contratti pieni di irregolarità che l’azienda di Stato, prima del blitz delle Fiamme Gialle e dell’arrivo del nuovo dg Antonio Campo dall’Orto, non aveva mai trasmesso alla Procura.
Rai e tangenti, i pm: «Fondi neri per avere gli appalti in tv». La Procura: «Provviste create con false fatture, affari anche con Mediaset e La7. In arresto il manager Biancifiori, un finanziere e un imprenditore, scrive Ilaria Sacchettoni il 15 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. Un imprenditore di forniture televisive (dai gruppi elettrogeni all’assistenza in regia) avrebbe distribuito tangenti e favori per incrementare la sua quota di affari con la Infront, titolare dei diritti per la serie A, Rai, Mediaset e La7. Fondi neri lievitati fino a 38 milioni grazie all’impiego massiccio di sovrafatturazioni d’imprese fittizie a lui stesso riconducibili e a sponsorizzazioni fasulle di eventi sportivi e rally. Da ieri l’imprenditore David Biancifiori e il suo «vice» Giuliano Palci sono in carcere con le accuse di associazione finalizzata alla corruzione, all’appropriazione indebita e a reati tributari. Arrestato anche il finanziere Pietro Triberio che con il collega Marco Cecchini avrebbe accettato dall’imprenditore 360mila euro per chiudere un occhio sulle stravaganze contabili delle sue imprese. Dai domiciliari dov’era finito per tutt’altro episodio (in cambio del via libera all’apertura di un punto McDonald’s sulla Roma sud avrebbe fatto assumere persone segnalate dal sindaco di Marino, Fabio Silvagni: il processo è a gennaio) Biancifiori è stato trasferito in cella. Misura prudenziale dopo che si era «adoperato per disporre di cellulari» in alternativa a quelli sequestrati. Dalle perquisizioni eseguite è emerso che le imprese del suo gruppo avrebbero commesso reati, propedeutici alla creazione di fondi destinati a tangenti, come «occultamento e distruzione della contabilità, dichiarazioni fraudolente e omessi versamenti dell’Iva». Le sue Di.Bi. Technology, Fast Service, Power Light, International Service 2010sarebbero servite «da filtro per schermare l’illiceità delle operazioni fiscali» mentre la liquidità creata serviva - questa è l’ipotesi - a corrispondere compensi da distribuire in cambio di appalti distribuiti sull’intero palinsesto Rai e non solo. Da Unomattina a Ballarò, Lineaverde, Virus e Sanremo. Nel ricostruire la vicenda il pm Paolo Ielo assegna una parte ai singoli interpreti dell’associazione criminale. Così Biancifiori e Palci sono i «domini» della presunta corruzione, mentre le teste di legno cui intestare società fittizie che producevano fatture erano Giancarlo Bianconi, Lucia Mariotti e il fratello Danilo Biancifiori. L’inchiesta era partita dall’esposto di una ex dipendente, Orietta Petra, che oltre al sistema della contabilità parallela aveva raccontato di relazioni e di sponsor politico-istituzionali di Biancifiori, in passato beneficiato da appalti perfino a Palazzo Chigi. Secondo la Petra «il denaro contante con cui pagare le tangenti veniva prelevato dai fondi neri attraverso un «vorticoso giro di fatture false» emesse a fronte di «prestazioni inesistenti o minusvalenti intercorse fra varie società del gruppo». Anche i contratti di sponsorizzazione del rally, in questo contesto, diventavano strategici. La Vomero Racing srl, la Sponsorsport srl e la Brokerage and Agency Service finanziatori del team di Franco Laganà (non indagato) sarebbero società di comodo con contratti finti per importi milionari. Soldi che, in realtà, venivano accantonati per ricompensare dirigenti e manager pubblici degli appalti ottenuti. «Una parte considerevole del denaro che il Biancifiori pagava ritornava indietro allo stesso Biancifiori» fa mettere a verbale la Petra. L’ex contabile dell’imprenditore spiega anche: «La Di.Bi Technology sponsorizza sia il team di rally di Laganà che la squadra di calcio di Giovanni Mastropierro, come sempre tramite il meccanismo di sovrafatturazione Biancifiori si riferiva a tali sponsorizzazioni usando il termine “lavatrice”». Dichiarazioni che verranno confermate anche dal fratello dell’imprenditore Danilo Biancifiori e suo ex socio (indagato) che nelle scorse settimane ha fornito ai pm la propria versione dei fatti: «Dottore, era tutto falso. Cioè mettevano un’etichetta addosso alla macchina Di.Bi. Technology e mi ricordo che quando veniva Laganà portava i passaggi televisivi che si leggesse DB». Una messinscena che per gli investigatori avrebbe permesso di accantonare 2 milioni di euro in nero.
Scoperti fondi neri per 38 milioni. Servivano a pagare funzionari Rai. Il retroscena: l’uomo che sta collaborando con i pm è l’imprenditore Biancifiori, già indagato, scrive il 27 ottobre 2015 Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Ci sono 38 milioni di euro di provviste «in nero» al centro dell’inchiesta sugli appalti della Rai che sarebbero stati truccati. Sono i soldi che le società dei fratelli David e Danilo Biancifiori avrebbero utilizzato per pagare «mazzette» a dirigenti e funzionari Rai ottenendo così il monopolio delle forniture tecniche. L’indagine del pubblico ministero Paolo Ielo parte dai lavori assegnati alle loro aziende e procede per corruzione e turbativa d’asta, ma si concentra soprattutto sulle relazioni relative a 37 audit che la stessa Rai è stata costretta a consegnare venti giorni fa, quando gli investigatori guidati dal colonnello del Nucleo tributario Cosimo Di Gesù hanno notificato al responsabile dell’Ufficio Gianfranco Cariola un ordine di esibizione. Perché quei fascicoli contengono l’elenco di tutte le irregolarità riscontrate nei contratti per la realizzazione di numerose trasmissioni di punta. Ma anche per la gestione degli acquisti e la scelta delle ditte esterne. Si è così scoperto che i vertici dell’Azienda radiotelevisiva pubblica avevano trovato alcune «anomalie» anche gravi, ma avevano deciso di non segnalarle - come invece dovrebbe avvenire - alla magistratura. Un dossier riguarda «Unomattina», un altro «Lineaverde». Poi c’è quello dedicato alle spese delle sedi regionali, un’ampia relazione su un «cartello» di aziende esterne che avrebbero siglato un accordo illecito per spartirsi gli appalti per il montaggio di programmi tra i quali figurano «Ballarò» e «Virus». Tutte le pratiche sono state trasmesse anche alla Corte dei conti per gli eventuali danni alle casse pubbliche. L’inchiesta può avere risvolti clamorosi. L’esame dei fascicoli procede infatti di pari passo con le rivelazioni dello stesso David Biancifiori che ha deciso di collaborare con la magistratura e sta svelando numerosi retroscena sul pagamento delle tangenti: soldi, ma anche favori come le assunzioni di parenti e amici dei funzionari, viaggi all’estero, altri regali milionari. Dipendenti della Rai, ma anche di Mediaset, de La7. Per comprendere quale fosse il ruolo dei due fratelli basti pensare che a loro è stata affidata la fornitura di tutte le apparecchiature per il festival di Sanremo. E che le loro società sono direttamente collegate con Infront, l’azienda che in pochi anni è diventata leader nel settore della comunicazione, ed è già nel mirino della Guardia di Finanza per numerose vicende, prima fra tutte quella sulla spartizione dei diritti televisivi del calcio. La Rai adesso cerca di correre ai ripari e infatti fa sapere con una nota che «è stata aperta un’analisi interna per accertare i fatti e identificare eventuali carenze nella comunicazione con l’autorità giudiziaria. Il direttore generale Antonio Campo dall’Orto, ha concluso un accordo con l’Avvocatura dello Stato affinché un suo rappresentante strutturi in azienda un progetto mirato sui contratti pubblici della Rai».
C'è un'unica soluzione: chiudere questo Sanremo. Ieri Carlo Conti ha annunciato i concorrenti del Festival 2016: una parata di personaggi ereditati dai talent o dal passato remoto della musica popolare. Nulla che generi un'identità credibile, o che abbia il sapore dell'agognato rinnovamento in Rai, scrive Riccardo Bocca il 14 dicembre 2015 su “L’Espresso”. L'unica soluzione, a questo punto, sarebbe chiuderlo. Basta: per sempre, definitivamente. Gettare l'abitudine, quando gennaio è andato e febbraio pure sta salutando, di correre con gli occhi e il pensiero a Sanremo, e immaginare nuove forma di vita artistica. Questo veniva e viene da scrivere, dopo che domenica pomeriggio Carlo Conti ha illustrato a "L'Arena" di Massimo Pio Giletti quali saranno i cantanti in gara. Perché non è stato l'avvio di un'operazione allegra che cerca di sposare passato e presente, abbastanza alto e abbastanza basso, concessioni al banale e lampi invece di imprevedibile. No. È stata la fotografia brutale di quella che oggi è la televisione pubblica: un'enorme e commovente macchina che ha perso la strada e non sa più ritrovarla. Anzi, mentre viaggia alla ricerca di un tragitto credibile, sbanda in balia di una mancanza tragicomica di personalità e coraggio. Basti pensare alla selezione annunciata degli artisti sanremesi, dove con ritardo endemico vengono riproposti gli eroi dei talent show nazionali (da Lorenzo Fragola ai Dear Jack, da Francesca Michielin a Deborah Iurato) e accanto a loro paladini vintage che non fanno certo sistema (da Patty Pravo a Enrico Ruggeri, per non fare nomi). Dunque? Cosa vuol essere viale Mazzini? Una strada della Capitale in cui c'è da sempre la sede della tv nazionale, e che lotta per un nuovo patto con il pubblico basato su un'identità affidabile e contenuti adeguati ai tempi, oppure un luogo succube della propria progressiva modestia e collusione con la prospettiva di teleshow cimiteriali? A giudicare dal prologo di questo sessantaseiesimo Festival della canzone italiana, dalla pietosa imbarcata di ugole made in talent ("The Voice"-"Amici"-"X Factor"), e dal tentativo di spacciare lo svociato e svuotato Morgan per un paladino della grande musica nostrana, un cielo di nuvole nere prevale sul sole. Finirà, come già accaduto, che ci si dovrà asciugare le lacrime con la presenza della Elio e le storie tese band, salvatrice cronica della dignità all'interno dell'Ariston.
La sua denuncia pubblica ha avuto effetto e per i dirigenti Rai arrivano le prime iscrizioni nel registro degli indagati, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Sotto inchiesta finiscono i capistruttura dell'Ente di Stato che avrebbero ostacolato l'attività della Ldm di Pietro Di Lorenzo. Nel maggio 2013 l'imprenditore aveva scritto alla commissione parlamentare di vigilanza, ai capigruppo dei partiti, ad alcuni ministri e senza mezzi termini aveva dichiarato: «Ho rifiutato di pagare tangenti ad alcuni funzionari e per questo a viale Mazzini non mi fanno più lavorare». Le sue parole hanno evidentemente trovato riscontro nelle verifiche disposte dalla Procura di Roma e adesso si vuole accertare se anche i vertici, informati di quanto era accaduto, possano essere chiamati a rispondere delle irregolarità che sarebbero state compiute da chi aveva il mandato di organizzare le «prime serate» di Raiuno e Raidue. In ballo ci sono programmi di grande richiamo: da «I raccomandati» a «Butta la luna», da «Ciak si canta» a «Punto su di te»; ma anche fiction che hanno ottenuto buoni ascolti come «Il capitano». Nel 2006, quando il suo rapporto con la Rai viveva il momento di massimo splendore, il fatturato dell'azienda fu di 18 milioni di euro, adesso è sceso a 2 milioni. «Faccio altro, sono un imprenditore di successo - chiarisce Di Lorenzo - ma resto convinto che questo sistema debba essere stroncato e solo per questo ho deciso di rivolgermi alla magistratura». La denuncia presentata dai suoi avvocati Alessandro Diddi e Piergerardo Santoro elenca in maniera dettagliata i «soprusi» subiti da quella che viene definita «una banda di dirigenti Rai infedeli». Poi indica i nomi degli alti funzionari che lo avrebbero boicottato: l'ex capostruttura di Raiuno Giampiero Raveggi, ora in pensione; sua moglie Chiara Calvagni, attuale capostruttura dell'Ufficio Risorse; Chicco Agnese, responsabile dei palinsesti di Raiuno. L'istanza ipotizzava il reato di concussione, i magistrati al momento contestano l'abuso d'ufficio. «Accuse campate per aria, chiariremo tutto», replicano loro. «Fu proprio nel 2006 - è scritto nell'esposto - che Raveggi mi chiese in prestito 5.000 euro. Mi accorsi ben presto che non voleva un prestito ma somme di ben altra portata, nonché una serie di "favori" da elargire a persone a lui vicine. Quando rifiutai di versare una tangente da 100 mila euro, ho subito vessazioni che hanno portato la Ldm ad essere praticamente azzerata dalla Rai». Secondo l'imprenditore i suoi format sono andati in onda con una controprogrammazione forte «in modo da farli risultare un flop», gli ospiti scelti per partecipare «sono stati contrattualizzati soltanto all'ultimo momento e con cachet molto inferiori alle richieste», alcuni show e fiction sono stati «cancellati senza alcuna spiegazione». Tra i testimoni indica tra gli altri Fabrizio Frizzi, Claudio Lippi, Martina Colombari, Elisabetta Canalis. Un capitolo della denuncia ricostruisce «quanto accaduto con il figlio di Agnese, perché suo padre mi chiese di farlo lavorare e quando un dirigente della mia società lo contattò si sentì chiedere un ingaggio da 6.000 euro a puntata come operatore di clip esterne per il programma "Ciak si canta". Pensai ci fosse un equivoco e ne parlai con lo stesso Agnese, ma lui mi rispose seccato che allora la cosa non gli interessava più». In un'intervista rilasciata al Fatto Quotidiano, Di Lorenzo ha raccontato anche le pressioni subite da Gianni Alemanno per far presentare quel programma da Eleonora Daniele. «Ho le prove - ha aggiunto nella denuncia - di convocazioni in Campidoglio dei direttori generali Mauro Masi e Lorenza Lei, dei direttori di Raiuno Fabrizio Del Noce e Mauro Mazza, del direttore dei rapporti Istituzionali Guido Paglia». Ai pubblici ministeri ha fornito dettagli e la prossima settimana la Daniele sarà interrogata come testimone. I magistrati hanno già acquisito le conclusioni dell'audit interna che si concluse dichiarando «le procedure regolari» e di questo potrebbero chiedere conto alla stessa Lei. Ma non è escluso che anche Luigi Gubitosi debba essere ascoltato. Nella denuncia Di Lorenzo specifica infatti di aver segnalato all'attuale direttore generale quanto accaduto, ma di non aver «mai ottenuto ascolto». E nelle prossime settimane è possibile che entrambi vengano convocati proprio dalla Vigilanza, visto che il Pd ha già depositato una interpellanza urgente proprio per ottenere le audizioni.
Tre dirigenti Rai indagati per abuso d’ufficio, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Una denuncia di 22 pagine depositata in procura in cui si parla addirittura di estorsione e tentata concussione per una vicenda di appalti e cachet spropositati. È guerra, a Roma, sui palinsesti della tv pubblica. Una guerra che ruota attorno alla figura di Pietro Di Lorenzo, fondatore della «Ldm Comunicazione spa», casa di produzione di fiction e intrattenimento. È lui l’autore di quelle 22 pagine. La procura lo ha sentito più volte, e alla fine ha deciso di procedere: dopo avere aperto l’inchiesta, ora chiederà ai vertici di viale Mazzini l’audit interno fatto sulle denunce di Di Lorenzo. E sentirà i diversi protagonisti citati dal produttore. La prossima settimana dovrebbe essere il turno di Eleonora Daniele, raccomandata, secondo il denunciante, dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno, per condurre un programma. Nella sua denuncia, Di Lorenzo chiama in causa l’ex capostruttura di RaiUno oggi in pensione Giampiero Raveggi, la moglie di Raveggi, Chiara Calvagni, capostruttura dell’Ufficio Risorse televisive, Chicco Agnese, responsabile dei palinsesti di Raiuno. E la procura deve ora capire se davvero hanno delle colpe, o se - al contrario - non siano loro le vere vittime di questa storia dai contorni ancora poco chiari. La banda del disonore Rai, per dirla con il denunciante, avrebbe goduto del contributo, «non si può dire quanto consapevole», dei massimi vertici Rai: «Dal direttore di Raiuno, Fabrizio del Noce, ai direttori generali Claudio Cappon, Mauro Masi, Lorenza Lei e, da ultimo, Luigi Gubitosi». Insomma, non si salverebbe nessuno, o quasi. «Non è facile scontrarsi con un clima omertoso - è lo scenario riassunto nella denuncia - con omissioni di controllo e sottovalutazioni che possono trasformarsi in complicità, con ricatti che possono decretare la morte immediata di tutte le attività e con l’arroganza sicumera di mandarini irresponsabili che gestiscono il potere di una azienda pubblica». Tutto avrebbe avuto inizio nel settembre del 2006, quando l’allora capo struttura di Rai Uno, Giampiero Raveggi, avrebbe chiesto un «prestito di 5000 euro» a Di Lorenzo che «rifiutò sdegnosamente la proposta di tangente di 100.000 euro e da questo momento la Ldm è stata sottoposta ad una serie di vessazioni che l’hanno portata praticamente ad essere azzerata dalla Rai». Incredibili i fatti ricostruiti nella denuncia. Come le minacce di Raveggi nei suoi confronti: «Ci vuole poco per minare la tua credibilità, potresti scoprire che un po’ di tempo fa hai cercato di insidiare una bambina..». Di Lorenzo afferma di aver coinvolto tutti i massimi vertici Rai sulla vicenda della sua società che stava subendo ritorsioni e pressioni: «La Rai dispose un auditing nell’ambito del quale il sottoscritto fu ascoltato e confermò tutto alla Commissione etica». Nell’esposto denuncia si ripercorrono tutte le tappe degli ostacoli frapposti alla Ldm Comunicazione. Il boicottaggio della nona edizione de «I Raccomandati», dicembre 2010, della terza serie de «Il Capitano», della «fiction di grandissimo successo come “Butta la luna”», o il programma «Ciak...si Canta!». Quest’ultimo è stato un varietà che ha «avuto uno share fino al 24%». «I problemi cominciano dopo che Piero Di Lorenzo si è nettamente e ripetutamente opposto alla richiesta compulsiva del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, di affidare nuovamente la conduzione del programma ad Eleonora Daniele che lo aveva condotto, unitamente a Nino Frassica, nel 2009». Ma il buon Alemanno, nonostante le pressioni esercitate sulla dirigenza Rai, a detta di Di Lorenzo, non la spuntò. Un’altra storia di assunzioni clientelari riguarderebbe il figlio di Chicco Agnese, come operatore. Il quale pretendeva «uno stipendio di 6000 euro a settimana per un impegno che la Rai pagava 1500 euro». Ma non è tutto.
Ha lavorato con la Rai per anni, producendo fiction di successo come «Il Capitano» con Alessandro Preziosi o programmi d’intrattenimento come «I Raccomandati» e «Ciak... si canta!», scrive “Il Messaggero”. Ora dalle denunce dell’ex presidente della società di produzione tv Ldm, Pietro Di Lorenzo è nata una nuova inchiesta della procura di Roma affidata al pm Alberto Galanti. Che nei giorni scorsi ha fatto le prime iscrizioni al registro degli indagati, contestando il reato di abuso d’ufficio ad alcuni capistruttura della Rai. Per la prossima settimana, il pm ha convocato in procura alcuni conduttori di programmi televisivi, per interrogarli sulle presunte segnalazioni che la società Ldm avrebbe subito per assumerli. Mentre a fine maggio, il produttore ha scritto una lettera anche alla nuova commissione di vigilanza Rai che ha già deciso di ascoltarlo. «Abbiamo subito un danno enorme - dice lui ora - dal 2006 il nostro fatturato con la Rai è sceso da 18 e 2 milioni di euro l’anno». La denuncia di Di Lorenzo cita fatti e circostanze molto precise: «Agli inizi di settembre 2006 il capostruttura di Raiuno Giampiero Raveggi delegato per la vigilanza sui programmi prodotti dalla Ldm comunicazione Spa chiese a Pietro Di Lorenzo ”in prestito” dei soldi (5000 euro)», si legge nell’esposto firmato da Di Lorenzo, assistito dall’avvocato Alessandro Diddi: «Ben presto egli si accorse che il Raveggi non voleva un prestito ma somme di ben altra portata nonché una serie di ”favori” da elargire a persone a lui vicine. Di Lorenzo rifiutò sdegnosamente la proposta di tangente di 100mila euro e da quel momento la Ldm è stata sottoposta ad una serie di vessazioni». Di questo scontro si sarebbe occupato anche l’allora direttore pro tempore di Rai uno Fabrizio Del Noce e «furono informati anche il Direttore generale Claudio Cappon e la Direttrice pro tempore delle risorse televisive (oggi presidente ndr) Lorenza Lei. La Rai dispose un auditing nell’ambito del quale il sottoscritto fu ascoltato e confermò tutto alla commissione etica», ma non accadde nulla. Una sorta di richiesta di denaro sarebbe arrivata anche dal responsabile palinsesti Chicco Agnese. Sempre stando alle parole di Di Lorenzo, ancora al vaglio degli inquirenti, il dirigente avrebbe chiesto di far lavorare il figlio «che desiderava fare l’operatore di clip esterne». Il produttore esecutivo della Ldm avrebbe poi richiamato Di Lorenzo «per dirgli di aver ricevuto la telefonata dell’agente del giovane Agnese il quale aveva fatto una richiesta di 6000 euro a puntata, per un impegno che la Rai pagava 1.500 euro. Agnese padre, quando il Di Lorenzo gli disse che evidentemente c’era stato un equivoco, gli rispose molto seccato che allora la cosa non gli interessava più». Quando la notizia della denuncia ha cominciato a circolare, la Rai ha fatto sapere che era stata fatta una verifica interna: «Appena ricevuta la lettera, presidente e dg hanno chiesto un audit approfondito dal quale non è emerso nulla. Anzi in molti casi è emerso documentalmente il contrario di quanto affermato». Le verifiche della procura di Roma toccano sia il ruolo di Raveggi sia quello della moglie, la capostruttura Chiara Cavagni. Le produzioni che a detta di Di Lorenzo sono state ostacolate sarebbero molte. «Il Capitano», con Alessandro Preziosi non è arrivato alla terza serie e per la seconda edizione di «Ciak... si canta!», la discussione ha riguardato la presenza alla conduzione di Eleonora Daniele, anch’essa nella lista dei presentatori convocati in procura. Bloccata anche la fiction «Cugino & cugino» con Nino Frassica e Giulio Scarpati, finita fuori i binari la trasmissione «I Raccomandati» e «Mettiamoci all’opera» di Fabrizio Frizzi. Tutti episodi che andranno verificati e da cui è comunque esclusa la responsabilità dei conduttori.
CIAK. SI TRUFFA E SI FLOPPA. IL CINEMA IN ITALIA.
Alla faccia della cultura. Come ti finanzio gli amici per purghe televisive.
I FINANZIAMENTI AL CINEMA: PRIVILEGI E SPRECHI.
Tempo fa, recensendo il film di Marco Risi "L’ultimo capodanno", ho scoperto che era stato sovvenzionato dallo stato per € 1.354.666 e che al botteghino aveva incassato € 96.567, scrive Capannelle su Davinotti. Ohibò, mi sono detto, come facciamo a dare così tanti soldi ad un regista peraltro noto per fare un flop simile? Ero convinto si trattasse di un caso isolato ma ero solo alla punta dell’iceberg!
I NUMERI PARLANO DA SOLI
Basta guardare le cifre complessive per rendersi conto degli sprechi che nel corso degli anni hanno caratterizzato l’utilizzo dei finanziamenti pubblici. Negli anni dal 1994 al 2006, lo stato ha speso 817 milioni € destinati a 544 film, per un importo medio di 1.524.000 € a film.
- Dei 544 film finanziati, ben 155 (il
28%) non sono mai usciti in sala.
- Di quelli usciti l’incasso medio è stato 378.000 €, gli spettatori medi circa
70.000
- Soltanto 25 film dei 544 finanziati sono riusciti a recuperare in toto i soldi ricevuti
- Hanno ricevuto fondi 61 case di produzione e 390 registi
Considerando il primo dato si può dire che almeno una volta ogni quattro (e anche l’annata 2007 lo conferma) viene finanziato un lavoro che nessuno vedrà. Spesso vengono costituite delle imprese già destinate al fallimento con l’unico scopo di far lavorare un gruppo di persone e di fornitori amici e magari trovare posto per un paio di ragazzotte amiche dell’onorevole. Tutto fattibile a cuor leggero tanto buona parte delle perdite se le accolla lo stato. E intanto mi sono costruito una solida rete di persone che mi devono un favore.
I beneficiari sono registi sconosciuti e bisognosi di affermarsi? Noooo. Tra i beneficiari troviamo anche:
- Michelangelo Antonioni, € 3.160.716 nel 1997 per un film mai uscito
- Bellocchio, finanziato 4 volte tra 1995 e 2003, con risultati al botteghino non disprezzabili
- I fratelli Taviani con 3 sovvenzioni
- La Wertmuller 4 volte, di cui una senza uscire e un’altra con un ritorno di € 6.625 a fronte degli 3.718.500 ottenuti per Peperoni ripieni e pesci in faccia.
- Pupi Avati beneficiario 5 volte con risultati altalenanti: dal 162% de Il testimone dello sposo al misero 13% di Festival; ma il tragico è che ottenne ben 3 finanziamenti in soli due anni (1996-97) e che riusci a far accedere ai finanziamenti anche la figlia Mariantonia per l’indimenticabile Per non dimenticarti (finanziato € 1.588.000, incasso 21.808)
- Barbareschi con 2 bei flop che hanno incassato il 3 e 4% del finanziamento: Ardena e Il trasformista.
UN CONTESTO DIFFICILE PER CHI "NON HA GLI AGGANCI".
Non è facile fare cinema al di fuori dello star-system americano, è risaputo. In Italia, la concorrenza della televisione, i gusti troppo esterofili e poco sofisticati del pubblico, la stagionalità del consumo non aiutano al botteghino. La crisi delle sale è compensata in parte da pay-tv e home video ma c’è anche tanta pirateria (ehm... meglio soprassedere). Che il quadro generale, a prescindere dal discorso sovvenzioni, sia poco allegro lo dicono anche i numeri: ogni anno escono in media 400 nuovi film, di cui circa 100 sono italiani; di questi 100 solo 20 sono redditizi: metà sono i classici “cinepanettoni”, metà sono opere di vario genere. Attenzione però a non enfatizzare questi aspetti (comuni del resto a tutti i paesi europei) per costruirsi un comodo alibi e non vedere che in fondo esiste anche un grosso deficit professionale a molti livelli del sistema cinema e un deficit di trasparenza. Esiste infatti in Italia una cerchia chiusa che comprende sia i personaggi più illustri (registi, sceneggiatori, attori) che quelle maestranze che lavorano dietro le quinte: elettricisti, falegnami, disegnatori, tecnici del suono etc. che, pur avendo un bagaglio professionale di primo ordine, ormai non lo utilizzano più in modo completo proprio perché non viene loro richiesto. Fanno parte di questa casta anche coloro che dovrebbero valutarla tramite recensioni e pareri: molti critici sono particolarmente benevoli verso i registi loro affini come background culturale e verso certi attori che all’estero faticherebbero a varcare la soglia di uno studio. Il cortocircuito è particolarmente dannoso - e limitante verso i nuovi autori - nella gestione dei finanziamenti statali, considerati alla stessa stregua di tanti altri fondi pubblici: non secondo fattori di meritocrazia culturale e professionale ma in base a conoscenze e amicizie.
IL SISTEMA DI SOVVENZIONI STATALI.
La maggior parte dei film italiani vengono finanziati, in misura variabile, da enti pubblici. Ogni anno vengono erogati circa 80 milioni di euro del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo, istituito nel 1985). Si tratta di soldi del contribuente utilizzati per dare sostegno a opere, cineasti, scuole di cinema, centri sperimentali, sale cinematografiche. Una somma non alta né bassa, certamente non paragonabile alla Francia che ha deciso di considerare il cinema una risorsa strategica per la propria identità culturale e mette a disposizione fondi 8 volte superiori ai nostri grazie a tasse su biglietti del cinema (10%), tv commerciali (5,5% del fatturato) e dvd (2%). Sanno spenderli meglio di noi? Non lo so, ma se li danno a film come Asterix e Obelix o se magari finanziano anche un documentario su Cesare Battisti, stiamo freschi. Fino al 2004 i finanziamenti venivano erogati con criteri abbastanza discrezionali (un merito artistico che potevi attribuire in base a mille considerazioni) ma finivano comunque nelle tasche dei “soliti noti” e soprattutto senza alcun vincolo sul ritorno dell’operazione: se il film per cui avevi chiesto un contributo non era uscito nelle sale o aveva ottenuto scarsi risultati questo non importava a nessuno, potevi comunque continuare a chiedere e utilizzare i soldi pubblici come se nulla fosse. A fine 2004 la legge Urbani ha riformato il sistema ma ha corretto ben poco. Ha introdotto criteri di selezione più rigidi e basati su un punteggio ma ha così favorito i “soliti noti” che vantano le dimensioni e il curriculum per rimanere in prima fila nel magna magna generale. Ha ridotto il contributo dall’80% al 50% del costo totale dell’opera (eh sì, prima potevi farti finanziare quasi tutto senza dovere nulla in cambio, bell’esempio di responsabilizzazione!) ma da bravi italiani abbiamo semplicemente gonfiato i costi per ricevere più soldi. Ha introdotto la norma del “Product placement” (pubblicità palese e non occulta dei marchi) per permettere di raccogliere qualche elemosina supplementare. Almeno è stata eliminata una ricorrente ipocrisia già presente in molti programmi e fiction tv (vogliamo parlare delle vetture Mazda che Totti riforniva di carburante in un programma tv e che compaiono in pianta stabile nella serie Distretto di polizia?). Per finanziare le opere prime sono rimasti pochi soldi e la vita di chi si affaccia su questo mondo senza le dovute conoscenze è rimasta ardua. Qualche coraggioso si è esposto (ad esempio tale Mascagni col suo manifesto Davide contro Golia) per chiedere che fossero posti dei limiti all’ingordigia della casta. Ad esempio:
- minor peso attribuito al curriculum per consentire maggior ricambio
- introdurre un tetto massimo al numero di concessioni di soldi pubblici
- non si può chiedere un nuovo finanziamento prima di 2 anni dall’uscita del film precedentemente finanziato: per evitare che ci siano autori che ottengono soldi ogni anno.
- commissioni dove siedano rappresentanti di diverse tendenze e fasce d’età; dove non possano trovar posto persone legate da conflitti d’interesse.
Non mi risulta che il suo appello sia stato ascoltato.
A completamento del discorso, aggiungo che la legge prevede anche premi commisurati ai risultati di botteghino: cinepanettoni vari che hanno sbancato nelle sale ricevono pure una percentuale, variabile secondo scaglioni, su quanto hanno venduto. Ad esempio, il pieraccioniano Ti amo in tutte le lingue del mondo si è beccato un bel premio di € 1.485.600. Il totale dei premi erogati nel 2007 è stato di 19.638.887euro. Mica pochi, su un totale di 79.434.180 di sovvenzioni!
Ciak! paga lo Stato. Il programma racconta e documenta con taglio giornalistico gli aspetti meno noti dell’industria cinematografica. L’inchiesta di Sky Cinema prova a rispondere a queste e ad altre domande attraverso contributi e interviste inedite. Come vengono utilizzati i soldi che lo Stato dà al cinema? Ci sono ancora i finanziamenti a film che nemmeno escono? O c’è un più oculato sistema per dare incentivi? E a chi? Fuori dai red carpet, dalle anteprime, dalle interviste in batteria, un mondo di addetti ai lavori, istituzioni, aziende, enti, ruota intorno al business del cinema, tra investimenti privati e finanziamenti pubblici che spesso generano polemiche e controversie.
Film soft core, catastrofiche pellicole horror e soprattutto pellicole che nessuno ha mai visto, perché non sono mai nemmeno uscite in sala, scrive Barbara Tarricone. Sono i risultati dell’uso scellerato della prima legge di finanziamento pubblico al cinema, quella del 1965. Meglio conosciuta per avere prodotto gioielli come “Mutande Pazze”, di Roberto D’Agostino. Errori del passato, rimediati dalla nuova legge cinema del 2004? Sono riposti meglio i sempre più esigui fondi che lo stato destina alla cultura (e al cinema)? Negli ultimi anni sono stati finanziati grandi registi e autori: da Marco Bellocchio, 900.000 euro per "Bella Addormentata” a Paolo Sorrentino che ha portato a Cannes “La Grande Bellezza” con una produzione aiutata da 1.100.000 euro dello stato, a Paolo Virzi sul set in questi giorni con "Il Capitale Umano" che dal Ministero ha preso 700.000 euro. Tra le liste dei film che per lo stato sono di interesse culturale e che quindi meritano di essere aiutati e pagati dai nostri soldi abbiamo trovato anche mega commedie e blockbuster. Qualche nome? “Genitori e Figli” di Giovanni Veronesi con 1.100.000 euro, la saga goliardica “Amici miei come tutto ebbe inizio” di Neri Parenti, con 400.000 euro, 650.000 euro a “Posti in Piedi in paradiso” di Carlo Verdone. E addirittura 1.000.000 euro a “Ex” di Fausto Brizzi. Ma lo Stato non doveva “aiutare a produrre e a diffondere opere difficili e di qualità”? Così non sembra, se guardiamo i film che, anche senza ricevere finanziamento, hanno richiesto e ottenuto il bollino di interesse culturale dal ministero. Un bollino che non è solo un’onorificenza ma garantisce un maggiore premio statale sugli incassi, sgravi fiscali per il distributore e premi agli esercenti. Cioè altri soldi pubblici. Tra i film che per lo stato sono a interesse culturale ci sono “Benvenuti al Sud” e il sequel “Benvenuti al Nord” “Immaturi”, “Femmine contro maschi”, “Baciato dalla fortuna”, i mega comici Aldo Giovanni e Giacomo con “La Banda dei Babbi Natale”, Ficarra e Picone con “La Matassa”, il fenomeno televisivo Giovanni Vernia con “Ti stimo fratello!”. E persino i Vanzina con il loro road trip “Mai Stati Uniti”!
Per scoprire perché Sky Cine News parla con registi, produttori, addetti ai lavori e si è avventurato all’interno della sezione Cinema del Ministero dei Beni delle Attività Culturali. Appuntamento su Sky Cinema 1 il 18 giugno 2013 alle ore 22.50
Ciak, si floppa. Tanto paga lo Stato. I fondi pubblici finanziano soprattutto commediole e registi noti. Come rivela un documentario di Sky, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Si parla tanto di fondi alla cultura, e in particolare al cinema. Il dibattito assume subito toni alti ed ispirati. Si discute della necessità di preservare una «diversità» italiana, quella che ad esempio Francesco Merlo su Repubblica loda come «eccezione culturale». Il tema è tutt'altro che semplice e l'impegno a tutela della cultura è sancito dalla Carta costituzionale. Tuttavia al di là delle disquisizioni dotte e filosofiche sul tema - o anche della complessità del mercato degli audiovisivi - si potrebbe anche fare qualche riflessione più terra terra su dove sono andati a finire i finanziamenti erogati sin qui. In questo senso aiuta anche una trasmissioncina breve breve che andrà in onda il 18 giugno 2013 stasera su Sky Cinema 1HD e intitolata Ciak!Paga lo stato! (alle 22,50 sul canale 301 della piattaforma Sky). Ecco qualche numero e qualche titolo di quelli che verranno presi in considerazione. Il ministero ha erogato fondi per titoli di cui è difficile mettere in dubbio il valore culturale. Un esempio tra i tanti Bella addormentata di Marco Bellocchio (900mila euro) o La grande bellezza di Paolo Sorrentino (1 milione e 100mila euro). Diventa meno facile spiegarsi come mai si possa trovare culturalmente imprescindibile un finanziamento di un 1 milione di euro a Ex di Fausto Brizzi del 2009. O forse ad aver preso un abbaglio nel giudicare la commedia è stato il noto critico cinematografico Morandini nel suo dizionario del cinema: assegna al film una stelletta su 5, a causa della «banalità trionfante», la «volgarità a tutti i livelli» e l'«esterofilia turistica modaiola». E la lista è lunga. Genitori e figli di Giovanni Veronesi (1 milione e centomila euro); Amici miei come tutto ebbe inizio di Neri Parenti (400mila euro per un film che è stato un tremendo flop e secondo alcuni una vera e propria offesa agli originali di Monicelli)... Quando non si tratta di finanziamenti diretti il ministero sembra aver elargito con particolare generosità anche il «bollino» di interesse culturale. Non si tratta infatti semplicemente di una onorificenza: comporta sgravi fiscali per il distributore, un maggior premio statale sugli incassi e premi agli esercenti che proiettano la pellicola. Nell'elenco ci sono: Benvenuti al sud e Benvenuti al nord, Immaturi, Femmine contro maschi, Baciato dalla fortuna, La banda dei babbi natali di Aldo Giovanni e Giacomo, La matassa di Ficarra e Picone e anche il road movie all'americana dei fratelli Vanzina Mai Stati Uniti!. Questo, va detto, è il risultato della nuova legge del 2004 che ha tentato di emendare gli sperperi addirittura incredibili causati dalla precedente legge del 4 novembre 1965, quella che aveva consentito di finanziare film come Mutande pazze o La bella dalla pelle nera. Dal 2004 non solo si è tentato di dare una stretta ai cordoni della borsa ma persino di introdurre dei criteri oggettivi di valutazione. Oltre alle commissioni del ministero (che contano ancora per il 70% sulla decisione) ora a fare la differenza è il curriculum del regista e del cast. Ben vengano i criteri oggettivi ma, secondo alcuni, il risultato è che si vedono sempre le stesse facce, quelle di quegli attori che portano punti. Non proprio un modo di favorire le novità (culturali). Come spiega in Ciak!Paga lo stato! lo sceneggiatore Michele Pellegrini: «Non si può dare un punteggio elevato, con tutto il rispetto, a Valerio Mastandrea, perché Valerio fa già un sacco di film...». Ecco spiegato anche come il Mibac possa stanziare 400mila euro per un pornochic massacrato da pubblico e critica come E la chiamavano estate. Basta la presenza di Isabella Ferrari. Vi sembra una situazione surreale? Non abbiamo ancora parlato di quei film che prendono i finanziamenti e poi nelle sale non escono. Una volta il fenomeno era endemico e mandava in fumo cifre enormi. Dal 2004 si è cercato di mettere una pezza. Eppure dei 28 lungometraggi dei registi considerati «esperti» dalle commissioni del Mibac finanziati nel 2011 solo 16 sino a ora sono arrivati nelle sale. Resta da capire come andrà a finire per i 23 milioni di euro erogati nel 2012 a 79 pellicole. Speriamo meglio... Ah, ovviamente anche se un film va in sala e fa flop lo Stato va in perdita secca. Per fare un esempio: La scoperta dell'alba di Susanna Nicchiarelli è stato finanziato con 550mila euro, ne ha incassati 50mila. E se un film va bene? C'è un complicato sistema premiale per cui lo Stato spesso non rientra lo stesso.
QUANDO SANREMO E’ SANREMO!
Il libro nero del Festival di Sanremo di Romano Lupi Riccardo Mandelli edito da Odoya, 2016. Il libro nero del Festival di Sanremo: La storia del Festival di Sanremo non è scritta soltanto dalla "grande evasione" di tv, sorrisi e canzoni, scrive “Unilibro”. E tantomeno da quello che, davanti agli occhi di tutti, accade sul palcoscenico. Esiste, infatti, una storia segreta che attraversa tutto il dopoguerra italiano e le cui premesse nascono da una sorta di "progetto Sanremo" ideato alla fine dell'Ottocento: un "paradiso terrestre massonico" dove il gioco d'azzardo è il termine medio tra spionaggio internazionale e grandi giochi politici. Il Festival è l'ultima tappa di un percorso dove la manipolazione sociale assume i morbidi e insinuanti contorni della musica nazional-popolare. Il legame con il casinò è molto forte. Non è un caso che la più importante kermesse canora del nostro paese sia nata e si sia sviluppata in stretto collegamento con una delle quattro case da gioco italiane, tra i rapporti indicibili delle istituzioni con la criminalità organizzata, i servizi segreti e l'industria discografica. Gli scandali emersi nel corso degli anni presentano risvolti molto più inquietanti rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare. Dalle ambigue figure dei primi "patron" festivalieri come Pier Bussetti, Achille Cajafa ed Ezio Radaelli, con i loro tragici destini, alla misteriosa morte di Luigi Tenco; dal ruolo del Vaticano nell'industria del gioco e dell'intrattenimento ai Festival truccati; dalle tangenti di Adriano Aragozzini fino alle polemiche sulle amicizie in odore di mafia del direttore artistico Tony Renis. La storia d'Italia non è mai banale ed è sempre capace di stupire, anche quando "sono solo canzonette".
“Il libro nero del Festival di Sanremo”, in uscita l’opera di Romano Lupi e Riccardo Mandelli. In questo libro compare un punto interrogativo: "Perché Sanremo è Sanremo?" Scrive il 14 novembre 2016 “Riviera 24”. Accanto al ritornello accattivante scritto da Bardotti-Caruso che lanciava la nuova edizione del festival presentata da “re Baudo”, in questo libro compare un punto interrogativo: “Perché Sanremo è Sanremo?” “Sanremo, scrivono e circostanziano bene gli autori, è (a) Sanremo perché doveva fare da paravento o nobile corollario al casinò della città. Prima che Sanremo fosse Sanremo, svariati giochi di potere prima e durante il fascismo avevano creato una stretta relazione tra eventi e gioco d’azzardo. Fu così che nel Secondo dopoguerra, da un’idea di Amilcare Rambaldi, commerciante di fiori massone della loggia Mazzini, e il suo confratello Angeli Nizza, che occupava la posizione di ufficio stampa del casinò, si sviluppò un abbozzo di programma che avrebbe riunito gli interessi di Piero Busseti (gestore della sala da gioco) e della Rai. Era il 1951. La prima vincitrice fu Nilla Pizzi. Fu praticamente obbligata a giocare alla roulette e restò stupefatta di fronte a quel maldestro tentativo di farne immediatamente la testimonial del gioco d’azzardo. Le persone sedute alla roulette le sembrarono infatti “ipnotizzate”, “stregate dalla pallina che girava” e se ne andò offesa. La mafia legata dal gioco (Nitto Santapaola e Joe Adonis per citare due nomi illustri) ebbe a che fare ancora per decenni con l’organizzazione del festival, ma già dal 1955 i dischi che la competizione faceva vendere giustificavano di per sé la pena di organizzare l’evento. Le canzoni del festival sfondarono addirittura i confini nazionali. Erano particolarmente apprezzate in URSS dove circolavano in edizioni illegali incise sulle radiografie ossee…Questo non contribuì a rendere limpida l’organizzazione e la gestione della competizione, che iniziava ad assumere i connotati delle edizioni che conosciamo. In questa inchiesta completissima si dimostra come gli interessi in gioco fossero tanti e tali che spesso i risultati non fossero frutto di una votazione onesta. Per esempio gli autori raccontano che Pupo spese 75 milioni in schedine del Totocalcio per pilotare il voto del pubblico. Le reti Mediaset, che ne avevano tutto l’interesse, provarono a smascherare i brogli e Striscia la Notizia se ne uscì ben due volte con il nome del vincitore a un paio di giorni dalla votazione…Questo sarebbe un peccato veniale se non avesse portato, certo in un quadro di insieme più complesso, al suicidio di ben due concorrenti: Luigi Tenco e Mia Martini…Un’inchiesta dura e che non risparmia nessuno dei grandi partiti politici e che parte dalla convinzione che Guy Debord, nel suo libro culto La società dello spettacolo ci avesse visto giusto. Interessantissima anche la storia dei controfestival con i quali Dario Fo e Franca Rame ebbero molto a che spartire. Anzi, si può dire che la prima manifestazione alternativa (1969) fu una loro idea. Insomma: un vero e proprio libro nero sulla falsariga di quello che un tempo si chiamava controinformazione, passata di moda a favore della più adatta ai tempi disinformazione”. Romano Lupi, nato a Sanremo, è giornalista pubblicista dal 2005 e scrittore. Ha al suo attivo diverse collaborazioni con giornali e riviste culturali. Tra i suoi libri: Sanremando tra cronaca e storia (con Franco D’Imporzano); Futbolstrojka. Il calcio sovietico negli anni della Perestrojka (con Mario Alessandro Curletto); Il calcio sotto le bombe. Storia del Liguria nel campionato di guerra del ’44; Jašin. Vita di un portiere (con Mario Alessandro Curletto). Per Odoya ha già pubblicato: Vittò. Giuseppe Vittorio Guglielmo (2016). Riccardo Mandelli è storico e scrittore. Tra i suoi saggi ricordiamo: L’ultimo sultano. Come l’Impero ottomano morì a Sanremo; Al casinò con Mussolini. Gioco d’azzardo, massoneria ed esoterismo intorno all’ombra di Matteotti; Decreti sporchi. La lobby del gioco d’azzardo e il delitto Matteotti.
Balordi, miliardari e misteri Ecco il libro nero del Festival. Ricostruiti gli scabrosi retroscena della kermesse musicale inventata per valorizzare e portare clienti al Casinò, scrive Umberto Piancatelli, Martedì 22/11/2016, su "Il Giornale". Perché Sanremo è Sanremo? Non è soltanto la sigla del Festival della Canzone ma, aggiungendo un interrogativo, è anche il mistero che hanno cercato di svelare Romano Lupi e Riccardo Mandelli con Il libro nero del Festival di Sanremo (Odoya). Il lavoro dei due autori liguri ripercorre la storia della rassegna canora, partendo dagli inizi del 900 da quando si costruisce il primo Casinò italiano, che diventa subito un centro di spionaggio, ricatto, finanziamento occulto e riciclaggio. L'intenzione dei primi gestori, come Lurati, è quella di far diventare la casa da gioco un punto nevralgico per attirare magnati e miliardari da tutto il mondo, scippando lo scettro alla vicina Costa Azzurra. Come scrivono gli autori: «l'Italia avrebbe dovuto assumere il primo posto come paese del divertimento, del gioco, dello spettacolo e dell'assenza di pensieri tormentosi. Il regno dell'illusione. La formula paradiso, replicata in tutto il mondo fino a oggi con i necessari adattamenti, sembrava sul punto di trovare proprio qui da noi la massima espressione». Dove circola una montagna di denaro, ovviamente, i traffici illeciti proliferano ovunque. L'editore musicale Suvini e Zerboni per far lievitare i propri profitti si dedica ad un giro di scommesse raccolte tra una rappresentazione e l'altra. Trame occulte influenzano la vita nazionale e quella del mondo intero e al centro si trova il tempio dell'azzardo. Giochi di potere, anche durante il fascismo, creano una stretta relazione tra spettacoli e gioco d'azzardo. Sono gli anni in cui l'edificio del Casinò è frequentato dai fratelli De Filippo, insaziabili giocatori d'azzardo, e si organizza un Festival di Musica Partenopea che nella sua struttura è da considerare il progenitore dell'attuale kermesse canora. Il primo ad avere l'idea di un Festival della Canzone Italiana è Amilcare Rambaldi, commerciante di fiori, che aveva rischiato la fucilazione. Per concretizzare l'intuizione di Rambaldi, il giornalista Angelo Nizza «cominciò così a lavorarsi il nuovo gestore del casinò, Piero Busseti, e alla fine riuscì a convincerlo che l'idea di un Festival della Canzone non era poi malvagia. Quindi Nizza attivò i suoi amici della sede Rai di Torino, primo tra tutti Nunzio Filogamo». Alla terza edizione, nel 1953, la manifestazione canora era ormai un successo consolidato. In questa festa dello show business con sempre più frequenza si parla di droga, lavorata da famose case farmaceutiche, anche se «il traffico di sostanze stupefacenti esisteva già negli anni Venti, e il nostro Paese ne era un nodo fondamentale» e del mercato dell'illecito che ruota dentro e intorno al Casinò. Entrano in scena personaggi loschi, faccendieri, la Gladio, Lucky Luciano, Angelo La Barbera, Salvatore Greco, Giuseppe Bono, Gaetano Badalamenti, Tommaso Buscetta e Joe Adonis, potente mafioso italo-americano della famiglia Genovese. Durante il suo soggiorno obbligato nelle Marche, secondo quanto riportato nel libro, «secondo un biscazziere che lo conosceva bene erano intanto passati a salutarlo Dori Ghezzi, Ombretta Colli, Lauretta Masiero, Johnny Dorelli». A gestire il Casinò ritroviamo Rinaldo Masseroni, già presidente dell'Inter, e con lui Achille Cajafa, soprannominato vero dittatore della canzone. Si fa sempre più pressante il dubbio che una vittoria del Festival sia frutto di manovre sottobanco. Il racconto ci riporta alla mente i brogli denunciati a gran voce da Claudio Villa, l'era dei patron Ravera e Radaelli, le loro guerre contro le case discografiche, le ammissioni alla gara (si dice) vendute a suon di milioni, le irregolarità amministrative e altri reati connessi. Arriviamo alla triste pagina della morte di Luigi Tenco dopo l'esclusione della sua Ciao amore ciao, con Gianni Ravera che farfugliò in stato confusionale: «Bastava che me lo dicesse e sarebbe passato in finale». Leggendo le documentate pagine di Lupi e Mandelli si arriva al Festival del 1975 vinto da Gilda con Ragazza del Sud, pupilla di Napoleone Cavaliere, patron della manifestazione, in cui il posto di un notaio fu ricoperto da un figurante cinematografico. Quindi è l'era di Adriano Aragozzini, condannato e carcerato per tangenti pagate ad amministratori e politici locali per ottenere l'organizzazione. Fece scalpore la presa di posizione di Gino Paoli che scese in campo per difenderlo. Lungo la cavalcata musical-scandalistica di 300 pagine appare anche il nome di Lele Mora, chiamato a riorganizzare le sorti balneari di Sanremo. Insomma Il libro nero del Festival di Sanremo è un testo che tenta di colmare il vuoto lasciato da quella informazione che non indaga più a fondo e non va oltre le patinate apparenze.
SANREMO. ROBA LORO.
Rosita Celentano è un esempio. Della familiy system che da nord a sud ha caratterizzato per tante generazioni la porta d'accesso al mondo del lavoro. Con quel cognome Rosita di certo non ha avuto problemi a fare carriera. E lo ha ammesso senza problemi il 15 febbraio 2013 sul palco dell'Ariston. Chiamata da Fabio Fazio con i suoi compagni di ventura di quel Sanremo 1989, la figlia del "Molleggiato" ha confessato: "Quella volta ho presentato Sanremo solo perchè mi chiamavo Celentano. Non sapevo fare nulla. Sono convinta che mi hanno chiamato solo per il cognome". A Sanremo ieri sera è stata una serata amarcord. Soprattutto per i "figli di...". Insieme a Rosita sul palco c'erano anche Giammarco Tognazzi, Paola Dominguin e Danny Quinn. Insieme presentarono il Festival del 1989. La sincerità della Celentano la dice lunga sui meccanismi rodati per arrivare in Rai. Basta avere un cognome già noto, il resto viene da sè. Puoi anche non aver fatto nulla, ma ti ritrovi solo per il cognome a presentare lo spettacolo più importante della tv italiana. Perchè Sanremo è Sanremo. E perchè Rosita è Celentano.
Joan Lui è convinto di predicare meglio dei preti. Ma nel ruolo di profeta salva Italia ne vogliamo solo uno, due sono troppi: o Monti o Celentano, scrive Aldo Grasso su “Il Corriere della Sera” in riferimento al Sanremo 2012. Dopo ieri sera ho scelto definitivamente. Ogni anno il Festival di Sanremo ci mette di fronte a un tragico dilemma: ma davvero questo baraccone è la misura dello stato di salute della nazione? E se così fosse, non dovremmo preoccuparci seriamente? C'è stato un tempo in cui effettivamente il Festival è stato specchio del costume nazionale, con le sue novità, le sue piccole trasgressioni, persino le sue tragedie. Ma tutto ha un tempo e questo (troppo iellato) non è più il tempo di Sanremo o di Celentano, se vogliamo rinascere. Monti o Celentano? Se davvero il nostro premier vuole compiere il titanico sforzo di cambiare gli italiani («l'Italia è sfatta», con quel che segue), forse, simbolicamente, dovrebbe partire proprio dal Festival, da uno dei più brutti Festival della storia. Via l'Olimpiade del 2020, ma via, con altrettanta saggezza, anche Sanremo, usiamo meglio i soldi del canone. O Monti o Celentano. O le prediche del Preside o quelle del Re degli Ignoranti contro Avvenire e Famiglia Cristiana. Non mi preoccupa Adriano, mi preoccupano piuttosto quelli che sono disposti a prenderlo sul serio. E temo non siano pochi. Ah, il viscoso narcisismo dei salvatori della patria! Ah, il trash dell'apocalissi bellica! Cita il Vangelo e bastona la Chiesa, parla di politica per celebrare l'antipolitica: dalla fine del mondo si salva solo Joan Lui. Parla di un Paradiso in cui c'è posto solo per cristiani e musulmani. E gli ebrei? Il trio Celentano-Morandi-Pupo assomiglia a un imbarazzante delirio. A bene vedere il Festival è solo una festa del vuoto, del niente, della caduta del tempo e non si capisce, se non all'interno di uno spirito autodistruttivo, come possano essersi accreditati 1.157 giornalisti (compresi gli inviati della tv bulgara, di quella croata, di quella slovena, di quella spagnola, insomma paesi con rating peggiore del nostro), come d'improvviso, ogni rete generalista abbassi la saracinesca (assurdo: durante il Festival il periodo di garanzia vale solo per la Rai), come ogni spettatore venga convertito in un postulante di qualcosa che non esiste più. Sanremo è il Festival dello sguardo all'indietro (anni 70?), dove «il figlio del ciabattino di Monghidoro» si trasforma in presentatore, è il Festival delle vecchie zie dove tutti ci troviamo un po' più stupidi proprio nel momento in cui crediamo di avere uno sguardo più furbo e intelligente di Sanremo (più spiritosi di Luca e Paolo quando cantano il de profundis della satira di sinistra), è il Festival della consolazione dove Celentano concelebra la resistenza al nuovo. Per restituire un futuro all'Italia possiamo ancora dare spazio a un campionario di polemiche, incidenti, freak show, casi umani, amenità, pessime canzoni e varia umanità con l'alibi che sono cose che fanno discutere e parlare? Penso proprio di no. P.S. Mentre scrivevo questo pezzo mi sono arrivati gli insulti in diretta da Sanremo. Ma non ho altro da aggiungere.
Al contrario. Onore a Roberto Benigni avversario ma senza odio, scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale” in riferimento al Sanremo 2011. Roberto Benigni non è mai stato trattato particolarmente bene dalla destra, così come dal nostro Giornale. Gli è stato rimproverato, anche su queste pagine, di sbertucciare solo una certa parte politica, di essere pagato eccessivamente per le sue comparsate, di essere un regista sopravvalutato. È stato attaccato perché troppo di sinistra, troppo snob, troppo furbo. Oggi, però, a Benigni va reso onore e rispetto. Al netto di qualsiasi legittimo dissenso dalla «linea politica» dell’attore toscano, la sua interpretazione al Festival di Sanremo è a prova di critica: leggera e calibrata nella parte comica, emozionante e formativa nella parte drammatica. L’affondo satirico era acuminato ma elegante, la lezione di storia originale e coinvolgente. Seppure non sempre sia facile accorgersene, e ancor più difficile riconoscerlo, ci sono volte in cui il tuo avversario può essere dalla parte giusta. Mercoledì sera, su quel palco, Benigni lo era. Ha saputo portare una serata che rischiava di cadere nella retorica e nel kitsch a un livello più alto. Che non è il livello della Poesia, della Bellezza, della Verità, come il mattino dopo in molti hanno voluto spiegarci. Ma semplicemente della Leggerezza. Leggero nell’ironia, leggero nella serietà, leggero anche nelle emozioni. Benigni ha dimostrato che si può fare un grande spettacolo senza scendere troppo in basso o salire troppo in alto. Che si può far ridere anche senza cedere al volgare, o dare scandalo, o assumere i toni del profeta o atteggiarsi a predicatore. Benigni ha dato una lezione a un’immensa platea di italiani, ma ha anche rifilato una lezione di stile a Beppe Grillo, sempre troppo volgare, a Sabina Guzzanti, sempre troppo astiosa, a Roberto Saviano, sempre troppo atteggiato. Benigni voleva semplicemente avvicinare gli italiani alle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità. E l’ha fatto benissimo. Attorno a sé e alla sua personalissima interpretazione dell’inno di Mameli, sussurrato in «fa» maggiore, una quarta sotto, ha stretto a coorte tutti coloro che lo stavano ascoltando. Lo hanno applaudito l’intero teatro Ariston che gli ha tributato la standing ovation, più di 18 milioni di telespettatori che lo hanno seguito per 40 minuti, i vertici Rai per una volta al completo, Gianni Morandi che vorrebbe portarlo in tutte le scuole d’Italia, l’Osservatore Romano e il Vaticano che dopo Porta Pia non avevano mai parlato così bene di un «patriota», persino l’ultimo discendente di Goffredo Mameli, Nino, che ha 76 anni ed è un maestro di musica in pensione, e poi ministri di destra come La Russa e Giorgia Meloni e leader di sinistra come Bersani e Vendola, persino famosi giocatori di calcio che, come Buffon, lo hanno ringraziato per aver spiegato che a essere schiava di Roma non è l’Italia, ma la Vittoria (anche se sintatticamente il soggetto è «Dio», non «Vittoria» che è un complemento oggetto, mentre «schiava» è un complemento predicativo dell’oggetto), e infine direttori d’orchestra, attori, parlamentari dell’intero arco costituzionale, giusto con qualche scranno vuoto nella parte dell’emiciclo riservato alla Lega. Per tutti la prova del comico-professore è stata impeccabile e culturalmente edificante. Sul campo scivoloso della satira Benigni ha insegnato che si può essere anti berlusconiani senza bava alla bocca. I berlusconiani possono per una volta dimostrare di non essere anti benigniani con il veleno preventivo nella penna. Mentre sul terreno impervio della filologia ha provato che si può tenere una lezione intellettualmente impegnativa senza essere per forza noiosi. Certo, non mancherà chi farà notare che il Risorgimento “secondo Benigni” è «semplicistico», che gli eroi non erano tutti senza macchia e senza paura, che anche attorno a Re, patrioti e ministri si aggirava qualche «escort», che oltre a giovani «pronti alla morte» ci sono stati anche migliaia di briganti sterminati dall’esercito sabaudo, che la fedina penale e morale di tanti Padri della Patria non è pulitissima e che verso la Chiesa non si è usata troppa cortesia. Ma se si parla a qualche milione di spettatori, alle dieci di sera, a Sanremo, e si ha solo mezz’oretta di tempo, non si può andare troppo per il sottile. Roberto Benigni continuerà, per molti, a essere un avversario sul fronte della politica. E in molti continueranno a non vedere i suoi film. Ma perché non riconoscergli la bravura nell’aver interpretato con leggerezza e semplicità un giovane patriota di 150 anni fa? L’ideologia, e persino un’idea che non ci piace, si possono condannare. La passione no. Non ce n’è bisogno. Onore al compagno Benigni.
Sanremo: da Grillo a Benigni, tutto ciò che ha creato scandalo al Festival, scrive Simone Rossi su “Digital Sat”. Sanremo e la politica rappresentano un binomio solido, se si pensa che all'epoca del secondo festival, nel 1952, 'Papaveri e papere' fu considerata un brano a rischio perchè alludeva al potere dei papaveri dell'allora Dc. Negli anni la polemica a sfondo politico, quasi sempre legata agli interventi dei comici, è diventata un ingrediente praticamente fisso del festival. Nel 2013 però c'è una doppia novità: l'attacco preventivo di Berlusconi e del Pdl con l'accusa a Fabio Fazio e a Luciana Littizzetto di rappresentare la sinistra e quindi un pericolo per la par condicio e addirittura la sfida degli ascolti, visto che proprio nei giorni del festival su Rai2 andranno in onda le conferenze stampa dei tre principali soggetti politici. E pensare che nel 2004 Adriano Celentano, arrivato all'Ariston in soccorso del suo amico Tony Renis (direttore artistico di un'edizione boicottata delle major del disco) disse: « Io non dico mica che non si deve fare la politica. Vespa ha fatto 'Porta a Porta Speciale Sanremo' e come l'ha fatto lui, i politici ci stanno bene. Perchè il Festival e i politici devono restare due cose distinte». Nel frattempo aveva anche criticato il collegamento con Nassiriya, in Iraq, dove era stata compiuta una strage di Carabinieri. Proprio Celentano che nel 2012 ha creato un caso che ha quasi provocato un commissariamento del festival per il suo compenso (poi devoluto in beneficenza) ma soprattutto per le critiche violente alla stampa cattolica. A proposito di religione, è stato Roberto Benigni nel 1980 a creare scandalo per aver rivolto al papa di allora l'epiteto 'Wojtilaccio'. Già che c'era aveva fatto inorridire i benpensanti baciando la conduttrice Olimpia Carlisi. Nei decenni successivi Benigni è diventato un protagonista assoluto anche di Sanremo, suscitando sempre clamore. Nel 2002 il premio Oscar, in uno degli interventi più emozionanti della storia del festival, presenta una sua versione in chiave politica del Giudizio Universale e si lancia in battute sugli organi sessuali di Baudo, Berlusconi, Di Pietro, Fassino. Nel 2009 sparge battute su Berlusconi ma non risparmia Veltroni, Mina e Iva Zanicchi e, soprattutto, in difesa dell'amore omosessuale (oltraggiato da un brano di Povia), chiude il suo intervento con la lettera dal carcere di Oscar Wilde. Nel 2011 fa riscoprire il patriottismo all'Italia con la sua lettura dell'Inno di Mameli. Una delle edizioni più turbolente è stata quella del 1989: Beppe Grillo distrugge il festival, attacchi feroci ai cantanti, ai giornalisti e soprattutto all'allora leader della Dc De Mita e al direttore generale della Rai Biagio Agnes. Non fu risparmiato Claudio Martelli per la vicenda di Malindi. La conclusione di Grillo, allora solo un comico, fu: «io vi faccio ridere e poi mi fanno un c ...o così a me». Il trio Solenghi-Marchesini-Lopez si beccò gli strali del mondo cattolico per la parodia del Vangelo e la lettera di San Remo e presentò una parodia dei figli di Andreotti che non mise di buonumore il politico. Nel 2006, anno di scambi al vetriolo tra Pippo Baudo e Fabrizio Del Noce, allora direttore di Rai1, furono Padoa Schioppa e Prodi a criticare i compensi dei conduttori del festival, guadagnandosi la risposta piccata di Baudo. Tornando indietro nel tempo, nel 1999, l'anno di Fazio conduttore e dell'intervento di Gorbaciov, Teo Teocoli si presentò sul palco in mutande imitando Gabriele Albertini, nel 1992 toccò l'apice la piccola epopea di Cavallo Pazzo, che riuscì a entrare in teatro guadagnandosi il primo posto nella lista dei most wanted del festival. Nel 1969 Dario Fo e Franca Rame organizzarono un contro festival che avrebbe dovuto fomentare la contestazione ma gli effetti furono blandi. Proprio in questi giorni è circolata la foto di Nichi Vendola che, nel 1995, insieme ad alcuni politici e a un gruppo eterogeneo chiamato la Riserva Indiana, accompagnò l'esibizione di Sabina Guzzanti. Altri tempi rispetto alla sfida degli ascolti di quest'anno.
Cara Nazione... Risponde il vice direttore Marcello Mancini. Firenze, 17 dicembre 2013 - GENTILE DIRETTORE, contestare un comico non si può, non è concepibile, non ha senso. Persino alle corti di re, il comico aveva licenza di ridicolizzare il sovrano, quindi zittire Crozza è stato un atto indegno e illiberale, tanto più che poi s’è visto, bastava aspettare un minuto e la sua esibizione, da bravo professionista quale è, sarebbe subito rientrata nella par condicio. Infatti nessuno dei leader in campo è stato risparmiato. Ma tant’è, siamo un Paese coi nervi a fior di pelle. G. S. Benedetti, Capannori
Risponde il vice direttore Marcello Mancini. CARO signor Benedetti, è molto difficile non interpretare ogni minuto di una trasmissione super vista come Sanremo, che va in onda nel periodo più stretto della campagna elettorale, anche solo dandole il valore di messaggio subliminale. A noi è sembrato che la prima puntata - semplicemente attraverso gli ospiti - abbia dettato l’agenda politica. Per dire: il matrimonio gay e la cittadinanza agli stranieri. Pensiamo lo abbia fatto molto più - e con meno clamore - di quanto sia riuscita a trasmettere l’esibizione di Crozza. Insomma, non c’è bisogno di gonfiare con ingredienti politici una gara di canzonette, perché a dieci giorni dal voto, in un Paese come il nostro, tutto può venire considerato un’intrusione. Molte delle polemiche cucite addosso a questo festival sono pretestuose, magari anche giustificate, ma servono a poco perché non spostano voti. Ma ogni anno è così: alla fine servono per aumentare l’audience e decretare il successo della manifestazione. A conti fatti, l’unico a rimetterci è stato il povero Crozza che, anestetizzato preventivamente, ha lasciato in camerino le battute migliori. E non ha fatto ridere.
Sfiorando di poco l'avvertimento del 2013 sulla par condicio, anche Bisio nel suo intervento al Festival di Sanremo, dice la sua sui politici italiani: "Finchè ci sono loro in questo Paese non cambierà mai, dicono una cosa e ne fanno un'altra, non mantengono le promesse, sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili, mandiamoli tutti a casa". Claudio Bisio arriva per la prima volta a Sanremo e propone un monologo 'politico'. "Non parlavo degli eletti, ma degli elettori, stavo parlando di noi, degli italiani, perchè siamo noi i mandanti, noi che li abbiamo votati. Se li guardate bene è impressionante come ci assomigliano, sono come noi italiani, precisi sputati". Probabilmente più a suo agio nei panni di conduttore o di attore, come dimostrato dal successo a Zelig e soprattutto con Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord, comincia con una partenza davvero soft. Lasciando intendere le costrizioni imposte alla creatività dalla par condicio, scodella una serie di battutine di riscaldamento. Giusto per non provocare delusioni prepara il terreno ricordando quanto sia difficile arrivare ai livelli quasi ultraterreni raggiunti da Roberto Benigni sul palco dell’Ariston. Punta, dunque, sulle false partenze, chiedendo l’applauso e lo critica in quanto ‘promiscuo’: meglio fare una distinzione tra uomini e donne. Niente Divina Commedia per lui ma piuttosto solo Topolino, particolarmente interessante per la psicologia dei personaggi. Nonna Papera ha l’autorità di dar da mangiare alle galline e alle mucche, Clarabella e Orazio insolita coppia che non riesce ad avere figli, lo strano mix di Qui Quo e Qua in cui al secondo toccano solo le preposizioni o le congiunzioni. Lo stacco arriva quando si riferisce a ‘loro’ e poi nega di aver parlato dei politici, piuttosto parla degli italiani che li hanno votati e ammonisce: ‘Se guardate i politici è impressionante come ci somigliano: c’è l’imbroglione, il servitore di due padroni, quelli che cambiano casacca alla velocità dei ‘razzi’, il professore universitario che sa tutto lui, quelli che vanno al Family Day e hanno due famiglie‘. Tra il dire e il fare per molti italiani ci sta di mezzo la chiacchiera: ‘Io sono cattolico ma a modo mio…se divorzi sono Casini.. sei comunista e devi mangiare i bambini, tirar su il muro di Berlino, vedere film delle Corea del nord’. Ma i luoghi comuni sono anche nella gente normale tra cui si nascondono quegli elettori ‘impresentabili’ capaci di essere negozianti e ‘lamentarsi del governo ladro senza aver mai rilasciato uno scontrino‘. Peggio ancora è chi vende il proprio voto per un po’ di soldi, forse sostituire l’elettorato italiano con quello danese potrebbe essere una soluzione: finalmente si potrebbe vedere il nuovo premier dall’aria normalissima che dice cose normalissime e va in tv due e tre volte l’anno. E un Bisio non strabiliante chiude così il suo intervento, sulle note de L’Italiano.
Il Festival di Sanremo, ovvero l’evento mediatico per eccellenza, snobbato, odiato ma seguito da tutti, anche quest’anno è un centro nevralgico di polemiche. Il duo Fazio-Littizzetto e l’imitazione di Berlusconi da parte di Crozza hanno dato subito il là alle ipotesi politiche: il Festival è sempre più di sinistra? Sembra pensarla così anche Anna Oxa che, esclusa, accusa il festival di essere un coacervo di comunisti: la cantante sottolinea come “Cotugno, Al Bano e Ricchi e Poveri sono al Festival perché spinti dalla Russia”. La teoria è che, visti i diritti televisivi acquistati da Mosca, “La Russia conosce questi artisti e dice ho quei diritti e voglio questi artisti che conosco…”. Politica o meno, gli ascolti sono vertiginosi, i più alti dal 2005. Siamo certi che qualcuno vedrà lo share come un possibile sondaggio politico a favore del PD, scambiando la democrazia partecipativa per democrazia catodica. E non sarebbe la prima volta.
Ma la questione vien da lontano. Sanremo 2011 vira a sinistra, Luca e Paolo all'attacco: predica su Ruby & Silvio, scrive Laura Rio su “Il Giornale” rispetto ancora al Sanremo 2011. Già l’aveva fatto Saviano. Luca e Paolo, in apertura di Sanremo, l’hanno ripetuto. Che c’è di più divertente di prendere per i fondelli il Giornale e i suoi presunti «dossier»? Le due iene si sono esibite in un omaggio canoro ( sulle note della morandiana Ti supererò ) ai due più «grandi comici del momento »: Fini e Berlusconi, mettendoci dentro le olgettine, le Minetti, le arcorine, Fede, Ghedini, la Santanchè, la Casa di Montecarlo e ovviamente anche il nostro quotidiano, nell’accezione dei portatori di «macchina del fango». «Ti sputtanerò - cantano i due conduttori che lavorano a Mediaset ti sputtanerò, al Giornale andrò... con in mano foto dove tu sei con un trans... poi consegnerò le intercettazioni e alle prossime elezioni sputtanato sei». Finendo il grazioso brano con: «Ma il 6 aprile in tribunale ci vai tu....» Tu, ovviamente, è il Premier. Insomma dove siamo? Al Festival di Morandi o nel salotto super radical chic di Fazio e Saviano? Perché questa kermesse si sta sempre più trasformando in un incontro della creme del pensiero di sinistra. L’ultimo ospite arruolato è Roberto Benigni. Contrariamente alle prime indiscrezioni, l’attore ha accettato di salire sul palco dell’Ariston giovedì, durante la serata che celebra i 150 anni dell’unità d’Italia. A fare? A interpretare a modo suo l’inno di Mameli, a raccontarne la creazione e il significato. Ma voi ci credete che il premio Oscar riuscirà a frenare la lingua e a non fare riferimenti al Premier, alle intercettazioni, al bunga bunga, al caso Ruby e al rinvio a giudizio? Figuriamoci, nonostante le rassicurazioni della dirigenza Rai e degli organizzatori, difficile credere che si atterrà al momento istituzionalcanoro della celebrazione nazionale. Ma soprattutto, Benigni, per declamare il nostro inno nazionale si poterà a casa un bel gruzzolo: tra i 200 e i 250 mila euro. Guarda un po’, quella stessa cifra che avrebbe dovuto guadagnare per la partecipazione alla trasmissione Vieni via con me di FazioSaviano del novembre scorso. In quell’occasione, dopo una furibonda lotta sul compenso e sul contenuto del suo intervento,l’attore decise di andarci gratis. Ora i soldi arrivano. E subito scatenano una polemica politica. Ad aprire il fuoco è la Lega Nord. Il senatore Cesarino Monti commenta: «Il patriota Benigni con la sua morale di 30 minuti prende il 60 per cento in più dell’indennità di carica di un anno di un parlamentare italiano. Dove sono i moralisti? Dove sono quelli che pagano il canone? Dove sono i ricercatori, i cassintegrati, i precari e coloro che vivono con 1.200 euro al mese?». Certo ogni apparizione dell’attore procura ascolti altissimi e di conseguenza anche un ritorno economico pubblicitario che, con tutto il rispetto, nessun deputato si sogna. E il compenso sarebbe pure in linea con i cachet delle star, se non si dovesse fare i conti con la difficile crisi economica della Tv di Stato. Ma questo montagna di soldi offusca l’intervento del comico. Nei cui confronti, tra l’altro, la dirigenza Rai sembra essere un Giano bifronte: se va da Fazio è uno scandalo, se va a Sanremo no. Perché? Semplicemente perché quando bisogna raccattare ascolti tutti i paletti cadono. Giovedì c’è Annozero che rischia di portar via la scena a Sanremo. E allora meglio acchiappare spettatori anche rischiando di avere alla fine ben due trasmissioni in contemporanea contro il Premier. Tra l’altro Santoro ha già fatto sapere che giovedì farà parlare Emma, la cantante in gara al Festival che domenica scorsa ha partecipato alla manifestazione delle donne. Ma Sanremo non resta indietro: tra Vecchioni che inneggia alla protesta studentesca e i La Crus atei che cantano l’apologia del tradimento, eccovi servito il Vieni via con me ... in Riviera.
Ospiti e super ospiti all'insegna del cosiddetto 'politicamente corretto', neanche si trattasse dell'edizione invernale del Festival dell'Unità. Tra gli ospiti del Festival della canzone italiana, giunto alla edizione numero 63, primeggiano infatti gli artisti cari alla sinistra. E difficilmente poteva accadere il contrario, visto che la scelta è stata data in appalto al duo Fabio Fazio-Luciana Littizzetto. Avremo così, lautamente ricompensati con parte del nostro canone, l'ex premier dame di Francia Carla Bruni (potrebbe essere però l'occasione buona per chiederle qualcosa sulla latitanza dorata di Cesare Battisti), Claudio Bisio, Neri Marcorè, Serena Dandini e perfino, ma non si capisce bene a che titolo, Marco Alemanno, il compagno di Lucio Dalla. Sanremo 2013, quel 'comunista' di Toto Cutugno canta in russo e ha nostalgia dell'Urss. “Io quando li sento, mi commuovono sempre. Ho una nostalgia per una Russia … per l’Unione sovietica del passato…” “Toto, non è serata! Me lo aspetto da Lucianina ma tu…”. Eccaallà, sul finire (si fa per dire, anche se è mezzanotte) di una serata già pesante per la contestazione a Crozza e le polemiche scoppiate sul suo pezzo, Toto Cutugno sale sul palco per cantare L’Italiano con l’annunciata Armata Russa/Rossa. A parte Angelo Obinze Ogbonna, chiamato a simboleggiare dei ‘nuovi italiani’, che lo chiama ‘Totò’, e la Littizzetto che si tuffa tra le fila dei soldati canterini (e quando le ricapita!), scorre tutto sulle ali della nostalgia, dei trent’anni trascorsi dal debutto del pezzo. Fa anche effetto sentire quei vocioni - simulacro di un esercito che ha fatto tremare l’occidente - cantare “Buongiorno Italia, Buongiorno Maria .. Io sono un italiano vero” e il tutto ha l’entusiasmo dello spazio elettorale autogestito per gli italiani all’estero. Per capirci, eh. Poi il ‘guizzo’ che non ti aspetti da Toto Cutugno: la ‘nostalgia per un’Unione Sovietica che non c’è più. Qualcuno nel foyer è svenuto…. Personalmente non capisco mai se Cutugno scherza e men che meno stasera. Diciamo che la serata è proprio quella giusta per sentire nostalgia dell’Unione Sovietica, eh. Fazio ringrazia. Ciliegina sulla torta di una serata che gli è completamente sfuggita di mano. Fischia il vento, infuria la bufera…Però, a ben guardare al Festival ci sono precedenti illustri. Siamo al Sanremo 1987: conduce Pippo Baudo che si fa paladino della Perestroika e ospita nella serata finale Alla Pugacheva, dall’Unione Sovietica. Un segno di disgelo nel Festival del Prima Repubblica, che in quell’edizione vide all’Ariston Europe, Duran Duran, Nick Kamen, Frankie Goes To Hollywood, Spandau Ballet, Style Council, Patsy Kensit con gli Eighth Wonder, Whitney Houston, Bob Geldof, Paul Simon, The Smiths e Pet Shop Boys (e scusate se è poco). Ma con la Pugaceva spuntarono sul palco anche falce e martello. Altri tempi. Toto, hai fatto secondo (anche stavolta…).
Crozza guida l'Armata Rossa di Sanremo. Fazio: "Maurizio ospite all'esordio. Farà quello che vorrà". Col comico, i giurati radical chic e i reduci del Concertone ci sarà davvero anche il coro (ex) sovietico. Surreale, scrive Laura Rio su “Il Giornale”. Questa volta gli americani non ci potranno salvare. L'invasione sovietica è alle porte. I comunisti caleranno oltre le Alpi marciando sulle note del Coro dell'Armata Rossa. E in riviera si riuniranno con l'esercito dei comunisti nostrani guidati dal generale Fabio Fazio e dalla sua partner «trotskista» Lucianina Littizzetto. Scherzi a parte, ci vuole molta ironia per affrontare questo Sanremo. Pare proprio che il presentatore se le vada a cercare. Accusato, dalla destra e da Berlusconi, di aver messo in piedi un Festival tutto orientato a sinistra a pochi giorni dalle elezioni, lui che fa? Apre il Festival con il Coro dell'Armata rossa, quello vero, non è una finta: è l'orchestra erede di quella creata nel 1928 sotto Stalin. Certo, i musicisti russi arrivano solo per accompagnare Toto Cutugno e intonano L'italiano (pezzo sanremese tra i più noti all'estero) quasi meglio dei canti popolari sovietici, però come non ergerli spiritosamente a simbolo di questo Festival? Insomma, pure Maurizio Crozza potrebbe ricamarci sopra un bello sketch. Perché Crozza, altro campione «sinistro», è il primo della lunga lista degli ospiti invitati dal presentatore a portare fiori di color rosso sul palco dell'Ariston (compensati ça va sans dire da personaggi meno schierati). Insomma, Crozza guiderà l'Armata rossa. Nel «Paese delle meraviglie» accade anche questo. È lo stesso Fazio con un tweet a confermare la presenza del comico, spifferata nei giorni scorsi. «Abbiamo deciso: Crozza la prima sera! Cosa farà? Quello che vuole», è il cinguettio. Dunque carta bianca. Di per sé, comunque, Crozza potrebbe risultare più equilibrato del padrone di casa: le sue spassosissime imitazioni prendono di mira politici da destra a manca, da Berlusconi a Bersani passando per Monti e arrivando a Ingroia. Mentre Fazio, in serata collegato con Ballarò, minaccia: «La politica è una parte importante della vita, come l'aria che si respira. Perciò, a una settimana dalle elezioni, pur nel rispetto delle regole, la politica entrerà anche a Sanremo». Prontissimo al caso l'esercito dell'Armata rossa. Prendete le invettive di quella «squadrista» di Anna Oxa che ha veementemente accusato Fazio e compagni di aver messo in piedi un Festival che «sembra un sottoprodotto del concerto del Primo Maggio». In effetti tra i 14 artisti in gara, un bel po' si sono esibiti nel ritrovo annuale organizzato dai sindacati: per esempio Simone Cristicchi, Daniele Silvestri, Elio e le Storie tese, gli Almamegretta, Max Gazzè e i Marta sui tubi. Tutti ben contenti di militare nell'area politica «giusta» e di contribuire alla lotta contro il nemico pubblico numero uno, Berlusconi, ovviamente. E pensate a Silvestri che si presenta con un brano intitolato A bocca chiusa che è il racconto di una giornata passata in un corteo, perché lui vuole dare «un contesto poetico alla decisione di scendere in piazza».
Ma i «compagni più affidabili», Fazio li ha schierati in giuria, quella che avrà un potere enorme sulla decisione finale dei vincitori: il suo giudizio peserà infatti per il 50 per cento nella serata finale (l'altra metà sarà decisa dal televoto). Bene, in questa giuria, campeggiano nomi che provengono dai salotti buoni della sinistra e dalle amicizie strette di Fazio; alcuni, però, non si capisce bene a quale titolo. Accanto a esperti certificati come l'arpista Cecilia Chailly e il maestro Nicola Piovani (che lavora spesso con Fazio), si trovano presentatori come Serena Dandini: la sua presenza pare più un favore a un'amica che si trova momentaneamente disoccupata dopo il flop a La7. Carlo Verdone, grande appassionato di rock, resta uno dei pochi super partes. Come la moglie di Pavarotti Nicoletta Mantovani. Poi ci sono il Dj Coccoluto, l'etoile Eleonora Abbagnato, gli scrittori alla moda Paolo Giordano e Stefano Bartezzaghi. Coro dell'Armata Rossa, attacca a suonare!
Sto seguendo il festival di Sanremo, scrive Pino Nicotri su “Blitz Quotidiano”. Che nonostante tutto mi è sempre parso un buon modo per capire il Belpaese e tastarne il polso dei suoi cittadini, cioè di noi italiani. Da “Vola Colomba” di Nilla Pizzi e “Volare” di Domenico Modugno anni ’50, al “Paese dei cachi” di Elio e le Storie Tese anni ’90 a “Vorrei avere il becco” e “Luca era gay” di Povia nuovo millennio, le canzoni del festival sono sempre state termometro, barometro e ritratto dell’ Italia reale, quella sotto le punte dell’iceberg dei soliti noti e anche sotto la superficie dell’acqua.
E che dire del 2008. «Sanremo a misura di Prodi: tutti dentro se di sinistra». Il Secolo d'Italia, in un articolo richiamato in prima pagina, critica il Festival 208 sottolineando i casi di alcune esclusioni eccellenti dalla prossima gara canora come quelle di Povia e Francesco Baccini. «È una storia che si ripete ogni anno, specie se a condurre la kermesse è Pippo Baudo che, solo a parole lancia gli appelli per superare le divisioni, almeno quando si parla di canzoni», scrive il il quotidiano di An nel pezzo in cui vengono raccolti gli sfoghi e le accuse politiche degli esclusi. «Spulciando tra la lista dei cantanti ammessi, si capisce che molti, al di lá dei discorsi sul livello qualitativo, hanno il patentino richiesto», prosegue il Secolo citando Michele Zarrillo, «che ha scritto una canzone contro Berlusconi» e il cui testo del brano di quest'anno «sembra più che altro un intervento congressuale di Diliberto»; Max Gazzè, che «è arrivato a fare la sua prima tappa del tour cantando al Villaggio globale di Roma in una serata con compagni dei centri sociali»; Sergio Cammariere, che «vanta una certa militanza». Poi c'è Loredana Bertè, «orgogliosamente comunista», mentre «un altro allineato è Federico Zampaglione, anche lui dichiaratamente di sinistra». «Superfluo - prosegue il Secolo- soffermarsi su Eugenio Bennato, così come scontata è la collocazione di Frankie Hi Nrg, che non a caso a Sanremo porta Rivoluzione». Infine, paradosso per il Secolo, «persino i cantanti non di sinistra porteranno tematiche dal sapore prodian-progressista. Forse proprio per evitare l'esclusione a priori». Come Anna Tatangelo, che canterà dei gay.
Bene. Mi chiedo come sia possibile che ci si scagli ormai a ogni pié sospinto contro gli sprechi e i privilegi del Parlamento, per non dire della politica più in generale, quando poi si applaudono con entusiasmo gli evidenti sprechi del festival in scena ogni sera a Sanremo. Ci si compiace che per meno di cinque secondi di banale lettura dei risultati di ogni canzone si faccia arrivare un personaggio che, più o meno famoso che sia, intanto viene pagato, e mica poco. E se è donna arriva indossando un abito che, a parte la pacchianeria frequente e l’eleganza rara, non è mai sobrio, è sempre ridondante, roboante, rutilante ed eccessivo sia nell’estetica che di conseguenza anche nei costi. Abiti che oltretutto indossati una sera poi non si usano mai più. Sì, certo, buona l’idea di far presentare a ogni concorrente due canzoni per far scegliere ai telespettatori quale delle due deve restare in gara, stile, mi pare, “Grande fratello” o “L’isola dei famosi”. Ma davvero queste canzoncine anemiche, a curva piatta, difficilmente distinguibili l’una dall’altra, meritano la trovata del “ne ascolti due e ne scegli una”? Due canzoni per ogni concorrente non significa forse raddoppiare tempi e costi? Sì, certo, di Festival di Sanremo ce n’è uno e dura solo pochi giorni, il Parlamento e la politica invece ci sono tutti i santi giorni e non in una località sola, non solo a Roma, come invece il Festival solo a Sanremo. Ma di iniziative simili a questo festival l’ Italia è piena e l’andazzo non è molto diverso: quando si tratta di spettacolo, canzoni, sfilate ed elezioni di miss, il Belpaese non va per il sottile e applaude sempre, non bada a spese. Guardando questo festival si ha l’impressione che somigli al mondo della politica non solo per gli sprechi. Le parole delle canzoni sono troppo spesso voli pindarici pretenziosi e che quindi finiscono col somigliare con il vaniloquio di troppi politici. Anche i volti di chi canta, spesso ripresi in primo piano per creare pathos ed effetti coinvolgenti, si deformano e si contorcono per spremere espressioni che vorrebbero essere intense, ma non vanno mai oltre l’insignificante se non patetico. Ricordano troppo spesso le faccine del Grillo comiziante e urlatore. Se questi sono i “big” e i “ggiovani” non mi pare ci sia da stare allegri. L’impressione della somiglianza alla politica viene anche dal ricorso a mostri sacri del passato per far digerire il presente sorvolando sulla sua mediocrità o, peggio ancora, crisi prolungata. I nostri leader politici, ormai uno più deludente e a ruota libera dell’altro, si paragonano modestamente a De Gasperi, Togliatti, Papa Giovanni, Mandela. A Sanremo hanno scelto di coprirsi con Domenico Modugno, celebrato con un film rimembrato sul palco dal suo bravo interprete fratello del bravissimo Fiorello. Il problema però è che di Modugno e affini nella serra canterina di Sanremo non se ne vede neppure l’ombra. Sappiamo tutto di quanto spendono o intascano gli onorevoli e affini, dei quali giustamente vogliamo online anche le virgole. Perché non mettere online anche i compensi dei Fazio, Litizzetto e ospiti vari? Così magari abbiamo anche modo di capire se questa edizione che vorrebbe passare per risparmiosa lo è davvero o, sotto la maschera familiar buonista dei “due come noi” Fazio e Littizzetto, offende anch’essa con i suoi costi e sprechi gli esodati e i pensionati. Distrarsi e divertirsi va bene. E’ necessario e fa bene alla salute. Ma lasciarsi ingannare no, non va bene. Non è necessario e non fa neppure bene alla salute. Forse con i nostri vizi siamo troppo indulgenti, i vizi cioè della famosa “società civile”.
Berlusconi assicura che Crozza a Sanremo non gli fa paura, scrive Mario Ajello su “Il Messaggero”. Ma davvero? Ai berluscones sta facendo invece una paura pazza. E comunque è l’intero show festivaliero, a cominciare dal contenuto delle canzoni che saranno presentate sul palco, che agli occhi dei collaboratori del Cavaliere viene ritenuto, preventivamente, troppo sbilanciato a sinistra. C’è chi nell’entourage di Silvio - che si vanta di essere un grande chansonnier, e in realtà come ugola non è male - sta studiando i testi di ogni canzone e ogni tanto ci trova dentro una brutta sorpresa. Esempio: il motivo «A bocca chiusa» di Daniele Silvestri - che è comunista con due emme: communista! - è un inno alla bellezza dello stare in corteo «perchè partecipazione è libertà ma è pure resistenza / e non ho scudi per proteggermi nè armi per difendermi / nè caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi». Parole così, si ragiona nelle stanze di Palazzo Grazioli, non sono in qualche modo sediziose? In Elio e le storie tese, la canzone è Dannati forever, i berluscones apprezzano il tono anti-politico, ma loro si mettono fuori dal mucchio del «tu, tu, tu, tutti insieme all’inferno, anche il governo». E Simone Cristicchi, comunista anche lui? Ne «La prima volta (che sono morto)» ricorda suo nonno Rinaldo che nel 1941 partecipò alla disastrosa campagna di Russia, voluta dal Duce che Berlusconi ha appena lodato. Però Cristicchi nel prossimo disco pubblicherà anche una canzone sull’orrore delle foibe creato dai comunisti titini. Dunque, a casa Berlusconi, questa settimana si tiferà contro il bravo artista, ma nel dopo-festival verrà riabilitato e magari vestito d’azzurro.
A Sanremo va in onda la prova generale della sinistra al governo. La Littizzetto attacca il maschilismo occidentale e si scorda le violenze dell'Islam: è il trionfo del regime che ci aspetta, scrive Giuliano Ferrara su “Il Giornale”. La poetessa Sylvia Plath, che conosceva l'umanità e se ne doleva, scriveva che «ogni donna ama un fascista». La Littizzetto, che usa l'umanità per divertirsi al botteghino delle idee facili, al primo buffetto («Se non ora, quando?») va dal magistrato a denunciare quello stronzo che l'ha toccata. Io odio la violenza sulle donne, non sono disposto a perdonarla per alcun motivo, e per questo non ho mai capito come la sinistra internazionale radical chic abbia potuto trovare in fondo elegante e amabile («Che peccato, che peccato quella storiaccia nell'albergo») quel tipo di predatorio, di rapace del sesso, che è il loro idolo nascosto Dominique Strauss Kahn, mentre ha dannato gli scherzi da cherubino e le malandrinate cochon del dolce e gentile Silvio Berlusconi. Non ho mai capito come possano le varie Littizzetto accogliere senza il vaglio della loro identità universalistica il particolarismo islamico, la religione civile fondata sull'esclusione della donna dai diritti non familiari, e sulla divinizzazione del potere brutale del capo famiglia sulla sua compagna o sulle sue compagne di sesso femminile, eppoi darsi allegramente alla denuncia del maschilismo occidentale. Odio quella violenza, ma anche per le ragioni ora ricordate sento che la campagna sul femminicidio, come quella sui matrimoni gay, come quella sull'omofobia, come ieri quella sul diritto di avere figli o sul diritto di morire, è solo parte di un gigantesco movimento nella direzione del banale universale che anche in Italia, dove il fondo cristiano-cattolico aveva fino adesso funzionato da revulsivo, sta per trionfare definitivamente. Sanremo è stata la prova generale del regime politicamente e ideologicamente corretto che ci aspetta. Con l'eccezione del grandissimo Tony Renis e del suo amico Celentano quando ancora era Celentano (ricorderete la danza provocatoria all'insegna del motto sovversivo da clan a clan: «Anch'io ho amici criminali»), il Festival della città dei fiori è sempre stato una cerimonia di cementificazione edificante delle coscienze, un andare a letto sicuri di essere nel giusto di stato, garantito da mamma Rai. Ieri il giusto erano i mutandoni delle ballerine, l'innocenza canora di Non-ho-l'età, e altre bellurie di vario genere; oggi è l'amore gay, con il matrimonio per traguardo, e la elezione delle donne a idolo della piazza mediatica, ma solo se vittime virtuali, solo in un simbolo dei buoni sentimenti e dell'edificazione progressista. Ma il mondo è più complicato. Il poeta scrittore e artista maledetto Jean Genet scriveva che «violenza e vita sono pressappoco sinonimi», ciascuno di noi sa che l'amore non sopporta il controllo di legalità dei chierichetti della religione di massa del contemporaneo, quelli che stanno sempre a celebrare una strana e insincera messa cantata all'insegna del bene sociale, ma hanno scarsa dimestichezza con i concetti di bene e di male morale. L'amore potrà essere indotto a dire tutti i suoi nomi, anche quelli più risibili che le leggi matrimoniali di nuovo conio consentiranno ai coniugi omosessuali, ma sarà sempre bene attento a nascondere la sua realtà. Ma come si fa dopo le omelie banalizzanti di Fazio & Littizzetto, dopo la prevedibile distruzione di ogni ironia e di ogni civiltà che si annuncia nel testo di una legge Bersani contro l'omofobia, a continuare, non dico ad amare in libertà, non importa il sesso dei contraenti il patto d'amore, ma anche solo a leggere Madame Bovary o Anna Karenina? Come si fa a far traslucere il mondo di stupidità ipercorretta e poi pretendere di formarsi categorie adulte, intelligenti, per afferrarlo, per capirlo, per viverci? Una donna non si tocca nemmeno con un fiore. Non bastava il proverbiale e aristocratico e forse patriarcale riconoscimento dello status femminile assoluto? No, ci voleva il piccolo tribunale di piazza mediatico, ci voleva la prolusione della bontà socializzata e venduta come un pannolino. Questo ci voleva per edificare il regime prossimo venturo.
Crozza contestato crolla: voleva fuggire dal palco. La rabbia nei camerini, scrive “Libero Quotidiano”. Il pubblico del Festival lo attacca, il comico non regge: il viso contrito, la salivazione azzerata. I rumors: avvilito e provato. La saliva che non c'è più. Gli occhi sbarrati, il viso contratto in un'espressione di sconcerto, rabbia e un pizzico di disperazione. La tentazione di andarsene, di lasciar perdere. Un calvario, per Maurizio Crozza, sul palco dell'Ariston. Voleva andarsene sì, non è soltanto una sensazione. Se non ha troncato sul nascere la "copertina" del Festival di Sanremo è stato soltanto per l'intervento di Fabio Fazio, il "paciere", il democristiano del piccolo schermo che - bisogna ammetterlo - con perizia e sensibilità è riuscito a mantenere il controllo della situazione. I fischi, i "buu", i "basta con la politica", il "pirla" avevano mandato in tilt Crozza. Era evidente, era sotto gli occhi di tutti, almeno di quella mezza Italia che lo ha guardato. Era in diretta su Rai1. Secondo i rumors trapelati dai camerini dell'Ariston, Crozza dopo la performance contestata è apparso avvilito, triste, provato. Non se lo aspettava. Immaginava che il pubblico aspettasse prima di applaudire o fischiare il suo monologo. Crozza attacca sempre tutti, destra, sinistra e centro. Ma nel Festival più politico degli ultimi anni, in un Sanremo da record per il numero di polemiche preventive, quell'apertura del comico ligure con l'imitazione di un Cavaliere spregiudicato e che afferma "voglio rovinare il Paese" è stata un pugno nello stomaco. Un colpo di spada, non di fioretto. Sì, è vero, poi sarebbero arrivate anche le imitazioni necessarie per riequilibrare la par-condicio. Sì, è vero, tutti lo sapevano e lo immaginavano. Ma è altrettanto vero che, considerando le premesse, Crozza non poteva non attendersi il dissenso. E il dissenso, puntuale e superiore alle attese, è arrivato. Crozza voleva troncare la performance. Se Fazio non l'avesse fermato se ne sarebbe andato. Il buon Fazio, tra abbracci e pacche sulle spalle, al termine del monologo ha cercato di sminuire il tutto: "Si tratta sempre di quelle due, tre persone". Peccato che i contestatori incalliti - presenti anche con Celentano lo scorso anno - secondo chi era in platea erano molti di più. Un gruppo di venti persone che la politica al Festiva di Sanremo (costo del biglietto in platea: 168 euro, ndr) non la vuole davvero. I contestatori sono stati allontanati dalle forze dell'ordine. Troppo? Probabilmente sì, ma questo è un altro discorso. Il punto è il crollo di Crozza. In tilt sul palco, balbettante nelle repliche al pubblico, scosso dai tic, poi livido e sconsolato nei camerini. Dopo la contestazione, la sua esibizione ha deluso le attese: le imitazioni, di solito vicine all'eccellenza, erano fuori giri, le voci imprecise, i tempi sbagliati. La faccia del comico diceva tutto. Da chi pur legittimamente vuole sfidare la politica in campagna elettorale, da chi vuole farlo in diretta su Rai1 e rivolgendosi al teatro dell'Ariston, ci si aspetta di più. Un comico, un animale da palco, non può non reggere la contestazione. Non può perdere la saliva, pensare di andarsene e steccare i personaggi. Martedì sera, sul palco dell'Ariston, abbiamo assistito al crollo di Crozza.
Si chiama Letterio Munafò, da 40 anni è presidente degli agenti della Carige Assicurazioni, nonché vicepresidente del Lecce Calcio, scrive “Blitz Quotidiano”. Martedì sera era in platea all’Ariston insieme alla moglie e a una coppia di amici per assistere alla prima serata del Festival di Sanremo ed è sua la voce che si è udita in sala quando Maurizio Crozza, vestendo i panni di Silvio Berlusconi, ha intonato Formidable, testi e musiche di Bonaiuti, Verdini, Cosentino e Aznavour. E’ lui uno dei contestatori che ha gridato: “No politica a Sanremo!”. Ed è sempre lui ad ammetterlo ai microfoni dell’Ansa mentre passeggia con sua moglie lungo corso Matteotti, a pochi metri dal teatro Ariston: ‘‘Non eravamo solo in due a contestare – dice – c’era tanta altra gente insieme a me”. Poi precisa: ”Io non sono un contestatore, sono una persona venuta a vedere il festival della canzone italiana e invece mi sono trovato per tre quarti d’ora a sentire il signor Crozza a parlare di questioni politiche. In questo momento – aggiunge – non ne abbiamo bisogno, le cose stanno andando in un modo disastroso dal punto di vista politico ed economico”. E quando i cornisti gli chiedono se quella di ieri sera fosse una contestazione organizzata, risponde: ”Io organizzato? Io sono venuto con mia moglie, un amico e sua moglie. Fate presente al presidente della Rai che non c’era nessuna organizzazione – replica – Si informino chi è Letterio Munafò, d’altro canto io ho dato i miei documenti”, chiosa l’assicuratore che ha acquistato i biglietti per assistere a tutte le serate del festival. ”Non sono stato accompagnato fuori, sono rimasto seduto – racconta – Si è presentato un signore della Polizia e ho consegnato un documento, perché è giusto così. Poi informatevi su chi sono e cosa faccio”. E informandocisi, si scopre che Munafò, 65 anni, esponente di primo piano nel ramo assicurativo e finanziario, ex presidente del FC Canazza Legnano, già eletto nel 2007 alla carica di consigliere comunale a Legnano, era candidato alle amministrative 2012 nella lista del Popolo delle Libertà. Di recente è approdato alla vicepresidenza del Lecce Calcio. Il suo messaggio è chiaro: “Basta politica al festival, perché la gente si è stancata. La gente viene al festival per vedere la canzone italiana e assistere a uno spettacolo, che deve essere al di sopra di tutte le parti”.
Con 168 euro si può assaporare il piacere di «mandare all'aria» il palinsesto del festival di Sanremo, scrive Nino Luca su “Il Corriere della Sera”. Tanto è costato il posto della «rossa» poltrona a Letterio Munafò. Lillo (per gli amici) ammette di aver già comprato il biglietto per sé e per la sua gentile consorte anche per le serate di mercoledì, giovedì, venerdì e sabato. Insomma lui a Sanremo ci sarà tutte le sere, «ospite fisso». Fabio Fazio è avvertito. A maggior ragione adesso che le forze dell'ordine lo hanno già identificato, subito dopo aver contestato Maurizio Crozza che imitava Berlusconi. «For me, formidable» di Charles Aznavour interpretato dal Berlusconi-Crozza gli ha fatto perdere le staffe: «Vai a casa», gli ha urlato dal mezzo della sala. E si è scatenato il putiferio. Nato a Lecce da genitori siciliani, vicepresidente del Lecce calcio, presidente degli agenti italiani delle assicurazioni, Lillo Munafò, 65 anni, appare fiero su internet in una foto che lo ritrae con il segretario del Pdl, Angelino Alfano. Già, perché è stato anche consigliere pidiellino a Legnano. Il suo programma politico? In tre punti: al primo posto la famiglia. Al secondo la sicurezza e poi lo sport. Programma che non è bastato nel 2012 a farlo rieleggere.
Signor Lillo cosa è successo con Crozza?
«Il discorso di Crozza è stato violento. Se avesse iniziato criticando gli altri avrei fatto la stessa cosa. Si poteva chiamare Crozza o con un altro nome, io ero andato a Sanremo per la canzone italiana e invece mi sono ritrovato a "Tribuna politica". Volevo essere trattato da italiano e invece sono stato trattato come un rappresentante del popolo più stupido del mondo. E invece siamo i più intelligenti. Ora Crozza rimane un bravo comico, anzi bravissimo ma è troppo politicizzato».
Ma non lo ha contestato quando imitava Bersani...
«Il discorso (la gag, ndr) che lui ha presentato si sapeva già dai giornali, Fazio e la Littizzetto lo sapevano... Quindi io ho fischiato l'intervento politico. L'avrei fatto anche se avesse iniziato con Bersani. Invece è partito con Berlusconi e quella canzone per dieci minuti. Quindi gli abbiamo urlato "basta". Poi mi hanno chiesto i documenti e dopo ancora sono tornato al mio posto. Fino a quando non ho deciso, io, di andarmene».
Lei è stato consigliere al comune di Legnano, eletto nelle file del Pdl?
«Sì, lo sono stato e con questo? Non fatene un discorso politico. Sono stato anche assessore con i socialisti se è per questo ma ora ho chiuso con la politica. A Sanremo hanno portato l'Armata rossa, i due presentatori sappiamo da dove arrivano... mancava solo la falce e il martello. Con le elezioni tra dieci giorni, lei pensa che sia stata una cosa giusta? Lo scriva: io non sono un contestatore. Lo dica al presidente della Rai».
È vero che la sua più grande rabbia è la mancata elezione nel 2012?
«Ma sta scherzando? Lei sta dicendo delle stupidate nel vero senso della parola. Io ho fatto politica per fare del bene altrui. Davo lo mio stipendio ai poveri. Pagavo tasse e tutto il resto».
La polizia ha identificato altre due persone, sono sue amiche?
«Assolutamente no, eravamo una cinquantina a protestare. Ed io ero solo con mia moglie».
...che ha detto che il suo è stato un bis: lo scorso anno lei ha contestato anche Celentano.
«Io non ho contestato nessuno. Dico solo che il Festival di Sanremo è il festival della canzone».
Fazio dopo la pubblicità ha detto «già li conosciamo». Si riferiva proprio ai suoi fischi al Molleggiato?
«No, con Fazio ci siamo conosciuti a Courmayeur a sciare. Lui era ospite di Carlo Conti a Capodanno. Ci siamo anche salutati».
Guardi che sua moglie ha confermato ai giornali locali che con Celentano lei contestava.
«Mia moglie è qui accanto a me e non ha confermato niente».
In sala all'Ariston si è sentito di tutto: «Vai a casa, sei ridicolo». Addirittura un «pirla», è stato lei?
«Eh, ma sa... le voci erano tante. Eravamo in cinquanta a contestare. Io gli ho solo detto di andarsene via».
Cosa pensa di Berlusconi?
«Cosa penso? Penso che sia un candidato come gli altri. E di tutto il resto mi interessa poco perché voi volete strumentalizzarmi. Vi conosco, non dico altro».
Quanto le è costato il biglietto di Sanremo?
«È costato 168 euro. Li ho presi per me e per mia moglie, fino alla serata di sabato. Perché me lo chiede?»
Per capire se tornerà a teatro... Quindi promette di non fischiare più?
«Non farò più nulla perché io nella vita... vengo da una famiglia di grande umiltà, mio padre era operaio, mio figlio è l'avvocato numero uno per quanto riguarda la sanità, l'altro è imprenditore insieme a me. Quindi ho una bella famiglia, non perfetta ma bella. E io farei una contestazione organizzata? Si informino prima di parlare, tipo il presidente della Rai, di chi è il signor Munafò!»
Ma Sanremo a quale sinistra appartiene? Sanremo e la canea antisemita dei comunisti italiani. Il coordinatore Esteri Pdci invita a boicottare il Festival. Il motivo? La presenza all'Ariston di due artisti israeliani: una top-model (pacifista) e un cantante pop, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Niente israeliani, niente ebrei a Sanremo! Boicottiamo Israele. È in sintesi l’appello dei Comunisti italiani che appoggiano Ingroia. Indecenza. Ignoranza. Intolleranza. Quante altre parole possono venire in mente leggendo la nota del partito dell’ex ministro della Giustizia (!) Oliviero Diliberto, co-fondatore con Ingroia, De Magistris e Di Pietro della Lista Rivoluzione Civile che a questo punto meriterebbe di esser chiamata Rivoluzione Incivile. Che vergogna dare copertura a chi protesta per la partecipazione (reale o presunta) a Sanremo di uomini e donne di spettacolo, e artisti di calibro mondiale, che hanno l’unica “pecca” di essere israeliani. Anzi, ebrei. Maurizio Musolino, coordinatore Esteri e membro della Direzione del Pdci, scrive infatti che “ancora una volta il carrozzone del Festival di Sanremo diventa vetrina privilegiata per Israele”, Fabio Fazio “ha pensato bene di far fare alla modella israeliana Bar Refaeli il contro altare alla simpatica e brava Littizzetto… ma non paghi di ciò a metà serata sale sul palco dell’Ariston Asaf Avidal, cantante sempre israeliano, figlio di diplomatici… Una canzone, piccolo bis e via il gioco è fatto, tanto più che sembra che nelle prossime serate si esibirà anche l’ottimo direttore d’orchestra Daniel Barenboim”. Ora, qual è il problema? Musolino riconosce che Bar Refaeli è stata anche criticata in patria per un tweet pacifista di equidistanza tra Israele e Gaza nel pieno della guerra. E proprio questa sarebbe la furba operazione pro-Israele: la presenza della controversa modella (l’unica cosa sulla quale tutti concordano è la sua bellezza) “serve ad avvalorare una presunta pluralità e l’idea di un Paese democratico dove tutto e tutti sono ammessi”, e quindi “negli occhi e nella mente dei dieci milioni di italiani che seguiranno il Festival resterà l’idea di Israele come stato ‘normale’”. Seguono le solite accuse a Israele per crimini, apartheid, angherie. Il Pdci invoca la par condicio e rilancia la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani. E adesso ditemi se questo non è antisemitismo. Musolino omette (o non sa) che Barenboim ha infranto il blocco israeliano a Gaza tenendo un concerto nella Striscia su invito delle Ong palestinesi e dell’Onu, e ha pubblicamente dichiarato, fra l’altro: “Il mondo intero deve accettare la creazione di una Palestina indipendente, penso che il blocco sia un enorme sbaglio”. La popolazione di Gaza “chiede una migliore qualità della vita, e se tu glielo impedisci diventano automaticamente nemici. Mi ha colpito che, nonostante tutto, siano riusciti a costruire 12 università in un territorio così piccolo”. Barenboim parla di “occupazione israeliana”. Ma allora, se questo grande direttore d’orchestra e divulgatore di musica, e la splendida Refaeli, vengono invitati a San Remo, l’obiezione non può essere politica. Risiede esclusivamente nel loro essere israeliani e ebrei, in quanto tali da boicottare (anzi, a maggior ragione se di larghe vedute e quindi capaci di generare ammirazione per il coraggio delle loro posizioni). Qui risiede il virus dell’antisemitismo. Un orrore, un obbrobrio, che va denunciato. E complimenti per la bella compagnia di magistrati militanti e moralisti che tollerano l’intollerabile.
NON SONO TUTTI ...SANREMO.
La canzone italiana e la fine della Prima Repubblica. I cantautori e i primi anni Novanta nel libro di Stefano Savella «Povera patria» (Arcana) - RadioLibri.it - speaker Gianluca Testani, producer Marta Milione - CorriereTv 9 febbraio 2017. «La primavera intanto tarda ad arrivare», così cantava Franco Battiato in Povera patria nel 1991. Il brano dà il titolo al libro di Stefano Savella edito da Arcana che nel sottotitolo recita «La canzone italiana e la fine della Prima Repubblica» (pagine 240, e 17,50), che analizza l’incidenza della politica, e del malaffare, nell’ispirazione dei cantautori. Finite le «notti magiche» di Italia 90, il nostro Paese nel 1991 entrata in una nuova stagione. La situazione politico e istituzionale, le inchieste della magistratura e gli attentati di mafia incendiano il clima nell’opinione pubblica. Il mondo della musica non resta a guardare: cantautori, gruppi rock e giovani promesse si schierano contro la corruzione e il malgoverno, e i loro brani diventano la colonna sonora dell’ondata di sdegno popolare. Povera patria di Stefano Savella è al centro della nuova puntata della web radio letteraria RadioLibri.it, qui in anteprima per «la Lettura», che ripercorre i brani analizzati nel libro: dall’Andreotti di Francesco Baccini, a Ti amo Ciarrapico di Elio e le Storie Teste, fino a Millennio di Eugenio Finardi. E ancora Adelante adelante di Francesco De Gregori e «la fine della baldoria» cantata da Francesco Guccini in Nostra signora dell’ipocrisia. E poi Bennato, Litfiba, Modena City Ramblers e infine Pierangelo Bertoli ed Enzo Jannacci sul palco del Festival di Sanremo.
POVERA PATRIA. Stefano Savella. La canzone italiana e la fine della Prima Repubblica. Arcana edizioni - pp. 240 - 17,50 euro. Italia, 1991. Le «notti magiche» sono finite da un pezzo, e il paese attende l’inizio di una nuova stagione, di una primavera che, come canta Franco Battiato, «tarda ad arrivare». Il caos politico e istituzionale, le inchieste della magistratura e gli attentati di mafia incendiano il clima nell’opinione pubblica, e in tanti si preparano a raccogliere il testimone della protesta che monta nella società civile. Il mondo della musica non resta a guardare. Cantautori affermati, gruppi rock e giovani promesse si schierano contro la corruzione e il malgoverno; e i loro brani diventano la colonna sonora dell’ondata di sdegno popolare contro la politica. I palazzi romani, la Tangentopoli milanese, le autobombe di Palermo entrano di prepotenza nei concerti, nelle kermesse di partito, al Festival di Sanremo. Sono canzoni che parlano di ladri e connivenze, di manette ed esplosioni. Qualcuna avrà successo, altre verranno presto dimenticate, talvolta anzi rinnegate. E oggi, in qualche caso, riadattate: la Prima Repubblica è morta, ma la Seconda non sta poi tanto meglio. Un lavoro di eccezionale profondità analizza la coscienza sociale della canzone(tta) italiana.
Stefano Savella. Nato nel 1982, è redattore editoriale freelance, pubblicista e blogger. Si occupa di questioni politiche europee su Votofinish.eu ed è direttore della rivista web «PugliaLibre. Libri a km zero». Suoi articoli sono apparsi su «Lo Straniero» e «Nazione Indiana». Nel 2013 ha pubblicato il suo primo libro, Soffri ma sogni. Le disfide di Pietro Mennea da Barletta (Stilo Editrice).
Festival di Sanremo, le dieci (e più) «canzoni sociali» sul palco dell'Ariston. Sanremo è il palco della canzone italiana dove hanno trovato spazio anche temi sociali: da «Ragazze madri» di Dalla nel 1971 che ripete in «Si può dare di più» in trio con Tozzi e Ruggeri, da «Blu» di Irene Fornaciari a Simone Cristicchi con «Ti regalerò una rosa». Eccole, scrive Silvia Morosi il 5 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera".
Sogni e ferite del Paese. Gridare, anzi, cantare il proprio dissenso. L’Ariston non è stato solo il palcoscenico della bella canzone italiana, ma anche il luogo dove, dalla prima edizione del 1951, hanno trovato spazio tra rime, ritornelli e musica i sogni e le ferite del Paese. L’amore è stato di gran lunga il tema-bandiera della kermesse, ma non sono mancati accenni a problemi più attuali del momento: se in «Vola colomba», vincitrice nel 1952, Nilla Pizzi ricordava con un tono gentile — dopo gli eccessi nazionalisti del fascismo — i problemi di Trieste, contesa in quegli anni da Italia e Jugoslavia, Adriano Celentano denunciò le disastrose speculazioni edilizie degli anni Sessanta ne «Il ragazzo della via Gluck». E, in anni più recenti, l’attenzione è passata a temi come droga, aborto, immigrazione, mafia, pena di morte, senza tralasciare malattia mentale e bullismo. Quello che era nato come un evento di pura evasione, si è presto trasformato in un fenomeno di costume che ha accompagnato l’evoluzione di un Paese in costante cambiamento. Facendo riflettere e anche, qualche volta, creando scandalo tra il pubblico.
Disagio mentale…Mi chiamo Antonio e sto sul tetto. Cara Margherita sono vent’anni che ti aspetto. I matti siamo noi quando nessuno ci capisce. Quando pure il tuo migliore amico ti tradisce. Ti lascio questa lettera, adesso devo andare...Simone Cristicchi, «Ti regalerò una rosa» (2007)
Aborto…Per lui poi comprerò sacchetti di pop corn, potrà spargerli in macchina. Per lui non fumerò, a quattro zampe andrò. E lo aiuterò a crescere. Lui vive in te, si muove in te. Con mani cucciole è in te, respira in te. Gioca e non sa che tu vuoi buttarlo via...Nek, «In Te» (1993)
Criminalità... Minchia signor tenente lo so che parlo col comandante Ma quanto tempo dovrà passare. Che a star seduto su una volante la voce in radio ci fa tremare. Che di coraggio ne abbiamo tanto. Ma qui diventa sempre più dura quanto ci tocca fare i conti con il coraggio della paura...Giorgio Faletti, «Minchia signor tenente» (1994)
Violenza...Ricordo quegli occhi pieni di vita e il tuo sorriso ferito dai pugni in faccia. Ricordo la notte con poche luci, ma almeno là fuori non c’erano i lupi. Ricordo il primo giorno di scuola, 29 bambini e la maestra Margherita: tutti mi chiedevano in coro come mai avessi un occhio nero...Ermal Meta, «Vietato Morire» (2017)
Migranti...Dimmi dove si nasconde la promessa dignità Questo cielo non risponde, io anche da qua vedo barche sassi e stelle... C’è un bambino sulla spiaggia lasciato dal blu e una donna in riva al mare, mentre il sole va giù, che con la mano saluta i sogni che passano...Irene Fornaciari, «Blu» (2016)
Pena di morte...Il mondo non passa da qui... C’è lo stesso cielo che domani avrà una croce e un gesto di pietà. Io sono qui e la mia anima non è solo un numero appoggiato su di me: è una luce bianca andata dove sa, tra le stelle e un gesto di pietà, oltre il cielo dove c’è pietà...Enrico Ruggeri e Andrea Mirò «Nessuno tocchi Caino» (2003)
Solidarietà... Perché la guerra la carestia non sono scene viste in tv e non puoi dire lascia che sia perché ne avresti un po’ colpa anche tu. Si può dare di più perché è dentro di noi si può dare di più senza essere eroi. Come fare non so non lo sai neanche tu ma di certo si può...dare di più...G. Morandi, E. Ruggeri, U. Tozzi «Si può dare di più» (1987)
Droga... Con questi occhi un po’ fanciulli e un po’ marinai per una dose di veleno che poi dentro di te non basta mai. Con le tue mani da violino, perché lo fai tu che sei rosa di giardino dentro di me come un gattino sopra un tetto di guai dimmi perché, perché lo fai...Marco Masini «Perché lo fai» (1991)
Droga...Per Elisa vuoi vedere che perderai anche me
Per Elisa non sai più distinguere che giorno è e poi,
non è nemmeno bella
Per Elisa paghi sempre tu e non ti lamenti
per lei ti metti in coda per le spese
e il guaio è che non te ne accorgi
Con Elisa guardi le vetrine
e non ti stanchi lei ti lascia e ti riprende come
e quando vuole lei riesce solo a farti male
Vivere vivere vivere non è più vivere
lei ti ha plagiato, ti ha preso anche la dignità
Fingere fingere fingere
non sai più fingere senza di lei,
senza di lei ti manca l’aria
Senza Elisa, non esci neanche a prendere il giornale
con me riesci solo a dire due parole ma noi,
un tempo ci amavamo
Alice, «Per Elisa» (1981) Musica di Franco Battiato, Giusto Pio e della stessa Alice
Mafia... Ci sono stati uomini che hanno scritto pagine, appunti di una vita dal valore inestimabile. Insostituibili perché hanno denunciato il più corrotto dei sistemi troppo spesso ignorato. Uomini o angeli mandati sulla terra per combattere una guerra di faide e di famiglie...Fabrizio Moro «Pensa» (2007)
Ragazze madri...Dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare, parlava un’altra lingua però sapeva amare. E quel giorno lui prese mia madre sopra un bel prato, l’ora più dolce prima di essere ammazzato. Così lei restò sola nella stanza, la stanza sul porto, con l’unico vestito ogni giorno più corto....Lucio Dalla, «4 marzo 1943», «Gesù bambino» (1971)
Abusivismo...Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi; tanta voglia di ricominciare abusiva. Appalti truccati, trapianti truccati, motorini truccati che scippano donne truccate; il visagista delle dive è truccatissimo. Papaveri e papi, la donna cannolo, una lacrima sul visto: Italia si' Italia no Italia bum, la strage impunita. Puoi dir di sì puoi dir di no, ma questa è la vita. Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè: c'e' un commando che ci aspetta per assassinarci un po'. Commando sì commando no, commando omicida. Commando pam commando papapapapam, ma se c'è la partita...Elio e Le Storie Tese, «La terra dei cachi» (1996)
Emigrazione...Quando Martin vedete solo per la città, forse voi penserete dove girando và. Solo, senza una meta… Solo… ma c’è un perché: Aveva una casetta piccolina in Canadà, con vasche, pesciolini e tanti fiori di lillà, e tutte le ragazze che passavano di là dicevano: «Che bella la casetta in Canadà!»...Gino Latilla, «Casetta in Canadà» (1957)
Salari e operai...«Chi non lavora non fa l’amor!»
Questo mi ha detto ieri mia moglie!
«Chi non lavora non fa l’amore!»
Questo mi ha detto ieri mia moglie!
A casa stanco, ieri ritornai, mi son seduto … niente c’era in tavola.
Arrabbiata lei mi grida che ho scioperato due giorni su tre…
Coi soldi che le do non ce la fa più e ha deciso che, lei fa lo sciopero contro di me! Chi non lavora non fa l’amore! Questo mi ha detto ieri mia moglie!
Allora andai a lavorare mentre eran tutti a scioperare!
Adriano Celentano e Claudia Mori, «Chi non lavora non fa l'amore» (1970)
Italia Unita...Dio del ciel, se fossi una colomba, vorrei volar laggiù, dov’è il mio amor che, inginocchiata, a San Giusto prega con l’animo mesto: “Fa che il mio amore torni…ma torni presto!…” Vola colomba bianca vola…diglielo tu che tornerò… dille che non sarà più sola e che mai più la lascerò!… Fummo felici, uniti…e ci han divisi… Ci sorrideva il sole, il cielo e il mar, noi lasciavamo il cantiere, lieti del nostro lavoro, e il campanon… din… don… ci faceva il coro. Vola colomba bianca vola… diglielo tu che tornerò… dille che non sarà più sola e che mai più la lascerò!… Tutte le sere m’addormento triste e, nei miei sogni, piango e invoco te… pur el mi “vecio” ti sogna, pensa alle pene sofferte… piange e nasconde il viso tra le coperte… Vola colomba bianca vola…diglielo tu che tornerò… dille che non sarà più sola e che mai più la lascerò!… Dio del ciel!…diglielo tu!…Nilla Pizzi, «Vola colomba» (1952)
Ambiente...Se un giorno un’altra vita arriverà
Mi sono già promessa di non viverla in città e quindi
Di ogni giorno prendo il buono
Tanto a cosa serve a un uomo
Svegliarsi e dire che oggi non andrà
È troppo presuntuosa la previsione di una verità...Arisa, «Guardando il cielo» (2016)
La devastazione del territorio...Questa è la storia
Di uno di noi
Anche lui nato per caso in via Gluck
In una casa, fuori città
Gente tranquilla, che lavorava
Là dove c'era l'erba ora c'è
Una città E quella casa
In mezzo al verde ormai
Dove sarà
Questo ragazzo della via Gluck
Si divertiva a giocare con me
Ma un giorno disse
Vado in città
E lo diceva mentre piangeva
Io gli domando amico
Non sei contento
Vai finalmente a stare in città
Là troverai le cose che non hai avuto qui
Potrai lavarti in casa senza andar
Giù nel cortile...Adriano Celentano, «Il ragazzo della via Gluck» (1966)
Per chi suona la campana del Festival di Sanremo? La retrotopia di un’élite di successo, scrive il 12/02/2018 Michele Mezza su huffingtonpost.it. Sarebbe interessante controllare in dettaglio i dati di ascolto, e gradimento, della serata finale del Festival di Sanremo a Macerata, dove nella stessa giornata era programmata la contestata manifestazione contro il fascismo e il razzismo, o a Frattamaggiore, in provincia di Napoli, dove un gioiellerie ha ucciso un rapinatore. In generale gli indici mostrano un seguito plebiscitario, con punte che sono arrivate sabato sera al 63%, proprio attorno al monologo di Favino sull'immigrazione. Ma nonostante queste cifre non possiamo sfuggire a una sensazione di disagio e di freddezza. Più il festival modulava questo suo messaggio di tolleranza e d'inclusione, distribuito da Fiorello alla Mannoia, al duo Meta-Moro che hanno vinto la gara, a Barbarossa, con un uniformità d'ispirazione che vanta pochi precedenti in uno spettacolo così nazional-popolare, come avrebbe detto Pippo Baudo, e più mi sembra di notare una certa difficoltà a dare ragione di questa ispirazione unitaria. La sensazione è quella di un Festival contropelo, che si è mosso in maniera separata e distonica rispetto all'opinione pubblica. Talmente separata e distonica che ha dovuto rintracciare nella propria memoria, in un ossessivo richiamo al passato, nella ricerca delle radici dei grandi personaggi invitati, la contestualizzazione di questa scelta. Zygmunt Bauman nel suo ultimo saggio, pubblicato postumo, parla di retrotopia, come di una singolare forma di "speranza del passato" in cui un ceto intellettuale si rifugia per sfuggire all'ostilità del presente. Ancora meglio, il grande sociologo scomparso recentemente definisce la nostalgia come "una storia d'amore con il passato". Ed è quanto ho visto andare in scena a Sanremo. In maniera curiosamente uniforme. Nemmeno in stagioni dove la pressione culturale era fortemente segnata da un senso comune riformatore e progressista, Sanremo si era mostrato così compatto nell'identificarsi con un indirizzo chiaro ed evidente. Ricordiamo ancora lo stridente silenzio che accolse inizialmente Celentano con il suo brano controcorrente "Chi non lavora non fa l'amore" nel pieno dell'autunno caldo che arroventava le fabbriche italiane. Fiorello, Gino Paoli, Sting, James Taylor, Stefania Sandrelli, Virginia Raffaelli, Roberto Vecchioni: la sequenza degli ospiti, tutti perfettamente coerenti e funzionali con la sceneggiatura emotiva, era identificabile con un unico fil rouge: una storia d'amore con il passato. Una forte e languida nostalgia di un mondo e di una cultura che oggi appare del tutto desueta: la dolce e scanzonata ansia di progresso e di buonismo che caratterizza i ricordi degli anni '60 e '70. Forse inconsciamente una figura come Baglioni, che non si è mai segnalato come un testimonial dell'impegno culturale e della propensione a sinistra, si è scoperto impresario di questa storia d'amore con il passato, quasi fosse rimasto accerchiato dal sortilegio di un numero ancora troppo evocativo come quello del 68° festival della canzone italiana, a 50 anni esatti dal '68. Il manifesto ideologico è stato proprio il monologo di Favino, un lancinante brano tratto dall'opera teatrale "La notte poco prima della foresta" del drammaturgo Bernard-Marie Koltès che parla dell'esclusione di migranti e stranieri. Una pagina davvero di alta qualità emotiva, e d'impareggiabile interpretazione da parte di un attore che non poteva certo dissimulare la sua limpida adesione a quel messaggio di cruda denuncia della ferocia che si consuma contro chiunque si trovi a essere colpito mentre fugge al suo destino di disperazione.
Ma quanta Italia era in quelle vibranti parole? Davvero in quei momenti il festival ha parlato al Paese?
Nel momento in cui la tv generalista, il servizio pubblico, celebrava una delle sempre più rare occasioni di ricomposizione dell'immaginario nazionale, in cui più di metà degli spettatori erano sulla stessa piazze virtuale, e stavano creando le premesse di un unico gigantesco social tele network, unificando i mille frammenti della personalizzazione televisivo, che oggi crea infinite nicchie di autoidentificazione, si avvertiva l'attrito fra elite e popolo. Da una parte, sul palcoscenico e in platea, un ceto di successo, transnazionale, che vive la propria cultura progressista come uno status, come un cult, dall'altra parte una agorà nazionale di milioni di inquilini di un condominio sociale disorientato e sgomento, che si rifugia nella paura rancorosa per avere un ruolo. In mezzo canzoni e battute che rimangono sospese, vaganti, senza presa, su un seguito che rimane a guardare. Contemporaneamente l'Italia di Macerata, perplessa e disagiata, o di Frattamaggiore, impaurita e astiosa, non appaiono consenzienti, sintonizzate, compatite. Sanremo è stata, inconsapevolmente, la metafora della sinistra, o meglio della politica italiana, che non trova un popolo a cui parlare. La comparsa in sala di Salvini, che beffardamente si è accovacciato in sesta fila, osservando un modo che forse lo disprezza, sicuramente non considera esibibile in pubblico la sua vicinanza, è stato il segno di un rovesciamento delle funzioni. La tv non è più la macchina del consenso, e neanche il megafono del potere, ma, paradossalmente, il foyer di un vecchio teatro dove s'irrompe per annunciare che la festa è da un'altra parte. Singolare che non vi siano state polemiche, che nessuno abbia neanche denunciato messaggi elettorali subliminali in favore del centrosinistra. Anzi, sembra che Salvini si sia sfregato le mani, a constatare come oggi "inclusione" sia parola d'ordine da borghesia della comunicazione, lontano da ogni base popolare. La sua presenza proprio sabato, l'ultima serata, in sesta fila, è sembrata quella di chi prende le misure della moquette prima di occupare l'ufficio. Il 5 marzo vedremo quanto lontani siano gli indici d'ascolto dai voti.
Guardare Sanremo mi è servito a capire la sinistra, scrive il 12 febbraio 2018 Francescomaria Tedesco, Filosofo del diritto e della politica, su "Il Fatto Quotidiano". Essere di sinistra significa illudersi che su certi temi ci sia un consenso universale e puntualmente scoprire di essere in minoranza. Tipo Diodato/Roy Paci tu pensi che vincano e arrivano ottavi. L’amara scoperta della minoranza diventa via via però consapevolezza, e a un certo punto persino accettazione e poi compiacimento. Fino al grado zero della minoranza: uno solo. Ma lì scatta l’accusa di tafazzismo. Forse non molti ricordano che Tafazzi non è solo colui che si dà da solo le bottigliate sui testicoli ma, dentro uno schema di comicità a tempi progressivamente ridotti, rappresenta di questa il momento archetipico, basico: dallo sketch ai pochi secondi di un Totò Merumeni che si flagella i cosiddetti. Naturalmente ci sono poi i temi scolastici di Meta e Moro. Ermal Meta l’anno scorso ha presentato una canzone contro la violenza verso le donne, quest’anno una sul terrorismo, l’anno prossimo concorrerà con una cosa sulla fame nel mondo? Il lato wild della coppia è Fabrizio Moro, che aveva dimostrato simpatie grilline e antipatie napolitane (nel senso che aveva inveito contro l’allora presidente della Repubblica a una kermesse dei Cinque Stelle). La canzone è bella ma un po’ scontata, per non dire che il titolo (e il ritornello) è una tipica preterizione: “Non mi avete fatto niente” lo dici solo quando in realtà ti hanno fatto davvero male e devi fare training autogeno. Il terrorismo ha colpito fortemente l’Europa e il suo immaginario, ha contribuito a rafforzare il senso di insicurezza (la cosiddetta, a ragione vituperata insicurezza ‘percepita’), e soprattutto ha rotto definitivamente la flebilissima diga che a sinistra impediva ancora di fare apertamente certe cose, come vantarsi di aver fermato gli sbarchi dimenticandosi di dire che ciò ha fatto sì che la gente muoia non in mare ma a terra, o che sia detenuta in condizioni disumane nei lager libici. “Non ci avete fatto niente”? Insomma. Se Minniti ha potuto fare quello che ha fatto, è anche perché ha potuto giustificarlo in nome della sicurezza e della difesa dal terrorismo e, versione inedita delle ragioni per erigere i nuovi muri della fortezza Europa, perché aveva previsto che l’immigrazione avrebbe esasperato gli animi e prodotto qualche Traini. “Era già tutto previsto/fino al punto che sapevo/che oggi tu mi avresti detto/quelle cose che mi dici/che non siamo più felici/che io sono troppo buono/che per te ci vuole un uomo”, cantava Cocciante. Un uomo vero, un ministro tutto d’un pezzo, uno che va a dire a politico.eu che lui, calabrese, ha trattato coi capi libici dicendogli che dalle sue parti i patti e gli affari si siglano con il sangue. E poi gli operai durante l’esibizione dei ragazzi di Sanremo Young. Da qualche tempo la forza lavoro si può solo mettere in scena, parodiare, perché – si dice – gli sfruttati non ci sono più, stanno tutti bene, e i partiti che hanno atterrato il lavoro intitolano le kermesse ‘officine’, ‘fabbriche’. Piena post-Storia, mentre là fuori la Storia infuria tragicamente e mio fratello è figlio unico“perché è convinto che esistono ancora/gli sfruttati malpagati e frustrati”. E così Lo Stato sociale diventa il nome di un gruppo. Divertenti, scanzonati, piacciono tanto ai post-operaisti. Sinisteritas come jouissance e desiderio, liberazione dal lavoro: “Per un mondo diverso/Libertà e tempo perso”. “Perché lo fai?” Già, perché? Sarà che mi diverto? Però poi va a finire che questo post-modernismo snobistico (molotov e salotti aristocratici, come racconta Toni Negri) finisce che rievoca di nuovo, ancora, la Storia, quella con la faccia truce, la peggiore Realpolitik, Gentiloni e la Merkel. Acheronta movebo. Il prossimo singolo dello Stato sociale si intitolerà “Ci salveranno i poteri forti”?
Sanremo, Iva Zanicchi: "Ospite? Devi essere di sinistra". Iva Zanicchi si sfoga ai microfoni di "Un giorno da pecora". Al centro dell'intervista su Radio Uno c'è il Festival di Sanremo. Ha il sogno di tornare all'Ariston, scrive Franco Grilli, Giovedì 01/02/2018, su "Il Giornale". Iva Zanicchi si sfoga ai microfoni di "Un giorno da pecora". Al centro dell'intervista su Radio Uno c'è il Festival di Sanremo. La cantante di fatto sa che non verrà chiamata come ospite e di fatto punta alla partecipazione alla kermesse del 2019. Ma nel suo intervento c'è un tono polemico proprio sul mancato invito come ospite all'Ariston: "No, ma che ospite, non ho questa presunzione. Per esser ospiti a Sanremo bisogna esser un po' di sinistra, io non lo sono e non sarò mai ospite. Vado come concorrente". La Zanicchi di fatto è sempre stata una protagonista della musica italiana e di certo ha il sogno di tornare ancora una volta a Sanremo. "Ho una canzone già pronta, bellissima. Se ci va la Vanoni...io sono nata a Sanremo, lì ho avuto dei grandi successi e sono riconoscente a questa manifestazione". Il suo ritorno potrebbe coincidere, come lei stessa ha affermato con i 50 anni di "Zingara" nel 2019. Infine sui giurati afferma: "La Maionchi mi diverte, Gigi D'Alessio è popolarissimo e poi Morgan: sicuramente ci litigherò". Poi su Morgan corregge il tiro: "Scherzo, mi piace, è un creativo, un poeta, mi piace molto".
Pierfrancesco Favino e Fabio Fazio, Franco Bechis: "Una nuova Norimberga contro i buonisti che hanno rovinato l'Italia", scrive il 13 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". "Credo non ci sia danno fatto a questo paese superiore a quello provocato dalla sfilza di testimonial politici e meno del politically correct", esordisce Franco Bechis in un commento su Il Tempo. Commento con il quale mette nel mirino Fabio Fazio e Pierfrancesco Favino, il secondo dopo il monologo al Festival di Sanremo sull'immigrazione. Si parte da Fazio, citato come capofila dell'esercito del politicamente corretto. Dunque si arriva all'attore: "Con questi slogan cuciti in fretta per presentarsi al meglio e dire la cosina giusta al mondo hanno fatto la loro fortuna showman (giustamente sabato sera si è esibito nel genere Pierfrancesco Favino a Sanremo)". Insomma, Favino secondo Bechis ora è iscritto di diritto al partito del "politically correct". Dunque, aggiunge: "Ci vorrebbe una sorta di nuovo processo di Norimberga per mettere alla sbarra i re dei politically correct giudicando a fondo il male che hanno fatto a questo Paese che senza eccessi sapere convivere civilmente con ogni suo male e ogni sua diversità fino a quando non sono arrivati loro". Processo di Norimberga al quale, tra gli imputati, figurerebbero Favino e Fazio (tra gli altri...).
A Sanremo vince la predica sugli immigrati. Il monologo di Favino oscura Baglioni e i cantanti E sulle Foibe solo due parole-contentino, scrive Carlo Antini l'11 Febbraio 2018 su Il Tempo”. A Sanremo vince il pistolotto politically correct sui migranti. Prima dell'ingresso della Mannoia, Favino oscura i cantanti in gara col suo monologo lacrimoso tratto da «La notte poco prima delle foreste». Poi per fingere equilibrio arrivano anche due parole -contentino sulla Giornata delle Foibe. Il Festival è finito solo da poche ore ma già si parla di Baglioni bis. Ognuno fa il suo. E arriva pure il super sponsor: Adriano Celentano. Il «Molleggiato» tira la volata: «Finalmente un Festival. I cantanti possono ritornare a non essere più i valletti dei grandi ospiti. Un'impresa non facile che solo a un "Passerotto" come te poteva riuscire. Oltre che un grande cantante, hai dimostrato di essere un grande organizzatore e direttore artistico. La Rai non potrà più fare a meno dite. Della tua bravura, del tuo gusto e della tua classe». Passerotto-Baglioni-Zed gongola ma vuole farsi corteggiare manco fosse la Hunziker. «Tutti mi fanno tanti complimenti ma il corteggiamento per il 2019 non è cominciato. E mi dispiace perché un po' di corte fa sempre piacere anche agli uomini». L' accoppiamento viene evocato nel secondo indizio disseminato dal direttore di Raiuno...
Stiamo tutti bene di Mirkoeilcane tratta un tema molto importante dal punto di vista sociale. Ecco l'esibizione nella gara delle Nuove Proposte, scrive il 7 febbraio 2018 Federica Cacio su optimaitalia.com. Selezionato durante gli scorsi mesi, Mirkoeilcane è riuscito a strappare un posto tra le Nuove Proposte del Festival nel corso dell’evento Sarà Sanremo, tenutosi lo scorso 15 dicembre in diretta su Rai 1. Eclettico già dal nome d’arte, Mirko Mancini porta sul palco dell’Ariston l’attualità italiana di cui abbiamo bisogno. Stiamo tutti bene è una canzone che tratta il tema dell’immigrazione via mare, in particolare dal punto di vista (il più ingenuo) di un bambino. Stiamo tutti bene, infatti, è il racconto di un viaggio via mare, dall’Africa fino al nostro Paese, visto con gli occhi ingenui di un bambino che si chiama Mario. Il brano è nato da una chiacchierata con un ragazzo che gli ha raccontato la sua storia ed il suo viaggio. Il tema trattato nella canzone è stato alleggerito e reso più orecchiabile agli ascoltatori, inserendo anche un pizzico di ironia. Il brano presentato da Mirkoeilcane è quindi tratto da una storia vera, di un bambino che “vede scorrere gli eventi davanti a sé ed evoca l’innocenza di uno sguardo”. Uno sguardo che, però, non ha gli strumenti né il passato necessari per capire, ma comincia a comprendere qual’è la cruda realtà che gli viene mostrata. Il brano di Mirkoeilcane a Sanremo 2018 non è passato certo inosservato: Stiamo tutti bene ha la grande capacità di smuovere gli animi e la riflessione del pubblico e della critica, e lodevole è la volontà di presentare una canzone così rischiosa, ma importante sul palco più illuminato d’Italia. Durante il Festival di Sanremo, Mirkoeilcane pubblicherà anche un album di inediti, dal titolo Secondo me. Il disco uscirà questo venerdì 9 febbraio, serata in cui verrà annunciato il vincitore della gara delle Nuove Proposte del Festival. Il progetto discografico di Mirkoeilcane conterrà undici brani, tra cui anche Stiamo tutti bene, e sarà disponibile nella versione fisica in tutti i negozi di dischi e nei digital store.
Sanremo da 10 ma scivola sugli immigrati. Proprio il 10 febbraio, finale del 68º Festival di Sanremo, si celebra il giorno del ricordo dell’esodo di altri profughi istriani, fiumani, dalmati, tutti italiani in fuga dalle violenze di Tito a guerra finita. Favino e Michelle Hunziker, per fortuna, lo hanno ricordato, anche se in pochi secondi, scrive Fausto Biloslavo, Lunedì 12/02/2018, su "Il Giornale". Emozionante il monologo di Pierfrancesco Favino al Festival di Sanremo, che racconta con passione i sogni, la rabbia, le paure di un migrante. L’interpretazione con le lacrime agli occhi non può che toccarti il cuore. Soprattutto quando il testo del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltes parla del generale che spara nel mucchio in mezzo alla foresta. Dall’inferno di Sarajevo a quello di Mosul ho visto sparare veramente sui profughi, a donne e bambini con la bandiera bianca, che scappavano per salvarsi dalla guerra. Ma proprio il 10 febbraio, finale del 68º Festival di Sanremo, si celebra il giorno del ricordo dell’esodo di altri profughi istriani, fiumani, dalmati, tutti italiani in fuga dalle violenze di Tito a guerra finita. Favino e Michelle Hunziker, per fortuna, lo hanno ricordato, anche se in pochi secondi. «Oggi è il giorno per non dimenticare le migliaia di italiani vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra» ha detto l’attore sul palco dell’Ariston. «È doveroso il nostro ricordo» ha aggiunto Hunziker «perché questa pagina tragica del dopoguerra fa parte a pieno titolo della storia nazionale». Due frasi sentite, ma pur sempre due frasi di una manciata di secondi. Davanti ad oltre 12 milioni di italiani forse sarebbe stato giusto fare uno sforzo in più dedicando un monologo oppure una parte della lunga e toccante interpretazione di Favino ai profughi di ieri. Italiani, non stranieri, pure per non dimenticare quelli di oggi che scappano veramente dalle guerre. E non indistintamente tutti i migranti, compresi gli economici che sono la stragrande maggioranza, portati sul palco di Sanremo da canzoni in lizza e da ospiti che puntano a far passare la linea dei talebani dell’accoglienza. Quelli delle porte aperte a tutti in nome di un finto buonismo, che sfilano a Macerata contro il razzismo ed inneggiano alle foibe. Un ritornello aberrante di una minoranza di antagonisti si è detto, ma il «dittatore» artistico, Claudio Baglioni, avrebbe potuto spulciare sui social il 10 febbraio trovando uno scritto illuminante. «Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. Non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci il pane e spazio che sono già scarsi». Non sono frasi dei mangia migranti di oggi, ma le righe pubblicate dall’Unità nel 1946 nei confronti dei 350mila esuli italiani in fuga dalle foibe. Per almeno mezzo secolo questo dramma è stato volutamente dimenticato o addirittura nascosto. Oggi che se ne parla alzando i veli imposti per motivi politici c’è ancora chi inneggia alle foibe fra i talebani dell’accoglienza eredi dei comunisti che nel 1946 rifiutavano qualsiasi solidarietà ai profughi italiani. Possibile che con tutti i soldi a carico del contribuente che paga il canone, investiti per il Festival, a nessuno sia venuto in mente di dedicare qualcosa di più di due frasi al 10 febbraio? Un giusto riconoscimento dei martiri delle foibe, ancora oggi vilipesi, una «medaglia» per la 68ª edizione di Sanremo ed un doveroso ricordo, dopo decenni di dimenticanza, non solo dei migranti di oggi, ma dei profughi italiani di ieri.
Pierfrancesco Favino: "Il mio monologo a Sanremo non parlava di immigrati", scrive il 12 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Dopo il monologo dell'ultima serata al Festival di Sanremo su immigrazione e dintorni, Pierfrancesco Favino è stato accusato da più parti di aver in qualche modo fatto politica dal palco dell'Ariston, introducendo un tema delicatissimo in piena campagna elettorale. Nulla da eccepire sulla drammaticità e la bellezza dell'intervento, resta però il sospetto che, forse, quel monologo non fosse tra i più inattaccabili (tanto è vero che, in primis Maurizio Gasparri, lo hanno attaccato. Eccome). Favino, da par suo, si difende in un'intervista al Corriere della Sera. Quando gli chiedono se si è trattato di un testo politico, lui ha risposto: "Io non faccio politica, o meglio la faccio nella scelta delle cose che faccio. Ma sempre partendo dal presupposto che non sto sul piedistallo con le corna di alloro in testa per dare lezioni". Quando gli vengono fatte presente le lamentele di Matteo Salvini, Favino risponde: "In realtà quel testo non parla di migranti, ma di estraneità, del sentirsi straniero in un Paese". Qualche dubbio sul fatto che non parlasse di migranti, però, resta eccome...
Sanremo 2018, Salvini: “Un sacco di canzoni sugli immigrati. Magari il prossimo anno si ricorderanno dei terremotati”, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 febbraio 2018. “Ieri è finito Sanremo e ha vinto la coppia anti terrorismo Meta e Moro e c’erano un sacco di canzoni che parlavano degli immigrati che scappano, che arrivano, che fuggono. Magari l’anno prossimo ce ne sarà una che parla dei terremotati, che sono italiani e dimenticati”. Lo ha detto il segretario della Lega Matteo Salvini in un video messaggio postato su Facebook. Per Salvini “i terremotati fanno meno notizia e sono meno musicali probabilmente, ma ci sono decine e decine di italiani che dopo quasi due anni sono ancora senza casa, senza lavoro, senza niente, ma forse sono meno importanti. Meglio occuparsi di chi sbarca piuttosto che di chi è nato qui e combatte qui. Fa niente, viva Sanremo”, conclude.
Rossella Barattolo. Chi è la compagna di Claudio Baglioni? La grande sensibilità sul tema immigrazione. Chi è Rossella Barattolo, la compagna di Claudio Baglioni? Al Festival di Sanremo non è stata ancora vista, ma potrebbe mostrarsi in platea all'Ariston per la finale, scrive il 9 febbraio 2018 Anna Montesano su "Il Sussidiario". Rossella Barattolo sarà al Festival di Sanremo 2018 entro domani oppure no? I fans della donna e del compagno Claudio Baglioni se lo chiedono e in attesa di una risposta scopriamo meglio chi è l’amore del direttore artistico della sessantottesima edizione della kermesse canora. Come sottolinea Donna Glamour, Rossella Barattolo è una donna schiva e poco dedita ai riflettori delle star, come il compagno, ma sottotraccia svolge il suo importante ruolo nel sociale. Nel massimo riserbo, la donna si è sempre occupata da impegni lavorativi e sociali. Il suo cuore l’ha portata ad avere una grande sensibilità ai problemi di sbarchi e immigrazione. E da questo punto di vista fino al 2013 è stata presidentessa della Fondazione ‘Scià, una ONLUS con lo scopo di informare sul problema dell’immigrazione clandestina che afflige Lampedusa. (Agg. Massimo Balsamo)
Michelle Hunziker ha parlato dei suoi cari sul palcoscenico del Teatro Ariston del Festival di Sanremo 2018 chi invece è rimasto freddo e professionale è Claudio Baglioni. Nessuno ha visto la compagna del direttore artistico della kermesse della musica italiana, Rossella Barattolo. Nonostante tutti sanno che questi è davvero molto riservato per quanto riguarda la sua vita personale. I fan di Claudio Baglioni però si aspettano di vederlo prima della fine del Festival di Sanremo 2018 farle una dedica con una delle sue splendide canzoni. Difficile capire quello che vorrà fare Claudio Baglioni che nella sua carriera, nonostante i tanti testi d'amore, ha sempre dimostrato di voler dividere con attenzione quello che riguarda il mondo professionale, lasciando a casa la sua vita e i suoi affetti. Siccome però al Festival di Sanremo tutti provano grandi emozioni e le condividono con il pubblico non è da escludere che prima del termine dell'avventura anche lui si lasci andare. Il pubblico di certo se lo augura. (agg. di Matteo Fantozzi)
Rossella Barattolo è la compagna da anni di Claudio Baglioni. I due, oltre a dividere la vita privata, lavorano anche l’uno accanto all’altra. Dopo essere diventata la sua compagna di vita, infatti, Rossella Barattolo è anche la manager del direttore artistico del Festival di Sanremo 2018. La sua presenza nella città ligure, dunque, appare piuttosto scontata se non fosse che, finora, nessuno l’ha mai vista. Se nelle precedenti edizioni di Sanremo, la moglie di Carlo Conti è sempre stata presente al Teatro Ariston per tuta la durata del Festival, gli addetti ai lavori si sarebbero aspettati la stessa cosa anche dalla compagna di Baglioni. La Barattolo, però, sta mantenendo un basso profilo lasciando la scena al compagno, grande protagonista di Sanremo 2018. Rossella Barattolo, però, potrebbe palesarsi all’Ariston perla finalissima del 10 febbraio quando Claudio Baglioni si congederà da pubblico di Sanremo avendo portato a casa un grande successo (aggiornamento di Stella Dibenedetto).
Sappiamo che la compagna di Claudio Baglioni, Rossella Barattolo, è al Festival di Sanremo 2018 per sostenere il direttore artistico. I due però hanno dimostrato sempre di essere molto riservati, tanto che in queste prime due serate non l'abbiamo ancora vista in sala e non perché non ci sia. Mentre Michelle Hunziker ha baciato Tomaso Trussardi e abbiamo visto anche sua figlia Aurora, Claudio Baglioni ha deciso di lasciare la vita privata fuori dal lavoro. Sarà interessante capire se in queste altre tre serate del Festival di Sanremo 2018 ci sarà modo di vederla inquadrata o se il direttore artistico deciderà di dedicarle un momento emozionante e magari una canzone. Di certo però sappiamo come Claudio Baglioni sia in realtà un uomo molto romantico ma anche timido a prescindere dal lavoro che svolge ormai da anni. Supererà questo ostacolo oppure continuerà a fare il professionista come sempre fatto? (agg. di Matteo Fantozzi)
Claudio Baglioni è il grande protagonista di questo Festival di Sanremo 2018. Al suo fianco, pronta a supportarlo in tutte le sue avventure televisive e non, c'è la sua compagna, Rossella Barattolo. I riflettori si accendono inevitabilmente anche sulla donna che da tanti anni è al suo fianco (da ben 30), che in un'intervista si è descritta così: "Io sono un'estroversa estrema; mentre quando ho incontrato Claudio, lui era un libro chiuso; un introverso, nonostante la sua fama, quando si trattava della sua vita privata. Questo ci ha permesso, in modo naturale e inconscio, a costruire il nostro rapporto, ha bilanciato la nostra diversità diventando la nostra forza. (…) Ho trovato in lui quell'uomo tranquillo, sereno e pieno di pace da difendere e proteggere".
Rossella Barattolo è la compagna di Claudio Baglioni, cantante impegnato in queste serate alla conduzione del Festival di Sanremo, scopriamo qualcosa di più riguardo la compagna. Nata a Taranto il 18 aprile 1958, ha trascorso l'infanzia all'estero, tra il Regno Unito e gli Usa, dove ha poi studiato marketing. La carriera è iniziata nel settore petrolifero, dove ricopre un ruolo manageriale in azienda. Rossella incontra Claudio Baglioni per la prima volta nel 1987, lui era reduce dalla rottura con la prima moglie Paola Massari, madre del figlio Giovanni, ufficializzata solamente con il divorzio del 2008. All'inizio degli anni '90 arriva la convivenza con la Barattolo che racconta: "Conviviamo dal 1994. Sarò la persona più felice del mondo quando sposerò Claudio". Un matrimonio mai avvenuto, tanto che molti fan pensano sia stato celebrato di nascosto.
La coppia non ha figli, questo il pensiero di Rossella sul fatto di non averli avuti: "Mi dispiace tanto che non abbiamo avuto figli insieme Non sono mai arrivati, per sfortuna. Abbiamo insistito ma, ad un certo punto, ho gettato la spugna, altrimenti saremmo finiti in un tunnel e avremmo vissuto la nostra relazione soltanto per questo". Tra i due c'è stata anche una crisi agli inizi degli anni 90' che portò alla separazione per sei mesi. In quel periodo Baglioni scrisse per lei una delle canzoni più popolari del cantante, Mille giorni di te e di me. La Barattolo racconta un aneddoto sul brano: "Quando ci siamo rimessi assieme, Claudio mi ha chiesto di ascoltare una canzone. Si chiamava Mille Giorni perché parlava dei nostri tre anni assieme. Nell'album Oltre, c'è ancora un'altra canzone che si chiama Signora delle ore scure, ed è la descrizione di come mi ha vissuta, come mi vedeva. È una poesia di grande bellezza".
Quando la sinistra odiava Baglioni, scrive Daniele Zaccaria il 6 Febbraio 2018, su "Il Dubbio". Dalla “maglietta fina” alla direzione artistica del festival di Sanremo. La luminosa carriera di un autore snobbato dalla critica, adorato dal grande pubblico e oggi celebrato da (quasi) tutti. Gli altri parlavano di rivoluzioni, di liberazioni, di pace e di locomotive, di giustizia e di libertà, e lui cantava soave «passerotto non andare via». Non ci mise molto a finire nella lista nera: vacuo, commerciale, inconsistente come una “maglietta fina”, quasi certamente di destra, magari anche fascista, di sicuro sospetto. Comunque impresentabile nelle consorterie della canzone d’autore: erano gli anni 70 e bastava poco per diventare un nemico del popolo. Non aveva la gravità di De André, l’istrionismo surreale di Dalla, l’impegno sociale di Guccini, ma neanche l’ermetismo poetizzante di De Gregori o la vena erudita di Battiato. Persino Battisti, con quall’aura nera da “cantante missino” e il suo individualismo anarchico suscitava più rispetto. Lui, Baglioni Claudio, classe ‘51 romano di Montesacro non aveva nulla di tutto questo, ma più di tutti gli altri ha incarnato il destino della canzone italiana, unendo almeno tre generazioni di fan. In oltre quarant’anni di carriera ha venduto milioni di dischi e non si è mai curato del malanimo degli altri, della critica snob; l’unica scornata con i suoi avversari è avvenuta fuori tempo massimo, nel 1988 quando viene fischiato al concerto di Torino per Amnesty International, ma fu una contestazione patetica, animata da reduci spaesati e residuali ( più triste e fuori tempo di loro solo Antonio Ricci, il creatore di Striscia la notizia che appena pochi giorni fa ha definito Baglioni «un cantante insopportabile, amato dai fascisti con il cervello intoppato dal botulino» ). Nel frattempo le sue melodie si erano già insinuate negli anfratti della memoria collettiva, cantate a squarciagola da orde di ragazzine sui pulman delle gite scolastiche, sputate dai juke box sulle spiagge, sussurrate dagli innamorati: E tu come stai, Sabato pomeriggio, Amore Bello, Lampada Osram e soprattutto Questo piccolo grande amore, il singolo più venduto nella storia della musica italiana e proclamato nel 1985 “canzone del secolo” proprio sul palco del festival di Sanremo, lo stesso che da stasera lo vedrà come gran cerimoniere. Con quella poetica da storie di vita quotidiana, fatta di avventure estive, di amori non corrisposti di muretti e motorini, Baglioni continuava a irritare i puristi, talmente accecati dal pregiudizio da non accorgersi che i testi del cantautore romano erano molto meno sciatti e banali di quanto loro andavano scrivendo con il pilota automatico. Il passaggio tra gli anni 70 e 80 intanto è trionfale, con la tournée Ale-oo porta centinaia di migliaia di giovani ai suoi concerti e con l’album La vita è adesso straccia tutti i record di vendite. Dopo quel successo, come spesso accade, arriva la crisi, creativa e personale, che lo porta a un silenzio di cinque anni. Baglioni è finito, Baglioni è depresso Baglioni non ha più niente da dire, giubilano i detrattori. E invece Baglioni ripresenta nel 1990 con Oltre, un album bellissimo, il migliore della sua carriera, con un suono internazionale e la partecipazione di artisti come Paco De Lucia, Didier Lockwood, Youssou N’Dour, Pino Daniele. Un disco che “suona benissimo” e spiazza la critica costretta rimangiarsi la bile con cui aveva celebrato il suo prematuro funerale artistico. Anche l’album successivo Io sono qui è un successo di pubblico e di critica. I tempi sono maturi perché Baglioni rompa il suo soffitto di cristallo. Ci pensa Fabio Fazio, che nel 1997 lo porta in Tv a condurre con lui Anima mia, la trasmissione cult di Rai3 che rivisita in chiave ironica la musica pop degli anni 70. Quel pubblico “di sinistra” che fino a qualche anno prima ne parlava facendo la fine bouche lo rivaluta improvvisamente, quei cenacoli che storcevano il naso ogni volta che le radio sbrodolavano le sue melodie ora scoprono uno splendido 45enne, colto, spiritoso, e, incredibile ma vero, anche progressista e sensibile ai diritti sociali e civili. Per loro dev’essere stato un vero cortocircuito sentirlo gorgheggiare El pueblo unido jamas sera vencido assieme agli Intillimani. Ma come, Baglioni non era di destra? No, non lo è mai stato. E chi lo conosce non si è certo stupito del concerto che nel 2006 ha tenuto a Lampedusa per sostenere l’accoglienza ai migranti per i quali ha scritto il brano Noi qui, evento che ha replicato più volte nel corso degli anni. Nell’ultima parte della sua produzione c’è stato un sobrio ritorno al classico con canzoni meno sperimentali e ritornelli più orecchiabili, lavori più che dignitosi con alcuni pezzi capaci ancora di lasciare il segno e arrangiamenti sempre di livello. La consacrazione del festival è in fondo l’approdo naturale di una carriera fantastica, trascorsa a pensare, scrivere e suonare canzoni, con lui Sanremo torna nel suo elemento naturale, la musica. Con buona pace di quello squadrista di Antonio Ricci.
11 febbraio 2017. Francesco Gabbani vince Sanremo. Gran rimonta di Francesco Gabbani, che sera dopo sera, risale la vetta fino al numero uno con la sua Occidentali's karma: è lui il vincitore del Sanremone di Conti e Maria. All'ultimo sorpassa Fiorella Mannoia (seconda) ed Ermal Meta (terzo).
Sanremo, Gigi D'Alessio furioso: "Al Festival mi hanno usato". Gigi D'Alessio, in una lunga intervista a Chi, ha espresso tutto il suo disappunto in merito alla sua eliminazione dal Festival di Sanremo. "Come avrebbero potuto fare 11 milioni di spettatori senza di noi?" Scrive Anna Rossi, Martedì 14/02/2017, su "Il Giornale". "A Sanremo non è stato fatto fuori Gigi D'Alessio, è stata fatta fuori una categoria di cantanti. Qual è la motivazione, quella di far vincere i giovani? Va bene, allora noi serviamo da esca perché il programma senza di noi non li fa 11 milioni di telespettatori". Gigi D'Alessio si sfoga con il settimanale Chi e parla della sua esperienza al Festival di Sanremo. Dopo la sua eliminazione e quella di Al Bano è subito scoppiata la polemica. Il cantante napoletano non ha "digerito" le scelte della guria e a più riprese ha espresso il suo disappunto. "Fiorella Mannoia è partita già protetta perché, a quel punto, chi salvavi? - dice Gigi D'Alessio al settimanale Chi -. La giuria di qualità è normale che salvi la Mannoia perché fa figo. Fiorella è un’artista meravigliosa, ma è normale che se fra i giurati c’è Paolo Genovese, il regista di 'Perfetti sconosciuti' e la colonna sonora è di Fiorella Mannoia, vorrà dire che gli piacerà, no? Allora le cose che a 20 anni non capivi, a 50 le capisci e non è che posso ingoiare tutto, ho deciso che se devo mandare affanculo qualcuno lo faccio. Non sono rimasto contento nei confronti del sistema Sanremo". PUBBLICITÀ Ed ha invece da poco rivelato il nome della persona che ha accanto Fiorella Mannoia: dopo anni di gossip e indiscrezioni, svelata la love story con Carlo Di Francesco, professore di "Amici", suo professore e arrangiatore. Una storia iniziata 10 anni fa ma svelata solo ora, lui ha 26 anni meno di lei (62 Fiorella, 36 Carlo). In un'intervista a "Vanity Fair" la cantante ha detto: "Lui c’è ancora. Siamo aperti, non chiusi. Per questo forse non ci stanchiamo. Ognuno è libero di aderire alle proprie passioni. Non sei mai solo e infelice, quando ne hai". Gigi D'Alessio è ancora furioso per la sua eliminazione dal Festival di Sanremo e, senza peli sulla lingua, dà la sua versione dei fatti al settimanale diretto da Alfonso Signorini. Con un'intervista, in edicola da mercoledì 15 febbraio, il cantante napoletano esprime tutta la sua rabbia e parla anche della presunta intervista, che gli avrebbero fatto in passato, nella quale avrebbe dichiarato di essere costretto a cantare per ancora 15 anni per risollevare le proprie finanze dopo una serie di investimenti sbagliati. "Io non ho fatto nessun intervista - aggiunge -. La gente pensa che mi sono svegliato a dire 'devo cantare 15 anni perché mi servono i soldi', ma non è così e purtroppo non ho potuto fermare questo flusso. È una storia che risale a quattro anni fa e molti sanno come stanno le cose. Qualcuno ha detto che sono andato a Sanremo per fare cassa, ma perché ci pagano? Allora avrei dovuto fare il Superospite. Io ho solo detto che sono stato portato per mano in un investimento sbagliato, intorno a noi c’è sempre qualcuno pronto a fregarti. Ma ora non è che canto perché ho bisogno di soldi, canto perché a 50 anni cosa dovrei fare, mettermi su una spiaggia a prendere il sole?".
Sanremo 2017, Maria De Filippi: "La giuria di qualità ci deve mettere la faccia", scrive “Libero Quotidiano" il 13 febbraio 2017. Il Festival di Sanremo è finito, non le polemiche. Una, in particolare, quella relativa alla giuria di qualità, perché secondo molti alcuni di questi giurati non avevano nulla a che spartire con la qualità musicale: per esempio e su tutti Greta Menchi, ma anche Giorgia Surina e Violante Placido. Ad attaccare la Giuria di qualità ci ha pensato Gigi D'Alessio: "Se avessi saputo certi nomi me ne sarei rimasto a casa", ha dichiarato. E se questo non sorprende (è stato infatti eliminato rapidissimamente), sorprende di più il fatto che una volta terminato il Festival sia proprio Maria De Filippi ad attaccare la stessa giuria: "Devono metterci la faccia", ha affermato. E ancora: "Abbiamo sempre detto che il televoto era appannaggio delle bimbeminchia, allora vediamo cosa votano i giurati di qualità che Carlo ha nominato, uno per uno, durante le serate". Maria, insomma, invoca lo stop al voto di qualità "segreto", e aggiunge: "Che mettano la faccia non solo in televisione ma dicano anche per chi hanno votato. Sono esperti? Vediamo come operano in campo musicale?". Il messaggio è arrivato, forte e chiaro. Le accuse di plagio contro i brani presentati al Festival di Sanremo fioccano ogni anno copiose. E il 2017 non poteva essere da meno, con una decina di casi segnalati a più riprese sui social per altrettante canzoni che hanno gareggiato all'Ariston. Ce ne sarebbe una però, secondo rockit.it, che sembra convincere più delle altre. Su Youtube, l'utente Fabio Giliberti ha pubblicato un video in cui mette a confronto il brano Che sia benedetta di Fiorella Mannoia con Un mondo più vero, interpretata nel 2014 da Michele Bravi. Già al primo ascolto dei ritornelli, la somiglianza sembra clamorosa. Messi poi in sovrapposizione, i due brani appaiono uguali sia per arrangiamento che per melodia.
Il Festival di Sanremo gay con Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro. Il 67° Festival della musica italiana che si terrà a Sanremo dal 7 all’11 febbraio si appresta ad essere il festival più gay di sempre. Condotto da Carlo Conti e Maria De Filippi, ideatrice del “Trono Gay” e nota sostenitrice della causa LGBT, il festival avrà infatti come super ospiti tre “big” della propaganda gay come Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro. I tre cantanti negli ultimi tempi hanno infatti fatto parlare di sé più, conquistando le copertine di riviste e quotidiani, per le proprie dichiarazioni sul tema dell’omosessualità che per le proprie prestazioni canore. Dopo i cartelloni gay e i braccialetti arcobaleno delle passate edizioni prepariamoci dunque ad un altro Festival in cui si salirà sul palco la “bellezza” e la “normalità” omosessuale attraverso tre icone del mondo LGBT come Mika, Ricky Martin e Tiziano Ferro.
Adinolfi contro la "Gaystapo" sanremese: "Non voglio pagare il canone per l'utero in affitto di Tiziano Ferro". Il giornalista, leader del Popolo della Famiglia, accusa Carlo Conti di utilizzare la tv pubblica per promuovere l'ideologia gender: tra gli ospiti su cui punta il dito Tiziano Ferro e Ricky Martin, scrive Maria Elena Pistuddi il 18 gennaio 2017. Non bastava la polemica sui feti che cantano ad agitare le notti di Carlo Conti, anche quest'anno conduttore e direttore artistico del Festival della canzone italiana. A rendere il clima "sanremese" più frizzante del solito ci ha pensato il giornalista, leader del Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi, che si è scagliato contro il conduttore toscano, reo secondo lui di considerare la kermesse una sorta di "Momento di propaganda gay". Il conduttore del quotidiano "La Croce", non nuovo a questo tipo di accuse, già l’11 gennaio scorso, dopo la conferenza stampa del Festival di Sanremo 2017, aveva espresso il suo disappunto sulla presenza al festival di artisti come Tiziano Ferro e Ricky Martin. Il suo intervento a gamba tesa su Carlo Conti recava il titolo "A Sanremo il gotha dei locatori di uteri". Adinoldi aveva poi argomentao: "Al festival di Sanremo del 2015 pagammo come famiglie italiane il supercachet da ospite straniero a tal Conchita Wurst, tizio poi sparito completamente dai radar e sfido chiunque a citarmi il titolo di una "sua" canzone. L’unico motivo per cui fu invitato fu il suo essere icona gender, uomo con la barba in abito da donna". Poi proseguiva: "Il festival 2016 ci regalò l’accoppiata omo-etero di testimonial dell’utero in affitto: Elton John e Nicole Kidman furono i due superospiti stranieri che prosciugarono il budget, sempre gentilmente pagato dalle famiglie italiane, di un’edizione che passò alla storia per l’obbligatorio nastrino arcobaleno distribuito dai dirigenti Rai ai cantanti a sostegno della lobby lgbt, in pieno dibattito sulla legge sulle unioni gay". Nel suo lungo post-accusa, Adinolfi si sofferma sugli ospiti della prossima edizione della kermesse canora e spara a zero. "Ora si torna al teatro Ariston e il supercachet come famiglie italiane dobbiamo pagarlo a Tiziano Ferro che deve comprarsi un figlio da un’americana che lo partorirà, a Ricky Martin che se ne è già comprati un paio, a Mika che almeno nel suo one man show su Raidue candidamente ammetteva “sono omosessuale, non posso diventare padre”. Il post si chiudeva con una minaccia velata: "Propagandare in Italia la pratica dell’utero in affitto, anche solo pubblicizzarla, è reato passibile di due anni di carcere e un milione di euro di multa. Caro Carlo, tienilo come promemoria". Le accuse sono proseguite nel corso di un'intervista rilasciata a Radio Cusano. Dove il giornalista ha parlato, sempre riferendosi a Sanremo, di "Gaystapo". In questo contesto di polemiche sui gusti sessuali dei futuri ospiti del Festival della canzone italiana si inserisce il coming out di Michele Bravi, vincitore di X Factor nel 2013 e in gara tra i big, che ha affidato a una intervista a "Vanity Fair" il racconto del suo primo amore con un uomo. Con la premessa che non "bisogno di fare coming out perché nessun giovane si stupisce che mi sia innamorato di un ragazzo, e penso che nessuno dei miei coetanei si tirerebbe indietro se gli capitasse di provare un’emozione per una persona dello stesso sesso”. Bravi nella lunga intervista parla di una bellissima storia d'amore con un ragazzo che fa il regista e la definisce "perfetta e bellissima" anche se "ti mancano le regole del gioco e quando le impari spesso è troppo tardi". Parole dolcissime e cariche di significato che si spera non finiscano per innescare nuove polemiche. Sanremo, d'altronde, a questo ci ha abituato.
Mika: prima dell'esibizione del 9 febbraio 2017 a Sanremo che sconfina nel musical, in cui dialoga con l’orchestra giocando a interpretarne in fraseggi, l’artista anglo-libanese lancia il suo messaggio arcobaleno, a favore delle diversità. “Se qualcuno non vuole accettare tutti i colori del mondo e pensa che un colore è migliore e deve avere più diritti di un altro o che un arcobaleno è pericoloso perché rappresenta tutti i colori… Beh, peggio per lui. Questo qualcuno lo lasciamo senza musica”, sottolinea, suggellando un festival che si conferma gay-friendly anche quest’anno.
Mi dimetto da frocio! Scrive Nino Spirlì, Giovedì 9 febbraio 2017, su "Il Giornale". E basta! Si chiude, seppur con dispiacere, un capitolo durato – gloriosamente – 35 anni. Da quella prima volta in caserma, nel cuore delle nebbie delle Langhe, fino a qualche ora fa. Ma, veramente, giuro!, ne ho piene le balle di questa catasta di “frocetti” che sta subissando, se non l’Umanità intera, almeno la nostra Identità. Son troppi e troppo esagerati. Esasperano tutto: dall’immagine esteriore alla qualità della propria anima. Si sono talmente spinti oltre ogni plausibile confine, che non sanno più da dove siano partiti e perché. Facce di gomma, culi di silicone, sguardi da gatti infuriati. Spiumati più di un’oca da cuscino, ma muscolosi quanto e più di Rambo e Rocky shakerati insieme, seppur bigolodipendenti; oppure bugiardamente barbuti e pur sempre con la mente calamitata da ogni patta incrociata nella metro; argentini nei guizzi vocali come sigaraie da tabarin e apparecchiati come troie da saloon, anche fra i banchetti del mercatino rionale. Scemi e ignoranti, imitano le dee, ma non ne conoscono il nome e le virtù. Gusci vuoti di vite buttate. Eppur presenti in ogni dove: dagli altari, infettati dalle foie di frustrati altrimenti senza futuro, fino alle cattedre delle scuole, minati dalle false teorie su un genere che spezza la Natura e forza la Società. Presenti, e celebrati da altrettanti ignoranti “padroni di casa”, nei salotti mediatici e nelle piazze dell’Arte, dove la Chiamata perde il contatto col Divino e diventa un bercio stridulo di pretesa attenzione. Travestiti da manager d’industria, funzionari statali, mercanti, artigiani… In uniforme, in camice, in tuta… Froci per convenienza, per moda, per carrierismo, per curiosità, per assuefazione, per rabbia. Per ignavia. Sfrontati, arroganti, pretenziosi, volgari, razzisti ed eterofobi. Garantiti dal Potere, che li teme. Ingrassati dalla politica, che ne patisce i ricatti. Coccolati da vecchie puttane ingioiellate e ripulite dalla fede al dito; tutelati da leggi zoppe quanto il gatto e la volpe di collodiana memoria; accontentati nei sacramenti e nelle onorificenze. Padroni di un mondo che cambia dignità come fosse una mutanda pisciata di notte, pontificano e dispongono. Vomitano nuovi dogmi che la strada patisce ed accetta, preoccupata di non farsi crocifiggere, da una stampa impastata con inchiostro a sette colori e banalità, su quella cosa che non è cosa e che molti chiamano teoria del gender. Ma che, poi, tacciono quando, invece, dovrebbero denunciare i martirii patiti da quelli come noi che muoiono, massacrati nei paesi islamici, nei paesi a regime comunista, in mezza africa, negli abissi dell’estremo oriente. Ecco, io non ci sto ad ingrossare le fila di questi frocetti da commedia americana! Volevo essere ricchione alla vecchia maniera, io! E, dunque, mi ritiro! Volevo, sì, essere ricchione senza “matrimonio”; senza figli da consegnare al pubblico ludibrio, in un mondo che non è ancora pronto a cotanta provocazione; senza l’assurda pretesa di cancellare la bellezza della Santità del Padre e della Madre, non solo fra le calde mura domestiche, ma anche su un rigoroso certificato di nascita; senza la pietosa bugia che siamo tutti un po’ omosessuali, in fondo. Perché non è così! No, mondo! Non ci sto più! Mi fermo. Mi sposto in un angolo. E non sono più frocio. Non consumo più, né atti, né sentimenti. Per rispetto. A me, ad un Lui, ad una Lei. Al Cielo e alla Terra. Tornerò quando l’ultimo dei mentitori avrà ritrovato il buco dal quale è uscito e si sarà dileguato in quell’abisso dal quale qualcuno, scaltro e malfattore, lo ha convinto ad uscire per interpretare la commedia. La tragica commedia della morte della Dignità Umana. Fra me e me.
"Bastiamo io e Maria De Filippi", scrive il 6 febbraio 2017 “la Repubblica”. L'assenza della figura delle vallette a Sanremo è stata spiegata così da Carlo Conti, al timone del festival per il terzo anno consecutivo. In molti si sono mostrati perplessi di fronte all'eliminazione di questa figura storica dall'edizione 2017 dell'appuntamento musicale più atteso e discusso in Itala. Le hanno sempre chiamate vallette, ma nel corso degli anni sono diventate qualcosa di più. Accanto a storici conduttori del Festival di Sanremo come Mike Bongiorno, che ha presentato la manifestazione undici volte, o Pippo Baudo, che detiene il record con tredici edizioni, ci sono sempre state loro: le signore del teatro Ariston. Modelli di fascino e bellezza della loro epoca, da semplici e graziose comparse si sono col tempo trasformate in vere e proprio spalle fino a ottenere ruoli di co-conduzione. Gli esempi più recenti sono quelli di Antonella Clerici, Gabriella Carlucci e Luciana Littizzetto, ma non deve essere dimenticata nemmeno Gabriella Farinon, pioniera della conduzione al femminile. (In alcuni anni il volto femminile della valletta è mancato perchè a condurre era una donna, ovvero a presentare era un uomo ed una donna, come quest'anno). Ecco alcune delle più famose figure femminili che, dal 1951 ad oggi, hanno conquistato il palco dell'Ariston:
Marisa Allasio, Nicoletta Orsomando, Sanremo 1957
Enza Sampò, Sanremo 1960
Giuliana Calandra, Sanremo 1961
Laura Efrikian, Sanremo 1962
Giuliana Lojodice, Sanremo 1964
Gabriella Farinon, Sanremo 1969
Ira Furstemberg, Sanremo 1970
Sabina Ciuffini, Sanremo 1975
Maria Giovanna Elmi, Sanremo 1977
Anna Maria Rizzoli, Sanremo 1979
Eleonora Vallone, Sanremo 1981
Gabriella Carlucci, Sanremo 1988
Edwige Fenech, Sanremo 1991
Milly Carlucci, Brigitte Nielsen e Alba Parietti, Sanremo 1992
Lorella Cuccarini, Sanremo 1993
Anna Oxa, Sanremo 1994
Anna Falchi, Claudia Koll, Sanremo 1995
Sabrina Ferilli, Valeria Mazza, Sanremo 1996
Valeria Marini, Sanremo 1997
Eva Herzigová e Veronica Pivetti, Sanremo 1998
Laetitia Casta, Sanremo 1999
Inés Sastre, Sanremo 2000
Megan Gale, Sanremo 2001
Manuela Arcuri e Vittoria Belvedere, Sanremo 2002
Serena Autieri e Claudia Gerini, Sanremo 2003
Paola Cortellesi, Sanremo 2004
Antonella Clerici, Federica Felini, Sanremo 2005
Ilary Blasi e Victoria Cabello, Sanremo 2006
Michelle Hunziker, Sanremo 2007
Bianca Guaccero ed Andrea Osvárt, Sanremo 2008
Belén Rodríguez ed Elisabetta Canalis, Sanremo 2009
Ivana Mrazova, Sanremo 2012
Luciana Littizzetto, Sanremo 2013/2014
Rocio, Arisa, Emma, Sanremo 2014/2015
Madalina Ghenea, Virginia Raffaele, Sanremo 2015/2016
Festival di Sanremo: da Baudo a Conti, i conduttori e i cachet da record. Il più pagato in assoluto è stato Gianni Morandi, seguito da Bonolis. Tra le donne domina invece Michelle Hunziker, scrive Francesco Canino il 7 febbraio 2017 su Panorama. Con il suo terzo Sanremo consecutivo, Carlo Contista per entrare nella storia del Festival della canzone italiana. Sfogliare i nomi dei conduttori della «kermesse canora», tanto per rispolverare una fraseologia di quelle abusate (ma efficaci), significa fare un tuffo nell'enciclopedia della televisione italiana, partendo dal «cari amici vicini e lontani» di Nunzio Filogamo al «tutti cantano Sanremo» ideato da Conti. In mezzo ci sono 67 edizioni e una carrellata pazzesca di volti della tivù, tra meteore e giganti del piccolo schermo. Ecco tutte le curiosità sui conduttori e i cachet festivalieri. L'inossidabile reuccio del Festival di Sanremo per ora resta Pippo Baudo, imbattibile condottiero di stagioni festivaliere che hanno fatto la storia, dalle epiche incursioni di "Cavallo pazzo" all'intuizione delle "vallette" - la bionda e la mora, tra coppie improbabili e altre cult - passando per momenti indimenticabili, come l'annuncio in diretta della morte di Claudio Villa, esattamente trent'anni fa. Baudo detiene ogni record, con ben 13 edizioni condotte, la prima nel '68, di cui cinque consecutive: lo tallona il grandissimo Mike Bongiorno, a quota 11, di cui cinque una in fila all'altra dal '63 al '68. Il terzo posto sul podio resta per ora occupato da Nunzio Filogamo, primissimo conduttore del primissimo Festival, quando ancora andava in onda (in radio) dal teatro del Casinò: ha presentato i primi quattro, dal 1951 al 1954, sempre in solitaria, mentre per la sua quinta conduzione fu affiancato da Marisa Allasio, Fiorella Mari e Nicoletta Orsomando. Dal bianco e nero all'hd, balza in quarta posizione Fabio Fazio, quattro volte padrone di casa all'Ariston - le ultime due in coppia con Luciana Littizzetto - dove quest'anno farà il tris Carlo Conti, affiancando così in classifica Claudio Cecchetto e Gabrilla Fariron, storica annunciatrice Rai. Sono molti i conduttori che hanno fatto il bis e lasciato il segno con ascolti record. È impossibile dunque non citare i due grandiosi Sanremo condotti da Paolo Bonolis - già si parla di lui per il 2018 - e ancora Gianni Morandi nel biennio 2011/2012, mentre Antonella Clerici (attesa giovedì sera come ospite) lo ha presentato prima come valletta al fianco di Bonolis, poi in solitaria nel 2010. Nessun tema collaterale al Festival appassiona e scatena critiche come la questione cachet. In maniera geniale, Maria De Filippi se n'è tirata fuori, rinunciando al compenso per la sua partecipazione e spegnendo ogni polemica sul nascere. Conti percepirà invece 650 mila euro (ma all'interno di un contratto quadro, ha specificato la Rai), ben lontani dal milione e 500 mila euro di Gianni Morandi, che ha polverizzato ogni record. A quota 1 milione invece Paolo Bonolis (nel 2009), Giorgio Panariello (nel 2006) e Michelle Hunziker (nel 2007), che surclassò l'allora padrone di casa Pippo Baudo, fermo a quota 800 mila euro.
Sanremo: il Festival del privilegio. Biglietti di Stato gratis a magistrati e politici, curia e forze dell'ordine. L'immancabile manuale Cencelli della distribuzione. Il sindaco: "Me li chiedono tutti, in strada o al telefono", scrive Marco Preve il 5 febbraio 2017 su "La Repubblica". Sanremo. Indovinello: dove si possono trovare, tutti assieme, un politico, un magistrato e un alto ufficiale delle forze dell’ordine? No, non è la stanza interrogatori di un carcere. La risposta giusta è il teatro Ariston durante il Festival di Sanremo. Ma se volete essere più precisi è: “al Festival con biglietti gratis”. Nell’Italia che si indigna per privilegi più o meno grandi, per regali consapevoli o all’insaputa, continua ad esistere un luogo in cui tutti i poteri possono godere gratuitamente di prerogative vietate ai normali cittadini: le poltroncine di velluto rosso dell’Ariston. È sui soffici sedili – resi ancor più confortevoli dalla gratuità e dal quel senso di autorevolezza che qualcuno ricava dall'essere omaggiato - che l'implacabile pm o l'inflessibile giudice condividono la vicinanza con il consigliere o l'assessore regionale dei quali deplorano, nel resto dell'anno, l'abitudine a scialacquare fondi pubblici in vini, cravatte ed anche concerti. È nel fragoroso applauso che accoglie il bravo presentatore che sciolgono le reciproche diffidenze il deputato e il comandante dei carabinieri o della guardia di finanza, il presidente della società partecipata e il questore. "Una vera e propria franchigia medievale" commenta, dietro la garanzia dell'anonimato un magistrato che ha conosciuto i meccanismi di ripartizione dei biglietti tra le toghe pur senza prendervi parte. Un Festival del privilegio la cui principale "vittima" – oltre al buon gusto, naturalmente – sembra essere il sindaco di Sanremo. L'unico, assieme al Prefetto e al presidente della Regione, ai quali andrebbe riconosciuto il ruolo istituzionale all'Ariston. "È davvero uno dei compiti più impegnativi e maggiormente soggetto a malintesi, proteste, malumori. Tutti chiedono biglietti, per strada oppure in maniera più riservata a seconda del ruolo" spiega Alberto Biancheri, attuale primo cittadino di Sanremo. Come se ne esce? Con una rigida applicazione dei criteri ormai consolidati. Va anche detto che con l'avvento del predecessore di Biancheri, Maurizio Zoccarato, la distribuzione passò dall'ufficio turismo, che nei decenni era diventato un vero e proprio regno indipendente, direttamente al gabinetto del sindaco. Anche quest'anno Biancheri si è ritrovato a dover decidere a chi destinare i circa 200 biglietti a serata. Unici ad aver rinunciato ai loro tagliandi sono stati i consiglieri comunali del M5s. "Per il resto distribuiamo a 360 gradi – spiega Biancheri – a politici, polizia, carabinieri, finanza, procura, tribunale, vigili del fuoco, capitaneria, ma anche volontari di associazioni, e poi non vedenti oppure disabili. Poi ci sono i biglietti per ospiti importanti, ambasciatori o diplomatici e infine scelte particolari. Quest'anno ho deciso di dare due biglietti a una coppia che su Facebook ci ha scritto che ha sempre avuto il sogno di venire a vedere il Festival". Biancheri svicola, ma in Comune si racconta anche di telefonate arrivate dalla Curia per avere il classico "paio di biglietti". E poi ci sono, prima di tutti e più di tutti, i politici. Deputati e senatori del territorio e fin qui è poca cosa. Poi inizia la grande abbuffata. Due biglietti a testa per: gli assessori e tutti i consiglieri del Comune di Sanremo (M5s esclusi); presidenti e amministratori di società partecipate. Poi si passa alla Regione Liguria dove non possono mancare non solo i biglietti per gli assessori e per numerosi consiglieri (anche in questo caso il M5s sembra essere escluso), ma anche per i presidenti di commissione. Tra gli habitué istituzionali c'è anche il presidente della Camera di Commercio di Imperia. E poi iniziano i doppioni. I comandi delle forze dell'ordine sono provinciali quindi a Imperia: Questore, comandante dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Ma si possono lasciare senza biglietto anche le compagnie e i commissariati sanremesi? Evidentemente no. Fino a pochi anni fa lo stesso discorso valeva per la magistratura. Ma da quando gli uffici giudiziari sono stati accorpati i biglietti omaggio vanno solo a Imperia, equamente suddivisi fra Tribunale e Procura. Per altro, e sembra essere un'usanza solo sanremese, il teatro Ariston garantisce, non solo durante il Festival, ma per tutto l'anno, palchi riservati a magistrati, polizia, carabinieri, finanza e qualche altro fortunato. Insolito? "Diciamo che da un lato ci sono gli obblighi nei confronti delle autorità e dall'altro ci sono le consuetudini" glissa elegantemente Walter Vacchino direttore dell'Ariston e membro della famiglia che ne è proprietaria da sempre. Ma se quella di Vacchino è la libera scelta di un imprenditore privato, la concessione in massa, da parte della Rai, di biglietti del Festival ai vari rappresentanti del potere di Stato è l'opzione unilaterale effettuata con quelli che alla fin fine sono sempre soldi pubblici. Per quel che riguarda poi l'opportunità dei beneficiati di accettare le regalie, è ancora un altro discorso, che meriterebbe fiumi di parole.
Dai compensi alle mazzette: su Sanremo è sempre il caos. Indagato lo scenografo. Il legale: "Nessun avviso". L'ultima polemica è stata per il cachet di Carlo Conti, scrive Laura Rio, Giovedì 2/02/2017, su "Il Giornale". Lo scenografo indagato. Il compenso esagerato. Le interviste inventate. Le polemiche che montano. Ci manca solo l’operaio che minaccia di buttarsi dal tetto dell’Ariston, e il Festival è al completo. Sì perché ogni anno, immancabilmente, nel delirio che accompagna la kermesse canora, accade di tutto. Tra notizie corrette e altre montate ad arte, è corsa ad alzare il tiro. Comunque, è di ieri l’indiscrezione, pubblicata dal quotidiano La Verità, che lo scenografo che realizza gli allestimenti del Festival, Riccardo Bocchini, sarebbe indagato in un’inchiesta relativa a tangenti nell’assegnazione di appalti in Rai. L’inchiesta che risale al 2015 (e che all’epoca era stata ampiamente resa nota) riguarda diverse produzioni della tv pubblica e ha coinvolto funzionari, dirigenti, direttori della fotografia. I reati contestati sono di associazione a delinquere, appropriazione indebita, turbativa d’asta, corruzione e concussione. Ma il diretto interessato, Bocchini, tramite il suo avvocato ha fatto sapere che «non ha ricevuto alcun avviso di garanzia», «non è stato mai ufficialmente informato di essere coinvolto in indagini» e «non ha commesso alcun illecito nei confronti della Rai». L’avvocato John R. Paladini sostiene che gli articoli de La Verità «contengono notizie distorte e diffamanti riferite al mio assistito al quale sono stati ingiustamente attribuiti fatti e circostanze del tutto inveritieri». A raccontare delle mazzette sono stati due imprenditori arrestati che sostengono di aver elargito a Bocchini compensi per ottenere assegnazioni di appalti di forniture, tra cui luci, impianti audio e telecamere. Insomma, se il fatto venisse accertato, sarebbe un grave danno per Sanremo e per la Rai. Anche perché Bocchini, che non è un dipendente della tv pubblica, ma lavora con incarichi, è un professionista che firma trasmissioni importanti, alcune condotte da Carlo Conti: non solo per la terza volta Sanremo, ma anche L’eredità, Affari tuoi, I migliori anni, Tale e quale show, Ballando con le stelle. Un uomo di fiducia che si aggiudicava molte onerose commesse. In Rai tengono a sottolineare che tutti i dirigenti o autori coinvolti in quell’inchiesta non lavorano più per la televisione pubblica, se ne sono andati o sono stati allontanati. E che il medesimo Bocchini avrebbe assicurato di essere estraneo alla vicenda. Si vedrà: la magistratura farà sapere se è o meno indagato. Il solito deputato Pd Anzaldi si chiede come mai si continui a dare così tanti appalti all’esterno e come mai non è ancora stato sostituito il responsabile Anticorruzione andato via da settimane. Non si placa poi la polemica per il compenso sul cachet del conduttore, che secondo altre indiscrezioni, ammonta a 650.000 euro. Per alcuni, tra cui Salvini e Brunetta (che ha presentato un’interrogazione), una vergogna «se si pensa come se la passano male molti italiani», per altri come Fiorello un compenso adeguato per chi fa guadagnare la Rai e si è costruito la carriera con fatica e duro lavoro. Carlo Conti si difende un po’ maldestramente dicendo che una parte del compenso la darà in beneficenza, ma bisogna ricordare che prende meno dei suoi predecessori (Bonolis arrivò al milione di euro, Morandi a 800 mila). Insomma, polemiche da Festival: l’anno scorso tenne banco il tormentone su Elton John e il possibile arrivo in coppia con il marito, tre anni fa fece scalpore lo sbarco «politico» di Beppe Grillo, nel 2013 venne fischiato Maurizio Crozza che imitava Berlusconi, in ogni edizione qualcuno si indigna per il cachet dei presentatori, e ad anni alterni si intrufolano in teatro persone che protestano per qualche cosa, per non parlare di quella volta che Pippo Baudo salvò un uomo che si voleva buttare giù dalla galleria. E si può andare indietro fino al suicidio di Tenco. Insomma, tutto già visto. Sanremo, specchio dell’odio del Paese.
Strategie di Comunicazione. Ecco le tecniche segrete usate dagli artisti per promuoversi sui media, far parlare di loro giornali e tv ed aumentare le vendite delle loro opere, scrive il 26 gennaio 2017 Michele Rampino Fondatore di ComunicatiStampa.net. (Questo articolo ha un puro scopo didattico riguardo le tecniche Pr usate dagli artisti per promuoversi e non vuole essere un giudizio sui comportamenti e sulla vita degli artisti menzionati). In questo articolo scoprirai la tecniche di pubbliche relazioni segrete che i cosiddetti “Vip” usano per promuoversi sui media, far parlare tutti di loro per rimanere sulla cresta dell’onda, e far decollare le vendite delle loro opere. Lo scorso dicembre, quasi sotto Natale, verso sera, stavo rientrando a casa in auto e stavo ascoltando il giornale radio quando all’improvviso una notizia cattura la mia attenzione: Tiziano Ferro dichiara di vivere negli Usa perché dice di volere un figlio con l’utero preso in affitto da una donna. Ora, se segui un po’ le cronache saprai che Tiziano Ferro ha dichiarato la propria omosessualità già da qualche anno ormai e, da uomo o donna di mondo quale sei, sicuramente questa cosa non ti fa più né caldo e né freddo. Saprai però che l’argomento “utero in affitto” è un tema molto caldo, che fa molto discutere sia nel nostro paese che nel resto del mondo (sono molti infatti coloro che si domandano e dibattono sul fatto se sia etico e giusto “creare” un figlio in provetta per poi farlo crescere in un utero affittato da una terza donna per la gestazione, rivendicandone infine la paternità alla nascita). Ascoltata la notizia comincio a riflettere sul fatto che, qualche giorno prima, mi pareva di aver ascoltato proprio un nuovo brano di Tiziano Ferro in radio e dato che sono del mestiere ecco che mi si accende una lampadina: “Vuoi vedere che…”.
Arrivato a casa parcheggio, prendo il cellulare, vado su Spotify (per chi non lo sapesse è un’app per ascoltare musica) per verificare il profilo di Tiziano Ferro e…bingo! Scopro che il suo ultimo album è uscito il 2 dicembre 2016, cioè solo una ventina di giorni prima della diffusione della notizia sull’utero in affitto. Sai cosa vuol dire questo?
Vuol dire che ci sono buone probabilità che la notizia controversa sul bambino da creare con l’utero in affitto è stata diffusa ad arte proprio per innescare delle polemiche e far parlare i media dell’artista. Ora, già mi pare di vedere i tuoi dubbi e le tue perplessità al riguardo ma seguimi per qualche altro minuto e ti spiegherò tutto con calma.
Rientrato a casa sono andato subito a verificare su Google i dettagli sulla notizia. Dato che l’argomento è dibattuto scopro che la dichiarazione di Tiziano Ferro, come previsto, ha creato un mare di polemiche e migliaia di articoli, oltre ad aver fatto imbestialire i “difensori della famiglia tradizionale”, con proteste, opinioni ed interviste contrastanti sui vari giornali, tv, radio e siti web. Scopro inoltre che la notizia ha avuto origine da una intervista su Vanity Fair uscita il 20 dicembre 2016, cioè solo 18 giorni dopo l’uscita dell’album. Cerco le notizie pubblicate con le parole chiave “figlio Tiziano Ferro” e mi escono fuori, dal 20 dicembre 2016 ad oggi 25 gennaio 2017, giorno in cui scrivo, ben 9.140 risultati, tra post, contenuti e notizie che online parlano dell’argomento, di cui ben 2.050 notizie pubblicate su testate giornalistiche presenti su Google News. Ti è tutto più chiaro ora? Se non lo è ti basta unire i puntini: Tiziano Ferro ha un album in uscita da promuovere, a distanza di soli 18 giorni fa uscire una intervista su Vanity Fair in cui fa delle dichiarazioni abbastanza controverse sul fatto di volere un figlio con l’utero in affitto, rispetto alle quali le reazioni erano facilmente prevedibili e….boom! Migliaia e migliaia di articoli, servizi radio e tv e post su internet che parlano di Tiziano Ferro. Facendo ricerche su Ferro scopro un’altra chicca che lo riguarda: il 6 gennaio 2017 il cantante diffonde la notizia, tramite Sky, che “si vuole sposare”, ed eccoti servito un altro bello argomento “hot” in grado di far discutere i media e far parlare mezzo paese di lui e delle sue scelte. Sono ben 4.640 gli articoli creati dal 6 al 25 gennaio, di cui ben 816 notizie presenti su Google News: un numero minore di articoli rispetto alla precedente notizia, perché ormai l’argomento “matrimonio gay” non fa più notizia come in precedenza visto che è diventata quasi una cosa comune, ma comunque un numero sempre importante, che ha continuato a tenere alta l’attenzione sull’artista. Se sei scettico sul fatto che siano tutte apparizioni mediatiche studiate ad arte per far parlare dell’artista, un particolare che dovrebbe farti riflettere è questo: Tiziano Ferro è single, per sua stessa dichiarazione. A che pro quindi la dichiarazione sullo sposarsi se non ha nemmeno un compagno?
Una dichiarazione anomala se ci rifletti bene, giustificata a rigor di logica da un solo obiettivo: parlare e far parlare di lui, ben sapendo che la cosa avrebbe tenuto accesi i riflettori sulla sua persona, guarda caso in un periodo in cui è appena uscito il disco. Se poi cerchi ancora notizie su Ferro vedrai altre notizie di gossip di una sua eventuale partecipazione a Sanremo come co-conduttore: in realtà è stato confermato che parteciperà come super ospite, altro evento che gli darà visibilità e che sta facendo e farà parlare di lui ancora per un po’. Insomma, a ben guardare pare proprio una scaletta ben studiata di dichiarazioni ed eventi lanciati ad arte per tenere sempre ben in vista l’artista nel periodo di promozione del disco. E attenzione: non sto mettendo in dubbio la veridicità delle cose dette da Tiziano Ferro. Sarà senza dubbio tutto vero quanto da lui affermato e senz’altro ci crederà al fatto di volere un figlio e di volersi sposare. Quello che sto dicendo è che ha detto e fatto cose, sulla cui veridicità ripeto non pongo dubbi, ben sapendo che avrebbero fatto parlare i media e fatto discutere di lui le persone di mezzo mondo (perché Ferro è molto famoso anche all’estero) con una scaletta di dichiarazioni e presenze ben studiata e precisa, in un periodo in cui ha bisogno di visibilità per la promozione dell’album.
Gli addetti stampa, i Pr, gli artisti più famosi e tutti gli addetti del settore conoscono molto bene queste tecniche di comunicazione. o pubbliche relazioni se preferisci, e concordano strategicamente con gli stessi artisti cosa dire e quando dirlo, con lo scopo di metterli sotto i riflettori e portarli all’attenzione del grande pubblico. Chi lavora in un ufficio stampa o nelle Pr in genere ha il preciso compito di stimolare i giornali, le tv ed il web a parlare del proprio cliente, perché nell’ambiente tutti sanno bene che più si parla sui media dell’artista e più aumentano le vendite. Questo perché la visibilità ottenuta sui media equivale ad una enorme pubblicità gratuita su centinaia di siti web, giornali, tv e radio e solitamente più è grande la polemica e più spazio le viene dedicata. E più visibilità e apparizioni sui media ottengono gli artisti e più diventano famosi, e più diventano famosi più vendite delle loro opere ottengono. Il principio della visibilità è lo stesso che fa impennare le vendite di libri e dischi alla notizia della morte di un’artista (e anche delle opere d’arte, ma qui entra in gioco anche la speculazione di quanti sperano in un valore futuro maggiore delle opere): le vendite aumentano semplicemente perché tutti i media stanno parlando di quell’artista e grazie all’ enorme visibilità molti vengono stuzzicati nella curiosità e sono portati a comprare qualcosa dell’artista di cui tutti parlano, un cd o un libro o anche solo il download di una canzone, per saperne qualcosa in più di più di lui e per conoscerlo meglio. Ricapitolando:
Più visibilità sui media = più notorietà = più vendite. Chiaro il concetto? La prossima volta che ti capita di vedere polemiche che coinvolgono artisti o professionisti facci caso, quasi sempre c’è di mezzo un’opera, un libro, un film o un album appena usciti da promuovere. Questo accade perché nell’animo umano alberga una profonda curiosità, che ci porta ad esempio a fermarci per strada per vedere due che si azzuffano. La stessa curiosità che ti fa fermare il dito durante lo zapping Tv per vedere 2 tizi che litigano o discutono animatamente. Ecco perché quasi sempre sui media trovi polemiche su tutto: le liti e le polemiche alzano gli ascolti perché attirano attenzione e sono capaci di distoglierti dalle tue cose, mettendo sotto i riflettori i protagonisti della zuffa. Calcola poi che dalle polemiche hanno tutti da guadagnarci: le tv ed i giornali producono “intrattenimento” guadagnando in cambio attenzione, visualizzazioni e click per le loro pubblicità, i lettori e gli spettatori si divertono dando sfogo alla loro curiosità ed i protagonisti della polemica ottengono pubblicità gratuita per sè e le loro opere.
Guarda caso digitando la parola “cantante” in Google News oggi vuoi sapere cosa mi compare? Tutti stanno parlando di un cantante turco che dichiara di essere il padre di Adele. Guardacaso…Che sia vero o meno i giornali di mezzo mondo stanno parlando di questo sconosciuto cantante turco, e puoi scommetterci la testa che da domani le sue quotazioni, vendite e cachet subiranno un’impennata. Capito ora come funziona il circo mediatico? Spero ora ti sia tutto più chiaro su come fanno i cosiddetti “Vip” a promuoversi gratuitamente sui giornali ed in tv. Se anche tu vuoi promuoverti sui media e vuoi che i giornali parlino di te devi lanciare una notizia che “strategicamente” sia impattante e che ti faccia uscire dall’anonimato, innalzandoti dal solito chiacchiericcio e torpore quotidiano. Devi fare, scrivere o dire qualcosa di importante che faccia saltare i giornalisti sulla sedia e farli venir voglia di contattarti per scrivere un pezzo su di te. Come già ti suggerivo in questo precedente articolo sulle alcune strategie di Pr che potrebbero esserti utili. Se credi però di essere un artista “puro” e non ti va di promuoverti con queste tecniche ti dico solo una cosa: purtroppo oggi funziona così. Non basta solo la bravura. Oltre al talento se vuoi sfondare devi saperti promuovere nel modo giusto perché hai bisogno di visibilità. E devi essere bravo a farti vedere e notare dai media, dal pubblico e dalle persone che contano. Il mondo è pieno di artisti famosi, bravissimi a pubblicizzarsi ed a mettersi in luce, ma magari molto meno talentuosi rispetto ad altri meno famosi. Oggi ti ho preso ad esempio Ferro ma se vai a ben vedere quasi tutti sono famosi perché sanno padroneggiare queste tecniche e sono bravi a far parlare i media di loro.
Il mondo è pieno di artisti anonimi molto più bravi dei cosiddetti “Vip” ma che purtroppo nessuno conosce perché non hanno saputo e non sanno pubblicizzarsi nel giusto modo. Il mondo è pieno di talenti anonimi, che continuano a sperare nel buio delle loro camere, ma che non sanno come fare a sfondare ed avere il tanto sognato successo.
La carica degli indipendenti: "Noi non ci Sanremo". Incidono dischi. Fanno tournée. Riempiono club, teatri lirici, palazzi dello sport. Ma il Festival della canzone italiana li ignora. Ecco chi sono e come vivono i protagonisti della nuova scena musicale, tra rock, pop e canzone d'autore, scrive Emanuele Coen il 30 gennaio 2017. Una band rock con strumenti elettrici per la prima volta al Teatro San Carlo, a Napoli, tempio della musica lirica. Dentro tutto esaurito, fuori in centinaia senza biglietto. Stessa scena qualche giorno dopo davanti a Castel Sant’Elmo. Nella città partenopea sono i Foja a raccogliere i maggiori consensi dal vivo, mentre Calcutta, 27enne cantautore cresciuto a Latina, dopo 110 concerti ha dovuto fare il bis a Roma per accontentare i fan della hit “Oroscopo”, già disco d’oro. E intanto la band pop italiana rivelazione dello scorso anno, i romani Thegiornalisti, dopo aver suonato in tutta Italia sono pronti a esibirsi, a maggio, nei palazzetti dello sport nella capitale e a Milano. Da Catania a Torino le band rock, i gruppi pop, i rapper e i cantautori della nuova musica italiana riempiono club, centri sociali e palasport. Hanno nomi strani e autoironici - Lo Stato Sociale, I Cani, Brunori Sas, Pop X, Iosonouncane - e mescolano stili, sonorità e linguaggi molto diversi tra loro. Ma condividono un punto forte: sono usciti allo scoperto e riescono a infiltrarsi nei palinsesti delle radio commerciali, vendono dischi e t-shirt, fanno capolino in tv, milioni di visualizzazioni su YouTube e il pieno di streaming su Spotify. Senza essere stati lanciati da una major o da un talent show. Eppure per il Festival di Sanremo (7-11 febbraio su Rai1) restano perfetti sconosciuti, invisibili, tanto che il padre della scena musicale “indie” italiana, Giordano Sangiorgi, patron dello storico Meeting degli indipendenti (meiweb.it) a Faenza, vicino a Ravenna, ha rivolto un appello al direttore artistico Carlo Conti. «Compia un atto di grande innovazione e inviti gli artisti indipendenti che stanno costruendo la nuova scena musicale italiana come ospiti al prossimo Sanremo, rompendo così quegli equilibri da manuale Cencelli. Il mio è un suggerimento, non una critica», ha detto. Da vent’anni il Mei è palcoscenico per le band emergenti e osservatorio per la stampa specializzata: per la prossima edizione (29 settembre - 1 ottobre) sono attesi decine di giornalisti e 400 gruppi, che si alterneranno su trenta palchi per tre giorni no-stop, tra conferenze, live show, premiazioni. «La vitalità della nuova musica italiana segna la vittoria del modello produttivo indipendente che oggi si ritrova al Mei», continua Sangiorgi: «Se negli ultimi vent’anni ci fossero state solo le grandi case discografiche e i talent show, non avremmo mai conosciuto tanti artisti di valore che oggi hanno successo, investendo un centesimo dei soldi spesi negli spettacoli televisivi». Universi distanti, fino all’altro ieri inconciliabili: da un lato l’indie dall’altro il mainstream, la cultura di massa. Un tempo bastava che una band del circuito indipendente firmasse un contratto con una major per giocarsi per sempre la fiducia dei fan. Per accorgersi che l’aria è cambiata bisogna scavare un po’ e fare due chiacchiere con i protagonisti della nuova onda musicale tricolore. Motta, 30 anni, canta, suona chitarra, basso, batteria e tastiere, scrive testi. Cresciuto a Pisa, ora abita a Roma e macina un concerto dietro l’altro, al Mei 2016 lo hanno premiato come miglior artista emergente, ha incassato il Premio Tenco per la miglior opera prima con l’album “La fine dei vent’anni” (Sugar) prodotto dal cantautore Riccardo Sinigallia, uno dei più apprezzati discografici italiani. Un racconto tra pop e canzone d’autore sulla scoperta dell’età adulta, affresco ironico e disincantato sul rapporto tra le generazioni. «Mio padre era un comunista / e adesso colleziona cose strane / dice che le amicizie e la rivolta sono vere / solo per chi ha paura e rimane», canta nel brano “Mio padre era un comunista”. «A me la parola indipendente non piace, non ne vedo l’utilità. E non credo che le grandi etichette condizionino le scelte degli artisti», dice Motta. «Negli ultimi anni molte cose sono cambiate. Ora, per fortuna, tanti ragazzi scrivono in italiano, c’è un bel lavoro sui testi. All’inizio, dieci anni fa, anche io scrivevo le mie canzoni in inglese, ma né io né il pubblico capivamo le parole. L’altra grande novità è la voglia di mettere da parte la vergogna e raccontare la propria fragilità». I frammenti autobiografici si accavallano anche nei testi di un altro cantautore: Cosmo. Nome d’arte di Marco Jacopo Bianchi, 34 anni, che dopo aver lasciato la cattedra di italiano e storia in un istituto professionale della sua città, Ivrea, da quasi un anno gira la Penisola per promuovere l’album “L’ultima festa”, che è anche il titolo della canzone che ha totalizzato oltre un milione di streaming su Spotify. Sonorità elettroniche, lunghe fughe strumentali che riecheggiano le vibrazioni dei Subsonica, piemontesi come lui, tanta voglia di divertirsi e far ballare il pubblico ma anche un filo sottile di malinconia che attraversa brani come “Regata 70”. «Nei cassetti in ogni stanza / nei carrelli della Standa / in una Fiat Regata bianca, perché / Era lì, proprio lì a metà degli anni ’80. / E non so dov’è che l’ho perduto. Era un sogno, un miracolo, un errore. / Un destino che non voglio rinnegare. / Eri tu, travestita da mia madre», canta Cosmo, che concluderà il tour di quasi 100 date con un concerto a Ivrea il 24 febbraio, in occasione del Carnevale. Per la copertina del disco ha scelto una foto in bianco e nero che ritrae sua madre Barbara a 16 anni, nel 1977, mentre il booklet del cd e l’interno del vinile contengono vecchie immagini di famiglia. «Sono un vulcano con un sottofondo di malinconia. Per me il riferimento al passato non è uno spunto nostalgico ma un modo per guardarmi dentro», sottolinea il cantautore, che tra i suoi riferimenti musicali cita Brian Eno e il compositore americano Steve Reich, padre del minimalismo. Cosmo è distante anni luce dal Teatro Ariston: «A me non interessa andare a Sanremo, non serve nel mio percorso. Ma non perché sono indie, sporco e cattivo: secondo me è un evento musicale vecchio stampo, che andrebbe cambiato radicalmente». Vista con le lenti di ieri, la realtà di oggi risulta terribilmente sfocata. Certo, le etichette indipendenti esistono ancora e producono i nuovi cantautori. Quelle di vent’anni fa si chiamavano Consorzio Produttori Indipendenti, Materiali Sonori, Vox Pop, Mescal (quella di Afterhours, Subsonica, Carmen Consoli). Sono sopravvissute in poche, ma negli ultimi anni ne sono nate tante altre che adesso innovano la musica italiana: Bomba Dischi e 42 Records a Roma, Garrincha Dischi a Bologna, Woodworm ad Arezzo, Full Heads a Napoli. L’approccio della nuova generazione di cantautori, tuttavia, è profondamente diverso da quello degli anni Novanta. All’epoca andavano fieri della loro diversità rispetto alla musica pop trasmessa dalle radio commerciali, oggi Calcutta intitola il suo album “Mainstream” e ingarbuglia le carte. «Quando il disco è uscito non pensavo di arrivare così lontano, il titolo l’ho scelto perché suonava bene, così come il mio nome Calcutta. Se l’avessi saputo prima il disco l’avrei chiamato, che so, “L’alba dei ciliegi”», scherza Edoardo D’Erme, che oggi abita a Bologna e spopola con canzoni come “Gaetano” («E ho fatto una svastica in centro a Bologna / Ma era solo per litigare / Non volevo far festa e mi serviva un pretesto») e “Frosinone” (Non ho lavato i piatti con lo Svelto e questa è la mia libertà / Ti chiedo scusa se non è lo stesso di tanti anni fa / Leggo il giornale e c’è Papa Francesco / E il Frosinone in Serie A»). Un’ironia che piace ai fan, spiazza, ma non convince i detrattori, piuttosto numerosi. Ad esempio Manuel Agnelli, leader degli Afterhours e giudice del talent show XFactor, in una recente intervista al Fatto Quotidiano ha sparato a zero contro i nuovi cantautori. «L’emblema della debolezza di questa generazione è la sua incapacità di spazzarci via. Aspettavo da anni qualcuno che ci riuscisse: “Spazzateci via invece di criticarci - mi dicevo - spazzateci via con la forza che avete, cambiate le cose, non lasciateci spazio, soffocateci, cancellateci”». Secca la replica di Calcutta: «Non voglio spazzare via Manuel Agnelli, semplicemente perché non lo conosco. Sono felice che faccia concerti a 50 anni, ma voglio percepirmi in un mondo abbastanza grande da poterci ignorare reciprocamente», dice il cantautore: «Non ho mai ascoltato gli Afterhours, non fanno parte del mio background. Quando andavo a scuola, Afterhours e Marlene Kuntz erano sinonimo di omologazione. Io ero diverso: ascoltavo musica internazionale, francese, africana». Sul conflitto tra generazioni, le differenze tra passato e presente, dice la sua anche Dario Sansone, 35 anni, frontman dei Foja, alla vigilia del nuovo tour. «Ho sempre ascoltato storie di musicisti napoletani degli anni Ottanta che in apparenza si stimavano ma in realtà non si sopportavano. Oggi, appena avuto un po’ di bene, abbiamo provato a condividerlo con tutti. Quando facciamo un concerto ci sono almeno dieci ospiti», spiega Sansone, musicista ma anche disegnatore e regista di film d’animazione. I Foja hanno appena pubblicato l’album “O treno che va” con la canzone “Cagnasse tutto”, energica miscela di rock, folk e canzone d’autore napoletana, ospiti alcuni big che guardano con interesse alla scena musicale emergente: Ghigo Renzulli, Edoardo Bennato e Daniele Sepe. Il quartier generale del gruppo si trova a Palazzo Pandola, in piazza del Gesù Nuovo a Napoli, dove fu girato il film “Matrimonio all’italiana” di Vittorio De Sica. In questo edificio settecentesco si trova una vera factory creativa: al primo piano la giovane casa discografica Full Heads, punto di riferimento per i nuovi musicisti partenopei, al secondo la Mad Entertainment, studio di animazioni digitali che ha prodotto il film “L’arte della felicità” di Alessandro Rak. Il regista ha realizzato anche il videoclip di “’O sciore e ’o viento” (un milione e mezzo di visualizzazioni su YouTube) dei Foja. «Sembra che l’indie oggi stia diventando il nuovo mainstream. Penso che Calcutta sia un cantore del suo tempo: lui, Thegiornalisti e The Zen Circus vanno ospiti in tv a “Quelli che il calcio”. Semplicemente perché oggi c’è un nuovo pubblico. Dieci anni fa ai nostri concerti venivano 100 persone, oggi seimila», prosegue Sansone. Se oggi i talent show apparentemente sembrano l’unica via per raggiungere il successo e i discografici fanno a gara per reclutare i personaggi che si distinguono in tv, l’altra musica si fa strada in mille modi per conquistare quel nuovo pubblico. Egreen, nome d’arte di Nicholas Fantini, si è affidato alla piattaforma di crowdfunding Musicraiser. Nato a Bogotà 32 anni fa da padre italiano e madre colombiana, oggi il rapper abita a Busto Arsizio e gira l’Italia con i suoi concerti. Sul web ha raccolto dai seguaci quasi 70mila euro, cifra record per l’Italia, con cui ha prodotto il suo secondo disco ufficiale “Beats & Hate”, andato letteralmente a ruba. Tra gli emergenti di grande talento c’è chi riscopre le origini come il cantautore napoletano Giovanni Block, che nel secondo album “S.P.O.T (senza perdere ’o tiempo)” abbraccia il vernacolo della sua città (Napoli) e fa pensare a Pino Daniele, come nella canzone “Adda venì Baffone”, e c’è chi resta invece nel solco del rock come la triestina Chiara Vidonis al debutto con “Tutto il resto non so dove”, undici brani tutti scritti da lei. E chi infine, come il romano Lucio Leoni, nel suo primo album “Lorem Ipsum” unisce teatro e canzone popolare, rock, improvvisazione strumentale e rap metropolitano. Come nella canzone “A me mi”, una sorta di manifesto generazionale sempre in bilico tra commedia e tragedia. «La mia generazione è incompresa, la mia generazione è morta, la mia generazione è stanca, la mia generazione è finita / Perché, dati Istat alla mano, è compresa nella forchetta temporale che porta dal boom economico immaginario degli anni Ottanta fino alla crisi economica devastante e questa volta reale, degli anni Dieci». Lucio Leoni ci scherza su ma, almeno dal punto di vista musicale, la sua generazione è più viva che mai.
I misteri (svelati) di Ruggeri: «Sanremo? Qualcosa di pilotato». Il cantautore si racconta nel libro «Sono stato più cattivo»: «A 60 anni sono più libero. La cocaina è un ricordo triste: mi drogavo perché avevo i soldi», scrive Pasquale Elia il 5 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera”. Fintanto che era solo una canzone, La giostra della memoria è rimasta ferma lì con tutto il suo carico di aneddoti più o meno sorprendenti. Ma quando poi Enrico Ruggeri ha deciso di metterla in moto, allora ha iniziato a girare macinando ricordi che solo ora possono essere svelati sperando che la loro lontananza nel tempo non irriti nessuno. «Mettere per iscritto la mia vita è stato un percorso molto duro, con momenti di autentico dolore», scrive Ruggeri nell’ultimo capitolo di Sono stato più cattivo, la sua autobiografia di 240 pagine che esce oggi per la Mondadori. «Non mi sono mai aperto veramente con nessuno, fino al momento in cui ho scritto questo libro».
C’è un motivo per cui ha scelto di farlo solo adesso?
«Perché ho compiuto 60 anni e perché probabilmente mi sento meno impacciato nel raccontare di persone che non vivono più in questo mondo e di altre che non vivono più nel mio mondo».
E allora via libera alla giostra della memoria, che smuovendo l’aria spazza via quel velo di polvere che si è posato su decine di amori; sul rapporto difficile con il papà depresso; sulle rogne politiche; sui contrasti con le femministe; sulle grane giudiziarie per via di uno spinello; sui retroscena di una Rai che con lui non si è comportata proprio come una mamma; sulla voglia di sfuggire al conformismo della contestazione degli anni 70; sul sogno di sfondare nella musica seguendo la strada (più scomoda) del punk anziché quella (più comoda) del pop. Peschiamo a casaccio nel mucchio di episodi: nel 1993 con «Mistero» vinse Sanremo e di diritto partecipò all’Eurofestival. È da tempo che circola la voce secondo cui la Rai ha sempre tramato per non aggiudicarsi la manifestazione europea, altrimenti per regolamento avrebbe dovuto ospitare l’edizione successiva...
«Non è per nulla una leggenda. Andai in Irlanda per la gara e la funzionaria che mi accompagnava mi disse: “Sono qui per evitare che lei arrivi primo”. La Rai non voleva spendere tutti quei quattrini per organizzare l’evento di cui forse non le importava granché, visto che da noi non faceva grandi ascolti in tv».
Nel 2003 torna a Sanremo in coppia con la sua attuale compagna Andrea Mirò e nell’autobiografia svela un inquietante retroscena.
«Però vero. Una nota signora dello spettacolo convinse tutta la giuria di qualità a darci zero per aprire la strada del podio a un suo amico».
Il nome?
«Non lo faccio nemmeno nel libro, ma basta andare a spulciare le cronache di allora per scoprire di chi si tratta».
Non ha timore di gettare discredito su un monumento nazionale come il Festival?
«Ma io non parlo di frode, piuttosto faccio intendere che magari c’è qualcosa di pilotato. Basta comporre le giurie in un certo modo o far chiudere il televoto a una certa ora e il gioco è fatto. E non credo che esista nemmeno il sistema perfetto per evitare dubbi sull’esito della gara. D’altronde Sanremo fa girare milioni di interessi e qualcuno quel benedetto trofeo se lo deve pur portare a casa».
Malgrado l’età più matura, non sembra disposto a concedere molto spazio alla diplomazia. Pentito di questo suo carattere?
«Sono fatto così... Quando mi ribellavo alle mode politiche dell’epoca era perché non sopportavo le imposizioni e perché ero convinto che bisognasse scandalizzare il sistema».
A restare scandalizzato invece fu lei quando nel ‘76 al Palalido di Milano fu tra i testimoni degli assalti degli autonomi a Lou Reed e a Francesco De Gregori.
«La musica non dovrebbe essere toccata. E in quelle occasioni ho assistito al trionfo dell’ottusità: ma come si poteva accusare Lou Reed di nazismo o De Gregori di essere un borghese?».
Lei è stato spesso accostato alla destra.
«Solo perché mi rifiutavo di far parte di un certo establishment che governava Milano».
A lei piaceva anche provocare: scrisse un brano contro le femministe...
«Avevo 19 anni e quello sberleffo mi divertiva».
Ha avuto molti rapporti, da Mariangela D’Abbraccio a Loredana Bertè. Però c’è stata una donna, non così famosa, che l’ha fatta soffrire, a cui ha dedicato «Contessa» ai tempi dei Decibel.
«Quando si scrivono certi brani è come cadere in uno stato di trance: liberi la mente e cerchi di girare alla larga dalla didascalia, nemico principale delle canzoni».
Peraltro circolava un’interpretazione sbagliata di «Contessa».
«Era stato letto come un pezzo legato al mondo di Renato Zero. Niente di vero, ma l’accostamento mi piaceva e non feci nessuna smentita».
Nel suo archivio di guai non mancano le droghe.
«Per colpa di uno spinello finii sotto processo, ma poi fortunatamente fui assolto. Quella storia adesso fa ridere, ma era un’Italia diversa».
E la cocaina?
«In quel caso la faccenda poteva diventare più seria: avevo un mucchio di soldi da spendere e quella polvere era parte integrante della vita sociale di Milano. Ma un giorno decisi di smettere e non l’ho mai più toccata. La cosa che ricordo con più tristezza di quel periodo è che si creava complicità con persone di cui, in uno stato di lucidità, non sarei mai stato amico».
RAI. LA LIBERTA’ IMPOSSIBILE.
Rai, "tessere", Grillo e ciarlatani. La soave perfidia di Piero Angela. Il conduttore racconta vita e carriera, con qualche frecciata sul "servizio pubblico": i tg sono farlocchi, la cultura non interessa e le pseudoscienze sono pericolose..., scrive Massimiliano Parente, Martedì 06/06/2017, su "Il Giornale". Il mio nonno ideale è Piero Angela, se potessi gli chiederei di adottarmi. Novant'anni compiuti, gentile, sorridente, un gran signore, e mica uno di quelli che ti annoiano parlando della lotta partigiana. Con lui trascorrerei molte notti a parlare di astrofisica e biologia, di buchi neri e di evoluzione, di elettroni e relatività ristretta e generale, e poi soprattutto, sebbene a vederlo possa sembrare il contrario, non è uno che le manda a dire, insomma c'è da divertirsi. L'ho scoperto leggendo Il mio lungo viaggio (Mondadori), un'autobiografia per niente pomposa, leggera e cordiale e umile come il suo autore. Certo, nonno Piero ci racconta l'infanzia, la passione per la scienza, i primi libri letti, le prime esperienze come giornalista, i lunghi viaggi come inviato, la nascita di Quark e Superquark, ma le chicche sono i sassolini che si toglie elegantemente dalla scarpa, che è nella fattispecie un mocassino tirato a lucido. Tanto per cominciare sulla Rai nonno Piero scoperchia un mondo tristissimo, con una burocrazia mostruosa e un regolamento dove «quasi tutto era servizio pubblico, perfino le telenovelas», e dove nessuno è mai stato interessato a fare programmi culturali di qualità, nonostante sia previsto dal contratto di servizio, «un contratto che viene rinnovato ogni tre anni, ma che praticamente nessuno conosce, se non gli addetti ai lavori». I quali se ne fottono. Sappiate che in Rai vigono le raccomandazioni (si sapeva, ma qui lo ribadisce un pezzo da novanta e dall'interno) e nonno Piero non le ha mai accettate, come non accettò di dirigere telegiornali della Rai dopo il 1969 perché la Rai è sempre lottizzata, e accettarne l'incarico significa perdere ogni autonomia. Inoltre capì che «mi interessava occuparmi non di dieci notizie al giorno, ma di una notizia in un anno», ossia approfondire cose importanti. In seguito Letizia Moratti gli propose anche di dirigere una rete, e per sapere cosa rispose mio nonno basta leggere il capitolo intitolato «Direttore di rete? No, grazie». Sull'omeopatie e medicine alternative nonno Piero ci va giù duro, perché «le scienze e le pseudoscienze hanno invaso sempre più il campo della medicina», e una sua puntata contro l'omeopatia lo ha portato perfino in tribunale, a difendersi perché non aveva dato voce agli omeopati. Difesa fantastica: «La scienza non è democratica».
Secondo nonno, tra l'altro, Piero i telegiornali sono tutti farlocchi, più interessati allo spettacolo che a far comprendere le cose, perché, per dire, «quanto capisce il pubblico delle immagini di uomini politici che si incontrano a Bruxelles o altrove, scendendo dalla auto e stringendosi le mani, mentre il testo racconta tutt'altro, cercando di riassumere in poche frasi argomenti molto complessi?». Cosa manca alla tv pubblica italiana? Il ragionamento, mentre i dibattiti sono fondati sulla rissa, una rissa calcolata «perché sappiamo bene che, se si invitano certi personaggi in studio, la lite è assicurata (e l'ascolto guadagna)». Invece difende Mike Bongiorno, il suo modo rivoluzionario di comunicare (cosa che all'epoca non ha capito neppure l'amico Umberto Eco quando scrisse la famosa Fenomenologia di Mike Bongiorno), «e mi ha sempre dato fastidio il tono sarcastico e irridente con cui alcuni ne parlavano». Chi era Mike Bongiorno invece? «Uno che sapeva augurare Buon Natale». Cosa difficilissima. E quando Berlusconi lo rubò alla Rai fu «come rapire Babbo Natale: Bongiorno era LA televisione». Nonno Piero è molto liberale, e quando andò in Unione Sovietica rimase colpito dalla burocrazia. Tuttavia, dice, non era poi molto differente dall'Italia: «Crediamo di vivere in un'economia di mercato, ma in realtà abbiamo in casa anche l'Unione Sovietica: la Burocrazia». Non so cosa pensi nonno Piero del Movimento Cinque Stelle ma adesso so cosa pensa di Beppe Grillo. Infatti vent'anni fa nonno Piero propose a Grillo una serie tv dove i suoi temi ecologici fossero divulgati ma verificati scientificamente, e Grillo rifiutò. E ecco la stilettata di nonno Piero: «Forse temeva che la verifica scientifica avrebbe smorzato l'effetto teatrale delle sue argomentazioni». In sostanza Grillo è un cialtrone che non accetta contro-argomentazioni serie. Non è cambiato molto dall'epoca. D'altra parte nonno Piero ha fondato il Cicap (il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), ha smascherato chiromanti e stregoni, veggenti e guaritori, figuriamoci se non smascherava Grillo. C'è anche, in questa deliziosa autobiografia, del gossip e del mistero, perché nonno Piero, parlando di Silvio Berlusconi, dice di averlo incontrato la prima volta in una toilette di un ristorante milanese «dove entrambi eravamo andati a far pipì. Mi intrattenne a lungo raccontandomi cose interessanti (e anche delicate)», insomma le cose interessanti erano la Finivest, ma quelle delicate? La prostata? Non pensiate, infine, che nonno Piero sia come quelli della Rai con contratti milionari, tipo Fabio Fazio. Perché lui lavora senza prendere un euro dalla Rai, tutta quella scienza e cultura che ci dà non ci costa niente. Infatti, dice nonno Piero «io per la Rai lavoro gratis! Perché i compensi che ho ricevuto sono equivalenti alle somme che la Rai ha incassato per l'utilizzo commerciale dei programmi». Dove lo trovate, un nonno così.
Per Flavio Insinna un fuori onda fatale e letale come un’onda anomala, dice e scrive Gianluca Nicoletti il 31/05/2017 su “La Stampa". «Nessuno di noi mortali dovrebbe augurarsi di giungere un giorno a sentirsi sulla cresta dell’onda, perché solo allora potrebbe essere bersaglio di un letale fuori onda. E’ una massima di saggezza che ci è stata suggerita dalla messa in onda quotidiana di una nuova puntata dei fuori onda di Flavio Insinna. Un fuori onda fatale e letale come un’onda anomala quello provocato dall’acqua minerale che lui pubblicizzava, e di cui lo spot è stato fatto fuori dalla messa in onda, sempre per colpa di un fuori onda. Il fuori onda addirittura è stato capace di colpire Insinna, quando lucidamente tentò una vendetta fuori onda. Ora lui rischia una denuncia per quel fuori onda che lui consegnò alla rete quando tentò di difendersi da un Tapiro, che volevano dargli sempre per i fuori onda trasmessi da Striscia la notizia. Non cerchiamo la fama che ci darebbe una messa in onda, ma ricordiamoci di ciò che accadde a Flavio Insinna, l’uomo di cui si dirà “fu fatto fuori mentre cavalcava l’onda in maniera atroce e lenta per un fuori onda».
Che pacco Affari tuoi. "Il tarocco fallisce e Insinna si infuria..." Il tg satirico di Canale 5 svela il motivo per cui l'attore si sarebbe arrabbiato con la signora valdostana, scrive Laura Rio, Giovedì 01/06/2017, su "Il Giornale". Ecco l'affondo finale di Antonio Ricci, l'ultimo atto di una guerra che sta combattendo dal lontano 2003, da quando un giochino di pacchi e vincite in denaro ha osato sfidare il tg satirico di Canale 5. Ieri sera Striscia la notizia, condotta da Ficarra e Picone, ha mostrato il motivo per cui Flavio Insinna avrebbe sbroccato contro la signora valdostana, ormai purtroppo nota come «nana di merda», in uno dei tanti momenti di stizza e rabbia che si sono visti nelle registrazioni mostrate in questi giorni. Il motivo? Il tarocco, il peccato mortale per una televisione pubblica, soprattutto se va in concorrenza con un programma che da quasi trent'anni si pone il compito di svelare magagne, imbrogli e malcostumi sociali. Insomma, in base ai fuori onda in possesso di Striscia, l'irritazione del conduttore di Affari tuoi derivava dal fatto che, nei minuti finali della puntata in questione, la signora non avrebbe scelto di aprire il pacco più ricco. Fatto - la vincita alta - che farebbe alzare gli ascolti del game di Raiuno. «Come è noto - si dice nel servizio del Tg satirico - la numerologia è sempre stata ad Affari Tuoi la chiave per il tarocco. Insomma, per pilotare le puntate bisogna conoscere i numeri fortunati degli ignari concorrenti che gli autori abilmente si fanno dire durante il provino. Il numero fortunato della signora della Valle D'Aosta è il 7. E quella sera, casualissimamente, proprio nel pacco sette, il pacco ricco, ci sono 150.000 euro. A questo punto tutti sono fiduciosi che il pacco ricco rimarrà fino al termine della puntata, spettacolarizzando il finale e facendo crescere gli ascolti. Ma la signora rovina tutto accettando l'offerta di 45.000 euro della dottoressa. La puntata a questo punto è rovinata. Nel fuori onda, infatti, Insinna dice cosa avrebbero dovuto fare i responsabili del programma: interrompere la registrazione e convincere, anche con la violenza, la concorrente valdostana a rifiutare l'offerta della dottoressa e a rientrare in gioco per salvare il finale acchiappa ascolti... Quindi, Flavio Insinna si arrabbia perché non riesce a far vincere 150.000 euro di soldi pubblici a una concorrente». Conclusione: «Capito come si gestisce il denaro per un punticino in più di share? Questi sono il professionismo e l'impegno di Insinna, con la copertura della Rai». Insomma, come sempre, il «perfido» Ricci è riuscito nel suo intento: colpire Affari tuoi e colpire un uomo che, in apparenza, si ammanta di essere un buon cittadino salvo poi nascondere un carattere violento. Quello che sempre fa Striscia. Forse, però, in questo caso, viste le reazioni scomposte e l'evidente sofferenza di Insinna (la Rocchetta ha anche fermato il suo spot Brio blu), sarebbe il caso di fermarsi. L'altra sera, il presentatore, tornato a Carta Bianca, dopo la famosa apparizione in cui parlava di impegno civile che ha scatenato la reazione indignata di Ricci, non è riuscito a esprimersi in maniera coerente, così come era successo nella diretta via Facebook di alcuni giorni prima. Confuso, affannato e stressato, ha negato quello che aveva il giorno prima accennato in un'intervista al Corriere della Sera e cioè che voleva buttarsi in politica: «Non voglio fare politica - si è sconfessato parlando con Bianca Berlinguer - Ho i malati, ho Emergency, ho la comunità di Sant'Egidio. Questa è la mia politica». E non è riuscito neppure a scusarsi bene con la concorrente «nana», aggiungendo sempre dei «ma» e dei «distinguo» e confessando di non aver provato a mettersi in contatto con lei. La confusione mentale è forte. «Secondo te ti perdonerà?» - ha chiesto la Berlinguer - Mi ha perdonato Nostro Signore sulla croce», ha replicato Insinna. Dunque, sarebbe bene che il presentatore si astenesse da intervenire nuovamente in queste condizioni. Può solo sperare che Ricci si senta abbastanza appagato dalle sue vittorie o che abbia finito le registrazioni a sua disposizione.
Ancora accuse contro Insinna: “Mi disse che i bambini down non sarebbero mai stati felici”. Striscia la Notizia continua ad attaccare Flavio Insinna, stavolta con la testimonianza di una signora che tentò di avvicinarlo per un progetto benefico. La donna ha raccontato di essere stata aggredita verbalmente dal conduttore, scrive il 26 maggio 2017 Valeria Morini su "Fan Page". Come annunciato, Striscia la Notizia è tornata a parlare del caso di Flavio Insinna, di cui ha mostrato nuovi filmati. Dopo i fuorionda dei giorni scorsi in cui il conduttore insultava pesantemente una concorrente in una vecchia puntata di Affari Tuoi, ecco una nuova testimonianza che rischia di rovinare definitivamente l'immagine del conduttore Rai. Moreno Morello ha incontrato una signora con cui Insinna ebbe un incontro tempo fa, incontro per lei decisamente traumatizzante. Così ha raccontato la donna: Avevo contattato la sorella di Insinna per coinvolgerlo in un progetto di una onlus. Mi trovavo all'uscita dal teatro in cui aveva fatto uno spettacolo, per portargli una busta con tutto il materiale. Sono entrata in camerino e mi sono presentata. Lui ha iniziato a urlare e io non riuscivo a spiegarmi. A quel punto ha aperto la busta, mentre io cerco di spiegare che si tratta di uno spettacolo di ragazzi down. Ha iniziato a sbraitare dicendo: "Credi che questi ragazzi saranno mai felici?". Poi è uscito urlando e raccontando a tutti la beneficenza che aveva fatto in passato. Le persone presenti, che erano lì per un autografo, sono scappate via. Striscia ha quindi mandato in onda altri fuorionda da una puntata di Affari Tuoi del 23 novembre 2016, in cui Insinna litiga pesantemente con gli autori del programma e arriva a lanciare quella che, stando a quanto riportato dalle persone presenti davanti al monitor, sarebbe stata una bestemmia. La guerra di Striscia contro il conduttore non sembra dunque destinata a fermarsi, benché lo stesso Insinna si sia scusato pubblicamente definendo però i servizi del tg satirico "pornografia televisiva" fatta allo scopo di "cercare qualche straccio di punto di ascolto in più".
Le accuse a Ezio Greggio e Michelle Hunziker: ecco come si difendeva Flavio Insinna nel 2015. La faida tra Flavio Insinna e Striscia la Notizia non è certo iniziata con i video di maggio. Era il 2015 quando Valerio Staffelli intercettava Flavio Insinna cercando di consegnarli il Tapiro D'Oro. Quel video durante il quale Flavio Insinna rifiutava il Tapiro da Staffelli non andò mai in onda. Ora è il conduttore di Affari Tuoi che imbraccia quel video per accusare Striscia la Notizia di utilizzare due pesi e due misure in fatto di giustizia.
Insinna: "Violenza contro di me", e Rocchetta sospende lo spot Brio Blu, scrive Zaccaria Arrigo il 2 Giugno 2017 su Reggio Prima Pagina. Così Flavio Insinna, protagonista in questi giorni di un duro botta e risposta con 'Striscia la notizia', in una lunga intervista con Bianca Berlinguer a 'Carta Bianca' su Rai3. Quelle dichiarazioni erano state più volte riprese dal programma di Antonio Ricci prima di trasmettere le sfuriate del conduttore Rai contro concorrenti e collaboratori, a suon di insulti e attacchi verbali diventati tormentoni del web come "nana di merda", riferito a una concorrente della Valle d'Aosta. "La violenza contro di me - ha aggiunto Insinna - inizia dopo il successo in questo programma, una violenza che non ha precedenti". 'Quella che mi sta succedendo è una roba violentissima. Io ho detto delle cose giuste in maniera sbagliata. La Rai e questo Paese deve ritrovare il coraggio" ha affermato Insinna che, parlando del suo programma, ha sottolineato: "Gli operai di 'Affari Tuoi' mi hanno detto che non hanno mai lavorato con una persona più onesta e appassionata di me. Ci rammarichiamo per quanto successo, anche noi siamo rimasti stupefatti. Denuncia che senz'altro arriverà dopo che qualche sera fa, su Facebook, ha dato dell'evasore fiscale a Ezio Greggio, nel disperato tentativo di difendersi. A questo punto tutti sono fiduciosi che il pacco ricco rimarrà fino al termine della puntata, spettacolarizzando il finale e facendo crescere gli ascolti. La conferma che Striscia non ha mai diffamato Affari tuoi, ma si è limitata a fare quello che è il suo mestiere da 29 anni: "mettere in luce i tarocchi, i taroccatori e i loro fiancheggiatori". Eppure Insinna, a #Cartabianca, insiste: "Io pagherei per conoscere il motivo di questo odio di Striscia". Ci sono dei registi che mi adorano e altri che mi odiano. La prima si è conclusa con la sentenza del gup del tribunale di Roma Tiziana Coccoluto, risalente al 14 ottobre 2013, che rileva: "L'intero format di Affari Tuoi aveva scelto tecniche procedurali e tecniche di controllo che non garantivano la dovuta trasparenza". C'entra forse il fatto che ai colloqui con i concorrenti vengano chiesti i "numeri fortunati" e la cifra di cui hanno assolutamente bisogno? Quando si sceglie di essere un personaggio pubblico, si sceglie anche di essere nel mirino, sotto i riflettori.
Insinna chiedo scusa a tutti, scrive Giuda Pantalone mercoledì 31 maggio 2017. E ancora, "io litigo, sbaglio, grido, bestemmio ma poi la mia vita è un'altra, faccio e dico quello che penso, c'è una coerenza, non pugnalo nessuno alle spalle, posso andare a testa alta anche in giorni difficili come questo", spiega il conduttore, puntando il dito contro coloro che lo insultano sui social, contro "un paese ipocrita che si diverte a scrivere" e contro chi lo ha diffamato. Ho sempre pensato a quello studio come ad una casa, ad Affari Tuoi come ad una famiglia, poi sono usciti i video e gli audio ma anche i Borgia o i Riina sono una famiglia. "Era un continuo sproloquio, umiliava i suoi collaboratori, ci sono state delle bestemmia e delle battute". Non sarò un buono, ma sono una persona perbene. Ma nella giornata di oggi è uscita una sua intervista sul quotidiano Il Corriere della Sera, nella quale si è tolto qualche sassolino dalla scarpa. Il punto centrale della questione, a parte i metodi utilizzati dal tg satirico di Canale5, restano però le frasi poco carine che Insinna ha riservato all'ormai nota concorrente della Valle d'Aosta, definita "nana di merda". Nel frattempo, Insinna sarà ospite del programma Carta bianca per raccontare la sua verità e dire cosa è realmente successo e mettere la parola fine, si spera, a tutto questo. Ho sempre difeso un programma che amo, ingiustamente infangato da anni, sempre e comunque. Tutti sono a conoscenza di questo lato oscuro mostrato da Flavio. Se adesso vi aspettate una lista di mie buone azioni, mi spiace, resterete delusi. E adesso il pensiero non gli sembra così malsano: "Sa che le dico?" E ancora, aggiunge: "Quella contro di me non è solo una campagna di odio puro". La libertà di essere ai vostri e ai miei occhi semplicemente una persona. Ora la sua vita potrebbe essere ad una drastica svolta e al CorSera ha confessato che starebbe pensando di lasciare la tv e intraprendere una nuova avventura. "Non mi è sembrata una cosa molto delicata, visto che è una malattia di nome alopecia". "Ezio Greggio non solo non ha mai evaso le imposte, sempre pagate in Italia fino all'ultimo centesimo, ma, chiariti i passati equivoci, intrattiene un rapporto corretto e trasparente con le istituzioni fiscali". "Un giorno raggiunse il massimo dicendo "Come pubblico mi fate schifo, io da domani vi caccio via tutti, vado a Lampedusa, prendo i negri, li metto qua e gli do 5 euro per uno, così risparmiamo pure".
«Striscia» a Insinna: quei fuori onda giravano da anni sui cellulari. «Non si contano i suoi flop: l’uomo solo al comando ha prodotto più danni che benefici», scrive il 31 maggio 2017 "Il Corriere della Sera". Dopo l’intervista rilasciata da Flavio Insinna al Corriere continua il batti e ribatti che da qualche giorno contrappone il conduttore televisivo al programma Striscia la Notizia, il cui ufficio stampa ha preso carta e penna e ha inviato una lunga e dura replica. «Insinna polemizza con l’uso del termine “femminicidio” ma evita di ammettere un fatto molto facilmente verificabile, basta andare a pagina 88 del suo libro Neanche un morso all’orecchio (Mondadori) - scrivono da Striscia la Notizia - dove si legge del suo odio per l’infermiera della terapia intensiva dov’è ricoverato il padre, e che lui minaccia, appunto, di femminicidio: “Brutta nana str... se provi a denunciarmi io domani torno e ti ammazzo con le mie mani”. È stato lui a scrivere quelle parole e a confermarle in un’intervista, non qualche suo nemico». Striscia cita numerosi passaggi dell’intervista e passa all’attacco. «Insinna sostiene che Antonio Ricci ce l’avrebbe con lui perché ha avuto “l’ardire di condurre un programma che andava in onda nel suo stesso orario” - dicono dal tg satirico -. Non dice però che Striscia ha sempre avuto dei competitor, da Enzo Biagi a Simona Ventura, da Antonella Clerici a Fabrizio Frizzi, da Pupo a Max Giusti fino ad Amadeus, ma con nessuno c’è mai stato alcuno screzio». Inoltre, viene ribadito «come risulta evidente dai fuori onda trasmessi da Striscia, Insinna spingeva per taroccare ulteriormente per qualche punto di share in più, eliminando “la scatola X” e modificando la selezione dei concorrenti». Lo scontro è duro. «Il conduttore - dicono da Striscia - chiedeva esplicitamente di ignorare il sorteggio (previsto dal regolamento) per scegliere concorrenti più “simpatici” (“Hanno truccato le votazioni per fare la Repubblica, se no rivotavano la monarchia, e noi non possiamo mettere nella busta cinque simpatici?”). E Affari tuoi non era un giochetto ma una trasmissione in cui si poteva arrivare a vincere anche 500 mila euro». Solo su un punto Striscia concorda con le parole di Flavio Insinna. «L’unica cosa vera detta da Insinna è che Striscia ha deciso di intervenire, anche se Affari tuoi ha chiuso, proprio per l’eco che ha avuto l’intervista a Carta Bianca, con la quale il consumato attore dei pacchi ha sedotto giornalisti, politici e telespettatori. Del tutto falso, però, il suo stupore per l’esistenza di quei fuori onda che circolavano gratuitamente, di telefonino in telefonino, da un paio d’anni e che sono arrivati a Striscia. Si può aggiungere che l’esaltazione dell’uomo solo al comando, evidente nelle parole del conduttore, ha dimostrato di produrre molti più disastri che benefici. Nell’ultimo anno non si contano i flop di Flavio Insinna». Ieri sera a Carta Bianca Insinna ha ribadito: «Rivendico la serietà della Rai e Affari Tuoi è un gioco onesto».
Pupo contro Insinna: "Offeso dalle parole sui nani", scrive Alma Stavola il 31 Maggio 2017 su "Alghero News". L'ultimo attacco al conduttore arriva stamattina da Pupo che, tramite l'hashtag #naniuniti, lancia una campagna in difesa della concorrente definita dal presentatore romano "nana di merda". Il cantante infatti si schiera dalla parte di Striscia La Notizia contro Insinna che lo ha succeduto alla conduzione di Affari Tuoi. Parola di Pupo, che tra il serio e il faceto prende posizione contro Flavio Insinna. "Ciò che più mi ha dato fastidio nella diatriba Insinna vs Striscia, non è l'ipocrisia, l'arroganza e nemmeno le scuse, non si sa quanto siano poi sincere..." È ormai passata una settimana dal quando il 23 Maggio scorso il Tg satirico Striscia la Notizia, condotto da Ficarra e Picone, ha diffuso dei fuorionda a dir poco sconcertanti su Falvio Insinna, ma la questione non sembra volersi placare. Così scrive Pupo su La Nazione: "Ciò che mi ha colpito è l'accanimento di Flavio Insinna verso la già naturalmente colpita categoria dei nani". Io che, pur essendo il più alto della specie, ne faccio comunque parte, mi sono sentito coinvolto e offeso. "Ho addirittura pensato - continua - nel caso la 'povera' "Nana Muta" della Val D'Aosta decidesse di adire per le vie legali, di costituirmi parte civile e chiedere a Flavio Insinna i danni morali". Lo chiamerò Insinnolo, l'ottavo nano. Non solo, visto che poi Pupo ha chiesto ad addetti ai lavori di tirare fuori materiale e registrazioni scottanti, per un motivo: "La gente vuole vederci chiaro e sapere di che pasta sono fatti i loro beniamini" Pupo non pare voler perdonare Insinna: "Più che una punizione dalla Rai meriterebbe di vivere da nano, minimo per un anno. Quello imprevedibile e incazzoso", chiosa. Intervistato da Jummy Ghione, il signor Fabio ha confermato come sproloqui, parolacce e sfuriate fossero all'ordine del giorno: "Io sono stato lì per 4 mesi, dalle ore 14 alle ore 20 e posso assicurare che c'era un continuo sproloquio, uno stillicidio continuo di parolacce, urla, insulti e bestemmie...", ha detto il signor Fabio aggiungendo come queste fossero rivolte allo staff dalle truccatrici ai costumisti.
Striscia, la Cuccarini difende Insinna: “Quello che gli è successo è gravissimo”, scrive Ginevra Sorrentino venerdì 2 giugno 2017 su "Il Secolo d’Italia". Una saga interminabile, quella che ha visto coinvolto il conduttore Flavio Insinna, agnello sacrificale sull’altare degli ascolti, immolato da Striscia e compagni a furor di fuori onda. E così, in una sorta di crociata social che, a suon di post e recriminazioni, di dichiarazioni e smentite, accuse e giustificazioni, sostenitori e detrattori del mattatore di Affari tuoi imperversano da settimane sul web. Non poteva mancare all’appello Lorella Cuccarini, una delle donne di punta di viale Mazzini, che in un video appena postato su Youtube, ripreso da una videointervista concessa al Corriere della sera, da un lato non nega l’imprescindibilità dei social, ma dall’altro si discosta dal potenziale di negatività e di orrore scandalistico che post e videomessaggi hanno esercitato in tutta la vicenda che ha visto Striscia la notizia colpire, e Flavio Insinna, affondare ( in un mare di insulti, prima sferrati e poi subiti). Una guerra all’ultimo post, all’ultima accusa, all’ultima recriminazione, all’ultimo atto censurato o censurabile, che sul campo lascia buon gusto e senso del limite. “Quello che gli è successo è una cosa gravissima”, ha rilanciato la Cuccarini difendendo il collega e amico, bersaglio prediletto di haters e internauti folli. Una fronda, quella contro Insinna, partita in tv e arrivata a insostenibili apici di aggressività e violenza verbale sui social network. Una battaglia per gli ascolti – sostiene Insinna -; per la correttezza nella conduzione di un gioco del prime time, replica Striscia, che sul web ha sacrificato, tra servizi mandati in onda, video rubati e immagini censurate a cui il web ha dato una nuova vita (e messa in onda), un’occasione importante: quella che avrebbe potuto fare sì che la cattiva maestra tv tiuscisse, almeno per una volta, a impartire una lezione “diversa” ai suoi alunni ed eredi social. Tutto sprecato in nome dell’Auditel: e così piccolo schermo e Rete, in questi giorni, stanno continuando a dare il peggio di loro. Continuerà ancora per molto?
Nino Frassica difende Flavio Insinna attaccando Striscia la Notizia, scrive Angela Sorrentino il 3 Giugno 2017. L’attacco di Striscia la Notizia a Flavio Insinna è stato durissimo, colpendolo non solo nella sua veste di conduttore, ma anche e soprattutto in quella di uomo, che si è sempre nascosto dietro una facciata di falso buonista, celando invece una natura ben differente. Insinna ci ha messo la faccia, si è difeso, ma certamente il colpo inferto lo ha danneggiato moltissimo, tanto che persino il marchio di acqua minerale che l’ex conduttore di Affari Tuoi sponsorizzava, ha preferito ritirare lo spot che lo vedeva protagonista. Molti personaggi Rai hanno espresso la loro vicinanza al conduttore, limitandosi però in molti casi a qualche messaggio di rito sui social, ma l’attore Nino Frassica si è voluto schierare apertamente, avendo collaborato anche recentemente con Insinna, ed evidentemente non avendo riscontrato tutta questa cattiveria in lui. L’attore siciliano non ha gradito in particolare le critiche a un altro programma di Insinna, “Dopo-fiction”, e così ha deciso di rispondere. Dopo Fiction è un programma di Rai 1 andato in onda in seconda serata, ogni giovedì sera, dal 16 febbraio al 13 aprile 2017. “Ieri sera a striscia Staffelli ha detto che DOPOFICTION l’hanno visto solo i parenti di Flavio Insinna, non sapendo che i parenti di Flavio Insinna sono tantissimi quasi il doppio dei telespettatori di Canale 5”, ha affermato Frassica. Poi l’affondo: “Le puntate di Dopofiction dovevano essere solo 8. Subito dopo la quarta puntata ci è stato chiesto di continuare ancora (cosa che succede raramente) ma noi abbiamo potuto fare solo una puntata in più. Ci hanno chiesto di riprendere subito con la nuova stagione ma per impegni già presi non possiamo subito. Ma torneremo. Grazie Rai1. E grazie al numeroso pubblico, anzi mi correggo, grazie ai numerosi parenti di Flavio Insinna”. Nei giorni scorsi il conduttore televisivo aveva incassato il sostegno degli ex concorrenti di Affari tuoi attraverso un post pubblicato su Facebook. "Noi che ti abbiamo conosciuto sappiamo che sei una persona corretta e leale". I protagonisti del gioco a premi hanno chiuso il commento social lanciando l’hashtag "io sto con Flavio". Successivamente un ex dipendente ha raccontato che l’attore durante le riprese di “Ho sposato uno sbirro” si preoccupava di far arrivare due carrelli di hot dog e granite a sue spese e la mattina arrivava sul set portando sempre due contenitori pieni di cornetti ed altri dolciumi. Anche i ragazzi dell’Associazione Futuro hanno manifestato la loro solidarietà nei confronti dell’attore: "Siamo molto dispiaciuti per quello che sta accadendo", sottolineando come con loro Insinna si sia sempre dimostrato generoso e disponibile.
Affari Tuoi: concorrenti in difesa di Flavio Insinna, "sei onesto", scrive il 2 giugno 2017 Daniele Orlandi. Alcuni concorrenti di Affari Tuoi hanno pubblicamente difeso Flavio Insinna, dopo il caso sollevato da Striscia. Il loro messaggio. Lo scontro tra Striscia La Notizia ed il conduttore di Affari Tuoi Flavio Insinna ha tenuto banco per tutta la settimana. Del resto le offese che Insinna ha rivolto ad alcuni concorrenti, registrate nel corso di alcuni fuori onda e trasmesse dal tg satirico di Antonio Ricci, erano troppo pesante per passare inosservate e hanno generato un’ondata di indignazione nei confronti della ‘doppia faccia’ del presentatore di casa Rai, apparso molto diverso per il suo modo di porsi e di parlare, rispetto a come lo si vede in televisione solitamente. In tanti dunque si sono schierati contro insinna non lesinando in critiche e commenti negativi nei suoi confronti ma c’è anche chi ha voluto difenderlo. Come diversi concorrenti della trasmissione dei pacchi che hanno voluto esprimere solidarietà al conduttore, con un messaggio pubblicato su Facebook, sottolineando la sua onestà e correttezza professionale, ritenendo che sfogarsi in un fuori onda sia umano. “Caro Flavio – si legge nel messaggio – chi come noi concorrenti, ha avuto il piacere di conoscerti, ha capito bene che persona onesta e corretta sei. Tante volte abbiamo notato che non hai mai messo in difficoltà concorrenti in imbarazzo o che non si comportavano molto bene. Non hai mai messo in ridicolo nessuno ed avresti potuto farlo, come fanno tanti tuoi colleghi. È umano qualche volta sfogarsi con amici e colleghi in privato. Probabilmente non tutti, all’interno del tuo gruppo di lavoro, sono stati tuoi amici. Volevamo farti sapere che siamo con te. Un caro saluto da tutti noi e prosegui sempre fiero di te stesso! #iostoconFlavio”. Oltre al messaggio i concorrenti hanno postato una foto collage con i loro volti e tutti i nomi di chi ha voluto pubblicamente sostenere Flavio Insinna: “Duilio Cagnoni, Ascanio Pagliochini, To Agne, Melina Russo, Isabella Pastrello, Brigida Tardino, Carmelina Saviano, Laura Murgo, Rita Manocchio, Claudia Marcomeni, Ivana D’Angelo, Carmen Perilla, Angela Scali, Palmina Marotto Gianardi, Claudia Cattaneo, Anna Maria Borgogno, Gabriella Ruggiero, Marina Panichi, Paolo Caggiati, Emilia Ferraro, Alessia Marliani, Giampaolo Croci, Francesca Verderosa, Giusy Zaccone, Lucia Rita Catalfamo, Giorgia Ronzino, Antonio Sasso. E ancora Vito Anelli, De Pinto Luciana,Angela Cacace Di Giovanni, Grazia Silvia Castagnolo, Simona Genovese, Salvatore Monaco, Daniela Bertellotti, Armando Fazzolari, Anna Armato, Virginia Apicella, Cristina Greco, Etta Orietta Pollastri, Mariateresa De Cicco, Sonia Colasanti, Giuseppe Pellegrini, Maria Esposito, Davide Busana”. A loro Insinna ha risposto sempre via web con un Grazie.
Rocchetta fa la moralista con Insinna ma dimentica i suoi peccati, scrive Enrico Cinotti il 2 giugno 2017 su "Il Salvagente". Cogedi, la società proprietaria dell’acqua Brio Blu Rocchetta ha sospeso gli spot televisivi dove Flavio Insinna era il testimonial. Il motivo? L’ha spiegato la stessa società rispondendo a una delle tante mail inviate dai clienti per protesta: “Siamo rimasti stupefatti da quanto trasmesso da Striscia la Notizia in merito a comportamenti assunti dal signor Flavio Insinna nel contesto del programma Affari Tuoi. Desideriamo comunque informare che la trasmissione, in ogni sede, dei nostri spot con il signor Insinna è stata immediatamente sospesa”. Non solo, Cogedi non avrebbe escluso ripercussioni sul contratto in essere con il presentatore televisivo. Non vogliamo entrare nella tenzone che si è aperta tra Insinna e il tg satirico di Antonio Ricci: gli audio “rubati” al presentatore di Affari Tuoi svelano solo l’anima iraconda di una persona che tuttavia si è distinta per la sua generosità (ha donato il suo motoscafo a una Ong che opera nel Mediterraneo per soccorrere i migranti) e per il volontariato con Emergency e la Comunità di Sant’Egidio. Insinna si è pure scusato pubblicamente. Ci domandiamo perché “cacciarlo” dagli spot? Perché ha offeso una concorrente? E allora cosa dovrebbero fare i consumatori italiani con le “acque della salute” definite cosi dal gruppo della Rocchetta e più volte sanzionate perchè ritenute ingannevoli dall’Antitrust e dallo Iap (Istituto di autodisciplina pubblicitaria)? Forse i consumatori dovrebbero non comprare più queste acque per un errore? Nessuno di noi se la sentirebbe di fare il moralista con la Rocchetta.
Enzo Iacchetti contro Flavio Insinna: "Chi fa beneficenza non lo dice". Lo storico conduttore del tg satirico "Striscia la Notizia", Enzo Iacchetti, ha attaccato il conduttore di "Affari Tuoi", Flavio Insinna, per alcune sue dichiarazioni circa le innumerevoli attività di beneficenza in cui è impegnato, scrive il 2 giugno 2017 "Fidelity News". Flavio Insinna sembra ancora essere nell’occhio del ciclone della critica più esacerbata dei telespettatori italiani – e non solo – gravemente infastiditi dalle sue parole e dal suo comportamento in un fuorionda del programma “Affari Tuoi”, poi chissà come arrivato al tg satirico “Striscia la Notizia“, che lo ha mandato in onda, sconfessado il celebre mattatore di Rai 1. Sono tanti i personaggi del mondo dello spettacolo che sono rimasti sconcertati e offesi dalle parole di Flavio Insinna, tra questi oltre a Pupo – che minaccia querela perchè Insinna ha offeso la categorie dei nani – e a Ezio Greggio – tirato in ballo dal conduttore di Rai 1 durante la consegna di un tapiro, mai mandato in onda da Striscia, diffuso poi da Insinna – si è aggiunto anche un altro storico conduttore di “Striscia la Notizia”, Enzo Iacchetti.
La questione sottolineata da Iacchetti non riguarda le polemiche riguardanti gli ormai famosi fuorionda, bensì per qualcosa di più delicato e di cui Flavio Insinna si pregia tanto di fare: la beneficenza. Nel corso corso di un’intervista al programma radiofonico “Un giorno di pecora” trasmesso su Rai Radio 1, Enzo Iacchetti ha dichiarato che Insinna sembra occuparsi – stando alle sue dichiarazioni – della beneficenza di tutto il mondo. Ma il conduttore del tg satirico di Antonio Ricci è andato oltre, ipotizzando che forse Insinna non manca occasione di sottolineare le sue molteplici attività filantropiche per spostare l’attenzione – e quasi farsi perdonare – dai gravi fatti accaduti e per difendersi dalle pesanti accuse.
Luxuria su Insinna: "Finti simpatici e finte affabili". Dopo le polemiche per i fuori onda di Insinna, il mondo dello spettacolo si è diviso. Adesso arriva la reazione di Luxuria, scrive Luca Romano, Lunedì 05/06/2017, su "Il Giornale". Dopo le polemiche per i fuori onda di Insinna, il mondo dello spettacolo si è diviso. Da una parte c'è chi ha attaccato il conduttore di Affari Tuoi accusandolo di avere due personalità, dall'altra c'è chi invece lo ha difeso sottolineando come il "vero" Insinna non sia quello mostrato dalle clip di Striscia La Notizia. E così alla prima categoria appartiene Vladimir Luxuria che ad Oggi racconta la sua opinione sul caso scoppiato sul conduttore di Rai Uno: "Purtroppo quella di Insinna è la punta dell’iceberg. Ci sono tanti finti simpatici e finte affabili che trattano malissimo truccatori, parrucchieri e sarte. Mi è capitato un attore che stimavo molto, apertamente di sinistra, che è entrato in camerino urlando e tirando il suo abito addosso alla sarta. 'Questa porcheria la metti tu', le ha detto. Non è raro che i big sfoghino le loro frustrazioni professionali su autori e maestranze. Così come ci sono conduttori che ringraziano i collaboratori. Amadeus è uno che ha una parola gentile per tutti. Un’altra persona perbene è Alessia Marcuzzi: è semplice, umile e vera".
"Passione e aggressività nella grafia di Insinna". La scrittura e la firma di Flavio Insinna dimostrano una forte volontà di potenza e una spinta a voler ottenere con determinazione il successo, scrive Evi Crotti, Sabato 03/06/2017, su "Il Giornale". La scrittura e la firma di Flavio Insinna dimostrano una forte volontà di potenza e una spinta a voler ottenere con determinazione il successo (vedi firma con lettere iniziale grandi). Possiede un carattere entusiasta e sensibile che lo porta a sentire in modo amplificato ogni cosa che gli sta attorno. E’ facile a irritarsi, poiché possiede un temperamento collerico e sanguigno, frutto di una natura innata che se da un lato lo porta ad essere aggressivo, dall’altro gli fa vivere con passionalità ogni cosa. Flavio Insinna è un misto di apertura, entusiasmo e passionalità, ma in lui è assai forte il bisogno di recuperare ciò che non è riuscito a conquistare da giovane a causa di una paternità sociale mancata che non ha permesso una adolescenza serena dando avvio ad atteggiamenti di sfida. Il presentatore romano è persona intelligente (vedi grafia scorrevole), con notevoli note estroversive e comunicative (grafia curva e dinamica). L’aggressività e qualche connotazione di altezzosità sono dovute al bisogno di eccellere, per cui qualche volta può diventare intollerante (vedi puntini nella firma) e insofferente al misconoscimento, reagendo in modo impulsivo e focoso. Per quanto riguarda la sfera dei rapporti intimi è persona piuttosto calorosa e passionale per cui deve trovare una compagna che sia disponibile ad accettare anche le sue “sfuriate” (vedi tratto tensivo). Tuttavia, passata la tempesta, sa tornare sui suoi passi e ritrovare la serenità e la calma.
Insinna e i fuorionda, Magalli: "Ha un carattere particolare". Iacchetti: "La beneficenza non si dice". Mirabella: "Confidenze rubate", scrive Fabio Traversa lunedì 5 giugno 2017 su "Blogo". Sulla vicenda del conduttore di Affari tuoi e dei filmati trasmessi da Striscia la notizia ecco le reazioni di Magalli a Il Fatto Quotidiano e di Iacchetti e Mirabella a Un giorno da pecora. Striscia la Notizia, Flavio Insinna e i fuorionda a Affari Tuoi: "Nana di merda, dementi, figli di un Dio minore".
A iniziare da Giancarlo Magalli che a Il Fatto Quotidiano dice: "C'è un tappo che è saltato. Lui è bravo ma ha un carattere particolare, cambia velocemente atteggiamento".
Fabrizio Del Noce: "Ha un carattere fumantino".
Michele Mirabella, ospite del programma di Rai Radio1 Un giorno da pecora, condotto da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, commenta: "Rubare le confidenze di una persona non è mai un bel gesto, non è mai leale, queste cose non si fanno. Non puoi rubare una confidenza fatta ad un amico magari nel tuo privato, riferire è sempre brutto, non hai mai il contesto vero, ti sfugge il tono e non vedi il volto che magari indica una cosa diversa da ciò che dici”. Ma quei contenuti non sono stati "riferiti", bensì registrati, anche in una riunione: “Il metodo è orrendo, questo è un sistema di spionaggio".
Nello stesso programma dice la sua anche Enzo Iacchetti: “Ero in Africa fino a ieri, non so cosa sia successo, ho saputo solo di una diatriba e ho seguito Insinna dalla Berlinguer. Insinna si occupa della beneficenza di tutto il mondo e io non userei questo modo di fare per difendermi da altre accuse. Per far capire che sono una brava persona, non c'è bisogno di dire che fai duemila cose di beneficenza, perché la beneficenza si fa per se stessi”.
Flavio Insinna e gli altri, la lunga lista di fuorionda: dal bestemmione di Mastelloni al “vorrei la minchia nera” di Amadeus. Il conduttore di RaiUno è solo l'ultima vittima di una lunga tradizione di fuori onda, parolacce e bestemmie dal sen fuggite, gaffe, scrive Domenico Naso il 25 maggio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". In principio fu Mastelloni, più di trent’anni fa. Altro che Insinna e le sue intemperanze contro concorrenti e lavoratori Rai. Era il 1984, e l’attore napoletano era a Blitz, su RaiDue. In diretta si è sentita una bestemmia e da allora Mastelloni è stato vittima di un ostracismo pluridecennale in viale Mazzini. Una bestemmia in diretta, sulla Rai di trentatré anni fa, era una cosa serissima, molto più di adesso. E il dibattito su Mastelloni all’epoca aveva coinvolto anche i più grandi intellettuali italiani (a cominciare da Claudio Magris sul Corriere, che si chiedeva “perché Mastelloni dovrebbe scandalizzare i perbenisti”?). Assolto dal Tribunale di Viareggio, l’attore era stato condannato dai dirigenti Rai e la carriera brillante dell’attore napoletano da allora non è stata più la stessa. Meno gravi e più divertenti i fuorionda che recentemente hanno coinvolto altri nomi televisivi come Franco Di Mare, Amadeus e il principe degli improperi catodici Emilio Fede. Di Mare, all’epoca conduttore di Uno Mattina, aveva di fatto dato dello “stronzo” a un ospite, parlandone con la co-conduttrice Francesca Fialdini. Amadeus, invece, pensava di non essere più in onda quando, in coda a Mezzogiorno in Famiglia, aveva leggermente modificato la canzone “Vorrei la pelle nera” di Nino Ferrer cantando “Vorrei la minchia nera”. Dar conto dei fuorionda di Fede, invece, richiederebbe troppo tempo e troppo spazio. Uno dei più gettonati è del 1991. Siamo in piena Guerra del Golfo e Marino Bartoletti e Kay Rush danno la linea all’edizione straordinaria di Studio Aperto diretto da Fede. Convinto di non essere ancora in onda, il direttore si era lasciato andare ad apprezzamenti sulle gambe della conduttrice americana. Da quando vanno in onda i reality, poi, di fuori onda (o comunque frasi indicibili scappate o catturate da telecamere onnipresenti) ne abbiamo visti sin troppi. Dalla bestemmia di Ceccherini all’Isola oltre dieci anni fa, a quelle di alcuni concorrenti del Grande Fratello nel corso degli anni. Tutti squalificati, ovviamente. Perché in Italia si può perdonare tutto, ma una bestemmia no (citofonare Mastelloni per conferma). E le ultime frasi, in ordine di tempo, che hanno fatto discutere il pubblico televisivo sono quelle sibilate nottetempo da Stefano Bettarini e Clemente Russo al Grande Fratello Vip. L’ex calciatore, convinto di non essere sentito, aveva confessato al pugile i suoi tradimenti e i problemi del matrimonio con Simona Ventura. Russo aveva risposto da par suo, definendo la conduttrice piemontese in maniera poco elegante. Espulso dal gioco solo Russo. Perdono per Bettarini che, anzi, è poi stato promosso a inviato dell’Isola dei Famosi sempre su Canale5. Striscia la Notizia, poi, è specializzata da sempre in fuorionda rubati e poi mandati in onda, a cominciare da quello tra Antonio Tajani e Rocco Buttiglione che tramavano strategie politiche (distinte e distanti dalle posizioni ufficiali dei loro partiti del tempo). Flavio Insinna, dunque, è solo l’ultima vittima di una lunga tradizione di fuori onda, parolacce e bestemmie dal sen fuggite, gaffe. E di sicuro ce ne saranno ancora tanti in futuro.
Fiorello ciclone da Fazio: “Non torno in Rai, a Sky posso dire tutto quello che voglio”. Il conduttore ruba la scena nell’ultima puntata di Che tempo che fa con un’intervista che diventa uno show nello show, battute a non finire e frecciatine sul possibile addio di Fazio alla Rai, scrive il 4 giugno 2017 Valeria Morini su "Fan Page". L'ultima puntata di "Che tempo che fa" si è chiusa col botto con l'ospitata di Fiorello, che ha letteralmente dato vita a uno show nello show. Incontenibile, lo showman ha scherzato sul suo cachet per l'intervista ("Sono qui a costo zero, dormo a casa della Bignardi, tra lei e Luca Sofri") e soprattutto sul possibile addio di Fabio Fazio alla Rai: Alla Rai non ci vuole stare più nessuno. Hai detto che l'unico punto fermo della Rai è il cavallo? Falso, oggi lo hanno visto a Cologno Monzese. Ogni anno mi invitavi qui, stavolta ti ho sentito molto provato. E poi è l'ultima puntata, forse per sempre! Cairo (il presidente di La7, ndr), se chiami in diretta facciamo l'affare! Fabio, se vai al posto della Gruber ho già in mente il titolo del programma: Faziotto e mezzo. E se va male a La7, lo portiamo a Sky, fa MasterFazio. L'intervista a Fiorello, totalmente stravolta dalle improvvisazioni del conduttore siciliano, diventa così uno dei momenti più riusciti nella stagione del programma di Rai3. Fiore inventa addirittura un nuovo format, in cui si fa chiamare dai suoi contatti: telefonano in diretta, tra gli altri, Amadeus, il fratello Beppe Fiorello, Diego Abatantuono e Nicola Savino ("Il primo a fare Rai exit"). Tra una gag e l'altra, Fazio continua a chiedere a Fiorello di tornare in Rai. Non posso, non tornerò mai. Non voglio più piacere a nessuno! A Sky dico tutto quello che voglio. Non voglio farmi promozione… a ottobre ricomincio con Edicola Fiore! Forse. Fiorello ha anche regalato un simpatico aneddoto sull'incontro con, è il caso di dirlo, una "vecchia" fiamma: Ho cominciato giovanissimo nei villaggi, dove c'era vita "libertina" e poteva capitare di avere avventure con signore più grandi. Oggi, che ho 57 anni, mi è capitato di incontrare una signora che mi fa: "Te ricordi? Ce siamo conosciuti… molto bene!". Era lì con i nipoti.
La Rai degli ipocriti. Che sia incasinata lo sappiamo tutti, ma che sia un ente censorio e pauperista, questa è buona, scrive Giuliano Ferrara il 6 Giugno 2017 su “Il Foglio”. Terribile, Fiorello vuol dire quel che pensa e in Rai dice che non può, e pensare che Fiorello vale per il suo modo di dire del tutto spensierato; Diego Bianchi fa informazione libertario-alternativa-cazzeggiante e in Rai non può, ma non sembra proprio, coccolato amabilmente come fu su RaiTre; Fazio saluta e minaccia di andarsene in dissenso perché ci sono questioni surreali sul tetto dei compensi, ma vedrete che riemergerà il tema meno scabroso per lui delle “intromissioni”, l’invisibile censura aziendale....
Giancarlo Magalli, non c’è pace a I Fatti Vostri. Dopo Adriana Volpe e Paolo Fox, discussione social tra il conduttore e Marcello Cirillo. Battibecco dai toni accesi tra Magalli e Cirillo che non è stato riconfermato per la prossima stagione del programma di RaiDue, scrive Giulio Pasqui il 27 maggio 2017 su "I Fatti Vostri". Non c’è pace nella mattina di Rai 2. Dopo aver avuto incomprensioni sia con l’astrologo Paolo Fox che con Adriana Volpe, il conduttore de “I Fatti Vostri” Giancarlo Magalli sembra aver rotto i rapporti pure con Marcello Cirillo. Il cantante, protagonista della parte musicale del programma, non ha gradito alcuni atteggiamenti del padrone di casa e all’indomani dell’ultima puntata stagionale ha voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa. “Non ho parlato per mesi, nonostante fossi al corrente di tutto, non ho pubblicato niente per rispetto all’azienda nella quale lavoravo, la RAI, anche perché ho sempre trovato volgare e vigliacco parlare con una persona attraverso i social quando ce l’hai vicino. Io, ho sempre parlato in faccia, assumendomi le mie responsabilità ma questa volta non posso resistere”, ha debuttato Cirillo su Facebook. “Ieri ti sei accanito con dei miei fan sulla pagina de I Fatti Vostri, ricordo, che tu sei GIANCARLO MAGALLI e i fan, sono quelli che dall’altra parte della tv vivono emozioni senza percepire nessun tipo di guadagno e lo fanno solo per amore, i fan sono quelli grazie ai quali esistiamo e vanno rispettati – ha continuato il cantante -. Una signora ieri ha scritto che non essendoci più io nella prossima stagione non avrebbe più visto I Fatti Vostri, tu hai risposto prima con un simpatico “ciao” e poi, scrivendo che questa cosa era offensiva per il lavoro degli altri, perché io faccio solo “tre minuti” di canzone. E qui che io penso tu abbia veramente perso il senso della verità”. Quindi: “Come testimoniano da anni i titoli di testa de I Fatti Vostri e i miei contratti Rai, ho fatto parte del cast della trasmissione in qualità di co conduttore, che poi sia stato depotenziato nel tempo non certo per colpa mia, è un altro discorso […] Io però non ho mai protestato, perché per me non esistono piccole parti ma piccoli attori, e il piccolo attore è quell’uomo con la fissazione che il mondo debba gravitare intorno a lui, sempre, per una esigenza innata e malata del consenso quotidiano, consenso guadagnato nella tattica di non far parlare nessuno, senza mai cercare di arricchirsi delle idee altrui. Sei stato per anni il mio capitano, però la fascia bisogna guadagnarsela sul campo, giorno dopo giorno, con sacrificio, con sincerità, con amore e passione per il proprio lavoro ma sopratutto per quello dei propri compagni che non fanno mai gol ma che spesso si sacrificano per te per farti diventare capocannoniere. La fascia al braccio per me tu l’hai persa ma nonostante tutto, ti auguro di avere tanto successo nella prossima stagione de i fatti vostri e di trovare dei compagni di lavoro che ti ameranno e rispetteranno come ho fatto io in tutti questi anni”. Dal canto suo, Magalli ha prima risposto sulla sua pagina Facebook: “Praticare l’odio su Facebook è uno sport diffuso e c’è chi ne approfitta, come se far odiare un altro servisse a farsi amare di più”. Poi ha risposto sotto il post dell’ex collega (Cirillo infatti non è stato confermato per la prossima stagione del programma): “Caro Marcello, condivido la tua rabbia e la tua delusione, ma non prendertela con me. Le decisioni che ti riguardano non dipendono da me e ne avrei parlato volentieri assieme a te se tu, dal momento in cui ti sono state comunicate, non avessi smesso di salutarmi e di parlarmi, come se fosse colpa mia. E sai che non è così. La piccola discussione avuta con UNA tua affezionata fan era dovuta solo al fatto che mi sembrava un po’ esagerato che dicesse che ormai non vale più la pena di seguire la trasmissione. Il tuo contributo alla trasmissione non è mai stato messo in discussione ed è stato sicuramente un contributo importante, ma io credo che tu, proprio in virtù del tuo indiscusso talento, non debba star lì ad addolorarti ed a prendertela col mondo per una cosa che si interrompe, ma guardare con fiducia alle altre che certamente arriveranno”. Meglio di una serie tv.
I Fatti Vostri, Adriana Volpe: «Mi sono sentita verbalmente violentata». Ma Magalli incalza, scrive lunedì 5 giugno 2017 David Monachesi. Adriana Volpe vs Giancarlo Magalli: la guerra non è finita. I due (ormai) ex colleghi de I Fatti Vostri sono tornati a parlare degli eventi e dei ‘bisticci’ che li hanno visti protagonisti negli scorsi mesi. Mentre la Volpe si è detta “verbalmente violentata” dalle dichiarazioni pungenti del presentatore romano, quest’ultimo ha lanciato all’altra una sequela di frecciatine dalle pagine de Il Fatto Quotidiano, mettendone di nuovo in dubbio la professionalità. Epurata dal cast de I Fatti Vostri, insieme a Marcello Cirillo, la presentatrice romana ha ripercorso, in un’intervista rilasciata a Il Tempo, la querelle che l’ha contrapposta a Magalli (prima in diretta poi via social) nel marzo scorso. Riferendosi alle frecciatine lanciate da Giancarlo sulla sua (a suo dire) dubbia professionalità, la Volpe ha asserito: “Mi sono sentita verbalmente violentata da un collega che mi ha messo nella condizione di dover un giorno giustificare, con mia figlia, come e perché ho svolto il mio lavoro in Rai. Un lavoro che, basato solo sulla meritocrazia, deve farla sentire orgogliosa della madre in quanto mi sono sempre comportata con il massimo rispetto nei confronti di tutti, in particolare di me stessa e dei telespettatori”.
Per poi proseguire, mostrandosi fiduciosa del futuro: “Dopo 20 anni ho dovuto salutare il pubblico con l’incertezza del mio futuro lavorativo. Ho accettato la notizia della mia mancata riconferma a “I fatti vostri” confidando che mi possa venire offerto un ruolo di pari dignità professionale ed economico all’interno dell’azienda. Attualmente sono in attesa di un confronto”.
Ritornando sul discorso Magalli, la conduttrice si è detta dispiaciuta di alcune sue parole, definendole “armi distruttive”: “Ancor più mi ha fatto male che Magalli abbia detto di me “l’importante è che migri” mostrando di non avere alcuna considerazione del mio futuro. E mi dispiace che non esista una maniera per mettere un freno linguistico ad un conduttore che usa le parole come armi distruttive”.
La versione di Magalli. Dal canto suo, Magalli sembra proprio non riuscire a mordersi la lingua. Intervistato da Il Fatto Quotidiano, il presentatore è andato a ruota libera, non trattenendosi dal ribadire (ancora una volta) come il rapporto con la Volpe sia caratterizzato da una sostanziale mancanza di stima. Nell’intento di discolparsi dall’accusa di misoginia che gli è stata rivolta a più riprese, il conduttore ha affermato con risolutezza: “Una cavolata: ho lavorato con decine di donne, da Simona Marchini a Vanessa Incontrada, da Simona Ventura a Milly Carlucci. Ho avuto problemi solo con Heather Parisi e Adriana Volpe”.
E proprio riferendosi a quest’ultima, Magalli le attribuisce una responsabilità non da poco: “A me piace lavorare, tanto, e invece a causa sua andavo in Rai con il magone”.
Pungolato dal giornalista, il presentatore ci tiene poi a sottolineare come fra la Parisi e la Volpe ci sia una netta distinzione. A detta sua, difatti, la prima non mancherebbe di professionalità: “Heather è una rompipalle clamorosa, ma quando lavora è una professionista assoluta”.
Tra tutte le donne con cui ha lavorato il conduttore ha complimenti per Mara Carfagna, "lei ascoltava e si fidava". "Qando è arrivata - continua - era una subrettina, voleva solo cantare e ballare, diceva giusto qualche cosetta, niente di importante. Sfruttò fino all'ultimo la tv". Un Magalli a briglie sciolte, che non esita neppure ad ironizzare su Marcello Cirillo (con cui ha avuto delle incomprensioni nei giorni scorsi). Alla domanda se il cantante e il presentatore di Caulonia sia ancora un suo amico, egli non si fa cogliere alla sprovvista: “Lo eravamo, o almeno credevo. Ora ho scoperto un’inedita affinità con la Volpe”.
Non solo Adriana Volpe e Marcello Cirillo. Sì, perché nel prosieguo dell’intervista, Giancarlo dice la sua anche su Barbara D’Urso. O meglio, sul genere televisivo che da alcuni anni la vede in prima linea. Il tutto ha avuto inizio da un elogio alle doti di Cristina Parodi: “É brava, e non è facile mantenere una buona professionalità con programmi complicati come il suo. Altro che Barbara D’Urso…”.
Per poi precisare: “Non mi piace la tv basata sull’esagerazione, sui falsi sentimenti, sulla speculazione delle lacrime. E non mi piacciono quelli che ci vanno, disposti a farsi speculare addosso, gente che per un gettone di presenza è disposta a tutto”.
Spazio anche per un aneddoto curioso. Rievocando la sua infanzia, il presentatore ha raccontato di essere stato, a 3 anni, l’artefice di uno scherzo goliardico ai danni di Gina Lollobrigida, conosciuta grazie al lavoro del padre. “Mio padre lavorava con il cinema e mi portava sul set, per me una seconda casa [...] ero diventato una mascotte degli operatori, mi utilizzavano per scherzi deplorevoli. Un giorno mi dicono: ‘Giancà, la vedi? Quella è la Lollobrigida, avvicinati e tirati giù i pantaloni, mostrale il pisello…’ [...] Ricordo ancora le risate. Il dispiacere è arrivato molti anni dopo, quando l’ho intervistata e tutto orgoglioso le ho ricordato l’episodio, certo di aver stupita. Macché, il vuoto”.
Fare apologia di omosessualità e di islam va bene, ma scatta la censura quando l'argomento è sgradito ad una minoranza che esercita il potere sulla stragrande maggioranza.
“Parliamone Sabato” chiuso: il femminismo non sa più che pesci prendere, scrive Stelio Fergola il 20 marzo 2017. Dopo le indignazioni di settembre 2016 contro il Fertility Day (sponsorizzate da veri luminari del pensiero contemporaneo come Roberto Saviano), dopo le prese della Bastiglia del maschilismo occidentale con Lotto Marzo, dopo la toccante (qualche uomo lo spera) protesta civile radicale manifestata con #SuLeGonne, capace di rovinare anche lo splendido panorama del Vittoriano a Roma, il femminismo italiano balza di nuovo agli “onori” della cronaca con un’intensa, quanto mai utile e soprattutto intelligentissima battaglia. Il nemico numero uno, ovvero l’acerrimo e terrificante sessismo della società occidentale, stavolta è rappresentato dal peggiore degli spauracchi: Parliamone Sabato, condotto da Paola Perego. Trattasi di banalissima trasmissione, condotta in modo altrettanto banale, alla continua ricerca di contenuti banali, che ogni tanto prova ad intrattenere il pubblico con approfondimenti banali (ma spacciati per originali). Il motivo per cui la povera e oppressa femminista italiana deve immediatamente imbracciare i fucili e le baionette della “censura”, stavolta, è contenuto in una “lista” che appare durante la puntata del 18 marzo. Tema: “perchè gli uomini preferiscono le straniere”. A prescindere dall’ovvia stupidaggine del quesito stesso, nato con l’unico scopo di intrattenere il pubblico e di far tirare avanti alla meno peggio una trasmissione che altrimenti avrebbe dovuto parlare solo del piatto estivo o della marca di vestiti preferiti dalla Perego, ad un certo punto appare la “lista”, di cui abbiamo una diapositiva. La “lista” trarrebbe spunto – a quanto pare – dalle donne dell’Est Europa che, per un motivo o per l’altro, sono diventate famose compagne di importanti uomini occidentali. E così si narra di Donald Trump che ha scelto per “ben due volte mogli dell’Est”, alzando il livello di una discussione che nemmeno le comari la domenica vicino a un supermercato penserebbero di produrre. Ora, ri-tralasciando il livello intellettivo nullo e nemmeno richiesto a simili dibattiti (sul quale è anche futile riflettere, considerato che il programma in questione è un varietà, un puro e cosiddetto infotainment, e non una tesi sperimentale di astrofisica), i contenuti della lista si concentrerebbero sulla natalità, la salute e la bellezza fisica delle donne dell’Est in questione, un particolare gusto per il maschio dominante e qualche altra diavoleria che non sto qui a citare. Le femministe italiane, quelle oppresse, quelle emarginate, quelle che talvolta alzano le gonne, non ci stanno. Quel programma è un’offesa, lede i diritti delle donne: se si parla di essere casalinghe già non ne parliamo. Se poi per caso, pour parler, si alza l’asticella e si mormora addirittura l’esistenza di quegli esseri chiamati figli ancora peggio. E per carità, non si parli di bellezza, che quella è sessista per definizione. “Fuori i nomi degli autori” dice la scrittrice Silvia Ballestra. La stampa di massa, la politica, tutti in coro si accodano all’indignazione. I robottini prodotti in serie in una fabbrica di giocattoli avrebbero più autonomia mentale. Il Corriere della Sera definisce la lista una cosa che “che oscilla tra sessismo e razzismo”, Quotiano.net parla di “lista choc”, il PD di Milano chiede “le immediate dimissioni dei responsabili”, Mara Carfagna e Maurizio Lupi twittano la loro solidarietà alle eterne offese di questo millennio, sempre per cause nobili, intelligenti e soprattutto utili. Sui social il delirio diviene ancora peggiore: “Schifo” il commento della pagina che si batte per l' “intelligenza” della donna, ovvero Abbatto i muri. Non poteva mancare Laura Boldrini che scrive: “E’ inaccettabile che in un programma televisivo le donne siano rappresentate come animali domestici di cui apprezzare mansuetudine, accondiscendenza, sottomissione.” Il programma chiude nel giro di un nanosecondo che manco Mussolini con le leggi fascistissime e del controllo sulla stampa. Il fu Andreotti con il fu estromesso Funari un povero dilettante. Berlusconi con Biagi e Santoro una barzelletta. Loro battono tutti i record, da vittime ed emarginate però, sia sempre ben chiaro. Le genuflessioni continuano. Non solo quelle dei parlamentari, ma della stessa RAI che, ovviamente, attua il protocollo vero della modernità contro una categoria con troppo potere: si scusa. Si scusa il direttore Andrea Fabiano, si scusa la presidente Monica Maggioni. Si scusano tutti, perché “gli errori si fanno, le scuse sono doverose, ma non bastano”. Un passaggio bellissimo: non paghi, dopo essersi inginocchiati, prevengono addirittura l’umiliazione futura dichiarandola in anticipo. L’unico che sembra essere estraneo alla follia generale è il povero Salvo Sottile, partner della Perego nella conduzione di Domenica In, che scrive: “Ma non era cazzeggio? Io so che lavorando con Paola abbiamo fatto tante battaglie (vere) a favore delle donne”. Dopo la chiusura, festa grande. Una nuova lotta è vinta, la marcia verso l’eterna emancipazione senza fine e logica è solo all’inizio. La conclusione di questo tristissimo circolo di azioni, strepiti e reazioni che manco i cagnolini più umiliati verso i loro padroni attuerebbero, è la seguente. Ovvero che tra tanti dubbi, c’è una certezza da scolpire nella pietra. La palese mancanza di diritti della donna oppressa in questo occidente patriarcale non smette mai di farsi viva. Lasciano in mutande per non dire morti di fame mariti separati, eventualmente fanno di un feto che non può parlare ciò che vogliono, anche giocarci a pallone, paralizzano un intero Paese come solo uno sciopero meganazionale può fare (per cosa poi non si sa), e perché no, fanno chiudere pure un programma stupido perché lo ritengono perfino più stupido di loro. Delle vere emarginate. Aiutiamole. La gravità di tutta questa vicenda non sta tanto nelle proteste ridicole per una questione ridicola e senza alcuna importanza. La vera emergenza culturale è che si sia dovuta muovere addirittura la politica con tutto il sistema propagandistico al seguito, rigorosamente a comando, per assecondare come i peggiori pappagalli una delle più stupide proteste che la storia italiana abbia mai visto (al primo posto probabilmente c’è Lotto Marzo, e chissà come mai la provenienza è sempre la stessa: due in poche settimane, comunque, è una media tragica). Le vere denunce sono lontane anni luce da queste sciocchezze. Ce ne dava un’allegoria imponente uno splendido film capolavoro di Carlo Verdone, Perdiamoci di vista, uscito nel 1994. La storia parlava di Gepy Fuksas, squalo del giornalismo televisivo italiano, il cui programma-sciacallo sulle disgrazie altrui viene chiuso a causa di gravi e reali offese proferite a una ragazza paraplegica che, resasi conto dello squallido giochino, lo denuncia in diretta. Motivi seri riflessione che 23 anni dopo spariscono come per magia, quando la realtà di oggi supera di parecchio la fantasia di allora. Si è perso completamente il senso del reale, del concreto. L’ augurio, quindi, è di prendere le distanze. Ovviamente mi rivolgo alle donne vere, che pagano con la loro dignità le azioni di simili energumene, spalleggiate dall’intero sistema politico e culturale di cui sono autrici e dominatrici, ma con la faccia tosta di definirsi oppresse, discriminate ed emarginate. Donne di ogni età e vere vittime di questa continua corsa al ridicolo. Quelle che pensano alla vita di tutti i giorni, fatta di lavoro e – si spera – anche di famiglia, che curano i propri figli insieme ai propri mariti, oppure che non hanno un marito ma rispettano il prossimo, insomma, fate voi. Certamente, non soggette alla continua ricerca di lotte sociali infantili, senza alcun senso costruttivo, nessun motivo di esistere, se non per denunciare una palese carenza di materia grigia. (Stelio Fergola)
"Perché scegliere le donne dell'est": polemica per la "lista" del programma di RaiUno, scrive Alessandra Vitali su “La Repubblica” il 20 marzo 2017. A "Parliamone sabato", rubrica di "La vita in diretta" condotta da Paola Perego, servizio su "Gli uomini preferiscono le straniere" con una grafica che illustra il "valore aggiunto" delle giovani non italiane. Sui social incredulità e insulti: "Vergogna, a casa gli autori". Titolo: "La minaccia arriva dall'est. Gli uomini preferiscono le straniere". Sottotitolo: "Sono rubamariti o mogli perfette"? Il servizio introduce l'argomento del dibattito che Paola Perego, conduttrice di Parliamone sabato, rubrica di La vita in diretta su RaiUno, ha messo sul piatto nella puntata di due giorni fa. Discussione con ospiti in studio e poi grafica con ben 6 punti che spiegherebbero, secondo gli autori del programma, il valore aggiunto in base al quale gli uomini italiani - e non solo - preferirebbero o dovrebbero preferire le donne dei paesi balcanici, in particolare dei paesi dell'ex Unione Sovietica. Sul web si anima subito la polemica. Si va dall'incredulità agli insulti, ci si chiede se sia uno scherzo o se stiano facendo sul serio. "Fuori i nomi degli autori, e domani tutti a casa, la Perego per prima" twitta la scrittrice Silvia Ballestra.
"Vogliamo parlare del fenomeno delle donne dell'est e del fascino che queste donne esercitano sugli uomini", spiega Perego prima di presentare gli ospiti in studio: Marta Flavi, il direttore di Novella 2000 Roberto Alessi, l'ex Miss Italia Manila Nazzaro, una ragazza, Marina, di origine ucraina, una coppia con lui di Savona e lei siberiana ("una bellissima storia d'amore che dura da diciassette anni") l'attore Fabio Testi al quale la conduttrice chiede una testimonianza, "tu sei stato con donne dell'est meravigliose, come Anita Ekberg", Testi precisa "non era tanto dell'est, era svedese". Ma gli esempi non mancano. Perego cita Donald Trump "che ha scelto ben due mogli dell'est Europa", cioè la prima moglie Ivana Marie Zelníková da Zlìn, Repubblica Ceca, e l'attuale, Melania, nata Melanija Knavs, da Novo Mesto, Slovenia. Perego torna su Testi, "l'unico titolato a darci questa risposta: la minaccia viene dall'est?". Replica l'attore, "non è una minaccia, semmai un regalo. Minaccia per le donne italiane - continua - perché c'è un minimo di differenza. Per noi latini, italiani, parli di una donna bionda, occhi azzurri, fisicata...", interrompe alzandosi Manila Nazzaro (bionda), "e allora io, terrona pugliese?", il direttore di Novella 2000 le riconosce dei meriti definendola "meravigliosa burrata", Nazzaro chiosa "moglie e buoi dei paesi tuoi", applausi e risate in studio. Poi Testi racconta di un amico, fidanzato con una ragazza di Mosca che per il suo compleanno "lo ha portato in Russia, sono andati insieme in un bordello, gli ha fatto scegliere un'altra ragazza e si sono divertiti tutta la notte insieme: come fai - si chiede l'attore - a non innamorarti di una donna così, giustamente?".
Ancora dibattito, pareri contrastanti, altro servizio sugli italiani che hanno scelto in generale donne non italiane. Ma il momento-clou arriva quando viene mostrata la grafica che dovrebbe sintetizzare le ragioni grazie alle quali le donne dell'est guadagnano "punti" rispetto alle italiane. Eccoli:
1) Sono tutte mamme, ma dopo aver partorito recuperano un fisico marmoreo.
2) Sono sempre sexy, niente tute né pigiamoni.
3) Perdonano il tradimento.
4) Sono disposte a far comandare il loro uomo.
5) Sono casalinghe perfette e fin da piccole imparano i lavori di casa.
6) Non frignano, non si appiccicano e non mettono il broncio.
E poi, aggiunge Marta Flavi, "sono tutte curatissime. Anche chi vende i pomodori al mercato ha le unghie curate".
I sei punti vengono commentati dagli ospiti, interpellate per prime naturalmente le due ragazze ucraina e siberiana che spiegano agli astanti in che modo affrontano i rigori casalinghi senza "pigiamone", se è vero che perdonano il tradimento e via raccontando. Interviene Fabio Testi che cerca di ricondurre la discussione a "un approccio culturale di base": "Il problema - commenta l'attore - è che le nostre donne sono troppo bene abituate agli uomini italiani. Gli uomini italiani amano la donna, la femmina. Se si incontrano, l'uomo la guarda dal basso verso l'alto mentre la donna russa non viene mai guardata in questo modo. L'altra cosa, importantissima - aggiunge Testi - se per caso l'uomo italiano ha qualche difficoltà nell'approccio finale con la donna, la brutta figura la fa l'uomo. Mentre se una donna russa vede che l'uomo non riesce a ottenere l'orgasmo, è lei che si sente in colpa. La femminilità esce in un altro modo". Perego: "Ma quale femminilità, ma ti prego: se tu non funzioni, la colpa me la devo prendere io?".
Ma dove trovare le donne dell'est? Semplice: ci sono le agenzie "di collocamento". Altro servizio su agenzie online che presentano schede, foto, dati anagrafici e tutto quel che serve per scegliere la compagna ideale. L'agenzia online è a Verona, il responsabile si chiama Sandro, tutto è cominciato quando, sul web, ha contattato Viktoria, che poi è diventata la sua compagna e insieme hanno deciso di aprire un'agenzia tutta loro. "Ogni signore visualizza la fascia d'età che più gli si addice. C'è scritto tutto, anche quello che vogliono dalla vita. Se l'uomo desidera contattarla non deve fare altro che andare con la freccettina sul 'contattami' e premere. Anche le ragazze possono fare lo stesso". Per aderire al sito, spiega il responsabile intervistato, "c'è un costo, sono 3000 euro tutto compreso. Una volta entrato nel sito, tutto quello che deve fare un uomo è cercare di innamorarsi, esattamente com'è successo a me". Più facile di così.
Parliamone sabato chiude dopo le polemiche sulle donne dell'est. La Rai si scusa: "Errore folle", scrive "La Repubblica" il 20 marzo 2017. Cancellato il programma di RaiUno, condotto da Paola Perego, dopo le critiche provocate dal dibattito su "i motivi per scegliere una fidanzata dell'est". Il dg Rai Campo Dall'Orto: "Contenuti che contraddicono la mission del servizio pubblico e la nostra linea editoriale". Sarà chiuso Parliamone sabato, il programma - all'interno di La vita in diretta - condotto al sabato pomeriggio da Paola Perego e al centro delle polemiche dopo la messa in onda, nell'ultima puntata, di un servizio dedicato alle donne dell'est con tanto di "lista" contenente le ragioni per cui gli uomini italiani dovrebbero preferirle alle donne italiane. Prima lo sdegno sui social, poi l'indignazione del mondo della politica e della cultura fino alle scuse del direttore di RaiUno, Andrea Fabiano e a quelle della presidente di viale Mazzini, Monica Maggioni. "Gli errori si fanno, e le scuse sono doverose, ma non bastano", scrive in una nota il direttore generale della Rai, Antonio Campo Dall'Orto - occorre agire ed evolversi, la decisione di chiudere Parliamone sabato non è infatti solo la semplice e necessaria reazione ai contenuti andati in onda lo scorso sabato, contenuti che contraddicono in maniera indiscutibile sia la mission del servizio pubblico che la linea editoriale che abbiamo indicato sin dall'inizio del mandato. È anche - prosegue il dg - una decisione che accelera la revisione del daytime di RaiUno1 sulla quale peraltro stavamo già lavorando da tempo. Questo al fine di rendere i contenuti Rai sempre più coerenti ai valori che ne ispirano la missione". "Non ho visto la puntata, lo sto scoprendo dai siti - aveva detto in mattinata Maggioni - quello che vedo è una rappresentazione surreale dell'Italia del 2017: se poi questo tipo di rappresentazione viene fatta sul servizio pubblico è un errore folle, inaccettabile". "Personalmente mi sento coinvolta in quanto donna, mi scuso", ha aggiunto la presidente Rai, "ogni giorno ci interroghiamo su quale immagine di donna veicoliamo, su come progredire, uscire dagli stereotipi. Poi accade un episodio come questo: il problema non è una battuta inconsapevole, ma la costruzione di una pagina su un tema del genere. È un'idea di donna che non può coesistere con il servizio pubblico. Per prima cosa mi scuso. Poi come azienda cercheremo di capire come è nata una pagina di questo tipo". Le scuse della presidente Rai erano state anticipate via Twitter da quelle del direttore di Rai1 Andrea Fabiano: "Gli errori vanno riconosciuti sempre, senza se e senza ma. Chiedo scusa a tutti per quanto visto e sentito a #Parliamonesabato". Su Twitter anche un commento di Salvo Sottile, partner di Perego alla conduzione di Domenica In: "ma non era cazzeggio? io so che lavorando con Paola abbiamo fatto tante battaglie (vere) a favore delle donne". La polemica, da due giorni in rete, era esplosa dopo la messa in onda del servizio "La minaccia arriva dall'est. Gli uomini preferiscono le straniere" (sottotitolo: "Sono rubamariti o mogli perfette?") nel corso del programma La vita in diretta. Il servizio introduceva l'argomento del dibattito condotto da Paola Perego. Una discussione con ospiti in studio e poi grafica con ben 6 punti che doveva spiegare, secondo gli autori del programma, il valore aggiunto in base al quale gli uomini italiani - e non solo - preferirebbero o dovrebbero preferire le donne dei paesi balcanici, in particolare dei paesi dell'ex Unione Sovietica. "Quanto è avvenuto ed è stato raccontato nel programma è esattamente la negazione di servizio pubblico. I responsabili di ciò che è successo devono dimettersi", ha postato su Facebook il presidente della Commissione di Vigilanza Rai, Roberto Fico. "Il direttore di RaiUno e la presidente Maggioni si sono scusati per l'accaduto, ma non basta. Sono necessari provvedimenti seri. A breve convocherò un ufficio di presidenza dove valuteremo le audizioni da svolgere in commissione sull'accaduto".
Duro il commento di Francesco Verducci, vicepresidente della Commissione Vigilanza Rai: "I responsabili di questo scempio alla nostra cultura e alla nostra convivenza devono dimettersi. La Rai ha il compito di promuovere democrazia e diritti, quanto avvenuto sabato è molto più di un semplice incidente. Gran parte della programmazione d'intrattenimento, in specie mattutina e pomeridiana, va ripensata. E i responsabili di quanto accaduto sabato devono dimettersi". "Non si scherza. Questa roba sul servizio pubblico non ci deve essere manco per scherzo. Chiedo intervento #vigilanza", scrive su twitter la deputata del Partito democratico Lorenza Bonaccorsi, altro membro della Vigilanza. Mentre l'Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, parla di "un siparietto disgustoso di cui come dipendenti, come donne e uomini della Rai ci vergogniamo. Positivo che la presidente Rai e il direttore di RaiUno si siano scusati. Ma ovviamente non può bastare. È indispensabile che vengano presi provvedimenti nei confronti di tutti i responsabili".
"Offensivo non solo per le donne ma anche per gli uomini, come se non avessero la facoltà di relazionarsi all'altro sesso in un modo rispettoso e paritario". Severo il commento della Presidente della Camera Laura Boldrini sul caos Rai dopo la trasmissione "Parliamone Sabato" su Rai1 durante la quale sono stati enunciati i motivi per cui gli uomini italiani dovrebbero preferire le fidanzate dell'Est. "Se noi facciamo di una donna un oggetto - conclude Boldrini - da lì il passo alla violenza è breve".
Parliamone Sabato e la bufera Rai, Maggioni: "Chiedo scusa, errore inaccettabile". Dopo le polemiche del web contro la puntata di "Parliamone Sabato" in cui si è discusso sulle donne dell'Est i vertici Rai sono stati costretti a scusarsi. La Maggioni: "errore folle, inaccettabile", scrive Enrica Iacono, Lunedì 20/03/2017, su "Il Giornale". Durante la puntata di "Parliamone sabato", il programma condotto da Paola Perego su Rai1 si è parlato di un tema che ha fatto infuriare il web e ha fatto scattare la polemica: sono stati elencati, infatti, i motivi secondo cui gli uomini italiani preferirebbero le donne straniere. Sullo schermo sono comparsi i motivi validi per "scegliere una fidanzata dell'Est" con tanto di discussione in studio che non ha lasciato indifferente il popolo del web che si è scagliato duramente contro la trasmissione e la discussione in studio. I vertici Rai a questo punto di sono scusati per ciò che è accaduto. "Gli errori vanno riconosciuti sempre, senza se e senza ma. Chiedo scusa a tutti per quanto visto e sentito a #Parliamonesabato", ha dichiarato il direttore di Rai1 Andrea Fabiano. Monica Maggioni, presidente Rai, ha affermato di non aver visto la puntata e di aver scoperto tutto dai siti: Quello che vedo è una rappresentazione surreale dell'Italia del 2017: se poi questo tipo di rappresentazione viene fatta sul servizio pubblico è un errore folle, inaccettabile". "Personalmente mi sento coinvolta in quanto donna, mi scuso", ha aggiunto Maggioni, "ogni giorno ci interroghiamo su quale immagine di donna veicoliamo, su come progredire, uscire dagli stereotipi. Poi accade un episodio come questo: il problema non è una battuta inconsapevole, ma la costruzione di una pagina su un tema del genere: è un'idea di donna che non può coesistere con il servizio pubblico". "Per prima cosa - dice ancora la presidente - mi scuso. Poi come azienda cercheremo di capire come è nata una pagina di questo tipo". "La puntata di Parliamone sabato andata in onda lo scorso 18 marzo su Rai 1 mi mette in imbarazzo come amministratrice Rai, come donna e come cittadina di questo paese", dice Rita Borioni, componente del Cda Rai. "Sono imbarazzata, arrabbiata e basita dal tema e dal tono usato in trasmissione intessuto di sessismo, luoghi comuni, superficialità, basse allusioni, sguardi ammiccanti, sottocultura maschilista e a tratti razzista", aggiunge. "Vergognoso. Non riesco in questo momento a trovare altre parole. Per questo trovo giuste le scuse chieste questa mattina dal direttore di Rai1 Andrea Fabiano. Auspico che non si ripetano più episodi del genere che mettono in crisi la fiducia dei cittadini nel servizio pubblico", conclude Borioni.
Franco Siddi, consigliere d'amministrazione di Viale Mazzini, parla di "grande amarezza e sconcerto. Stando sempre attenti a garantire le libertà di posizionamento sui temi sociali e sui fatti di costume, il significato stesso di servizio pubblico, va ricordato a tutti gli autori e protagonisti della nostra tv, richiede sempre di alzare l'asticella della responsabilità". "Non si tratta di censurare - prosegue Siddi - ma di avere riguardo del fatto che la Rai deve essere sempre bene pubblico, in tutte le sue espressioni. Sicuramente l'idea di eliminare i gruppi di ascolto e di valutazione di qualità interna per molti programmi, fatta a suo tempo anche per ragioni economiche, merita un ripensamento. Così pure diventa sempre più urgente l'articolazione funzionale delle responsabilità editoriali dentro le reti. E' ora anche di ripensare i limiti degli agenti nella realizzazione dei programmi esterni. Bene le scuse del direttore Andrea Fabiano che ci mette la faccia, ma occorre ora fare tesoro della lezione".
Il senatore Francesco Verducci, vice presidente della Commissione Vigilanza Rai, parla invece di "un pesantissimo concentrato di luoghi comuni e stereotipi sessisti da società feudale che mortificano interi secoli di conquiste civili e di emancipazione femminile". "La nostra società è molto più avanti di stereotipi insopportabili - sottolinea l'esponente pd - e riconosce alle donne (e agli uomini) la piena e consapevole libertà di poter scegliere i propri comportamenti, di non dover essere per forza sexy, di poter volendolo indossare pigiami, di arrabbiarsi o meno per i tradimenti del partner, di saper cucinare oppure anche no (per stare alle "tesi" contenute nel famigerato cartello apparso in trasmissione) e via così. Per questo il cartello messo in bella mostra in trasmissione, che pretende di catalogare i giusti comportamenti femminili, è un insulto insopportabile alla nostra libertà, che è tale solo quando vince la gabbia e il bullismo degli stereotipi". "I responsabili di questo scempio alla nostra cultura e alla nostra convivenza devono dimettersi - conclude Verducci - La Rai ha il compito di promuovere democrazia e diritti, quanto avvenuto sabato è molto più di un semplice incidente. Gran parte della programmazione d'intrattenimento, in specie mattutina e pomeridiana, va ripensata. E i responsabili di quanto accaduto sabato devono dimettersi".
La Rai, le mogli dell’est e la miseria italiana nei talk, scrive Monica Lanfranco, Giornalista femminista, formatrice sui temi della differenza di genere, il 20 marzo 2017 su "Il Fatto Quotidiano". "Errore folle, inaccettabile": questa la sintesi del commento della Presidente della Rai Monica Maggioni, collega potente e stimata nell’azienda pubblica italiana più importante del paese che si occupa d’informazione e intrattenimento, dopo l’ondata di sdegno (e la successiva chiusura) dalla trasmissione di Rai Uno Parliamone sabato, dedicata al profondo argomento: uomini italiani e donne dell’est. Inaccettabile, sì, ma non è un errore: è lo specchio della nostra realtà quotidiana, dentro e fuori lo schermo dell’elettrodomestico che governa, in molti sensi, gli indirizzi della politica, della cultura, dell’economia, della nostra vita. Dovunque, sì, ma in Italia moltissimo. Anche se non la vediamo, o non la possediamo, sbagliamo a pensare che i nuovi social, con la loro velocità e pervasività, abbiamo tolto potere alla tv. Non è così, perché la sua forza nel veicolare arretratezza e resistenza al cambiamento è ancora enorme: basta vedere le milionate di persone che hanno seguito il festival di Sanremo, tanto per stare nell’attualità recente. Come nel 2009 dimostrò il profetico documentario di Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, è stata la tv a veicolare per oltre due decenni stereotipi e luoghi comuni sessisti in programmi definiti di intrattenimento zeppi di volgarità, doppi sensi sempre e noiosamente a sfondo sessuale, reiterando l’allegro adagio di mogli e buoi dei paesi tuoi come leit motiv di fondo, perché l’imperativo fatti una risata è stato ed è il collante politico trasversale del paese del sole, mozzarella e mandolino. Va detto che in Rai lavorano centinaia di brave persone, donne e uomini dalla grande professionalità e, lasciatemelo scrivere, grande impegno civile e politico (così come anche nelle tv commerciali). Ma il loro sforzo titanico nel portare altri pezzi di realtà dietro a quel vetro passa con fatica, quando passa. Da quattro anni giro l’Italia ininterrottamente riempiendo teatri grandi e piccoli con lo spettacolo Manutenzioni-Uomini a nudo, dove per la prima volta uomini sconosciuti parlano di sessualità maschile: mai una volta che la tv italiana si sia fatta viva. Ciò è interessante non perché mi riguardi, ma perché, come in centinaia di altre iniziative che pure coinvolgono in modo significativo la società, racconta il concetto di notiziabilità della realtà. Chi sceglie cosa diventa visibile decide anche cosa diventa informazione, e quindi costruisce consenso. Negli anni in cui ho lavorato in Rai sono stata invitata in trasmissioni tv della ‘concorrenza’ come ospite, e ho quindi visto su entrambi i fronti come si ragiona e quali sono le logiche della notiziabilità: stando in radio ero meno controllabile, meno potente e mi muovevo con una autonomia impensabile in tv, ma il mantra da seguire era comunque: “Mi raccomando, quale che sia l’argomento presenta sempre una opinione a favore e una contro”. La famosa ‘neutralità’ del servizio pubblico era, secondo questo concetto di democrazia acritica e meccanica, salva. E infatti la trasmissione Parliamone sabato, il cui clou è stato l’imparziale cartello con i sei motivi per scegliere una fidanzata dell’est, dovrebbe diventare un ottimo case study per le scuole di giornalismo sulla favolosa neutralità. Che ridere. L’avvento della tv commerciale, aggressiva e per questo ritenuta moderna, ha mutato profondamente la Rai, e non in meglio: navigando negli archivi o nel mare magnum di Youtube viene da piangere a confrontare lo stile delle inchieste così come dei programmi di intrattenimento. Sarà pur vero che usiamo meno parole (quindi pensiamo meno profondamente) e che l’analfabetismo di ritorno fa lanciare allarmi alle università sulla incapacità linguistica e lessicale di un grande numero di giovani (che pur vengono dai licei): ovviamente non è solo responsabilità della Rai. Ma è sideralmente lontanissima la funzione migliorativa, creativa, coraggiosa e di servizio della tivvù. Lo spettacolo triste, violento e ignorante non solo insito in quel cartello, ma nell’intera trasmissione, andata in onda sulla rete di maggiore ascolto e di maggior potere, non è altro che la conferma del senso di impunità e di disprezzo di chi ha confezionato il programma per quella grande parte di Italia che si rifiuta di pensare che le donne e gli uomini siano spazzatura. Intendiamoci: la rimonta, a partire dal Parlamento, della grettezza dei discorsi da caserma e da palestra è inequivocabile e diffusissima, ma un conto è che questa miseria sia fuori dall’elettrodomestico, un altro è che venga asseverata in trasmissioni per famiglie, e per giunta pagandoci obbligatoriamente il canone. Che vergogna abissale. Una cosa che non molti sanno, a proposito dell'ormai famigerato sondaggio giudicato "sessista" sulle donne dell'Est, è l'origine del servizio. In studio a Parliamone sabato, ribattezzato ormai "Non parliamone mai più", Paola Perego ha detto: "Su internet ho trovato un articolo che elenca i motivi per cui una donna dell'est è meglio di una donna italiana". Bene, TvBlog ha scoperto che la freddura è stata presa dal sito satirico OltreUomo. La vicenda ha raggiunto vette davvero surreali. La notizia della cancellazione del programma da parte della Rai è stata ripresa dalla stampa straniera. La Bbc si è occupata della vicenda con un "Italian broadcaster cancels sexist show". Roba da perdere il sonno.
La polemica contro la rubrica Parliamone sabato, condotta da Paola Perego su Rai1, è per il Codacons ipocrita ed insensata. “Tutti si scandalizzano per la “lista” con i motivi per scegliere una fidanzata dell’est, ma nessuno rimane turbato quando, sfogliando le pagine dei quotidiani, la donna appare come un mero oggetto – spiega il presidente Carlo Rienzi – La rappresentazione delle donne che danno oggi i giornali è assai peggiore del servizio trasmesso da Rai1, perché sulle pagine dei quotidiani il corpo femminile e l’immagine della donna vengono continuamente umiliati e mercificati. Eppure non ci sembra che chi oggi si indigna con la Perego abbia mai protestato contro i direttori delle varie testate giornalistiche”. “Parlare delle “fidanzate dell’est” e delle caratteristiche di donne di altri paesi non ci pare uno scandalo, ma anzi affronta una questione sociale esistente nel nostro paese, dove cresce costantemente il numero di donne provenienti dall’Europa dell’est, e può essere utile per portare ad una riflessione non solo sulla donne ma anche e soprattutto sugli uomini italiani e sui loro comportamenti” – conclude il presidente Codacons.
Censura Rai, maschilismo e ipocrisia. Il caso Perego. Hanno chiuso la trasmissione “Parliamone sabato” di Rai1 e “licenziata” la conduttrice Paola Perego. Per chi si vuole informare, ne sono pieni tutti i media, tradizionali e no. L’accusa: maschilismo, perchè ha parlato di quanto sono buone e brave le donne dell’est Europa come mogli per il maschio maschilista italiano. Cioè ha detto quello che sanno e dicono in tanti, in qualunque bar dello sport o casa del popolo (2). Ha detto quello che generazioni e generazioni di maschi italiani hanno pensato e fatto quando -cortina di ferro comunista ancora vigente, e anche dopo- andavano (anche con gite organizzate in pullman) alla conquista di queste donne portandosi dietro diverse paia di calze di seta e preservativi, e non tanto per farne fidanzate e spose…La trasmissione ha raccontato una realtà che ancora c’è. Brutta, per carità. Sicuramente maschilista, per carità. Ma che c’è. Che va combattuta, superata e che, per questo, forse non è male che sia conosciuta meglio, oltre alla gomitate tra maschi che, sempre al famoso bar, raccontano di quel loro amico che era andato a Bucarest col pullman (l’immaginario della donna rumena è tra le più sexy e maschiliste)…Tra le tante reazioni di indignazione, spunta quella della presidente della tv di Stato, Monica Maggioni: “un errore, inaccettabile. … mi scuso… non posso pensare che trenta minuti su una questione del genere siano stai pagati col canone”. Ed eccolo, il canone, l’imposta che siano obbligati a pagare per il mero possesso di un apparecchio tv, anche se non ci sogniamo neanche di vedere la Rai… ma, si sa, è l’imposta che i contribuenti devono pagare per il servizio pubblico radiotelevisivo, ora anche nella bolletta della luce, e quindi più faticoso da evadere…Quello stesso canone, per esempio, con cui si pagano anche quelli che ci raccontano l’oroscopo. E non ci risulta una qualche indignazione di presidente e cda della Rai per frottole di questo genere. O forse l’oroscopo sì e il maschilismo no? Sembra di sì. A noi ci fanno schifo entrambi. Ma almeno quando si parla di maschilismo si racconta una realtà, triste e squallida, ma realtà. Con l’oroscopo, invece, siccome non lo si racconta ma lo si sciorina come verità perchè non c’è interlocuzione (al pari dei tg e di altri tipi di spettacoli e servizi di informazione in cui non c’è confronto), vuol dire che ci sono diverse valutazioni. E quella che emerge, con l’oroscopo, è che al popolo gli va data la droga. Rai spacciatrice, quindi. Sembra di sì. Spacciatrice ed ipocrita e pruriginosa e moralista, anche se a difesa dei cosiddetti soggetti deboli (le donne). In contesti come questi - è nostra opinione - uscire dai tunnel della cultura oscurantista, violenta e maschilista, non si fa con la censura, il divieto. Quello che è stato fatto verso la trasmissione della Perego, per noi è censura. E quest’ultima non educa mai, ma crea i miti del proibito, aumenta e fomenta la curiosità e la bramosia. Se il nostro presidente della Rai voleva servire lo Stato, lo ha fatto proprio male, candidandosi ipoteticamente a prossimo ministro della Cultura… e i ministeri della Cultura se non vivono di censura (storia docet, italiana e non solo) di cos’altro dovrebbero alimentarsi?
1 – tranquilli, non è come nei film americani, dove, mentre stai facendo il tuo lavoro, si presenta il capetto con una busta e ti dice: Sei licenziato e siccome siamo generosi in questa busta c’è la paga di tutta la settimana, anche se non è ancora finita. No. Qui ci saranno strascichi e, se non rimane in sella, la Perego avrà milioni e milioni di buona uscita. Non perché è lei, ma perché è così il sistema.
2 – il tipico “bar sport” in Toscana
Vincenzo Donvito, presidente Aduc su Agenpress il 21 marzo 2017
Perego chiusa, Littizzetto osannata. Donne Est ed Ipocrisia Rai. La Littizzetto, strapagata icona radical chic, infarcisce le sue performance di oscenità ad ogni più sospinto. La signora non è capace di svolgere un discorso di trenta secondi senza qualche greve allusione a sfondo sessuale spesso indirizzata al pene maschile. Perchè la Boldrini (a) non censura anche la Littizzetto? Forse gli uomini italiani sono meno degni di tutela delle "Donne dell'Est" di Paola Perego?, scrive il 21 marzo 2017 di Peppe Iannicelli. Luciana Littizzetto oscena ed applaudita, Paola Perego ironica ma chiusa. Le donne dell’Est di Paola Perego turbano i dirigenti della Rai, le oscenità della “comica” sabauda sono considerate forme d’arte sublime. Quanta ipocrisia in mamma Rai che ha da deciso di cancellare la trasmissione “Parliamone Sabato”. Il programma aveva proposto una divertente conversazione sui plus delle “donne dell’Est” rispetto a quelle italiche. Una lista dei luoghi comuni più inverosimili e ridicoli, quelli proposti da Paola Perego, ai quali solo una persona priva del più totale umorismo può prestare una benchè minima attenzione prendendo un caffè al bar. Un argomento leggero come possono esser: il mito degli africani “superdotati”; le suocere insopportabili; i rigori concessi alla Juventus; per la prossima estate meglio bikini o pezzo intero; la cotoletta con una sola o con doppia panatura e così via discorrendo. La discussione sulle Donne dell’Est innescata da Paola Perego ha scatenato un pandemonio che ha smosso persino la Presidenta (non è un refuso) della Camera Laura Boldrini che ha “convinto” la Rai a chiudere il programma bollato come gravemente lesivo della dignità delle donne. Trovo avvilente che la Terza Carica dello Stato faccia sentire la sua voce solo per vicende lessicali inerenti la vocale finale e per simili idiozie ad alto tasso mediatico. Il Parlamento dovrebbe produrre leggi vere a tutela delle donne contro le discriminazioni economiche o la mancanza di servizi non certo perder tempo dietro ad un banale programma televisivo d’intrattenimento. Oppure, se proprio bisogna censurare i media, che la legge valga per tutti. La Littizzetto, strapagata icona radical chic, infarcisce le sue performance di oscenità ad ogni più sospinto. La signora non è capace di svolgere un discorso di trenta secondi senza qualche greve allusione a sfondo sessuale spesso indirizzata al pene maschile. Perchè la Boldrini (a) non censura anche la Littizzetto? Forse gli uomini italiani sono meno degni di tutela delle “Donne dell’Est” di Paola Perego?
Boldrini regina del politicamente corretto: amica dei migranti ma lei non migra, scrivono Francesco Borgonovo e Adriano Scianca il 15 agosto 2016 su “Libero Quotidiano". È come il bambino di quella storiella, quello che indica il sovrano in veste adamitica e dice: «Il re è nudo». Anzi, no, il paragone non calza. Questa è un'altra favola. Qui non c' è il re, c' è una regina ed è vestita. È lei che guarda il popolo e urla: «Siete tutti nudi». È il motivo per cui perfino la sua corte la odia: parla troppo, parla troppo sinceramente, dice quello che sarebbe conveniente non dire, smaschera tutti i piani. Se sveli al popolo che lo stai riducendo in mutande, il gioco si rompe. Lei è Sua Maestà Laura Boldrini, la regina del politicamente corretto. Sul fatto che, anche nella metafora, lei sia vestita è meglio insistere, giusto per autotutelarsi: tre anni fa, per esempio, cominciò a girare in rete una foto di una donna nuda vagamente simile al presidente della Camera. Era un fake, una bufala. Ma chi la condivise sui social network si ritrovò nel giro di qualche giorno la polizia alla porta. È fatta così, lei, sta sempre allo scherzo. È una delle ragioni per cui, pur essendo l'incarnazione vivente del pensiero dominante, finisce per non riscuotere troppi consensi nemmeno in tale ambito: non solo parla troppo, ma è pure permalosa. Del resto, quando qualche anno fa decise di rendersi «più simpatica», la Boldrini scelse come consulente Gad Lerner. Uno di cui tutto si può dire tranne che sia «popolare» o, appunto, particolarmente simpatico. Basta questo particolare a rendere l'idea di quanta presa sulle masse sia capace di esercitare Laura. Una così sarebbe capace di gettare discredito su qualsiasi causa appoggiasse. E se si tratta di una causa particolarmente impopolare, un certo tatto è necessario. Prendiamo la Grande Sostituzione. Significa che prendi l'Italia, scrolli via da essa gli italiani come se fossero formiche attaccate a un tramezzino durante un picnic, e ci metti dentro popoli venuti da altri continenti. È quello che sta succedendo, qui da noi e non solo. Ma non lo puoi dire così, altrimenti c' è il rischio che qualcuno si incazzi sul serio. Devi per lo meno girarci attorno, ammantare le tue argomentazioni di finto buonsenso, se possibile citare «gli economisti» o non precisati «studi americani». Laura no, non ce la fa. Lei è priva della malizia dei politici. Quando prova a ragionare in soldoni risulta goffa, come quando twittò: «Italia è Paese a crescita zero. Per avere 66 milioni di abitanti nel 2055 dovremo accogliere un congruo numero di #migranti ogni anno». Sì, vabbé, ma chi se ne frega di avere 66 milioni di abitanti qualsiasi nel 2055, possiamo anche essere 55 milioni di italiani senza dover portare l'Africa intera in casa nostra, no? A quanto pare, per Madama Boldrini non è così. Ma il meglio di sé, Laura lo dà quando parla a briglia sciolta. Una delle sue uscite più memorabili riguardò la confusione tra immigrati e turisti: «Non possiamo, senza una insopportabile contraddizione, offrire servizi di lusso ai turisti affluenti e poi trattare in modo, a volte, inaccettabile i migranti che giungono in Italia dalle parti meno fortunate del mondo, spesso in condizioni disperate», disse. Ma cosa c' entra? La Boldrini proprio non riusciva a capire che noi non «offriamo» servizi di lusso a nessuno ma che i turisti li hanno solo perché pagano per averli. Per gli immigrati, invece, è lo Stato a pagare. Ma la vera origine di queste gaffes è «filosofica». Il top del Boldrini-pensiero risiede infatti nella sua visione del futuro in stile Blade Runner. Parliamo di quella volta in cui disse che il migrante è «l'avanguardia di questa globalizzazione» e, soprattutto, è «l'avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Capito? Non si tratta di trasformare l'immigrato in cittadino europeo, come vorrebbe (vanamente) la retorica dell'integrazione. Siamo noi a dover diventare come lui. Noi dobbiamo integrarci con i suoi usi e costumi, o meglio con il rifiuto di ogni uso o costume, occorre solo abbandonarsi a un insensato nomadismo, all' abbandono generalizzato di ogni radice. Che l'obiettivo fosse quello di ridurre in miseria noi anziché di dare benessere a loro era già chiaro. Ma, appunto, è una di quelle cose che in genere si dicono con una certa prudenza. Laura no, lei non ha filtri. Del resto non è una politica di professione e non ha quindi le astuzie della categoria. Laureata in Giurisprudenza, durante l'università ha dedicato metà del tempo allo studio, metà a viaggi nel Sud-est asiatico, Africa, India, Tibet: all' epoca preferiva ancora andare lei nel Terzo Mondo anziché portare il Terzo Mondo qua. Giornalista pubblicista, ha lavorato per un periodo anche in Rai prima di dar seguito alla sua vera vocazione: mettere radici nell' inutile carrozzone burocratico dell'Onu. Nel 1989, grazie ad un concorso per Junior Professional Officer, comincia la sua carriera alle Nazioni Unite lavorando per quattro anni alla Fao come addetta stampa. Dal 1993 al 1998 lavora presso il Programma alimentare mondiale come portavoce e addetta stampa per l'Italia. Dal 1998 al 2012 è portavoce della Rappresentanza per il Sud Europa dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (UNHCR) a Roma. Qui scopre il suo vero eroe: il migrante. Quando vede un migrante, Laura perde ogni freno: deve ospitarlo, mantenerlo, incensarlo. Arrivano orde di stranieri sui barconi? Lei vuol dare a tutti il permesso di soggiorno. Erdogan perseguita i turchi? Nemmeno il tempo di capire se ci saranno persone in fuga dal Paese che lei è già pronta a spalancare le frontiere. Tanto, che male può mai fare il Santo Migrante? Di sicuro non può essere un possibile jihadista, perché il terrorismo e l'immigrazione, per la Boldrini, non hanno alcun legame. E, comunque sia, i conflitti religiosi non esistono. Dunque, dal migrante non ci si può attendere che buone cose. Dopo tutto, egli è un po' il partigiano del nuovo millennio. Sì, Laura lo disse davvero, nel corso di un 25 aprile: «70 anni fa erano i partigiani che combattevano per la libertà in Italia, oggi capita che molti partigiani che combattono per la libertà nei loro Paesi, dove la libertà non c' è, siano costretti a scappare, attraversando il Mediterraneo con ogni mezzo». Combattono o scappano? Perché fare le due cose insieme non è possibile. In genere si usano i verbi come due contrari, anzi. O combatti, o scappi. Ma la logica, si sa, è un riflesso indotto dalla società patriarcale. Così come la grammatica. I suoi siparietti con i deputati che si ostinano a usare la «sessista» lingua italiana sono noti. Ma per lei è una crociata: «Sono arciconvinta - ha detto recentemente al Corriere della Sera - che la questione del linguaggio rappresenti un blocco culturale. LA CRUSCA La massima autorità linguistica italiana, la Crusca, dice chiaramente che tutti i ruoli vanno declinati nei due generi: al maschile e al femminile. Ma la maggior parte accetta di farlo solo per i ruoli più semplici, e si blocca per gli altri». La Crusca le dà ragione. La Crusca: quella di «petaloso». Per la Boldrini, la politica è fatta solo di simboli, battaglie di principio, questioni formali. Un altro dei suoi chiodi fissi sono le pubblicità. «Certe pubblicità che noi consideriamo normali, con le donne che stanno ai fornelli e tutti gli altri sul divano, danno un'immagine della donna che invece non è normale e che non corrisponde alla realtà delle famiglie», disse una volta. Donne in cucina, che orrore, dove andremo a finire di questo passo? Praticamente non parla d' altro. Nel maggio del 2013 auspicò orwellianamente nuove «norme sull' utilizzo del corpo della donna nella comunicazione e nella pubblicità» perché «se la donna viene resa oggetto nella sua immagine puoi farne quel che vuoi». Si sa, è un attimo passare dallo spot della crema abbronzante al femminicidio. Passarono pochi mesi e nel luglio 2013, si guadagnò più di qualche critica definendo una «scelta civile» quella della Rai di non trasmettere più Miss Italia. Nel settembre successivo tornò sul punto in un convegno, parlando di pubblicità e stampa. «Penso a certi spot italiani in cui papà e bambini stanno seduti a tavola mentre la mamma in piedi serve tutti. Oppure al corpo femminile usato per promuovere viaggi, yogurt, computer». Pubblicità obbligatorie con papà che cucinano: è praticamente il punto in cima alla sua agenda. Il femminismo caricaturale della Boldrini arriva al punto di distinguere gli attacchi politici a seconda del genere di chi attacca: «Per principio mi rifiuto di entrare in dispute tra donne che vanno a indebolire la posizione femminile. Se una donna mi attacca, mi aggredisce in quanto donna, non rispondo. Non mi presto». Ma che vuol dire? Se ti attacca un uomo rispondi, se lo fa una donna no? Questa non è discriminazione? Curioso strabismo. Non è l'unico caso. Attenta alle parole degli spot, Laura è stata molto più di bocca buona nel soppesare il linguaggio del «Grande imam di al-Azhar Ahmad Mohammad Ahmad al-Tayyeb», invitato qualche mese fa a tenere una «Lectio Magistralis» sul tema «Islam, religione di pace» che si sarebbe dovuta tenere nella Sala della Regina di Montecitorio. E pazienza se lo stesso aveva esaltato gli attacchi suicidi contro i civili in Israele, se aveva detto in tv che alle mogli si possono rifilare «percosse leggere», se ai combattenti dell'Isis voleva infliggere «la morte, la crocifissione o l'amputazione delle loro mani e piedi» ma non - attenzione - perché siano degli assassini, ma perché «combattono Dio e il suo profeta», cioè perché non interpretano l'islam come dice lui. Le donne in cucina negli spot, no. Se vengono percosse leggermente dall' imam, invece, va tutto bene. Contraddizioni, ipocrisia? Non nel fantastico mondo di Laura. Dove tutti i migranti sono buoni. Anche perché tutti sono migranti.
Le ragazze dell’Est, scrive Massimo Gramellini Martedì 21 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Noi ragazzi dell’Ovest affezionati alle reliquie del politicamente corretto ci chiedevamo da tempo se si sarebbe mai posto un limite alla deriva del discorso pubblico che ha trasformato la volgarità d’animo in sincerità e il buon gusto in ipocrisia. Ebbene, contro ogni previsione, quel limite esiste. Ed è affiorato in reazione a un programma di Raiuno capace di sciorinare una lista da bar sport, scopiazzata seriamente da un blog satirico, sulle donne dell’Est viste come mogli ideali per la loro natura a metà tra la concubina e l’animale ammaestrato: una foca, ma per niente monaca. A completare il quadretto sociologico è intervenuto in studio il noto fu-attore Fabio Testi con dotte argomentazioni, non sappiamo quanto autobiografiche, del tipo: se l’uomo fa fiasco a letto, l’italiana infierisce, mentre la russa si sente in colpa per lui. In attesa delle liste sulle cinesi che hanno i piedi piccoli e sulle bolognesi che dopo avere fatto sesso tirano la sfoglia, non si può che salutare con piacere, e un velo di stupore, la reazione per una volta compatta dei cittadini della Rete e dei mandarini del Palazzo, uniti nel disgusto. Il circuito mediatico, ridotto a ruttodromo, scopre così un confine insuperabile, forse frutto di un salto di coscienza collettivo. La conduttrice del programma Paola Perego ci ha rimesso il posto. Applicando lo stesso trattamento ai tribuni politici che da anni gargarizzano intorno ai pregiudizi di genere e razza, si profilerebbe una strage.
Rai, ipocrisia di Stato, scrive il 20 marzo 2017 Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. Chiudere una trasmissione televisiva rende più civili? Se non è troppo ardire, né offesa al comune senso del pudore, vien da chiederselo dopo la decisione della Rai di cancellare dal palinsesto Parliamone Sabato, condotta da Paola Perego, secondo i sacerdoti della morale pubblica rea di aver mandato in onda una scheda zeppa di luoghi comuni sulle donne dell’est. Detto con franchezza: quella carrellata di banalità, che sembrava essere stata spinta in tv direttamente da uno spogliatoio maschile, o da una panchina affollata da acide zitelle (in questi casi, la par condicio sessuale è d’obbligo), non meritava un palcoscenico. Non ne meritava uno televisivo, né altri. Nemmeno uno scantinato. Ma ciò stabilito, sicuri sicuri che mettere al bando una trasmissione sia la soluzione giusta e, soprattutto, basti a lavarsi la coscienza, a permettere di poter pensare che la lamentata offesa alle donne possa considerarsi riparata e che un passo – piccolo o grande – verso nuovi orizzonti di civiltà sia stato compiuto? Ammettiamo che Campo Dall’Orto e i suoi l’abbiano imbroccata. Che abbiano ragione. Che sì, quella della Perego e dei suoi sia stata un’infelice uscita da punire con la più pesante delle sanzioni e che il sessismo debba essere esiliato dalla Rai – in ragione del suo essere chiamata ad assolvere una missione di servizio pubblico – e più in generale dalla vita pubblica. Ma se questo fosse il metro di giudizio universale, cosa resterebbe sul piccolo schermo? Semplice: niente. Forse (ma non è certo) solo le previsioni del meteo. Pure per questo, d’altra parte, è rimasta lettera morta l’impegno preso dal Senato, nel 2011, ad inserire nel contratto di servizio pubblico norme a tutela della rappresentazione dell’immagine femminile e del principio di pari opportunità, con un solo obiettivo: dare il benservito ai belli e patinati, ai patiti della chirurgia estetica e – tenetevi forte – ai corpi mercificati oltre che ai ruoli ingessati. Allora, se così non è stato e non è, che senso ha bannare una trasmissione per lesa maestà della dignità femminile, lasciandone in vita cento altre in cui – magari con maggior astuzia – avviene altrettanto? C’è una spiegazione per il poco amletico dubbio: nessun senso. Solo un omaggio ad un antico vizio. Quello dell’ipocrisia. Che fa più danni del sessismo ed in Italia, come scriveva impietoso Indro Montanelli al premio Pulitzer Edmund Stevens, <<non è neppure un fatto sociale perché gli italiani non si metteranno mai d’accordo tra loro per sostenere una menzogna utile agli interessi dello Stato. Da noi l’ipocrisia è dettata dal senso dell’opportuno. È spicciola, pratica e utilitaria: quando un italiano vuol cambiare partito, non fa un esame di coscienza: si limita ad un calcolo di convenienza>>. Per cui, placata con l’olocausto mediatico l’ira funesta delle folle social rumoreggianti bavose e col pollice verso nel Colosseo del web, tutto potrà ricominciare. E continuare allegramente come prima, fino al prossimo sacrificio umano sull’altare dell’ipocrisia.
Le donne dell’est, scrive Michele Fronterrè su "Formiche.net" il 20 marzo 2017. Le donne dell’est sono servizievoli e accoglienti. Sin da piccole sono iniziate ai lavori domestici. Sanno che devono far comandare l’uomo. Si fanno ingravidare e sgravano bene. Senza psico-complicazioni. Tornano dure e sode di fianchi e seno. Così, il servizio su Rai 1 della Perego per il quale la Boldrini rischia di finire in rianimazione e la Perego a peri, nel senso di piedi cioè appiedata. In effetti, la statistica è, evidentemente, parziale. È sfuggito al paniere il panaro. Alcune donne dell’est, infatti, ricevono dalle 11 alle 19 e sono disponibili anche outcall. Su Corso Siracusa a Torino una in dieci anni ha messo da parte duecento mila euro mantenendo un figlio fino all’università. Gli ha comprato una golf di seconda mano con lo spoiler perché potesse tornare al paesello tra i Carpazi a mostrare i cerchi da 16” a Dracula. Poi ci sono quelle che badano agli anziani sollevandoci dall’entrare in contatto con gli umori e gli afrori della vita da cui nessun radicale potrà mai liberarci. A proposito, in Svizzera ai vecchi che gli fanno? Alcune altre, che fanno di mestiere le governanti, sono diventate il perno di molte famiglie italiane. Loro consigliano, loro mediano. Loro ascoltano, riempiendo tutti quei vuoti lasciati dalla quotidianità in cui ci perdiamo dietro che le cose che non contano. Molte mandano i soldi verso est che servono per costruire case, per mantenere famiglie. La propria e quella d’origine di genitori anziani e pieni di acciacchi. Ci sono quelle che arrivano giovanissime e sono disposte a tutto pur di godersi l’occidente con i suoi consumi da cui sono così pervasivamente affascinate. Telefonini, glitter, stivali, piastre per allisciare i capelli che chiudono visini alla Romy Schneider da cui escono come spilli i due occhi cerulei dove c’è dentro una tristezza infinita storicizzata. E ci sono quelle più attempate che arrivano avendo, spesso, un tasso di scolarizzazione altissimo. Che hanno letto tutti i russi e a cui la donna dell’ovest in carriera dà 8 euro l’ora in nero per farsi pulire il bidet e spolverare il comodino su cui c’è Carofiglio e la Murgia fermi a pagina 9. A pochissime riesce di trovare marito. A pochissime, di uscire dallo stereotipo.
Le donne dell'Est. 20 marzo 20117. Lettera a Dogospia. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile D'Agostino, esprimo alcune considerazioni che mi sono state stimolate dalla trasmissione della Perego sulle donne dell'Est Europa. Non ho visto la diretta televisiva, ma ho letto gli articoli dei quotidiani on line, perché vivo a Odessa in Ucraina e non seguo la televisione italiana. Devo per forza fornire alcuni tratti della mia esperienza di vita per poter far capire "da che pulpito arriva la predica". Frequento i paesi dell'Europa dell'Est dalla caduta dell'impero sovietico, prima per lavoro e da almeno 15 anni solo per diletto. Vivo quasi tutto l'anno a Odessa in Ucraina con la attuale moglie ucraina di 15 anni più giovane di me che ho conosciuto on line su un sito specializzato quando avevo 60 anni. Lei lavora ancora anche se non ne avrebbe bisogno. Io ho imparato il russo che è la lingua ufficiale a Odessa e ho scelto di vivere qui per il clima (il mare), per la vita sociale e per la convenienza economica. Qui il costo della vita è mediamente il 50% che in Italia e questa città è cara per gli standard ucraini! Sono stato sistematicamente in contatti via internet con alcune donne prevalentemente russe e ucraine prima di trovare sistemazione definitiva 10 anni fa con mia moglie con cui sono felicemente sposato da 8 anni. Siamo divorziati entrambi da un precedente coniuge e ora siamo liberi e indipendenti da ogni precedente obbligo familiare perché lei ha un figlio adulto e io una femmina e un maschio entrambi adulti e tutti sono per la loro strada senza bisogno di noi. In conclusione penso di avere un po' di esperienza sull'argomento. I 6 punti sintetici sulle caratteristiche delle "donne dell'est" presentati nella trasmissione in questione sono molto aderenti alla mia realtà e a quella vissuta da molti miei amici di altri paesi oltre che italiani. Bisogna sfatare i preconcetti che il provincialismo italiano fa sorgere. Infatti gli uomini che hanno maggior successo per un rapporto stabile con le "donne dell'est" sono in ordine: tedeschi, scandinavi, inglesi e americani, sia statunitensi che canadesi. Gli italiani hanno il loro successo, ma in misura inferiore a quelli descritti. La causa di ciò mi sembra essere una maggior affinità culturale e sociale di questi uomini con quelle donne e una maggior disponibilità economica. Gli italiani sono simpatici interessanti, ma in troppi casi, anche visti da me, poco consistenti. Veniamo ai punti sintetici che hanno originato le proteste degli italiani del "politically correct" piccolo borghese.
Le donne slave curano molto il loro aspetto, ma dire solo questo è riduttivo. Esse curano in primo luogo l'aspetto dei loro figli che sono la dimostrazione delle loro capacità di essere buone madri e poi anche quello dei loro uomini che devono manifestare la loro capacità di avere buona cura del partner. Questa è una cosa lodevole ed è appagante per qualsiasi donna slava, fin dai tempi della nascita della loro cultura tribale.
Ai 6 punti devo aggiungerne altri 3. Le donne slave per tradizione ex comunista hanno una scolarità maggiore delle nostre a esempio, ma non maggiore di quelle dei paesi da me sopra citati, e infatti il problema sollevato dalla trasmissione non esiste in quei paesi come materia di gossip. Le "donne dell'est" amano il sesso. Amano darlo e riceverlo e se ne compiacciono se funziona bene. Sono i poveri provinciali italiani che credono di essere loro a fare le conquiste. Sono le donne invece che conquistano. Se vogliono un uomo per un rapporto stabile e non una "sveltina", lo provano sessualmente e se sembra loro che lui possa funzionare con il sesso, allora si mostrano disponibili per continuare. Gli italiani di poca cultura internazionale che qui cercano solo " la chiavata", se pagano allora hanno trovato una prostituta, se non pagano pensano di essere stati loro a portarsi a letto la donna, ma non è vero perché è sempre lei che decide di "provarti". Per terzo argomento bisogna dire che in ogni caso, perché il rapporto diventi duraturo ci vuole la combinazione di rispetto e soldi da parte dell'uomo, di qualsiasi nazionalità egli sia. Se uno di questi due elementi viene a mancare il rapporto non dura e lasciare ed essere lasciati è la cosa più sbrigativa che si possa immaginare. Le "donne dell'est" ti danno tutto quello che credono ti possa far piacere, ma pretendono che tu dia loro quello che desiderano: affetto, rispetto e vita economica superiore a quella che stanno vivendo o che pensano di dovere vivere in futuro. Vengono con te per stare meglio e non per soffrire, Se questo non succede alla prima ti mollano.
Infine due preconcetti da sfatare: "sono tutte puttane", "i loro uomini sono peggio di noi". Il primo è veramente una sciocchezza e la maggior quantità di donne giovani rispetto alle nostre che fanno le prostitute è dovuta all'aspetto economico e alla demografia, Questo secondo elemento influisce anche sulla generalità del fenomeno e tocca anche la popolazione maschile. Nei paesi dell'ex unione sovietica a causa dell'ecatombe di maschi nella seconda guerra mondiale e del fatto che l'aspettativa di vita dei maschi specie in Russia e Ucraina è di molto inferiore a quella delle femmine, vi è una carenza di uomini. In Ucraina a esempio vi è un rapporto di 3/4 donne per ogni uomo e a Odessa, città di mare di porto e di turismo questo rapporto sale a 5 femmine per ogni maschio. Da ciò deriva che ci vogliono maschi stranieri per fare coppia con le donne in sovrannumero e che gli uomini slavi non hanno problemi di alcuna sorta a trovare una donna e anche più di una. Essi sono come noi, mai certamente inferiori a noi e non si lamentano del fatto che noi europei ci prendiamo cura di alcune loro donne. Io sono inserito e come altri stranieri sono accettato e rispettato per quello che sono e per come mi comporto. Poi piccola battuta da maschilista italiano. Odessa fin dalla sua fondazione 200 anni fa è stata famosa per la qualità e la quantità delle sue donne. E' tutto vero. Più di una volta dico a mia moglie che devo andare a fare la spesa al mercato o al supermercato per deliziarmi gli occhi e per vedere la sfilata delle bellezze di Odessa. Lei sorride ma sa che mi fa piacere e non obietta. Perché le donne italiane dovrebbero sentirsi offese se molti uomini cercano "donne dell'est"? Anche questo è un mercato e il potenziale acquirente cerca il potenziale miglior prodotto: è la legge della domanda e dell'offerta. Sentiti auguri gentile D'Agostino. Francesco.
Donne e tv, il solito doppiopesismo italico, scrive Andrea Zambrano il 21-03-2017 su “La Nuova Bussola Quotidiana”. Bisogna riconoscere che alle ragazze dell’Est è andata parecchio bene. Per anni catalogate alla voce “bonazze in cerca di accasamento” dalla becera vulgata italica, sono balzate in un batter d’occhio nell’aurea categoria delle vittime del machismo italico. Prepariamoci a ondate di ospitate tv e storie strappalacrime. Abituiamoci alla creazione di una nuova specie protetta nel nome dell’autodeterminazione femminile, un genere letterario ad hoc, una fiction, fazzoletti rosa da sventolare e uno sdoganamento perché è “intollerante catalogarle solo come badanti”. Che la Rai abbia deciso di chiudere un’insulsa e anonima trasmissione chiamata Parliamone sabato è fatto che non cambia di una virgola la giornata delle persone di buona volontà: ne ignoravamo l’esistenza ieri e non ci mancherà affatto domani. Così come non sembra il caso di sposare usque ad sanguinem il catalogo ridicolo dei sei motivi per cui scegliere una donna dell’Est che ha provocato la chiusura della trasmissione condotta da Paola Perego. Perché boutade ridicola è, era e resterà. E niente più. Anche perché molte delle motivazioni erano piuttosto un complimento. Che cosa ci sia di sessista in “sono tutte mamme ma dopo aver partorito hanno un fisico marmoreo” è un mistero insondabile. Le altre “doti” erano così virtuose che sembravano uscite dal Siracide. Provare per credere. E se lo dice Eva Henger, la quale ci informa di non essersi offesa affatto e di portare persino il pigiama a letto, conviene crederci. Infatti la canea non è scoppiata per una rivolta di rumene e ungheresi violate. Come sempre accade da noi, le indignazioni mediatiche nascono sempre per altri diversi dalle presunte vittime. Sembra quasi che a volere tutta la cagnara mediatica che ieri ha portato la notizia della chiusura del programma in home page di tutti i siti siano state le donne italiche, come invidiose comari di Bocca di rosa, che come erinni inviperite si sono scagliate sulle colleghe e sul loro momento di celebrità. Ma è evidente che la polpetta era ghiotta per scatenare dalla Boldrini in giù le vestali del femminismo autocratico nostrano. E mica solo la Boldrini che ha denunciato come ancora una volta le donne siano trattate come peluche e bla bla; anche parlamentari di lungo corso e personaggi dello spettacolo sono intervenute per bacchettare gli autori della trasmissione. Un coro unanime e compatto, veloce come una guerra lampo, potente come una falange di amazzoni della buon costume. Ovviamente agli autori non è valsa la scusante della satira perché di fronte a questi affronti non c’è satira che tenga. Nella tv pubblica si può bestemmiare (fatto), dileggiare i politici pro family (fatto), fare sesso esplicito in orario protetto (fatto), indottrinare le masse in favore del simil matrimonio gay (fatto), ma non si può fare ironia sul gentil sesso. Strana democrazia che impone i criteri morali e le indignazioni globali a seconda del peso che certe campagne raggiungono e non secondo un dettato interno che dovrebbe valere per tutti. Alle ragazze dell’Est è andata bene perché hanno avuto la fortuna di incontrare sul loro cammino donne irreprensibili e agguerrite pronte a difenderle dalle angherie del machismo televisivo; le stesse che magari scendono in piazza per l’utero in affitto, perché quello è un diritto e non uno sfruttamento del corpo femminile. Ma vabbè. Meno fortunate sono state le molto più numerose famiglie italiane che sono scese in piazza al Circo Massimo e in Piazza San Giovanni per testimoniare la bellezza della famiglia, del matrimonio, dei figli naturali, della fedeltà. Sono milioni, ma la loro protesta non è riuscita a toccare le corde delle pasionarie boldriniane in servizio permanente. Così la richiesta di scuse a Mediaset per l’oltraggioso dito medio del fantoccio J-Ax e del bambinone Fedez al popolo del Family Day, è ancora ferma al palo, ignorata e vilipesa. Eppure quel dito medio era rivolto ugualmente ad altre donne, madri, spose altrettanto casalinghe e fedeli. Ma nell'immaginario sono etichettate come nemiche del progresso. Potere del politicamente corretto che sceglie le donne, certe donne, da usare come patriot per i propri scopi, il più delle volte opposti alla valorizzazione dell’universo femminile e lascia le altre alla gogna.
Quegli ipocriti perbenisti dell’Lgbt. Demonizzano D&G, ma restano in silenzio sui gay uccisi dall’Is, scrive Giulio Meotti il 16 Marzo 2015 su “Il Foglio”. Nulla hanno mai detto sugli omosessuali palestinesi, tutti fuggiti in Israele per non finire spellati vivi sotto il regime di Arafat e Abu Mazen, per non parlare di Hamas. Non soltanto il mondo Lgbt si è voltato dall’altra parte, ma ha pure accettato, senza soprassalto di dignità, accecato com’è, che il Gay Pride di Madrid boicottasse gli omosessuali israeliani. Nulla, ma proprio nulla, l’Lgbt ha detto negli anni Novanta mentre in Algeria i fondamentalisti islamici annunciavano come avrebbero risolto la questione gay: “Nella lotta contro il male abbiamo il dovere di eliminare gli omosessuali e le donne depravate”. Nulla o quasi ha detto contro Mahmoud Ahmadinejad, il presidente iraniano che qualche anno fa, oltre alle camere a gas, negò l’esistenza di gay nella Repubblica islamica? Va da sé che adesso i capi Lgbt stiano in silenzio, mentre lo Stato islamico getta dai palazzi di Siria e Iraq i reprobi omosessuali, bendati, uno dopo l’altro, per un “peccato” da mondare con la morte, e le pietre della folla. Non uno striscione, non un appello, non una campagna che provenga dal mondo della militanza gay. Due giorni fa, il più noto editorialista australiano, Andrew Bolt, si è chiesto perché non c’erano barche contro l’Is alla fiera di Sydney dell’orgoglio gay friendly. Non una barca su centocinquanta. Opinionisti gay spesso accusano gli “islamofobi” di voler dividere mondo islamico e omosessuali. Come ha fatto Chris Stedman su Salon: “Stop trying to split gays and Muslims”. In questi giorni invece si sono tutti scatenati – a cominciare da Elton John, e poi via via altre celebrities – contro Dolce e Gabbana, il due fondatori della casa di moda italiana, rei di credere alla famiglia tradizionale e che i figli non si fabbricano in provetta. “Filthy”, lercio, osceno, schifoso, è l’aggettivo più usato su twitter contro i due stilisti italiani da parte della comunità gay nel mondo, che adesso annuncia il boicottaggio. La rappresaglia economica ha già funzionato contro Barilla e Mozilla, i cui capi erano stati accusati di “omofobia” e poi costretti a umilianti scuse pubbliche. E la rappresaglia funzionerebbe se volessero davvero attirare l’attenzione del mondo su quei regimi arabo-islamici dove gli omosessuali sono davvero discriminati, altro che in occidente. Eppure ipocrisia e silenzio annebbiano l’Lgbt. Mai una volta che denuncino i versetti della Sunna, che assieme al Corano compone la legge islamica, e in cui degli omosessuali si dice: “Quando un uomo cavalca un altro uomo, il trono di Dio trema. Uccidete l’uomo che lo fa e quello che se lo fa fare”. Qualche giorno fa il settimanale inglese Spectator ha sintetizzato l’indulgenza Lgbt: “Perché la battaglia per i diritti gay si ferma ai confini dell’islam”. Non è che il diritto alla vita di un gay è meno importante del diritto di Elton John ad avere un bambino? Non è che sputare contro Dolce e Gabbana renda perfino, in termini di probità morale, mentre denunciare i fanatici islamici può costare la testa e allora è meglio glissare? Perbenisti.
Rai: sexy sì bambole no, le russe rispondono agli stereotipi. Non c'è niente di più lontano dalla realtà dell'immaginario collettivo del maschio europeo sudoccidentale (leggi: l'italiano gallo cedrone), scrive L'Agi il 20 marzo 2017. Le donne russe rispondono al decalogo del programma Rai in una mini inchiesta condotta dalla corrispondente dell'Agi da Mosca attraverso il micromondo di amiche e conoscenti costruito in tanti anni passati in Russia. Donne normali, che contestano fin da subito la generalizzazione del tema della trasmissione, perchè di "donne dell'Est" ce ne sono di tutti i tipi, dalla Vistola a Vladivostock. E che toccano certi argomenti con sincerità, senza però cadere nel trash. La realtà è' più dura e più complessa dei luoghi comuni. Questo è l'elenco Rai rivisto, alla luce dei loro commenti.
SONO TUTTE MAMME, MA DOPO AVER PARTORITO RECUPERANO UN FISICO MARMOREO. A recuperare il fisico sono quelle che non hanno problemi di tempo e soldi. Se il marito è disposto a spendere soldi per la babysitter o la donna delle pulizie che lava e fa la spesa. Allora la neo mamma ha tempo di rimettersi in forma: massaggi, piscina, palestra, trattamenti estetici. Sono tutte attività che, visto che la donna è in maternità e non guadagna, devono essere a spese del marito. Le donne russe fanno figli da molto giovani, prima dei 30 anni, e il recupero avviene ovviamente in modo diverso che non in Italia, dove la maternità inizia anche dopo i 35 anni. Se però si esce fuori da Mosca e si parla di una famiglia media di provincia, lo stile di vita poco sano e le condizioni spesso d'indigenza, fanno sì che la donna invecchi anche prima delle italiane.
SONO SEMPRE SEXY, NIENTE TUTE NE' PIGIAMONI. Questo è vero, la donna russa è molto curata e attenta alla sua femminilità, spesso quasi ostentata, e la società non dà giudizio morale su questo. I saloni di bellezza sono a ogni angolo, come in Italia i bar, e non c'è donna che non dedichi buona parte del suo stipendio a manicure, parrucchiere e vestiti. Anche al mercato si va vestite bene, perchè "bisogna sempre essere pronte". "Devi brillare come un semaforo, perchè l'uomo si fermi a guardarti", è uno dei consigli che le ragazze russe danno alle amiche straniere troppo modeste nel vestire. Conquistare un uomo in Russia è come una guerra e tutte le armi a disposizione sono valide. Questo atteggiamento va spiegato col fatto che la competizione tra donne è altissima e gli uomini "dostoinie" (degni) sono pochi. Il mantra con cui mamme e nonne spiegano la situazione è che la Seconda Guerra Mondiale ha portato via milioni di uomini, generando così un gap tra maschi e femmine molto alto. La gara tra donne e l'interesse per gli stranieri si spiega, quindi, anche con la natura stessa dell'uomo russo: non ama curare il suo aspetto fisico, vestirsi bene, è galante ma solo in modo formale, ha un'aspettativa di vita media di 59 anni (contro i 73 della donna), a causa di abitudini come alcolismo e tabagismo e non usa dare troppa attenzione alla donna, che di solito prende sempre lei l'iniziativa. Per giustificare questo loro atteggiamento, gli uomini russi amano citare il poeta Aleksandr Pushkin: "Non guardiamo le donne, affinchè loro ci amino di più". La pressione sociale è forte e una donna che a 30 anni non è sposata e non ha figli è considerata spacciata. L'importanza di conquistare un marito benestante è una delle basi dell'educazione delle ragazze russe, con le mamme e le nonne che danno vere lezioni di vita a riguardo. A Mosca si riversano eserciti di ragazze dalle province meno abbienti del paese, in cerca di un uomo che le risollevi anche economicamente. Andare in una palestra di quelle frequentate dai manager stranieri è, per esempio, un investimento che in molte fanno proprio a questo scopo. La fantasia del marito straniero sta comunque svanendo tra le nuove generazioni cresciute nelle grandi città. In seguito al boom economico Mosca può offrire gli stessi o maggiori benefici dell'Occidente, tanto più che la crisi economica e quella dei migranti contribuiscono a creare un'idea poco allettante di vita in Europa. Così, svanito il motivo economico, rimane appunto quello culturale per cercare un compagno non russo.
PERDONANO IL TRADIMENTO. Mai! Il tradimento verrà sicuramene rinfacciato, ma in molti casi può venire facilmente dimenticato con il regalo giusto. Si torna di nuovo all'idea dell'uomo come fonte di sostentamento materiale. La Russia detiene un primato scoraggiante: è il secondo paese al mondo per tasso di divorzi, dopo la Bielorussia. Il 65% dei matrimoni finisce con una separazione. Spesso a 30 anni si hanno già due divorzi alle spalle e così è come se dopo una certa età, le donne avessero rinunciato all'idea di un principe azzurro, dell'amore per sempre e, con un alto grado di freddezza, abbiano deciso di puntare almeno sull'unica cosa che un uomo può dare loro per sempre: i soldi. Così non è raro sentire storie di donne che sposano uno straniero e come prima cosa chiedono al marito di farsi intestare una casa a nome loro o della mamma.
SONO DISPOSTE A FAR COMANDARE L'UOMO. Lui comanda solo se guadagna molto e si occupa di tutte le spese. La donna è molto astuta, e questo accade anche in Italia, spesso comanda lei senza che il marito se ne accorga. I ruoli dei due sessi sono molto distinti nella società e in famiglia; la parola "femminista", in Russia, suona quasi come un'offesa. Le donne sovietiche sono state tra le prime a godere di parità di diritti, ma non hanno vissuto il loro '68.
SONO CASALINGHE PERFETTE E FIN DA PICCOLE IMPARANO I LAVORI DI CASA. E' vero che mediamente le donne russe hanno ambizioni di carriera più limitate rispetto alle italiane, ma non vogliono neppure passare le giornate a pulire la casa e a fare il bucato. Le donne amano uscire con le amiche, andare ai concerti, a fare shopping, a teatro, soprattutto se il marito può pagare tutto. Spesso è la pressione sociale, di cui abbiamo accennato, a costringerle nella parte delle casalinghe amorevoli, ma una volta diventate adulte si tratta di ritmi che tendono a rifiutare.
NON FRIGNANO, NON SI APPICCICANO E NON METTONO IL BRONCIO. E' vero, sono meno "appiccicose", anzi cercano spesso i loro spazi e non vogliono essere controllate. Il broncio, invece, è il metodo più amato e usato tutto il giorno e anche la notte? E' usato per comandare in modo indiretto e a volte ci si nega anche sessualmente, finche' non si è ottenuto quello che si vuole, sfruttando il punto su cui gli uomini sono più deboli. Pilit, lamentarsi facendo ripetutamente la stessa richiesta, è tra i verbi più usati da un marito russo, quando parla della moglie.
“Perché scegliere una donna dell’est”: la gaffe è da anni ’50, ma la censura è conformista, scrive Emmanuel Raffaele il 21 marzo 2017 su “Il Primato Nazionale". “Hanno fatto bene in Rai a decidere di chiudere questo programma”. Parola della presidente della Camera Laura Boldrini, sempre in prima linea quando si tratta di censura. Il suo parere, ovviamente, non poteva mancare a conclusione di una vicenda imbarazzante da ogni punto di vista: “Parliamone Sabato”, programma condotto nel fine settimana dalla nota conduttrice Paola Perego, è stato chiuso per volere dei piani alti della Rai in seguito alle polemiche scoppiate per la discussione sulle donne dell’est. Nell’ultima puntata del programma, infatti, era stata proposta una slide sui “Motivi per scegliere una fidanzata dell’est”, un elenco di sei ragioni per cui, secondo la Perego – che in diretta ha spiegato di averne estratto i contenuti da un articolo preso in rete – gli italiani preferirebbero le ragazze provenienti appunto dall’Europa dell’est. Tra le ragioni ritenute offensive, in primis la quarta in lista: “sono disposte a far comandare il loro uomo”. E poi le inaccettabili “sono casalinghe perfette e fin da piccole imparano i lavori di casa”, “perdonano il tradimento” e, per concludere, “non frignano, non si appiccicano e non mettono il broncio”. Ragioni che, unite alle classiche “sono sempre sexy”, mamme dal fisico marmoreo, hanno scatenato prima le polemiche sui social e su internet e, poi, naturalmente la stampa. Con inevitabili retromarce della Rai tutta. Il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto ha dichiarato: “Gli errori si fanno, e le scuse sono doverose, ma non bastano. Occorre agire ed evolversi”. A fargli eco il direttore di Rai Uno Andrea Fabiano: “Gli errori vanno riconosciuti sempre, senza se e senza ma. Chiedo scusa a tutti per quanto visto e sentito”. Mentre Monica Maggioni, presidente Rai, ieri ha spiegato: “Non ho visto la puntata. Quello che vedo è una rappresentazione surreale dell’Italia nel 2017: se poi questo tipo di rappresentazione viene fatta sul servizio pubblico è un errore folle, inaccettabile. Personalmente mi sento coinvolta in quanto donna, mi scuso”. Un’ondata di inchini che, in poche ore, ha portato addirittura alla chiusura del programma, tra gli applausi della Boldrini che ha trovato la lista “agghiacciante”, “un elenco che grida vendetta”. Una scelta di fronte alla quale non si può che restare basiti, tanto è opprimente, ormai, il livello di conformismo imposto ai mezzi di comunicazione di ogni tipo. “Parliamone” andava chiuso? Per quanto ci riguarda, come tanti altri programmi del servizio pubblico e privato, avrebbe benissimo potuto non partire mai. Ben altri sarebbero i contenuti richiesti ad una televisione di qualità. Ma non ci risulta che sia stata la qualità complessiva della trasmissione a portare alla chiusura. Piuttosto, sull’onda delle misure liberticide anti-bufale, anti-revisioniste ed anti-tutto-ciò-che-non-va-d’accordo-con-il-background-politico-dell’attuale-classe -dirigente, il programma è stato chiuso per aver espresso, pur senza farle proprie e semplicemente mettendole in discussione, alcune ipotetiche caratteristiche delle ragazze esteuropee. Stereotipi? Probabilmente sì. Dopo tutto, sempre all’interno de “La vita in diretta”, qualche anno fa, in un servizio dedicato ancora alle “belle donne dell’est”, il fascino loro attribuito era dovuto soprattutto alla loro forza di carattere, tutto il contrario (o forse no?) rispetto a quanto appariva dalla lista in questione. Chiacchiere da bar? Sicuramente. Ma, nell’epoca di “Uomini e donne” e dei reality, di Bruno Vespa e dei talk show su qualunque cosa, dovessimo chiudere tutti i programmi dove si fanno chiacchiere da bar (e ne saremmo felicissimi), ben pochi rimarrebbero ancora in onda. Trattasi, dunque, molto semplicemente di un caso inquietante di censura, che è tanto più grave quanto insignificante è la rilevanza reale della questione, a dimostrare il controllo sempre più stringente sul pensiero, favorito dalla “mediatizzazione” della società. Ad ogni modo, senza se e senza ma, “Parliamone” è stato chiuso. “Per sessismo. O per razzismo. Oppure per eccesso di luoghi comuni”, per riprendere un’ottima sintesi de “Il Fatto quotidiano”. Emmanuel Raffaele
La censura è il mondo alla rovescia. Ho, in passato, lodato il coraggio del presidente della Rai, Monica Maggioni, rispetto ai luoghi comuni, ma fatico a riconoscerla nelle scuse al pubblico per la trasmissione Parliamone sabato di Paola Perego, scrive Vittorio Sgarbi il 21 agosto 2017 su "Il Quotidiano.net. Il mondo va a rovescio. Ho, in passato, lodato il coraggio del presidente della Rai, Monica Maggioni, rispetto ai luoghi comuni, ma fatico a riconoscerla nelle scuse al pubblico per la trasmissione «Parliamone sabato» di Paola Perego, dopo le proteste di alcuni spettatori (probabilmente solo donne, certamente brutte e prive di ogni ironia) sul web. Ma addirittura incredibile mi sembra la decisione del direttore generale Antonio Campo Dall’Orto di chiudere il programma, con una motivazione solenne: «Gli errori si fanno, le scuse sono doverose, ma non bastano...», «occorre agire ed evolversi», in nome della «mission del Servizio Pubblico». Capisco la nobilitazione del concetto, ma non servono le maiuscole per «servizio pubblico». Ed è invece un cattivo servizio una censura violenta per una trasmissione ironica, spiritosa e persino veritiera. Di più, la censura ottenuta è una evidente espressione di razzismo nei confronti delle rumene, che sono non meno libere e intelligenti delle italiane. Dov’è allora lo scandalo? Nell’elencare 6 prerogative, logiche, divertenti, che identificano nelle rumene i costumi delle italiane di 40 anni fa, prima del più velleitario femminismo, e come ancora sono, tanto per fare dell’antropologia, le abruzzesi, le molisane, le lucane e parte delle pugliesi. Le radical chic milanesi e le strappone romane non m’interessano. Ma ditemi voi cosa c’è di negativo e di umiliante per le donne nelle divertenti definizioni del temperamento rumeno illustrato dalla Perego: la forma fisica dopo il parto, l’essere sexy e non sciatte con tute e pigiami, perdonare il tradimento, essere casalinghe perfette (perché dovrebbe essere una cosa negativa?) e, ironicamente, non frignare, non essere appiccicose, non mettere il broncio (è un delitto non mettere il broncio?). Resta soltanto il punto che avrà indisposto, immagino, la Boldrina, e qualche altra pseudo femminista, generalmente brutte e sgradevoli: le rumene sono disposte a far comandare il loro uomo. È un’affermazione forte, capisco, ma è condivisa da tutti gli uomini. E non è altro che una forma di superiorità mascherata. La disponibilità o la disposizione a farsi comandare è una sottile forma di potere. Per tutta la vita l’ha dimostrata mia madre nei confronti di mio padre. E non solo.
Censura femminista contro donne dell’est e contro manifestazioni di papà italiani, scrive il 20 marzo 2017 Silvio. Ormai branchi di femministe rabbiose azzannano chiunque parli di donne. L’ONU mette Wonder Women come simbolo? Proteste perchè è bianca. Esce un film su Wonder Women? Proteste perchè non ha le ascelle pelose. Oggi la RAI ha auto-censurato il programma “parliamone subito” colpevole di aver osato discutere con ironia del fatto che sempre più uomini preferiscono le donne dell’Est, più belle e meno contaminate dal femminismo. Il programma censurato ha detto solo la verità nota ai sociologi come “linea Hajnal” che storicamente divide quei paesi, per lo più ad Est, dove le donne sono più femminili e dedite alla famiglia. Inoltre le mappe parlano chiaro: l’Est comprende la regione del Dnieper-Dniester, da cui provengono le donne che più rispondono ai canoni di bellezza. La polemica isterica contro il programma RAI è sulle prime pagine (!) dei maggiori quotidiani nazionali:
La stampa che monta polemiche sul nulla è la stessa che contemporaneamente ignora questioni serie che riguardano gli uomini.
La stessa stampa non aveva speso una parola quando la RAI aveva diffuso generalizzazioni false e calunniose contro gli uomini italiani.
E non spende una parola oggi sulla manifestazione di ieri dei papà separati che a Roma hanno protestato per le violazioni dei diritti umani (Italia pluri-condannata dalla Corte Europea per i Diritti Umanni), a difesa dei centinaia di migliaia di bambini privati dei loro papà ed alienati da associazioni a delinquere di stampo femminista.
La stampa che attacca l’informazione indipendente accusandola di “fake news” è la stessa che tenta di manipolare l’opinione pubblica oscurando temi sgraditi all’ideologia dominante e pompando notizie irrilevanti.
Nuova epurazione femminista in Rai. Chi tocca le donne, muore, scrive il 20 marzo 2017 Giulio Tandiod. Nel pomeriggio di sabato, durante la trasmissione condotta dalla Perego su Rai uno, è andata in onda una breve “striscia” nella quale si discuteva delle virtù delle donne dell’est. Tutti noi conosciamo il tenore di queste trasmissioni pomeridiane, pensate per riempire i buchi del palinsesto televisivo e rivolte principalmente ad un pubblico composto da casalinghe o vecchiette. Lo scopo degli autori che le propongono e le mandano in onda, lungi dall’informare seriamente le persone, o dal fare servizio pubblico, è essenzialmente quello di intrattenere facendo leva, attraverso i temi trattati, sui più scontati e banali luoghi comuni, che sfociano quasi sempre nel pettegolezzo più becero. Durante la discussione è stato mostrato il cartello che vedete al lato, nel quale in maniera scherzosa, venivano sintetizzati i punti principali per i quali gli uomini dovrebbero preferire le donne dell’est Europa a quelle autoctone. Immediatamente sui social è scoppiato lo scandalo. La questione è stata considerata di importanza tale che gli autori della trasmissione hanno dovuto immediatamente porgere le loro scuse, spinti dalla pressione mediatica che ha visto coinvolti addirittura esponenti politici. La MegaPresidentA Monica Maggioni poi, stamane ha annunciato provvedimenti straordinari che puntualmente sono arrivati: la chiusura del programma. Parliamoci chiaro: si può essere d’accordo o meno su quanto riportato in quel cartellone ma visto il tenore della trasmissione, la cosa non avrebbe dovuto scandalizzare più di tanto. Quello che è andato in onda è stato l’ennesimo pettegolezzo pomeridiano per intrattenere il pubblico, come più o meno siamo abituati a vedere da un po’ di tempo a questa parte. Ma allora, cosa c’era di diverso? La domanda è retorica e la risposta scontata: il dibattito riguardava le donne. La sacralità dell’immagine della donnainquantodonna è stata messa per una volta in discussione. La lente di ingrandimento è stata collocata sui pregi e difetti dell’universo femminile, visti dalla prospettiva maschile, e contrariamente a quanto accade sempre, stavolta ad essere messe “sotto esame” erano le donne occidentali e il loro modo di relazionarsi con gli uomini. Poteva passare inosservata una cosa del genere? In una società come la nostra, gravida di politicamente corretto, dove la narrazione mediatica dominante è quella di uomini violenti e inetti, è arrivata puntuale la sanzione di lesa maestà, che colpisce con l’ostracismo, la gogna mediatica, l’umiliazione pubblica e il licenziamento.
Se qualcuno avesse ancora il dubbio di ciò che stiamo dicendo adesso spazzerà via ogni titubanza. Guardate le foto che vi proponiamo, tratte dalle pagine facebook StopmoralismoTv e DirittiMaschili Mra.
Domenica In…misandria! Rai UNO. Come far soffrire gli uomini brutti sporchi e cattivi!
Dolce Casa. Rai UNO. Difendersi dai Mammoni…maschietti inetti e attaccati alla gonnella di mammà.
Uno mattina. Rai UNO. Umiliare gli uomini per cominciare in allegria la giornata!
Uno mattina. Rai UNO. Uomini, tutti sporchi assassini.
Si tratta di noti programmi della Rai nei quali si trattano più o meno gli stessi temi a parti invertite.
Nella prima trasmissione, si istruiscono le donne sulle tecniche utili a far soffrire gli uomini.
Nella seconda, si parla di come tutelarsi dai mammoni, ovviamente uomini immaturi e ancora attaccati alla gonnella di mammà.
Nella terza, si umiliano i maschi colpiti dalla crisi economica, ricordando loro quanto sono inutili.
Infine nell’ultima, a caratteri cubitali si afferma che gli uomini sono tutti dei potenziali assassini: Uomini, se li lasci ti uccidono.
Ricordate qualche tipo di reazione analoga? Ricordate qualche forma di scandalo, programmi chiusi in un batter d’occhio, Presidentesse che si scusano e si indignano in quanto donne e stupidaggini varie? Assolutamente no. Questo perché nel regime politicamente corretto in cui viviamo, la dignità degli uomini può essere calpestata senza alcuna remora e senza alcun freno. Anzi, più la mascolinità viene degradata e calpestata, maggiori sono gli ascolti e l’approvazione. Siamo in un vero e proprio regime mediatico totalitario dove il culto del leader è sostituito dal “culto della donna”. La pari dignità delle persone ormai è abbondantemente superata nell’indifferenza e nell’apatia collettiva. L’opinione pubblica, spinta dai media e dalla stessa classe politica, ha ormai una percezione della realtà totalmente distorta, che si basa su un doppio standard nella valutazione degli eventi. Gli stessi identici episodi passano totalmente inosservati quando riguardano gli uomini, mentre si trasformano in casi di interesse nazionale quando colpiscono le donne. A costo di essere ripetitivi bisogna sottolineare forte ciò che abbiamo già detto in altre occasioni. Non bisogna affatto pensare che questo scandalo sia sorto per una questione relativa all’utilizzo di un linguaggio televisivo adatto ad una tv pubblica, e rispettoso delle persone. La questione è ancora una volta prettamente di “genere”. Tutto è nato perché si è osato toccare e criticare le donne. Se al loro posto si fosse parlato di uomini dell’est, o della potenza sessuale degli uomini di colore, non sarebbe accaduto praticamente nulla. Perché non è MAI accaduto nulla in passato. Quando i ruoli si invertono, gli stessi comportamenti vengono ignorati o nella migliore delle ipotesi liquidati con una risata. Sia chiaro, la Grande Sorella vi guarda. Chi tocca le donne, muore.
Il programma "Parliamone sabato" ha scatenato un polverone mediatico e social per la lista sulle "qualità" delle donne dell'est e immediata è stata la decisione della Rai di cancellarlo dai palinsesti. In difesa di Paola Perego scende la figlia, Giulia Carnevale, scrive Mercoledì 22 Marzo 2017 "Leggo". La ragazza scrive su Instagram: "Chiedere scusa senza neanche aver visto e dichiararlo non ha prezzo. Alla presidenza Rai le pecore che tolgono il lavoro a decine di persone dal giorno alla notte per aver visto dai siti. MAGGIONI SEI UN MITO! #IGNORANZA. #nonhovistolapuntata #pecore". Un attacco frontale contro la presidentessa Rai. Poi, in un post successivo, sulla chiusura del programma, commenta: "Ovvia conseguenza, altrimenti tutti avrebbero potuto vedere l'inconsistenza di elementi validi alla CENSURA. Forse qualcuno dovrebbe spiegarci quali sono le vere ragioni che hanno portato alla chiusura del programma? #incoerenza".
Interpellato sul caso “Parliamone Sabato” e sulla chiusura del programma di Paola Perego, Bonolis ha difeso la collega (nonché moglie del suo agente Lucio Presta, in prima fila in conferenza stampa): “Mi dispiace per quello che è successo. È successo qualcosa di umano, e in televisione si esercitano rapporti di forza. La Rai è un’azienda televisiva di Stato e deve far contenti tutti. E per fare contenti tutti è difficile non ascoltare le lamentele di tutti, ma così si finisce per fare una televisione innocua dove l’ironia rischia di non avere spazio. E l’ironia non può essere innocua. Io ho visto quel momento e non era successo davvero nulla. Credo che dietro quella chiusura ci siano altre cose e credo che se quel programma avesse fatto il 20% non sarebbe stato chiuso. La rete rischia di diventare una forca caudina con le sue battaglie inutili ma non bisogna avere paura. Bisogna avere le palle di rispondere”.
Paola Perego, il crollo dopo la cacciata... Coltellata alla Rai, le frasi durissime, scrive il 22 marzo 2017 “Libero Quotidiano”. "C'è gente che ha bestemmiato, hanno intervistato il figlio di Totò Riina facendogli l'altarino, abbiamo visto in televisione qualunque cosa. Questo era un gioco. È scoppiata la bomba, ma la bomba non c’è. Hanno usato me come potevano usare forse qualcun altro. Forse è scomodo mio marito". Paola Perego travolta dalla polemica che ha portato alla chiusura del suo programma Parliamone sabato racconta la sua versione in una intervista esclusiva a Le Iene Show su Italia1. "Sto male - spiega - perché mi sento messa in mezzo in una cosa molto più grande di me. E sto male per tutte quelle persone che, fidandosi di me, mi hanno seguita in questo programma. Ora resteranno senza lavoro. Pensa che guadagnano due lire ed ora veramente avranno problemi a pagare l'affitto, perché non è che gli stipendi Rai proprio ti permettono di navigare nell'oro. Sono disorientata, spaventata, non riesco a rendermene conto, vedo i giornali e mi sembra una cosa surreale, che non sta capitando a me. È tutto troppo surreale. Non ho ancora metabolizzato, non riesco a capire bene che cos’è questa violenza contro di me. Non me lo merito, io credo di essere una brava persona". Non solo hanno subito chiuso il programma ma "credo che adesso rescinderanno anche il mio contratto", "questo non è un problema, cioè io non sono quella persona che stanno descrivendo e chi mi conosce lo sa". Tornando al merito del programma, "può essere stata una pagina brutta, ma non... È incredibile perché dal niente è partita un'eco mostruosa su una cosa che non c'è, non esiste". Ma "non verrà mai fatta chiarezza. Ma come fanno a fare chiarezza? Gli argomenti in Rai vengono approvati prima di essere messi in onda". Approvati "dal capostruttura, dal direttore di rete. Mi hanno approvato questo argomento e mi hanno cassato il femminicidio perché non volevano che ne parlassimo perché non era con la linea editoriale". "Prima l'approvano e poi si scusano, di cosa? Ma di cosa? Ma di che stiamo parlando? Loro si sono dissociati da una cosa che avevano approvato e adesso fanno la figura di quelli che stanno salvando l'Italia da questo mostro che è sessista, che porta in televisione queste cose". Sensi di colpa? "Ti ci fanno sentire in colpa perché parte da una parola e poi tutti la ripetono e poi s'ingigantisce e ti portano a pensare Ma che cosa ho sbagliato? Io l’ho rivisto tre volte quel pezzo: io ho difeso le donne come faccio sempre". E ancora: "C'era l'intero programma da vedere, cogliendo la discussione e il lato ironico della cosa". "Io mi vorrei scusare per la dichiarazione di Fabio Testi. Ho chiesto di non invitarlo più". Ma qualcuno potrebbe ridimensionare le accuse? "No, anche perché dalle posizioni che hanno preso - conclude Paola Perego - è molto difficile tornare indietro e poi sono dei codardi".
Paola Perego in lacrime a Le Iene: "Parliamone sabato, la Rai sapeva tutto", scrive Antonella Luppoli il 22 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. Hanno chiuso Parliamone sabato, il programma di Paola Perego "reo" di aver intavolato una scanzonata discussione sulle donne dell'Est. Una decisione che Libero ha definito "ridicola", quella della Rai. Una decisione dietro alla quale ci sarebbe stato lo zampino, decisivo, di Laura Boldrini, che si è battuta come una leonessa per far chiudere il programma: l'ultima delle sue battaglie inutili. Anzi dannosa, dato che nel nome di un presunto sessismo - che nel fatto in questione, non esiste - ora sono rimaste a casa diverse persone. Tra queste, anche la Perego, che certo non avrà problemi a cavarsela. Eppure, vederla disperata, ridotta in lacrime, nell'intervista a Le Iene con cui ha rotto il silenzio dopo il "patacrac" fa una certa impressione. Per inciso, come vi spieghiamo nell'articolo di Antonella Luppoli, che segue, la Perego afferma che la Rai sapeva tutto, compresa la discussione sulle donne dell'est. Paola Perego fuori dalla Rai? Questa potrebbe essere la più pesante delle conseguenze, una volta archiviata la querelle di Parliamone Sabato. «Hanno chiuso il programma e io adesso credo che rescinderanno anche il mio contratto, ma questo non è un problema, cioè io non sono quella persona che stanno descrivendo e chi mi conosce lo sa» ha detto ieri sera a Le Iene la conduttrice. Sulla questione del contratto la Rai glissa, nessuno conferma né smentisce. Quello che avevano da dire lo hanno già detto, scritto e cinguettato. È a Sabrina Nobile infatti che la Perego ha scelto di raccontare la sua versione dei fatti. Intercettata nei pressi degli uffici dell’Arcobaleno Tre, la signora è apparsa provata, disorientata. «Mi hanno messa in mezzo in una cosa più grande di me, sto male. Più per le persone che, fidandosi di me, mi hanno seguita in questo programma che per me stessa» ha detto e ha proseguito come un fiume in piena: «Non ho ancora metabolizzato, non riesco a capire bene che cos’è questa violenza contro di me. Una violenza terribile, brutta. Non me lo merito, io credo di essere una brava persona». Paola ha ribadito poi che le sembra tutto surreale. E ha aggiunto: «C’è gente che ha bestemmiato, hanno intervistato il figlio di Totò Riina facendogli l’altarino, abbiamo visto in televisione qualunque cosa. (Questo, ndr) era un gioco. È scoppiata la bomba, ma la bomba non c’è. Hanno usato me come potevano usare forse qualcun altro. Forse è scomodo mio marito». Il riferimento è a Lucio Presta, agente di star come Paolo Bonolis, Roberto Benigni e Antonella Clerici. La signora Perego in Presta paga quindi – ancora una volta - il conto per essersi innamorata di un uomo influente nel mondo della tv? «Può essere, forse ho un marito scomodo». Così tanto che alla Rai non è bastato far calare il sipario gelido su Parliamone Sabato ma pare sia stato rescisso anche il suo contratto. Questa infatti potrebbe essere la sentenza. Un po’ troppo? Non si dà pace la conduttrice e sostiene di non meritare l’appellativo di sessista insensibile: «Non lo sono, non posso stare qui ad elencare i miei pregi o le cose che io ho fatto, ho anche 8 mila miliardi di difetti, però io non sono quella persona che oggi è descritta sui giornali». Poi, entra nello specifico dell’accaduto: «Può essere stata una pagina brutta, ma è incredibile che dal niente sia partita un’eco mostruosa su una cosa che non c’è, non esiste. Gli argomenti in Rai vengono approvati prima di essere messi in onda dal capostruttura e dal direttore di rete. Mi hanno approvato questo argomento e mi hanno cassato il femminicidio perché non volevano che ne parlassimo: non era con la linea editoriale». Ancora: «Loro si sono dissociati da una cosa che avevano approvato e adesso fanno la figura di quelli che stanno salvando l’Italia da questo “mostro” che è sessista, che porta in televisione queste cose». Il riferimento è a tutti gli addetti ai lavori del piccolo schermo e, perché no, anche i politici che le hanno puntato il dito contro. E a questo proposito ha specificato: «Quando la signora Boldrini ancora non era in politica e faceva televisione, io già lottavo per i diritti delle donne». Il Presidente della Camera ha infatti scritto su Twitter: «Doveroso immediato provvedimento della #Rai su trasmissione #ParliamoneSabato. Mai più #donne in televisione trattate come animali domestici». Ma il problema diciamolo è stata quella slide con i 6 buoni motivi per sposare una donna dell’est. «Perché hanno visto solo quella» ha replicato la Perego. Pure il dibattito in studio è stato mediocre ma non più di tanti, tantissimi altri. Targati Rai e non. Si è anche scusata la conduttrice: «Per la dichiarazione di Fabio Testi, ho chiesto di non invitarlo più». E se qualcuno dovesse tornare indietro e ridimensionare le accuse, ha chiesto infine la Nobile? La Perego perentoria ha concluso: «Dalle posizioni che hanno preso, è molto difficile tornare indietro e poi sono dei codardi». Antonella Luppoli
Caso Perego, quando tre donne diventano vittime dell’anti-sessismo. Dopo la chiusura di «Parliamone... sabato», in tempi in cui il tema delle quote rosa è sempre acceso, per uno strano volo del destino si ritrovano abbattute dal fuoco dell’anti-sessismo tre donne, scrive Renato Franco il 24 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Si nasconde anche un doppio paradosso dietro la chiusura di Parliamone... sabato, dietro quella pagina di tv «mediocre come tante altre» (ammissione di Paola Perego). La prima singolarità è che a essere accusate di sessismo siano tre donne, proprio loro, quelle stesse donne che dovrebbero affermare il principio che nel terzo millennio certe discriminazioni che viaggiano tra il luogo comune, lo stereotipo e l’ignoranza non sono più accettabili. Colpevoli? Sicuramente superficiali. La rete (intesa prima come web e poi come Rai1) ha deciso la chiusura del programma. Dibattito aperto. Troppo duri? In fondo era solo una pagina di tv «mediocre come tante altre» e a esser severi si finirebbe con il monoscopio (può essere un’idea). Ma c’è anche un secondo cortocircuito imprevisto. In tempi in cui il tema delle quote è sempre acceso, per uno strano volo del destino si ritrovano abbattute dal fuoco — in teoria amico — dell’anti-sessismo tre donne. Raffaella Santilli, la capostruttura del day time di Rai1, ha ricevuto una lettera di contestazione. Il senso: doveva vigilare e non lo ha fatto. E molto probabilmente verrà rimossa dall’incarico e spostata a mansioni meno prestigiose. L’altra lettera di richiamo è stata indirizzata a Antonella Stefanucci, la produttrice esecutiva, ritenuta in qualche modo responsabile anche del contenuto editoriale. E poi ovviamente lei, Paola Perego, la conduttrice: non ha ricevuto avvisi formali ma si ritrova non solo senza programma ma anche con un danno di immagine — alcuni diranno che doveva pensarci prima — e un’etichetta (la lista delle donne dell’Est) che faticherà a scrollarsi di dosso. Sono i danni collaterali dell’anti-sessismo.
Elogio della tv “sessista”, scrive Antonella Grippo su “Il Giornale" il 23 marzo 2017. Il “femminismo” della Rai, in nome del quale si epura la Perego, emana il medesimo olezzo di un totano sdraiato al sole dei Tropici. Fete di melliflua ipocrisìa debordante. Di rancida sagrestìa paraboldrinica. Diciamola tutta: le ragioni per le quali i maschi nostrani preferirebbero le femmine dell’Est è roba sedimentata lungo l’Immaginario Italico. Testosteronico e non. Dalle sale di biliardo di Busto Arsizio alle officine meccaniche di Brindisi. Dalle ferramenta di Casalpusterlengo agli uffici del catasto di Subiaco. Dai lavatesta delle parrucchiere di Oppido Mamertina ai lettini delle logopediste di Brembate. Cliché raffermo finché vuoi, ma, in ogni caso, difficilmente rimovibile da bocciofile, cantieri e saune à la page. Rappresentazione anacronistica? Mica tanto! Del resto, un luogo comune (tòpos), checché ne pensino i rozzi predatori del Senso, è tale nella misura in cui si rifiuta testardamente di sbaraccare dalle latitudini sociali. Le cosiddette “paleopercezioni”, spesso, non si lasciano irretire dalle teoresi alla cannella. Il terreno degli stereotipi, sovente, risulta sdrucciolevole anche per certa intellettualità salottinarda. Una sera, nel corso di una cena tra pensatori scelti, ho sentito dire ad un insigne studioso (ufficialmente non simpatizzante di Lombroso): “Guarda quello, ha proprio la faccia del delinquente”. Nella specie, la trasmissione di Paola Perego, falcidiata con sospetta solerzia dai chierici di Viale Mazzini, non ha fatto altro che trasferire al pubblico un dato “sociologico” più o meno caricaturale. Se volete, parodistico, ma non del tutto disancorato dal sentire comune. Sennonché, le falangi pudiche del Bel Paese, in perenne rapimento estatico al cospetto della totemica Boldry, hanno issato il vessillo della Indignazione. In men che non si dica, è scoppiata “casamicciola”. I soliti sanculotti isterici, in servizio permanente a difesa della Virtù Pubblica, hanno reclamato la scure del boia. In nome e per conto delle fauci dell’imperante “benpensatismo protovittoriano”. A morte Paola e tutto il suo cucuzzaro! Peggio della Tv di Stato, c’è solo la Tv di Stato che, alla stregua di un Magistero Politically Correct, pretende di addomesticare le coscienze, attraverso il maldestro tentativo di imbrigliare l’anarchico, capriccioso fluire della realtà, che, pur nella sua stoltezza, talvolta deraglia meravigliosamente dal breviario degli untuosi pretuncoli “setacciapalinsesti”. D’altro canto, l’amministrazione delle anime è materia di stretta spettanza parrocchiale. Così come il bipolarismo catechistico che vede contrapposti il Bene e il Male. E così, nel novero dei castigatori dei vizi italici irrompono nutrite pattuglie di zeloti che muovono da Saxa Rubra. Libera nos a malo! Senza la Perego, finalmente, saremo impermeabili ad ogni turbamento che violi il precetto dell’Immacolatezza Progressista. Di più: la Rai si tramuta in SuperEgo della Nazione, come da statuto freudiano. Altro che Bernabei! La Salvezza a portata di video. Dopo di che, frotte di culi inabissati lungo i fondali di malconci divani, ebbri del tedio pomeridiano del sabato, in tinelli comprati a rate con il maxischermo incorporato, dovranno rinunciare all’emersione. Mai più indizi di corpi marmorei postpartum dell’Est. Nessuna traccia di clemenza baltica per i tradimenti dei mandrilloni indigeni. Tantomeno, promesse di obbedienza femminea al Verbo maschio di piastrellisti, benzinai e meccanici tornitori. La bonifica può dirsi compiuta. Erga omnes. La Madonna, nel suo piccolo, appare solo a pastorelli e similari genìe contadine; Madre Rai Interclassista, persino ai ragionieri. Amen.
Antonella Grippo, altrimenti detta La sparigliatrice di Sapri, è una giornalista dal tratto irriverente e politicamente scorrettissimo. Antifemminista ed iconoclasta. Nel recente passato ha scritto e condotto, per conto di reti televisive, il cui bacino di riferimento insiste nel Sud Italia, una trasmissione di approfondimento politico dal titolo emblematico Perfidia. Il programma, improntato, perlopiù, ad uno stile sacrilego, ha spesso raccontato, in modo impietoso e caustico, l'emisfero della politica italiana. Perfidia è stata più volte soppressa da editori al cappio dei finanziamenti pubblici, erogati dal Palazzo. La narrazione televisiva della Grippo, tutt'altro che benevola, è sempre risultata "urticante" per l'establishment di turno. La scrittura di Antonella è, parimenti, eretica e sferzante. La frequentazione del suo Blog è sconsigliata a quanti non amino le "uscite in mare aperto" e la" temerarietà della parola impopolare".
Roberto D’Agostino: “Non si può fare una battaglia contro il trash”. Intervista di Giuseppe Alberto Falci del 20/03/2017 su “La Stampa”. «Ho un’idea. Non è il che, è sempre il come, che cambia il giudizio su qualsiasi cosa». Roberto D’Agostino, giornalista e inventore di Dagospia - il sito che racconta i pettegolezzi della politica italiana e sbeffeggia la TV - a tarda sera prova a tirare le somme dopo la cancellazione da parte del dg Rai Campo dall’Orto del programma condotto da Paola Perego “Parliamone sabato”. «Sono un po’ stanco a quest’ora, avanti cominciamo», ironizza rispondendo al telefono.
D’Agostino, cosa ne pensa del caso Perego?
«Noi possiamo fare l’apologia della donna asiatica, l’apologia della donna anglosassone, l’apologia della donna latina. Ad esempio, possiamo affermare che la donna latina sia mammona. Ma qui il punto è un altro: come si affronta la questione? Chi sono gli esperti che trattano l’argomento?».
Si spieghi meglio.
«Il nostro Paese è così: la Perego apre bocca e gli danno fiato. Il mondo dello spettacolo è un mondo senza più cultura, senza più creatività. Si parla di cose delicate senza avere gli strumenti».
Però la lista sulle qualità della donna dell’est grida vendetta.
«Ahò, qui il problema non è se la Perego ha fatto la pipì fuori dal vaso. Il problema è culturale. Oggi tutti sono diventati esperti di tutto. Nei talk show trovi personaggi dello spettacolo a commentare la politica italiana. Ma te rendi conto? Se avessero chiamato Marino Niola sarebbe stato comprensibile. E invece chiamano un’ex Miss Italia. Ecco perché da lì a passare al razzismo ci si mette un attimo».
La Rai però si è subito scusata e ha preferito la chiusura la trasmissione.
«No, vi sbagliate. La trasmissione è stata chiusa dal suo manager Lucio Presta con quel tweet che noi abbiamo segnalato. Lo sapete chi è Presta? È colui che assieme a Caschetto ha in mano i palinsesti di Rai e Mediaset».
Con la chiusura di “Parliamone sabato” inizia il declino del trash in tv?
«Non c’è spazio, non si può fare una battaglia contro il trash. Stiamo sempre a parla’ di piccoli numeri. Ormai la tv è parcellizzata. Ci sono tre mila canali sul digitale e su Sky. Poi c’è Netflix. Quando assieme a Gianni Boncompagni firmavo Domenica In superavamo il 50%. Adesso questi programmi stanno a fa’ il 5%. E il restante 95% cosa guarda? Solo Sanremo e Montalbano superano il 40%. Di cosa stiamo a parlare? Eppoi fatemi dire una cosa».
Cosa?
«È vero che ci sia una sorta di inclinazione verso un tipo di donna pre-femminismo. Basta, vi saluto. Buona serata».
Sessismo non stop, non solo in Rai: il voyeurismo è dilagante. Sul caso incredibile di “Parliamone sabato”, la discussione non è finita, e sono previste, giustamente, anche iniziative simboliche, scrive Vincenzo Vita il 23 marzo 2017 su "Globalist.it". Sul caso incredibile di “Parliamone sabato” ha scritto con argomentazioni efficaci su “il manifesto” Bia Sarasini. Ma la discussione non è finita, e sono previste, giustamente, anche iniziative simboliche. Tuttavia, proprio per non chiudere il caso con la punizione “esemplare” della chiusura della trasmissione condotta da Paola Perego, qualche riflessione è doverosa. Troppo comodo, se no. In verità, quella incriminata è stata una particolare caduta negli inferi del sessismo misto al razzismo, vittime le donne dell’est. Una sorta di errore di grammatica –uno dei più gravi come un altro con l’apostrofo, per dire- da leggere, però, nella sintassi sbrindellata di tanta parte del day time. I palinsesti della mattina e del pomeriggio, fino ai fatidici quiz che servono da traino ai telegiornali, sono infarciti di televisione voyeuristica, di pornografia del dolore, di utilizzo “normale” delle donne secondo gli stereotipi vieti dell’universo maschile. Una donna o è un genio o un’eroina, o inesorabilmente assume le sembianze della moglie o della fidanzata subalterne o della persona libera ma dai facili costumi. Stiamo parlando delle consuete immagini che ci sono riflesse dai talk di appendice che riempiono i canali. Il discorso non riguarda solo la Rai, ovviamente. Anzi. L’intero contesto è da quel dì “berlusconizzato”: pubblico e privato hanno confuso i rispettivi ruoli, sfidandosi nella corsa al ribasso pere l’indice di ascolto. Urla, pianti a orologeria, strepiti e esibizione di anatomia femminile sono diventati dagli anni ottanta in poi una delle cifre distintive della televisione generalista, come ha messo in luce il noto libro di Lorella Zanardo e su cui si è soffermato il recente film “Femminismo” di Paola Columba. La pubblicità, poi, è spregiudicatamente sessista e rimpiangiamo la bonomia di “Carosello”, di fronte ai messaggi spesso espliciti di molti spot. Ne scrive con competenza Annamaria Arlotta ed è augurabile che l’Istituto di autodisciplina dia qualche segno di vita. Guai a confondere tutto questo con pericolose tentazioni censorie. Niente affatto. E’ doveroso, al contrario, alzare la soglia del dibattito, prendendo sul serio per cominciare le varie “Carte” sottoscritte dagli organismi sindacali e professionali, nonché gli stessi vecchi “Contratti di servizio. Il progressivo slittamento della soglia critica avvenuto nel tempo fa riflettere e ci interpella sugli effetti tremendi della mercificazione totale del corpo e dell’immaginario, caratteristica saliente del liberismo. Quanta sottovalutazione del disastro in corso. Ora, mentre si discute del nuovo testo della Convenzione con la Rai, è indifferibile riacquisire i principi fondamentali della comunicazione, al di là della natura societaria delle aziende. Del resto, proprio nei giorni scorsi a Parigi il direttivo di Eurovisioni ha cominciato a discutere della qualità dei servizi pubblici, nell’era dei rinnovi delle charter e in vista della Direttiva Servizi Media Audiovisivi. La Presidente Maggioni e l’Amministratore delegato Campo Dall’Orto si sono scusati. Positivo. Ma c’è un particolare inquietante da chiarire. L’Ad-direttore generale ha affermato che la “catena di controllo” ha funzionato. Mah. La reazione contro il programma di Paola Perego è scattata due giorni dopo. Viene in mente “Quinto potere” di Sidney Lumet. Insomma tra il Grande Fratello e il nulla ci sarà una via di mezzo. Infine, la Rai organizzi uno specifico dibattito con le donne più impegnate su tali argomenti, per chiarire qualcosa ai cittadini-utenti.
Il caso Perego-donne dell'Est: tutti moralisti sì, ma con le idiozie, scrive giovedì, 23 marzo 2017 Barbara Pavarotti su “La Gazzetta di Lucca”. All’estero infuria il terrorismo, a Roma sabato potrebbe scoppiare il finimondo con 60 fra capi di stato, ministri degli esteri e vertici Ue fra i piedi causa festeggiamenti per il sessantesimo della disavventura europea, ma l’Italia è serena: almeno la minaccia dall’Est è stata arginata. Sono stati annullati i preparativi del nuovo missile nucleare russo Satan 2 (sì, si chiama così), quello che potrebbe incenerire l’Europa? Macché. E’ stato solo chiuso, come ormai tutti sanno, il programma di Paola Perego del sabato pomeriggio perché nell’ultima puntata si è parlato del predominio delle donne dell’est sul maschio italiano. Un dramma vero, finito sulle prime pagine di tutti i giornali, che a noi donne colpisce profondamente, che non ci fa dormire la notte, che ci fa rosicare ogni secondo visto che loro, come è stato spiegato nel programma, sono sempre belle e statuarie anche dopo aver sfornato vari pargoli, non indossano mai il pigiamone e sono più remissive di noi italiane, perché disposte ancora a riconoscere al marito il ruolo di capo famiglia. Beh, questa cosa gliela riconosceremmo volentieri anche noi se i mariti fossero quelli di un tempo, che portavano bei soldini a casa e ci facevano stare da signore. Ma c’è la crisi, c’è la disoccupazione, se non si lavora in due è un guaio, c’è stata l’emancipazione e, insomma, non ci va più di essere tanto riconoscenti a questi mariti che spesso si rivelano ben presto solo altri bambini da accudire. Le donne dell’est, beate loro, sono sicuramente più pazienti o forse abituate peggio, chissà. Del resto chi si accontenta gode e quindi pare che queste coppie est-ovest funzionino alla grande. Ma dov’è lo scandalo che ha portato alla chiusura del programma, al coro unanime di indignazione capeggiato dalla presidente della Camera Boldrini e dalla presidente Rai Maggioni? Trasmissione sessista, donne ridotte come animali domestici di cui apprezzare mansuetudine e sottomissione, donne-oggetto, hanno gridato politici, intellettuali, giornalisti in versione maschile, femminile e bipartisan. E con estrema solerzia – cosa mai vista nel caso, per esempio, dell’intervista azzerbinata di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina, fatto passare per un buon padre di famiglia – l’accetta Rai stavolta si è abbattuta pesante. Segnale forte, da vera azienda del servizio pubblico: colpirne uno per educarne cento. Quindi ora la Rai ci offrirà finalmente un servizio degno del canone che paghiamo? Bei programmi culturali, di approfondimento, una informazione non narcotizzata e di parte? Nessuno si illude in tal senso. Solo una cosa è certa: con tutte le magagne del servizio pubblico, divorato dagli interessi dei partiti, dal favoritismo e dal clientelismo, soltanto su un giochino del sabato pomeriggio la politica e i vertici aziendali sono riusciti a dare questa grande prova di coraggio. Come dire: prendiamocela con questa scemenza perché sulle cose serie è meglio stare zitti. E quali sono le cose serie in casa Rai? Oltre alla lottizzazione, per esempio, i super stipendi di dirigenti che non fanno nulla e, anche se fanno, i soldi sono sempre troppi. O i compensi delle star, per le quali ancora non vale il famoso tetto di 240.000 euro fissato per chi lavora nelle aziende pubbliche. Li ha pubblicati il quotidiano “La Stampa” a febbraio e la Rai ha reagito con un esposto per “la diffusione di documenti riservati con informazioni sensibili sulla gestione aziendale”. Ecco alcuni compensi, pagati anche coi soldi nostri, quelli del canone da cui la Rai ricava la bellezza di 2 miliardi all’anno.
Antonella Clerici: 3 milioni di euro per due anni.
Flavio Insinna (quello dei pacchi, peraltro appena chiuso per bassi ascolti): 1 milione e 420.000 euro a stagione.
Lucia Annunziata: 1 milione e 380.000 euro per tre anni.
Michele Santoro: 2 milioni e 700.000 euro versati alla sua società di produzione per tre programmi.
Bruno Vespa: 1 milione e 300.000 euro di minimo garantito più 1 milione per prestazioni fuori contratto.
Poi bisogna sapere che la Rai molti programmi non li produce in proprio, ma li appalta a società di produzione o li acquista e così ha pagato 5,6 milioni alla Magnolia per “L’Eredità” (preserale Raiuno, con Fabrizio Frizzi) per la stagione 2016-17.
La conclusione è che sono tutti moralisti sulle idiozie. Altroché donne dell’est, ben altre sono le vicende Rai su cui ci si deve indignare. Fra l’altro, secondo voci di viale Mazzini, la chiusura del programma incriminato potrebbe anche derivare da una lotta intestina fra poteri Rai. E molti infatti dicono, non senza ragione: perché colpire solo “Parliamone sabato”? Devono cadere anche il capostruttura e il direttore di Raiuno, che avevano approvato la scaletta. Comunque, la puntata sulle donne dell’est era persino affascinante nel suo essere terribilmente kitsch. Discriminante verso il genere femminile? E allora prendiamocela con miss Italia che fa sfilare le donne in mutande, con la pubblicità dove per vendere un’auto bisogna infilarci dentro una bella donna, con le riviste di moda, con tutto. Ma, per piacere, non facciamo i femministi sulle stupidate. Nessuna donna con un po’ di buon senso si sente lesa nella propria dignità se un uomo, che non sia il proprio compagno, preferisce una donna dell’est. Fatti suoi, anzi loro. Magari noi lo abbiamo scartato, quindi lui va verso altri lidi. E poi un po’ di sana autocritica non guasta. Esiste una fetta di donne molto abile nel conquistare e tenersi un uomo, sia dell’est che dell’ovest, del sud o del nord. Bisogna solo avere chiare le priorità: ne vale la pena? Se la posta in gioco è avere un sacco di rotture di scatole in più, no. Noi donne, dopo l’ubriacatura del “possiamo conciliare tutto”, stiamo finalmente cominciando a capire una cosa: che tutto non si può avere. Che qualunque scelta si paga e a qualcosa tocca rinunciare. Se io vedo la cucina come l’antro del diavolo e al malcapitato di turno anziché una carezza darei sempre volentieri due schiaffi, mica mi posso poi lamentare se arriva una più remissiva e lo conquista, giusto? Prendiamoci anche noi donne le nostre responsabilità. Intanto, amiche dell’est (o di dove vi pare): prego, accomodatevi. Il maschio italiano ve lo potete ampiamente tenere. La maggior parte degli esemplari, per un problema o per l’altro, in questa fase ci lascia perplesse. E quindi quella non era una trasmissione sessista. Solo realistica.
Rai, svelate le carte top secret: ecco tutti gli stipendi e appalti. I documenti interni della Rai sugli stipendi di conduttori, star e giornalisti. In totale 129 contratti in sei mesi firmati da Campo Dall'Orto per un totale di 340 milioni di euro, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 8/02/2017, su "Il Giornale". Una firma che vale oro. Molto oro. È quella del dg Antonio Campo Dall'Orto, che da quando la Ra ha messo la sigla di propria mano su 129 contratti (negli ultimi 6 mesi del 2016) per un totale di 340milioni di euro. C'è di tutto: giornalisti, star, conduttori, produzione di programmi e le forniture. Tutti costi esterni cui vanno aggiunti quelli già stratificati del carrozzone Rai. Un anno fa una legge ha allargato le maglie dei poteri del dg della Rai, tanto da permettergli di avere a disposizione impegni per 10 milioni di euro contro i 2,5 che potevano permettersi si suoi predecessori. Un tesoretto. Ma Dall'Orto è riuscito a fare di meglio: considerando che il bilancio totale del 2015 prevedeva 1,3 miliardi di euro in costi esterni, i 340 milioni "firmati" dal dg sono un gruzzolo più che consistente. In totale, come spiega la Stampa dopo aver visionato i documenti interni di Viale Mazzini, Dall'Orto ha assunto 299 persone e concesso 585 promozioni. Gli stipendi dei giornalisti assunti (sopra i 200mila euro) e dei dirigenti sono cosa nota, grazie alla legge sulla trasparenza. Ma nulla si conosceva sui contratti di collaborazione con le star della tv. Eccoli.
Gli stipendi delle star. Andiamo con ordine. La più pagata è senza dubbio Antonella Clerici, regina della "Prova del Cuoco": a lei vanno 3 milioni di euro (lordi) in due anni, fino al 31 agosto 2018. Più o meno lo stesso incassa pure Flavio Insinna, che su Rai conduce "Affari Tuoi": 1 milione e 420mila euro. Poi ci sono Lucia Annunziata, che per garantire l'esclusiva di "In Mezz'Ora" si porta a casa 1 milione e 380mila euro dal 2016 fino al 2019. Di certo con i suoi 460mila euro lordi all'anno non si avvicina ai guadagni di un altro giornalista, questo sì campione di prediche (agli altri). Michele Santoro, con la sua azienda "Zerostudios Spa" costa alla Rai 2 milioni e 700mila euro, cifra con cui realizza ben tre programmi: "Italia" (di cui è conduttore), "M" e "Animali come noi". Piero Angela si accontenta di 1,8 milioni a fronte di 4 anni d contratto: "1 milione 565 mila per il periodo 1 settembre 2013 - 31 agosto 2016 - scrive La Stampa - più altri 235 mila per arrivare al 31 agosto 2017 compresa “la partecipazione del collaboratore alla realizzazione di collane di dvd di carattere scientifico e storico”. Infine i contribuenti pagano pure il direttore dell'Orchestra sinfonica nazionale della Rai, l’americano James Conlon: 311.333 euro lordi per 7 mesi di stipendio. Andando avanti, c'è tutto il capitolo dei conguagli ai minimi garantiti dai contratti. Bruno Vespa, che di base porta a casa 1 milione e 800mila euro, nel secondo semestre del 2016 è riuscito a incassare un altro milioncino di extra. Mica male. Lo stesso vale per Michele Guardì ("Mezzogiorno in famiglia"), con 586.184 euro di prestazioni fuori contratto. E ancora Massimo Giletti (313mila euro in più oltre i 500mila di base).
Le forniture. Che belle le riprese con il drone, certo. Ma quanto ci costano. Il contratto per le riprese aeree, infatti, "vale 8 milioni 590 mila e 780 euro per 24 mesi eventualmente prorogabili di altri 24". Ma non è l'unco costo (folle) del carrozzone Rai. La ditta Salvini Luca e C. snc, per dirne una, si occupa di gestire i distributori di acqua nel centro di produzione di via Teulada per "soli" 847.618 euro. Una bella rinfrescata al bilancio. Per i gettoni d'oro, acquistati dalla "Zecca dello Stato", la Rai spende per "Affari tuoi" 6 milioni 907 mila e 259 euro, 1 milione e 183 mila quella per "l’Eredità" (anno 2015/2016). Per le auto "blu", invece, Campo Dall'Orto ha firmato un contratto da 8,7 milioni di euro per cinque anni di noleggio, cui però vanno aggiunti altri movimenti: 1,4 milioni per il noleggio a breve termine e altri 3 milioni per un contratto a venire per altri 89 mezzi. Un garage d'oro.
I format. Anche sul capitolo format il bilancio della Rai piange lacrime e sangue. Viale Mazzini nel ha comprati (o confermati) ben 16. Come scrive la Stampa, "la fetta più ricca in questa tornata è andata a Endemol, famosa in tutto il mondo per aver prodotto il «Grande fratello». Gli esborsi più alti sono invece finiti ai programmi che servono a Rai1 per presidiare preserate e prime time: 5,6 milioni di euro sono così stati versati per l’acquisto del format ed il pagamento dell’appalto parziale de «l’Eredità» per la stagione 2016-2017 a favore della società Magnolia. A ruota segue «Affari tuoi» (produzione Endemol Shine) che vale 5,3 milioni di euro". Poi altri 4,8 milioni legati alla licenza per "Pechino Express" (Rai2), sempre alla Magnolia, oltre a 1 milione extra per chiudere una vecchia controversia sull'Isola dei Famosi. Endemol Shine può inoltre contare su 2,01 milioni per "Tale e quale show" (Rai1). E tanti altri ancora, di minore prestigio ma ugualmente costosi.
Contratto alla Gabanelli scontro Cda-vertici Rai: "Così ci delegittimano". L'ira di Diaconale e Siddi, i dubbi della Borioni sul dg Campo Dall'Orto. Oggi la resa dei conti, scrive Anna Maria Greco, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". Scrive Dagospia che «un'assunzione di Milena Gabanelli in Rai sarebbe da celebrare con una piedigrotta di fuochi artificiali». Lo fa attaccando Il Giornale per l'articolo di lunedì, firmato dal membro del Consiglio d'amministrazione Giancarlo Mazzucca, che si lamentava per la mancanza d'informazione. E la domanda è proprio questa: perché tanto segreto, invece di un annuncio ufficiale in pompa magna? La Gabanelli, come ha già raccontato Il Tempo, sarebbe stata assunta subito dopo la sua uscita da Report il 31 dicembre, dunque i primi di gennaio. Ma né il CdA né l'opinione pubblica sono ancora stati informati. Il suo sarebbe un contratto a tempo determinato, di 2 anni e mezzo con un compenso di 150mila euro lordi l'anno, nella struttura appena decapitata per le dimissioni dell'ex direttore editoriale per l'offerta informativa, Carlo Verdelli. Lei sarebbe vice direttore, con la delega alla piattaforma online della tv di Stato. Eppure, quando pochi giorni fa in Commissione parlamentare di Vigilanza Rai è stato chiesto al potentissimo direttore generale Antonio Campo Dall'Orto che sarebbe successo nella struttura dopo l'uscita di Verdelli lui è stato evasivo, ha detto che doveva ancora pensarci su. Questo quando il contratto con la Gabanelli era già stato firmato, a quanto sembra. Perché, non annunciare di aver già reclutato la star del giornalismo d'inchiesta? D'accordo, Dall'Orto non aveva l'obbligo di sottoporre il contratto con Milena all'approvazione del CdA se non si tratta di un dirigente, ma se aver convinto l'ex conduttrice di Report (che deve cumulare i contributi necessari alla pensione) è un vanto, perché non vantarsi? Oggi a viale Mazzini il consiglio si riunirà e sono forti i malumori, in parecchi sono pronti a chiedere spiegazioni e dare battaglia. Perché questo è solo l'ultimo di una lunga serie di fatti. «Chi poteva dire di no alla Gabanelli? - chiede Arturo Diaconale, consigliere del centrodestra come Mazzucca - ma informarci a cose fatte sembra fatto apposta per delegittimare il CdA, come fosse un orpello fastidioso e inutile. Dell'accordo tra Rai e Tim sui film abbiamo appreso dai giornali; nessuno ci ha spiegato la scelta di accentrare i diritti in un'unica struttura che fa capo al Dg, svuotando RaiSport e Rai Cinema; né abbiamo avuto risposta da dicembre sulla mancanza di trasparenza sui compensi degli artisti (pare che anche giornalisti pensionati abbiano contratti come artisti) e potrei continuare». Un altro consigliere, Franco Siddi, esprime perplessità, «perché se si tratta di un'assunzione a titolo di consulenza è un conto, ma se parliamo di un ruolo direzionale è un altro conto, e bisogna passare per il CdA». Gli altri tacciono, ma pare che pure Rita Borioni abbia i suoi dubbi. Chi sembra ben informato è l'autore del pezzo di Dagospia, che si scaglia contro la posizione assunta da Mazzucca «in maniera davvero merdotica». Forse è la conferma che si tratta di qualcuno interno alla stessa struttura ex Verdelli e legato a Campo dell'Orto. Su tutto questo forse avrebbe qualcosa da dire l'Anac, visto che nella delibera di settembre, che rispondeva ad un esposto dell'Usigrai sulle nomine di 21 dirigenti esterni, raccomandò almeno per il futuro di utilizzare per le assunzioni lo strumento del job posting, per accertare la disponibilità di professionalità interne, prima di cercare fuori dall'azienda. E di motivare adeguatamente la scelta anche nei casi «eccezionali».
Rai, la libertà impossibile. Dai vecchi partiti all'ultrà renziano Anzaldi: 25 anni di intromissioni su assunzioni, palinsesti, nomine, licenziamenti e ospiti. Fino ad arrivare al capitolo Grillo: da artista boicottato a leader politico che attacca gli autori. Il racconto di Michele Serra su "La Repubblica" il 3 aprile 2017.
La mia Amaca di due giorni fa, nella quale definivo "ente inutile" la Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai e dicevo dell'ossessionante interventismo di uno dei suoi membri, il deputato Anzaldi (Pd), ha suscitato la sdegnata reazione di quest'ultimo. La polemica sarebbe di minima importanza, e per l'irrilevanza di Anzaldi e per la mia, se non chiamasse in causa, sia pure con goffaggine, una questione di primo piano come il rapporto tra media e politica. Che nella Rai trova da molti anni uno dei suoi fronti nevralgici. Cominciamo dalla goffaggine, così da poter levare di mezzo almeno un paio di sgradevoli equivoci. Anzaldi sostiene che io sia in "palese conflitto di interessi" perché autore di Fabio Fazio e di non meglio precisate "trasmissioni di Caschetto". Capisco che l'argomento possa sollevare qualche applauso (puntualmente scattato) tra le feroci comari del web, che adorano dire la loro ignorando testo e contesto. Ma una persona che si occupa a tempo pieno della Rai dovrebbe, sulla Rai, essere meglio informata. Non lavoro più con Fazio da tre anni, non ho mai avuto rapporti di lavoro con Beppe Caschetto (che è l'agente di Fazio) e non ho collaborazioni di alcun genere con la Rai. Per giunta quell'Amaca non spendeva nemmeno mezza parola sull'infocata vicenda dei contratti dei conduttori (Repubblica ne ha dato ampiamente conto, compresa una lunga intervista all'onorevole Anzaldi. Il quale poi, incredibilmente, si chiede come mai la direzione del giornale o il Comitato di Redazione abbiano permesso che io dicessi la mia opinione in prima pagina: dimostrando di non sapere come funziona un quotidiano). Nell'Amaca parlavo di tutt'altro. Parlavo della micidiale e perdurante morsa padronale che i partiti politici esercitano sul servizio pubblico televisivo, con continue e pesanti intromissioni su nomine, palinsesti, assunzioni, contratti, licenziamenti, programmi, addirittura scelta degli ospiti. (Tralascio, per brevità, i notissimi casi di censura e ostracismo contro i quali la Commissione, specie negli anni di Berlusconi, non ha potuto o voluto levare un dito, pur essendo incaricata, sulla carta, di tutelare il pluralismo e la qualità della programmazione).
Sostiene Anzaldi, per dare giustificazione istituzionale alla sua inesausta attività di revisore-censore- correttore, che la Commissione deve, della Rai, "occuparsi per legge". Mi chiedo in quale codicillo di legge siano previste le decine, anzi centinaia di esternazioni del deputato Anzaldi (da "Bianca Berlinguer ha dato tanto, può bastare" a "Saviano è deprimente" a come dovrebbe essere fatta la scaletta di Ballarò). Che vanno a sommarsi alle centinaia, migliaia (da quando c'è twitter) di esternazioni di esponenti politici che negli anni, con implacabile mancanza di competenza e sovente anche di educazione, hanno sputato sentenze sulla Rai e sulle persone della Rai quasi sempre a sproposito, senza sapere niente della televisione, dei suoi modi di produzione, dei suoi problemi tecnici e artistici, del rapporto tra costi e ricavi, della distribuzione pubblicitaria, della sua autonomia linguistica.
La promessa di Renzi di non intromettersi nelle cose della Rai ha nel renziano Anzaldi la sua smentita vivente. Ho definito "ente inutile" la Commissione di vigilanza perché affidare a uomini di partito, per quanto competenti e bene intenzionati, il compito di difendere l'autonomia della Rai, è come affidare alla volpe la custodia del pollaio. Confermo la mia opinione: quella Commissione andrebbe dismessa nel nome dell'indipendenza (almeno formale!) del quarto potere. Esistono leggi, authority, governance e gerarchie interne che bastano e avanzano a guidare il servizio pubblico senza che una apposita Commissione parlamentare convochi al suo cospetto uomini della Rai per audizioni vagamente inquisitorie; e senza che dal Palazzo qualcuno twitti le sue sentenze, o telefoni ai direttori di rete per dirgli come si dirige una rete e a un direttore di tigì come si dirige un tigì. Qui lasciamo al suo lavoro il deputato Anzaldi - con il quale, sia chiaro, non ho nulla di personale - e allarghiamo il campo. Ho lavorato per venticinque anni, da libero professionista, come autore di trasmissioni Rai. Ho firmato molte centinaia di ore di dirette e di differite. Sono stato autore televisivo di Fazio, Grillo, Celentano, Morandi, Saviano, Albanese, Littizzetto, Bisio, e sicuramente ne dimentico molti altri. Per mia fortuna e forse per mio talento sono sempre stato chiamato direttamente dagli artisti avendo dunque loro, e solo loro, come punto di riferimento.
Nessuna delle persone che ho nominato aveva altro obiettivo che fare una trasmissione che avesse successo. Nessuno di loro mi ha fatto pensare di avere mandanti politici o reconditi scopi politici, anche perché l'egocentrismo dell'artista comporta una decisa sottomissione di ogni altra logica a quella dell'affermazione personale. Logica magari narcisa, ma limpida. Limpidissima. Nessuna delle trasmissioni alle quali ho lavorato (quattro Festival di Sanremo, due dei quali come autore di Grillo, gli show di Morandi e Celentano, dieci anni di Chetempochefa) aveva altro obiettivo che riuscire il meglio possibile, con gli ospiti ritenuti più adatti e i testi ritenuti più calzanti. E nessuna, con mio vivo sollievo, è stata imputabile di avere reso alla Rai meno di quanto alla Rai fosse costata. Ma tutte, indistintamente, sono state oggetto di controlli, pressioni, "consigli", polemiche o intimidazioni da parte di esponenti della politica. Di quasi tutti i partiti. Perfino lo show di Gianni Morandi (noto eversore) nel 2002. Durante il quale mi è capitato anche che una gentile signora leggesse alle mie spalle quello che stavo scrivendo - qualcosa tipo "ed ecco a voi Paola Cortellesi" - per controllare che non ci fosse nulla di politicamente sconveniente. Ovviamente spettava al gruppo di lavoro difendere la trasmissione e l'artista. Ho lavorato con funzionari Rai dalle spalle larghe (parecchi) che dicevano agli autori "andate avanti e non preoccupatevi" e con funzionari Rai pavidi (pochi) che dicevano "ragazzi per carità non mettiamoci nei guai". Ho lavorato con produzioni esterne molto protettive nei confronti di artisti e autori, e con produzioni esterne più preoccupate di non dispiacere ai dirigenti Rai, in vista di nuovi appalti. Ho sempre avuto ben chiaro, comunque, di lavorare per la televisione e non per la politica. Trovandomi sempre, immancabilmente, a dover fare i conti con il vaglio padronale (non trovo altra parola) della politica. Con le infinite proteste e pressioni (quando lavoravo con Fazio) di chi si autoinvitava, o non voleva che invitassimo altri.
Un capitolo a parte, per me doloroso, è Beppe Grillo. Ho scritto di avere fatto due Sanremo con lui ('90 e '91, direi), ma in realtà ne ho fatti tre. I primi due come suo autore, con il direttore di Raiuno Fuscagni che nel suo ufficio dell'Ariston leggeva (faceva finta di leggere) un foglietto a quadretti sul quale avevo riassunto in poche e vaghe frasi l'intervento serale di Beppe. Un puro pro-forma, molto democristiano e molto funzionale, per salvare i rispettivi ruoli. Io dicevo a Fuscagni: mi scusi sa, ma Beppe è uno che improvvisa, non possiamo mica pretendere di mettere nero su bianco. Lui annuiva con aria grave e aggiungeva, sempre per la forma, "mi raccomando, niente su Pertini", o "lasciate stare il Papa", che non c'entrava niente ma dava l'idea di una supervisione della Rete. Grillo ovviamente disse quello che voleva: si era guadagnato sul campo, da artista, il potere di farlo. Il suo interlocutore non era "la politica". Era il suo pubblico, ed è così per ogni artista, dal più bravo al meno bravo, dal più celebre al più oscuro.
Il terzo Sanremo - ben diverso - che ho fatto "con Grillo" è quello del 2014, condotto da Fabio Fazio nel mio ultimo anno di collaborazioni con la Rai. Barricati dentro l'Ariston mentre Grillo, davanti al teatro, arringava una (piccola) folla dicendo cose spaventose contro le persone che, dentro l'Ariston, stavano lavorando. Per dire quanto è strana la vita: uno degli artisti più boicottati dalla politica che, diventato leader politico, attaccava violentemente un altro artista e i suoi autori. La serata inaugurale venne interrotta da uno spettatore, mandato non si sa da chi, che minacciò il suicidio perché era disoccupato. Grillo disse che era "tutto preparato", una montatura della Rai per avere audience: una truffa ai danni del pubblico. Da autore del Festival la giudicai un'accusa infamante. Calunniosa e totalmente falsa. Si discusse se querelarlo, si stabilì di non farlo, si sbagliò a non farlo: ci vorrà pure un argine, contro la prepotenza della politica. Infine, e ripensandoci, non è un conflitto di interessi, ma una perfetta coincidenza di interessi ad avermi spinto, negli anni, a scrivere sulla Rai, da autore Rai, sempre la stessa cosa, fino alla noia: viva l'autonomia della Rai, abbasso le intromissioni e le manomissioni della politica. Decine di amache e di articoli, a ritroso negli anni, penosamente ripetitivi: come accade a chiunque si occupi di Rai e ancora si illuda che possa esistere, chissà dove e chissà quando, una televisione pubblica indipendente dai partiti. Importante: la mia opinione non è affatto quella di un "antipolitico". Ho un rispetto profondo dell'autonomia della politica, che è un difficile e meritorio mestiere. Ma pretendo uguale rispetto per chi fa un altro mestiere. Quando la politica parla della Rai sta parlando di persone, del loro lavoro, delle loro competenze. Non di pedine da strapazzare o indorare a seconda di come conviene, di come tira l'aria, di come il dito clicca nella demente rincorsa a chi è più veloce a dire la sua.
C'ERA UNA VOLTA...CAROSELLO.
Carosello, in 20 dvd la storia (e gli slogan) di un programma simbolo, scrive “La Repubblica” l’1 febbraio 2017. Sessant'anni fa, il 3 febbraio 1957, andava in onda per la prima volta un programma fatto solo di spot. Erano dei mini-film, scritti e recitati con grande impegno. Con l’arrivo dei primi volti noti della tv, Carosello entrò nelle abitudini degli italiani, fino a boom incredibili di popolarità e gradimento assoluto. Più che un programma, un'istituzione. Finì il giorno di Capodanno del 1977, dopo essere andato in onda 7261 volte. Da domani Repubblica e l’Espresso propongono il primo di una serie di venti dvd (a 8.90 euro oltre al prezzo del giornale) che ripercorrono la storia del programma-simbolo. Un’opera ampia, introdotta in ogni capitolo da un protagonista d’epoca, con una carrellata di personaggi, tormentoni e slogan entrati nella leggenda.
Carosello, formidabili quegli anni: in 20 dvd il programma-simbolo della nostra storia, scrive Antonio Dipollina su "La Repubblica" il 02 febbraio 2017. Sessant'anni fa, il 3 febbraio del 1957, Carosello entrava per la prima volta nelle nostre case. Oggi con Repubblica e l'Espresso una raccolta che lo fa rivivere. I personaggi più amati, le canzoni, gli slogan-tormentone. E i ricordi di personaggi celebri da Arbore a Bruno Bozzetto. Sessant'anni fa esatti, il 3 febbraio 1957: la immagini sgranate dei – non molti - televisori mandano per la prima volta un programma fatto solo di spot pubblicitari. Lunghi, costruiti, scritti e recitati con grande impegno. Con l’arrivo dei primi volti noti della tv, Carosello andava a fissarsi nelle abitudini degli italiani, fino a boom incredibili di popolarità e gradimento assoluto – a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, soprattutto. Non era un programma, era un’istituzione, mai abbastanza rimpianta, impossibile da riproporre in tempi attuali – e ci hanno provato, almeno un paio di volte. Niente da fare, un Carosello, c’è solo un Carosello. Che chiuse il giorno di Capodanno del 1977, dopo essere andato in onda 7261 volte. Repubblica e l’Espresso da domani propongono in allegato il primo di una serie di venti dvd (a 8.90 euro oltre al prezzo del giornale) che ripercorrono la storia del programma-simbolo. Un’opera ampia, introdotta in ogni capitolo da un protagonista d’epoca – domani tocca a Renzo Arbore, si prosegue con Bruno Bozzetto e tanti altri – e che segue un andamento non cronologico ma per grandi temi. Per esempio l’uscita di domani si intitola I protagonisti ed è una strepitosa carrellata di personaggi con annessi tormentoni e slogan entrati nella leggenda. Per capirsi, si va dall’Ispettore Rock che non sbagliava mai se non nel mancato uso della brillantina a Topo Gigio, da Virna Lisi che poteva dire quello che voleva con quella bocca e il dentifricio annesso – slogan di Marcello Marchesi – alla Linea di Cavandoli, al cowboy Gringo. Dentro Carosello funzionava tutto, vuoi per il fior fiore di professionisti che vi si dedicavano – per cambiare il linguaggio della tv e della pubblicità, certo, ma anche e soprattutto per i budget da favola che il boom economico permetteva – sia perché la visione del medesimo era collettiva davvero, comprendeva il 100 per cento dei televisori accesi, univa grandi e piccini, questi ultimi invitati, anche qui come da slogan, a recarsi tosto verso le coperte appena finita la visione di Carosello. La nostalgia è di moda da un pezzo, ci sarà un motivo ed è meglio cercarlo nell’incrocio irripetibile di tempi, di spirito dei medesimi, slancio economico e nel lavoro per tutti, utopie tutte da coltivare e ancora intatte. Con Carosello si andava poi nettamente sul pratico: accompagnava l’industria che impiegava milioni di lavoratori, forniva suggestioni e consigli per gli acquisti – che non si chiamavano ancora così – mentre là fuori l’economia medesima e l’innovazione del pagamento rateale allargato a dismisura permettevano ogni sogno materiale possibile. Come detto, i big del teatro, del cinema, della musica e della tv medesima accorrevano: la pubblicità diventava un genere a parte e rafforzava la popolarità dei protagonisti. Le menti migliori si mettevano all’opera, i registi di rango idem compresi Fellini, Pasolini, Sergio Leone, i maghi dell’animazione fondarono un genere e crearono personaggi indimenticabili. Se esiste la distopia, ovvero disegnare il futuro come un incubo, qui siamo esattamente all’opposto: ovvero ricordare il passato come un paradiso. Carosello è al centro di questo sogno all’indietro, basta buttare lì un mezzo slogan – purché l’interlocutore sia intorno ai cinquanta – e si ottiene subito la risposta, il proseguimento, il rimando ad altre frasi celebri e via con un trivial in cui si finisce spesso per chiedere come si chiamava l’attore dell’ispettore Rock. Oggi si risolve in pochi secondi con Wikipedia, ripercorrere l’epopea di Carosello serve anche a recuperare quella benefica lentezza che faceva crescere e andare a dormire tranquilli come mai sarebbe più accaduto.
L’ITALIA ANTICONFORMISTA.
Io mi chiamo G, scrive Roberto Tartaglione e Giulia Grassi. Il primo dell'anno 2003 è morto un artista italiano di grande talento, Giorgio Gaber. Al suo funerale hanno partecipato, oltre che numerosissime persone comuni, anche politici di destra e di sinistra (da Silvio Berlusconi, Capo di un governo di destra, a Mario Capanna, ex leader del movimento studentesco, di estrema sinistra, del 1968). Tutti celebrano il Gaber anticonformista e un po' anarchico, la televisione trasmette le sue canzoni più divertenti o quelle impegnate in cui critica proprio quella generazione "di sinistra" di cui lui stesso faceva parte. Insomma: è già successo per Pasolini e ora succede di nuovo. Quando muore un artista che ha espresso idee che escono un po' dall'ortodossia del pensiero dominante sono subito tutti pronti a tirarlo dalla propria parte (perfino gli ex-democristiani hanno elogiato Gaber, dimenticando forse quello che Gaber aveva scritto e cantato proprio sul loro partito politico nella censuratissima Io se fossi dio).
- Io mi chiamo G.
- Io mi chiamo G.
- No, non hai capito, sono io che mi chiamo G.
- No, sei tu che non hai capito, mi chiamo G anch’io.
- Ah, Il mio papà è molto importante.
- Il mio papà... no.
- Il mio papà è forte, sano e intelligente.
- Il mio papà è debole, malaticcio... e un po’ scemo.
- Il mio papà ha tre lauree e parla perfettamente cinque lingue.
- Il mio papà ha fatto la terza elementare e parla in dialetto. Ma poco, perché tartaglia.
- Io sono figlio unico e vivo in una grande casa con diciotto locali spaziosi.
- Io vivo in una casa piccola. Però c’ho diciotto fratelli!
- Il mio papà è molto ricco guadagna 31 miliardi al mese che diviso 31 che sono i giorni che ci sono in un mese, fa un miliardo al giorno.
- Il mio papà è povero: guadagna 10.000 al mese che diviso 31 che sono i giorni che ci sono in un mese fa... circa... 10.000 al giorno!!! …al primo giorno. Poi dopo basta.
- Noi siamo ricchi ma democratici. Quando giochiamo a tombola segniamo i numeri con i fagioli.
- Noi, invece, segniamo i fagioli con i numeri. Per non perderli.
- Il mio papà ogni anno cambia la macchina, la villa e il motoscafo.
- Il mio papà non cambia nemmeno idea.
- Il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: Guarda! Tutto quello che vedi un giorno sarà tuo.
- Anche il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: guarda!
Basta.
Con questo monologo del 1970 comincia l'avventura del "Teatro Canzone" di Giorgio Gaber, una serie di spettacoli fatti da canzoni e monologhi spesso satirici e divertenti, ma sempre pieni di contenuti sociali e politici. Le canzoni possono riportarsi tutte a una serie di filoni principali: alcune sono legate a un dettaglio, a un gesto del proprio corpo, a una situazione piccolissima (per esempio la divertente LE MANI). Altre si occupano "pirandellianamente" del nostro modo di essere e del nostro modo di apparire (per esempio IL COMPORTAMENTO). Ma Gaber diventa più graffiante quando tocca questioni sociali come la famiglia e il rapporto di coppia (come succede in C'È SOLO LA STRADA o ne IL DILEMMA) e ancora di più quando critica i giovani della sinistra troppo omologati nei gusti e nel pensiero (durissima la canzone QUANDO È MODA È MODA). Naturalmente tutto questo senza alcuna simpatia per la destra che viene fotografata nel suo insieme in canzoni come I BORGHESI o L'ODORE. Certamente però il massimo della sua carica di rabbia e di delusione per la politica si trova nella canzone IO SE FOSSI DIO, censurata da radio e televisione, così provocatoria che nessuna casa discografica aveva accettato di pubblicarla (e infatti il disco è stato prodotto in privato da Gaber stesso e poi venduto quasi clandestinamente nelle università e sulle bancarelle per strada). Fra i monologhi ricordiamo LA SEDIA DA SPOSTARE, in cui attacca l'immobilismo della classe politica italiana; e poi LA CACCA DEI CONTADINI, e tanti altri ancora in cui veniva fuori il suo grande talento di attore oltre che quello di cantante. Negli ultimi anni Gaber sembrava essersi un po' "addolcito". Canzoni come IL CONFORMISTA o LA LIBERTA’ o DESTRA- SINISTRA sono ancora molto divertenti e incisive ma forse non così adeguate alla situazione italiana contemporanea. Interrogato su questo "addolcimento" dell'ultimo Gaber, Enzo Jannacci, un altro cantautore di grande bravura e amico di Gaber da sempre, ha recentemente dichiarato al giornale La Repubblica: " Lui aveva visto lungo: aveva capito subito che questa sinistra non funzionava... era arrabbiatissimo, come Nanni Moretti, solo che ultimamente non poteva ribellarsi come lui, in modo così eclatante, diciamo, appunto per la malattia e magari un po' per motivi di famiglia. Ma lui aveva capito."
Note: Nanni Moretti: è il regista cinematografico che da un anno è diventato leader del movimento dei girotondi, un movimento di sinistra che critica la sinistra stessa per il modo poco incisivo con cui fa opposizione al governo Berlusconi. Per motivi di famiglia: Jannacci allude probabilmente al fatto che la moglie di Gaber è diventata un importante esponente del partito di Forza Italia, il partito di Berlusconi.
La lezione "eretica" di Gaber: il coraggio di non essere omologati, scrive Paolo Giordano, domenica, 04/12/2016, su "Il Giornale". La tentazione, quella c'è sempre per tutti. Rimanere nel coro, seguire il binario, galleggiare nella fama già conquistata. Il conformismo, o chiamatelo omologazione, è un virus che contagia la stragrande maggioranza di artisti o cantanti, e non necessariamente si merita la bocciatura. C'è chi, pur volendo, non potrebbe fare altro e, per carità, non chiediamogli divagazioni imprevedibili, ché altrimenti è peggio. Ma per altri, fortunatamente, non è così. Per rimanere fuori dal coro ci vuole non soltanto una bella voce (leggasi talento). Ci vuole anche la forza di cantare più forte (leggasi coraggio). E se il coraggio è fatto di paura, come ha scritto Oriana Fallaci, è inevitabile che Simone Cristicchi ne abbia patito una bella dose quando, più o meno consapevolmente, ha seguito il proprio istinto. Aveva vinto Sanremo, era considerato uno dei cantautori più promettenti, aveva la benedizione della critica e della gente che piace. Invece ciao. Ha fatto altro. E come lui altri (pochi) cantautori italiani capaci di lasciare l'alveo della canzone popolare per diventare popolari davvero, e perciò unici. Come Giorgio Gaber. Anche lui, con brani come Torpedo blu o Goganga, a inizio anni Sessanta si era conquistato un enorme consenso di pubblico, era uno dei golden boy della musica leggera, carriera garantita a base di contratti e vendite discografiche allora davvero esaltanti. E invece si inventò il teatro canzone, trovò sale vuote o semivuote ma poi si rivelò uno degli artisti più coraggiosi del Novecento. Aderì alla cosiddetta «eresia della libertà» che è formalmente un ossimoro, ma sostanzialmente resta il vero crinale che separa il talento onnivoro e curioso da quello più conforme e pigro. Ebbe, da vero pioniere, la forza di resistere alla calamita delle ideologie quando le ideologie assorbivano - meglio: contaminavano - quasi tutta la produzione artistica e musicale. Fu un profeta del dubbio con la certezza di essere libero. Altri tempi. A seguire quella strada, quella che porta fuori dai banchi del coro ma lascia comunque i riflettori accesi, sono stati in pochi e oggi Simone Cristicchi è realmente una mosca bianca in uno scenario assai omologato, per inguaribile paura o spicciola convenienza. È passato dal tormentone estivo alla ritirata dell'Armir, dal Coro dei Minatori di Santa Fiora al canto anarchico Stornelli d'esilio con una curiosa voracità agile e soprattutto libera. In Italia, si sa, la libertà è quella cosa che ti porta a essere, di volta in volta, criticato da chi prima ti esaltava e viceversa. Così è accaduto a Gaber. E così, in altri contesti e senza paragoni, sta capitando anche a Cristicchi, che molti festeggiarono al Festival di Sanremo per la poesia scarna del brano scritto dopo avere visitato il manicomio di Girifalco (Ti regalerò una rosa) e poi criticarono perché aveva osato illuminare a teatro le pieghe sanguinose delle foibe con Magazzino 18. Dopotutto, chi si mantiene sempre libero obbliga gli altri a fare i conti con le proprie schiavitù ideologiche.
Simone Cristicchi: "Metto in scena i dolori rimossi della storia d'Italia". Il «cantattore» racconta a teatro David Lazzaretti, definito da Arrigo Petacco «il Cristo dell'Amiata», scrive Paolo Giordano, domenica 4/12/2016, su "Il Giornale". In fondo Simone Cristicchi è un eretico. Si è fatto conoscere con un tormentone involontario (Vorrei cantare come Biagio), poi ha vinto il Festival di Sanremo con un brano composto dopo una visita in manicomio (Ti regalerò una rosa), ma poi mica ha inserito il pilota automatico pubblicando una canzone dopo l'altra, figurarsi: è diventato eretico. Per farla breve, si è trasformato nel cantattore, ha scritto libri, prodotto documentari e spettacoli o monologhi teatrali come quello rimasto in scena fino a oggi al Carcano di Milano (torna in tour dal 12 gennaio fino ad aprile) con uno spettacolo legato al suo omonimo libro edito da Mondadori: Il secondo figlio di Dio - Vita, morte e misteri di David Lazzaretti, l'ultimo eretico. Guarda il caso. In camerino, Cristicchi, che è serafico e ispirato, ha una testa di capelli come Branduardi e sul tavolino tiene una grossa foto proprio di Lazzaretti con un cero acceso sotto, spiega che «i miei libri e le mie canzoni nascono affondando le scarpe nelle storie». Storie nascoste. O storie che per tanti è stato meglio nascondere, come quella di Magazzino 18 sulle foibe, spettacolo vincente e convincente che ha convinto anche tanti «talebani» a contestarlo. Romano, neanche quarantenne, Cristicchi è un caso più unico che raro, non è un polemista ma scatena polemica, insomma un investigatore vagabondo che stavolta si è fermato sul Monte Amiata dove nella seconda metà dell'Ottocento un barrocciaio (Lazzaretti, appunto) fondò la chiesa giurisdavidica, fu sostenuto da Pio IX e Don Bosco ma finì sotto le pistolettate di un carabiniere. Era il 1878. «Aveva un carisma che trascinava le masse: se il socialismo è fallito perché camminava con una gamba sola, lui è riuscito a dare alla sua gente anche il lato spirituale», spiega senza accalorarsi perché la sua forza è la «terzietà», raccontare le storie senza diventarne giudice, senza scendere in campo e indossare una maglia. Dopotutto, sorride sotto il casco di capelli, «sono un osservatore esterno». Un osservatore molto curioso. «Su Lazzaretti ci sono pochi libri, uno dei quali, ormai fuori catalogo, è quello di Arrigo Petacco: Il Cristo dell'Amiata. Ma nella sua terra si festeggia ancora il 14 agosto come il giorno in cui fu annunciata una nuova era». A occhio e croce, la storia sembra però quella di un esaltato. «Le perizie hanno escluso la sua follia, e la diagnosi che ne fece Lombroso era la stessa che fece di San Francesco: Un mattoide affetto da mania religiosa. In realtà Lazzaretti era la strana via di mezzo tra una persona razionale e un visionario che invocava una convivenza come nelle prime comunità cristiane. Molti lo consideravano un pazzo sovversivo ma, tra la Toscana e la Sabina, conquistò il popolo e anche nobili, intellettuali, prelati... Negli anni Settanta il Pci organizzò spettacoli e conferenze dedicati a lui, ma poi tutto finì lì».
Cristicchi, anche le sue opere corrono spesso sulla sottile linea rossa della follia.
«Reciterei Pirandello, ma non sarei credibile. L'istinto mi porta a percorrere altre strade mie personali».
Allora vede che è un eretico?
«Sono un restauratore di memorie».
Come quella delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata di Magazzino 18?
«Per alcuni la storia non ha sfumature e quello spettacolo ha incrociato i talebani, quelli che non capiscono che tra le pieghe della storia ci sono dolori mai raccontati».
È stato molto attaccato e insultato.
«Quando hanno iniziato a insultarmi sui social ho continuato a rispondere che ero in buona fede. Poi si sono mossi gli antagonisti, gli anarchici, le teste calde dei centri sociali che spaccano le città. Mi ha deluso molto la posizione dell'Anpi. Nell'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani, ci sono tante anime, anche quella che ritiene fascisti tutti gli istriani».
Fatto sta che Magazzino 18 è stato uno dei pochi spettacoli teatrali recenti ad andare in scena «sotto scorta».
«E mi è dispiaciuto per i poliziotti e la Digos che dovevano presidiare temendo contestazioni. Infatti, quando non c'erano pericoli in vista, li invitavo in sala a godersi lo spettacolo».
Ha avuto 210 repliche con quasi duecentomila spettatori.
«In Toscana soltanto una, per dire, mentre in Veneto trenta e in Friuli- Venezia Giulia non so più quante. Quando mi contestarono a Firenze, il sindaco Renzi mi telefonò garantendomi che in futuro avrei potuto avere il più grande teatro cittadino per tutte le repliche che avrei voluto fare. Però pochi giorni dopo è diventato premier e tutto è passato nel dimenticatoio».
Ma il pubblico non si è dimenticato...
«No, e ora percepisco così tanto affetto che non potrei più tornare indietro. Ma all'inizio non è stato per nulla facile».
Perché?
«Perché proprio dopo il successo del mio brano Meno male (quello con il ritornello su Carla Bruni, ndr) sono andato nei teatri con il mio monologo sulla ritirata in Russia, ispirata dalla storia di mio nonno (Mio nonno è morto in guerra, ndr). Le sale erano mezzo vuote e, senza paragoni, mi è capitato un po' come capitò a Giorgio Gaber quando cambiò registro delle sue opere».
Il pubblico italiano spesso è molto rigido.
«Non solo il pubblico. Confesso che non ricevere alcuna recensione dai critici italiani per tre o quattro anni mi ha fatto soffrire molto. Per capirci, Masolino D'Amico mi ha recensito per la prima volta solo quest'anno dopo l'allestimento del Secondo figlio di Dio a Cividale del Friuli. E ancora una parte dei teatri stabili italiani per me è chiusa, specialmente in Umbria e nelle Marche».
Pregiudizi?
«Non lo so, forse vogliono soltanto commedie od opere sperimentali e non cercano il teatro civile».
A proposito, lei ha firmato anche Le marocchinate. Altra memoria smagnetizzata della nostra storia recente.
«Ha presente l'episodio del film La ciociara con Sophia Loren violentata? Le marocchinate, monologo con Ariele Vincenti che lo porta in scena, parla della violenza delle truppe marocchine dopo aver sfondato la Linea Gustav nella seconda guerra mondiale».
Anche qui a parlare è un «terzo».
«Un pastore ciociaro che sposò una marocchinata, emarginata dalla sua gente perché non più vergine e forse infetta, e racconta la vita con lei che trascorreva il tempo a pulire perché si sentiva sempre sporca».
Ostacoleranno anche questo spettacolo?
«Non so, ha appena esordito e aspettiamo proposte».
E lei cosa aspetta dal suo futuro?
«Ho un sogno nel cassetto: portare in scena Canale Mussolini di Pennacchi, che mi ha pure incoraggiato a farlo. Poi una pièce per far ridere le persone, è un mio desiderio nascosto sa? E infine, chissà, magari torno pure al Festival di Sanremo...».
SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI. Tutto in famiglia. Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” ha titolato così il suo pezzo: La grande famiglia dei dipendenti SIAE, 4 su 10 legati da parentela. Per far sentire i propri dipendenti come in famiglia la Siae non ha rivali: pensa anche al bucato. Chi va in missione può far lavare e stirare camicie e mutande a spese dell'azienda. Dieci euro e 91 centesimi vale la speciale «indennità lavanderia» quotidiana che scatta in busta paga dopo il quarto giorno passato fuori sede. Quanti lo ritengono un privilegio anacronistico non sanno che la Società degli autori ed editori è anche tecnicamente un gruppo familiare. Al 42 per cento. Nel senso che ben 527 dei 1.257 assunti a tempo indeterminato (il 42 per cento del totale, appunto) vantano legami di famiglia o di conoscenza. Ci sono figli, nipoti, mariti e mogli di dipendenti ed ex dipendenti. Ma anche congiunti di mandatari (cioè gli esattori dei diritti) di sindacalisti e perfino di soci. E poi rampolli di compositori e parolieri, perfino delle guardie incaricate della vigilanza nella sede centrale. La lista è sterminata, con intrecci che attraversano ogni categoria. Dei 559 entrati alla Siae durante gli anni per chiamata diretta, ben 268 sono parenti. Idem 57 dei 128 reclutati tramite il collocamento obbligatorio. E 55 dei 154 che hanno superato le selezioni speciali. Ma perfino 147 dei 416 assunti per concorso hanno rapporti di parentela. I nomi dicono poco o nulla. Ciò che importa è che in questo clan familiare gigantesco finora tutto sia filato liscio, senza bisogno di mettere nulla per iscritto. Ecco spiegato perché alla Siae non esiste nemmeno un contratto di lavoro vero e proprio. I rapporti fra l'azienda e i dipendenti, come hanno toccato con mano il commissario Gian Luigi Rondi, i suoi due vice Mario Stella Richter e Domenico Luca Scordino, nonché i loro collaboratori, sono regolati da micro accordi che hanno determinato condizioni senza alcun paragone in realtà aziendali di questo Paese. Cominciando dallo stipendio: 64 mila euro in media per i dipendenti e 158 mila per i dirigenti. Con un sistema di automatismi che fa lievitare le buste paga a ritmi biennali fra il 7,5 e l'8,5 per cento. Per non parlare della giungla dei benefit che prevede, oltre alla già citata indennità per il bucato, quella che in Siae viene chiamata in modo stravagante «indennità di penna». Altro non è che una somma mensile, da un minimo di 53 a un massimo di 159 euro, riconosciuta a tutto il personale per il passaggio dalla «penna» al computer. C'è poi il «premio di operosità», la gratifica per l'Epifania, tre giorni di franchigia per malattia senza obbligo di certificato medico, 36 giorni di ferie... Le conseguenze? Sono nelle cifre delle perdite operative accusate dalla Siae negli ultimi anni: 21,4 milioni nel 2006, 34,6 nel 2007, 20,1 nel 2008, 20,9 nel 2009, 27,2 nel 2010. Cifre cui dà il suo piccolo contributo anche il costo del contenzioso. Perché si litiga anche nelle migliori famiglie. Nonostante condizioni di favore che non hanno eguali nel panorama degli enti pubblici o parapubblici, negli ultimi cinque anni i dipendenti della Siae hanno attivato 189 cause di lavoro. Con un costo medio per l'azienda di un milione 469 mila euro l'anno. Insomma, un bagno di sangue. Del quale ancora non si vede la fine. I commissari hanno tagliato 2,8 milioni di spese generali e un milione e mezzo di costi della dirigenza, sperando poi di risparmiarne altri 3 rivedendo gli accordi con i mandatari: un groviglio di 605 agenzie disseminate irrazionalmente sul territorio con dimensioni medie ridicole, se si pensa che il ricavo medio di ciascuna è di 128 mila euro l'anno. Ma il vero problema è quello del personale, perché finora tutti tentativi di normalizzare la situazione applicando un qualsiasi contratto di lavoro sono miseramente naufragati nella melma di uno stato d'agitazione proclamato dai sindacati interni. La questione fa il paio con la vicenda del Fondo pensioni, istituito nel 1951, che deve provvedere al pagamento degli assegni di quiescenza del personale ed è una delle cause principali del dissesto che ha portato un anno fa al commissariamento. Ha un patrimonio interamente investito in immobili, con un valore di mercato di 205 milioni. Ma che non rende praticamente nulla. Tanto che finora, per riuscire a pagare le pensioni, la Siae ha dovuto mettere costantemente mano al portafoglio, aggravando non poco il proprio conto economico. Basta dire che il Fondo ha assorbito 130 milioni di contributi aziendali, con la previsione di ingoiarne altri 60 nei prossimi dieci anni. Nel tentativo di rimetterlo in sesto, e anche in conseguenza delle nuove regole sugli investimenti degli enti previdenziali, sono stati istituiti due fondi immobiliari. Il che ha scombinato i piani di vendita di alcuni stabili di proprietà della Siae a condizioni favorevolissime: minimo anticipo e dilazioni di pagamento quarantennali. Parliamo degli immobili a destinazione residenziale occupati fra l'altro dai dipendenti della Società degli autori ed editori. Che hanno una caratteristica comune: su 37 affittuari, 34 sono sindacalisti. Fra di loro figura anche il contabile dello stesso Fondo pensioni. Si tratta di Roberto Belli, responsabile della Slc-Cgil nonché fratello di una dipendente attualmente in servizio e di una ex dipendente Siae (rispettivamente Antonella e Patrizia Belli), destinatario di una recentissima e sorprendente contestazione disciplinare. Il 13 giugno la direzione generale gli ha spedito una lettera dove si dice che una verifica condotta dalla Ria&partners, la società di revisione del bilancio del Fondo, ha fatto saltare fuori alcuni bonifici per un totale di 30 mila euro che insieme ad alcuni assegni e versamenti, c'è scritto, «non risultano autorizzati e non trovano riscontro nelle registrazioni contabili». Denaro, dicono i documenti bancari, trasferito dal conto Bancoposta del Fondo stesso ai conti correnti bancari personali di Belli e della sua compagna. Inevitabile, adesso, la richiesta di spiegazioni convincenti.
La fabbrica delle illusioni.
Promettono un futuro nel mondo dello spettacolo, ma raramente mantengono l'impegno. Sono decine e decine le agenzie di casting che deludono i giovani che affidano loro speranze e soldi. Centomila ogni anno, per un giro d'affari di oltre 10 milioni di euro. Questo secondo l’inchiesta di Vladimiro Polchi su “La Repubblica”. Casting-truffa, esercito in coda per sfondare. Si paga molto ma l'ingaggio non arriva. Ballerini, attori, cantanti, modelle e vallette. 'Aspiranti' disposti a tutto per sfondare nel mondo dello spettacolo. Pagano quote di iscrizione altissime perché il loro nome entri nei database delle agenzie. Spendono fino a 3mila euro per book fotografici spesso inutili. Nutrono un sogno e, spesso, trovano una delusione. E i più fortunati fanno le comparse.
Decine di agenzie di casting che promettono tutto e non garantiscono nulla. Centinaia di scuole di recitazione e portamento, senza alcuno sbocco professionale. Un esercito di aspiranti attori, ballerini, cantanti, showman e vallette pronto a pagare pur di sfondare nel "mondo dello spettacolo". È la fabbrica delle illusioni: un giro d'affari di oltre 10 milioni di euro l'anno, tra costosi book fotografici e alte quote d'iscrizione. Basta un numero per capire: sono ben 110mila gli italiani che oggi affidano i propri sogni ai database delle agenzie di casting. Curriculum, fotografie, lunghe e inutili attese accanto al telefono. E l'ingaggio non arriva mai. Come si riconoscono le truffe? Quali sono i trucchi delle agenzie? E chi sono i padroni di questo mercato?
Le "vittime" e i "carnefici".
Anita Ceccarelli è romana, ha 26 anni e fa la ballerina. Il suo è un caso tipico: "Lo scorso settembre ho letto un annuncio su un periodico. Un'agenzia cercava ballerini per alcune produzioni televisive. Ho chiamato e ho preso appuntamento per un provino. Ho fatto un pezzo di ballo modern jazz. Tutto è andato bene, finché non si è arrivati a parlare di soldi: mi hanno chiesto mille euro per le foto. Ho risposto che avevo già un book fotografico professionale e dunque non avevo bisogno di altro. L'agenzia ha insistito: solo con le loro foto avrebbero potuto garantire di farmi lavorare. Erano molto persuasivi, ma la loro insistenza mi ha insospettita e alla fine non ho accettato. Uscita di lì ho telefonato all'Unione nazionale consumatori e ho capito che ero stata a un passo dal farmi fregare. Oggi studio comunicazione all'università Cattolica di Milano". Ma per una come Anita che non ci casca, tanti sono quelli pronti a pagare pur di iscriversi a un database o farsi fare un inutile book.
"Fino a due anni fa, sono stato casting director per una grande agenzia romana, che lavora ancora oggi". A parlare è F. D.: ha deciso di raccontare come funziona la macchina delle illusioni. "Quando qualche produzione televisiva o cinematografica ci mandava una cast list, il mio compito era quello di girare loro le facce migliori del nostro database. Ma questo accadeva assai di rado: era, diciamo così, la nostra copertura legale. Per capirci, durante tutto il tempo che ho lavorato in agenzia avrò piazzato al massimo 5-6 persone, tra cui tre comparse per Un medico in famiglia e un solo ruolo di un certo peso per un film. Ben poca cosa, se pensiamo che avevamo oltre 12mila profili nel database. Il nostro business era un altro: fare numero, prendere tutti quelli che si presentavano, senza nessuna selezione e fare cassa con i soldi delle iscrizioni". Il meccanismo è semplice: l'agenzia di F. D. pubblica su internet e giornali locali degli annunci generici di ricerca di attori o ballerini. Le persone chiamano e prendono appuntamento in agenzia. "Venivano oltre venti candidati al giorno, anche da lontano, soprattutto dal Sud Italia: ricordo per esempio una coppia arrivata a Roma dalla Puglia. Noi promettevamo di iscriverli nel nostro database, con qualche dato del loro profilo e una fotografia. Nulla di più. In cambio dovevano sborsare 78 euro a testa per due anni, ma ora la quota è arrivata a 98 euro. In gran parte in nero. Prendevamo tutti. Una volta si è presentata una famiglia intera per iscrivere il figlio minorenne. Noi li abbiamo convinti a iscriversi tutti e quattro, dicendogli che avevano buone possibilità nel mondo dello spettacolo. Quasi tutta quella gente era improponibile. Ma che ce ne fregava? A noi interessavano solo i soldi dell'iscrizione, poi i loro profili potevano pure andare perduti". Per F. D. non si trattava di una truffa in senso tecnico, "in fondo noi promettevamo solo di inserirli nei database, nei contratti non si parlava mai di lavoro. Dunque, in qualche modo, mantenevamo le promesse. E poi in giro c'è ben di peggio: ci sono agenzie che si fanno pagare tremila o quattromila euro per book fotografici che non servono a nulla". Ma qual è il giro d'affari dei falsi casting? E quanti italiani finiscono vittime dei loro trucchi?
Un esercito di 110mila raggirati. "Cercasi volto per il cinema", l'esercito dei 110mila raggirati. Secondo le associazioni dei consumatori sono i giovani sono le vittime predilette degli annunci civetta. Questi sono molto generici per raggiungere il massimo bacino di utenza. Le agenzie vere guadagnano solo in un modo: prendendo una percentuale sui lavori effettivamente trovati". Il 10% per ingaggi nel cinema e in tv e il 20% in caso di spot pubblicitari. Per questo selezionano gli artisti. Il giro d'affari è grosso: per il casting director F. D. "oggi oltre 110mila italiani sono dentro le banche dati delle varie agenzie: un esercito di illusi". Dati confermati dalle associazioni dei consumatori. "Le segnalazioni che riceviamo riguardanti truffe nel mondo dello spettacolo sono numerosissime - conferma Sonia Galardo dell'Unione nazionale consumatori, che ha denunciato il fenomeno anche davanti alle telecamere della trasmissione Rai, "Apprescindere" - i giovano restano le vittime predilette, gli annunci sono sempre molto generici, tipo "cercasi nuovi volti per il cinema", in modo da raggiungere il massimo bacino di utenza. Poi si guadagna sulle iscrizioni all'agenzia e su costosissimi book fotografici. A caderci è un esercito di aspiranti attori, modelli, ballerine, che spera in un lavoro e rimarrà invece a bocca asciutta". Solo a Roma, come racconta Ilaria Ravarino in un articolo per il mensile romano "Nuovo Paese Sera", sono migliaia gli aspiranti attori che ogni anno si affidano a un'agenzia di casting della città.
Non mancano poi agenzia solo on-line, che fanno affari d'oro grazie a internet. Qui neppure c'è bisogno di prendere appuntamento e recarsi presso un ufficio dell'agenzia. Basta connettersi per trovare decine di offerte: "Mandaci foto e dati personali e ti metteremo sulla nostra bacheca on-line a disposizione dei professionisti dello spettacolo". Costo medio di un "pacchetto professional" (con il massimo di visibilità tra i tanti candidati e la possibilità di caricare video personali): 120-180 euro l'anno. Un bell'affare, a costo (per l'agenzia) zero. E anche qui, accanto a poche agenzie serie, molte non garantiscono alcun contatto reale col mondo del lavoro.
La regola per evitare fregature è una sola: non pagare mai un euro in anticipo. "Le agenzie vere non chiedono soldi d'iscrizione, né obbligano l'artista a pagare a peso d'oro il book presso un determinato fotografo o gli impongono un qualche corso - spiega Aldo Emanuele Castellani, regista, attore e autore di un blog molto seguito (casting-aperti. blogspot. com) - le agenzie serie guadagnano solo in un modo: prendono una percentuale sui lavori effettivamente trovati". Quanto? "Il 10% per ingaggi nel cinema e in tv e il 20% in caso di spot pubblicitari. Per questo le vere agenzie effettuano una selezione degli artisti. Tutte le altre si limitano a lucrare sull'ingenuità dei ragazzi". La rabbia sui forum. Internet è una miniera di storia e speranze tradite. Scrive sul "forum. alfemminile. com", Ester di Bolzano: "Ho dato a un'agenzia la somma di 10mila euro per book fotografici della mia bambina. Mia figlia Emily, mi dicevano, era addirittura idonea sul piano internazionale e mi hanno fatto fare la bellezza di 800 foto per coprire tutto il campo, promettendomi contratti su contratti. A luglio mi hanno detto che era arrivato il primo lavoro e che quindi avrei dovuto versare la cauzione di 3mila euro. Fatto sta che sono passati 7 mesi e del lavoro niente. Neanche un contratto da firmare. Niente di niente. Ho contattato altre agenzie per farmi dare dei consigli. Tutte sono dell'idea che sono stata pesantemente truffata". Sullo stesso forum Jonesd racconta la sua esperienza presso un'agenzia di modelle di Milano: "Ci sono stata ieri per un colloquio di lavoro. Ho conosciuto una ragazza brasiliana (brutta e pretenziosa) che mi offriva un lavoro che consisteva nel cercare nuovi volti, giovani ragazze che vogliono fare le modelle, e cercare di vendere loro book e servizi. Quando ho chiesto se dopo le ragazze avrebbero effettivamente lavorato, lei si è messa a ridere, dicendo che quello che conta è solo vendere più book fotografici possibili, non importa se sono ragazze belle o brutte. Per loro l'importante è il numero. Anche perché non c'è un salario fisso, guadagno sui book che vendo. Insomma un'altra fregatura nel mondo della moda milanese. State lontano da gente cosi se volete lavorare, invece di essere lavorate".
Il mito dei casting aperti. Il problema è anche un altro. Oggi raramente i casting sono davvero aperti. "Le grandi produzioni non fanno annunci pubblici, se non in rari casi e per ruoli molto specifici - sostiene Castellani - per il resto si affidano sempre allo stesso giro di agenti o di raccomandati. Anche perché, va detto, c'è un tal numero di persone interessate a recitare che in caso di casting aperti fioccherebbero a migliaia le domande". Non solo. Accade anche che alcuni casting siano solo di facciata: i ruoli già sono tutti presi e le selezioni vengono fatte solo per giustificare voci di spesa nelle produzioni che accedono ai finanziamenti pubblici allo spettacolo. "In effetti molte cast list non girano più tra le agenzie, sono circuiti chiusi - conferma Simona Tartaglia, tra le più importanti casting director italiane, moglie del regista Giorgio Capitani e da oltre 25 anni nel mondo dello spettacolo - e non mancano accordi sotto banco tra produzioni e singole agenzie".
Ma cosa fa davvero un casting director? "Il nostro lavoro - risponde Tartaglia - ha avuto un riconoscimento professionale solo 5-6 anni fa, prima a fare i casting erano gli assistenti alla regia. Noi riceviamo la sceneggiatura, estraiamo i ruoli, inviamo alle varie agenzie la cast list e riceviamo le loro proposte. Per ogni ruolo proviniamo circa dieci candidati, montiamo tutto su dischetto e portiamo al regista e al produttore cinque proposte per ogni ruolo. Questo è quello che fa il vero casting director. E una cosa è certa, nessuno deve pretendere soldi dall'attore: noi veniamo pagati dalla produzione, l'agente o l'agenzia dell'attore guadagna solo grazie alla percentuale sull'ingaggio". Non è tutto. "Un altro ambiente opaco - avverte Tartaglia - è quello delle tante scuole di recitazione, che promettono l'impossibile". Ma quali sono i corsi seri? E come funziona il business delle scuole?
Scuole e corsi fantasma.
"Tempo fa ho seguito un corso della durata di poche ore, sabato e domenica, in una scuola al centro di Roma - racconta Fabrizio, un giovane attore - eravamo in venti e abbiamo pagato 250 euro a testa. In sede abbiamo trovato quattro sedicenti casting director. La promessa era un abboccamento con questi professionisti, che ci avrebbero poi fatto lavorare. Ciascuno di noi portava un pezzo e si esibiva davanti a loro. Una svolta? Macché, dopo quel weekend non si sono fatti più sentire. Roma è piena di scuole che ti illudono e ti riempiono di inutili attestati". L'importante è non credere a chi promette di farti svoltare: "Io partecipo a workshop per professionisti - fa sapere Tartaglia - ma mai e poi mai in questi incontri promettiamo un lavoro".
A leggere i giornali, gli annunci on-line o i manifesti affissi in ogni città, si trovano corsi davvero per tutti: aspiranti attori, modelle, cantati, presentatori, ballerini. Corsi intensivi, annuali, professionali, amatoriali. Scuole fai-da-te o riconosciute da Regione e Provincia, che rilasciano certificati di frequenza o attestati di studio. "All'Unione nazionale consumatori - racconta Sonia Galardo - ci arrivano diverse segnalazioni. L'ultima riguardava un corso di formazione a pagamento per diventare telecronisti sportivi. La promessa, solo verbale, era quella di venire assunti a fine corso. Promessa che, naturalmente, non veniva mai mantenuta". Insomma, fondamentale è non cedere alle sirene di chi garantisce un impiego sicuro.
Dare numeri è impossibile. Limitandosi alle scuole di recitazione, le Pagine Gialle ne riportano 146. Ma sono molte di più quelle che ogni anno nascono nel nostro Paese. "In Italia ci sono le scuole più importanti, come l'accademia nazionale Silvio D'Amico o il Centro sperimentale di cinematografia - spiega Aldo Emanuele Castellani - ma accanto a queste sono cresciute come funghi decine di scuole amatoriali, dove la recitazione è per lo più ridotta a hobby. Nulla di male, per carità, purché i responsabili non promettano inesistenti sbocchi professionali e gli studenti sappiano che quei corsi non garantiscono nulla".
PARLIAMO DI QUIZ A PREMI: "AFFARI LORO".
Mara scattò in piedi come morsa da una tarantola. «Scusami solo un attimo...», disse, allontanandosi a passo di marcia dal mastodontico divano rosso, epicentro della rinnovata scenografia e totem dello studio televisivo. Comincia così la storia che racconta tutto, ma proprio tutto, quello che i telespettatori di “Affari tuoi” non hanno mai potuto vedere. Cosa nasconde il dietro-le-quinte del “programma dei pacchi”, cosa anima quelle scatole blu che dal 2003 fanno compagnia alle famiglie italiane all’ora che fu di Carosello? Fatti, personaggi, trucchi, bugie, soldi, in una caccia serrata alla scoperta di verità a lungo inseguite, ma sinora mai dimostrate. Dalle arringhe infuocate di Paolo Bonolis all’insofferenza di Max Giusti, dalla mitezza di Flavio Insinna al notaio attapirato, il programma di Raiuno vive pericolosamente per anni sul filo del sospetto, riempiendo di denaro le casse di Viale Mazzini grazie ad ascolti da record. Quando in Rai si decise di chiamare un osservatore esterno per garantire che il gioco fosse pulito, nessuno poteva immaginare che l’avvocato Massimiliano Dona prendesse sul serio quel ruolo, al punto da improvvisarsi detective per scoprire il meccanismo raffinato che consentiva ai concorrenti di vincere a mani basse. Da quel momento inizia una guerra senza esclusione di colpi combattuta tra lo studio televisivo e la Procura della Repubblica, con la Rai pronta a fare quadrato in difesa della sua gallina dalle uova d’oro e “Striscia la notizia” eccitata dall’odore del sangue. Affari “loro”, verrebbe da dire alla gente comune: se non fosse che i quattrini gettati sul tavolo e distribuiti con generosa disinvoltura sono proprio di quella gente comune che ogni anno paga il canone di abbonamento alla televisione pubblica. Per quei telespettatori il rappresentante dei consumatori Massimiliano Dona, chiamato per controllare, ha controllato. Troppo!
E' uscito in libreria Affari Loro (Minerva Edizioni), un volume di denuncia nel quale l’avvocato Massimiliano Dona, segretario generale dell’Unione Nazionale dei Consumatori, spiega tutte le irregolarità, le bugie e i trucchi (come quello dei pacchi parlanti svelato a Striscia la notizia) di "Affari tuoi", ciò che lui stesso ha riscontrato da quando venne ingaggiato dalla Rai per controllare lo svolgimento regolare del gioco fino all’edizione 2008-09, quando, dopo la denuncia alla Procura della repubblica, è stato allontanato dal programma. Ma si è mai visto un giocatore che espelle l’arbitro, reo di aver fischiato per un evidente fallo di mano? Beh, nel mondo della televisione può accadere anche questo.
Anzi è andata proprio così: la Rai dapprima chiama un rappresentante dei consumatori a vigilare su “Affari tuoi”, popolare gioco del prime time di Raiuno, poi lo mette alla porta quando questi scopre alcune irregolarità. Insomma, controllare sì, ma non troppo: forse era proprio questo che voleva la Rai quando ha chiamato l’Avv. Massimiliano Dona come osservatore esterno a garantire i telespettatori. Fin dalla prima edizione del 2004 in cui è stato designato a rappresentare i telespettatori, l’Avv. Dona ha voluto vederci chiaro: “Affari tuoi” (programma Rai – Endemol) viveva da tempo sul filo del sospetto, in palio non c’era solo il denaro pubblico di chi paga il canone tv, ma anche la fiducia di milioni di telespettatori seduti davanti ai teleschermi. Ma facciamo un passo indietro: il programma “Affari tuoi”, in onda su Rai Uno, è un gioco televisivo che consiste, in estrema sintesi, nella scelta da parte del concorrente di una scatola (“pacco”) all’interno della quale viene preventivamente inserito un premio in denaro; a tale scelta si perviene eliminando progressivamente tutti gli altri pacchi, ognuno dei quali è numerato e abbinato ad una Regione italiana. Il tutto sull’ovvio presupposto che il concorrente ignori il contenuto dei pacchi. Così, quando nell’edizione 2008-2009 Massimiliano Dona ha scoperto un meccanismo che consentiva ai concorrenti di vincere “a mani basse”, ha ritenuto doveroso presentare un esposto alla Procura della Repubblica di Roma. Da allora le vincite si sono dimezzate, ma evidentemente Massimiliano Dona è diventato un ospite non gradito, visto che la Rai ha pensato bene di “metterlo alla porta”.
Avvocato
Dona, Lei ha scoperto un “trucchetto” che consentiva ai concorrenti di vincere
grosse cifre. Ce lo spiega?
“La mia prima scoperta, il trucco dei ‘pacchi parlanti’ è già finito a Striscia
la Notizia. Ma questo è solo l’inizio della storia…”
Quali sono stati i casi più eclatanti di vincite sospette?
“Almeno una dozzina: ma le partite davvero imbarazzanti sono state quelle dei quattro fortunati che si sono portati a casa i cinquecentomila euro. Basti pensare che due tra questi si sono portati in finale i due premi più ricchi, hanno rifiutato un’offerta di 375 mila euro ed hanno vinto il mezzo milione. Non hanno neppure fatto finta di avere qualche incertezza. E questo dovrebbe pesare come un macigno sulla coscienza di chi organizzava il gioco.”
Da quando Lei ha denunciato l’accaduto, non è stato più chiamato ad “Affari Tuoi”. Qual è stata la spiegazione della Rai per questa sua mancata convocazione?
“La Rai ha sostenuto semplicemente la necessità di fare un po’ di turnover… Ma Lei lo ha mai visto un allenatore che chiama una sostituzione, fa uscire dal campo l’arbitro e lo lascia seduto in panchina???” Adesso è giunto il momento di raccontare tutto in un libro, “Affari loro” (Minerva Edizioni, Bologna), che svela fatti, personaggi, trucchi e bugie del celebre “programma dei pacchi”, alzando il sipario su quel misterioso dietro-le quinte che i telespettatori non hanno mai potuto vedere. “Un ringraziamento particolare – queste le parole di Massimiliano Dona – va a tutto lo staff dell’Unione Nazionale Consumatori, associazione alla quale ho deciso di devolvere integralmente i diritti d’autore del volume. Perché in fondo, se questo libro esce nelle librerie, è proprio perché c’è qualcosa da raccontare ai consumatori”.
Tutti noi, di fronte alle grandi vincite di quiz, game show o reality rimaniamo a bocca aperta e la voglia di tentare la fortuna televisiva ci assale. Molte volte ci chiediamo perché le vincite vengano pagate in gettoni d’oro e spesso ci domandiamo se i premi equivalgono effettivamente alle cifre dichiarate.
Le vincite sono pagate in premi o in gettoni d'oro e non in contanti, per non costituire un gioco d'azzardo. Ad esempio, nei vecchi giochi a premio condotti da Corrado e da Mike Bongiorno le vincite erano spendibili all'interno del fornitissimo catalogo del tutto simile a quello di Postalmarket, mentre le vincite maturate in trasmissioni televisive come "Chi vuol essere milionario" vengono pagate in gettoni d'oro e consegnati dopo circa 6 mesi tramite furgone portavalori. I premi sono pagati sempre e soltanto in “gettoni d’oro”, perché una legge ministeriale stabilisce che non possono essere elargiti contanti (altrimenti sarebbe gioco d’azzardo, è la motivazione ufficiale), solo che queste monete sono in oro 750‰, non puro, quindi in ogni grammo di peso ci sono soltanto 0,750 grammi di metallo prezioso.
Dalla cifra iniziale bisogna infatti togliere il 20% di tasse – nel caso di “giochi spettacolo” come quiz, reality e via dicendo – che viene trattenuto direttamente dalla rete (percentuale che sale per le lotterie e i giochi online, tassati al 25%), poi il 20% di IVA.
Poi vengono decurtate le spese di conio e quelle di trasporto e la consegna, pari al 3,5%.
Nel momento in cui si hanno finalmente tra le mani questi gettoni e si decide di convertirli in denaro, chi li acquista li paga perciò un “tot” a grammo di oro puro, con una notevole perdita di valore: per avere una stima precisa bisogna dividere il peso di ogni gettone per 0,750 (la percentuale d’oro puro) e moltiplicare il risultato per il costo al grammo. I gettoni d'oro non si possono cambiare in banca, ma vanno necessariamente venduti ad oreficerie o ad operatori specializzati, i quali contratteranno per prezzi inferiori a quelli di quotazione dell'oro, oltre a decurtare ulteriori spese per l'affinazione, l'analisi e la fusione. La gioielleria, con molta probabilità, vi prenderà un importo pari al 5% sul valore dei gettoni venduti. Il titolare del quiz a premi tv allega al Documento di Trasporto che accompagna il premio un elenco di gioiellerie convenzionate (in realtà molto poche) presso cui è possibile vendere i propri gettoni (gettoni che la gioielleria rivenderà alla tv che, a sua volta, dopo averli opportunamente lucidati, li rimetterà in palio).
Per quanto riguarda la tempistica non è immediata ma nemmeno molto lunga, poi dipende dall’ammontare della cifra e da chi la deve sborsare: il regolamento generale dei concorsi a premi impone che i premi devono essere consegnati entro sei mesi dalla vincita, poi ci possono essere eccezioni in base ai regolamenti specifici dei singoli concorsi o manifestazioni. Per legge «i premi vengono consegnati entro 180 giorni dalla chiusura del concorso».
Facciamo un esempio concreto:
Mauro Marin, il trionfatore del Grande Fratello 10, dai 250.000 euro iniziali si è ad esempio visto togliere il 20% di Irpef, il 20% di IVA e 10.000 euro per cambiare l’oro: alla fine ho avuto 150.000 euro, dopo sette mesi.
Insomma per sperare in una vincita televisiva bisogna avere fortuna e preparazione, ma soprattutto pazienza e la consapevolezza che la cifra vinta è ben diversa da quella che poi ci si potrà mettere in tasca.
I gettoni d’oro e i 5 grammi mancanti. Sulla Zecca l’ombra della frode, scrive Sergio Rizzo il 27 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera”. La moneta con cui vengono pagate le vincite dei concorsi a premi della Rai. Prosegue l’inchiesta di Report: il fornitore è sempre banca Etruria. C’è una storia che forse meglio di ogni altra fa capire quali vette di ipocrisia può raggiungere il nostro ottuso apparato burocratico. È quella dei gettoni d’oro con cui vengono pagate le vincite dei concorsi a premi della Rai, a cominciare dal popolarissimo format televisivo Affari tuoi. L’ha scoperta la scorsa primavera Sigfrido Ranucci, giornalista della trasmissione Report di Milena Gabanelli che stasera racconta cos’è accaduto da allora, fra indagini giudiziarie e terremoti aziendali. Tutto comincia quando la vincitrice di uno di quei concorsi denuncia che l’oro di cui è fatto un gettone recapitatogli dalla Zecca (il Poligrafico dello stato è titolare del contratto con la Rai per la fornitura di quei gettoni) non è purissimo come invece previsto dai regolamenti. Mancano infatti 5 grammi per chilo. Fatto già abbastanza grave di per sé, ma durante l’inchiesta di Report viene pure alla luce il meccanismo demenziale che regola da decenni il rapporto fra la tivù pubblica e i vincitori dei concorsi. Secondo le norme vigenti, infatti, i premi non possono essere corrisposti in denaro: ecco perché i gettoni d’oro. Ma ai vincitori è concesso comunque di avere soldi contanti anziché il metallo prezioso, purché si completi un insensato circolo vizioso. Formalmente il vincitore riceve i gettoni coniati, del valore della vincita detratte le tasse, l’Iva, il costo del conio e la perdita fisiologica della fusione: a quel punto li rivende alla Zecca allo stesso prezzo, da cui però viene detratta una seconda volta la perdita fisiologica e il costo della fusione. Piccolo particolare, il vincitore quei gettoni non li vede neppure. Una follia in piena regola. Anche perché nessuno è in grado di dire se siano stati effettivamente coniati, e successivamente fusi. Le rivelazioni di Report scatenano un putiferio. Salta pure fuori che l’oro è stato per decenni acquistato senza fare le gare, ma con semplici indagini di mercato. I nuovi vertici del Poligrafico presentano allora un esposto alla magistratura perché accerti i fatti e avviano una verifica interna. Che a quanto pare evidenzia una serie di problemi e falle nelle procedure. Di sicuro il rapporto di lavoro con Marco Cerù, che per vent’anni è stato a capo della direzione finanziaria del Poligrafico, viene risolto. Consensualmente, tengono a precisare alla Zecca. Ma qualcosa vorrà dire. Dal canto suo la magistratura continua a indagare. Ricorda Milena Gabanelli: «L’ipotesi è frode in pubblica fornitura. Dal 2012 alla data della messa in onda della nostra puntata, cioè aprile scorso, si sarebbe fatta pagare dalla Rai 20 milioni di euro per prestazioni mai effettuate e oltre 700 mila euro da quei vincitori che hanno optato per il controvalore in denaro». Una vicenda assurda, generata da un sistema assurdo che nessuno ha mai voluto correggere, e mette due aziende dello Stato una contro l’altra. Per inciso, contrariamente al passato gli attuali amministratori del Poligrafico hanno deciso di comprare l’oro facendo una gara pubblica. Che però ha vinto lo stesso fornitore di sempre: Banca Etruria.
GIOCHI E VINCITE. LA TRUFFA DEI GETTONI D’ORO.
A CAVAL DONATO...di Sigfrido Ranucci. Report Rai Tre, Puntata del 24/04/2016. Chi vince i gettoni d’oro si sente baciato dalla fortuna e non gli viene in mente di andarci a guardare dentro. Perché a caval donato di solito non si guarda in bocca. Noi invece siamo talmente rompiscatole che l’abbiamo fatto. La Rai sborsa ogni anno dai 6 ai 10 milioni di euro in gettoni d’oro che acquista dalla Istituto Poligrafico Zecca dello Stato. Sono i gettoni con cui premia i vincitori dei concorsi a quiz. Il premio in gettoni d’oro è ormai un meccanismo consolidato dal 1955, con la trasmissione Lascia o Raddoppia; i gettoni vengono usati al posto del denaro contante per non violare la legge sul gioco d’azzardo. Ma la Rai si distingue perché è l’unica televisione al mondo a premiare con gettoni d’oro 999,9, che significa che su un chilo ci sono più di 999 grammi di oro: il massimo della purezza. Le altre emittenti televisive, come Mediaset, pagano con gettoni in oro 750. La Rai ha un contratto di fornitura esclusiva con la Zecca dello Stato, la quale conia i gettoni d’oro e li certifica. Ma è davvero tutto oro quello che luccica, anche se proviene dalla Zecca? E soprattutto, da chi compra la Zecca i lingotti d’oro per coniare i gettoni della Rai?
MILENA GABANELLI IN STUDIO. Bene, passiamo ai gettoni d’oro, volevo mostrarvelo, l’avevamo qui fino a giovedì ma giovedì ce l’ha sequestrato la Guardia di Finanza perché sono partite le indagini della Procura di Roma. Ce lo aveva consegnato una vincitrice che si è incaponita e qui si è aperto un mondo che riguarda la Rai, che in questa storia è frodata, è parte lesa, la Zecca, l’Agenzia delle Entrate, il Ministero delle Finanze e una piccola banca sconosciuta quasi fino a poco tempo fa ma ormai diventata notissima.
SIGRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. È il 5 aprile del 2013. A Roma, nel Teatro 18 di Cinecittà, Rai Uno ha appena assegnato un monte premi di 100mila euro. La vincitrice è Maria Cristina Sparanide.
FABRIZIO FRIZZI. Siamo felici per voi… per i vostri figli, per il viaggio che farete a questo punto...
MARIA CRISTINA SPARANIDE. A questo punto sì...
SIGRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Quel viaggio, Maria Cristina e il suo compagno, non lo faranno mai. Anche perché il montepremi arriverà 8 mesi dopo, quando la loro vita è cambiata.
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE GETTONI D’ORO RAI. Hai perso il lavoro, sei in mobilità, hai due figli piccoli...
SIGFRIDO RANUCCI. E li ha vinti in gettoni d’oro?
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE GETTONI D’ORO RAI. In gettoni d’oro.
SIGFRIDO RANUCCI. Che sono questi, no?
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE GETTONI D’ORO RAI. Che sono questi qua.
SIGFRIDO RANUCCI. Però poi, al momento di ritirare la vincita, lei ha avuto una prima sorpresa.
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE GETTONI D’ORO RAI. Ricevo la prima lettera dalla Rai che di 100mila euro vinti, mi venivano mandati 80mila euro perché decurtati dalle tasse.
SIGFRIDO RANUCCI. E questo c’è scritto sul contratto. È giusto pagare le tasse.
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE GETTONI D’ORO RAI. Esatto. Sì, e beh, sì. Perché no? Mi arriva la lettera dalla Zecca, la Zecca dello Stato, che la Rai l’aveva incaricata di coniare 4 gettoni d’oro del valore nominale di 20mila euro ciascuno.
SIGRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Maria Cristina scopre leggendo la lettera della Zecca che il valore complessivo dei 4 gettoni non è neppure di 80mila euro, ma di circa 64mila.
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE GETTONI D’ORO RAI. Faccio due conti vengono 16.188.
SIGFRIDO RANUCCI. A gettone?
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE GETTONI D’ORO RAI. A gettone!
SIGFRIDO RANUCCI. Invece di 20mila.
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE GETTONI D’ORO RAI. Invece dei 20mila euro. Prendo il telefono e chiamo la Zecca dello Stato e gli chiedo il perché…
SIGFRIDO RANUCCI. E che le rispondono?
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE GETTONI D’ORO RAI. “È inutile che fa tante domande: questo è l’importo che noi le dobbiamo”. Gli ho detto: “Ho capito, ma non è giusto che lei mi risponda così anche perché 20mila euro... valore nominale 20mila euro che significa? Me lo spieghi allora, perché probabilmente l’inghippo sta là”.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Infatti dal “valore nominale” vanno sottratti, scrive la Zecca, l’IVA al 22%, le spese di coniatura e il 2% definito con la voce “calo”. Abbiamo sottoposto questo documento a un quotato commercialista che lavora per importanti aziende orafe.
SIGRIDO RANUCCI. Leggendo questa comunicazione della Zecca alla vincitrice, a Maria Cristina, qui i conti non tornano.
STEFANO CAPACCIOLI – COMMERCIALISTA - PERITO TRIBUNALE. Faccio fatica a farli tornare. Se io prendo 481 grammi e li moltiplico per 33,26 euro al grammo...
SIGFRIDO RANUCCI. Che è il prezzo dell’oro...
STEFANO CAPACCIOLI – COMMERCIALISTA - PERITO TRIBUNALE. La somma non torna. Anche a volerci aggiungere l’IVA, che a mio avviso, non c’è... Fa riferimento a un DPR 430 del 2001 che riguarda i premi, non riguarda l’IVA.
SIGRIDO RANUCCI. Hanno applicato l’IVA e non andava applicata?
STEFANO CAPACCIOLI – COMMERCIALISTA - PERITO TRIBUNALE. Ma come si fa ad applicare l’IVA sull’oro da investimento quando c’è una direttiva comunitaria che lo esenta?
SIGRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. La questione non è di poco conto perché se venisse confermato che il gettone va considerato oro da investimento, tutti i vincitori dal 2000 a oggi potrebbero chiedere indietro l’iva alla Rai, e si tratta di qualche decina di milioni di euro, e a sua volta la Rai potrebbe chiederla indietro alla Zecca.
SIGRIDO RANUCCI. Ma se tutti i vincitori dei gettoni d’oro dei concorsi Rai, chiedessero indietro l’Iva?
MAURIZIO FATTACCIO – RESPONSABILE AFFARI FISCALI RAI. Non è possibile, perché...
SIGRIDO RANUCCI. È così certo lei?
MAURIZIO FATTACCIO – RESPONSABILE AFFARI FISCALI RAI. Assolutamente sì.
SIGRIDO RANUCCI. Voi siete certi di avere applicato le normative fiscali sui premi, sui concorsi a premi in maniera corretta...
MAURIZIO FATTACCIO – RESPONSABILE AFFARI FISCALI RAI. Assolutamente sì.
SIGRIDO RANUCCI. Noi siamo l’unica televisione al mondo a premiare con gettone d’oro puro, 999. È da considerarsi oro da investimento oppure no?
MAURIZIO FATTACCIO – RESPONSABILE AFFARI FISCALI RAI. Non è nostro compito stabilire se il gettone d’oro, ancorché con titolo 999,9, è oro da investimento o meno.
STEFANO CAPACCIOLI – COMMERCIALISTA - PERITO TRIBUNALE. L’oro d’investimento è definito dalla direttiva comunitaria come lingotto o placca. La Treccani definisce il gettone d’oro come una placca a forma di moneta. Lo vede? È una placca. Un pezzo di metallo.
SIGRIDO RANUCCI. Senta, chi è che me la può dire con certezza questa cosa?
STEFANO CAPACCIOLI – COMMERCIALISTA - PERITO TRIBUNALE. Le istituzioni pubbliche preposte.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Allora giriamo il quesito al ministero dello Sviluppo Economico che ci dice di non essere competente e ci rinvia all’Agenzia delle Entrate, che però non risponde, così come il Ministero delle Finanze. Chiediamo anche a due uffici di Banca d’Italia. Uno ci scrive che il gettone non può essere considerato oro da investimento, l’altro ci consiglia di chiedere a Confindustria oro, che a sua volta ci scrive che tratteranno la questione nella prossima riunione della commissione e che qualora non si arrivasse a una risposta certa chiederanno un parere all’Agenzia dell’Entrate, che però, abbiamo visto, non risponde.
SIGFRIDO RANUCCI. Il dubbio che questo gettone d’oro puro possa essere considerato oro d’investimento, l’avete avuto anche voi? Dopo che abbiamo posto questa questione perché avete chiesto, mi risulta, un parere all’Agenzia delle Entrate. Questo me lo può confessare.
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Non è un segreto.
SIGFRIDO RANUCCI. Vi è venuto un dubbio che siamo di fronte a un’anomalia?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. A me personalmente, il dubbio non è venuto essendomi studiato la norma, le direttive comunitarie…
SIGFRIDO RANUCCI. E perché avete chiesto un parare all’Agenzia delle Entrate, allora?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Un’ulteriore verifica non fa, non fa mai male.
SIGFRIDO RANUCCI. E l’Agenzia delle Entrate quando risponde secondo lei?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Questo non lo so. Dal punto di vista tecnico, anche l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto di non essere lei a dover rispondere l’aspetto…
SIGFRIDO RANUCCI. Quindi ci dà una notizia, quindi l’Agenzia delle Entrate ha detto che non è competente su questo?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Sulla definizione tecnica di oro da investimento.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Sarà allora sicuramente competente la prima firmataria della legge sulla compravendita dell’oro.
DONATELLA MATTESINI –SENATRICE PD. Neanche io posso dare naturalmente una risposta esaustiva perché qui è un tema evidentemente che ha bisogno di una normativa che precisi.
SIGFRIDO RANUCCI. Si può impegnare a normarla questa cosa? Lei con ovviamente il Parlamento?
DONATELLA MATTESINI –SENATRICE PD. Io mi posso impegnare a porre questa questione perché è una questione che effettivamente voi, diciamo così, avete sollevato e che in qualche modo riguarda una nicchia, però effettivamente… come dire… c’è un vuoto, nel senso che nessuno si era mai posto il tema se il gettone è o non è oro da investimento.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Ma le anomalie che riguardano il contratto tra la Rai, la Zecca e la vincitrice sono anche altre.
SIGFRIDO RANUCCI. Hanno fatto pagare un calo del 2%...
STEFANO CAPACCIOLI -COMMERCIALISTA. Sull’oro da investimento?
SIGFRIDO RANUCCI. Eh, ma che cos’è, questo calo?
STEFANO CAPACCIOLI -COMMERCIALISTA. Beh, lo leggo qui per la prima volta. Certo far calcolare un calo del 2% sull’oro da investimento, faccio fatica a pensarlo. Questo significa che loro, lavorando un chilo, perdono 20 grammi?
SIGFRIDO RANUCCI. Questo calo del 2%, che significa su un chilo di oro puro, voi perdete circa 20 grammi… cioè io la vedo poco credibile.
MARCO CERU’ – AMMINISTRATORE FINANZA E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. È una forfettizzazione che tecnicamente viene accettata dal punto di vista normativo e tecnicamente è giustificata da tutte le fasi di lavorazione che vanno dalla fusione del lingotto alla realizzazione dell’oggetto.
SIGFRIDO RANUCCI. Però a me risulta che anche se c’è qualche perdita voi la recuperate. Quindi fate pagare qualcosa che poi in realtà recuperate, sostanzialmente?
MARCO CERU’ – AMMINISTRATORE FINANZA E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Tecnicamente esiste il calo di fusione.
SIGFRIDO RANUCCI. Voi questo calo lo fate pagare eventualmente anche due volte, perché lo fate pagare nel momento in cui fondete e coniate i gettoni e nel caso in cui invece il vincitore decida di avere i soldi.
MARCO CERU’ – AMMINISTRATORE FINANZA E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Va rifuso.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Maria Cristina si insospettisce difronte alle pressioni della Zecca che le consiglia di rinunciare ai gettoni in cambio del denaro in contanti.
MARIA CRISTINA SPARANIDE. “Comunque le consigliamo” questo mi hanno detto, “di prendersi non i gettoni d’oro, ma di prendersi l’importo in... di farsi bonificare l’importo di 64mila euro”.
SIGFRIDO RANUCCI. Quindi la Zecca si offriva di riacquistare questi gettoni...
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Sì, sì, ma anche con insistenza. E io gli ho detto, insistendo, gli ho detto “No: preferisco avere i gettoni”, anche per la gioia di vederli, fotografarli.
SIGFRIDO RANUCCI. Ma è plausibile che la Zecca o un operatore delle Zecca abbia cercato di persuadere a il vincitore a lasciare i gettoni e ad accettare il denaro in cambio?
MARCO CERU’ – AMMINISTRATORE FINANZA E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Non mi risulta, mi pare poco plausibile.
SIGFRIDO RANUCCI. No, perché a uno viene il sospetto visto che vi fate pagare il calo due volte.
MARCO CERU’ – AMMINISTRATORE FINANZA E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Ripeto, mi pare poco plausibile.
SIGFRIDO RANUCCI. La Zecca si propone di riacquistare i gettoni d’oro dalla vincitrice, previo sondaggio dei gettoni...
STEFANO CAPACCIOLI - COMMERCIALISTA. Come sondaggio dei gettoni?
SIGFRIDO RANUCCI. Eh, dice che praticamente fanno una verifica del materiale, sostanzialmente.
STEFANO CAPACCIOLI - COMMERCIALISTA. Nel gettone ce l’hanno messo il marchio impresso con il titolo?
SIGFRIDO RANUCCI. La Zecca l’ha messo.
STEFANO CAPACCIOLI - COMMERCIALISTA. E neanche si fidano di quello che scrivono?
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. E fanno bene, visto quello che è successo a Maria Cristina, quando ha portato in un’azienda orafa i suoi gettoni per farli valutare.
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Non appena l’ho portato, hanno guardato il certificato della Zecca, hanno fatto l’assaggio del gettone e mi hanno detto subito: “Guarda che questo qui non è 999,9”.
SIGFRIDO RANUCCI. Cioè non era oro puro?
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Non era oro puro.
SIGFRIDO RANUCCI. Cioè: un gettone fatto dalla Zecca, certificato 999…
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Sì.
SIGFRIDO RANUCCI ...cioè “oro puro”, non era oro puro?
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Non era oro puro. Anche gli altri che poi successivamente ho venduto, erano tutti quanti non puri. Eh… adesso me ne è rimasto uno ancora da vendere… speriamo insomma...
SIGFRIDO RANUCCI. Che almeno quello sia oro puro.
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Speriamo.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Questa volta documentiamo con la telecamera tutte le procedure di analisi. Prima, preleviamo i campioni dell’ultimo gettone d’oro rimasto. Poi ripetiamo i campionamenti su uno dei gettoni vecchi. Che erano già risultati sottotitolo rispetto al marchio 999,9 impresso dalla Zecca. Una volta selezionati i campioni, li mettiamo dentro delle bustine separate e identificate con la lettera “N” che sta per “nuovo” e “V” di “vecchio”, e li portiamo presso un laboratorio specializzato.
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Buongiorno.
UOMO LABORATORIO. Buongiorno.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. È il laboratorio della Sagor il servizio di analisi e garanzia dell’oreficeria della Camera di Commercio di Arezzo, l’unico accreditato per analisi legali.
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Avrei bisogno di fare il saggio di questi due campioni.
SIGFRIDO RANUCCI. Quanto tempo ci vorrà secondo lei?
UOMO LABORATORIO. Nel pomeriggio, dopo le tre.
SIGFRIDO RANUCCI. Ma voi potete sbagliare nelle analisi oppure le vostre sono sempre state analisi inattaccabili?
UOMO LABORATORIO. Noi siamo riconosciuti dal Ministero per queste cose! Poi...
SIGFRIDO RANUCCI. Grazie.
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Grazie, buongiorno.
MILENA GABANELLI IN STUDIO. Prima di andare a vedere quanto oro c’è la dentro, la questione dell’iva. Secondo la normativa l’oro puro in forma di placca o lingotto è oro da investimento quindi non soggetto a iva. Il gettone è una placca o qualcos’altro? Se la stanno studiando tutti gli organi competenti, perché sarà anche una questione di nicchia, ma di milioni ne girano parecchi, che la Zecca scarica, ma la Rai no, perché la legge sui premi dice che è un costo puro. Ma la legge sui premi non prevede che il gettone possa essere fatto in oro puro. Qui lo è, e allora come la mettiamo? Perché in tal caso a meno che non si stabilisca che il gettone non è una placca ma è chissà che cosa l’iva non andrebbe pagata, poi se oro puro non è, questa è un’altra storia ancora, continuiamo dopo la pubblicità.
MILENA GABANELLI IN STUDIO. Risiamo sui gettoni d’oro, torniamo al laboratorio orafo della Camera di Commercio di Arezzo certificato dal ministero per vedere se dentro al gettone c’è tanto oro quanto certificato dalla Zecca. E poi vedremo anche da chi la Zecca compra questo oro.
SIGFRIDO RANUCCI. Buonasera!
MARIA CRISTINA SPARANIDE. È pronto il certificato?
UOMO LABORATORIO Sì! SIGFRIDO RANUCCI. Com’è andata?
UOMO LABORATORIO. Sono 995 e spiccioli.
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Ma veramente?
UOMO LABORATORIO. Eh, veramente sì.
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Ma è possibile una cosa del genere?
UOMO LABORATORIO. In che senso?
MARIA CRISTINA SPARANIDE. A me li hanno dati per 999,9.
UOMO LABORATORIO. C’è scritto da qualche parte? È punzonato?
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Sì! C’è proprio lo stampigliato!
SIGFRIDO RANUCCI. Guardi, eh!
UOMO LABORATORIO. No, ma…
SIGFRIDO RANUCCI. Non la voglio mettere in difficoltà, però se non ci fidiamo di lei non sappiamo neanche di chi fidarci. Capisce lei?
UOMO LABORATORIO. No, ma non vi dovete fidare di me: vi dovete fidare di me, della SAGOR, come analisi. Per il resto, noi non c’entriamo niente.
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Ma per farle vedere che c’era stampigliato anche 999,9.
UOMO LABORATORIO Che le devo dire? Io…
SIGFRIDO RANUCCI. Ma le pare una cosa credibile questa storia? Che la Zecca conii dell’oro che non sia oro puro come certifica?
UOMO LABORATORIO. La Zecca emette monete per lo Stato, quindi si presuppone che emetta per il titolo che stampiglia. Poi io… Altre cose io non le posso dire perché non compete a noi.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Chi è deputato a controllare che i quantitativi di oro presenti negli oggetti messi sul mercato corrispondano a quanto timbrato è l’Ufficio Metrico.
SIGFRIDO RANUCCI. Se io, produttore d’oro...
LUISELLA PECORARI –ISPETTORE SERVIZIO METRICO METALLI PREZIOSI. Sì...
SIGFRIDO RANUCCI. Scrivo e timbro che il mio lingotto...
LUISELLA PECORARI –ISPETTORE SERVIZIO METRICO METALLI PREZIOSI. Sì...
SIGFRIDO RANUCCI. È oro 999 e non è così, poi si appura, che cosa succede?
LUISELLA PECORARI –ISPETTORE SERVIZIO METRICO METALLI PREZIOSI. È grave, la legge italiana non ammette tolleranze negative. Chiunque in un esercizio di un’attività commerciale, consegna una cosa diversa per qualità e quantità da quella dichiarata è punito con la reclusione.
SIGFRIDO RANUCCI. Reclusione fino a...?
LUISELLA PECORARI –ISPETTORE SERVIZIO METRICO METALLI PREZIOSI. Nel caso dei metalli preziosi, fino a tre anni.
SIGFRIDO RANUCCI. Stiamo parlando di frode in commercio, sostanzialmente.
LUISELLA PECORARI –ISPETTORE SERVIZIO METRICO METALLI PREZIOSI. Stiamo parlando di frode in commercio.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Ipotizzare che la Zecca di Stato possa essere autrice per mano di qualcuno di una frode non è certo rassicurante. In un laboratorio due tecnici, che hanno chiesto di rimanere anonimi, ci dimostrano che la lega in oro 995 al posto di una 999,9 non può essere frutto di un errore.
UOMO CON MASCHERA. Bisogna creare una lega apposita.
SIGFRIDO RANUCCI. Ed è una cosa complicata da fare o...
UOMO CON MASCHERA. No: basta prendere un chilo di metallo puro – 999 e 9 – togliere 5 grammi di metallo puro e al posto dei 5 grammi di metallo puro mettere 5 grammi di altro metallo povero.
SIGFRIDO RANUCCI. In questo caso è argento?
UOMO CON MASCHERA. In questo caso è argento, ma può essere anche rame, può essere anche una lega più povera.
SIGFRIDO RANUCCI. E con i 5 grammi di oro puro che ha tolto che fa?
UOMO CON MASCHERA. I cinque grammi che abbiamo tolto, uno li può anche prendere – l’operatore – e portarseli a casa.
SIGFRIDO RANUCCI. Poi che fa? Prende questa roba...
UOMO CON MASCHERA. Poi prendiamo questa roba qui e la andiamo a mettere in fusione.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Sono sufficienti pochi minuti di lavorazione per trasformare la nuova lega in un lingottino. E la prima cosa che appuriamo è che il cosiddetto calo del 2 per cento dovuto al processo di lavorazione e fusione, che la Zecca fa pagare alla Rai e al Vincitore, anche due volte in caso di riacquisto dei gettoni, non c’è. Un chilo abbiamo fuso e un chilo preciso è uscito.
UOMO CON MASCHERA. Controlliamo che il titolo sia quello che abbiamo voluto ottenere.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Sono sufficienti pochi minuti di lavorazione per trasformare la nuova lega in un lingottino. E la prima cosa che appuriamo è che il cosiddetto calo del 2 per cento dovuto al processo di lavorazione e fusione, che la Zecca fa pagare alla Rai e al vincitore, anche due volte in caso di riacquisto dei gettoni, non c’è. Un chilo abbiamo fuso e un chilo preciso è uscito.
UOMO CON MASCHERA 2. Controlliamo che il titolo sia quello che abbiamo voluto ottenere.
SIGFRIDO RANUCCI. Quindi vediamo se avete fatto bene i calcoli…
UOMO CON MASCHERA 2. Siamo stati bravi, dai. Vediamo un po’... Il nostro obbiettivo, diciamo che è raggiunto.
SIGFRIDO RANUCCI. Ma quindi è impossibile che sia un errore, insomma... Perché il materiale viene controllato in entrata...
UOMO CON MASCHERA 2. E in uscita.
UOMO CON MASCHERA 2. Non può essere spiegato come un errore. È una cosa finalizzata a truffare il prossimo.
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Dici: “Vabbe’, è un’azienda privata comunque in qualche modo devono fare la cresta, devono guadagnare da qualche parte”, ma lo Stato!
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Ad essere frodata in questo caso, oltre la vincitrice, è anche la Rai, che i gettoni li ha pagati alla Zecca come oro puro.
MAURIZIO FATTACCIO – RESPONSABILE AFFARI FISCALI RAI. Il contratto lo dimostra: la Rai compra oro puro, con il titolo di 999,9, quindi oro fino, non ci sono dubbi, e questo è testimoniato dal contratto.
SIGFRIDO RANUCCI. E lo paga come oro puro.
MAURIZIO FATTACCIO – RESPONSABILE AFFARI FISCALI RAI. Assolutamente sì.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. La Zecca è controllata dal Ministero delle Finanze. È il referente per la tutela degli interessi dello Stato, in termini di sicurezza, di anticontraffazione e tracciabilità. E su questo tema si vanta di essere all’avanguardia, cosi come sulla trasparenza. Ma quando si tratta di far controllare quello che produce lei stessa, improvvisamente diventa meno disponibile e i panni sporchi preferisce lavarli in famiglia.
AL TELEFONO ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO. Poligrafico?
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Io sono andata a vendere i gettoni e mi hanno confermato che sono 995. Alcuni anche meno.
AL TELEFONO ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO. Questa è una cosa abbastanza grave. Noi siamo l’ente certificatore anche di queste cose quindi sarebbe grave se fosse… come dire dimostrabile, che c’è stato qualche problema durante il processo.
MARIA CRISTINA SPARANIDE. Che cosa mi consiglia di fare a questo punto? Chiamo la Rai? Faccio una denuncia alla Procura della Repubblica? Cosa devo fare?
AL TELEFONO ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO. Noo… Hahahah, non esageriamo! No, al limite potrebbe inviare una copia dell’analisi qui al servizio clienti dell’istituto, e poi… la contatteremo noi tramite i canali della Zecca.
SIGFRIDO RANUCCI. Questo qua è un gettone d’oro della Zecca, l’abbiamo preso da uno dei vincitori. E l’abbiamo campionato. Ed è risultato sottotitolo di un bel po’. 995 invece del 999 come timbrato dalla Zecca.
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Mmh.
SIGFRIDO RANUCCI. Perché questa sarebbe frode in commercio insomma… Se così fosse...
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Intanto vediamo se lo è...
SIGFRIDO RANUCCI. E i frodati risulterebbero in questo caso la Rai e il vincitore. Perché la Rai l’ha pagato come oro puro questo.
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Certo. Se così fosse saremmo probabilmente frodati anche noi.
SIGFRIDO RANUCCI. Da chi? Da chi v’ha fornito l’oro?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Delle due l’una. O da chi ha fornito l’oro o da chi l’ha lavorato.
SIGFRIDO RANUCCI. E lei sa chi ha fornito l’oro?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Dipende da che periodo...
SIGFRIDO RANUCCI. Diciamo dal 2012 ad oggi, chi...
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Tendenzialmente due banche.
SIGFRIDO RANUCCI. Io direi una...
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. No. Nella maggior parte dei casi una, ma in altri casi un’altra.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. E qual è la banca che in questi anni ha rifornito d’oro la Zecca?
DA DON MATTEO DEL 14/03/2014 DIPENDENTE BANCA. Ah, ha ritirato una bella somma, Maresciallo!
MARESCIALLO CECCHINI. Eh devo fare un regalino a mia nipote. Per lei farei qualsiasi cosa, se potessi la ricoprirei d’oro.
DIPENDENTE BANCA. Guardi, qui abbiamo un lingotto di 10 grammi.
MARESCIALLO CECCHINI. Questo è vero? Posso toccarlo? Non lascio le impronte.
UOMO BANCA. Sì, sì, sì, che ne dice?
MARESCIALLO CECCHINI. È una bella idea!
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. È la stessa idea che hanno avuto i manager della Zecca, che per anni e senza bando di gara, hanno acquistato da Banca Etruria circa 11 milioni di euro in lingotti d’oro per trasformarli in gettoni della Rai.
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. È la banca che ci fa il prezzo più basso rispetto a delle indagini di mercato che noi facciamo, quando abbiamo bisogno di comprare oro.
SIGFRIDO RANUCCI. E lei si è mai chiesto perché fa il prezzo più basso? Per esempio, Banca Etruria?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Siamo parlando di centesimi al grammo.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Tra i lingotti dei clienti, quelli utilizzati per il distretto industriale orafo di Arezzo, e quelli di sua proprietà, Banca Etruria conserva 9 tonnellate e mezzo d’oro. Per buona parte, è oro puro. Si tratta della più grande concentrazione d’oro, dopo quella di Banca d’Italia. È un tesoro da 310 milioni di euro, nascosto in un caveau, almeno uno è in una località segreta ad Arezzo.
SIGFRIDO RANUCCI. Voi avete comprato oro puro dalla Banca Etruria?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO Sì. SIGFRIDO RANUCCI. Sempre?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Sì. Oro 999, lingotti d’oro 999.
SIGFRIDO RANUCCI. Perché qua mi risulta da un opuscolo informativo che la Banca Etruria, l’unica tra le fonti aperte che abbiamo trovato, a vendere anche lingotti 995. Lei questo lo sapeva?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Che venda anche titoli 995… non…
SIGFRIDO RANUCCI. Non è che hanno infilato un lingotto… a titolo 995 e con questi ci abbiamo fatto i gettoni della Rai? Dico… Non ve ne siete accorti?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Mi sembra, mi sembra poco probabile. Visto che comunque, l’oro viene controllato anche in entrata.
SIGFRIDO RANUCCI. Perché se no bisognerebbe ipotizzare che un operatore infedele all’interno della Zecca, abbia costruito una lega ad hoc per fare i gettoni d’oro…
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Questo, mi consenta, non saprei che cosa ipotizzare a questo punto.
SIGFRIDO RANUCCI. Però lei si impegna di andare a fondo su questa vicenda.
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Da fare un’eventuale verifica, certo.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Il dottor Cerù che da 17 anni è nella Zecca, è stato di parola. Ha fatto le verifiche. Dopo una settimana ci ha chiamato. Aveva scoperto chi ha fatto la cresta sui gettoni d’oro della Rai?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. I lingotti che sono stati acquistati, sono lingotti acquistati da Banca Etruria. Sono 15 lingotti, su questi il 20 per cento è stato controllato in ingresso, secondo le nostre procedure di qualità. Ed è risultato oro 999.
SIGFRIDO RANUCCI. Quindi è possibile che l’80 per cento sia sfuggito e sia 995?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Questo non lo sappiamo. Adesso l’amministratore delegato ha definito con il nostro ufficio legale di presentare un esposto alla Procura della Repubblica. Perché ovviamente…
SIGFRIDO RANUCCI. Volete tutelarvi giustamente.
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Vogliamo tutelarci.
SIGFRIDO RANUCCI. Come mail quei gettoni sono risultati 995?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. È quello che chiederemo ad accertare alla Procura della Repubblica. Non siamo stati in grado noi di identificare se era un problema alla fonte, cioè del lingotto, o se è stato un problema di lavorazione. Fra l’altro, debbo dirle che…
SIGFRIDO RANUCCI. Ecco qua. Che c’è? Che mi mostra? Che mi fa vedere?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Questo è stato già coniato su autorizzazione del nostro amministratore delegato. La richiesta…
SIGFRIDO RANUCCI. Lo offrite come risarcimento?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Non è un risarcimento. Dato che siamo convinti di essere in buona fede e il Poligrafico non si fa parlare dietro da nessuno. Laddove la signora volesse restituirci i gettoni per fare ovviamente le analisi nel nostro laboratorio, noi siamo pronti ad integrare l’eventuale differenza di titolo che mancasse…
SIGFRIDO RANUCCI. Quant’è questo?
MARCO CERÙ – AMMINISTRAZIONE, FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Sono circa 9 grammi.
SIGFRIDO RANUCCI. Questo è un piccolo gettone della Rai.
MILENA GABANELLI IN STUDIO. Insomma la Zecca non esclude che ci sia stata un’anomalia, tant’è che chiede, dice “Dite alla signora di darci il gettone che lo analizziamo, intanto però a titolo di risarcimento abbiamo coniato questa monetina, chiudiamola lì”. Non sarà tanto possibile, le analisi le farà un ente terzo, su mandato della Procura della Repubblica che questa settimana ha anche sequestrato l’elenco di tutti i i vincitori di gettoni dal 2009 ad oggi perché da quella data la Zecca è fornitore unico della Rai. Questo per verificare se è un caso isolato, cosa che noi ci auguriamo, vale a dire il funzionario infedele della Zecca o dentro Banca Etruria che una volta nella vita ha rubacchiato qualcosina è incappato nella tignosa di Perugia oppure se è un sistema. Perchè in tal caso sarebbe grave. La cresta di 5 grammi su un chilo, a seconda del prezzo dell’oro va dai 150 ai 180 euro, poca roba però di chili ne girano molti. Soltanto la Rai ogni anno acquista dalla Zecca dai 6 ai 10 milioni euro di gettoni d’oro e nel 90% dei casi i vincitori li restituiscono direttamente alla Zecca e incassano in contanti, chi è che controlla, chi è che va a vedere esattamente tutte queste cose che abbiamo visto adesso? Nessuno. Poi la Zecca stampa anche monete d’oro per il Vaticano, per San Marino, ci sono i lingotti e il sistema di controlli sui lingotti avviene così, ogni 100 la Zecca ne controlla 20. Insomma.
A CAVAL DONATO...DI Sigfrido Ranucci. Report Rai Tre. Puntata del 28 novembre 2016. A distanza di sei mesi si torna a parlare dei gettoni d’oro dalle Rai prodotti dalla Zecca. Ad aprile scorso avevamo scoperto che a una vincitrice di Perugia la Zecca dello Stato aveva coniato come oro puro 999,9 dei gettoni che invece, fatti analizzare da un laboratorio legale, erano risultati sotto titolo: 995. Si tratterebbe di frode in commercio, e a essere frodati sarebbero la Rai, che dalla Zecca compra oro 999, e i vincitori. Report ha scoperto un’altra frode che se confermata sarebbe di ben altre dimensioni.
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE “RED OR BLACK” 2013. Non appena l’ho portato, hanno guardato il certificato della Zecca, hanno fatto l’assaggio del gettone e mi hanno detto subito: “Guarda che questo qui non è 999,9”.
SIGFRIDO RANUCCI. Cioè: un gettone fatto dalla Zecca, certificato 999…
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE “RED OR BLACK” 2013. Sì.
SIGFRIDO RANUCCI...cioè “oro puro”, non era oro puro?
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE “RED OR BLACK” 2013. Non era oro puro. Anche gli altri che poi successivamente ho venduto, erano tutti quanti non puri.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. L’ultimo gettone della signora Sparanide l’abbiamo fatto analizzare noi. Lo abbiamo portato in un laboratorio accreditato per analisi legali. Il risultato è stato questo.
UOMO LABORATORIO. Sono 995 e spiccioli.
MARIA CRISTINA SPARANIDE – VINCITRICE “RED OR BLACK” 2013. Ma veramente?
UOMO LABORATORIO. Eh, veramente sì.
SIGFRIDO RANUCCI. Ma le pare una cosa credibile questa storia? Che la Zecca coni dell’oro che non sia oro puro come certifica?
UOMO LABORATORIO. La Zecca emette monete per lo Stato, quindi si presuppone che emetta per il titolo che stampiglia.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Ad essere frodata in questo caso, oltre la vincitrice, sarebbe anche la Rai, che dalla Zecca compra oro 999.
MAURIZIO FATTACCIO – RESPONSABILE AFFARI FISCALI RAI. Il contratto lo dimostra: la Rai compra oro puro, con il titolo di 999,9, quindi oro fino, non ci sono dubbi.
MARCO CERÙ –DIRETTORE FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Se così fosse saremmo probabilmente frodati anche noi.
SIGFRIDO RANUCCI. Da chi? Da chi v’ha fornito l’oro?
MARCO CERÙ – DIRETTORE FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Delle due l’una: o da chi ha fornito l’oro o da chi l’ha lavorato.
SIGFRIDO RANUCCI. E lei sa chi ha fornito l’oro?
MARCO CERÙ – DIRETTORE FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Tendenzialmente due banche.
SIGFRIDO RANUCCI. Io direi una...
MARCO CERÙ – DIRETTORE FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. No. Nella maggior parte dei casi una.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. E qual è la banca che in questi anni ha rifornito d’oro la Zecca?
DA DON MATTEO DEL 14/03/2014 MARESCIALLO CECCHINI. Eh devo fare un regalino a mia nipote. Per lei farei qualsiasi cosa, se potessi la ricoprirei d’oro. DIPENDENTE BANCA Guardi, qui abbiamo un lingotto di 10 grammi.
MARESCIALLO CECCHINI. Questo è vero? Posso toccarlo? Non lascio le impronte.
UOMO BANCA. Sì, sì, sì, che ne dice?
MARESCIALLO CECCHINI. È una bella idea!
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. È la stessa idea che hanno avuto i manager della Zecca, che per anni e senza bando di gara, hanno acquistato da Banca Etruria circa 11 milioni in lingotti d’oro.
SIGFRIDO RANUCCI. Voi avete comprato oro puro dalla Banca Etruria?
MARCO CERÙ – DIRETTORE FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Sì.
SIGFRIDO RANUCCI. Sempre?
MARCO CERÙ – DIRETTORE FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Sì. Oro 999.
SIGFRIDO RANUCCI. Perché qua mi risulta da un opuscolo informativo che la Banca Etruria è l’unica, tra le fonti aperte che abbiamo trovato, a vendere anche lingotti 995. Lei questo lo sapeva?
MARCO CERÙ – DIRETTORE FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Che venda anche titoli 995…non…
SIGFRIDO RANUCCI. Non è che vi ha infilato un lingotto…a titolo 995 e con questi ci abbiamo fatto i gettoni della Rai? Dico…Non ve ne siete accorti?
MARCO CERÙ – DIRETTORE FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Mi sembra, mi sembra poco probabile. Visto che…
SIGFRIDO RANUCCI. Però lei si impegna di andare a fondo su questa vicenda.
MARCO CERÙ – DIRETTORE FINANZE E CONTROLLO – ZECCA DELLO STATO. Da fare un’eventuale verifica, certo.
MILENA GABANELLI IN STUDIO. La verifica l’han fatta ma non sono riusciti a capire chi ha frodato, adesso ci sta provando la Procura, poi c’era la questione dell’iva, se è oro puro è da investimento e l’iva non sarebbe dovuta. Su questo punto dopo sei mesi ci stanno ancora ragionando l’Agenzia delle Entrate e la Banca d’Italia. Nel frattempo però è saltato fuori un altro problema, forse più grosso. La Zecca fa sempre pagare a Rai e a vincitori le spese di coniatura e un due percento di calo di fusione dell’oro, anche quando la coniatura non c’è proprio mai stata, e qui l’aria di frode è un po’ pesante.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Il giro che ha percorso l’oro con cui sono stati coniati i gettoni ha del paradossale. La vincitrice ha venduto i gettoni a Italpreziosi di Arezzo, che li ha analizzati e ha scoperto che non si trattava di oro 999 come certificava la Zecca che aveva comprato i lingotti da Banca Etruria, che a sua volta li aveva comprati proprio da Italpreziosi, che a sua volta però li aveva acquistati dalla Popolare di Vicenza, che a sua volta li aveva comprati da Argor Heraeus, una delle più importanti fonderie al mondo con sede in Svizzera. È da lì che i lingotti sono partiti con un certificato che garantiva il titolo 999.
SIGFRIDO RANUCCI. Com’è possibile che né Zecca né tutte queste società si siano mai accorte che c’era qualcosa che non andava?
ELENA SOLDI – UFFICIALE LEGALE ZECCA DELLO STATO. Noi facevamo dei controlli campione sui lingotti in entrata. Avevamo la certificazione, non ci abbiamo neanche mai pensato. Tant’è che oggi facciamo la verifica anche durante le fusione dell’oro, che prima non avevamo mai fatto.
SIGFRIDO RANUCCI. Però io mi chiedo: se non siete stati in grado voi come Zecca, che avete tutti gli strumenti necessari, che siete ente anche certificatore, come pretendete che riesca la magistratura a capire dov’è stata la frode e chi l’ha fatta?
ELENA SOLDI – UFFICIALE LEGALE ZECCA DELLO STATO. Guardi, la magistratura ha molti mezzi.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. In attesa che l’inchiesta della magistratura faccia il suo corso, sono spuntate altre anomalie e a farne le spese è stato il primo campione del nuovo Rischiatutto, Stefano Orofino.
“DA RISCHIATUTTO DEL 27/10/2016 FABIO FAZIO. Allora, buonasera al nostro campione che porta la storia della Juventus! Ha vinto 132 mila euro. Chiunque abbia incontrato, mi hanno fatto solo questa… mi hanno detto: prometti che gli chiedi se sono arrivati i gettoni d’oro.
STEFANO OROFINO. E io devo dire che purtroppo…
FABIO FAZIO. Non sono arrivati. Cioè la Rai… È finto, è tutto finto?
STEFANO OROFINO. No, ci sono dei tempi tecnici per cui dovrebbero arrivare al massimo il 26, 27 novembre.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Il campione Orofino, “in nome omen”, “nel nome il destino” direbbero i latini, non sa che i problemi tecnici ai suoi gettoni d’oro, li abbiamo creati noi, come ci racconta un dirigente della Zecca che vuole rimanere anonimo.
DIRIGENTE ZECCA DELLO STATO. Dopo l’intervista di Report, nella Zecca è scoppiato il panico, c’è stato un audit interno, è arrivata la Guardia di Finanza e hanno dovuto cambiare tutta una serie di documenti e procedure interne e soprattutto hanno ricominciato a coniare i gettoni.
SIGFRIDO RANUCCI. Ma perché prima non coniavano?
DIRIGENTE ZECCA DELLO STATO. No. La Zecca è obbligata da contratto con la Rai a coniare tutti i gettoni, ma per i vincitori che sceglievano il controvalore in denaro, la Zecca non coniava. E poi per documentare alla Rai le lavorazioni richieste, aveva creato una serie di documenti fittizi a cominciare dai documenti di trasporto dei gettoni.
SIGFRIDO RANUCCI. Ma è possibile che la Zecca che dipende dal ministero dell’Economia e delle Finanze debba ricorrere a dei documenti fittizi?
DIRIGENTE ZECCA DELLO STATO. E invece è stato così per anni.
SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO. Questi sono solo alcuni dei vincitori Rai, che al posto dei gettoni d’oro hanno optato per il controvalore in denaro. Complessivamente hanno vinto circa 900 mila euro.
ANNA DIMUCCIO –VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2013. Ho optato per il bonifico direttamente. Ho firmato questo DDT dove praticamente mi dice i gettoni d’oro, cioè la quantità in gettoni d’oro, e niente…però io in realtà i gettoni non li ho mai visti.
SIGFRIDO RANUCCI. Lei anche ha il DDT?
SERGIO DI BIASE - VINCITORE “AFFARI TUOI” 2012. Ho firmato un DDT in cui ho attestato scioccamente di aver ricevuto questi gettoni d’oro, ma non li ho mai visti.
SIGFRIDO RANUCCI. Anche lei ha ricevuto un DDT?
ANNA MARIA CERASI – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2011. Sì, eccolo.
SIGFRIDO RANUCCI. Che è questo?
ANNA MARIA CERASI – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2011. Sì, appunto è questo e…
SIGFRIDO RANUCCI. Dove si dice però lei a ricevuto questi gettoni.
ANNA MARIA CERASI – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2011. Eh sì. Certo…ho firmato anch’io…
SIGFRIDO RANUCCI. Ma non li ha mai visti neanche lei...
ANNA MARIA CERASI – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2011. No, no. Assolutamente no. Niente.
SIGFRIDO RANUCCI. Lei ha ricevuto pressioni per scegliere il denaro?
ANNA DIMUCCIO –VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2013. Sì. Mi dicevano “ma guardi, meglio il bonifico perché è più semplice”.
SIGFRIDO RANUCCI. Quindi diciamo che la Zecca spingeva perché lei scegliesse del denaro.
ANNA DIMUCCIO –VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2013. Sì, che io scegliessi il denaro. Sì.
SIGFRIDO RANUCCI Lei? GIOACCHINO DI MAIO – VINCITORE “AFFARI TUOI” 2015. Io ho l’atto di quietanza in cui si evince che avrei ricevuto dalla Rai due gettoni da euro 20 mila, un gettone da euro 10 mila, uno da 5 mila e uno da mille euro.
SIGFRIDO RANUCCI. Ma lei questi gettoni li ha mai ricevuti?
GIOACCHINO DI MAIO – VINCITORE “AFFARI TUOI” 2015. Mai visti.
SIGFRIDO RANUCCI. Quanto ha vinto lei?
CRISTIANA FRACCON – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2013. 500mila euro.
SIGFRIDO. Ecco, al netto poi quanto le è rimasto?
CRISTIANA FRACCON – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2013. Sono 311mila euro.
SIGFRIDO. Perché lei ha pagato…?
CRISTIANA FRACCON – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2013. Abbiam pagato il 20% di ritenuta d’imposta, abbiam pagato – ah, ci hanno detratto l’IVA, e poi tutte le spese di coniazione, fusione e calo dell’oro.
SIGFRIDO RANUCCI. A lei il calo lo hanno fatto pagare due volte perché ha scelto il controvalore in denaro, no? CRISTIANA FRACCON – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2013. Ho scelto per il denaro, esatto.
SIGFRIDO RANUCCI. Io vedo questo DDT, che è un Documento di Trasporto, dove secondo la Zecca dello Stato le sarebbero stati consegnati 20 gettoni d’oro e le sarebbero stati consegnati con un mezzo blindato, munito di sistema di controllo satellitare, centro d’ascolto, guardie giurate armate.
CRISTIANA FRACCON – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2013. No.
SIGFRIDO RANUCCI. Ecco, lei tutta questa roba l’ha vista?
CRISTIANA FRACCON – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2013. No, no. Assolutamente, anche perché io già avevo optato appunto per il controvalore in denaro.
SIGFRIDO RANUCCI. Quindi lei mi sta dicendo che la Zecca le ha fatto firmare un documento di trasporto secondo il quale avrebbero consegnato dei gettoni d’oro…
CRISTIANA FRACCON – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2013. Dei gettoni d’oro e io li avrei restituiti.
SIGFRIDO RANUCCI. E tutto questo non è mai avvenuto materialmente.
CRISTIANA FRACCON – VINCITRICE “AFFARI TUOI” 2013. No, no. È ovvio che ti dicono: questi sono i documenti da firmare per la riscossione del premio, uno va e firma i documenti.
SIGFRIDO RANUCCI. Avrei fatto anch’io la stessa cosa.
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. Non c’è stato mai nessun addebito alla Rai.
SIGFRIDO RANUCCI. È un documento fittizio questo? Possiamo dirlo?
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. Non è un documento fittizio, è un documento per certificare tutte le produzioni si è deciso di usare questi DDT. Le dico anche che a seguito delle verifiche che sono state fatte a seguito della trasmissione, oggi non si emettono più questi DDT.
SIGFRIDO RANUCCI. Scusi, ma che necessità c’è di fare un documento di trasporto…
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. Perché…
SIGFRIDO RANUCCI. Quando non viene trasportato nulla.
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. Perché se il vincitore si presenta e deve avere il documento di trasporto perché il gettone è pronto per la consegna.
SIGFRIDO RANUCCI. Peccato, nel caso dei vincitori che hanno optato per il denaro, i gettoni non li ha visti mai nessuno. Addirittura mi risulta che non è stato neanche comprato l’oro.
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. No, non è possibile.
SIGFRIDO RANUCCI. Mi risulta addirittura che ci sia una direttiva interna, una procedura interna che prevedeva addirittura di non acquistare l’oro, fino a quando il vincitore non avesse optato definitivamente per i gettoni d’oro.
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. Vedo adesso questa direttiva, non l’ho vista questa istruzione, non l’ho vista.
SIGFRIDO RANUCCI. Eh, ma è possibile che venga fatta una procedura che in teoria potrebbe mettere a rischio…
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. In questo caso evidentemente è stata fatta, ma non tutte…
SIGFRIDO RANUCCI. L’adempienza del contratto con la Rai senza che l’ufficio legale venga informato?
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. Non tutte le procedure passano dall’ufficio legale, questo le sto dicendo.
SIGFRIDO RANUCCI. Se le avessero sottoposto questa procedura, lei avrebbe chiesto spiegazioni?
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. Avrei cercato di capire quale era effettivamente la finalità. Perché lei mi sta dicendo che la finalità era quella di non coniare…
SIGFRIDO RANUCCI. La finalità era quella di non coniare, dottoressa. Non è che c’è tanta. Non credo che sia tanto difficile capirlo, eh.
DIRIGENTE ZECCA DELLO STATO. Quella procedura era un’indicazione di Marco Cerù, il dirigente che avete intervistato. È stato per vent’anni a capo della direzione amministrativa e nella Zecca aveva un grande potere. Infatti dopo la vostra intervista è stato – diciamo così – interrotto il rapporto con la Zecca.
SIGFRIDO RANUCCI. Mi spiega qual è il vantaggio da questa operazione?
DIRIGENTE ZECCA DELLO STATO. Se lei pensa che meno del 20% dei vincitori chiede effettivamente i gettoni d’oro, per il rimanente 80% la Zecca ha fatto pagare alla Rai e ai vincitori prestazioni mai fatte. Anche grazie a questo sistema, Cerù e gli altri dirigenti hanno abbassato i costi operativi e hanno potuto incassare complessivamente 270mila euro di bonus previsti per il raggiungimento degli obiettivi.
SIGFRIDO RANUCCI. Se questo fosse avvenuto, sarebbe grave. Perché significa che la Zecca ha fatto pagare alla Rai conio, lavorazione.
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. Quello che mi diceva prima.
SIGFRIDO RANUCCI. Calo del 2%, su dell’oro che non è stato neanche acquistato.
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. Allora, questi addebiti che il Poligrafico fa alla Rai sono addebiti che sono previsti contrattualmente con la Rai. Certo, se lei dice…
SIGFRIDO RANUCCI. Eh, ma se poi le prestazioni non le fa.
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. Se lei dice: se non fosse stata fatta la coniazione…
SIGFRIDO RANUCCI. E nel caso non siano stati coniati quei gettoni, in caso di controvalore in denaro, cioè, voi avete fatto pagare l’ulteriore calo di rifusione dei gettoni d’oro al vincitore senza averne diritto. Avete fatto pagare una prestazione che non avete mai fatto.
ELENA SOLDI – UFFICIO LEGALE ZECCA DELLO STATO. Questo è un assunto, un’ipotesi che sta facendo lei. Io le dico che sono certa che sono stati coniati.
MILENA GABANELLI IN STUDIO. Lo è un po’ meno la procura. L’ipotesi è frode in pubblica fornitura. La Zecca dal 2012 alla data della messa in onda della nostra inchiesta, cioè aprile scorso, si sarebbe fatta pagare dalla Rai oltre 20 milioni di euro per prestazioni mai effettuate, e oltre 700 mila euro da quei vincitori che hanno optato per il controvalore in denaro e che sono l’80%.
LA TV PUBBLICA IN MANO AI PARTITI. RAI, L'ORGIA DEL POTERE
Un esercito di 13.248 dipendenti. Più 43 mila collaboratori. E nuove assunzioni alle porte. Eppure la Rai compra quasi un quarto delle trasmissioni all'esterno. Radiografia della scandalosa gestione della televisione pubblica.
Centoquattordici parrucchieri, 67 camerinisti, 66 arredatori, 61 falegnami, 18 costumisti, 12 meccanici, 34 consulenti musicali, 36 scenografi, un'orchestra leggera di 16 elementi (indipendente da quella sinfonica della Rai di Torino con 116 musicisti) che non viene utilizzata da anni. Più o meno 400 unità, retaggio dei decenni del monopolio (i formidabili anni 1950-80, quando la Rai realizzava tutto al suo interno) e che già da sole equivalgono all'intero organico di La 7-Mtv. Sono esempi limite del mare magnum della popolazione Rai. Messa sotto esame da un Comitato istruttorio per l'Amministrazione ultimato un mese fa, che rivela nero su bianco e in modo riservato lo stato dell'arte sulla 'Situazione dell'organico del gruppo Rai'. Con una raccomandazione pesante, senza troppi giri di parole: verificare addirittura "la capacità dei 'capi' di governare uomini e processi produttivi".
Tra contratti a tempo indeterminato (9.889 per la capogruppo, 11.250 in totale) e contratti a tempo determinato per esigenze di produzione e di gestione (1.998 in tutto), la cittadella Rai arriva a 13 mila e 248 abitanti. Quanto gli abitanti di Lavagna. Il doppio di quelli di Asolo. La metà di quelli di Enna. Senza considerare la montagna dei 43 mila contratti di collaborazione (da quello a Bruno Vespa all'ultimo figurante).
Più che un rapporto, è un vero e proprio censimento Rai. Una radiografia aritmetica della stratificazione elefantiaca della televisione di Stato, gravata da anni di blocchi, clientelismi, raccomandazioni. Un minuzioso elenco che snida figure antropologiche-spot, presenti, non si sa perché, soltanto in alcune sedi: un geometra, ma solo a Firenze; cinque annunciatori tra Bolzano, che ne ha tre, e Trieste, che ne ha due. E che mette in luce il 'peso' di alcune aree significative. Ventotto addetti alla segreteria del consiglio d'amministrazione, 49 alla Direzione generale (compresi i distaccati verso società del gruppo), 397 ai Servizi generali, 114 alla Pianificazione controllo, 142 all'Amministrazione e 133 all'Amministrazione e Abbonamenti, 679 alle Riprese pesanti, 252 alle Risorse umane con ben 21 alti dirigenti. Lo studio ci va giù duro: "Abnorme il numero delle strutture a diretto riporto dal Vertice. Duplicazioni di attività. Onerosa rete di controllo formale sulla cui efficacia è legittimo nutrire più di un dubbio. Eccessiva polverizzazione delle testate giornalistiche che non ha confronto con gli altri servizi pubblici europei".
Un organico monstre che, tra contratti a tempo indeterminato e determinato, abbraccia 1.771 giornalisti (di cui 54 sono vice direttori, quasi cinque per ognuna delle 11 testate), 931 programmisti-registi, 76 aiuti registi, 476 assistenti ai programmi. Solo la somma dei dipendenti di Rai Way, gestore degli impianti tv e radio (nata nel 2000, ha 648 addetti) e Sipra, la concessionaria di pubblicità, supera il migliaio di persone (1.405). Dislocate nel territorio, 22 squadre di riprese: un numero, si legge nel rapporto, che non ha pari in nessun broadcaster pubblico o privato in Europa. Non solo. Sempre più di frequente, notano gli analisti, le reti e le direzioni editoriali chiedono di assoldare e contrattualizzare altre società per l'acquisizione e la realizzazione di appalti. Nel 2007, secondo Cgil, i costi esterni sono arrivati a 1.327 milioni.
Il Gran Moloch della tv pubblica non si sazia mai.
La nomenklatura radiofonica, programmi, Gr e Gr Parlamento, vale 754 anime. Rai Internazionale, ex International, diretta dal prodiano Piero Badaloni, successore del camerata Massimo Magliaro, ha 39 giornalisti assunti (e quasi altrettanti a tempo determinato), di cui ben 22 sono graduati e cinque hanno qualifica e stipendio di vice direttori. La rete 'dovrebbe' trasmettere il meglio dei programmi Rai nel mondo. Ma si pregia, invece, del record di proteste degli italiani residenti all'estero, inviperiti per l'impiego di materiale vecchio come il cucco. Persino a Capodanno, momento sacro anche per emigranti di lunga data, avidi di seguire i festeggiamenti in patria, il buon Badaloni e la sua squadra, evidentemente impegnati a stappare champagne altrove, hanno mandato in onda una vetusta registrazione, mantenendo così lo standard tradizionale di corale indignazione degli italioti in esilio. Eppure la rete vanta un organico di tutto rispetto: ben 152 persone. Quanto RaiDue (153). Poco meno di RaiTre (166). Un numero sorprendente visto che RaiUno, dicasi RaiUno, l'ammiraglia di viale Mazzini, ne ha 206.
Anche Rai News 24 diretta da Corradino Mineo non scherza con il suo organigramma di 122 persone, di cui 94 giornalisti. Solo dieci in meno di quelli del Tg5 di Mediaset. Il canale satellitare allnews rappresenta una risorsa nevralgica, anche per il futuro digitale. Ma lo share non brilla e nella sfida con l'aggressivo Tg24 di Sky (39 edizioni di telegiornali giornalieri seguitissimi, 141 giornalisti), in progressivo boom di ascolti, arranca. Anche nel paragone con gli altri tg, dove la stratificazione di personale è già degna di nota, come il Tg3 (104 giornalisti, in tutto 140 persone) o il Tg2 (126 giornalisti su 167 addetti), la squadra di Mineo appare più che consistente. Persino il Confronto dei confronti, cioè quello con la testata diretta da Gianni Riotta, la dice lunga. Il Tg1, primo telegiornale d'Italia, conta 136 giornalisti (su un totale di 180 persone). Solo 40 in più di Rai news.
Per non parlare dell'organico del Televideo firmato da Antonio Bagnardi: 96 persone a disposizione di cui 49 giornalisti. O di quello di Rai Parlamento, palma di platino per la più alta densità di graduati. Il direttore Giuliana Del Bufalo può pavoneggiarsi: su una squadra di 46 addetti, 26 sono giornalisti, e di questi, cinque sono capi redattori, tre vice, cinque capiservizio e altrettanti vice direttori. Uno di loro, l'ultimo arrivato, si fa per dire, è stato Giorgio Giovanetti, ex assistente di Angelo Maria Petroni, consigliere Rai in quota Forza Italia, alla sua prima nomina operativa grazie a Del Bufalo. E poi si favoleggia che le donne in carriera siano delle iene.
Il dettagliatissimo rapporto dimostra come nonostante i prepensionamenti a tutti i livelli, il popolo Rai non accenni a diminuire. Per forza. La televisione di Stato continua a essere sotto lo scacco della politica e dei partiti, che a ogni cambio di Palazzo Chigi si precipitano a chiedere le teste di direttori (e così giù per li rami) per inserire innesti nuovi, più organici all'ennesima colonizzazione. Difficile credere che la nuova classe al governo, di cui una buona parte bisognosa di farsi conoscere, possa fare a meno del potere esercitato sulla Rai (basti pensare a un partito radicato nel territorio come la Lega). E rinunciare all'influenza sui tg regionali, fondamentali postazioni per favori, clientele, assunzioni. I dati della Tgr diretta da Angela Buttiglione sono quasi pulp: 851 persone di cui 689 giornalisti. E il Coordinamento delle sedi regionali (che non si occupa dei centri di produzione sparsi per il paese) conta 656 dipendenti. È vero che la Rai è obbligata a dare voce alle 21 regioni, come notano a viale Mazzini. Ma 1.507 addetti rappresentano un numero più che pulp. Addirittura post-moderno.
Lo studio è il manifesto numerico di un modello politico e ideologico. Il piano industriale presentato dall'attuale Direzione generale aveva definito economie, tagli e prepensionamenti. Ma il Gran Moloch Rai ha reagito immediatamente. Il fenomenale format organizzativo del carrozzone è arduo da cambiare. Difficile modificare un giacimento di Stato, aureo per i partiti, alimentato pure dal lascito feudale di poter tramandare il proprio posto fisso ai diletti parenti. Anche le molte cause di lavoro perse fanno la loro parte: mille quelle in corso, 100 mila euro il costo medio di ognuna, 150 circa l'anno quelle in cui la Rai viene sconfitta (15 milioni di euro circa tra avvocati e risarcimenti). Motivi? Soprattutto il reintegro delle funzioni, (prima causa, gli strali politici) e i riconoscimenti del lavoro precario, vero motore propulsivo e produttivo dell'azienda che deve a questa forza buona parte della messa in onda dei programmi.
Eppure la Direzione produzione Rai conta 3 mila 851 persone. Una cifra da sballo. Un numero da capogiro visto che è quasi pari al totale dei dipendenti del Gruppo Mediaset. Infatti, la forza lavoro del Biscione berlusconiano arriva a 4 mila e 635 unità, di cui 4 mila e 506 a tempo indeterminato. Nonostante la mole del personale (che, secondo le previsioni, entro il 2009, è destinato ad aumentare di altre 1732 unità, se non ci saranno nuove soluzioni gestionali e sindacali), il 22 per cento delle produzioni della televisione di Stato è affidato all'esterno.
Nelle conclusioni, gli analisti sottolineano come, nel mercato della comunicazione, il servizio pubblico si giustifichi soltanto se è produttore di contenuti. E se riesce a far crescere al suo interno dei centri di eccellenza creativa. E insistono nella necessità di una pianificazione strategica con regole aziendali rigide "che impongano alle direzioni editoriali di saturare prioritariamente le risorse interne. E di verificare, vista la significativa dimensione d'organico, con una doverosa, attenta ricognizione, la loro affidabilità professionale e la capacità dei 'capi', a ogni livello di responsabilità, di governare uomini e processi produttivi".
Un bel fendente ai vertici passati, presenti e futuri. Ma sarà improbabile che i dirigenti che arriveranno, benedetti dalla neo maggioranza al governo, seguano questa direttiva. Anche per loro, la Rai sarà terra di conquista, di promozioni, di poltrone da moltiplicare. Con buona pace di centinaia di precari, da anni in attesa di una sanatoria meritoria, alcuni con decenni di prestazioni. Ora devono fronteggiare anche il blocco dei contratti predisposto dall'azienda e causato della nuova disciplina del lavoro sui contratti a termine.
Le norme prevedono l'assunzione a tempo indeterminato per chi abbia superato i 36 mesi di impiego, comprensivi di proroghe e rinnovi (prima gli intervalli tra un contratto e l'altro la evitavano). Il 31 dicembre 2007, mille e 185 unità, tra quadri, impiegati e operai avevano già maturato i tre anni. A fine febbraio 2008, invece, avevano toccato il traguardo 162 giornalisti. I precari, forza non fannullona, che fa il lavoro di centinaia e centinaia di dipendenti della tv pubblica, minacciano scioperi che potrebbero davvero bloccare una parte significativa dei palinsesti. Ma, visto l'organigramma monstre dell'azienda, per loro c'è poco da sperare. Per potenti e per raccomandati, c'è sempre Mamma Rai. Per gli altri, la Rai è solo matrigna.
NEPOTISMO E CLIENTELISMO
Lo scandalo del televoto pilotato si allarga a macchia d'olio. E inquina anche l'Isola dei Famosi. E' Lele Mora a gettare altra benzina sul fuoco: Queste le parole di Lele Mora, prossimo concorrente della Fattoria 4, rilasciate a Striscia: "Mi ricordo il primo anno con Walter Nudo, che era un’artista che lavorava con me. Ho suggerito agli amici e parenti di prendere tante schede telefoniche, tante posizioni sul call-center per arrivare alla valutazione finale e farlo vincere. Credo che tra amici e parenti abbiamo investito circa 25.000 euro».
LO SCOOP DEL "FOGLIO" E DI "STRISCIA" «Un euro a voto, 5.000 voti sicuri per 5.000 euro»: è la denuncia lanciata da Striscia la notizia, riportando una notizia già pubblicata su Il Foglio, secondo cui la gara al festival di Sanremo rischia il doping telefonico. Secondo l'articolo «attraverso i call center oggi è possibile comprare voti per il proprio artista. Versando l'assegno e poi sedersi, in attesa che il doping telefonico sortisca il suo effetto sulla classifica, se si è ultimi non si vince, ma se si è ottavi magari si arriva secondi». In base al regolamento del Festival 2009, nelle serate di venerdì e sabato, col televoto è possibile dare fino a un massimo di 7 voti con la stessa utenza fissa o mobile nell'arco delle 24 ore. Secondo il quotidiano, in questo modo si lasciano così agli operatori dei call center il tempo di generare più di 10 mila voti al giorno sull'artista indicato. «Quello che anni fa si fece comprando le schedine del Totip - sottolinea Il Foglio - oggi si fa in modo più equo, dando lavoro ai precari del call center. La Rai poi non si sogna certo di ridurre il tempo del televoto: finirebbero gli introiti previsti dalle percentuali su ogni chiamata all'operatore».
Secondo l'articolo de Il Foglio, «attraverso i call center oggi è possibile comprare voti per il proprio artista. Versando l'assegno e poi sedersi, in attesa che il doping telefonico sortisca il suo effetto sulla classifica, se si è ultimi non si vince, ma se si è ottavi magari si arriva secondi».
Il Secolo contro i big del Festival: «Cammariere un militante, Bertè comunista e Zarrillo pro-Diliberto».
Sanremo a misura di Prodi: tutti dentro se di sinistra». Il Secolo d'Italia, in un articolo richiamato in prima pagina, critica il Festival sottolineando i casi di alcune esclusioni eccellenti dalla prossima gara canora come quelle di Povia e Francesco Baccini. «È una storia che si ripete ogni anno, specie se a condurre la kermesse è Pippo Baudo che, solo a parole lancia gli appelli per superare le divisioni, almeno quando si parla di canzoni», scrive il il quotidiano di An nel pezzo in cui vengono raccolti gli sfoghi e le accuse politiche degli esclusi. «Spulciando tra la lista dei cantanti ammessi, si capisce che molti, al di lá dei discorsi sul livello qualitativo, hanno il patentino richiesto», prosegue il Secolo citando Michele Zarrillo, «che ha scritto una canzone contro Berlusconi» e il cui testo del brano di quest'anno «sembra più che altro un intervento congressuale di Diliberto»; Max Gazzè, che «è arrivato a fare la sua prima tappa del tour cantando al Villaggio globale di Roma in una serata con compagni dei centri sociali»; Sergio Cammariere, che «vanta una certa militanza».
Poi c'è Loredana Bertè, «orgogliosamente comunista», mentre «un altro allineato è Federico Zampaglione, anche lui dichiaratamente di sinistra». «Superfluo - prosegue il Secolo- soffermarsi su Eugenio Bennato, così come scontata è la collocazione di Frankie Hi Nrg, che non a caso a Sanremo porta Rivoluzione». Infine, paradosso per il Secolo, «persino i cantanti non di sinistra porteranno tematiche dal sapore prodian-progressista. Forse proprio per evitare l'esclusione a priori». Come Anna Tatangelo, che canterà dei gay.
SCANDALO RAI: PARLA AGOSTINO SACCA'
Disintegrato dalle intercettazioni sul caso Rai e reintegrato per sentenza sul posto di lavoro. Agostino Saccà, direttore di Rai Fiction indagato dalla procura di Napoli in un’inchiesta di veline e veleni, ha conosciuto in questi mesi il doppio volto della giustizia. Saccà è un tipo coriaceo, dall’identikit multiforme. È la quintessenza del dirigente Rai, ha la consuetudine a trattare con il potere, presenta qualche aspetto decisamente démodé, come la passione per i formalisti russi, ed è passato ai disonori delle cronache come il collettore delle raccomandazioni. Saccà è la Rai, di tutto, di più.
Saccà, è da molto tempo che non usa il telefonino?
No, lo uso continuamente, addirittura a fine mattina s’era esaurita la batteria di uno dei miei due cellulari. La mia vita non è cambiata.
Che impressione le ha fatto leggere le sue telefonate con Silvio Berlusconi?
Non credevo potesse mai accadere, anche se avevo visto tante cose in passato, ma ritenevo a ragione di essere nel giusto perché non avevo nulla da nascondere. Allora non immaginavo vi fosse un Grande orecchio che praticamente ascolta tutti perché tutti parlano con tutti.
Lei ha visto il materiale dell’inchiesta che la riguarda?
Sì, le telefonate sono quelle di un pezzo dell’establishment italiano, non solo politico.
La chiamavano un po’ tutti; destra, sinistra, centro. Tutti segnalavano delle persone, sempre in maniera molto garbata. L’Italia è un paese fondato sul lavoro o sulla raccomandazione?
Guardi, penso che vada così in tutto il mondo.
Berlusconi la chiama per segnalarle attrici come Evelina Manna, Elena Russo e Antonella Troise. Lei che fa?
Le indico al capostruttura per il provino, che viene poi valutato da una commissione che io ho istituito. I miei predecessori facevano di testa loro. Col senno di poi, ho fatto bene per due ragioni: per garantire la qualità e per proteggermi. Sapendo di essere sottoposto a chiamate, potevo rispondere che non ero solo a decidere e dire “non ci posso fare nulla “.
Perché la Rai è un’azienda dove è necessaria la raccomandazione?
Non penso solo alla Rai, ma dappertutto. Il sistema è così in tutti i paesi, solo che all’estero sono più coperti, passano meno attraverso la politica e più grazie alle lobby degli amici e dei sistemi di potere.
Non vorrà far credere che lei era una centrale telefonica che riceveva chiamate da tutti e diceva no a tutti…
No, non dicevo sempre no a tutti.
È vero che tra le persone che ha aiutato c’è la fidanzata di un sodale politico di Walter Veltroni?
Era un consigliere comunale, ma non l’ho aiutata io. E qui mi fermo.
Lei è di destra o di sinistra?
Sono sempre stato di sinistra. Solo che la sinistra oggi sta a destra. L’attenzione ai più deboli e il garantismo oggi sono da quella parte.
L’ex presidente della Rai Enrico Manca ricordava che “anche il Pci raccomandava”. Cosa è cambiato nel sistema rispetto alla Prima repubblica?
Allora la raccomandazione era più organica, c’era come una sorta di canale diretto fra i partiti e i rappresentanti della Rai. Oggi invece telefonano i leader, conta il rapporto individuale tra il dirigente e il leader politico. In passato era una questione di partito, di politica culturale e propaganda.
Il suo deve essere un mestiere poco allegro. Sempre al telefono a ricevere chiamate di raccomandazione.
Cerchiamo di essere obiettivi: ne avrò ricevute una o due a settimana di quelle chiamate. E se le concentriamo in 4 anni… Io non avrei mai tollerato una richiesta meno che educata e perbene. Sono più i no che ho detto dei sì. Credo che Berlusconi mi abbia sempre stimato proprio per i miei no.
Immagino che il suo non fosse l’unico telefono bollente di Viale Mazzini.
Appunto, non scherziamo.
C’è qualcuno che le deve la carriera?
Molti. Ho preso Fiorello che s’era spento alla Mediaset. Ho preso Panariello quando non era nessuno e ho investito su di lui. Ho recuperato Morandi, lanciato lo show di Celentano.
Si è guardato molto in questa storia al “lato b” della faccenda, alle femmine. Ma immagino che le raccomandazioni non arrivassero solo per le belle donne ma anche per gli uomini.
Assolutamente sì. Persone importanti chiamavano per segnalare anche attori bravi.
Torniamo alle raccomandazioni. Che cosa hanno in comune Antonella Troise, Evelina Manna ed Elena Russo?
Tutti gli attori cercano un posto, ma c’è un problema: tutti vogliono essere protagonisti, però protagonisti si nasce.
Andare a letto con un dirigente Rai o con un politico potente aiuta o no?
Il confronto e il conflitto tra i sessi si gioca in mille modi. Così va il mondo da sempre, non è che voglio essere disincantato, è un dato antropologico. E non mi scandalizza.
SCANDALO RAI: PARLA FRANCESCO COSSIGA
Presidente Cossiga, è vero che si autodenuncerà per aver commesso fatti analoghi a quelli imputati dalla procura di Napoli a Silvio Berlusconi per la famosa telefonata con Agostino Saccà?
«Certamente, lo farò lunedì, presso la stazione dei carabinieri territorialmente competente».
Qual è il motivo di questo gesto?
«L’illuminazione mi è venuta dopo la richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi per il quale non ho mai votato ma che è mio amico personale. Berlusconi è senza dubbio il maggior perseguitato giudiziario della storia d’Italia, quasi a pari punti con Giulio Andreotti. Ci dimentichiamo troppo spesso che in questo Paese hanno condannato Andreotti in prima istanza per collusione con la mafia e come mandante dell’omicidio di quel famoso giornalista di Op. E a muoversi è sempre il pacchetto di mischia di Palermo e Perugia».
Lei si autodenuncia come «raccomandatore-confesso». A favore di chi spese la sua influenza?
«Dopo la vittoria del centrosinistra intervenni a favore di Donna Bianca Berlinguer, ovvero di mia nipote, perché le fosse assicurata una posizione di maggior rilievo nel Tg3, e della signora Federica Sciarelli, già peraltro premiata con l’affidamento della conduzione della brillante trasmissione “Chi l’ha visto?”. E ciò al fine di rafforzare la sua influenza nella Rai».
Federica Sciarelli le manda a dire che lei, in Rai, è entrata per concorso.
«Guardi che è tutto vero quello che dico, non me lo sto certo inventando! Non ho raccomandato per l’assunzione Federica Sciarelli perché lei era dipendente del Senato e poi ha vinto una borsa di studio e siccome è brava è passata in Rai. Comunque non rispondo alla signora Sciarelli perché non voglio vedermi notificato un avviso di garanzia da parte di qualche sostituto procuratore della Repubblica di Potenza».
Bianca Berlinguer nega di aver mai richiesto il suo intervento.
E la prega di astenersi per il futuro da simili raccomandazioni.
«Da sardo pronipote di un pastore e di un aristocratico della piccola nobiltà giacobina sarda non posso permettermi di replicare a una ragazza, anzi a una già ragazza, dell’aristocrazia sardo-catalana. Comunque Donna Bianca può stare tranquilla: con il cognome che porta non avrà alcun problema né danno. Anzi se torna Berlusconi la promuoverà subito e, anche se non ce n’è bisogno, sarò io stesso a richiederlo».
Ma questi interventi da chi le furono sollecitati?
«Ma da loro due in persona! La signora Sciarelli venne a chiedere che intervenissi sul capo del personale affinché le fosse aumentato lo stipendio. Donna Bianca Berlinguer venne a chiedere una posizione più eminente».
Il suo intervento andò a buon fine?
«Le raccomandazioni a favore di Donna Bianca Berlinguer non partorirono alcun risultato positivo. Quelle a favore della signora Sciarelli ebbero sul piano economico un risultato largamente positivo».
Perché a distanza di anni ha tirato fuori questa vicenda?
«Venerdì ho sentito Donna Bianca condurre una trasmissione di insulti su Mastella con la consueta faziosità e mi è tornata in mente questa vicenda».
Non le dà fastidio essere etichettato come «raccomandatore»?
«Ascoltai personalmente l’omelia di un cardinale che definiva le raccomandazioni un atto di carità cristiana. D’altra parte le segnalazioni sono un istituto mondiale. Erano la prassi nella burocrazia britannica. Così come a West Point si entra soltanto dietro segnalazione dei senatori dei diversi Stati della Confederazione».
Non ha mai fatto mea culpa per qualche raccomandazione concessa alla persona sbagliata?
«Ma no. E poi nelle campagne elettorali tutti usano le raccomandazioni. D’altra parte mi sa dire uno che in Rai non sia raccomandato? Io non ne conosco».
Ci faccia il nome di un altro suo raccomandato illustre.
«Be’, ad esempio il mio amico Giuseppe Fiori che poi ha scritto libri bellissimi anche su Enrico Berlinguer. Fui io a farlo assumere alla Rai di Cagliari e poi a farlo trasferire a Roma».
Lei parla apertamente di raccomandazioni. Perché ancora oggi c’è questo velo di ipocrisia sulle vicende Rai e nessuno dei suoi colleghi riesce ad ammettere ciò che è sotto gli occhi di tutti?
«Perché per fare politica, saper dire bugie non è necessario ma è utile. Anzi essere ipocriti è utile. Basta pensare a Rosy Bindi che va alla dimostrazione a favore del Papa. Ma come! Una cattolica adulta e una cattolica democratica che si è schierata contro le Dichiarazioni teologiche della Congregazione della Dottrina della Fede emanate da Ratzinger, e contro le direttive della Conferenza episcopale italiana partecipando al coro dei detrattori del cardinal Ruini va a dimostrare la sua solidarietà a un Papa di cui non condivide l’insegnamento?».
L’Unità 20-5-2007 Tutti parenti, alla Rai? Ma anche Mediaset tiene famiglia. Di Marco Travaglio
Tutti parenti, alla Rai? Ma anche Mediaset tiene famiglia Una valanga di parenti al Biscione. E in viale Mazzini l'ex Premier ha imposto molti dei suoi: dirigenti, conduttori, giornalisti di Marco Travaglio
NEL REPARTO FRATELLI & SORELLE, Angela Buttiglione, Nicola Cariglia, Sandro Marini, Antonio Sottile (nel senso di Salvo, quello del caso Gregoraci), Maria Zanda.
NEL REPARTO MOGLI & MARITI: Roberta Carlotto (consorte di Alfredo Reichlin), Simona Ercolani (di Fabrizio Rondolino), Ginevra Giannetti (di Altero Matteoli), Giuseppe Grandinetti (marito della senatrice verde Loredana De Petris), Anna Scalfati (moglie di Giuseppe Sangiorgi, membro demitiano dell'Agcom).
NEL RESTO DEL PARENTADO: Ferdinando Andreatta (nipote di Nino), Adriana Giannuzzi (cognata dell'ex senatore Ernesto Stajano), Alfonso Marrazzo (cugino di Piero), Marco Ravaglioli (genero di Andreotti), Tommaso Ricci (cognato di Buttiglione), Luigi Rocchi (genero di Biagio Agnes).
Poi ci sono i fuoriclasse della Grande Famiglia Rai: il turbo-berlusconiano Agostino Saccà, direttore della Fiction, s'è portato la nuora spagnola, Sandra Steinert Jorge Santos, e il figlio Enrico Silvestrin, attore nelle fiction; il capo del Personale Gianfranco Comanducci, intimo di Previti, ha la moglie Anna Maria Callini dirigente alla segreteria di Raidue e la cognata Ida Callini responsabile Risorse umane Corporate.
Quanto ai raccomandati, il Cavaliere portò in viale Mazzini la sua bionda segretaria Deborah Bergamini, ora direttore Marketing; l'ex dirigente Fininvest e poi di Forza Italia Alessio Gorla, capo dei palinsesti da poco in pensione (la cui moglie si occupava dei casting); l'ex addetto stampa forzista Riccardo Berti, promosso conduttore di "Batti e ribatti" al posto di Biagi; e poi Marcello Ciarnò, che prima si occupava degli spostamenti di Berlusconi e ora vicedirige il Centro di produzione Rai. Senza dimenticare Mario Bianchi, passato direttamente da Publitalia ad amministratore della Sipra, cioè della diretta concorrente. E l'ex deputato forzista Fabrizio Del Noce, direttore di Rai1, che poi ha fatto assumere come funzionario Gianluca Ciardelli, figlio della segretaria di Licio Gelli. E l'ex vicedirettore del Tg5 Clemente J. Mimun, passato a dirigere il Tg1: ora, compiuta la missione, torna al Tg5 da direttore.
Naturalmente l'essere parenti non esclude l'esser bravi. Anzi, ce ne sono parecchi, di bravi.
Ma l'aspetto curioso dell'intemerata berlusconica è che a casa sua, MEDIASET, se possibile, è anche peggio.
Nel '95,quando il Cavaliere fece una sparata simile su "Parentopoli", il settimanale "Cuore" si divertì a elencare i parenti nelle sue aziende: il fratello-prestanome Paolo al Giornale (con figlia Alessia al seguito) e all'Edilnord; i figli Marina e Piersilvio detto Dudi a Mondadori e a Mediaset; Guido Dall'Oglio, fratello della prima moglie, "coordinatore dei jingle" della Fininvest; lo zio Luigi Foscale e signora al teatro Manzoni; il cugino Giancarlo Foscale alla Standa e sua moglie Candia Camaggi alla finanza estera in Svizzera; Yives Confalonieri, figlio di Fedele, dirigente a Publitalia insieme al cugino Guido; Lella, nipote di Confalonieri, giornalista al Tg5, col marito Carlo M. Lomartire a Studio Aperto; poi la famiglia Dell'Utri, con Marcello e il gemello Alberto a Publitalia (e dunque a Forza Italia), e un nipote al Giornale. Poi i figli degli amici: quello di Malgara, re dei pubblicitari e dell'Auditel, a Publitalia; quello del giudice corrotto Diego Curtò, inviato del Tg4; quella di Roberto Gervaso, che reclutò il Cavaliere nella P2, al Tg5; e la sorella dell'avvocato Dotti al Tg4. Ora, 12 anni dopo, la lista va aggiornata.
Alla Camera siede Mariella Bocciardo, prima moglie di Paolo Berlusconi. Al Giornale ha una rubrica fissa l'ex fidanzata dello stesso Paolo, Katia Noventa, mentre Silvia Toffanin, compagna di Dudi, conduce "Verissimo" su Canale5 e ha una rubrica su Libero.
MA IL MEGLIO E' IL TG5: più che un telegiornale, un Family Day, pieno com'è - direbbe il padrone - "di fratelli, sorelle, cugini, parenti e affini dei protagonisti della vecchia e nuova politica". Lucrezia Agnes, figlia del dc Biagio. Chiara Geronzi, figlia del banchiere Cesare e cofondatrice della Gea con i figli di Moggi, Tanzi, Cragnotti, Lippi, Calleri e De Mita. Giancarlo Mazzucchelli, figlio della moglie di Petruccioli. Fabio Tricoli, nipote dell'avvocato di Dell'Utri. Valentina Loiero, figlia del governatore Agazio. La vaticanista Marina Ricci, sorella di Rocco e Angela Buttiglione. Giulio De Gennaro, figlio del capo della Polizia Gianni. Sebastiano Sterpa, figlio del forzista Egidio. Elena Caputo, figlia del giornalista e poi sottosegretario forzista Livio. Silvia Reviglio, figlia dell'ex ministro socialista Franco. Giuliano Torlontano, figlio del ds Glauco. Ultimo arrivo: Barbara Palombelli in Rutelli. A Studio Aperto lavora Alessandro Del Turco, figlio del più noto Ottaviano, e da pochi giorni Alfredo Vaccarella, figlio del giudice costituzionale uscente Romano. Il figlio dell'ex presidente della Consulta Vincenzo Caianiello invece si chiama Guido e lavora per Rete4. Poi ci sono Martelli e Pivetti. Non sono parenti dell'ex ministro pregiudicato e dell'ex presidente della Camera. Sono proprio loro.
(Giampaolo Letta, figlio di Gianni, è vicepresidente di Medusa Cinema. Yves Confalonieri, figlio di Fedele, è direttore generale di Mediadigit. Lella Confalonieri, nipote di Fedele. Pietro Suber, genero di Corrado Augias. Lucrezia Agnes, figlia di Biagio. Donata Scalfari, figlia di Eugenio. Veronica Gervaso, figlia di Roberto. Chiara Geronzi, figlia del banchiere Cesare. Barbara Parodi, moglie di Paolo Mieli. Giangiacomo Mazzucchelli, figlio di Giovanna Nuvoletti, moglie di Claudio Petruccioli. Isabella Josca, figlia dell'ex corrispondente del Corriere della Sera Giuseppe. Eduardo Orlando, figlio del giornalista Federico. Marina Ricci, sorella di Rocco e Angela Buttiglione.
La Rai non è soggetta a interferenze politiche. Va detto. E’ invece un ambiente familiare di figli, padri, cugine, cognati e nuore. Impermeabile ai partiti. Un blocco di relazioni indistruttibile che sopravvive a qualunque governo. Con matrimoni combinati sin dalla nascita tra i figli di capostrutture e di programmisti. Una difesa naturale dall’ingerenza della politica e anche della libera informazione. Una riaffermazione dei valori della famiglia e dell’impiego statale. L’elenco che pubblico è in rete da tempo. E’ probabile che sia incompleto o in parte superato. E che tra relazioni affettuose e accoppiamenti dei circa 11 mila dipendenti del gruppo, all’interno e all’esterno della struttura, il numero dei figli di, nipoti di, cognati di, sia proliferato. Un po’ come avviene nelle conigliere.
Figli (f):
Tinni Andreatta, responsabile fiction di Raiuno, (f) dell'ex ministro dc Beniamino. Natalia Augias, Gr, (f) del giornalista e scrittore Corrado. Gianfranco Agus, inviato, (f) dell'attore Gianni. Roberto Averardi, Gr, (f) di Giuseppe, ex deputato Psdi. Francesca Barzini, Tg3, (f) dello scrittore e giornalista Luigi junior. Bianca Berlinguer, conduttrice del Tg3, (f) di Enrico, segretario del Pci. Barbara Boncompagni, autrice, (f) di Gianni. Claudio Cappon, direttore generale, (f) di Giorgio, ex direttore generale dell'Imi. Antonio De Martino, Gr, (f) dell'ex ministro socialista Francesco. Antonio Di Bella, direttore Tg3, (f) di Franco, ex direttore del "Corriere della Sera". Claudio Donat-Cattin, capostruttura Raiuno, (f) dell'ex ministro democristiano Carlo. Jessica Japino, programmista regista delle edizioni di "Carramba", (f) di Sergio. Giancarlo Leone, amministratore delegato di Rai Cinema e responsabile della Divisione Uno, (f) dell'ex presidente della Repubblica Giovanni. Marina Letta, contrattista a tempo determinato, (f) di Gianni, sottosegretario alla Presidenza a Palazzo Chigi. Pietro Mancini, Gr, (f) del socialista Giacomo. Maurizio Martinelli,Tg2, (f) del giornalista Roberto. Stefania Pennacchini, Relazioni istituzionali Rai, (f) di Erminio, ex sottosegretario Dc. Claudia Piga, Tg1, (f) dell'ex ministro dc, Franco. Francesco Pionati, notista politico del Tg1, (f) dell'ex sindaco di Avellino. Alessandra Rauti, redattore del Gr, (f) di Pino, segretario del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore. Silvia Ronchey, autrice e conduttrice di programmi, (f) di Alberto, ex ministro dell'Ulivo ed ex presidente di Rcs. Paolo Ruffini, direttore Gr, nipote del cardinale e (f) di Attilio, ex deputato e ministro dc. Sara Scalia, capostruttura di Raidue, (f) della giornalista Miriam Mafai. Maurizio Scelba, Tg1, (f) di Tanino, ex portavoce del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Mariano Squillante, ex corrispondente da Londra, poi a RaiNews 24, (f) dell'ex giudice Renato. Giovanna Tatò, Raitre, (f) di Tonino, consigliere di Enrico Berlinguer. Carlotta Tedeschi, Gr, (f) di Mario, senatore Msi. Daniel Toaff, capostruttura e autore della ‘Vita in diretta’, (f) dell 'ex rabbino di Roma, Elio. Stefano Vicario, regista di Giorgio Panariello, (f) del regista cinematografico Marco. Rossella Alimenti, Tg1, (f) di Dante, ex vaticanista Rai. Paola Bernabei, Ufficio stampa, (f) dell'ex direttore generale della Rai, Ettore, proprietario della società di produzione Lux. Giovanna Botteri, Tg3, (f) di Guido, ex direttore sede Trieste Rai. Manuela De Luca, conduttrice Tg1, (f) di Willy, ex direttore generale Rai. Giampiero Di Schiena, Tg1, (f) di Luca, ex direttore dc del Tg3. Annalisa Guglielmi, sede Rai di Milano, (f) di Angelo Guglielmi, ex direttore di Raitre. Piero Marrazzo, conduttore di ‘Mi manda Raitre’, (f) dello scomparso giornalista Giò. Simonetta Martellini, Raiuno, (f) di Nando, radiocronista sportivo. Luca Milano, dell' ufficio contratti, (f) di Emanuele, ex direttore Tg1 ed ex vice direttore generale. Barbara Modesti, Tg1, (f) dell'annunciatrice Gabriella Farinon e del regista Rai Dore. Monica Petacco,Tg2, (f) di Arrigo, storico e consulente di programmi Rai. Andrea Rispoli, Raidue, (f) del conduttore Luciano, ex Rai. Fiammetta Rossi, Tg3, (f) di Nerino, ex direttore del Gr2, e moglie del ex segretario dell'Usigrai, Giorgio Balzoni, caporedattore al politico del Tg1. Cecilia Valmarana, (f) di Paolo, uno dei padri del cinema coprodotto dalla Rai, nella struttura di RaiCinema. Paolo Zefferi, (f) di Ezio, giornalista, è a Rainews 24.
Fratelli (fr) e sorelle (s):
Angela Buttiglione, direttore dei Servizi Parlamentari, (s) di Rocco, segretario del Cdu. Nicola Cariglia, sede Rai di Firenze, (fr) di Antonio, ex segretario del Psdi. Silvio Giulietti, telecineoperatore nella sede Rai di Venezia, (fr) di Giuseppe, uomo Rai e Usigrai, ex responsabile dell'informazione dei Ds. Max Gusberti, vice di Stefano Munafò a Raifiction, (fr) di Simona, capostruttura di Raidue.
Sandro Marini, Tg3, (fr) di Franco, ex segretario del Ppi. Giampiero Raveggi, capostruttura di Raiuno, (fr) dell'ideatore del programma "Odeon" Emilio Ravel (nome d'arte). Antonio Sottile, programmista regista di "Linea Verde'', (fr) di Salvo, portavoce di Gianfranco Fini. Maria Zanda, capo della segreteria di Roberto Zaccaria, (s) di Luigi, ex responsabile dell'Agenzia del Giubileo.
Mogli e mariti (m):
Milva Andriolli, sede Rai di Venezia, è l'ex (m) di Silvio Giulietti, fratello di Giuseppe. Anna Maria Callini, dirigente alla segreteria di Raidue, (m) di Gianfranco Comanducci, vice direttore della Divisione Uno. Roberta Carlotto, direttore Radiotre, (m) dell'ex esponente Pci Alfredo Reichlin. Sandra Cimarelli, Palinsesto Raidue, (m) di Franco Modugno, direttore dei Servizi immobiliari Rai. Antonella Del Prino, collaboratrice a "La vita in diretta", (m) del giornalista Oscar Orefice. Simona Ercolani, autrice di programmi Rai, (m) del giornalista Fabrizio Rondolino, ex portavoce di Massimo D'Alema. Paola Ferrari, conduttrice, (m) di Marco De Benedetti. Anna Fraschetti, vice del capo ufficio stampa Bepi Nava, (m) di Mario Colangeli, vice direttore Tg3 e sorella di Luciano, quirinalista Tg3. Giovanna Genovese, compagna di Sergio Silva, padre della ‘Piovra’ è delegata alla produzione. Ginevra Giannetti, consulente Rai International, (m) di Altero Matteoli, ministro dell'Ambiente, An. Giuseppe Grandinetti, Gr, (m) della senatrice verde Loredana De Petris. Francesca Manuti, produttrice di "Sereno variabile" di Raidue, (m) di Paolo Carmignani, vicedirettore Raidue. Lucia Restivo, capo struttura Raidue, (m) di Sergio Valzania, direttore Radiodue. Anna Scalfati, Tg1, conduttrice di programmi, (m) di Giuseppe Sangiorgi, membro dell'Authority ed ex portavoce di De Mita. Cristina Tarantelli, Servizi Parlamentari, (m) di Carlo Brienza, RaiSport. Daniela Vergara, anchorwoman del Tg2, (m) del conduttore Luca Giurato.
Nipoti (n), cognati (c) e vari:
Ferdinando Andreatta, dirigente di Rai- Way, (n) di Nino. Guido Barendson, conduttore Tg2, (n) di Maurizio. Aldo Mancino, dirigente RaiWay (n) dell'ex presidente del Senato, Nicola. Giuseppe Saccà, (n) di Agostino, direttore di Raiuno, nell'orchestra del programma di Raiuno ‘Torno sabato-La lotteria'. Adriana Giannuzzi, ufficio Diritti d'autore, (c) dell'ex senatore ed ex membro del Csm Ernesto Stajano e moglie del vicedirettore della Divisione Due Luigi Ferrari. Alfonso Marrazzo, Tg2, cugino di Piero. Marco Ravaglioli, Tg1, marito di Serena Andreotti, figlia di Giulio. Tommaso Ricci, Tg2, (c) di Angela e Rocco Buttiglione. Carlotta Riccio, regista, (c) di Claudio Cappon direttore generale Rai. Luigi Rocchi, dirigente area Business&development, genero di Biagio Agnes. Laura Terzani,Tg3, nuora di Antonio Ghirelli.
- Richiesta di integrazione: Milva Andriolli è entrata in RAI per concorso (bandito dall'azienda nel '88) e ha incontrato il futuro e poi ex marito Silvio (e futuro e poi ex cognato Beppe) solo nel '92 con l'assunzione presso la sede di Venezia il 2 marzo 1992 (il matrimonio il 26 agosto 1992).
- L'avv. Luca Silvagni, legale del dott. Stefano Ziantoni, comunica quanto segue: "Contrariamente a quanto sino ad oggi pubblicato nella lista denominata "Conigliera RAI" preciso che Stefano Ziantoni non è figlio di Violenzio, ex presidente della provincia di Roma". Ne prendo atto, invitando gli utenti del blog a fare altrettanto.
90 MILIONI DI EURO DALLA POLITICA PER LA TV PRIVATA.
LO STUDIO SUI BILANCI DELLE TV LOCALI
Di seguito vengono sintetizzati brevemente i dati che emergono dallo studio, disponibile, oltre che sul sito FRT, presso gli Uffici della Federazione.
Soggetti operanti. Le emittenti operanti risultano essere 584 di cui 115 comunitarie e 469 commerciali gestite da 427 società di capitali. I bilanci analizzati coprono il 95% delle emittenti televisive locali commerciali effettivamente operanti e, in più della metà delle regioni la ricerca comprende il 100% dei soggetti.
Patrimonio netto: delle 398 società soltanto 157 hanno un patrimonio netto superiore a 500.000 euro e solo 121 riescono a coprire con il patrimonio netto il 50% delle attività e degli investimenti. Ben 58 emittenti sono sotto il limite dei 154.937 euro (corrispondenti ai 300 milioni di lire previsto dalla legge): un dato che dovrebbe interessare il Ministero e l'Autorità.
Ricavi: sono costituiti per il 78% da pubblicità. Il fatturato relativo risulta pari a 453 milioni di euro (1.138.000 in media per società) e corrisponde alla quasi totalità del mercato locale, pari all’11% del totale della pubblicità del settore televisivo. Solo 124 delle società esaminate superano il milione di euro mentre 274 società (il 68,84% delle società esaminate) hanno entrate inferiore a tale somma.
Lavoro dipendente: la spesa del personale dipendente è stata, durante il 2005, di 137,8 milioni di euro, pari al 23,62% del totale dei ricavi. Lo studio relativo al lavoro dipendente, corredato da un raffronto con le emittenti nazionali da cui risulta che i 4.595 occupati nelle tv locali rappresentano il 40,62% del totale degli addetti operanti nel settore televisivo privato italiano, è stato oggetto di un’analisi particolareggiata che presenta, regione per regione, i dati sull'incidenza percentuale del costo del lavoro sui ricavi, il numero totale e la media dei dipendenti. Dall'analisi dei dati emerge che il 71% del totale degli occupati è alle dipendenze delle prime 124 società che fatturano più di un milione di euro e che il numero dei dipendenti in Lombardia é doppio rispetto a quello delle altre regioni.
Costi di produzione: i costi per le attività prettamente televisive (escluse le spese per personale e ammortamenti) sono pari a 381 milioni di euro e rappresentano il 65% dei ricavi totali delle società oggetto della ricerca.
Risultato d'esercizio: 230 società hanno registrato utili di esercizio per un totale di 59 milioni di euro, mentre 168 società hanno registrato perdite pari a 24 milioni.
Raffronto anni 2000/2005: vengono riportati e confrontati i dati relativi al fatturato pubblicitario e ai risultati di esercizio dal 2000 al 2005, da cui emerge che nel corso degli anni il settore ha mostrato segni di miglioramento nei risultati di esercizio, soprattutto in quelle emittenti che godono di un fatturato superiore alla media. Nel biennio 2004/2005, come già era avvenuto nel 2003, si riscontra una progressiva crescita del fatturato pubblicitario e un incremento della voce “ricavi provenienti da altre attività” dovuto all’erogazione dei contributi alle emittenti da parte dello Stato. Inoltre il numero di società che registrano utili di esercizio è maggiore rispetto a quelle in perdita.
Le concessioni: la ricerca illustra il percorso storico delle diverse concessioni e/o autorizzazioni a trasmettere alle tv locali sin dalla prima scadenza fissata nel 1990 dalla Legge Mammì . Una tabella presenta, divise per regioni e per tipologie, commerciali e comunitarie, un raffronto a distanza di dieci anni tra il primo elenco del Ministero nel 1995 e l’ultimo del 2005 con il prolungamento delle concessioni in tecnica analogica.
I contributi pubblici: le misure di sostegno corrisposte dalle Stato sin dal 1999 alle tv locali sono corredate da un grafico che evidenzia come nel corso degli anni e con le diverse leggi finanziarie i contributi siano passati da circa 12 a 90 milioni di euro, assumendo un rilievo significativo nei bilanci delle imprese e contribuendo a un sensibile aumento dell’occupazione.
EMITTENTI LOCALI: DENUNCIATE IRREGOLARITA’
Alcune piccole emittenti locali radiotelevisive, attraverso l'"Associazione Contro Tutte Le Mafie", denunciano una realtà impunita e sottaciuta.
L'attività imprenditoriale e l'informazione delle emittenti radiotelevisive sono condizionate da molteplici fattori: il dipendere dai sovvenzionamenti pubblici nazionali (decisi dalla politica centrale) e dalle commesse pubblicitarie dei candidati locali per le loro campagne elettorali, porta a trattare con i guanti bianchi alcune tematiche che toccano la politica di governo centrale e locale e, per forza di cose, a tacere le manchevolezze degli organi istituzionali periferici (Magistratura, Prefettura, ecc.), o gli abusi del sistema socio economico legato alla politica di riferimento.
Insomma: in tempo di crisi, l'aspetto economico è la censura che blocca la libera informazione.
Ma questo non è il solo cruccio che avvilisce le imprese radiotelevisive.
Alcune di loro sono vittime di tentativi di acquisizione illegale delle frequenze assegnatele, con mancanza di tutela reale.
Quale è il trucco ?!
Ogni emittente ha una frequenza su cui è autorizzata a trasmettere con un'antenna di una certa potenza, per non disturbare le trasmissioni delle emittenti viciniori. Alcune di loro, tra cui alcuni grandi network nazionali, pensano bene di centuplicare illegalmente la loro potenza, irradiando il loro segnale di molto oltre a quello per cui sono autorizzati. In questo modo disturbano o oscurano le trasmissioni altrui, impedendo a questi l'acquisizione del mercato pubblicitario, fonte di sostentamento, che leso, porta al fallimento dell'impresa.
Il Ministero, informato dalla parte interessata, comunica la data dell'ispezione alla controparte, che ha il tempo di ripristinare la legalità, per poi ripetere l'abuso ad ispezione finita. Tempi e costi dell'operazione tecnica sono ammortizzabili da chi si avvantaggia illegalmente dell'acquisizione pubblicitaria indebita. Mal che vada, comunque, la parte colta in fragrante, deve sorbire solo una piccola multa.
Ma non è il solo problema che attanaglia le radio e le tv locali oneste.
Il 12 settembre 2008, un'ora e mezzo di trasmissione in diretta sulla tv tarantina Studio 100, per l'occasione collegata con le emittenti Canale 7, Telebari e Teleonda Gallipoli.
Argomento: la ripartizione - da parte del Corecom - dei contributi pubblici all'emittenza privata, previsti dalla legge 448 del 98.
Nel corso della diretta - condotta dal direttore Walter Baldacconi con tre ospiti, due avvocati e l'editore di Canale 7, Gianni Tanzariello - una circostanziata denuncia.
13 emittenti pugliesi, su 42 ammesse ai contributi, avrebbero prodotto - in autocertificazione - documentazione non rispondente al vero in merito alla regolarità dei contributi versati all'Enpals per i lavoratori dipendenti.
Ancora da accertare le posizioni con Inps e Inpgi. L'anno di riferimento è il 2006.
Il puntuale versamento dei contributi previdenziali, costituisce condizione vincolante all'erogazione delle provvidenze pubbliche in questione.
La denuncia è oggetto di interrogazione parlamentare del senatore di AN, Adriana Poli Bortone, che - collegata in diretta nel corso della trasmissione - ha ribadito la sua ferma intenzione di voler andare fino in fondo, nell'interesse di tutti. Nel corso del dibattito televisivo è emerso un altro dato: se quelle tv non sono in regola, non potranno sanare a posteriori la loro inadempienza.
E’ al momento della richiesta del contributo che bisogna avere i titoli, come prevede la legge. Se è vero che il Corecom è tenuto ad accettare per buona l'autocertificazione sostitutiva, è altrettanto vero che quando questa dovesse risultare non veritiera - come pare nel caso di specie – sarà il ministero, erogante il contributo, a sospendere la procedura, e pare che questo stia già accadendo, con una prima richiesta di chiarimenti agli interessati.
E non è tutto. Il ministero dello Sviluppo economico zittisce la voce di Radio Padania Libera nel Salento. In una nota del 24 gennaio 2011 fatta pervenire in copia al Comune di Alessano, i competenti organi ministeriali scrivono che l’impianto dell’emittente leghista «non si intende autorizzato».
Radio Padania dal 17 dicembre 2010 ha trasmesso nel Capo di Leuca da una postazione situata proprio ad Alessano e dotata di un sistema radiante collegato a un impianto da due kilowatt di potenza. Il segnale viaggia sui 105.600 MHZ in modulazione di frequenza e disturba quello dell’emittente salentina Radio Nice del gruppo leccese Mixer Media dell’editore Paolo Pagliaro, che trasmette su identico canale da Parabita. La radio lumbard ha i contenuti dei palinsesti carichi di risentimenti contro i meridionali espressi a chiara voce dai radioascoltatori padani, cui si lascia microfono libero. Ma la nota del ministero dello Sviluppo economico che sospende le trasmissioni di Radio Padania non risolve l’anomalia di mercato delle frequenze.
Infatti il vero problema consiste nel fatto che Radio Padania gode del triplice privilegio di acquisire le frequenze in deroga, di avere un contributo annuale da parte del governo, di diventare proprietaria della frequenza trascorsi novanta giorni. La vera anomalia è proprio questa: in un momento in cui il mercato delle frequenze è bloccato, Radio Padania può, trascorsi novanta giorni, permutare le proprie frequenze ottenute in deroga con altre frequenze di radio commerciali. Occorre modificare questo privilegio concesso dalla finanziaria Bossi-Berlusconi del 2001. L’emittente della Lega Nord, in quanto comunitaria dovrebbe rendere un servizio, ma l’unica cosa che fa è quella di riempire di insulti i meridionali, senza che mai nessuno abbia denunciato il suo direttore per diffamazione a mezzo stampa.
FREQUENZE TELEVISIVE NAZIONALI NEGATE
IL CASO EUROPA 7
Il circuito nacque per volontà dell'imprenditore Francesco Di Stefano, con cui sostituì Italia 7 tra il 1997 e il 1998. Il palinsesto consisteva di programmi della precedente emittente e altri film trasmessi a ciclo continuo. Nel 1999 Di Stefano decise di avventurarsi nel progetto di creare una televisione nazionale e dovette abbandonare l’emittente di cui era proprietario, la romana Tvr Voxson.
Nel luglio 1999, Di Stefano, con 12 miliardi di lire derivanti dalla precedente attività di syndication, decise di partecipare alla gara pubblica per l' assegnazione delle frequenze televisive nazionali, prevista dalla Legge 31 luglio 1997, n. 249, al fine di ottenere due concessioni per Europa 7 e per 7 Plus.
Il Piano nazionale di assegnazione delle frequenze per la radiodiffusione televisiva aveva individuato 51 bande usabili (45 della gamma UHF e 6 della gamma VHF). Ad ogni emittente dovevano essere assegnate 3 bande su cui trasmettere, a seconda della zona geografica, per un totale teorico di 17 emittenti, di cui 6 a livello locale, 3 per i canali nazionali RAI e 8 per le emittenti nazionali private. Ulteriori parti libere dello spettro usabili per la trasmissione avrebbero dovuto essere dedicate sempre alle emittenti locali. La gara prevedeva, per semplificare e velocizzare le assegnazioni, che se un vincitore di concessione stesse già trasmettendo su scala nazionale, in modo compatibile con quanto deciso dalle suddivisioni delle bande, avrebbe potuto continuare ad impiegare le stesse frequenze, senza attendere il piano di adeguamento delle frequenze. In virtù del ristretto numero di frequenze assegnabili, gli articoli 1 e 2 della concessione prevedevano per i concessionari un termine massimo di 24 mesi dalla notifica della concessione per dimostrare, una volta avute le frequenze (che quindi era previsto venissero assegnate prima di questo termine), di essere in grado di usare le frequenze assegnate coprendo l'80% del territorio nazionale, compresi tutti i capoluoghi di provincia (per le assegnazioni effettuate con la precedente legge Mammì era stato ritenuto sufficiente il coprire il 60% del territorio), a cui si aggiungevano eventualmente altri 12 mesi di proroga in caso di problemi, a giudizio del Ministero.
Con Decreto Ministeriale del 28 luglio 1999 si dichiarano le vincitrici delle concessioni e Francesco Di Stefano risultò vincitore di una concessione per Europa 7 (settima in classifica); in concomitanza Rete 4, che già trasmetteva a livello nazionale, perse la concessione. La commissione ministeriale della gara negò la richiesta per 7 plus, ma Francesco Di Stefano fece ricorso al Consiglio di Stato, che ordinò al ministero di dare la seconda concessione.
Nel luglio 1999, Europa 7 ottiene dallo Stato Italiano la concessione per una rete nazionale, ma il Governo D’Alema non le assegna le frequenze per iniziare a trasmettere a causa della mancata applicazione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze. Anche Rete 4 non ottiene la concessione. Dall’aprile 2000 al giugno 2001 il Governo Amato si disinteressa completamente della vicenda di Europa 7, permettendo in questo modo a Rete 4 di continuare a trasmettere senza concessione.
Il 22 settembre 1999 fu registrata la concessione di Europa 7 alla Corte dei Conti e il 28 ottobre 1999 gli fu rilasciato il titolo concessorio. La licenza prevedeva l'inizio delle trasmissioni entro il 31 dicembre 1999: il piano di Europa7 prevedeva 700 assunzioni, un centro di produzione a Roma di 20000 m2, composto da 8 studios e una library di programmi.
Europa 7, al contrario del servizio pubblico e di altri concessionari privati, ancora non trasmetteva su scala nazionale, doveva pertanto attendere il piano di assegnazione delle frequenze per poter iniziare le trasmissioni. Alcuni ricorsi effettuati da Rete Mia, Rete Capri e Rete A (oltre a 7 Plus) ritardarono la realizzazione del nuovo piano.
Il ministero delle comunicazioni con autorizzazione ministeriale del 1999 e contravvenendo al risultato della gara pubblica, permise la prosecuzione delle trasmissioni analogiche da parte di Rete 4 e Tele + Nero. In una nota del 22 dicembre 1999, il ministero si impegnava comunque con Centro Europa 7 perché in breve tempo si arrivasse "di concerto con l'Autorità, alla definizione del programma di adeguamento al piano d'assegnazione delle frequenze".
A seguito del ricorso al Tar da parte di Europa 7 in relazione a questa nota, con sentenza n. 9325/04 si affermò che il Ministero avrebbe dovuto assegnare subito le frequenze una volta deciso, in base all'esito della gara, di assegnare la concessione.
Nel novembre 2002 alla Corte Costituzionale fu chiesto di valutare la costituzionalità dell'art. 3, comma 6 e 7, della legge 31 luglio 1997, n. 249, che permettevano a chi ha un numero di reti superiore al 20% massimo previsto di prorogare le trasmissioni in analogico, a patto che a queste si inizino ad affiancare le trasmissioni via satellite o cavo, fino ad un termine che doveva essere deciso dall’ Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. La Corte con la sentenza 466/2002, confermò, come già nel 1994, che nessun privato può possedere più del 20% delle frequenze televisive e le reti eccedenti (Rete 4 e TELE+ Nero), dovevano cessare la trasmissione in via analogica terrestre. La Corte tuttavia ritenne non incostituzionale il comma 6 (che ammetteva le proroghe), ma incostituzionale il comma 7 (per cui il periodo della durata massima della proroga non era fissato dalla legge, ma la sua decisione era demandata all'Autorità per le Comunicazioni, che tuttavia non si era ancora espressa in merito nonostante fossero già trascorsi diversi anni sia dall'emanazione della legge sia dalla gara). La stessa Corte fissò un limite improrogabile entro il 31 dicembre 2003 per il passaggio esclusivo al satellite e/o al cavo, basandosi su una valutazione dell'AGCOM che riteneva quella data sufficiente per trasferire tutte le trasmissioni di Rete 4 e TELE+ Nero su mezzi digitali, senza ovviamente entrare nello specifico del caso della ricorrente Europa 7 (che aveva chiesto di considerare incostituzionali entrambi i commi, in quanto "l'attuale normativa di settore", ovvero le proroghe per le reti eccedenti regolate dai due commi, "le impedirebbe di utilizzare concretamente le frequenze che le sono state assegnate nella fase di pianificazione"), che per le precedenti decisioni (il DM del luglio 1999) rimaneva comunque l'assegnataria delle frequenze che così si fossero liberate.
Nell'estate del 2003, il ministro delle comunicazioni Maurizio Gasparri presenta un disegno di legge per il riordino del sistema radiotelevisivo italiano e l'introduzione della trasmissione digitale terrestre. La legge viene approvata dal Parlamento, ma l'allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, la rinvia alle camere. Nel messaggio di rinvio Ciampi fa esplicito riferimento sia alle problematiche relative alla pluralità dell'informazione, sia al concetto di un termine certo per il regime transitorio introdotto proprio dalla sentenza n. 466 del 20 novembre 2002. Così, per poter garantire a Rete 4 di continuare a trasmettere via etere e a Rai Tre (la terza rete pubblica) di poter continuare ad ospitare pubblicità, il 24 dicembre 2003 il governo Berlusconi vara un decreto Legge (decreto legge n. 352/2003, divenuto giornalisticamente noto come "decreto salvareti"), trasformato in legge nel febbraio 2004. Il decreto prevede che le "reti eccedenti" possano proseguire le trasmissioni sulle frequenze da loro impiegate, sia nell'analogico che nel digitale, fino al termine di una verifica sullo sviluppo delle reti del digitale terrestre.
La legge Gasparri viene successivamente approvata definitivamente nell'aprile 2004 (legge n. 112/2004), bloccando la riassegnazione delle frequenze delle concessioni analogiche, in attesa del passaggio completo al digitale terrestre con una diversa assegnazione delle frequenze.
Centro Europa 7 fece nuovamente ricorso al TAR del Lazio, chiedendo di ottenere l’assegnazione delle frequenze e richiedendo un risarcimento per il danno subìto dall'impossibilità di trasmettere. Il ricorso fu respinto il 16 settembre 2004 in quanto pur avendo vinto la gara, Europa 7 non aveva un diritto soggettivo all’assegnazione delle frequenze per trasmettere, assegnazione che spettava in ultima istanza alle autorità in base alle varie normative, che tuttavia nel frattempo erano cambiate per prolungare la possibilità alle reti esistenti ed eccedenti di continuare a trasmettere. Dallo stesso TAR nello stesso giorno fu invece accettato il ricorso contro la nota del ministero del 22 dicembre 1999, sostenendo appunto che il Ministero doveva assegnare le frequenze una volta avuto l'esito della gara.
Nel luglio 2005 il Consiglio di Stato, dopo il ricorso di Centro Europa 7 contro la sentenza del TAR, chiese alla Corte di Giustizia Europea di rispondere a 10 quesiti, dove fu messo in discussione il quadro legislativo e un risarcimento danni in favore di Europa 7. La Corte di Giustizia Europea ha condannato infatti l'Italia a una multa di 350 mila euro per ogni giorno di ritardo nell'applicazione della direttiva europea a partire dal 1 gennaio 2009 (circa 130 milioni di euro all'anno) se Rete 4 non abbandonerà le frequenze analogiche in favore di Europa 7 vincitrice della gara di assegnazione. La sanzione verrà calcolata con effetto retroattivo fino al 1 gennaio 2006.
Il 31 gennaio 2008 la Corte ha emesso la sentenza su tale ricorso:
« L’art. 49 CE e, a decorrere dal momento della loro applicabilità, l’art. 9, n. 1, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, 2002/21/CE, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (direttiva «quadro»), gli artt. 5, nn. 1 e 2, secondo comma, e 7, n. 3, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, 2002/20/CE, relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica (direttiva «autorizzazioni»), nonché l’art. 4 della direttiva della Commissione 16 settembre 2002, 2002/77/CE, relativa alla concorrenza nei mercati delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica, devono essere interpretati nel senso che essi ostano, in materia di trasmissione televisiva, ad una normativa nazionale la cui applicazione conduca a che un operatore titolare di una concessione si trovi nell’impossibilità di trasmettere in mancanza di frequenze di trasmissione assegnate sulla base di criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati. » (Causa C-380/05, sentenza della Corte Europea).
L'11 dicembre 2008, il Ministero dello Sviluppo Economico ha assegnato le frequenze VHF III a Europa 7, ma Di Stefano in un'intervista ha manifestato nuovamente il suo dissenso, aspettando la pronuncia del Consiglio di Stato sul risarcimento danni. La richiesta di risarcimento prevede un importo pari a 3,5 miliardi senza assegnazione di frequenze, e 2,16 miliardi con le frequenze.
Soldi a carico dell’erario, ossia a scapito dei cittadini gli italiani.
QUANDO STRISCIA LA NOTIZIA TOPPA.
Fabio e Mingo: «Cacciati via mail. Increduli per trattamento del genere». Gli ex inviati di Striscia: «Per Reti Televisive italiane il contratto è risolto dal 7 maggio 2015. Per una presunta indagine della Procura di Bari di cui non siamo al corrente», scrive Vito Fatiguso su “Il Corriere della Sera”. «Una mail per mandarci a casa dopo 19 anni. Con una comunicazione inviata per posta elettronica, Reti Televisive italiane pretende di aver risolto il nostro contratto a far data dal 7 maggio 2015 accusandoci di aver realizzato un servizio “precostituito e artefatto”. In tale comunicazione si fa riferimento anche a una presunta indagine della Procura di Bari su tale vicenda, nella quale evidentemente non ci viene mosso alcun addebito non avendo ricevuto alcuna comunicazione in proposito». È quanto scrivono in comunicato Fabio e Mingo, i due ex inviati di Striscia la Notizia sospesi in diretta tv due settimane fa. La coppia del tg satirico, dal momento del licenziamento, aveva preferito non rilasciare dichiarazioni sul caso «non prima di aver chiarito i motivi del provvedimento». «Nell’esprimere incredulità e stupore - conclude il comunicato - per il trattamento che ci è stato riservato senza consentirci alcun diritto di replica e senza rispondere alle nostre reiterate richieste di incontro, ribadiamo la correttezza dell’attività svolta in questi anni esclusivamente come attori». Tutto nasce con la puntata del 23 aprile quando il Gabibbo dagli studi di Striscia la Notizia comunica: «Cari telespettatori, abbiamo ricevuto una segnalazione che può mettere in discussione il rapporto di fiducia con la redazione pugliese di Fabio e Mingo. Da subito, sono sospesi da inviati. Quando tutto sarà chiaro, vi faremo sapere. Oh, qui siamo a Striscia, mica a MasterChef». Dopo qualche giorno (e molte versioni anche fantasiose) ecco la motivazione ufficiale di Striscia che riguarda sue servizi: uno su una maga sudamericana e l’altro su un falso avvocato. «Abbiamo acclarato che il caso di qualche tempo fa della maga sudamericana non esiste - le parole del Gabibbo - e anche quella del falso avvocato era una messa in scena. E a noi già questo basta: è una cosa grave, seguiranno azioni legali per accertare le responsabilità. Non tutti hanno la nostra sensibilità». Nel mezzo il reclutamento per un nuovo inviato dalla Puglia con tanto di provini.
Striscia, a Bari inchiesta per truffa sul caso Fabio e Mingo. E Antonio Ricci sceglie Almo. Dopo la messa in onda di un servizio su un finto avvocato, la Procura si era mossa per individuare e punire il lestofante. La polizia giudiziaria è però arrivata alla conclusione che il video era un tarocco, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. A due settimane dallo scandalo è possibile tirare le somme su cosa è successo realmente nel divorzio, tanto rumoroso, fra Striscia la notizia e Fabio e Mingo. E a leggerla ora racconta il più incredibile dei cortocircuiti: un finto telegiornale, fatto con finti giornalisti, il cui servizio dà il via a una vera inchiesta della Procura che mossa per cercare il truffatore si accorge, in realtà, che era tutto finto. Tutto comincia i primi giorni di aprile, quando negli studi Mediaset arriva una richiesta di acquisizione di informazioni. A firmarla è il sostituto procuratore Isabella Ginefra, che suo malgrado si è imbattuta in una strana storia. Dopo la messa in onda di un servizio su un finto avvocato, pare addirittura su input dell’Ordine, la Procura di Bari si era mossa per individuare e punire il lestofante. Dopo alcune indagini delegate alla polizia giudiziaria era però arrivata alla conclusione che quell’avvocato, con la faccia nascosta, in realtà era un attore. Il servizio, in sostanza, era finto. O per lo meno erano finti gli interpreti. Da qui la richiesta di chiarimenti a Striscia, dove però, a quanto pare, nulla sapevano della finzione del servizio. Immediatamente da Mediaset hanno inviato i loro avvocato a Bari per approfondire la vicenda: fanno una richiesta di accesso agli atti, che viene però loro negata stante ancora il segreto istruttorio. E a quel punto avviano un’indagine interna. Accertano, dicono, che effettivamente quello era un attore e scoprono anche altri casi simili (per esempio la cartomante). Per Ricci è troppo. Seduta stante licenzia i due in video, affidando il messaggio al Gabibbo: nessuno della redazione era stato informato (nemmeno Ficarra e Picone, che in quei giorni conducevano). Ma soprattutto nulla sapevano Fabio e Mingo, che chiedono incontri su incontri ma vengono sempre respinti. L’indagine interna dura ancora una settimana: da Mediaset mettono in campo i migliori avvocati che, dopo aver raccolto informazioni, presentano a Bari nel fascicolo del pm Ginefra due denunce. Una a nome della ditta e una a nome di Ricci, nella quale chiedono di indagare per truffa: i due inviati hanno infatti un contratto fisso più bonus legati ai singoli servizi. Ma Fabio e Mingo non ci stanno: «Siamo stupiti e increduli - dicono - Ribadiamo la correttezza dell’attività svolta in questi anni come attori. Non possono inviarci una mail per mandarci a casa dopo 19 anni. E dell’inchiesta della Procura noi nulla sappiamo». Tant’è che Striscia ormai si è messa alla caccia dei loro sostituti: uno, come ha anticipato Repubblica, dovrebbe essere Almo Bibolotti, cuoco ex concorrente di Masterchef, che nel confermare la notizia ha spoegato che dovrebbe occuparsi di «truffe alimentari».
Striscia la Notizia, l'ex Masterchef Almo Bibolotti al posto di Fabio e Mingo, scrive “Libero Quotidiano”. Fuori Fabio e Mingo, il sostituto è già pronto. L'indiscrezione dell'ultimissima ora, infatti, indica che al posto del duo barese arriverà Almo Bibolotti, il cuoco finalista alla terz'ultima edizione di Masterchef. Un nome e un volto che gli appassionati del talent culinario ben ricorderanno, e che ora starebbe per essere "paracadutato" proprio a Striscia la Notizia. L'indiscrezione viene rilanciata dal Corriere della Sera. E sembra molto più che un'indiscrezione, poiché è lo stesso Almo a spiegare: "Non tradirò la mia passione, dovrò occuparmi di servizi sul cibo per smascherare truffe alimentari". Lo chef barese, però, poi aggiunge: "Sono molto amico di Fabio e Mingo e con loro ho parlato a lungo di questa proposta, ancora in fase di valutazione per me". Dunque non è tutto già deciso. Eppure Almo, oltre alla "ribalta" offerta dal programma di Antonio Ricci, ha un ulteriore ottimo motivo per dire sì a Striscia: vendicarsi di MasterChef. Già, perché oltre ai presunti brogli relativi al vincitore di quest'anno (smascherati putacaso sempre da Striscia la Notizia), i più attenti o appassionati ricorderanno che anche lo scorso anno la finalissima del talent di Sky finì nel mirino. Fu proprio Almo a lamentare irregolarità sulla gestione dei tempi e dei concorrenti nella finale in cui arrivò secondo. E dunque, oggi, Almo si può prendere una succulente rivincita, lavorando proprio per il format che tanti grattacapi ha causato a Masterchef. E - forse non a caso - afferma: "Apprezzo Striscia, davvero la voce della verità. Quella verità che spesso manca per fare dell'Italia una grande nazione". Una scelta, quella di Striscia, che sembra una vera e propria "dichiarazione di guerra" a Sky...
Striscia la notizia, Fabio e Mingo indagati a Bari con il finto avvocato: simulazione di reato. I due inviati baresi di Striscia la notizia sono da giorni al centro di uno scandalo, dopo essere stati licenziati e denunciati da Mediaset per truffa. Nei guai anche chi ha lavorato al servizio, continua “La Repubblica” Indagati gli ex inviati baresi di Striscia la notizia, Fabio e Mingo, con l'ipotesi di reato di simulazione di reato. Il fascicolo d'inchiesta è quello relativo al servizio sul presunto falso avvocato, interpretato invece da un attore, e che è costato ai due il licenziamento dal tg satirico di Mediaset. Nel fascicolo d'inchiesta coordinato dal sostituto procuratore Isabella Ginefra sono indagati per lo stesso reato anche il finto legale e le altre due persone che hanno partecipato alla realizzazione del servizio andato in onda nel 2013. Le indagini sono affidate al nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di Bari e al momento si concentrano su quell'unico episodio. Nell'ambito degli accertamenti sulla vicenda, all'inizio di aprile la Procura ha inviato agli studi Mediaset una richiesta di acquisizione di informazioni. L'azienda e l'autore del programma, Antonio Ricci, hanno quindi depositato due denunce per truffa presso gli uffici giudiziari di Bari e messo a disposizione della magistratura il video integrale, quello cioè nel quale il viso dell'attore non era oscurato, rendendolo di fatto riconoscibile e dunque identificabile da parte degli inquirenti. Fabio e Mingo, licenziati in diretta dalla voce del Gabibbo, secondo la produzione avrebbero realizzato anche un altro falso filmato, anch'esso andato in onda nel 2013, che riguarderebbe una presunta cartomante, smascherata dai due. "La nostra - aveva fatto sapere nei giorni scorsi Ricci con una nota - è una collaborazione attiva alle indagini". I due inviati si sono dichiarati "sconcertati. dagli atteggiamenti ostili che stiamo riscontrando attraverso la stampa. Per ben 19 anni - hanno reso noto - abbiamo collaborato fedelmente dando il massimo della nostra professionalità nel rispetto di ogni indicazione ricevuta, anche se non sempre condivisa. Quando le autorità competenti riterranno utile ascoltarci, risponderemo con lealtà e serenità. Siamo i primi a voler conoscere le fila di questa assurda vicenda nella quale ci si vuole coinvolgere".
Simulazione di reato, indagati Fabio e Mingo. Gli ex inviati del tg satirico Striscia la notizia nel mirino dell’inchiesta. Indagato anche l’attore che ha partecipato al servizio poi risultato fasullo, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere della Sera”. Gli ex inviati del tg satirico Striscia la notizia, Fabio e Mingo, sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla pm Isabella Ginefra per simulazione di reato. Nel fascicolo compaiono i nomi di altre persone, tra cui l’attore che ha partecipato alla presunta messa in scena e tutti coloro che hanno realizzato il servizio risalente al 2013. Non sono invece coinvolti nell’indagine gli autori del programma, gli accertamenti però non sono terminati. I due inviati baresi sono stati licenziati dal programma nei giorni scorsi. Le indagini sono state affidate al nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri della Procura di Bari. Nel fascicolo sono confluite anche due denunce di Antonio Ricci e Mediaset che, sentendosi parti lese, chiedono agli inquirenti di indagare per truffa. Fabio e Mingo si sono affidati all’avvocato penalista Francesco Maria Colonna, i due si sono messi a disposizione dell’autorità giudiziaria e potrebbero essere interrogati nei prossimi giorni. Tutto nasce con la puntata del 23 aprile quando il Gabibbo dagli studi di Striscia la Notizia comunica: «Cari telespettatori, abbiamo ricevuto una segnalazione che può mettere in discussione il rapporto di fiducia con la redazione pugliese di Fabio e Mingo. Da subito, sono sospesi da inviati. Quando tutto sarà chiaro, vi faremo sapere. Oh, qui siamo a Striscia, mica a MasterChef». Dopo qualche giorno (e molte versioni anche fantasiose) ecco la motivazione ufficiale di Striscia che riguarda sue servizi: uno su una maga sudamericana e l’altro su un falso avvocato. «Abbiamo acclarato che il caso di qualche tempo fa della maga sudamericana non esiste - le parole del Gabibbo - e anche quella del falso avvocato era una messa in scena. E a noi già questo basta: è una cosa grave, seguiranno azioni legali per accertare le responsabilità. Non tutti hanno la nostra sensibilità». Nel mezzo il reclutamento per un nuovo inviato dalla Puglia con tanto di provini.
Il pm "striscia" Fabio e Mingo. La coppia ora è sotto inchiesta. Avrebbero costruito ad arte il servizio su un falso avvocato. Saranno interrogati presto. Ricci tace ma trapela delusione, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Insomma Striscia la Notizia non guarda in faccia a nessuno. Specialmente ai propri inviati. Andrà come andrà, però da ieri Fabio e Mingo (ossia Fabio De Nunzio e Domenico De Pasquale) sono stati iscritti nel registro degli indagati per simulazione di reato. Avrebbero, e sia chiaro il condizionale è sempre obbligatorio fino a sentenza passata in giudicato, inventato di sana pianta uno di quei servizi che dal 1997 erano parte integrante del programma. Ora se ne sta occupando il pm Isabella Ginefra della Procura di Bari che a inizio aprile ha chiesto ulteriori informazioni a Mediaset e vedremo come evolverà il giudizio. Già nel 2013, dopo la messa in onda del servizio, l'autorità giudiziaria aveva chiesto le immagini senza oscuramento dei volti e senza modifiche audio. Ma la redazione pugliese, «nella persona di Corinne Martino» come recita un comunicato diffuso in serata, «aveva sostenuto di aver subito un furto e quindi di essere impossibilitata a fornirlo». Intanto però sia Striscia la Notizia che Mediaset alcuni giorni fa hanno denunciato per truffa la coppia di «inviati speciali», che nei prossimi giorni potrebbe essere ascoltata dagli inquirenti. Nel frattempo, come ha annunciato pubblicamente il Gabibbo (intervento molto significativo), i due sono stati sospesi dal programma: «Oh qui siamo a Striscia, mica a Masterchef », ha ironizzato il 23 aprile 2015 il pupazzone con l'accento genovese. Quella sera è iniziato (anche) pubblicamente il calvario della coppia di inviati che ha rastrellato per quasi vent'anni il sud Italia. Centinaia di servizi. E una fama invidiabile. Non per nulla sono stati gli «inviati speciali» più longevi del programma di Antonio Ricci. Per tutta l'Italia ( Striscia la Notizia è senza dubbio uno dei programmi più seguiti), loro due hanno rappresentato il volto umano delle inchieste in tv, implacabili ma anche ironiche, e si sono costruiti un'immagine che giocoforza questa inchiesta contribuirà a incrinare. Uno spilungone loquace e uno rotondetto e muto: «Awè amici di Striscia, da Mingo, e dal buon Fabio, a voi studio!». In sostanza, Fabio e Mingo si sarebbero inventati un servizio: secondo una denuncia anonima, un falso avvocato si faceva dare acconti dai clienti e poi spariva senza dare più notizie. La segnalazione sottolineava anche che il legale in realtà non era neppure laureato né tantomeno iscritto all'Ordine degli Avvocati. Un caso perfetto. E subito la macchina di Striscia è partita con la velocità che tutti le riconoscono. Un'attrice si presenta all'avvocato chiedendo assistenza per fare causa alla propria assicurazione. Lui assicura assistenza prevedendo un onorario complessivo di 500 euro e facendosene anticipare 200. Dopodiché sparisce. Fabio e Mingo lo rintracciano nel bar vicino all'ufficio e gli consegnano il loro famoso «provolone». Lui si arrabbia, scoppia il litigio ma nessuno dei clienti del bar interviene per difendere Mingo (particolare sospetto). Il sedicente avvocato scappa, sale sulla propria auto e, partendo, mostra il dito medio. Servizio impeccabile. Peccato che, secondo le accuse, fosse costruito ad arte, proprio una precedente denuncia riguardante una maga sudamericana. «Siamo delusi e arrabbiati - si sente ripetere negli ambienti Mediaset -: delusi perché va in fumo un rapporto di fiducia durato quasi vent'anni e arrabbiati perché questo è un episodio che rischia di screditare il programma». E difatti la linea è molto dura. Da quando è iniziata pubblicamente la querelle , tra Striscia e Fabio e Mingo non ci sono più stati contatti se non attraverso avvocati, procure e comunicati stampa. Per farla breve, Fabio e Mingo sono i Robespierre che ora rischiano di finire sulla simbolica ghigliottina. E, se perderanno la causa, aiuteranno la causa di Striscia perché è davvero raro che un programma prenda così duramente le distanze da un collaboratore sotto inchiesta.
Nella puntata, andata in onda stasera e ...dopo aver letto il mio articolo (bwuahahahah...) finalmente viene svelato il mistero della sospensione dei due inviati: due servizi falsi, quello del finto avvocato e della maga sudamericana...il seguito alla prossima puntata per chi avrà voglia e tempo di seguire il "velino" Ricci. Io no...no... io no! Scrive Anna Maria. Questa volta il provolone l'hanno preso proprio loro, da Ricci. Non si è ancora risolta la vicenda dei due inviati di striscia Fabio e Mingo, "licenziati senza spiegazione," attraverso una puntata di striscia e mi sorprende questa loro affermazione “Francamente non ne sappiamo nulla, sono caduto dalle nuvole. Sappiamo quello che sapete anche voi e non riusciamo a metterci in contatto con Antonio Ricci né con la produzione. Non sappiamo cosa pensare, se sia una trovata di Ricci. Non siamo preoccupati, se avessimo fatto qualcosa lo saremmo, invece siamo sereni”. Se sono coerenti e per solidarietà quelli delle Iene dovrebbero mandare qualcuno dei loro inviati da Ricci...Sempre se Ricci non si chiude dentro la pancia del gabibbo per non rispondere. Visto che striscia ha reso la cosa pubblica attraverso il gabibbo deve spiegare le motivazioni di questo licenziamento. E' questa la trasparenza di Ricci? Oppure era scarso di ascolti e ha voluto creare un caso? Non possono gli inviati andare a chiedere spiegazioni a politici, finti medici, truffatori e poi loro stessi non dare spiegazioni sul perchè di questo licenziamento in tronco. Ed ora sono alla ricerca di altri inviati. Per mesi l 'hanno menata sul caso cuochi a masterchef per poi comportarsi ben peggio per cose interne. Silenzio assoluto e Ricci si nega di dare spiegazioni ai due inviati. Mah. Questo video è del 2007 Stefano Salvi, allora inviato di striscia, spiega i motivi della rottura con Ricci e le interviste più eclatanti che precedettero i contrasti con Striscia. Che non sia successa la stessa cosa con Fabio e Mingo? Ossia aver scoperto qualcosa di scomodo per il "velino" Ricci ,che proprio qualche sera fa ci ha propinato la Belen dopo che aveva frignato pubblicamente che la tv (mediaset) l'avesse messa da parte per i vari flop recenti? Io consiglio di boicottare questo programma e tutte le aziende che lo sponsorizzano! Il "povero" Salvi fu cacciato quando scoprì alcune magagne che riguardavano gente di Forza Italia e non solo...Nel caso di Salvi : quando dici delle verità ti cacciano senza spiegazioni perchè diventi scomodo, tanto ci sono sempre i pecoroni che abboccano o non si pongono domande serie o peggio ancora fanno come gli struzzi. "Striscia la notizia " genera svariati milioni di euro di pubblicità e per questo Ricci a Mediaset è tollerato, ma evidentemente certi tasti non vanno toccati. Come mai Ricci non ha cacciato Ezio Greggio quando si sono scoperti i suoi giochini monegaschi ? Ehhhh ma c'è di peggio , direte voi, ecccerto....Come al solito, tutto fumo e niente arrosto, tanto si insabbia tutto nel giro di pochi giorni e...avanti un altro!
Fabio e Mingo, Codacons parte civile. Striscia controlla 10 servizi sospetti. Dopo la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati dei due ex inviati scendono in campo i consumatori: noi presi in giro da chi svela i falsi, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere della Sera”. Il Codacons, in rappresentanza dei telespettatori italiani, ha annunciato che si costituirà parte civile nel procedimento penale nei confronti del presunto falso servizio realizzato dagli ex inviati di Striscia la Notizia, Fabio e Mingo riguardante un avvocato fasullo. Secondo l’associazione di consumatori gli utenti sono stati presi in giro dai servizi dei due ex inviati di Striscia che avrebbero dovuto svelare i falsi ed erano falsi a loro volta. «Striscia la notizia - si legge in una nota del Codacons - è da sempre una trasmissione dedita alla difesa dei cittadini e alla denuncia di truffe. Per tale motivo, se dalle indagini della procura di Bari dovessero emergere illeciti, si determinerebbe, oltre al danno per il programma, una grave lesione della buona fede dei telespettatori». «Esprimiamo solidarietà e vicinanza ad Antonio Ricci e a tutto il team della trasmissione - dice Carlo Rienzi, presidente dell’associazione dei consumatori - e ci costituiamo parte offesa nel procedimento aperto dalla magistratura, affinché i diritti degli utenti siano garantiti anche sul fronte televisivo e dell’informazione». I due attori e comici baresi sono indagati assieme ad altre tre persone per simulazione di reato: l’attore che ha impersonato il falso avvocato e i due che hanno partecipato alla realizzazione del servizio. La Procura indaga solamente per il servizio sul falso avvocato, ma secondo quanto trapela dalla redazione di «Striscia la notizia» i servizi sospetti sarebbero una decina. Su questi sono in corso le verifiche interne.
QUANDO QUINTA COLONNA TOPPA.
Per la serie quando il bue chiama cornuto l'asino....
12 maggio 2015. Striscia la notizia smaschera il finto rom di Quinta Colonna, scrive la Redazione di Tvzap. Il tg satirico intervista un uomo apparso nei programmi di Rete Quattro che dichiara di essere stato pagato per impersonare un rom truffatore e un islamico estremista. Dopo aver denunciato i falsi servizi in casa imputati a Fabio e Mingo, Striscia la notizia scandaglia anche gli altri programmi tv. Moreno Morello nel servizio titolato “Rom polivalente” intervista a viso scoperto il presunto protagonista di una puntata di Quinta Colonna e di una di Dalla vostra parte programma preserale, entrambi condotti da Paolo Del Debbio. L’uomo nei programmi di Del Debbio era apparso il 27 aprile come un rom truffatore e il 3 aprile come un islamico estremista: due servizi del giornalista Fulvio Benelli che avevano suscitato molta indignazione. L’episodio segnalato da Striscia ricorda l’identica querelle montata attorno al falso servizio di Mattino Cinque, altro programma di Mediaset, sulle ragazzine rom che guadagnavano rubando, che poi Servizio Pubblico ha denunciato essere stato creato ad arte con le giovani pagate per fare certe dichiarazioni. Secondo quanto scoperto da Striscia l’uomo in questione sarebbe stato semplicemente pagato (300 euro per il servizio in cui dichiarava di truffare vendendo macchine rubate e appena 20 per quello in cui impersonava un islamico estremista) per fare quelle dichiarazioni, un attore quindi. E su Twitter non mancano i commenti indignati.
Striscia la notizia scova il “finto rom” della trasmissione Quinta Colonna, scrive Stefania Carboni su “Giornalettismo”. Il ragazzo, sotto indicazione dell'inviato, avrebbe finto di rubare la macchina in un servizio video. «Era dell'operatore tv - racconta - mi hanno pagato 300 euro». E non è la prima volta che succede. Striscia la Notizia mette sotto accusa un servizio di Quinta Colonna del 27 aprile dove intervistava un rom orgoglioso di truffare la gente. Peccato che la storia – secondo quanto riporta Mediaset – sia del tutto falsa. Striscia è andata a scovare infatti il rom in questione e ha scoperto diverse cose. Nel servizio il ragazzo, che spiega orgoglioso al giornalista di Quinta Colonna come sia in grado di truffare la gente, viene inquadrato in un furto d’auto scatenando la reazione indignata del pubblico del talk di Del Debbio. La jeep è entrata nelle sue mani? «No – spiega il giovane rom a Striscia – in realtà era del cameraman che è venuto a fare il servizio. Ha prestato l’auto». «Non sono un santo ma non voglio truffare auto. Mi hanno offerto soldi: 300 euro». Ma c’è dell’altro ancora. Lo stesso “rom” compare in un altro servizio di Fulvio Benelli, in un altro programma tv. Stavolta fuori da una moschea. Fa il musulmano e rilascia dichiarazioni shock in merito ai cristiani massacrati nei paesi esteri. «Sono d’accordo sulla strage», confessava. «Mi ha suggerito di dire queste cose. Non sono musulmano eh? Io sono un cristiano praticante. Stavolta il prezzo è stato di 20 euro miseri», spiega il ragazzo. Inutile dire che il servizio di Striscia (che attende ulteriori delucidazioni) fa discutere su Twitter.
Striscia la notizia accusa Quinta colonna per servizi falsi: 300 euro al "Rom polivalente", scrive Giulio Pasqui su “TV Blog”. Ricordate le accuse di Servizio Pubblico nei confronti di Mattino 5? Il programma de La 7, in quell'occasione, "smascherava" uno scoop - vero o presunto non è dato sapere - realizzato dalla trasmissione del mattino di Canale 5: la giornalista Francesca Bastone aveva intervistato due ragazze rom che si vantavano di guadagnare fino a 1000 euro al giorno grazie a furti, ma le due avevano poi smentito rivelando di aver ricevuto 20 euro per fare quell'intervista. Tutti hanno prontamente smentito. Ma, ora, VideoNews torna sotto attacco per una vicenda molto simile. Striscia la notizia, infatti, durante la puntata di martedì 12 maggio ha trasmesso un servizio realizzato da Moreno Morello. Argomento: alcune interviste realizzate dal giornalista Fulvio Benelli per le trasmissioni Quinta colonna e Dalla vostra parte, entrambe condotte da Paolo Del Debbio e trasmesse su Rete 4. I servizi "incriminati" sarebbero due. Il primo (Truffatore Rom: così rubo le macchine agli italiani), trasmesso il 27 aprile dalla trasmissione serale, aveva come protagonista un signore rom che raccontava di vendere macchine rubate e truffare gli italiani. Il secondo, trasmesso il 3 aprile dalla trasmissione dell'access prime time, aveva come protagonista un islamico molto - troppo - estremista e violento ("Sono d'accordo se fanno lo sterminio, non me ne frega un cazzo"). Moreno Morello ha intervistato sia il rom che il musulmano e ha portato a segno un'eclatante scoperta: sono - sarebbero - la stessa persona. Il "Rom polivalente", come le due ragazzine, dice di essere stato pagato per entrambi i servizi e ammette di aver ricevuto alcuni "suggerimenti" dal giornalista su cosa dire per rendere più accattivante il servizio. Sempre secondo quanto riferito a Morello, il rom avrebbe ricevuto 300 euro per il primo servizio (ha anche rivelato di aver messo in scena un finto furto di un auto... con la jeep dell'operatore) e "solo" 20, "miseri", euro per il secondo. Un nuovo colpo basso, dunque, inflitto nei confronti delle trasmissioni targate VideoNews dopo le "simili" accuse di Servizio pubblico e le pesanti parole del presidente dell'Ordine dei Giornalisti nei confronti di Pomeriggio 5.
QUANDO VIDEO NEWS TOPPA.
UN ALTRO FALSO SERVIZIO TRAVOLGE VIDEONEWS: SERVIZIO PUBBLICO SMASCHERA MATTINO 5, scrive MarKos. Ci risiamo! Videonews ci casca nuovamente. Non è bastato l’incontro “casuale” tra la giornalista Alessandra Borgia (qualcuno sa dove è finita?) e il cacciatore della vicenda del piccolo Loris durante la diretta di “Pomeriggio 5“. Adesso tocca anche a “Mattino 5“. Durante la puntata dell’8 aprile è stato mostrato un servizio in cui una ragazza della comunità Rom dichiarò di rubare anche 900€ al giorno, incurante dei danni arrecati alle altre persone, giovani od anziani che siano. Il servizio è stato realizzato dalla giornalista Videonews Francesca Bastone ed ha suscitato molte polemiche, soprattutto perché ciò ha spinto Matteo Salvini a scrivere sulla propria pagina Facebook: “Bisognerebbe radere al suolo i campi rom”. “Servizio Pubblico” nella puntata in onda domani su La7 mostrerà l’intervista di Giulia Cerino proprio a quella ragazza Rom, che ha dichiarato: Siamo uscite dalla scuola a San Paolo, ci ha visto la giornalista e ci ha dato 20 euro per dire queste cose: che noi rubiamo 1000 euro al giorno, che la vecchietta deve morire. Perché l’ho fatto? Ero fumata e lei mi ha dato 20 euro. La ragazza insinua che una giornalista l’abbia pagata per dire determinate affermazioni davanti un microfono ed una telecamera, non avendo dato peso alla situazione poiché aveva fumato della marijuana. E’ bene dire che non è certo che si tratti proprio della giornalista autrice del servizio. Se tutto dovesse corrispondere al vero, avremmo a che fare con l’ennesimo scandalo per la testata giornalistica Mediaset, che, in virtù di tali fatti, risulta essere sempre meno attendibile.
Servizio Pubblico contro Pomeriggio 5: "Ha pagato la ragazzina rom per dire che ruba 1.000 euro al giorno". Replica: "Menzogne infamanti", scrive “Libero Quotidiano”. "La giornalista di Mattino 5 ci ha dato 20 euro per dire che guadagniamo 1.000 euro al giorno rubando". Michele Santoro scatena i rom per affondare Mediaset. Un siluro al fango, almeno a giudicare dalla reazione di Federico Novella, il conduttore del programma del mattino di Canale 5: "Sono menzogne gravissime e infamanti". Tutto nasce da un servizio di Mattino 5 dello scorso 8 aprile. Una ragazzina rom del campo di Castel Romano, con il viso oscurato, racconta davanti alle telecamere: "Rubando guadagno 1.000 euro al giorno. Se lavoro li faccio in un mese. Chissenefrega se rubiamo a una vecchietta, tanto lei puoi muore. Io mi prendo i soldi e sto a posto". In studio insieme a Novella e Federica Panicucci c'è il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, che attacca: "Bisognerebbe radere al suolo i campi rom", una frase che ha scatenato le reazioni indignate di gran parte del panorama politico e mediatico italiano. Secondo Servizio Pubblico, però, quell'intervista è stata concordata e "manipolata". Il talk di La7 ha incontrato di nuovo quella ragazzina, che ora spiega: "Siamo uscite dalla scuola a San Paolo, ci ha visto la giornalista e ci ha dato 20 euro per dire queste cose: che noi rubiamo 1.000 euro al giorno, che la vecchietta deve morire. Perché l’ho fatto? Ero fumata e lei mi ha dato 20 euro". L'intervista andrà in onda questa sera, ma la polemica è già innescata. Tanto che a Cologno Monzese potrebbero già passare alle vie legali contro Santoro, accusato di aver organizzato "una trappola". Francesca Bastone, la giornalista di Mattino 5, ammette di essere rimasta perplessa di fronte alle cifre "sparate" dalla ragazzina rom", ma assicura: "Le due ragazze le ho incontrate casualmente e hanno rilasciato le dichiarazioni spontaneamente. Non c'è stata ricompensa in denaro, lo può testimoniare l'operatore che è stato tutto il tempo con me".
Mattino 5 risponde a Servizio Pubblico sull’intervista alla ragazza rom: «Menzogne infamanti», scrive Valentina Spotti su Giornalettismo. Arriva la replica di Mediaset dopo la contro-intervista pubblicata dal programma di Santoro: «A quella ragazza nessuna ricompensa in denaro, siamo orgogliosi di questa intervista». Mediaset risponde all’accusa lanciata da Servizio Pubblico sull’ormai famosa intervista alle due ragazzine rom che avevano dichiarato di «rubare mille euro al giorno». Le telecamere del programma di Santoro sono tornate a intervistare le due ragazze, le quali avrebbero “confessato” di aver ricevuto venti euro dalla giornalista di Mattino Cinque per rilasciare quelle dichiarazioni. Il video, pubblicato nel tardo pomeriggio di ieri sul sito di Servizio Pubblico, ha scatenato subito un’accesa polemica. E, questa mattina, è arrivata la replica di Federico Novella, conduttore di Mattino Cinque. Il giornalista dell’ammiraglia Mediaset ha risposto accusando Servizio Pubblico di aver detto delle «menzogne gravissime e infamanti», facendo intendere che le reti del Biscione passeranno a vie legali: Siamo orgogliosi di questa intervista perché ha scoperchiato una verità che qualcuno vuole tenere nascosta. Non dobbiamo vergognarci per aver fatto il nostro lavoro. Novella ha poi mandato in onda l’intervista di Francesca Bastone, questa volta in versione integrale, nella quale si può notare la perplessità della giornalista davanti alle dichiarazioni della ragazzina. La Bastone ha raccontato la sua versione dei fatti, dicendo anche di «farsi scivolare addosso» le «accuse infamanti» lanciate da Servizio Pubblico: Le due ragazze le ho incontrate casualmente e hanno rilasciato le dichiarazioni spontaneamente. Non c’è stata ricompensa in denaro, lo può testimoniare l’operatore che è stato tutto il tempo con me. Novella è poi tornato sull’argomento, affermando che un tale comportamento da parte della concorrenza è una «trappola» per «strumentalizzare queste ragazze». Una trappola in cui «cadono colleghi di lungo corso che non dovrebbero caderci». Anche Francesca Bastone conclude sullo stesso tono: È scandaloso usare le parole di due ragazze per tentare di screditare il lavoro di chi ogni giorno mette a rischio la propria incolumità per mostrare realmente cosa avviene.
Se Santoro usa i nomadi per attaccare Mediaset. Rom a La7: "Pagata per confessare i furti". Canale 5: "Dimostreremo che mente", scrive “Il Giornale”. «Siamo uscite dalla scuola a San Paolo, ci ha visto la giornalista e ci ha dato 20 euro per dire 'ste cose, che rubiamo 1.000 euro al giorno, che deve morire la vecchietta e io l'ho detto». A parlare, intervistata da Servizio Pubblico , è la ragazza del campo rom di Castel Romano che l'8 aprile è stata protagonista di un servizio di Mattino 5 , il contenitore mattutino di Canale 5 condotto da Federica Panicucci e Federico Novella. Un servizio che scatenò molte reazioni politiche, compresa quella di Matteo Salvini: «Bisognerebbe radere al suolo i campi rom». Apriti cielo, anche la Boldrini era intervenuta inorridita quasi facendo finta di non aver ascoltato la premessa del leader della Lega: «Prima darei un preavviso di sei mesi e poi farei sgomberare quelle aree». In quell'occasione la ragazza disse che «se lavoro li faccio in un mese, chissenefrega se rubiamo a una vecchietta, tanto lei poi muore. Io mi prendo i soldi e sto a posto». La troupe di Servizio Pubblico è andata a cercarla e l'ha filmata per un'intervista che va in onda oggi. Un brevissimo estratto è stato postato ieri sul sito ufficiale del programma. La ragazza ha il volto «pixelato» e quindi irriconoscibile. Parla ovviamente un italiano approssimativo e, quando la giornalista le chiede per quale motivo abbia accettato il denaro, risponde senza esitazioni: «Ero fumata». Ma non hai pensato alle conseguenze di che cosa dicevi? «Non ho saputo perché sono stata fumata, ho fumato erba, cosa dici di una scusa...». L'impressione è di una persona che, quasi per legittimare di fronte al proprio gruppo sociale la scomoda rivelazione, si sia inventata un pretesto qualsiasi. Mediaset non commenta ma da fonti autorevoli si è venuto a sapere che si tratta di «una menzogna» e che «lo dimostreremo e agiremo presso tutte le sedi competenti per tutelare i nostri diritti». Intanto stamane, proprio nel corso di Mattino 5 il caso sarà riaffrontato con la trasmissione di una parte dell'intervista alla ragazza rom. Tutta l'intervista in formato integrale sarà comunque disponibile sul sito del programma. Al di là di alcune incongruenze evidenti (la ragazza aveva davvero fumato droga a scuola?) vi sembra davvero possibile che si paghi per sapere qualcosa che da anni qualsiasi agente di polizia potrebbe confermare?
QUANDO LE IENE TOPPANO.
Le Iene accusate di fare servizi falsi. Il produttore Caroletti, marito di Eva Henger, parla su Facebook di servizi "studiati a tavolino e costruiti", scrive la Redazione di Today. “Le Iene” fanno servizi truccati, afferma Massimiliano Caroletti, marito di Eva Henger. L’accusa arriva dopo la messa in onda di un servizio del programma di Italia 1 che lo riguarda. La iena Filippo Roma è andato a intervistarlo per avere la sua versione dopo che alcuni collaboratori si sono lamentati di non aver ancora ricevuto i soldi per il film “Roma Nuda” al quale hanno partecipato. Tra le persone coinvolte ci sono anche Anna Falchi e la cantante Annalisa Minetti. La registrazione del servizio risale al maggio scorso ma è stato trasmesso soltanto ora per non interferire nella trattativa tra il distributore e Caroletti che avrebbe potuto risolvere la questione dei pagamenti entro settembre. Trattativa che evidentemente non è andata a buon fino e quindi “Le Iene” hanno deciso di mandare in onda il servizio. Caroletti ha affidato la propria replica a Facebook per difendersi dalle accuse. “Non sto più a spiegare che essendo il produttore esecutivo non ero io a dover pagare - spiega Caroletti - Nel servizio ci sono persone con cui non ho mai avuto a che fare. Una settimana fa in tribunale con l’intervento dell’Anica abbiamo siglato un accordo con tutta la troupe attori e fornitori per saldare i debiti (non provocati da me). Ora con questo servizio ridicolo e oltraggioso si fa ancora una volta il male non solo del film ma di tutte le persone che mi hanno sostenuto fino a ora”. E poi arriva la confessione/accusa. “ALLORA A QUESTO PUNTO PARLO IO E CI RIMETTO LA FACCIA FINO ALLA MORTE ….
1) insieme alle iene in passato abbiamo confezionato diversi servizi falsi studiati a tavolino e costruiti.
2) le iene nel mio caso a tutte le persone che mi difendevano non hanno voluto registrare l'intervista ma io l'ho fatto e le mostro a tutti.
3) Le iene nascondono nei loro servizi pubblicità occulta per pubblicizzare loro prodotti , aziende e altri cazzi loro ma anche questo lo mostrerò.
4) nel caso specifico della signora Falchi ora posso dire che dopo l'intervista fatta dalla stessa alle iene io ricevetti una richiesta di denaro dal suo legale per ritirare il servizio. La sig.ra Falchi e il suo legale sono stati denunciati per tentativo di estorsione e il procedimento è ancora aperto”.
Poco dopo l’ultimo messaggio di Caroletti: “Domani monterò il filmato integrale .. chiaramente avevamo messo anche noi le telecamere ma Filippo Roma (colui che intervista finti testimoni incappucciati sappiate che sono sempre autori della trasmissione) ha debitamente tagliato.. e soprattutto tutti ii protagonisti del film presenti all’intervista sono stati tagliati”.
LE IENE SOTTO ACCUSA PER UN SERVIZIO FALSO. I PROTAGONISTI: “SIAMO STATI PAGATI”. LUIGI PELAZZA RIBATTE: “ERANO DELINQUENTI VERI”, scrive Valentina Segatori su “Davide Maggio”. Chi di inchiesta ferisce, di inchiesta perisce. Dopo anni di scoop, servizi al limite del consentito, candid camera e interviste irriverenti, stavolta a trovarsi in una posizione scomoda sono proprio gli artefici di alcuni dei reportage più scottanti della Penisola: quelli de le Iene di Italia1. Non è certo la prima volta che i “men in black” di casa Mediaset finiscono nei guai, ma in questo caso l’accusa è pesante tanto quanto lo scoop “incriminato”: falso reportage realizzato con l’ausilio di attori. L’accusa è rivolta, nello specifico, a Luigi Pelazza per la bollente video-inchiesta sulla criminalità in Perù, trasmessa nella puntata del 29 settembre. Per chi l’avesse perso, il reportage raccontava la storia dei “Los Maltidos del la Mar Brava”, un sedicente gruppo di criminali peruviani coinvolto in narcotraffico, omicidi e sequestri di persona. Nel servizio, i malviventi spiegavano il come e il quando dei loro crimini, che avvengono sotto gli occhi della Polizia peruviana, rea di rimanere impotente osservatrice per la paura di subire ritorsioni. Con le armi in bella mostra, viso semiscoperto e un sequestrato sullo sfondo, i criminali avevano, alla fine, minacciato di morte l’inviato di Italia 1, nel caso avesse mostrato il video anche nel loro Paese. In realtà, nonostante la promessa della Iena, il servizio si è presto diffuso in Perù per opera di Sétimo Dìa, un programma di approfondimento giornalistico del canale nazionale Frecuencia Latina, che ha denunciato la storia svelandone ogni retroscena. Immediata la reazione dell’autorità peruviana che ha prontamente aperto un’inchiesta sul capo della banda, Roger Zevallos Fernàndez. Se tempestiva, però, è stata l’azione della Polizia peruviana, inaspettata invece si è rivelata la confessione del boss, conosciuto anche come “El cholo chupa”: “Non c’entro con nessun sequestro, è stato il giornalista italiano a pagarmi 500 nuevos soles peruviani (circa 130 euro) perchè inventassimo questa storia. Le armi che si vedono sono giocattolo, è stata tutta una messinscena”. “Eravamo fermi all’angolo – ha aggiunto un secondo componente della banda – ad un certo punto arriva una macchina e dal finestrino si sporgono delle persone straniere che ci propongono di fare un reportage su questa storia. L’ho fatto per necessità. Sono pentito.” Dopo aver ascoltato gli uomini della banda, per il capo della Polizia locale la conclusione è una sola: il servizio realizzato dal giornalista italiano è un falso perchè il gruppo intervistato sarebbe composto unicamente da disperati, che in cambio di soldi racconterebbero qualsiasi cosa. L’inchiesta si conclude con le pubbliche scuse all’intero Perù da parte dei malviventi (attori?) e la denuncia alle Iene per falso reportage. Una accusa che pesa non poco, però, alla iena Luigi Pelazza, famoso proprio per le sue inchieste, che indignato ribatte con una controdenuncia: “Se fosse stato tutto falso, con persone pagate da me perchè avrei mai scelto di mandarle in viso senza copertura? […] Ovunque in America Latina la Polizia viene pagata e ora fanno i paladini della giustizia, quelli che hanno scoperto la nostra truffa? Durante il servizio la banda che abbiamo intervistato ha dichiarato che nel suo quartiere la Polizia non entrava. Questo può aver dato parecchio fastidio”. […] Secondo i peruviani io sarei andato fino a casa loro, pagando degli “attori” per scoprire una cosa che tutti sanno, che lì ci sono bande di criminali e quartieri in cui non puoi mettere piede. Non vai fino in Perù per raccontare falsità. Domani manderemo in onda un servizio in cui mostreremo la verità, ovvero che i presunti “attori” sono dei criminali con precedenti penali”. Fondato o meno, il sospetto è stato gettato e stavolta per le Iene, c’è poco da ridere.
LE STELLE DELLA MUSICA SPENTE TROPPO PRESTO.
Le stelle della musica scomparse troppo presto, dagli anni '50 a oggi. Il dramma di Dolores O'Riordan dei Cranberries aggiorna il triste elenco delle icone morte prematuramente, ecco chi sono, scrive il 16 gennaio 2018 Matteo Politanò su Panorama. La scomparsa di Dolores O'Riordan ha lasciato senza parole tutto il mondo della musica. La cantante dei Cranberries, morta a 46 anni in circostanze ancora da chiarire, non è che l'ultima perdita nella lista delle stelle che il destino ha strappato prematuramente alla musica mondiale. Dagli anni '50 ad oggi sono tantissimi gli artisti scomparsi da giovani, alcuni per malattie improvvise altri per eccessi con droghe e alcol. Sono i lutti più dolorosi della musica mondiale, a partire dal "Club dei 27": la maledizione che ha accomunato la morte di diversi musicisti nel ventisettesimo anno d'età.
3 febbraio 1959 - In un incidente aereo muore a 22 anni Buddy Holly, pioniere americano del rock and roll che ha ispirato anche Bob Dylan e i Rolling Stones.
3 febbraio 1959 - Sullo stesso volo dove è morto Buddy Holly perde la vita anche Ritchie Valens, 17enne talento del Rockabilly autore della canzone La Bamba.
3 luglio 1969 - Annega nella piscina della sua villa a 27 anni Bryan Jones, polistrumentista e fondatore dei Rolling Stones.
18 settembre 1970 - Muore la stella della chitarra elettrica Jimi Hendrix. Il musicista viene trovato senza vita a Londra a 27 anni, l'autopsia parla di soffocamento causato da vomito sopraggiunto in seguito a un cocktail di alcol e tranquillanti.
4 ottobre 1970 - A Los Angeles muore a 27 anni Janis Joplin, voce principale e autrice delle canzoni per la Big Brother and the Holding Company. La causa del decesso è un overdose di eroina, probabilmente in un mix letale con altre droghe.
3 luglio 1971 - Sgomento per la scomparsa a Parigi di Jim Morrison, poeta, cantante e leader dei The Doors. La morte sopraggiunge a soli 27 anni per arresto cardiaco: non viene mai effettuata un'autopsia sul suo corpo.
16 agosto 1977 - Muore a 42 anni il "Re" Elvis Presley, stroncato da un arresto cardiaco dopo un overdose di barbiturici.
2 febbraio 1979 - A New York muore Sid Vicious, 21enne bassista dei Sex Pistols, a causa di un overdose di eroina.
25 settembre 1980 - A 32 anni muore John Bonham, ritenuto uno dei più grandi batteristi di sempre. Il membro dei Led Zeppelin viene trovato senza vita, soffocato dal suo vomito.
8 dicembre 1980 - Viene assassinato a New York il 40enne John Lennon, membro dei Beatles. Ad ucciderlo è il giovane Mark Chapman che lo colpisce con cinque colpi di pistola.
11 maggio 1981 - A 36 anni si spegne la vita di Bob Marley, icona del reggae mondiale. Fu ucciso da un melanoma all'alluce destro che progredì fino al cervello.
24 novembre 1991 - A 45 anni muore nella sua casa di Earls Court a Londra Freddy Mercury, frontman dei Queen. Le cause del decesso sono una broncopolmonite aggravata con complicazioni dovuta al virus dell’Aids.
5 aprile 1994 - Il frontman dei Nirvana Kurt Cobain si toglie la vita a 27 anni sparandosi un colpo di fucile in testa. Gli esami tossicologici rilevarono nel suo sangue un'altissima dose di eroina e Valium.
29 maggio 1997 - A 30 anni muore Jeff Buckley, figlio del cantautore Tim Buckley e stella del folk rock. Annega nel Wolf River, un affluente del Mississippi, dopo essersi gettato per fare un bagno.
25 giugno 2009 - La star mondiale Michael Jackson muore a 50 anni in seguito ad un attacco cardiaco provocato da un'intossicazione da Propofol, un anestetico.
23 luglio 2011 - Viene trovata senza vita nella sua casa di Londra Amy Winehouse, cantautrice britannica di 27 anni vincitrice di cinque Grammy Awards. Le cause ufficiali della morte non verranno comunicate ma la cantante lottava da tempo contro una drammatica dipendenza dall'alcol.
11 febbraio 2012 - In un albergo di Beverly Hills muore la cantante americana Whitney Houston, 48 anni. Il medico legale parla di un collasso cardiaco causato dal prolungato abuso di droga, farmaci, alcol, cocaina e marijuana.
21 aprile 2016 - La stella del pop mondiale Prince viene trovata morta a 57 anni in un ascensore all'interno del complesso di Paisley Park, sua residenza situata a Chanhassen. L'autopsia parla di overdose da Fentanyl, un potente antidolorifico.
25 dicembre 2016 - Muore per arresto cardiaco a 54 anni il cantautore e produttore britannico George Michael, stella della musica globale con 100 milioni di dischi venduti in tutto il mondo.
20 luglio 2017 - La voce dei Linkin Park Chester Bennington viene trovato senza vita a 41 anni nella sua residenza a Palos Verdes Estates in California. Il medico legale certifica il suicidio tramite impiccagione.
15 gennaio 2018 - Se ne va all'improvviso a 46 anni Dolores O'Riordan, cantante dei Cranberries, durante una sessione di registrazione a Londra. Le cause della morte non vengono divulgate.